La via della spada di Melitot Proud Eye (/viewuser.php?uid=1469)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** I - Anni d'oro ***
Capitolo 3: *** II- La Triade (ragazzi sugli alberi) ***
Capitolo 4: *** III - Sangue nell'arena ***
Capitolo 5: *** IV - Il suo segreto ***
Capitolo 6: *** V - Le scintille della bufera ***
Capitolo 7: *** VI - Grandi speranze ***
Capitolo 8: *** VII - La giovane tigre e la giungla ***
Capitolo 9: *** VIII - La mano della ragione ***
Capitolo 10: *** IX - Quando le parole fuorviano ***
Capitolo 11: *** X - Cercando Shinta ***
Capitolo 12: *** XI - Non sarò Battosai ***
Capitolo 13: *** XII - Il sole sulla spada punitiva ***
Capitolo 14: *** XIII - Un cuore sicuro ***
Capitolo 15: *** I figli della pace (e i loro genitori) ***
Capitolo 1 *** Introduzione ***
Introduzione
Non sono tipo da
scrivere lunghe introduzioni ― chi ha letto le mie altre storie lo sa ―
né in genere mi soffermo a lungo su quelle altrui.
Tuttavia vi prego di avere pazienza e leggere, qui di seguito riporto
alcune note piuttosto importanti.
Innanzitutto
il disclaimer:
non posso vantare alcun diritto su Ruroni Kenshin, ahimè... Di sicuro ammiro moltissimo Nobuhiro Watsuki e gli
auguro di aver presto un’altra folgorante ispirazione nel
genere del manga storico.
Poi una
sintetica elencazione dei credits,
perché non tutto ciò che troverete in questa
fanfiction è di mia invenzione:
- a
Night-mare-chan, autrice di Kenji’s tale, appartengono i
personaggi di Inoi e Shinta; rispetto alla sua idea io li ho resi
semplicemente fratelli e non gemelli, ma i rispettivi caratteri ed
aspetti sono ispirati agli originali. Che dire, adoro quella storia e
mi sono affezionata ai personaggi. E poi sembrano fatti apposta per
imbestialire/intenerire Kenji;
- a Chaos
Valkyrie, autrice di The cutting edge e House of the flying kunai, va
l’idea di far sposare Okon dell’Aoiya con una certa
persona. Non preoccupatevi, saprete presto di chi si tratta ― non
vorrei rovinarvi troppe sorprese ;-)
Vi consiglio
di leggere tutte queste fic, sono varie ma molto belle.
Tutto il resto
è farina del mio sacco o idea “comune”,
offerta al pubblico dal divino Watsuki tramite freetalk (che siano
benedetti). Kenji e Shinya sono una di queste; se volete saperne di
più, andate su TheOro.com e troverete un forziere
straripante di informazioni. E’ in inglese, sì, ma
ne vale la pena.
A proposito di
Kenji, da
brava amante del canon ho seguito le indicazioni del creatore,
tuttavia, come ogni altra cosa fatta da mano umana, uno scritto
è un’interpretazione personale e, tenendo conto
del fatto che il ragazzo ha Kenshin per padre, ho voluto renderlo
più responsabile di quel che ho visto in altre fic.
Cosa che
peraltro mi sembra più che plausibile, come
emergerà dalla storia stessa.
Precisazione
sul computo degli anni di
vita: in Giappone, sino al primo ventennio del Novecento,
l’età veniva calcolata dal momento del
concepimento e non da quello della nascita. Questo significava che,
appena nato, il bambino aveva già un anno e si andava avanti
così (pensandoci è anche più coerente,
no? ― dopotutto si vive per nove mesi nell’utero materno ^^).
Questo
significa che anche tutti i personaggi del manga hanno un anno in meno
rispetto a quanto dichiarato, almeno secondo l’ottica
divenuta ormai comune. Su TheOro.com si aggiunge che Watsuki non ha
seguito questa antica regola solo per Kenshin, allo scopo di rendere
più accettabile la differenza d’età fra
lui e Kaoru (questo discorso però mi sembra un po’
confuso, non faceva prima a farlo nascere un anno dopo? E poi, neanche
è stato dichiarato l’anno di nascita del nostro
eroe… mah, lascio la questione a voi).
Comunque, per
riassumere, non preoccupatevi se fate due conti e trovate che
“manca un anno” e “Kenji e gli altri
dovrebbero averne tutti uno in meno”. E’ tutta
questione di computo.
Altra precisazione:
ho visto solo parte (qualche episodio) dell’anime, per cui
considerate la storia unicamente basata sul manga.
Avvertimento di servizio:
o voi che vi avventurate in questa lettura, cancellate dalla vostra
mente qualsivoglia riferimento ai film, i cosiddetti OVA, soprattutto
Reflections.
Senza offesa
a chi li apprezza, sono il tradimento più
obbrobrioso del significato di un manga mai avvenuto nella storia dei
manga. La dolce Tomoe che prima di morire ferisce (invece di perdonare)
Kenshin? Kenshin che si prostra davanti a Enishi? Che molla moglie e
figlio per andare a fare il buon samaritano perché non
può più usare l’Hiten? Kaoru che lo
lascia fare e soprattutto diventa una piagnona? Ma siamo
matti… Questi vi sembrano i personaggi che manga e anime ci
hanno fatto amare?
Se avete
risposto di sì, mi spiace, non avete capito il
messaggio che permea l’opera. Al di là
dell’azione, a tratti esagerata, credo che l’umorismo e la
tristezza di Ruroni Kenshin siano lo specchio della vita umana.
Piccola bolla
di autocompiacimento:
questa fanfic si è scritta da sola, dopo un lungo rimuginare e immaginare - l'ho sentita viva, e la amo, pur con tutti i suoi difetti.
Spero riesca a
trasmettervi qualcosa.
Infine, un
glossarietto che farà ridere i più esperti ma che
aiuterà i fan alle prime armi ^^ oltre a chiarire alcune mie
scelte linguistiche. Scusate se non ne metto uno alla fine di ogni
capitolo, sono pigra ^^;
De gozaru yo:
il tipico modo d’intercalare di Kenshin, un po’
antiquato e parecchio ricorrente nelle sue frasi, non tradotto nella
versione italiana. In inglese hanno usato “that I
am” e sue varianti, io mi sono limitata a qualche
“lo è proprio” o
“proprio”, sebbene non sia la traduzione letterale.
Ho cercato di usare un intercalare plausibile in italiano, ditemi se ci
son riuscita ^^;
Dojo:
palestra.
Futae no kiwami:
il “doppio colpo” di Sano, imparato dal bonzo Anju.
Non suona meglio in giapponese?
Gi:
indumento maschile vestito generalmente sopra gli hakama; per
intenderci, l’equivalente di una camicia.
Hakama:
tipici pantaloni giapponesi, maschili (ma Kaoru li indossa per gli
allenamenti e sono ancora oggi divisa per i praticanti del kendo)
larghi e legati con un nodo alla vita.
Haori:
indumento indossato come una casacca, generalmente lungo oltre le
ginocchia e pesante.
Hazuki:
fagioli rossi dai quali si ricava una pasta o una marmellata dolce; si
mangiano anche come normali legumi insieme al riso bianco, per
festeggiare ricorrenze speciali.
Jo-chan: il
nomignolo dato da Sano a Kaoru e tradotto in Italia come
“signorina”. Proviene dal gergo della yakuza, se
non sbaglio, e dovrebbe indicare una ragazza/donna importante del clan,
ad esempio la figlia del capo; un segno di rispetto, insomma. Sano
però lo abbrevia con “chan”, suffisso
diminutivo, e ho preferito renderlo come
“signorinella”.
Kata: una
“figura” del kendo, insieme di movimenti utilizzati
per l’allenamento.
Kenjutsu:
l’arte della spada (troverete anche
quest’espressione) in generale, senza riferimento a una
precisa scuola.
Ki: la
“aura” che circonda le persone; di solito quella
citata in Ruroken è l’aura combattiva sprigionata
dai veri samurai in battaglia.
Mochi:
dolce ricavato impastando farina di riso e acqua, modellato in varie
forme.
Nagamaki:
variante della naginata, una spada cinque-seicentesca che ricorda i
falcioni del Medioevo europeo (lunga impugnatura, lama abbastanza corta
e incurvata), la nagamaki ha un’impugnatura equivalente ma
lama dritta e lunga come quella di una katana. Secondo Wikipedia,
durante l’era Tokugawa, finita a metà
‘800, entrambe entrarono in disuso in battaglia ma furono
mantenute per difesa personale, soprattutto dalle donne della classe
militare, vere e proprie amministratrici-custodi delle loro case.
Nori: alghe
usate per condire vari piatti e avvolgere gli onigiri.
Okashira:
termine usato per indicare il capo degli Oniwabanshu di Kyoto.
Onigiri: le
famose polpette di riso… ormai, con Fruits Basket,
dovrebbero esser patrimonio culturale comune XD
Oro: la
tipica esclamazione di Kenshin, tradotta in Italia come
“eh/oh/ahi” a seconda delle occasioni.
Sakabato:
la spada a lama invertita usata da Kenshin, naturalmente. La prima,
donatagli da Shakku Arai, era la versione “numero
due” chiamata Kageuchi; viene spezzata da Sojiro e sostituita
da Shinuchi, la versione migliore.
Sessha:
altra espressione non tradotta in italiano, è un modo molto
modesto di riferirsi a se stessi e Kenshin ne fa largo uso
(finché non si lascia prendere dalle situazioni serie). In
inglese è stata resa come “this one” o
“this unworthy one”, io mi sono limitata a qualche
“il sottoscritto” ― anche se forse non rende bene
perché ha un senso affine al pluralia maiestatis.
…O no?
Takoyaki: tipici
dolcetti a forma di pesce, ripieni di marmellata di fagioli rossi e
venduti caldi.
E
ora… posso solo augurarvi buona lettura!
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Capitolo 2 *** I - Anni d'oro ***
[edit
dell'8-11-2011]
Nota: sto rivedendo
l'intera fanfiction perché, a distanza di anni, trovo che il
mio stile qui fosse ancora immaturo e non mi lascia più
soddisfatta. Ma non preoccupatevi, i cambiamenti saranno comunque
minimi, stilistici o relativi a scene/particolari secondari. Spero vi
piaccia anche la seconda versione =)
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Capitolo I
Anni
d’oro
"Alla
porta di chi ride,
fortuna giunge."
Proverbio
giapponese
La giornata era serena e il vapore
del tè saliva in volute arricciate dalle tazze, lucide e
verdi come
ninfee.
Kenji sonnecchiava su un cuscino,
accanto alla tavola. Kaoru assaggiò uno dei dolci e sorrise
quando
riconobbe l’inconfondibile tocco di Kenshin (glassa rosa,
sempre
fragrante) mentre, davanti a lei, Megumi beveva con eleganza,
ringraziando dell'ospitalità.
Dal cortile provenne un fracasso
allucinante e Kenji si alzò di scatto.
«Yahiko ha fatto cadere di nuovo le
shinai» commentò Kaoru, roteando gli occhi e
prendendo il figlio in
braccio. «Troppo entusiasmo.»
«Cresce ma non cambia?» chiese
Megumi, divertita.
Spallucce e un po' d'imbarazzo.
«Credo sia anche colpa mia… ma non dirglielo, o
non me lo farà
più dimenticare.» Diede un dolce a Kenji per
tranquillizzarlo, poi
sospirò. «Mi spiace che tu non possa incontrare
Kenshin. Ti direi
di prendere l'ultimo treno, ma stavolta è una cosa seria;
potrebbe
tornare molto tardi.»
«Anche lui è sempre lo stesso.»
Sorrisero e mandarono giù un lungo
sorso, rinfrancate dall’amarezza e dal calore del
tè. Kaoru
avrebbe chiesto a Megumi di restare per la notte, ma sapeva che aveva
degli obblighi (una clinica e venti pazienti non aspettano).
Sembrava assorta. La lasciò ai suoi
pensieri; distratta dal movimento pigro delle foglie che cadevano in
giardino, visibili oltre il rettangolo dello shoji, posò un
gomito
sul tavolo e il mento sulla mano.
«Chissà se Sano è
cambiato»
mormorò, lisciando i capelli di Kenji.
«Ha visto il mondo» rispose
Megumi.
«E’ vero, ma lo conosci...»
«Il poco che c'è da conoscere in
quella zucca vuota.»
Kaoru non riuscì a trattenere un
ghignetto. «Sono passati cinque mesi da quando ha scritto;
credo che
presto vedremo coi nostri occhi se è cresciuto.»
«Oh, magari non torna più. Il
Giappone gli è sempre stato stretto.»
THUMP.
Passando dall'allegro
all'irritato, Kaoru si voltò verso l'engawa.
«Yahiko! Si può
sapere che combini? Guarda che se rompi qualcosa–»
THUMP
THUMP!
Lei e Megumi si guardarono; Kenji
cercò di sbirciare fuori, agitandosi fra le sue braccia.
«Sembrerebbe il portone. Lo avete
chiuso?»
Kaoru schioccò le dita. «Sì,
quando muoviamo la roba dal deposito preferiamo non avere gente in
giro. Yahiko! Vai a vedere chi è!»
strillò.
«Hey, non sono il tuo schiavo!»
Veloce, Kenji sgusciò via e balzò
giù dalla veranda con l'agilità di un gatto.
Rimbombarono altri
colpi e, dopo un attimo di dubbio, Kaoru raggiunse il cassone delle
provviste, infilò un braccio dietro e recuperò un
legno: la bokken
di emergenza. (Ce n'era una in quasi tutte le stanze; l'esperienza
insegna.)
«Chiunque sia, sta per sfondare il
portone» disse a Megumi, che aveva preso la teiera e la
brandiva
come un peso da lancio. «Kenji, fermati!»
In quel momento accaddero tre cose:
Yahiko intercettò Kenji, una voce ruggì di
aprire, Yahiko e Kaoru
quasi mollarono le armi.
«Allora, signorinella, quanto
ancora mi vuoi tenere fuori?! Ho fame!»
Rimasero tutti a bocca aperta. Poi
una forza inarrestabile fece saltare il catenaccio. Sull'uscio
polveroso si stagliò una figura malvestita, grezza, con una
criniera
selvaggia al vento.
Lentamente, incredulo, Yahiko
sogghignò. «Mi venisse un colpo... guarda chi
c’è, Kaoru!»
Le ultime vestigia di sonno si alzarono
con la lentezza di un sipario, propagando il suo nome. Kaoru sorrise,
senza aprire gli occhi. Ricordava cosa veniva dopo: lei che scambiava
Sano per un delinquente, una bokken volante, Sano che si levava di
dosso sacche e bagagli, Megumi che lo raggiungeva e l'attaccabrighe
che la faceva piroettare davanti all’espressione beota di
Yahiko;
per beccarsi poi un ceffone.
E iniziare la prima discussione in
quasi quattro anni.
(Solo dopo si era saputo come stavano
le cose – quel che Sanosuke aveva detto alla Volpe prima di
partire.)
Kaoru si stropicciò gli occhi,
infastidita. C'erano schiamazzi di bambini nell'aria.
Troppo presto.
Si alzò, sistemò la cintura dello
yukata da notte e aprì lo shoji per controllare le scorrerie
di
Kenji, Inoi e Souzo, armati di bokken in miniatura. Yahiko faceva da
bersaglio e scappava, voltandosi di tanto in tanto per opporre
resistenza. Il moccioso aveva diciannove anni e si divertiva
più
degli altri messi insieme.
Sorrise, scosse la testa e rientrò.
Dalla culla di Shinta, il terzo figlio datole da Kenshin, salivano
dei vagiti; prese il piccolo, lo cambiò, lo
allattò e si preparò
per uscire, soddisfatta.
Quante cose erano cambiate da quand'era
ragazza. Il matrimonio, la nascita di Kenji, il ritorno del galletto
giramondo; il trasferimento di Megumi a Tokyo e le nozze con Sano; la
nascita di Souzo Sagara, poi di Inoi (la sua bella bambina dagli
occhi azzurri). E adesso Tsubame era incinta…
Otto anni colmi di felicità. Poteva
andare anche più indietro, a dire il vero, perché
dopo l’arrivo
di Kenshin le notti solitarie erano finite; non si pentiva
d’aver
vissuto momenti difficili, per tutto quello.
Completò i giri dell’obi e lo annodò
con qualche difficoltà sulla schiena, cercando di non
stringere
troppo per evitare di doversi svestite al momento d’allattare.
Un’occhiata all’orologio le rivelò
la verità: era in ritardo. Presto sarebbero arrivati gli
allievi
della palestra e, benché non insegnasse ancora (Shinta era
nato solo
da quattro mesi), non era il caso di farsi trovare a tavola col mento
sporco di riso. Con la rapida efficienza di tutte le madri,
recuperò
Shinta, uno scialle ed uscì a razziare la cucina.
