My immortal - Nel cuore di un figlio

di _eco
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il prezzo della fame; Gale Hawthorne ***
Capitolo 2: *** Cupola di foglie;Katniss Everdeen ***



Capitolo 1
*** Il prezzo della fame; Gale Hawthorne ***


My immortal - Nel cuore di un figlio
Il prezzo della fame.
[Gale Hawthorne centric]
Al mio papà <3.
Una medaglia: tutto quel che mi resta di mio padre, insieme al coltellino che mi aveva regalato qualche mese fa. Usalo solo in caso di estrema necessità, mi aveva raccomandato, fissandomi dritto negli occhi, le mani salde sulle mie spalle.
Questa è un’estrema necessità, ma riconosco che un coltellino, per quanto affilata possa essere la sua lama, non mi aiuterebbe a sfamare la mia famiglia. Non quanto potrebbe farlo il disco di metallo che il vecchio Carrol si rigira tra le mani.
La medaglia al valore che hanno ritenuto sufficiente per ricompensarci della morte di mio padre. Divorato da un’esplosione, ridotto in un mucchietto di carne bruciata e ossa sbriciolate, da qualche parte, laggiù. I minatori conoscono i pericoli cui vanno incontro sin dal momento in cui entrano nell’ascensore cigolante che li porta sottoterra. Ma la gente ha troppa fame per permettersi il lusso di scegliere come guadagnarsi da vivere.
Morto. Andato. Per sempre. E adesso non sembra poi questo grande vantaggio essere il figlio maggiore.
So che sarebbe d’accordo con quello che sto facendo. So che, ovunque si trovi in questo momento, mi sta incitando a concludere un misero accordo con il vecchio Carrol. Eppure, avverto come un mattone che mi preme contro il petto: un perfetto miscuglio di rabbia, impotenza e rassegnazione.
Quasi lo sento prendermi le spalle, proprio come aveva fatto quando mi consegnò il coltellino.
- Non conta niente, figliolo. – mi sussurra.
Ha ragione. Quel disco sottile di metallo, che hanno spacciato per oro puro, è solo un simbolo. E anche il più effimero, se credono che possa rappresentare il sacrificio di mio padre. E’ solo un pezzo di ferro e chissà cos’altro, e magari, se me la gioco bene, posso guadagnarci monete a sufficienza per una settimana.
Mia madre ha le nocche consumate sino all’osso, la pelle così ruvida e scorticata da squarciarsi in mille, minuscole piaghe al contatto con il freddo. Vick e Rory hanno le labbra secche, violacee, avide di poter anche solo sfiorare qualcosa di morbido. Posy è ancora un fagottino rosa, in tutti i sensi, perché l’unica coperta che mia madre è riuscita a recuperarle è di un colore sbiadito che si avvicina alla tonalità della sua pelle delicata. L’unica sua fonte di nutrimento è il latte di mia madre, ma, finché lei va avanti a forza di foglie di menta e pane stantio, di qui a poco Posy si beccherà qualche malattia. E non abbiamo assolutamente la possibilità di comprare uno sciroppo o qualcosa del genere.
Per questa serie di ragioni, mi mordo la lingua ogni volta che vorrei vomitare insulti in faccia al vecchio Carrol.
- Ragazzo, - grugnisce – qui dentro c’è tanto oro quanto ne hai nelle tasche. –
E poi ride, e quasi si affoga con la sua stessa saliva, al che penso che sarebbe troppo stupido per cogliere una delle risposte taglienti che vorrei scagliargli contro.
Perché tu ne hai tanto di oro, immagino.