Nel percorrere l'engawa fu superata dal
branco strillante della nuova generazione. In testa c'era il suo
Kenji, seguito da Souzo di quattro anni e da alcuni pargoli del
vicinato; Inoi era sparita.
«Kyaa!»
Ugh.
Strinse i denti, entrò in cucina e
vide Kenshin. Gli cinse il collo con un braccio, nascondendo il viso
sulla sua spalla.
«Queste grida mi danno alla testa.»
Kenshin rise e le diede un bacio,
prendendo Shinta. «Ti ho scaldato la colazione. Intanto
vediamo un
po’ come ha dormito questo pupetto.»
Sedette a gambe incrociate e, tenendo
il figlio sulle ginocchia, cominciò a far facce buffe.
Alla menzione del sonno Kaoru roteò
gli occhi, s'inginocchiò e buttò giù
un sorso di tè.
Sinceramente, sperava che Shinta avesse dormito più di lei e
Kenshin
messi insieme, altrimenti non aveva dormito affatto. Stava per
avventarsi sulla colazione quando, all’improvviso, sulla casa
scese
il silenzio.
Kenshin guardò fuori.
«E’ entrato qualcuno.»
«Chi sei?» sentirono chiedere a
Yahiko.
Uscirono sulla veranda. Lo sconosciuto,
un ragazzo sui quindici anni, indugiava sull'ingresso; portava una
sacca voluminosa in spalla, aveva le mani fasciate da bende grigie e,
nel complesso, non fosse stato per il suo visetto pulito,
l’avrebbero
bollato come piccolo attaccabrighe di strada. Aveva anche
un’aria
vagamente familiare.
Si sfregò il naso e, rivolta
l’ennesima occhiata alla porta, accennò un gesto
verso l’insegna.
«E’ la palestra Kamiya Kasshin?»
«Com’è scritto» disse Yahiko.
Kaoru parve ricordarsi delle proprie
maniere e scese in cortile, salutando con un sobrio inchino.
«Ti dò il benvenuto. Io sono la
maestra del dojo, Kaoru Himura. Volevi iscriverti ai nostri
corsi?»
Il ragazzino rispose con impaccio.
«Signora no, non sono qui per iscrivermi. Sto cercando una
persona.»
Yahiko, che aveva inclinato il viso per
incontrare lo sguardo di Kenshin, vi colse una scintillio divertio.
«Lo conosci?» gli chiese, curioso.
«No, ma…»
«Sono Ota Higashidani, signore. Mio
fratello dovrebbe essere qui.»
«Uh?»
«Uh?»
Higashidani?
«Ci dispiace» disse Kaoru, lentamente
«non sappiamo chi―»
«Mi venisse un colpo.»
Nel vano del portone era comparso
Sanosuke, una borsa gonfia sottobraccio (le consegne da fare per
conto della clinica) e gli occhi fissi sulla schiena del nuovo
venuto.
«Ota!»
«Lo conosci?!» esclamò Yahiko.
«Lo conosce?» echeggiò Kaoru,
guardando Kenshin.
«Fratellone!»
Il ragazzo girò su se stesso. Sul
retro della sua giacca beige era dipinto in nero il carattere aku.
Oh. Oh!
«Porca vacca, quanto sei cresciuto»
esclamò Sanosuke, posandogli una mano sulla testa.
«E ce ne hai
messo di tempo per venire, io alla tua età ero in giro da
cinque
anni. Piuttosto… come fai a sapere che sono tuo
fratello?» Masticò
il filo d’erba che aveva tra i denti, sguardo lontano.
«Ahh,
capisco, il vecchio ha vuotato il sacco. Beh, non importa. Anzi,
meglio. Fatti vedere un po’: sì, sì,
sei sulla buona strada.
Bene. Benone.»
Il ragazzo brillò di luce propria,
mettendo i pugni sui fianchi. «Grazie!»
«Scusate, ma… vi spiacerebbe
spiegare?» s'intromise Kaoru. Non poteva esserci in giro un altro
Sano.
«Anni fa son tornato alle radici e ho
ritrovato i miei. Abitano a Shinshu. Mi ha riconosciuto solo mio
padre – non abbiamo detto niente a mia sorella, tanto meno a
Ota,
che era nato dopo la mia fuga – poi Tokyo mi ha richiamato
indietro. Comunque ho lasciato il tuo indirizzo, signorinella. Sai,
per ogni evenienza.»
Kaoru corrugò la fronte, battagliera.
«Spero sia l'unica occasione in cui l'hai fatto, testa di
gallo.»
«Non saprei.»
«Prego?»
Yahiko si grattò la nuca, poi sorrise
a Ota. I bambini abbandonarono il loro silenzio e cominciarono a
ronzare intorno al nuovo venuto.
Ota li salutò. «Senti, fratellone, tu
vivi qui ora, vero?»
«Mnno» mugugnò Sano, distratto.
«Cinque anni fa mi sono sposato e sto alla clinica del
quartiere. A
proposito, quel marmocchio laggiù è tuo nipote
Souzo.» Sventolò
la mano in direzione dei pargoli e il “marmocchio”
incrociò le
braccia.
Ota s'illuminò e gli s'inginocchiò
accanto, cercando di stringergli la mano.
«Però sei qui a Tokyo»
continuò.
«Sì, certo. Che ho detto?»
Il ragazzo si alzò in piedi e rivolse
a Kaoru un altro inchino, sempre impacciato.
«Allora, maestra, se non ti dispiace
vorrei iscrivermi. Resterò finché non
sarò forte come mio
fratello.»
«Un Sagara e lo stile Kamiya Kasshin?»
balbettò Kaoru, battendo le palpebre come un gufo.
«Non Sagara, Higashidani.»
Ma buon sangue non mente e Yahiko
decise che doveva prepararsi psicologicamente all’avventura.
Ci
sarebbe stato da divertirsi.
Kenshin si appoggiò Shinta contro il
fianco. «Oro.»
«Allora… allora benvenuto» disse
Kaoru, superando la sorpresa e passando alla tradizionale, interiore
auto-stretta di mano. Un nuovo allievo! Presto avrebbero potuto
permettersi di ristrutturare il furo.
«Benvenuto!» echeggiarono i bambini.
Fu così che Ota entrò nelle loro
vite, inatteso come lo erano state tutte le loro persone importanti.
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Capitolo 3 *** II- La Triade (ragazzi sugli alberi) ***
Capitolo
II
La
Triade (ragazzi sugli alberi)
“Quando il carattere di
una persona ti sembra
indecifrabile, guarda i suoi amici.”
Proverbio
giapponese
Ventiquattresimo anno Meiji
(1891).
Per le strade del Giappone, ormai vicino ad essere una delle
maggiori potenze mondiali, ripresosi bene dalle guerre e molto diverso
da quel
che era stato solo pochi decenni prima, si affollavano persone di ogni
tipo.
Mercanti, poliziotti, madri stanche e mercanti, figure vestite
all’occidentale
non più guardate di malagrazia, tutti mescolati a sbrigare
le proprie faccende
nel traffico delle piccole e grandi arterie, percorse da un viavai
incessante
di carri e carrozze.
Questo era lo sviluppo economico, e Tokyo era la sua
quintessenza.
Ciononostante, alcuni quartieri periferici erano ancora al
limitare della grande frenesia e continuavano la loro vita con
sufficiente
tranquillità. Le viuzze perse tra le case erano ancora un
luogo familiare,
adatto alle scorrerie dei bambini.
In una di queste, non lontano dalla palestra Kamiya Kasshin,
nella prima luce del giorno risuonò un grido.
Poi rumori di zuffa.
Un ragazzino dai capelli rossi si staccò dal muro contro cui
s’era appoggiato e tese un orecchio, forse riconoscendo
qualcosa. Date alcune
occhiate ai dintorni, partì al trotto verso la traversa da
cui veniva il
chiasso, recuperando nel frattempo la corta bokken che teneva alla
cintura.
Quel che trovò era un’ammucchiata di bambini,
così pigiati
da far pensare (se non avesse riconosciuto la voce della vittima) che
avessero
catturato un gatto riottoso.
Fermandosi un attimo a pianificare il salvataggio, si
concesse un sospiro. Perché sempre a lui?
«E aiutami, bastardo!»
«Moccioso» fu il suo scocciato rimbecco.
Aspettò ancora, per
farlo innervosire un altro po’, poi: «Va bene, va
bene, adesso basta!» annunciò
con forza, scostando e sollevando bambini col piede e la spada di legno
per
rivelarne un altro, impolverato, sotto. «Tutti a casa o ve le
buscate come si
deve!»
I piccoli rivoltosi gattonarono e si tirarono su in piedi in
tempi diversi, allontanandosi con varie smorfie e gestacci. Ce
n’erano di varie
età e alcuni erano figli dei vicini.
«Himura, qualche giorno ce la paghi!»
«Non sei nostro padre.»
«Antipatico!»
«Brutto pallone gonfiato―umph.»
Il bambino che aveva gridato l’ultimo insulto andò
a
sbattere contro qualcosa e cadde sul deretano. Tra l’irritato
e lo stupefatto,
alzò gli occhi per trovarsi davanti un semigigante.
«Dovresti guardare avanti quando corri»
osservò questi,
chinandosi appena. «Si può sapere che
succede?»
Gli amici del marmocchio si fermarono un attimo, notarono il
nuovo venuto, poi batterono in ritirata. L’ultimo
lì seguì dopo aver squittito
qualcosa sui “rinforzi”.
«Kenji?»
«Ciao Ota.»
Kenji Himura sollevò il suo bottino recalcitrante per il
retro del gi e se lo portò a livello degli occhi, scocciato.
«Shinya… ma possibile che ti metti sempre nei
guai? Che hai
combinato stavolta?»
«Mi hanno attaccato. Sono dei vigliacchi!»
«Posso immaginare.»
Shinya Myojin assomigliava molto a suo padre. E quando dico
“molto”, intendo “parecchio”.
Mentre lui era impegnato a tenere i musi, il suo salvatore
lo scaricò a terra, risistemò la bokken alla
cintura e si volse verso Ota, che
teneva un fagotto sottobraccio.
«Sei in ritardo. Sozou dov’è?»
«Non sono ancora passato a prenderlo»
spiegò il ragazzo,
«mentre tornavo dal porto ho assistito a uno scippo e mi son
fatto tutto il
lungofiume per abbrancare il ladro. Poi la vecchina era talmente
spaurita che
l’ho accompagnata a casa.»
Kenji finì di spolverarsi gli hakama e incrociò
le braccia,
soffiandosi via i capelli dalla faccia.
«Un vero ragazzo d’oro»
commentò, sarcastico.
«Ah, lo so che tu non salveresti un cucciolo che
annega.»
«Hey hey, e qui cos’ho appena fatto?»
«Sì, ma Shinya è diverso. Questo
è materiale da ricatto.»
S’avviarono giù per la stradina, accompagnati
dalla risata
aperta di Kenji e dalle proteste di Shinya.
Per essere figlio
dell’ex-attaccabrighe di strada Zanza,
Sozou Sagara era una bambino molto sensato. Che si fosse rivelata in
lui una
sotterranea vena paterna o che, più probabilmente, avesse
ereditato dalla
madre, nessuna delle persone che lo conoscevano aveva il minimo dubbio
sulla
sua assennatezza.
Ma apparteneva pur sempre a una progenie d’avventurieri
scanzonati e Kaoru, segretamente, rabbrividiva quando notava in lui il
cervello
di sua madre. Lì c’era un’astuzia
sconosciuta a quella vecchia zucca di Sano.
Miscela pericolosa.
Sozou probabilmente sarebbe stato messo sul chi va là da
quelle osservazioni, ma, mentre recuperava la scodella per il tofu e
scivolava
fuori di casa, ne era del tutto all’oscuro. Salutò
sua madre che apriva la
clinica e proseguì con passo più svelto in
direzione del mercato, sua
destinazione dichiarata.
Da quando era stato abbastanza grande per riconoscere i
luoghi dove lo portavano, aveva conosciuto il mercato solo come un
calderone
rigurgitante di folla, pressata e insistente. Non era certo il luogo
ideale per
un bambino, ma Sozou aveva zio Ota a fare da scorta e sua madre sapeva
che
amava rendersi utile in tempo non scolastico.
O meglio… credeva. Forse non le avrebbe fatto piacere
scoprire che, tre volte la settimana, suo figlio tagliava fuori il
mercato e
portava la scodella alla vecchia Jibe, una delle tante salvate
dall’azione
della Triade. Lei faceva tofu di prima qualità per alcuni
ristoranti e, in
segno di gratitudine verso Ota che aveva bastonato un brutto ceffo
intenzionato
ad aggredirla, gli faceva trovare al ritorno il contenitore
pieno. La coda al mercato era una giustificazione
plausibilissima per le lunghe assenze di Sozou, in quelle occasioni.
Ma dove andava Sozou? Oh, quello.
Che domande: andava al nascondiglio della Triade.
Salutò la vecchia Jibe e accettò volentieri il
dolcetto che
lei gli offriva, proseguendo quasi senza fermarsi.
La Triade era il nome (provvisorio) che quell’esaltato di
Kenji aveva dato al loro gruppo di “giustizieri”.
Lui, Himura e lo zio Ota
erano i Custodi del Quartiere, investiti del compito di controllare che
per le
vie del vicinato (ma ultimamente anche oltre) filasse tutto liscio.
Dall’alto dei suoi nove anni, Sozou già trovava
questa
definizione un po’ ridicola. Sarebbe stato meglio esser
sinceri e dire che
volevano fare puro casino.
Però sapeva pure che gli altri, a parte forse lo zio, non
condividevano le sue opinioni. Kenji, soprattutto, ci credeva davvero e
oltre
al suo carattere ci si metteva la non comune ― doveva ammetterlo ―
abilità
nella spada.
E proprio questa abilità era stata la causa principale che
aveva dato vita alla Triade.
Staccò un altro morso di dolce e girò a destra,
verso la
campagna.
Kenji… sapevano tutti chi era suo padre, sebbene non se ne
parlasse mai. Sozou ignorava se fosse stato lo zio Kenshin a dirglielo
o fosse
semplicemente venuto fuori dai discorsi degli adulti, ma se
c’era una cosa di
cui era sicuro era che l’argomento si presentava spinoso. Da
qualunque lato lo
si guardasse.
Kenji aveva solo quattro anni più di lui ed era un piccolo
prodigio; lo stile di kenjutsu della madre gli stava già
stretto… e ne sognava
un altro, uno che non gli sarebbe stato mai insegnato
dall’unico in grado di
mostrarlo.
Né Kenji era disposto a cedere.
Infelice faccenda.
Il ragazzino roteò leggermente il braccio sinistro,
indolenzito, e s’apprestò a papparsi
l’ultimo boccone del mochi. Ma in quel
momento accadde qualcosa. Il suo istinto lo mise in allerta.
Abbassò la mano e tese le orecchie, rallentando.
Finora era stato distratto, ma adesso lo sentiva con
chiarezza: qualcuno lo stava osservando.
Finse di aggiustarsi il collo del gi e torse il collo
all’indietro, cercano di cogliere un qualche movimento o
figura con la coda
dell’occhio. Sapeva benissimo come comportarsi in questi
casi: suo padre,
consapevole dell’ereditarietà di certi tratti,
s’era premurato di istruirlo.
Prima di tutto, controllare i dintorni e localizzare
l’inseguitore (ma non vedeva nessuno). Poi cercare di
raggiungere in fretta un
luogo affollato o comunque sicuro (accelerò con
discrezione). Infine, se ci si
trovava alla mal parata, decidere se arrivare allo scontro o tagliare
la corda
gridando come degli ossessi e attirando tanta più gente
quanto si poteva.
Inutile dire che, reso un pochino più responsabile dalla
paternità, Sanosuke aveva categoricamente imposto la difesa
armata come
ultimissima spiaggia. Ergo, Sozou doveva allenare le gambe.
E le gambe allenò, lanciandosi in uno scatto non appena ebbe
girato l’angolo.
Attraversò le ultime viuzze e sfociò sulla strada
che
costeggiava il lungofiume, un po’ più trafficata
perché larga; da lì scivolò
giù sino alla riva e continuò in direzione del
ritrovo segreto, dove certo gli
altri della Triade lo stavano aspettando.
Stava già rallentando il passo quando
quell’orribile
sensazione tornò, più forte di prima.
C’era qualcuno che lo fissava con
malevolenza e, dannazione, non s’era fatto seminare. Senza
pensarci due volte
liberò la propria bokken dal laccio che
l’assicurava alla schiena e si voltò,
maledicendo tra sé il ritardo dello zio Ota e il fatto di
non averlo aspettato.
Nulla.
Attese, controllando i dintorni.
Poi, all’improvviso, la sensazione svanì.
«Hey Sozou!» chiamò una voce.
Era Kenji, ancora in alto, sulla strada, affiancato da Ota e
Shinya.
Dèi santi, il moccioso s’era aggregato di
nuovo… prevedeva
guai.
«Ecco dov’eri» esclamò il suo
migliore amico, muovendosi più
vicino, ma restando sulla strada. Lo vide stringere gli occhi e farsi
guardingo. «Che è successo? Perché hai
la bokken―»
«Ve lo spiego dopo. Ora andiamo?»
Gli altri annuirono e, mentre scendevano con qualche agile
balzo al suo livello, Sozou fu abbastanza misericordioso da fermare uno
Shinya
ruzzolante.
«Ma si può sapere come fai tutte le volte a non
farti
scoprire dai tuoi? Sono le sei, per la miseria.»
«Tutto cervello» rispose il bambino, orgoglioso dei
suoi
quattro anni di esperienza.
«Povera zia Tsubame» commentò Kenji.
«Hey, stai parlando di mia madre!»
«Lo so» fu la risposta, accompagnata da
un’alzata di spalle.
E il gruppetto cominciò a muoversi di buon passo lungo il
canale, quella mattina azzurro e tranquillo come il cielo.
Quando furono abbastanza
addentro alle campagne che ancora
circondavano la frenetica Tokyo, lasciarono la riva e tagliarono per i
campi, fino
a un boschetto. Non erano molto lontani dal Fuji, l’aria era
più umida, ma il
posto tranquillo ― lontano dalle vie di comunicazione.
Sedettero nella radura situata all’interno ed emisero un
sospiro collettivo.
«Comincio a essere un po’ stufo di questa
vita» commentò
Shinya, arrampicandosi in braccio allo zio.
Kenji balzò in piedi e cominciò a scaldarsi i
muscoli,
mentre gli altri carburavano. «Nessuno ti obbliga a
venire» commentò,
piegandosi e toccando terra coi palmi aperti. «I bravi
bambini dovrebbero
dormire fino all’ora di pranzo.»
«Balle!» rimbeccò l’altro.
«E poi non sono un bambino. E
neanche potreste fare meno di me, visto che porto io la
sakabato!»
«Si dice “fare a
meno” di qualcuno, Nyannya»
ridacchiò il rosso, buttandosi in verticale coi piedi ritti
al cielo. «Comunque
ti informo che sarei capacissimo di recuperarla da solo, se volessi.
Conosco
bene casa tua.»
«Ma non puoi! Ci vuole il mio permesso.»
Kenji rimase su una mano sola, coda e maniche ancora più
visibili.
«Permesso?»
«Sì» precisò Shinya,
appoggiandosi al petto di Ota. «La
spada è mia dopotutto.»
Non fu difficile vedere il volto di Kenji rabbuiarsi. Sozou
e Ota, che avevano pensato ai fatti loro senza degnare il battibecco di
molta
attenzione, tornarono alla realtà con un misto di noia e
disperazione.
Non di nuovo.
«Quella spada è di mio padre» disse
Kenji tra i denti,
rimettendosi in piedi come una molla. «Quando sarò
pronto tuo padre smetterà di
tenerla in prestito e la erediterò io,
com’è giusto che sia.»
«Sei un bugiardo.»
«Prego?»
«Lo zio Kenshin l’ha regalata al mio
papà per il genku…
ginpuk…»
«Genpuku» suggerì gentilmente Ota.
«Sì, il genpuku. Quindi è sua e la
erediterò io!»
Kenji smise di stirarsi le braccia e lo incenerì con lo
sguardo. «Ripetilo.»
«Lo ripeto eccome!»
Ma non appena il rosso ebbe fatto un passo avanti, con tutta
l’intenzione ― sembrava ― di colpire il piccolo Shinya, Sozou
s’alzò e Ota levò
una mano per fermarlo.
«Adesso basta, tutt’e due.»
Kenji aprì la bocca per ribattere, poi la richiuse e fece
spallucce, allontanandosi.
«Peggio per lui quando se ne renderà
conto.»
Andò al centro del prato e cominciò a fare dei
piegamenti.
Gli altri tirarono un sospiro di sollievo, soprattutto Shinya che, per
quanto
coraggioso si professasse, era pur sempre costretto in un corpo sotto
il metro
di altezza. Sozou guardò il migliore amico contare
rabbiosamente ogni
movimento, poi l’orologio da tasca di sua madre, infine
s’apprestò a far
riscaldamento.
«Tu niente oggi, zio Ota?»
«No, grazie» rispose questi, agitando il braccio.
«Già fatto
al porto. Duecento barili di grano, e ce ne cresce.»
Il ragazzino inarcò le sopracciglia.
Lo zio Ota faceva i lavori più vari e faticosi, dallo
scaricatore di porto al garzone del panettiere, senza sentirsene
umiliato o
annoiato. Era strano, se si fermava a rifletterci: il più
giovane dei Sagara (o
forse avrebbe dovuto dire Higashidani, visto che quello era il cognome
preso
dal nonno dopo la rivoluzione) aveva fatto la prima comparsa a Tokyo
quattro
anni prima, chiedendo alla zia Kaoru di poter studiare alla sua
palestra.
Ed era bravo. Non come lo zio Kenshin o lo zio Yahiko, ma se
la cavava. Eppure, finita la sua preparazione di base, aveva
rispettosamente
ringraziato, salutato e cominciato a setacciare la capitale in cerca di
lavoro.
“L’insegnamento non faceva per lui” aveva
spiegato con un sorriso; e poi non
voleva rubare il lavoro agli altri.
Così adesso si barcamenava tra un palliativo e
l’altro, in
cerca di chissà quale ispirazione che potesse dirgli cosa
fare della sua vita.
Caro, tonto zio Ota… per essere un Sagara ― Higashidani ― ed
avere la stessa età alla quale suo padre aveva conosciuto lo
zio Kenshin, non
possedeva neanche la metà del suo fiuto per i casini. E non
cercava le risse.
L’influenza positiva dello zio Ken si faceva sentire, aveva
detto sua madre. Ma suo padre ancora non si consolava di non avere una
scusa
per gettarsi di nuovo, di tanto in tanto nella mischia.
Al che la mamma gli pinzava l’orecchio e affermava che
faceva benissimo anche da solo.
«Che hai da ridacchiare?» brontolò
Kenji, fissandolo da
terra.
«Niente, niente» sorrise. «Piuttosto,
vuoi allenarti un po’
con me? »
«Mh» rispose l’altro, tirandosi su.
«Non che ci siano
alternative, visto che qualcuno
s’è dimenticato la cosa più
importante»
e lanciò un’occhiata in tralice sulla destra.
«Ti ho sentito» informò Shinya Myojin
dalla sua postazione,
le braccia incrociate. «Ma ho dovuto
lasciarla.»
Sembrava preoccupato. Distolse lo sguardo, mentre suo zio
intrecciava alcuni lunghi fili d’erba tenendoglieli davanti
al naso.
«Ti hanno beccato?» chiese Sozou, temendo la
risposta.
Il bambino scosse la testa. «No, ma credo che papà
cominci a
sospettare qualcosa. L’altro giorno l’ha guardata
più a lungo del solito.»
Parlavano della sakabato, ovviamente, l’oggetto della
precedente discussione.
Kenji mise le mani sui fianchi.
«Oh, per l’amor del cielo. Sarà una tua
impressione.»
«Non lo era! Papà la usa poco e non la lucida
quasi mai,
ieri invece ha detto che c’erano dei segni e l’ha
lucidata!»
«Ma quali segni?! Guarda che la pulisco sempre quando la uso
qui, cosa vuoi che rimanga di sporco?»
«Dico solo quello che ho visto.»
«So usare la spada di mio padre.»
Sozou penso bene di interrompere prima che la cosa
degenerasse. Ancora.
«Dai Ken, lascia perdere. Siamo qui per divertirci, no? Ti
sfido a un incontro.»
«No, oggi non ne ho voglia, So. Preferisco esercitarmi coi
salti.»
E così fece, andando in fondo alla radura e prendendo fiato
per spiccare un primo salto, la bokken sollevata alta sulla testa, poi
in
profondità nella terra, accompagnata
dall’imitazione migliore che sapeva fare
del grido di un guerriero.
Ma l’amico non se la prese, perché, anche se era
raro che
Shinya e Kenji litigassero così in un giorno solo, lo schema
classico dei loro
incontri non differiva granché da quello: Kenji a provare e
riprovare le mosse
più accessibili dello stile Hiten Mitsurugi (o quello che,
dai racconti,
credeva tale), lo zio Ota a riposare contro un tronco o a simulare un
incontro
di pugilato se non aveva lavorato all’alba, Shinya mezzo
addormentato in un
angolo e lui, Sozou, a fendere l’aria con qualche annoiato
colpo di bokken, a
meno che il suo amico Himura non si sentisse in vena di un incontro
pseudo-competitivo.
Erano tutti diversi, sì, soprattutto lo zio coi suoi
diciannove anni così lontani dai loro (nove e tredici e
cinque), tanto che
qualche volta sospettava venisse solo per assicurarsi che non
combinassero
guai.
Ma non importava. Quello era il loro segreto e per nulla al
mondo ci avrebbero rinunciato.
«Purché i danni siano minimi»
precisò, fissando Kenji e le
sue acrobazie sempre più aggraziate. «Ma quando
glielo dirà, quella testa
dura?»
Il sole era già alto
― e loro sulla via del ritorno ― quando
videro per la prima volta un’immagine che sarebbe rimasta
impressa a lungo
nelle loro menti.
Era appiccicata a un muro solitario, ripetuta più avanti su
alcuni pali. La osservarono, ammutoliti per qualche istante davanti
alla strana
creatura che, traboccante di trine e pizzi, sembrava danzare a dorso di
cavallo
circondata da leoni ed elefanti. Poi lessero il titolo, immortalato a
grandi
caratteri rossi.
European
Circus comes to Japan!
Qualcosa di inglese lo masticavano.
A Tokyo arrivava il circo occidentale.
E loro, ignari, non stettero più nella pelle dalla
curiosità.
-
continua -
Nota: grazie Killkenny per la recensione ^^
|
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Capitolo 4 *** III - Sangue nell'arena ***
Nota:
un nuovo grazie a Kenny per aver recensito ^^ spero di sentire anche le
voci degli altri lettori! Sono curiosa di sapere cosa pensate della
storia ^^
Buona lettura
Capitolo III
Sangue
nell’arena
“Atarazu
sawarazu.”
Chi non si avvicina non
tocca.
Proverbio giapponese
Kenji sbuffò per
quella che doveva essere la ventesima
volta, battendo la terra con l’impaziente punta del piede.
«Allora, Inoi, si può sapere quanto ci vuole
ancora?»
«Non so quale fiocco scegliere!»
protestò una vocetta
all’interno, facendogli roteare gli occhi.
«Ma che importa? Mettiti il primo che capita, tanto non
diventi bella.»
La sorella comparve nello spiraglio dello shoji, irata.
«Cos’hai detto? Lo dico alla mamma!»
«E ti pareva. Spi-o-na.»
Ma non c’era bisogno d’informare la mamma,
perché Kaoru
aveva già sentito nell’uscire dalla cucina.
«Kenji, la vuoi smettere di tormentare tua
sorella?»
brontolò, infilando il laccio della borsetta al polso.
Il ragazzino si fermò un attimo ad ammirarla (era splendida
nel kimono a fiori color porpora, con l’obi e il nastro
rosa), poi piegò le
labbra in una smorfia.
«Arriveremo in ritardo.»
«Siamo perfettamente in orario, tesoro, non
c’è bisogno
d’ammazzarsi. Piuttosto potresti approfittare di questi
cinque minuti per
rassettarti un po’, sei tutto in disordine.»
Indicò il suo gi verde, storto, il
nodo malfatto degli hakama e in generale la sua figura, entrando nella
cameretta della secondogenita. «Vieni, Inoi-chan, ti trovo io
un bel fiocco.»
Kenji sbuffò di nuovo, allontanandosi a grandi passi.
Fidati di Inoi se vuoi essere al centro dell’attenzione. Da
quand’era nata quella mocciosa sua madre non faceva che
assecondarla, perché
“era l’adorabile femminuccia di casa”.
…E cos’avevano i suoi vestiti che non andava?
Un sospiro più impercettibile e cominciò a
rifarsi il nodo
alla vita, giusto per il quieto vivere.
Intanto scrutava il cielo. La giornata non era granché e
sembrava voler venire a piovere. Faceva anche più freddo di
una settimana
prima, quando lui e gli altri componenti della Triade (più
quell’imbucato di
Shinya) avevano visto i manifesti del circo. Finalmente un giorno di
festa per
poterci andare e rischiavano di buscarsi in testa la peggior grandinata
del
secolo!
Stava per finire il suo lavoro con un bel nodo quando sentì
un familiare formicolio alla nuca.
Si voltò di scatto, pronto a difendersi ― e si vide venire
addosso il ciliegio.
«Oof!»
«Kenji-chaan!»
Bonf. Buttò
fuori il fiato tutto in una volta, stordito, mentre il suo cervello gli
diceva
che non era stato il ciliegio a cadere, ma lui, a pancia
all’aria.
«Shinta» mugugnò.
Il bambino ― l’ultimo dei suoi fratelli, nato otto anni dopo
di lui ― lo guardò con grandi occhi viola.
«Sei pronto, fratellone? Eh, sei pronto?»
«Chiedilo a tua sorella…»
«Inoi-chan?»
Kenji lo sollevò per la collottola, emettendo
l’ennesimo
sospiro.
«Perché tutti a me i fratelli scemi?»
borbottò.
«E’ successo qualcosa?» li interruppe una
voce. Il ragazzino
volse il capo per trovare suo padre che usciva dal ripostiglio del
casotto da
bagno, portando quattro ombrelli rossi. S’affrettò
a posare Shinta e distolse
lo sguardo, prima che quello paterno potesse caricarsi di rimprovero.
«No, niente.»
«Shinta ti ha di nuovo sorpreso, eh?»
Lo guardò sorridere e ripulire la mezza pinta
dall’erba.
«Gliel’ho lasciato fare, tutto qui»
rispose, insultato.
Non vide però il divertimento negli occhi del padre
perché,
finalmente, Kaoru e Inoi stavano uscendo e chiudendo tutte le porte di
casa.
«Forza, andiamo!»
I bizzarri tendoni del circo
erano stati montati in un’area
periferica di Tokyo, liberata da poco grazie ad alcune demolizioni. A
metà strada
per arrivarci, nel posto convenuto trovarono Yahiko, Tsubame e Shinya,
vestiti
anche loro con un certo tenore.
Alla vista di Shinya tutto imbellettato, Kenji dovette fare
uno sforzo sovrumano per non scoppiare a ridere.
Kenshin notò comunque qualcosa di strano ed
osservò con
perplessità, chiedendosi se il figlio non avesse le coliche.
Quella mattina
aveva cucinato Kaoru, dopotutto.
«Sano ha detto che ci aspettano là»
informò il Maestro delle
Cento Mosse, mentre sua moglie si affiancava a Kaoru.
«Probabilmente lo
scansafatiche non voleva camminare troppo.»
«Dai, Yahiko…» fece lui, scuotendo la
testa.
L’altro sogghignò e batté le mani sulle
cosce.
«Avanti ciurma, march.»
Vai a capire la sua passione per la Germania. Doveva esser
stata l’influenza di Yutaro, sì, proprio quella.
Kenshin si sentì tirare per una manica e trovò
Shinta con le
braccine tese verso l’alto.
«Braccio.»
«Con piacere.»
Sorrise e lo sollevò, dicendogli di tenersi ben stretto.
«Uff. Sei diventato pesante, signorino, ma proprio.»
«Non è vero!» e una pioggia di pugnetti
cominciò a colpirgli
le spalle, strappandogli una risata.
«Mi dispiace, Shinta, mi dispiace. Papà si
arrende.»
Il piccolo ridacchiò e si rilassò contro il suo
petto.
Fu solo dopo esser stato affiancato da Inoi e aver incrociato
lo sguardo complice di Kaoru che Kenshin tornò a guardare
avanti, il cuore
gonfio di gratitudine.
Ecco, quella era la vita che aveva sempre sognato, che tutti
avrebbero dovuto vivere: famiglia, amici, cose belle da fare e da
vedere,
divertimento e tranquillità. Un’esistenza serena e
priva di traumi. Purtroppo
sapeva anche quanto fosse difficile da ottenere e difendere…
e ancor di più da
apprezzare. Solo chi aveva conosciuto grandi dolori sembrava esserne
capace ― e
questo, naturalmente, smorzava alquanto lo scopo principale della
preghiera.
E a proposito di saper apprezzare…
Colse di sfuggita l’occhiata irritata di Kenji, che
camminava avanti trascinando il proprio ombrello, e corrugò
la fronte.
«Perché non rallenti un po’, Kenji? Non
c’è fretta, siamo in
tempo.»
«Lo so, ma verrà a piovere.»
Quasi a confermare i suoi timori, una goccia beccò Kenshin
in piena fronte.