Di nuovo, tra il fruscio del vento fuori e il ticchettio delle unghie irregolari di Carrol contro la medaglia, sento mio padre sussurrami qualcosa. E do voce alle sue parole.
- Non importa. – dico. – Dimmi quanto vale. – ordino, con il tono più deciso che riesco a costruire.
Carrol corruga la fronte, in modo che le folte sopracciglia rossicce si uniscano in un unico strato di peluria. Sembra ragionarci su, ma dubito che in quella testa di legno possano scorrere pensieri tanto articolati da farlo stare in silenzio per un così lungo tempo. Tutta scena, comunque, perché la sua risposta è secca e diretta.
- Ti do cinque monete. – biascica.
Poi si profonde in una delle sue risate gutturali, che ogni volta lo fanno quasi affogare.
E che questa sia la volta buona! Strozzati, stupido vecchio.
Ma il tintinnio delle monete sul mio palmo mi trattiene dall’imprecargli contro.
Mentre Carrol fonde la medaglia, sento un calore pervadermi le membra. Mio padre s’insinua in me. Nelle braccia, nelle gambe, nel petto, nelle spalle, nelle mani. Corro fuori ancor prima che il disco sia ridotto completamente in una poltiglia di metallo incandescente.
Affondo le gambe sino alle ginocchia nelle neve grigia. La mano chiusa in un pugno d’acciaio, in modo che, ad ogni scivolone, non corra il rischio di perdere il mio prezioso guadagno.
Una moneta: cinque pagnottine calde, fragranti e soffici. Il fornaio mi è parso abbastanza generoso. Forse per compassione. Tutti ne hanno, per uno che ha perso il padre. La cosa mi fa andare in bestia, ma non oggi, non ora che stringo al petto il caldo pacchetto di carta da forno.
Mio padre mi segue. Lo percepisco, perché sento ancora quel calore dentro, che nemmeno il gelo della neve è riuscito a raffreddare.
- Sono tornato! – urlo, spalancando la porta di legno marcio.
Ma quando vedo le scarpe di mio padre, lì, in un angolo, coperte di neve sulla punta, capisco che tutta l’immaginazione di questo mondo non sarà sufficiente a farlo tornare indietro. Vick e Rory dormono – dormono sempre, perché si reggono in piedi a stento – sul divano, l’uno con i piedi dell’altro vicino alla testa. Mia madre continua a consumarsi le nocche sino all’osso, strofinando con le mani vestiti che solo i benestanti possono permettersi di indossare.
Poi, tra il fruscio del vento e il debole piagnucolare di Posy – che è rannicchiata in una cesta, vicino al fioco bagliore del camino -, lo sento. Di nuovo, per l’ultima volta.
- Prenditi cura di loro. –
Poi va via, senza far rumore. Le sue scarpe da minatore, che gli erano costate calli e deformazioni ai piedi, sono ancora lì. E vi rimarranno in eterno, a meno che non decida di farle sparire, perché è troppo triste star lì a guardarle, nella vana attesa che mio padre le indossi.
Sfioro la schiena ossuta di mia madre, e poggio una focaccina, ancora calda, contro la sua guancia. Chiude gli occhi e inspira il profumo di farina e lievito.
- Ci sono anche i pezzetti di olive, ma’. – le faccio notare, spezzando un po’ di pane e poggiandoglielo sulle labbra.
Mastica lentamente, come presa dal terrore di dover rimettere tutto da un momento all’altro.
- Per oggi basta, ma’. –
La blocco per un polso. Lei smette di strofinare. E, malgrado mi aspetti di sentire la voce di mio padre da un momento all’altro, c’è soltanto silenzio nelle mie orecchie.