«Oro.»
Nella confusione l’allegra brigata non se n’era
accorta, ma
il cielo all’orizzonte era nero e stava viaggiando a grande
velocità verso di
loro.
«Oroo.»
«Che c’è, Kenshin?»
domandò Kaoru dalla retroguardia.
Lui si limitò a indicare sulle loro teste e tutti
soffocarono un’esclamazione, cogliendo l’odore
della pioggia in una folata di
vento.
Poi, un tuono.
«Sarà meglio sbrigarsi.»
L’ultima parola non aveva ancora lasciato la sua bocca che
Kenji si mise a correre, distanziandoli in pochi secondi.
«Hey, Kenji, aspetta!» esclamò Kaoru.
«Niente. Già andato» commentò
Yahiko.
Kenshin sospirò, risistemandosi Shinta in braccio e
accelerando.
A volte, suo figlio maggiore era un completo mistero.
Faticava a capire cosa gli passasse per la testa e, quando ci riusciva,
restava
sempre col dubbio di aver sbagliato in pieno. Da piccolino non era
stato
entusiasta di suo padre (altro mistero), ma dopo la nascita di Inoi
aveva
subito una metamorfosi sorprendente ― non poteva fare un passo senza
trovarselo
attaccato agli hakama, sempre pronto a giocare, a fare domande, a
consumarlo
finché, esausto, Kenshin non si buttava sul futon tra le
risa divertite di
Kaoru che allattava la bambina.
Poi, sempre senza spiegazioni plausibili, intorno ai dieci
anni aveva cominciato a farsi distante.
Adesso era difficile parlargli. Aveva sempre l’impressione
di addentrarsi in una foresta di spade.
Ma forse stava solo attraversando una fase ribelle. A
tredici anni si entrava nell’adolescenza più
turbolenta, o almeno così dicevano
(Kenshin non aveva avuto una vera adolescenza, come
poteva sapere?).
Comunque, di una cosa era sicuro: Kenji era un bravo
ragazzo.
Le sue pacate riflessioni furono interrotte dalla comparsa
del circo nel loro campo visivo, proprio dopo le ultime capanne. Gli
enormi
tendoni si stagliavano netti contro il cielo cupo, illuminati da
moderne
lampade a gas e festoni svolazzanti.
C’era già una discreta folla.
«Wow!» gridarono all’unisono i bambini.
Kenji
avanzò a grandi falcate nella folla, guardandosi
intorno in cerca dell’alta figura di zio Sanosuke. Trovare
lui significava
trovare Sozou, e trovare Sozou rappresentava grandi
probabilità di non esser
messo a far da guardia a Shinya e Shinta… come succedeva di
solito quando
uscivano coi Myojin.
Nel programma di oggi era previsto uno spettacolo speciale,
che non si sarebbe perso per nulla al mondo.
«Ti levi dalle scatole sì o no? O vuoi provare i
miei
pugni?»
Ah, ecco lo zio. Sempre così facile da individuare.
Si mosse in direzione del battibecco, spintonando via i
curiosi, e sorrise tra sé. Lo zio Sano era un tipo
impagabile: invidiava un po’
Sozou per quel padre quasi privo di inibizioni elementari. Con lui la
vita non
doveva essere mai noiosa… non come al dojo, pensò
rabbuiandosi, dove non
succedeva mai niente oltre le lezioni, i litigi con le sorelle e i
picnic
primaverili. Se Sozou avesse chiesto a suo padre di imparare il Futae
no
kiwami, era sicuro che sarebbe stato esaudito.
Accidenti a lui.
Raggiunse l’occhio del ciclone e, come previsto,
trovò lo
zio che minacciava un ometto impaurito, mentre la zia pagava i
biglietti con
aria rassegnata.
«Ciao zii! Ciao Sozou.»
Sano mollò la vittima e si pulì le mani.
«Hey barattolo.»
Il salvataggio del circo faceva passare l’appellativo.
Zia Megumi si voltò e fu più apprezzabile.
«Oh, ciao piccolo
Ken. Fai l’esploratore come al solito o sono arrivati anche
gli altri?»
«Nu-huh. Credo siano indietro.»
«Allora prendo un biglietto in più,
così entri subito con
noi.»
«Oh. Grazie!»
Fantastico! Adesso non l’avrebbero mai più preso
per
appiccicarlo ai mocciosi.
Sozou parve leggergli nel pensiero e accennò un sogghigno,
scuotendo la testa.
«Vieni, entriamo, signor simpatia. Se non avessi la faccia
che hai, dallo scrocco direi che sei figlio di mio padre.»
«Oro?» fece Kenji ― poi corresse la
stupidità del verso
borbottando un: «sì, magari».
L’amico lo guardò in modo strano, ma non disse
niente.
Oltrepassarono l’entrata, seguiti dai suoi genitori, e oltre
i lembi del
tendone scolorito trovarono un vasto ambiente conico popolato di
tribune, tutte
di legno.
«Venite, mettiamoci qua, ragazzi.»
Scorsero lungo uno dei piccoli corridoi semicircolari e occuparono
una delle file ad altezza mediana, né troppo lontano
né troppo vicino
all’arena.
«Tenete i posti» raccomandò Sanosuke,
premurandosi di alzare
la voce e guardare male due ragazzotti che stavano per sedersi.
«Io vado
incontro a Kenshin e gli altri.»
Megumi annuì. Kenji e Sozou invece si lanciarono in
un’animatissima, bisbigliata conversazione.
Lo spettacolo cominciò poco dopo, quando gli Himura e i
Myojin si furono accomodati, i bambini schiamazzanti stretti in mezzo.
I lembi del tendone furono chiusi, calando l’ambiente nella
penombra.
Il vocio della gente si fece impaziente.
Poi, all’improvviso, una voce.
«Signore e signori!»
Al centro della scena si accese un anello di fiaccole alte.
Dalla platea si levò un coro di esclamazioni.
Shinta e Shinya lanciarono dei gridolini.
«Mesdames et
messieurs!»
Finalmente videro chi aveva parlato. Era un ometto basso,
tarchiato, coi baffi neri arricciati sulle labbra e gli occhietti da
furetto
puntati su di loro.
«Ladies and
gentlemen» terminò, allegro. «Vi
dò ufficialmente il benvenuto al grande
Circo Europeo!»
Fece un inchino e, mentre si raddrizzava, dalle quinte
emersero a passo di corsa cavalli bianchi e marroni bardati di grandi
pennacchi, accompagnati da musica e domatori.
I colori erano intensi e abbaglianti.
«Wow!»
Kaoru e Tsubame batterono le mani e si sorrisero, mentre i
bambini cominciavano a indicare questo e quello e Kenshin osservava con
curiosità.
«Parla bene il giapponese» disse, osservando il
presentatore
che si ritirava indossando la tuba.
«Beh» rispose Sano, appoggiato alle panche
retrostanti (dove
per caso non s’era seduto nessuno).
«Non è il primo anno che vengono,
no? E poi una cosa così in grande stile non poteva affidarsi
ai gesti.»
«Sano…»
L’altro sghignazzò, poi fece un cenno col capo.
«Guardali come si divertono.»
Inoi, Shinta e Shinya erano appollaiati sull’orlo delle
panche, le bocche spalancate ― sempre pronte a qualche verso. Le mogli,
a parte
Megumi, non erano messe molto diversamente e anche Yahiko sembrava
apprezzare,
un sogghigno appiccicato in faccia.
Kenji e Sozou invece non si vedevano: erano all’opposto
della fila.
Kenshin colse con udito allenato il loro acceso confabulare
e sperò che poi non si lamentassero d’aver perso
il bello dello spettacolo.
E a proposito. Non doveva rischiare di fare lo stesso.
Si volse in direzione degli acrobati e infilò le mani nelle
maniche del gi, approfittando dello schienale conquistato da Sanosuke.
Le esibizioni si susseguirono con ritmo incessante, sempre
nuove, sempre interessanti ― a volte divertenti, altre decisamente
mirabolanti,
con acrobazie che pur non avendo nulla a che fare col kenjutsu
lasciarono
Kenshin impressionato.
Erano bravi, non c’è che dire.
L’ultimo spettacolo prima della pausa fu quello dei
“clowns”, poi si lasciò agli spettatori
la possibilità di andare a comprare da
bere o da mangiare.
Kaoru si alzò a sgranchirsi, sbadigliando.
«Che ore saranno?»
«Già, è vero. Il tempo è
passato così velocemente…» aggiunse
Tsubame.
«Credo che sia mezzogiorno passato» rispose
Kenshin. «Volete
qualcosa da mangiare?»
«Io sì» fece Sano.
Inutile dire che i bambini erano d’accordo.
«Allora vado un attimo. Kenji, Sozou, voi due?»
«No grazie, non abbiamo fame!» fu la risposta. I
ragazzini
sembravano ancora in piena consultazione di battaglia e
l’uomo di grattò la
testa, perplesso. Non si stavano divertendo? Che avevano di
così importante da
dirsi che non potesse aspettare il tragitto del ritorno?
Fu quando lo spettacolo ricominciò e l’ometto
tarchiato
tornò ad annunciare le esibizioni che capì.
«E ora, onorevoli signore e signori, un omaggio che il gran
Circo Europeo ha voluto offrire alla bella terra del Giappone, ricca di
fascino, tradizioni e storia gloriosa! Signore e signori, la Battaglia
dei
Samurai!»
Dalla folla si levò un grido di giubilo, accompagnato dal
battere unisono delle mani.
Kenshin e Yahiko si guardarono.
«Lo sapevi?»
«No. I miei allievi non me ne avevano parlato.»
Ma intuirono che qualcuno di loro aveva saputo,
perché Sozou e Kenji si sporsero paurosamente dai sedili,
strattonandosi a
vicenda.
Sano masticò l’astina dei suoi takoyaki, tenendola
in bilico
fra i denti.
«Cioè… vuoi dire con spade
vere?»
Kenshin non distolse gli occhi dall’arena e l’amico
notò che
ne tirava a occhio le misure.
«No, non credo. Lo spazio è poco e poi non
vorranno
rischiare che qualcuno si ferisca. Piuttosto…»
«Sì?» incoraggiò Yahiko,
riconoscendo la sua ruga di
preoccupazione. Dietro di lui, Kaoru, Megumi e Tsubame lanciavano
occhiate di
vago disagio.
«No, niente.»
«Oy» insistete Sano.
Kenshin scosse la testa.
«Beh, è solo un gioco»
commentò allora Yahiko, per
distendere l’atmosfera. «Oltretutto lo fanno degli
occidentali, sarà
sicuramente ridicolo.»
Ma non era quello a preoccupare Kenshin. Lanciò
un’occhiata
al figlio. Per quale motivo Kenji aveva atteso con tanta impazienza
quel
numero? Era davvero solo interesse per il kenjutsu, se a stuzzicare la
sua
curiosità era il termine “battaglia”?
Non ne vedeva abbastanza di incontri, abitando
in una pale― oh, basta.
Stava diventando paranoico, sul serio.
Cercò di rilassarsi, ma trovò sempre
più difficile il
compito a mano a mano che familiari figure armate sfilavano
nell’arena,
ponendosi in due file frontali.
La camminata non era quella dei veri samurai, ma sapeva
ancora riconoscere l’esperienza. Quelle persone dovevano
essere schermidori
europei “riadattati” allo scopo.
L’osservazione contribuì a metterlo più
a suo agio. Finché
non vide le ultime due figure.
Portavano delle maschere tradizionali, come gli altri, ma
erano giapponesi. Senza ombra di dubbio.
Dei veri…?
«Tanti anni fa» rimbombò la voce del
presentatore «alla fine
del grande 1867, quando ormai le forze dei guerrieri giapponesi erano
allo
stremo, si combatté la battaglia decisiva che
portò alla definitiva caduta
dello shogunato…»
Kenshin spalancò gli occhi.
La caduta dello shogunato.
E quella era… la battaglia di Tobafushimi.
«Da una parte si schierarono i Patrioti…»
«Vogliono davvero mettere in scena quello?»
bisbigliò
Yahiko, e la sua voce sembrò altissima nel silenzio
circostante.
Kenshin strinse i pugni.
«Sono cose passate, Yahiko» rispose. «Le
persone che sono
qui non le hanno mai vissute.»
«Tu le hai vissute. E non sei
l’uomo più vecchio qui
dentro. Semplicemente, sono dei cafoni che non sanno
scegliere.»
«Shh!»
«…in mezzo ai quali, si racconta ci fosse un
assassino di
leggendaria forza e astuzia. E
dall’altra…»
Non c’era più tempo per discutere. Prima che le
luci si
abbassassero e cominciasse un familiare suono di tamburi, Kenshin ebbe
una
breve visione del viso confuso di suo figlio.
Oh no. No, no, no.
Perché proprio quello? Non
gliel’avevano detto!
Quando aveva chiesto, era stato solo un combattimento
qualsiasi, avulso dalla storia.
E adesso suo padre faceva quella faccia.
«Casini in vista.»
«Ormai è tardi, dai, goditi lo
spettacolo» esclamò Sozou,
indicando l’arena.
I finti samurai avevano estratto lentamente le spade,
accompagnati dal ritmico cadenzare dei tamburi, e ora le impugnavano
davanti a
sé.
«Hey, non sono degli scemi.»
«Ah» annuì Kenji.
Stava già scordando tutto il resto, attirato dal riflesso
metallico delle lame.
Un momento.
«Porc!» sentirono bestemmiare lo zio Yahiko, tirato
poi giù
da qualcuno. «Ma sono di metallo.»
«Non importa» la voce di suo padre, seria.
«Stiamo a vedere
e basta. E solo un circo.»
«Accidenti» bisbigliò Sozou, guardando
Kenji negli occhi.
Poi si sorrisero. E soffocarono un “wow”.
Avrebbero visto, finalmente. Avrebbero saputo cosa voleva
dire combattere sul serio (o quel che ci andava più vicino)
e saputo quali
erano le estreme conseguenze del loro progetto.
Avanti, pensò Kenji, stringendo forte gli
hakama.
Poi il tamburo diede un colpo assordante.
I samurai gridarono.
E il mondo fu cancellato dalla danza dei corpi e delle
spade, sul cui filo le torce gettavano un brillante lume rossastro.
L’orologio
del quartiere batteva le due quando la gente
cominciò a uscire, attardandosi nei pressi dei tendoni per
parlare con vecchie
conoscenze o acquistare qualche ricordino. La naturale calca trattenne
gli
Himura, i Sagara e i Myojin più di quanto avrebbero voluto,
liberandoli solo
dopo un lungo spingi e urta contro il quale neanche Sano aveva
più energie.
E ti pareva che si potesse finire in bellezza.
Lanciò un’occhiata agli altri adulti, tutti
impegnati coi
bambini impauriti.
Non erano gli unici.
«E’ stato terribile» disse una donna poco
lontana con
un’amica, stringendo al petto una bimba.
«All’improvviso, la spada si è
spezzata e la scheggia ha colpito un samurai vicino―»
«…sangue dappertutto…»
«…e quel
pover’uomo…»
Sanosuke si passò una mano nei capelli, chiedendo
silenziosamente a Megumi cosa fare. Forse gli altri avrebbero preferito
tornare
a casa e riposare, ma farlo con quell’atmosfera ―
notò il capo chino di Kenshin
e la faccia bianca di Sozou e gli occhi pieni di lacrime del piccolo
Shinta ―
avrebbe solo peggiorato le cose.
Hm.
Idea.
«Oy, gente.
Che ne dite di fare un passo all’Akabeko? Oggi Tae ha portato
il
ritrattista.»
Tsubame sorrise con aria di scusa.
«Uhm, mi dispiace signor Sanosuke, ma…»
«Avanti. Offro io!»
Certo, dopo che si fossero ripresi dallo shock,
naturalmente.
La visita all’Akabeko
si rivelò vincente come aveva previsto
Sano. Il tipo pagato per esser l’attrazione del giorno era un
bravo
disegnatore, specializzato nelle caricature.
Quelle buffonate deliziarono i bambini e fecero dimenticare
ai più piccoli la brutta esperienza, anche se alleggerirono
i portafogli dei
genitori.
I grandi erano un altro discorso, però.
Kenshin guardò i Sagara allontanarsi, con Sozou ben inserito
tra i genitori e attaccato alla mano di suo padre, una cosa che non
faceva da
anni.
Ma era naturale, perché era solo un bambino.
E nella categoria rientrava anche qualcun altro.
Si volse verso la famiglia, cercando Kenji. Se ne stava un
po’ in disparte, con l’ombra della frangia sugli
occhi e le mani nascoste nelle
aperture laterali degli hakama, dove due bozzi indicavano che le
stringeva a
pugno.
Avrebbe voluto parlargli, rassicurarlo e rassicurarsi. Ma
non era ancora il momento.
«Torniamo a casa?» disse Kaoru, incurvando la
schiena per
bilanciare il peso di Shinta.
«A-ha» annuì.
Si mossero piano per le vie del loro quartiere, nella luce
sbiadita del tardo pomeriggio. Il maltempo aveva lasciato posto a un
cielo
slavato, perso nell’azzurro della sera incipiente. La gente
era poca.
Quando oltrepassarono un vicolo cieco non notarono il
gruppetto di ragazzi appoggiati al muro ― lì notò
invece Kenji, rimasto
volutamente indietro.
«Hey, pel di carota.»
Fece una smorfia. Non loro.
Qualsiasi cosa ma non loro.
«Cos’è, non ci senti, mezza
cartuccia?»
Sicuri che la sua famiglia aveva svoltato l’angolo, quattro
ragazzotti uscirono dal buco in cui s’erano annoiati tutto il
giorno e
s’aprirono a ventaglio. Avevano tra i quindici e i
diciassette anni, abiti
consunti, delle bokken alla cintura (certo recuperate
dall’immondizia) ed erano
tutti più alti di lui, per non dire più muscolosi.
Gli scarafaggi venivano dal quartiere vicino, di cui si
ritenevano i padroni; ultimamente bazzicavano anche lì,
mettendo sempre i
bastoni fra le ruote alla Triade.
Storie di bulli, insomma, e in un altro momento Kenji
avrebbe anche potuto dar loro corda. Ma oggi non era in vena.
Considerò con vaga repulsione i loro capelli fangosi.
«Andate a quel paese.»
«Dove vai?!»
Evitò saltando un affondo e ricambiò subito con
un pugno di
dorso, buttando indietro l’aggressore.
Quello atterrò sul sedere, guaendo.
«Vi ho detto di andare a quel paese. Anzi, perché
non la
smettete per sempre e vi rendete utili invece?»
Il più grande, l’unico diciassettenne del gruppo
scoppiò in
una grassa risata. Poi batté la bokken sul palmo della mano,
come se fosse un
comune manganello.
«Senti senti, allora ti sei proprio montato la testa, eh,
Himura? “Renderci utili”… cominceremo
togliendo di mezzo te e le tue spacconate
eroiche, che ne dite ragazzi?»
«Sì!»
«Questo quartiere è nostro, Himura!»
rincarò un altro, basso
e coperto di graffi.
Kenji corrugò la fronte. Dannazione. Non voleva arrivare
alle mani, primo perché gli mancava una bokken, secondo
perché presto qualcuno
(probabilmente suo padre) sarebbe venuto a cercarlo, terzo
perché… perché il
suo spirito combattivo era pari a zero.
L’incidente al circo lo aveva un po’ sconvolto. Una
cosa era
ascoltare storie di mitiche battaglie al chiar di luna,
un’altra era vedere… e
sentire l’odore di sangue.
Tanto sangue.
Lo stomaco gli fece una capriola e lui s’apprestò
a sparire.
Per fortuna era veloce.
Sennonché―
«Kenji!»
La voce lo fece voltare di scatto, allarmato.
Sua sorella veniva verso di loro al trotto, la coda rosso
castagna ballonzolante sulle spalle.
«Che stai facendo, sbri… ga…
ti.» Rallentò, fermandosi a
pochi passi da lui. «Che succede?»
La vide irrigidirsi e si ricordò che lei non aveva cinque
anni ― non si dimenticava presto delle cose brutte.
«Arrivo, tu torna indietro» rispose, assumendo
d’istinto una
posa difensiva, gli occhi puntati sulla banda.
«La mamma ti vuole subito» puntualizzò
lei, «e anche papà.»
«Sì, fai come ti dice la sorellina, pel di
carota»
canzonarono i teppisti, sghignazzando. «Torna da
papà e mamma e fatti
rimboccare le coperte, tanto sei solo un moccioso!»
Strinse i denti.
«Non sono io quello che è caduto nella polvere ben
venti
volte, Tatsuya.» Dedicò loro la faccia
più derisoria che riuscì a mettere
insieme in quella situazione. «Fossi in voi mi metterei a
lavorare, perché come
spadaccini siete negati.»
E si voltò con deliberata calma, contando i passi che lo
separavano da Inoi.
«Grr… vedremo dopo questo chi è
negato!»
S’irrigidì subito, pronto a scattare.
Poi lo vide: Tatsuya levava la bokken per lanciarla. A lui?
Inoi!
Fu un attimo.
L’istintiva pressione sul piede destro, lo scatto, Inoi. La
vecchia bokken rimbalzò in una pozzanghera, spruzzando acqua.
E lui stringeva sua sorella al petto, ormai in fondo alla
strada.
Lottando per non ansimare, digrignò i denti e rivolse loro
uno sguardo inferocito.
«Me la pagherete.»
Poi sparì.
I quattro bulli guardarono il punto dov’era stato fino a un
secondo prima, a bocca aperta loro malgrado.
«E’ migliorato» inghiottì il
decenne.
Gli altri giovani annuirono, preoccupati.
«Se continua così, non ce lo toglieremo
più di torno. C’è
pure quell’Higashidani…»
«Cosa facciamo, capo?»
Tatsuya emise una risata gutturale.
«Non preoccupatevi. Il mio vecchio, che ci crediate o no,
prima di scolarsi l’ultima bottiglia disse qualcosa di
sensato: ci sono vari
modi per eliminare i fastidi. Quello fisico è il
più comodo, ma quello
familiare stavolta farà al caso nostro.»
«Cosa vuoi dire?»
«Ho scoperto una cosa piuttosto interessante sulla
Triade.»
Kenshin rifece la strada con
calma, cercando di digerire
quanto aveva visto.
Prima l’irrequietezza e la curiosità morbosa verso
il suo
passato. Poi la battaglia di Tobafushimi. E adesso questo. Conosceva
quella
banda, dava parecchi problemi alla polizia.
Avevano quasi colpito Inoi.
Era stato sul punto di saltare e afferrarla, ma era stato
battuto sul tempo. Kenji…
Cos’aveva a che fare con quella gente suo figlio?
Da quando era così straordinariamente veloce?
Quante altre cose non sapeva di lui?
Aprì il portone di casa e scivolò dentro,
silenzioso.
Non vedendolo tornare aveva mandato Inoi a cercarlo, poi
s’era preoccupato e aveva preferito raggiungerli di persona:
non si sapeva mai
quali sorprese potesse riservare Tokyo. Era arrivato appena in tempo
per vedere
la fine dell’alterco, che doveva esser stato molto breve ―
troppo breve perché
l’ostilità potesse nascere da una conoscenza
casuale. Kenji doveva conoscerli
bene.
Ecco perché non vedeva di buon occhio il suo continuo
girovagare. Lo esponeva a ogni tipo di esperienza.
Aveva solo tredici anni.
E poi… prima di tornare al loro quartiere, quei ragazzi
avevano detto una cosa strana. Un nome, “Triade”.
Prendendo come punto di partenza la figura di suo figlio, il
suo cervello accostò automaticamente quelle del piccolo
Sozou e di Ota, che
erano sempre insieme a lui.
All’improvviso seppe di vedere qualcosa che era stato sotto
il suo naso per mesi.
Santo cielo.
Adesso sapeva di dovergli parlare.
- continua
-
――――――――――――――――――――――――
*Proverbio:
“chi non si avvicina non tocca” sta per
“chi non si espone non viene
coinvolto”.
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Capitolo 5 *** IV - Il suo segreto ***
Nota
dell'autrice:
chiedo scusa per la lunga attesa, tra una
cosa e l'altra il tempo è scivolato via... poi si
è messo di mezzo il ritorno della musa vampirica... Mi
raccomando, fatemi sapere cosa pensate del seguito della storia ^^
ancora
grazie enorme a Kenny!
--------------------------------------------
Capitolo
IV
Il
suo segreto
“Oni
ni kanabo”.
Un bastone di ferro
all'orco.*
Proverbio
giapponese.
«Kenji, non
vai a
dormire?»
Gli carezzò i capelli,
quasi sciolti sulle spalle, e
sorrise. Amava i suoi capelli. Erano diventati identici a quelli di suo
padre,
rossi, lisci e un po’ trascurati, sempre legati sotto la
nuca. E cosa di lui
non gridava “Kenshin”, dopotutto?
Le uniche differenze tra loro erano
gli occhi e il
carattere.
«Aspetti per fare il
bagno?»
«Sì.»
«Sarai stanco,
perché non lo fai domattina?»
«Non preoccuparti, mamma,
farò presto.»
Rimase ancora un attimo, disturbata
dalla netta sensazione
che qualcosa non andasse. Poi notò la sua occhiata e
pensò che forse voleva
parlare con Kenshin.
«D’accordo»
gli stampò un bacio in fronte.
«Mamma!»
«Beh, che
c’è?» gli fece una linguaccia,
concedendosi di
giocare ancora un po’ prima che fosse troppo cresciuto.
«Non ci ha visti
nessuno, no? Buonanotte!»
Kenji storse la bocca in un mezzo
sorriso, sfregandosi la
faccia.
«‘Notte.»
Cos’è
questa mania dei bambini di abbreviare tutto?
si chiese poco dopo, mettendosi a letto. Troppa fatica dire
“buonanotte”?
Non
appena sua madre ebbe chiuso lo
shoji, Kenji tornò a
guardare in direzione dei tetti di Tokyo, o almeno quel poco che il
muro di
cinta lasciava intravedere.
Kenshin non era il solo a dibattersi
fra nozioni nuove.
Fino a quel momento, Kenji non aveva
capito quanti
potessero farsi male giocando al gioco cui aspiravano lui e i suoi
amici.
Non parlava dei protagonisti (si
toccò piano la spalla
dov’era stato colpito dalla bokken di Tatsuya). Rivide il
pallore sul volto
della sorella, l’impavida e impudente Inoi, e il fianco
trafitto del samurai
circense.
Quella sera, anche il viso di sua
sorella avrebbe potuto
imbrattarsi di sangue.
E sarebbe stata colpa sua.
Forse perché non
sono abbastanza forte.
Si appoggiò a una delle
travi di legno, respirando a fondo
l’aria pungente.
La Triade non era una banda di
incoscienti.
«Sono stufo di
questa gente. Sozou, Ota, volete darmi una
mano?»
Al di là dei casini che
talvolta combinavano, il loro
obiettivo era proteggere quante più persone possibili;
s’erano solennemente
promessi di lavorare per raggiungerlo. Da soli, naturalmente. Guai se
qualcuno
li avesse scoperti: avrebbe significato la fine di tutto, coi genitori
che si
ritrovavano lui e So.
Soprattutto considerando
l’altro desiderio di Kenji, un
segreto che nessuno ― soprattutto suo padre ― doveva scoprire.
Il fiume millenario della spada non
avrebbe mai cessato di
scorrere.
Ma oggi… per la prima
volta esitava.
Davanti al grido lancinante di
quell’uomo, davanti alla
pozza di sangue che si allargava nella sabbia e al panico che pervadeva
la sala
― denso, elettrico e nauseante ― Kenji aveva pensato di non essere
pronto.
Forse doveva aspettare.
Però,
ribatté una voce dentro di lui, se avessi
aspettato, adesso Inoi potrebbe avere il naso
rotto… o peggio.
Ma non ci sarebbe stato pericolo: non
avendo mai dato
fastidio a Tatsuya, quella sera non sarebbe stato trattenuto.
Sarebbe stato diverso, se
avessero attaccato un’altra
ragazza? O un’anziana? O un bambino? E sai che lo fanno. Sai
pure che non hanno
bisogno di un motivo per maltrattare la gente.
Era compito della polizia. Lo diceva
sempre suo padre.
La polizia non
può pensare a tutto. Dopo vent’anni ancora
non è sufficiente!
Ota, allora.
…ma
perché ti fai questo?
Esasperato, sbatté un
pugno sul pavimento di legno.
Dannazione!
Cosa doveva fare? Voleva aiutare.
Voleva combattere. Perché
retrocedere?
Erano le cose che―
«Ah, dovresti andarci
piano, Kenji, dovresti proprio. Quel
punto è sempre stato cedevole.»
Sobbalzò. Non aveva
sentito arrivare suo padre. Per quanto
s’impegnasse, ci non riusciva mai.
Mugugnò una risposta
affermativa e tornò a guardare il
giardino.
«Hai finito in
bagno?» chiese.
«Sì, ti ho
scaldato l’acqua.»
Quando tornò, avvolto in
uno yukata di spugna bianca e
impegnato a passarsi le mani nei capelli, suo padre era ancora in
veranda,
seduto a gambe incrociate. Accanto a lui c’erano una lanterna
e una scatola di
latta, aperta.
Perché lo aveva aspettato?
Forse voleva… fargli una
ramanzina per la faccenda dei
samurai?
In quel momento Kenshin lo vide (o
piuttosto, diede segno
di vederlo) e gli sorrise.
«Anch’io avevo
sempre i capelli pieni di nodi dopo un bagno,
quando li portavo lunghi» disse, mostrandogli un pettine.
«Se vuoi il sottoscritto
può darti una mano coi tuoi.»
“Il
sottoscritto”. Negli anni suo padre aveva gradatamente
perso quell’abitudine di riferirsi a se stesso, ma ogni tanto
tornava. Di
solito non era un buon segno.
Però
voleva pettinarlo, come faceva
sempre quand’era piccolo. Quella era un’offerta di
pace.
«Grazie»
rispose, sedendosi accanto
a lui.
«No, non
qui. La temperatura è
scesa, entriamo in casa.»
Raccolse scatola e
lanterna e si
mosse in direzione della sua stanza, quella più piccola, che
Kenji occupava da
quando era nato Shinta. Lui seguì, provando un misto di
anticipazione e
preoccupazione.
Nonostante la
quotidiana
ostentazione di freddezza e autosufficienza, adorava suo padre. Se solo
non
fosse nato Shinta, sarebbe stato ancora lui il suo preferito, ma
davanti agli
occhioni viola del bambino non c’era spazio per la
competizione.
E chissà
se avesse scoperto della
Triade…
Probabilmente gli
sarebbe preso un
colpo apoplettico. Dopo tanti anni di profilo basso per dimenticare e
far
dimenticare l’assassino Battosai, anche in modo da non
trasmettere idee troppo
avventurose all’esuberante figlio maggiore, detto figlio
maggiore andava in
cerca di grane. E imparava in segreto l’Hiten
Mitsurugi…
Sedette sul bordo del
futon, già
srotolato.
Suo
padre gli sedette
accanto, mettendosi
la scatola di latta sulle gambe e aprendola.
Solo
in quel momento
Kenji la
riconobbe: era il contenitore delle garze e dei disinfettanti.
Opporca―
«Cosa
fai?»
esclamò.
Sedette,
rigido, mentre suo padre
sorrideva quel suo sorriso
gentile ed enigmatico.
«Ti
controllo la
spalla.»
«La
mia spalla sta
benissimo» buttò fuori.
Aveva
visto. Aveva visto, aveva visto.
All’improvviso
tutto il
progetto di tenergli nascosta
l’esistenza della Triade sembrò solo una pia
illusione. Avrebbe dovuto sapere
che era solo questione di tempo.
«Meglio
controllare. Il
legno può lasciare dei brutti
segni.»
Ecco.
Così spariva ogni
ultimo dubbio.
Kenji
temporeggiò,
riluttante a riconoscere la sconfitta.
«Kenji,
togliti la manica
destra.»
Riconobbe
il tono. Lentamente,
valutando se poteva ancora
filarsela in qualche modo, gli diede la schiena e cominciò a
liberarsi metà
torso dallo yukata.
La
garza imbevuta era così
fredda che gli procurò la pelle
d’oca.
Stettero
così per un
po’, in silenzio, interrotto solo dal
gorgoglio del disinfettante periodicamente versato.
«C’è
una piccola abrasione, ma niente di grave» disse alla
fine suo padre, chiudendo la boccetta e riponendo la garza
inutilizzata. «Non
devi neanche fasciarla.»
«…»
«Kenji?»
«Sei
arrabbiato?»
«Più
che altro
sono curioso.»
Lo
guardò, chiedendosi se
aveva sentito bene.
«Che
cosa combinate voi
tre?»
«Noi―»
«Non
state cercando guai,
vero?» Lo sguardo di suo padre era
diviso tra la durezza e la preoccupazione e Kenji si sentì
un verme.
Ma
non ne aveva ragione, si
ricordò.
Tranne
forse una.
«Mi
dispiace per
oggi» disse senza aspettare. «Per quella
cosa al circo, io… non avevo idea che mettessero in scena
una roba simile.»
«Davvero?»
Non
mentire.
«Dei
samurai mi avevano
parlato alcuni amici. Ero curioso.
Ma se avessi saputo che inscenavano Tobafushimi non avrei
mai―»
Si
bloccò alla sensazione
di una mano sulle proprie. Era
consumata e piena di calli, e calda.
Suo
padre scuoteva la testa,
sorridendo.