 
Angolo autrice:
Salve! (:
Mi sono ritrovata nel pc due storie che ho scritto tempo fa, rispettivamente su Gale e Katniss, entrambe incentrate su come tutti e due hanno affrontato la perdita del padre.
Le ho scritte ispirandomi ad una frase della canzone "My Immortal" degli Evanescence, e mi pare giusto precisare che tutto è nato per un fallimentare tentativo di partecipare ad un concorso, cui poi ho deciso di partecipare con un'altra frase.
Ho revisionato entrambe le fic, e ho deciso di pubblicarle come raccolta in due capitoli.
Spero che Gale non sia troppo OOC. Per me è eccessivamente in collera, ma d'altro canto credo che il suo carattere molto... ribelle possa giustificare il suo atteggiamento nella fic. Ditemi voi. Sono nelle vostre mani.
Un bacio e al prossimo capitolo ^^
S.

 
 

 

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Capitolo 2
*** Cupola di foglie;Katniss Everdeen ***


Cupola di foglie.
[Katniss Everdeen/Mr.Everdeen]
A mia mamma e al suo papà, che mi hanno ispirata per scrivere questa shot. <3


 
Sul tavolo della nostra cucina doveva esserci qualcosa di davvero terrificante, suppongo.
Non ricordo di preciso cosa. Non credo di averlo voluto imprimere nella mente, ecco.
Sta di fatto che scappai di casa alla velocità della luce, inciampai sui miei passi tanta era l’agitazione che mi aveva colta.
Ricordo i capelli che mi si appiccicavano sul viso, ricordo la polvere di carbone che mi lambiva le gambe e le avvolgeva in una morsa ardente e pruriginosa, ricordo il Prato, oltre la coltre salata che mi aveva velato gli occhi.
Mi succedeva sempre, quando in casa c’era qualcuno sul tavolo della cucina. Di piangere, intendo. Ecco perché presumo, anzi, sono certa di essere scappata.
Mi rannicchiai dietro il cespuglio di caprifoglio, in fondo al Prato. Era un groviglio di foglioline e rametti spezzati, rifugio di chissà quale varietà di insetti ronzanti.
Nessuno di loro mi punse mai, nel caso ve lo stiate chiedendo.
Avevo trovato quel nascondiglio all’età di sei anni, quando ero alta qualche centimetro più di un metro. Mi bastava stringere le ginocchia al petto per mimetizzarmi in quell’ammasso verde. Ne avevo quasi otto, all’epoca, e in due anni i bambini crescono più di quanto si possa immaginare, anche se malnutriti, anche con due pasti al giorno.
Le mie ossa allungavano – sottili, un po’ deboli – e la mia pelle cercava di coprirle il più possibile.
Comunque, dietro al cespuglio non c’entravo più. Per questo, quando mio padre venne a cercarmi – sapevo che l’avrebbe fatto – mi trovò subito.
La sua mano raggiunse la mia attraverso il groviglio di foglioline e rametti intrecciati. Qualcosa graffiò il dorso della sua destra, ma lui non sembrò farci caso.
C’era abituato, alle ferite.
Mi tirò su, e mi sentii improvvisamente sporca, davanti a lui; e non solo per via delle foglioline che mi si erano incastrate fra i capelli.
Credevo che mi avrebbe rimproverata. Non avrebbe avuto tutti i torti, in fondo. Avevo otto anni: era ora di smetterla di darmela a gambe quando qualcuno cercava soccorso nelle mani di mia madre, soprattutto quando mia sorella, che muoveva i primi passi, non si lasciava per niente impressionare dal sangue, dagli squarci della pelle, dalle cicatrici da scottatura.
Prim se ne stava lì, a gattonare tranquillamente per la casa e, quando capitava in cucina, era come se non ci fosse nessun altro a parte lei e la mamma che armeggiava su chissà cosa.
Nel 12, non si poteva restare bambini per troppo tempo.
- Questo nascondiglio è diventato un po’ troppo piccolo, non trovi, scoiattolina? – disse invece, con quella sua voce pacata, che sembrava musica anche quando non cantava.
Annuii. Ricordo che mi sforzai di sorridere, che cercai di allontanare il pensiero dell’uomo che giaceva sul tavolo in cucina. Solo questo mi è concesso sapere, che era un uomo. E che molto probabilmente era ferito in maniera tale da avermi impressionata sino a fuggire.
Papà fece scivolare una fogliolina dai miei capelli e se la rigirò fra le mani per un po’.
- Sono scappato anch’io. – mi confessò.
Pensai che non avrebbe potuto dirmi cosa migliore. Mi sentii capita, accettata, mi sentii compresa.
Mio padre mi era complice in tutto.
- Faceva paura anche a te? – gli domandai.
- Solo un po’. – rispose lui, quantificando tra pollice e indice il grado di terrore che aveva provato.
Ridacchiai, lasciando scivolare un po’ dell’isterico nervosismo che mi aveva assalita.
Quando gli domandai se, secondo lui, mamma avrebbe guarito quell’uomo, mio padre tacque per un tempo che mi parve durare in eterno.
Riuscivo a sentire l’accelerare del suo respiro, il lento scrocchiare delle sue dita. Lo faceva solo quando era in preda al dubbio, all’incertezza, quella cosa dello scrocchiarsi le ossa delle mani.
Era un rito, ormai. Gli chiedevo sempre se secondo lui mamma sarebbe riuscita a strappare alla morte il paziente. Lui mi assicurava sempre che sì, mamma ce l’avrebbe fatta, che aveva mani di fata, mani magiche.
- Non lo so. – mi rispose quella volta.
- Potrebbe… - iniziai.
Evidentemente, mio padre aveva deciso che era ora di mettermi davanti a una delle più grandi e terribili probabilità che la vita ti presenta.
-… morire? –
Mio padre annuii.
Pensai che non avrebbe potuto fare cosa peggiore di quella.
Ciò che mi disse dopo, sussurrandomelo in un orecchio, voleva essere una sorta di consolazione, un modo per dirmi che, in barba a qualsiasi dolore stesse patendo il paziente della mamma, non stava soffrendo nel modo disumano che stavo immaginando.
- La gente muore, Katniss. – mormorò. – Ma non soffre, non come spesso ci ritroviamo a pensare. È agli altri che è serbato il peggior dolore. –
Non capii. Avrei voluto chiedergli ulteriori spiegazioni, indagare sull’identità di questi fantomatici “altri”, ma mio padre era davvero bravo a distrarmi, ad anticipare ogni mia mossa con quella scioltezza che apparteneva soltanto a lui.
- Allora, - esclamò, le labbra modellate in un ampio sorriso, - vogliamo trovare un nascondiglio migliore di questo?  Un posto che possa contenerci entrambi? –
 