«Oh
Kenji, non è
per quello. Non ha alcuna importanza. Una
semplice ricostruzione» per quanto ben inscenata e spruzzata
di sangue «non è
diversa da un discorso o un libro. Ripensare al passato rende solo
più bello
ciò che possiedo ora. Però» e qui lo
guardò con occhi che, se non l’avesse
conosciuto bene, il ragazzo avrebbe detto calcolatori,
«sarebbe un’altra cosa
se quel passato dovesse in qualche modo tornare.»
Kenji
distolse lo sguardo.
«Che
cosa combinate tu,
Sozou e Ota in giro?»
«Forse»
rispose
lentamente «qualche volta facciamo un po’
gli sbruffoni.»
«Ah.»
«Ma
lo sai, né
io né Sozou siamo delle violette!»
Quello
gli strappò una
mezza risata e Kenji si concesse a
sua volta una smorfia-sogghigno.
«Qui
non si tratta di
essere o non essere delle “violette”»
commentò suo padre, cercando di tornare serio.
«Stasera, quello che ho visto mi
ha preoccupato. Quei ragazzi per loro sfortuna sono dei poco di buono e
dovete
stare alla larga da loro. Nell’epoca Meiji queste cose sono
di competenza della
polizia.»
«La
polizia non
c’è mai» rimbeccò,
all’improvviso oscurato
dal ricordo di Tatsuya.
«Non
è una buona
ragione per creare una guerra di
quartiere.»
«Ma―»
«Piuttosto,
dovreste
preoccuparvi d’avere maggior cura di
voi stessi… e delle persone che vi stanno accanto.»
Proteggere
le persone care.
Kenji
rivide Inoi e sentì
una stretta allo stomaco.
«Ma
è quello che
stiamo facendo.»
«Sul
serio? A me sembrate
più interessati a menare le
bokken.»
«No,
non è
così!»
All’improvviso
i dubbi si
disperdevano, tornavano le ragioni
responsabili della prima decisione. L’ambizione, certo, la
filosofia della
scuola Kamiya Kasshin, certo, la scelta di vita
dell’assassino Battosai, il
sentire personale.
S’alzò
in piedi,
allontanandosi con la scusa di riporre
alcuni libri.
Avrebbe
voluto dire molte cose, ma
ebbe paura di tradirsi
più di quanto aveva già fatto.
«Non
è
così. Non andiamo in cerca di grane per il gusto di
farlo» anche se la loro missione era a suo modo esaltante.
«Dovete
stare lontani da
quei ragazzi.»
Ripensò
al sangue del
finto samurai, il suo grido. Faceva
paura.
«Sì.»
«Mi
dai la tua parola
d’onore che non fate giochi
pericolosi?»
Non
osò incrociare le dita.
«Niente
giochi
pericolosi.»
E
infatti non erano giochi: loro
erano serissimi. Anche se,
lo ammetteva, d’ora in poi sarebbero stati molto
più prudenti. Gli era stata
gettata in faccia la realtà con la forza di uno schiaffo.
Sentì
suo padre alzarsi,
diretto allo shoji.
«C’è
altro?» gli chiese sull’uscio. «Oltre
alla Triade,
intendo.»
Di
nuovo un brivido.
Ora
doveva mentire.
«No
papà.»
«Bene.
E’ meglio
pensare agli altri piuttosto che alla
spada. Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Pensare
agli altri…
In
quel momento, un qualcosa che
aveva sempre saputo si
impresse a fuoco nella sua mente, ferro incandescente su cuoio.
Ne sarebbero venuti disgrazie e
miracoli.
La
mattina dopo, all’alba,
Kenshin trovò un bigliettuccio
spiegazzato sull’uscio di casa, scritto da mano sconosciuta.
E
niente Kenji nel futon.
Stamane,
vieni al bosco del
Vecchio Tempio.
«Roonf.»
«Zio.
Zio!»
«Ranf.
Grrr…»
«Non
ho mai sentito qualcuno
russare come lui» commentò Sozou, le
mani sui fianchi. «A parte papà,
s’intende.»
«Non
importa, lascialo
stare» rispose Kenji accomodandosi
accanto al diciannovenne, le mani dietro la nuca. «Sono
stanchissimo anch’io.
Oggi non mi muovo.»
«Non
ti muovi?»
«Nh.»
«E
allora perché
siamo venuti? Io me ne restavo volentieri a
letto, sai.»
Il
rosso lo spiò con un
occhio celeste. «E come vi avvisavo?
Ieri non è stata una giornata proprio tranquilla. Non siamo
stati soli un
attimo.»
Calò
un silenzio ricco di
tensione.
«Sei
strano»
osservò Sozou con cautela.
Kenji
stavolta lo squadrò
bene.
«Strano?
Io? Chi
è quello che non impallidisce dopo quel che
ha visto?»
Il
giovane Sagara accennò
una smorfia.
«Per
metà
l’ho già metabolizzato.»
«Meta-cosa?»
Un
sospiro. «Superato. In
fondo, alla clinica ne gira
parecchio di sangue, anche se per ragioni diverse. E poi i miei ne
hanno voluto
parlare.» Sedette a sua volta nell’erba e si
distese. «Beh, dormiamo allora.»
Kenji
continuò a guardarlo
per un po’, basito, chiedendosi
chi dei due fosse figlio di un ex-assassino.
“Superato”?
Sozou
aveva quattro anni meno di lui, per la
miseria! A quest’ora, se un tredicenne aveva avuto seri
problemi a reggersi
sulle gambe, lui avrebbe dovuto trovarsi ancora sotto il futon, con gli
occhi
gonfi e il moccio al naso!
Scosse
la testa e decise di lasciar
perdere. Prima o poi
avrebbero approfondito, ne era certo.
Estrasse
dal cavo del tronco una
piccola sacca, accese il
solito fuocherello, poi lanciò una coperta a Sozou e si
coprì a sua volta,
prendendo un profondo respiro.
Se
pensate che avrebbero fatto molto
meglio a levar le tende
e tornarsene alle loro case, non avete considerato bene i soggetti. Che
gusto
c’era, infatti, ad avere un bivacco così bello e
non giocare mai ai viaggiatori
sperduti?
Ma
il sonno non voleva arrivare. Ne
avrebbe avuto bisogno,
perché quella notte i suoi occhi erano stati incollati tutto
il tempo sul
soffitto di legno, finché non era crollato due ore prima del
canto del gallo.
Troppe
cose per la testa.
Se
un ragazzo era uomo a quindici
anni, lui aveva ancora due
anni per decidere ufficialmente della propria vita.
Da
bravo bambino prodigio, che aveva
padroneggiato lo stile
Kamiya Kasshin a nove, si sentiva già in ritardo.
Meglio
pensare agli altri
piuttosto che alla spada.
Suo
padre aveva inteso
“violenza” per “spada”, non era
stupido. Ma per proteggere gli altri… quali
abilità gli restavano? Era
cresciuto in una palestra; era figlio di abili ― abilissimi ―
spadaccini; aveva
un dono speciale per qualsiasi cosa riguardasse la spada (o meglio,
ufficialmente shinai e bokken). E la persona che più
ammirava al mondo, anche
se non l’avrebbe mai ammesso, perché ora stava
cercando di chiuderlo sotto una
campana di vetro, aveva fatto del proteggere gli altri con la
spada il
suo mezzo di espiazione.
Ma
non toccava un’arma da
anni, da quando Kenji era piccolo.
Perché?
Possibile
che si fosse convinto che
usarne una fosse ormai
fuori discussione? Dopo tutti quegli anni?
Probabilmente
non passeggiava
più abbastanza per Tokyo. Non
aveva le idee ben chiare della spazzatura che bazzicava in giro.
Anche
tra i poliziotti.
Lui
però girava,
esplorava, vedeva, e aveva idee ben chiare
a proposito.
Strinse
inconsciamente la mascella,
voltandosi su un fianco
per attutire il russare di Ota.
Non
importava quel che poteva
succedergli in futuro (il
sangue del samurai circense si allargò nella sabbia), si
sarebbe preparato a
quella vita. Presto sarebbe stato pronto. Non c’era
alternativa: se non avesse
imparato, forse la prossima volta Inoi sarebbe stata colpita; lei o
Shinta, o
sua madre, o Sozou o un bambino qualsiasi, o anche quel piccolo scemo
di
Shinya.
Non
sapeva ancora esattamente in
quale strada sarebbe
sfociata quella scelta, ma certo Kenji Himura ce l’avrebbe
fatta.
E
sarebbe stato rispettato da tutti
per le sue azioni.
Sì,
ecco.
Quello
era il modo giusto di pensare.
Tornò
a giacere sulla
schiena, un sorriso sicuro sulle
labbra.
Sì,
però… corrugò la fronte. Ora doveva
essere molto più
prudente, sia sul piano fisico sia sul piano organizzativo. Gli adulti
sospettavano qualcosa. Aveva un pessimo presentimento.
«Meno
male che Shinya era
troppo sconvolto per venire, oggi»
disse a mezza voce. «Dovrò trovare una sostituta
per la sakabato, prenderla
tutte le volte dall’armadio di zio Yahiko sta diventando
troppo pericoloso. Mio
padre ha saputo della Triade.»
Subito
Sozou
s’alzò a sedere. «Cosa?»
«Mhmh.»
«E
come?»
«Ieri
ho incontrato Tatsuya
e la sua ghenga. Hanno quasi
sfigurato Inoi e lasciato un regalino sulla spalla a me.
Papà ha visto e
sentito tutto, o quasi.»
«Accidenti,
Kenji!»
«Hey,
mica
gliel’ho detto io di venirmi a cercare!»
«Avresti
potuto lasciarli a
Ota, che non ha genitori cui
sottostare… per non parlare di sei anni in più di
noi.»
«Mica
è il genio
della lampada, non lo posso chiamare a ogni
emergenza che c’è.»
«Beh,
potevi―oh-oh.»
Kenji
lo fissò,
interdetto. «Che c’è?»
«Credo
che il tuo piano di
prudenza oggi vada a monte.
Guarda chi c’è» e il ragazzino
indicò un punto alle sue spalle.
Là,
pian piano, tra
l’erba alta avanzava Shinya. Trascinando
la sakabato.
Kenji
lo fissò a bocca
aperta, inorridito.
«Che
diavolo ci fai tu,
qui?!»
Ormai
a pochi passi, il bambino
s’indignò.
«Ma
che vuoi? Dovresti
ringraziarmi, visto che ti ho fatto
un favore!» e gli mollò la spada sui piedi,
facendolo sobbalzare.
Per
un momento, il più
grande si ricordò quanto l’oggetto
pesasse e provò una punta d’involontaria
ammirazione per il tappo. Era piccolo,
ma certo non era debole.
Sospirò
e raccolse.
«Pensavo
fossi a piangere
davanti a un futon bagnato.»
«Io
non faccio la
pipì a letto» commentò Shinya, scuro in
volto. «Ho solo fatto un brutto sogno, mi sono svegliato e ho
trovato la
sakabato vicino al tavolo.»
Kenji
e Sozou si guardarono.
«Un
sogno sul
circo?» chiesero.
«Come
fate a
saperlo?» Occupò il posto vicino a Ota, che si
era svegliato, e piegò le labbra
all’ingiù. I suoi capelli stavano più
ritti
del solito. «Il circo era diventato bruttissimo, tutto buio e
rumoroso. Non
credo di volerci andare di nuovo.»
Kenji
sogghignò.
«Te
l’ho detto
che sei un piascialetto.»
«Vai
a farti
friggere!»
Si
stirò, poi
soppesò la sakabato, guardandola amorevolmente.
«Oh
beh. Già che
ci sei, tanto vale che ti usi no? Ota…
andresti a fare la guardia al bivio del sentiero?»
Il
ragazzo parve perplesso, ma non
chiese nulla.
«Volentieri.»
Kenji
lo guardò
allontanarsi e si mosse in direzione
opposta, verso il centro della radura, cominciando con un rapido
riscaldamento
di muscoli. Con Ota a sentinella, poteva sentirsi tranquillo.
Recuperò
dai ricordi il
kata più difficile della scuola
Kamiya Kasshin e se ne lasciò lentamente assorbire.
Ma
aveva tralasciato un particolare
importante, che Sozou
non mancò di notare.
«Shinya-chan,
hai detto che
la spada era in cucina?»
«Uh?
Sì. Quasi
sotto il tavolo, dove mangio io.»
«Di
solito lo zio Yahiko la
tiene nell’armadio.»
«E’
vero» il bambino sbatté gli occhi.
«Dev’essersela dimenticata
prima di andare alla palestra. Stamattina era stanco, l’ho
visto. Mamma lavava
in giardino, così ho pensato fosse un’ottima
occasione.»
Il
giovane Sagara si
poggiò le nocche sulla bocca, teso.
C’era qualcosa che gli sfuggiva. Zio Yahiko non lasciava mai
la spada
incustodita, soprattutto dove potesse raggiungerla un bambino. Di
solito
prenderla richiedeva al piccolo Shinya una buona dose di fortuna e
più volte
avevano dovuto aiutarlo, distraendogli i genitori.
Troppo
facile.
E
proprio quando zio Kenshin aveva
scoperto della Triade…
All’improvviso
fu assalito
da un pessimo presentimento.
Anzi―
Il
suo istinto gli sussurrava
qualcosa.
Si
voltò e vide che Kenji
aveva finito il kata.
«Ken! Aspetta!»
Kenji
si posizionò al
limitare della radura, disciplinando
il proprio respiro.
Il
kata gli aveva fatto bene e si
sentiva sciolto,
rilassato.
Oggi
avrebbe provato una cosa nuova.
Già da un po’ voleva
combinare la fluidità del Ryu So Sen, che permetteva di
colpire i punti vitali
dell’avversario, con la corsa veloce…
chissà, forse questa era un’altra
tecnica, dotata di nome proprio, ma non è che avesse
qualcuno a spiegarglielo.
Comunque non importava. Se ci fosse riuscito, magari avrebbe potuto
concludere
col salto del Ryu Tsui Sen.
Preparò
la spada in quella
che, secondo il suo istinto, era
la posizione giusta.
Chiuse
fuori tutti i suoni, tutto il
mondo.
Poi
scattò.
Sozou
seppe che non l’aveva
sentito nel momento stesso in
cui levava il braccio, brandendo la sakabato. Da lontano giungevano le
vibrazioni del suo spirito combattivo, forte e intenso.
Chiamarlo
non serviva.
Semplicemente,
a un certo punto
sparì con un grido e divenne
un vortice inarrestabile.
Il
sole brillava a tratti sulla lama
invertita, sui trucioli
di legno, segnalando la sua posizione.
Poi
Kenji rallentò,
atterrò con forza sul piede destro ―
quello della spinta ― e fu in aria.
Alto,
più in alto.
E
poi giù, sui resti di un
vecchio tronco, spaccandolo a
metà.
Il
tutto in un totale di nove, dieci
secondi. Con un seguito
di tronchi segnati e malmenati in vario modo.
Il
suo respiro era pesante…
Ma
Sozou scacciò la
pedante osservazione. Era stato
fantastico.
Fantastico!
«Ken―»
«Papà»
esclamò Shinya, cereo.
Huh?
Fu allora che li vide.
Uscirono
dal sottobosco che si
arrampicava sui fianchi del
Fuji, all’opposto del sentiero.
Yahiko
e Sanosuke, davanti,
ammutoliti ma seri in volto.
Kenshin dietro i primi due. Chiunque avesse mandato il biglietto aveva
fatto un
buon lavoro.
All’inizio
Kenji non li
notò. Si volse verso Sozou e Shinya,
tergendosi il sudore, in attesa di un riconoscimento, un gesto, un
grido di
giubilo, qualcosa.
C’era
riuscito.
Li
chiamò col braccio.
«Hey
ragazzi, ma non avete
visto?! Ce l’ho fatta!»
Ma
loro non lo guardavano. Fissavano
invece un punto
lontano, alla sua sinistra, ipnotizzati. Li imitò,
incuriosito.
E
il suo cuore si fermò.
No…
I
tre adulti lo videro
immobilizzarsi, gli occhi sbarrati.
Rigido com’era, non sembrava la stessa persona che prima
avevano visto volare
sull’erba.
Yahiko
si rivolse a Kenshin senza
guardarlo, le mani sui
fianchi (Sano pensò che era raro suscitare in lui una
collera silenziosa).
«Beh,
Kenshin, a quanto
pare il trucco ha funzionato. Io mi
riprendo Shinya e torno a casa. Quando puoi, per favore, dimmelo che
vengo alla
palestra per la sakabato.»
E,
senza attendere risposta,
raggiunse il vecchio tronco,
cacciò il figlio sottobraccio e se ne andò.