 
Quel giorno c’inoltrammo nei boschi, più di quanto non avessimo mai fatto insieme.
Indugiai un po’ prima di oltrepassare la recinzione, ma lo sguardo di mio padre mi ricordò ancora una volta che non mi avrebbe mai portata incontro al pericolo.
A distanza di qualche tempo, mi avrebbe spiegato come funzionava il sistema di elettrificazione della recinzione.
Attivo un giorno sì e sei no, disse circa un anno dopo.
Bel sistema, replicai io.
Mia madre mi rifilò un’occhiata di rimprovero, velata da una coltre di preoccupazione. Aveva sempre paura che non riuscissi a frenare il flusso di ingenue, taglienti, pericolose parole che mi usciva di bocca, ogni tanto. Ma non credo che avesse molte ragioni per allarmarsi tanto, visto che mi mettevo a snocciolare frasi senza sosta solo in presenza di mio padre.
Papà mi portò in un luogo che pareva lontano anni luce dal 12.
C’era un’infinita cupola di foglie e rami che s’intrecciavano sopra le nostre teste, che facevano ombra sullo specchio d’acqua dolce del lago. La distesa trasparente scorreva placida, tranquilla, e ogni tanto si metteva a vibrare in sottili cerchi concentrici.
Pochi rami, i più bassi, godevano del lusso di accarezzarla, e sembrava che gli altri, i più sfortunati, ne bramassero anche solo un fuggevole contatto.
Camminammo a piedi scalzi in mezzo all’erba fresca e verdeggiante. Quel luogo divenne il nostro nascondiglio sin dal momento in cui sentii quei fili verdi solleticarmi la pelle.
Papà si tuffò per primo in acqua, ancora vestito. Mamma ci avrebbe uccisi entrambi, se fossimo tornati bagnati fradici, con tanto di maglietta e pantaloni gocciolanti.
- È congelata, ma pulitissima! – esclamò mio padre, le braccia levate verso l’alto, il corpo immerso sino al collo.
- Avanti, scoiattolina, vieni. –
Dovette ripetermelo per un paio di volte, prima che trovassi il coraggio di tuffarmi.
Allora non sapevo ancora nuotare. Era già un miracolo che riuscissi a darmi una pulita un giorno sì e uno no nella piccola vasca di legno che mamma riempiva, quand’eravamo più fortunati, di un po’ d’acqua che aveva messo a scaldare.
 