Sanosuke
non si mosse, incerto sul da
farsi. Certo non era
del tutto indifferente a quanto era successo, ma lo conoscete, la
responsabilità non era mai stata il suo forte. O forse, date
le sue esperienze
giovanili, prepararsi a una vita movimentata difficilmente rientrava
nelle cose
proibite. Sozou non aveva neanche mosso un dito mentre li osservavano ―
semmai
avrebbe dovuto sgridarlo per esser stato un poltrone. E comunque lo
attendeva
già la sfuriata di sua madre…
Piuttosto
si preoccupava per
l’incolumità mentale di
Kenshin, e magari anche per quella fisica di Kenji. Alla fine avevano
raggiunto
il punto del grande confronto.
Per
tutti gli dèi.
L’amico
cominciò
a muoversi verso il figlio.
Non
si fermava. Veniva verso di lui
senza guardarlo, i pugni
stretti, la falcata decisa. Voleva… colpirlo?
Kenji
indietreggiò.
All’ultimo
istante suo
padre stese il braccio avanti a sé,
mostrando il palmo.
«Dammela.»
«U-uh?»
«La
sakabato.»
Il
suo tono era perentorio.
Obbedì,
lasciandola cadere
e facendo due passi indietro. Di
più non avrebbe potuto fare.
Lui
sospirò, poi la
raccolse.
«Non
avevi alcun diritto di
prenderla.»
«La
portava
Shinya» riuscì a dire, odiandosi per il tremore
delle sue ginocchia.
«Sai
benissimo cosa
intendo.»
Finalmente
suo padre lo
guardò, e nei suoi occhi c’erano
collera, freddezza e delusione.
Kenji
deglutì a fatica.
«Dove
l’hai
imparato?»
«…»
«Dove,
Kenji?»
«Dai
racconti. Da quello
che ho sentito in giro o letto nei
libri.» Pian piano la parola gli stava tornando.
«Ho provato e riprovato finché
non sembrava giusto.»
«Perché?»
Ecco,
la grande domanda. Era
l’occasione che aspettava ― e
dopo la conversazione della sera prima, sapeva esattamente cosa dire.
«Anzi
no. Non
rispondere.»
«Cosa?»
«Non
lo voglio
sapere.» Vide che stava fissando gli alberi e
il tronco, grigi relitti di un tifone.
«Ma
io―»
«Ti
ho detto che non lo
voglio sapere!» ripeté suo padre,
alzando la voce. E lui non alzava mai la voce.
Si
accorse che il suo sguardo era
duro.
«Avevi
dato la tua parola
d’onore, Kenji. Avevi giurato che
non c’era altro, e ora cosa scopro? Che pratichi
l’Hiten Mitsurugi»
s’interruppe e si passò una mano sulla fronte,
come se il solo dirlo pesasse
più un macigno. «Che pratichi una tecnica
assassina.»
Il
ragazzo sentì la bocca
dello stomaco stringersi.
«Papà,
ascoltami.»
«Perché
dovrei?
Anche se mi costa ammetterlo» e tanto
sembrava costargli, «sei una persona disonesta.»
«Non
sono disonesto! Non
è un gioco per me―»
Di
nuovo quell’espressione.
«Credi
che questo dovrebbe
consolarmi? Te l’ho detto e
ripetuto mille volte, Kenji, il kenjutsu dell’epoca Meiji va
praticato con le
bokken e le shinai. Il tempo delle spade è passato. Il tempo
dell’Hiten
Mitsurugi è passato!»
«Così
vuoi
buttarlo via e dimenticarlo?!» urlò.
Alla
fine aveva ceduto alla rabbia e
alla disperazione.
Perché non voleva ascoltarlo, perché?! Era come
cozzare contro un muro!
Ma
non aveva scelto la cosa giusta da
dire.
«Sei
troppo ambizioso,
Kenji. Ambizioso e testardo. Se dopo
una vita passata ad ascoltare i miei consigli ancora non vuoi capire,
allora
non mi resta da fare altro.»
Gli
strappò la guaina
della sakabato dalla cintura, veloce,
vi rimise la spada e gli diede le spalle.
Il
ragazzo assistette, come in sogno.
«Da
questo momento, ti
proibisco di praticare l’Hiten
Mitsurugi in qualsiasi forma. Ti proibisco di venire in questo posto.
Anzi,
finché non lo dirò io, uscirai solo con me o con
tua madre.»
«Cosa? Sei
impazzito?»
Suo
padre si volse a guardarlo.
«Se
non lo pratico
più io che ci sono cresciuto,
sopravvissuto e maturato, non c’è la
benché minima ragione perché debba farlo
tu.»
«Questo
sarò io
a deciderlo!»
«Dopo
il genpuku, forse. Ma
è ancora lontano.»
Doveva
dire qualcosa. Doveva dirlo,
doveva, perché era stato
suo padre a dirgli che bisognava proteggere le persone e
l’unico modo in cui
sapeva e voleva farlo era quello, ma all’improvviso si
sentì oppresso da un ki
che aveva percepito solo poche altre volte nella vita.
«Muoviti.»
Tremante
di furia e di paura,
obbedì.
--------------------------------
*Proverbio: dare un bastone
a un orco, nel mondo metaforico giapponese, equivale a "rendere
qualcuno invincibile". Un orco è già forte se
combatte a mani nude, figuratevi con un randello XD
|
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Capitolo 6 *** V - Le scintille della bufera ***
Nota
dell'autrice:
ellallà, un'altro aggiornamento O_o ho deciso di velocizzare
un
po' le cose, approfittando dello scandaloso numero di ore libere di cui
dispongo...
Enjoy.
---------------------------------------------------
Capitolo
V
Le scintille della bufera
"Fuku
wa uchi, Oni wa
soto."
La
fortuna dentro casa, la
cattiva sorte fuori.
Proverbio
giapponese
Era in trappola.
Nessuna via di scampo.
Un futuro senza prospettive chiuso
entro le mura screpolate
del dojo.
Kenji prese una nuova patata e
cominciò a pelarla, seduto
nell’angolo più anonimo del giardino.
Se l’avessero sbattuto in
carcere, forse sarebbe stato
meglio. Almeno non avrebbe sentito gli occhi di suo padre (o di sua
madre)
costantemente puntati sulla schiena, pronti a trovare qualcosa di
sospetto nel
suo atteggiamento.
Buttò la patata nella
pentola e considerò il coltello.
Arrivati a quel punto, si stupiva un po’ che glielo
lasciassero usare. Pensate
se gli fosse preso un raptus omicida!
Scosse la testa e si
appoggiò al tronco, guardando con
nostalgia il cielo oltre il muro.
Non era giusto.
Shinya e Sozou erano più
piccoli di lui, eppure erano di
nuovo in giro, perdonati e coccolati.
I suoi pensieri furono ingoiati da un
abituale, iroso
turbinio.
Kaoru lasciò che la punta
della sua bokken toccasse il
pavimento e si terse la fronte, il respiro pesante.
«Sì, ci siamo
quasi. Ancora qualche lezione e potrete tutti
passare al livello superiore. Andate pure ora, ci vediamo domani alla
stessa
ora.»
«Sì
maestra.»
Gli oltre venti allievi
s’inchinarono educatamente, rimasero
per il tempo di posare le bokken e se ne andarono a gruppi, allegri e
affamati.
Mentre i quattro di turno pulivano la palestra, Kaoru buttò
fuori un sospiro di
sollievo.
Era abbastanza contenta: i ragazzi
erano bravi, la lezione
era andata bene. Anche senza aiuto… oggi Yahiko aveva
impegni e a Kenji era
tuttora vietato toccare strumenti da kendo.
Scrutò il giardino alla
sua ricerca e lo trovò sotto il
ciliegio spoglio, ancora a pelar patate. Guardava fuori.
Le si strinse il cuore.
Per quanto preoccupata al pensiero di
vederlo praticare
l’Hiten Mitsurugi, stava cominciando a convincersi che quello
non fosse il
metodo giusto per fargli cambiare idea. Come punizione, certo dopo due
settimane il messaggio avrebbe dovuto passare. Adesso non potevano
tornare a
discuterne?
Che cosa aveva ben visto Kenshin per
ridursi ― lui che non
aveva mai punito se non a parole ― a segregare suo figlio in casa? Con
lei era
stato piuttosto vago, limitandosi a citare il Ryu Tsui Sen, o qualcosa
di molto
simile a esso.
Kaoru era ancora scioccata. Come
aveva potuto Kenji imparare
delle tecniche di cui aveva udito solo vaghi racconti? Era sempre stato
un
piccolo prodigio, vero, ma arrivare a questo…
Non poté reprimere un
piccolo moto d’orgoglio.
Il suo Kenji era un genio.
Poi si rabbuiò, ricordando
tutti i guai e le tragedie che
accompagnavano quella categoria di individui. Kenshin aveva ragione,
ma…
Se non fossero riusciti a convincere
Kenji e fargli cambiare
idea, cosa sarebbe successo? Un giorno, presto, sarebbe diventato uomo.
E li avrebbe
lasciati.
Per non tornare mai più,
forse.
Fece un passo in direzione del
figlio. Non poteva
permetterlo.
Sarebbe accaduto, lo sentiva. Aveva
sempre posseduto un
ottimo istinto per queste cose e ora vedeva troppi pericoli sulla
strada: la
testardaggine del figlio, la sua bravura, uomini malvagi che avrebbero
notato e
tramato, il segreto di Kenshin―
«Kenji.»
Avrebbe dovuto porre fine a questa
situazione.
Kenshin imboccò la strada
che usciva dal mercato per far
ritorno a casa, carico di spesa.
Non sentiva neanche il peso fisico.
Quello che lo
schiacciava era psicologico e, poteva giurarlo, c’erano state
poche occasioni
in tutta la vita in cui s’era sentito così male.
Non parlava decentemente con suo
figlio da tredici giorni.
Le uniche parole che si rivolgevano erano di pura formalità,
perché, dopo
qualche sofferto tentativo durante i primi giorni, Kenji aveva
rinunciato a
cercare di convincerlo.
Non lo lasciava mai andare oltre la
seconda frase.
Sospirò, desiderando avere
una mano libera per passarsela
sugli occhi.
Era un inferno autoinflitto.
Aveva sempre detestato questi metodi,
sia da bambino come allievo
del terribile Hiko, sia da adulto illuminato. A che serviva bruciare
tutti i
ponti?
Ma non aveva altra scelta…
Non gli restavano più
idee. Le sue parole avevano fallito.
L’unica alternativa sarebbe stata permettere a Kenji di
continuare e fiorire in
un agguerrito kendoka, ma quello era fuori discussione.
Non gli avrebbe permesso di
autodistruggersi. Era nato in
tempo di pace, doveva vivere all’insegna della pace.
Svoltò l’angolo
e la palestra entrò nel suo campo visivo,
portando con sé una ventata di tensione.
Doveva distendersi un po’ i
nervi.
Sì, non… non
sarebbe entrato. Aveva il metodo giusto per
scaricarsi e, forse, dopo sarebbe stato in grado di pensare
più lucidamente.
Era parecchio che non andava.
Però doveva anche posare
la spesa.
Preso un bel respiro,
entrò, attraversò il giardino fino
alla veranda e imboccò la porta della cucina, tentando di
mantenere un profilo
basso. Nel tornare indietro colse la figura di Kenji appoggiata al
ciliegio.
C’era Kaoru con lui.
Cercando di non provare invidia per
la moglie, che dei due,
per una volta, era la più indulgente e riceveva in cambio
dei privilegi,
riguadagnò la strada e sparì.
Kenji osservò i movimenti
del padre con occhio
indecifrabile, mentre sua madre sedeva sui calcagni, perplessa.
«Che abbia dimenticato
qualcosa?»
In effetti era strano vederlo uscire
subito dopo aver fatto
compere; di solito (per fortuna) si metteva in cucina a preparare il
pranzo.
«Beh, non importa. Ascolta,
Kenji» lui distolse lo sguardo
dalla porta e lo riportò alla madre, incuriosito. Per tutti
quei giorni l’aveva
inaspettatamente trattato coi guanti, ma da lì a parlargli
con tanta
franchezza―
«Adesso voglio che tu esca
e vada a farti una bella
passeggiata.»
Eh?
«Oro?»
«Sì, basta con
la clausura. Vai e distraiti un po’.»
Era una domanda trabocchetto?
Glielo chiese. Lei rise, scuotendo la
testa e sistemandogli
la coda.
«No, Kenji, non sto
cercando di fregarti. Credo invece che
tu sia stato punito abbastanza.»
Superata la sorpresa, il suo cervello
cominciò a funzionare
di nuovo e a vagliare le possibilità che gli si
presentavano. Una breve uscita
era poco, ma già qualcosa.
«Papà non
c’entra niente, vero?» Ripensò alla sua
faccia
mentre se ne andava ed ebbe conferma. «Meglio lasciar
perdere. E’ in giro, se
mi vede…»
«Oh, e cosa potrebbe farti,
se ti ho dato io il permesso?»
Già, cosa poteva fargli?
C’era qualcosa peggiore di quella
vita?
«E poi, non mi dirai che ti
faresti prendere così
facilmente!»
«Certo che no»
ribatté, il tono ricco della vecchia
spocchia. «Aspetta, questo vuol dire che sei dalla mia parte?
Che approvi―»
Il viso di sua madre
cambiò.
«Quello no, Kenji. Mi
dispiace, ma non puoi capire. Io ho
visto molte delle cose che la spada ― l’Hiten Mitsurugi ― ha
fatto a tuo padre,
e tante altre le hanno viste solo lui e uomini morti…
perché non puoi fidarti
di lui quando ti dice che non porterà a nulla di buono?
Sarebbe tutto così
semplice. Potremmo tornare una famiglia serena, vivere una vita
normale.»
Il ragazzino tacque. Era stato sul
punto di ribattere con
una frase tagliente (che c’era di bello nella
normalità?), poi si ricordò
dell’uscita. Sua madre non avrebbe apprezzato un insulto
tanto diretto alla
vita che si era a fatica costruita.
«Mh» si
limitò a mugugnare, alzandosi. «Posso andare
allora?»
Lei lo imitò,
spolverandosi gli hakama rossi. «Solo qui nei
paraggi. Niente foreste e bravate, siamo intesi? Una bella passeggiata
rilassante.»
Elettrizzante.
Beh, almeno gli sarebbe servita per
cambiare aria e pensare.
«Vado.»
«Mezz’ora, non di
più.»
Intanto, alle poste, un ragazzo alto
e bruno entrò col suo
passo ciondolante e salutò il tipo che impilava pacchi in un
angolo.
Era Ota, venuto a lavorare.
In quegli ultimi tempi aveva avuto
così tanto tempo libero e
tante occhiate severe dalla sorella Megumi che lavorare sembrava
l’opzione
migliore per tenersi in salvo. Non era stato punito per la faccenda
della
Triade, perché acchiapparlo e punirlo materialmente
sarebbero state due
faccende impegnative; inoltre, sospettava che i
“vecchi” fossero stati
consolati dal saperlo sempre in compagnia dei bambini. Comunque, tutto
questo
non gli aveva risparmiato una certa tensione nei rapporti, quindi
eccolo lì.
«Com’è
stamattina, Kazuki?»
«Normale. Lì ci
sono i tuoi, caricali sul carro qui
davanti.»
«Ok.»
«Ah,
Higashidani!» esclamò un impiegato.
«Prima che mi
dimentichi, c’è una lettera per te.»
Rimase col primo pacco a
mezz’aria.
«Per me?»
Restare nel quartiere. Era come
dirgli “fatti beccare da
qualcuno”! Come avrebbe potuto rilassarsi se doveva tendere
occhi e orecchie ad
ogni istante, nel timore di incrociare suo padre?
A proposito, si chiedeva dove fosse
andato.
Non che gliene fregasse qualcosa,
beninteso. Mera
indignazione. Gli mancava persino il buon gusto di non farsi vedere
uscire,
libero e senza preoccupazioni.
Torse la bocca, saltando
giù dalla strada fino al lungo
prato erboso che costeggiava il canale.
Sarebbe tornato al boschetto per un
sopralluogo.
Quel che sua madre non sapeva non
poteva farle male. E non
l’avrebbe mai saputo, perché ignorava quanto
veloce lui potesse correre.
Avrebbe continuato a pensare che il boschetto fosse raggiungibile per
lui solo
in una buona mezz’ora.
Accelerò il proprio
respiro, si sciolse rapidamente i
muscoli e partì.
Il vento era bellissimo contro la
faccia, confortante la
sensazione di esserne ancora capace. La corsa del Ryu Sho
Sen…
Forse stava sfidando la sorte, ma non
importava.
Chi non risica non rosica.
E non aveva ancora idea di quanto
avrebbe rosicato, finché
non giunse alla meta e, per chissà quale ragione, si
fermò appollaiandosi su un
vecchio ginkgo.
Era una scelta fortuita e fortunata,
perché nella radura
c’era qualcuno.
Suo padre.
Il cuore gli balzò in
gola, facendolo quasi precipitare.
Cosa ci faceva lì?
L’aveva visto? Lo stava aspettando per
sottometterlo e trascinarlo di nuovo a casa?