 
Quando mi decisi a immergermi in acqua, prima un piede, poi un altro, con tutta la cautela del mondo, papà mi cinse i fianchi.
Lo fece per almeno un altro anno, di tenermi stretta per la vita, finché non acquistai una certa dimestichezza nel muovermi e galleggiare nell’acqua leggera del lago.
- Qui è dove potrai trovarmi. Sempre. – mi sussurrò in un orecchio.
Non capii. Avrei voluto chiedergli cosa volesse dirmi, perché avesse deciso di offrirmi quella sorta di promessa, ma mio padre era davvero bravo a distrarmi, ad anticipare ogni mia mossa con quella scioltezza che apparteneva soltanto a lui.
Si mise a fischiettare, poi iniziò a cantare.
Sopra di noi, nell’intreccio di foglie e rami, gli uccelli si ammutolirono, rimasero immobili, appollaiati sulle sommità degli alberi.
Poi, un paio di ghiandaie imitatrici iniziarono a riprodurre la melodia intonata dalla voce di mio padre.
- Shh. –
Mi mise un dito sulle labbra.
- Mamma non deve saperlo. –
Gli promisi che non avrei proferito parola con la mamma.
Ricordo ancora adesso l’espressione allarmata nel suo viso, la smorfia di panico in cui si era accartocciato il suo volto delicato, quando mi ero messa a intrecciare collane di corda, canticchiando un’inquietante melodia su un uomo impiccato a un albero.
Ricordo di aver pensato che quello fosse davvero un buon nascondiglio. Contavo di dirglielo, prima o poi, di ringraziarlo per avermi portato lì, in quel posto che poteva contenerci entrambi e ci intrappolava nella sua cupola di foglie.
Ma non lo feci. Mai.
 
 
L’acqua mi lambisce la pelle, sporca, madida di sudore, screpolata in alcuni punti.
Sono giù da qualche secondo, tanto che il mio naso ha iniziato a produrre vortici di minuscole bollicine.
Ricordo che mio padre si divertiva a giocare con quelle piccole creature sferiche e malleabili. Gli piaceva farle esplodere con le dita.
E gli piaceva anche far smorfie sott’acqua. E a me piaceva ridere delle sue espressioni buffe.
Perché tanto poi mi prendeva. Anche se ridevo sino a scoppiare, anche se aprivo la bocca e rischiavo di far entrare troppa acqua nei polmoni. Papà mi prendeva per i fianchi e mi portava su, prima ancora che mi accorgessi di aver corso il serio pericolo di affogare.
- Devi serbarla solo a me questa risata, scoiattolina. – mi diceva.
Sapevo cosa intendeva con quell’ammonimento: se lui non fosse stato con me, pronto a farmi risalire in superficie, non avrei dovuto aprir bocca quando ero sott’acqua. Tuttavia, mi rendeva orgogliosa pensare che mio padre amasse tanto la mia risata da volerla tenere solo per lui.
Quando emergo, mi concentro sul mio respiro. Devo riprendere un ritmo regolare.
L’acqua scivola lentamente dalle mie orecchie, liberandomi i timpani. È allora che li sento.
Sopra di me, appollaiati in cima agli alberi, nascosti dalla cupola di foglie. Cinguettano.
Cantano perché mio padre non li ammutolisce con la sua voce melodiosa.
Capisco di essere parte di quegli altri di cui mio padre mi ha parlato.
Capisco che le promesse, per quanto buone possano essere le intenzioni con cui vengono fatte, non sempre vengono mantenute, e che lo stesso concetto di “sempre” è l’illusione più grande di cui l’uomo possa vestirsi.
Capisco che è più facile immaginare che mio padre sia con me, finché rimango sott’acqua, aspettando che mi afferri per i fianchi.


 
Angolo autrice:
Eccomi con il capitolo finale di questa raccolta.
Io lo so, lo so, Wip, che mi starai odiando per aver pubblicato tremila cose in tua assenza. Perdonami.
Posso confessarvi di essere intimamente soddisfatta di questo lavoro? Sì, va bene, lo dico. Questa shot mi piace. Spero solo che possa piacere anche a voi.
Raccolta terminata. Non ho molto altro da aggiungere.
Un bacio, scoiattolini amorevoli che avete letto :)
E un ringraziamento speciale a: Simple, workinprogress, PervicaViola e Deb per aver recensito il precedente capitolo su Galeotto.
S.
 
 

 

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