Non accadde nulla. Trattenne il fiato.
Solo ora, guardando meglio,
notò qualcosa di strano.
Suo padre era teso. Sembrava
attendere un segno, i pugni
chiusi e proiettati verso il basso, all’altezza dei fianchi,
il capo chino. E
al fianco, non la solita bokken…
…ma la sakabato.
L’erba cespugliosa
ondeggiava al vento, tremula.
Kenshin concentrò i propri
pensieri sul respiro,
regolarizzandolo, portandolo al minimo, obbligando tutto ciò
che non lo
riguardasse ad andarsene.
Concentrati.
Ci riuscì solo dopo alcuni
tentativi.
Concentrati.
Poi il soffio leggero della brezza lo
avvolse e lui sentì un
familiare calore nel ventre.
Concentrati!
Quel calore crebbe, si espanse e,
sotto il suo ferreo
controllo, salì alla superficie producendo una forte
vibrazione. L’erba e gli
alberi tutt’intorno riverberarono di quell’energia.
Aprì la bocca, lasciando
uscire un urlo profondo.
Poi ci fu l’esplosione.
La familiare sensazione di collidere
col mondo, mentre il
suo ki lo abbandonava per gettarsi in una battaglia già
conclusa, ma non per
questo meno incandescente.
Quando anche l’ultimo
spasmo d’energia l’ebbe lasciato
rilassò le spalle, per riprendere fiato.
Sì, un po’ aveva
funzionato. Ma non del tutto.
Ultimamente non lo stancava
più come le prime volte. Non
aveva detto a Megumi che, da tre anni, aveva ripreso a praticare in
modo
semiserio il kenjutsu, quindi poteva solo supporre che il suo corpo si
fosse
riabituato fino a un certo limite allo sforzo. Niente pareri
scientifici.
Si raddrizzò, muovendo le
braccia con fare distratto.
Ma forse… giusto un poco,
senza pretese… poteva sperare che
la sua salute fosse migliorata. Tredici anni di riposo, di cui dieci
integrali,
dovevano aver significato qualcosa.
Era anche più vecchio, lo
sapeva ― quarantun anni non erano
ventotto, non lo erano proprio, ma non aveva potuto farne a meno. Stava
già
cominciando a sentirsi rigido e legato quando s’era reso
conto che, se non
avesse fatto qualcosa, presto sarebbe stato rigido come un anziano.
E poi c’era Kenji, sempre
affiancato al segreto timore che
si cacciasse in qualche situazione più grande di lui, dalla
quale avrebbe
dovuto esser tirato fuori.
Io sono un ipocrita,
vero?
Scosse la testa. Basta, questo non lo
stava aiutando a
vederci chiaro.
Doveva sfinirsi.
Cancella e riscrivi. Solo
così si ricominciava da capo, e
lui ne aveva proprio bisogno. Perché doveva prendere presto
una decisione.
Cosa fare con suo figlio? Come
guidarlo verso la strada
migliore?
Con un movimento duro,
afferrò l’elsa della sakabato e
l’estrasse (un soffio metallico), mettendosi in posizione
d’attacco.
La scuola Kamiya Kasshin era
più sicura… ma oggi aveva
bisogno di qualcosa di familiare, di dolorosamente consolante.
Rivide Kenji quella mattina, al suo
posto, e chiuse gli
occhi.
Era stato veloce. Velocissimo.
Impreciso, certo, acerbo,
naturalmente, ma sconvolgente. Gli
alberi mostravano ancora le unghiate della sua spada.
Corrugò la fronte. Lui non
sarebbe stato mai più così
rapido, e un pensiero veniva naturale: suo figlio stava prendendo il
suo posto
come “speranza” dell’Hiten Mitsurugi.
Le implicazioni erano spaventose.
Si costrinse a calmarsi con mosse
semplici e lente, note
dalla pratica. Doveva trovare una soluzione.
Doveva assolutamente trovare una
soluzione.
Una soluzione!
Non si accorse di accelerare a ogni
secondo che passava ―
finché non ebbe terminato, con lentezza che a lui parve
straziante, tutte le
mosse superiori.
Avesse saputo chi lo guardava, forse
non si sarebbe neanche
rialzato.
Kenji fuggì dalla radura.
Quand’ebbe raggiunto il
greto del canale da cui era partito,
le gambe gli mancarono e crollò in modo poco dignitoso.
Fatta leva su braccia
molli come nori si girò e atterrò
sull’erba con la schiena, il respiro
affannoso.
Le ossa gli tremavano ancora.
Vibravano ancora dalla forza di quel
ki.
E suo padre―
Ha davvero…?
Praticava davvero―
Ma allora, perché
io…
Rendendosi conto di quel che stava
succedendo, scattò a
sedere e strizzò gli occhi, i pugni affondati nella terra.
«Perché...»
L’aveva visto. Era diverso
in molte cose (gli rivelava i
suoi errori di autodidatta), ma l’aveva riconosciuto.
«Te l’ho
detto e ripetuto mille volte, Kenji, il kenjutsu
dell’epoca Meiji va praticato con le bokken e le
shinai.»
«Perché?!»
«Se non lo pratico
più io che ci sono cresciuto,
sopravvissuto e maturato, non c’è la
benché minima ragione perché debba farlo
tu.»
Con un grido rabbioso,
riempì la riva di pugni.
Perché perché
perché?!
Non si sarebbe fidato! Non si sarebbe
fidato mai più!
E questo lo rese ancora
più triste.
Quando tornò, sua madre
stava parlando in giardino con Ota e
zia Megumi.
Ignorò la sua occhiata
furente ― in ritardo, entrava pure
dalla porta principale! ― e proseguì con passo di fantasma
verso la propria
camera. Non salutò nessuno.
Voleva restare solo.
Sbatté lo shoji e
aprì il futon con un calcio. Poi ci si
buttò sopra.
Dormire e cancellare tutto sarebbe
stato un sogno, e tale
infatti rimase. Dapprima entrò Inoi, restando sulla soglia
con aria sdegnosa.
Dal fattaccio con Tatsuya si era
fatta più o meno l’idea di
avere un fratello teppista, quindi lo trattava di conseguenza. Non che
prima
fossero rose e fiori tra loro…
«La mamma vuole sapere che
hai.»
La ignorò.
«Che hai fatto stavolta? Te
ne approfitti subito, eh?»
Cominciò a contare le
fibre del legno sul soffitto, sperando
che l sorella se ne andasse presto.
«Magari hai pestato
qualcuno?»
Tre, quattro, cinque.
«Non pensi alla
mamma?»
Sette…
«E a papà, che
quasi non mi sorride più?
Die― la menzione di suo padre
riportò un vivido flash del
terremoto di energia, tagliandogli il respiro.
Balzò a sedere, ansimante.
Inoi pestò un piede.
Intanto era arrivato anche Shinta, a
guardare la scena con
un vecchio pupazzo in mano.
«Allora?! Vuoi dirmelo
sì o no cos’hai fatto!» stridette
Inoi. «Te ne approfitti solo perché
papà ti adora, non è giusto!»
Sgranò gli occhi.
Adorare?
In un attimo era in piedi,
scarmigliato. Suo padre,
adorarlo? Lui, al quale non aveva mai parlato seriamente del suo
passato? Al
quale non voleva dare neanche la possibilità di decidere il
proprio futuro?
Squadrò ferocemente sua
sorella, che indietreggiò.
Ma che voleva quella da lui?
L’ingrata! Era troppo chiederle
di starne fuori, dopo averla salvata e aver pensato alla sua salute?
Perché
nessuno poteva lasciarlo in pace a pensare?
All’improvviso, tutto il
fiato lo lasciò in un ruggito.
«Fuori!»
In due falcate era allo shoji,
preceduto da una pallida
Inoi, che chiuse fuori con un fragore rimbombante.
«E stacci.»
«Kenji»
sentì
gridare a sua madre. Doveva aver visto tutto (no guarda).
«Vieni subito qui!»
Oh, dannazione.
Non c’era pace per lui quel
giorno.
Il suo istinto aveva suggerito bene,
non sarebbe dovuto
uscire. Lontano dagli occhi lontano dal cuore…
«Kenji!»
Si stava arrabbiando. Fu sul punto di
chiedersi che
importava, ma non terminò, perché tra tutti sua
madre era l’unica su cui
potesse fare qualche affidamento.
Senza tentare di nascondere la cosa
spaventosa che doveva
essere la sua faccia, aprì e obbedì.
C’erano ancora Ota e
Megumi, visibilmente a disagio.
«Si può sapere
che modi sono?» ringhiò sua madre, tentando
di trattenersi. «Inoi è scappata via
piangendo!»
«Bene.»
Lo vide arrivare secoli prima, ma non
lo evitò. Pur forte da
piegargli la testa, il ceffone non lo stordì come aveva
sperato.
«Adesso vai a recuperare
Shinta e poi scusati con lei.»
«Tre metri sotto
terra.»
Stavolta gli fu risposto con
un’esclamazione. «Kenji!»
Notò il portone semiaperto.
«Shinta lo vado a
riprendere» precisò, avviandosi «ma Inoi
può marcire in camera sua, per quel dipende da me.»
Si pentì subito di averlo
detto. Ma l’orgoglio ferito gli
impedì di rimangiarsi le parole.
Mentre si allontanava
sentì sua madre cercare di riempire il
silenzio rivolgendosi agli ospiti, la ragione della cui venuta restava
oscura.
«Sì…
ti dicevo, Ota-kun… per le sacche da viaggio, non
c’è
problema, davvero. Te le prestiamo senz’altro. Piuttosto,
sono un po’ sporche,
dovremmo lavarle ― quando parti?»
Partire? Kenji rallentò e
tese le orecchie, cercando di
cogliere il più possibile.
«Domattina, zia Kaoru.
Prenderò il primo treno, e anche così
saranno due giorni prima che arrivi a Shinshu.»
Shinshu?
Ma era la sua città di
origine. Se ne andava?
«Comunque per le sacche non
preoccuparti, vanno bene così.
Torneranno anche peggio!»
Il gruppetto emise una risata incerta.
Kenji era ormai alla porta.
«Spero che tuo padre si
rimetta presto, la varicella è
pericolosa a una certa età.»
«E’ per questo
che gli porto le medicine di mia sorella!»
Ah. Ecco perché.
Il vecchio era malato. Ota sarebbe
tornato subito dopo la
sua guarigione, forse anche prima.
Kenji scrollò le spalle e
uscì.
«Avanti Shinta, torniamo in
ca―»
Le parole gli morirono in gola.
Spalancò gli occhi,
pietrificato.
Ciò che vide avrebbe
popolato i suoi incubi per molti, molti
anni a venire, specialmente con quel che sarebbe successo.
Kenji assistette alla scena come se si svolgesse sott'acqua.
Shinta era a pochi passi da lui, non
molto distante,
accucciato per terra davanti a un cespuglio di erbe giallastre. Quella
semplice, volgare erbaccia, spuntata da una crepa del muro, sembrava
aver
incantato la sua immaginazione. La guardava, il pupazzo di prima
dimenticato in
terra, un piccolo dito sulle foglie.
Il suo fratellino sorrideva, ignaro e
indifeso. E, dietro di
lui…
Kenji guardò, incapace di
muoversi.
Pochi passi dietro Shinta, un uomo.
Vestito di nero, guanti
neri, sciarpa, occhi neri puntati come rapaci sul suo fratellino.
E ora su di lui.
Occhi cattivi.
La comprensione giunse con la forza
di una slavina,
gelandogli la pelle.
Quell’uomo…
Shinta― no!
Non doveva distogliere lo sguardo!
L’uomo nero, che si era
immobilizzato, cominciò impercettibilmente
a muoversi.
Con la bocca disidratata e le gambe
tremanti, Kenji si rese
conto di non avere con sé un’arma.
Muoviti.
Il suo corpo sembrava pietra.
Chiamalo. Chiama Shinta!
L’uomo sembrò
notare il suo stato e strinse gli occhi,
riportandoli brevemente sul bambino.
Come se considerasse di scattare e―
No!
Con uno sforzo sovrumano, Kenji
ritrovò la parola.
«Shinta!»
E il bambino sobbalzò, per
fortuna nella sua direzione.
Quella era la scintilla. Tornò padrone del proprio corpo e
lo prese per un
braccio, indietreggiando senza smettere di fissare il terribile
sconosciuto.
Non poteva vederlo bene in volto, ma
non ne aveva bisogno
per riconoscere il pericolo.
Quell’uomo era pericoloso.
E se lui avesse atteso ancora qualche
secondo prima di
uscire… se avesse origliato ancora per poco…
Il cuore gli gelò.
Suo fratello sarebbe sparito per
sempre. Così, in un attimo.
«Entra in casa»
gli disse, fissando l’uomo nero con odio.
Quello passò lentamente
davanti alla palestra, dall’altro
lato della strada, attardandosi a osservare Shinta che rientrava.
«Vattene»
sibilò allora Kenji. «O ti ammazzo.»
«E come,
ragazzino?»
Fu l’unica cosa che disse,
un sibilo.
Come fu scomparso,
l’orrendo incantesimo fu spezzato.
Il ragazzino rientrò
sbattendo il portone e chiudendolo con
la sbarra di legno, come facevano di notte. In giardino non
c’era più nessuno.
Afferrò Shinta, che ancora sgambettava nei paraggi, poi
guardò i muri con
ostilità e se lo portò in camera, stringendolo
forte per tutto il tempo.
Soltanto quando sua madre venne a
dire che il pranzo era
pronto, suscitando il desiderio di muoversi nel pur paziente e
affettuoso
Shinta, Kenji lasciò il fratello.
E ormai aveva preso la sua decisione.
Messo così
era un debole. Non aveva saputo reagire oltre la
parola davanti al vero
pericolo. Se non ci fosse stata gente, quell’uomo
l’avrebbe attaccato, ne era
certo… e una tecnica difficile, imparata da autodidatta,
avrebbe potuto essergli
fatale. Oltretutto non aveva mai
usato neanche le mosse del Kamiya Kasshin in un
combattimento serio,
come lo zio Yahiko a suo tempo. Se gli fosse stata
restituita la
libertà, imparare da solo sarebbe stato inutile quanto
restarsene chiuso
in casa, ne era sicuro.
Aveva bisogno di esperienza. Di un insegnante consenziente.
O forse stava solo cercando scuse per scappare?
No, mai!
Era soltanto ora di prendere in mano la propria vita; ne aveva
abbastanza di farsi trascinare dagli eventi.
Un volto visto tanto tempo prima si
fece strada nei suoi
ricordi. E ricordò anche chi poteva
trovarglielo.
Quella sera ultimò tutti i
preparativi, chiuso nella propria stanza.
Non faticò a farsi credere
indisposto, visto che era la
verità. Non saltare addosso a suo padre e riempirlo di pugni
appena l’uomo era
comparso aveva richiesto tutte le forze di cui disponeva, e non gliene
erano
rimaste altre per fingere una decente normalità.
Era anche digiuno:
un’ottima scusa per alzarsi nel mezzo
della notte, diretto alla cucina.
E sparire…
Per quanto? Per sempre? Lo ignorava.
Sapeva solo di non poter restare
lì dentro un giorno di più.
E per assicurarsi di riuscire, aveva
precisato tutti gli
aspetti dell’operazione.
Il treno per Kyoto sarebbe partito
quasi in concomitanza di
quello per la regione di Shinshu. Avrebbero pensato tutti che andasse
con Ota,
almeno per un certo tempo. Prima di tutto, guadagnare tempo.
Poi la credibilità:
dov’era diretto, nessuno era facile da
abbindolare. Ci sarebbe voluto tutto il suo sangue freddo per ottenere
la loro
collaborazione.
Infine, l’ora della fuga:
verso le tre di mattina, quando il
sonno era più pesante.
Ma il momento era ancora lontano e
prima acchiappò Shinta,
per gli chiese se quella notte voleva dormire con lui. Il piccoletto
era in
periodo di incubi ― accettò con un grido di giubilo. Kenji
abbozzò un sorriso.
Di tutti quanti, era strano dirlo,
sarebbe stato lui a
mancargli di più.
E per non disturbarlo i suoi
avrebbero aspettato parecchio
prima di venire a chiamarli, la mattina ventura.
Non considerò neanche
Inoi, mentre la bambina gli passava
accanto in corridoio, il nasetto aggricciato per il disgusto. La
piccola
stronza era come tutti gli altri, d’accordo con suo padre per
partito preso.
E non tardò a riconoscere
il suo tocco quando sua madre girò
l’angolo, giungendo con passo battagliero e la fronte
corrugata.
«Shinta deve abituarsi a
dormire nella sua stanza» disse.
«E’ già stato traumatizzato
abbastanza.»
Già, ce l’aveva
ancora con lui per esser stato fuori troppo
al primo permesso. E per non aver chiesto scusa
alla sorella,
naturalmente.
Beh, lo ripeteva: quando fosse stato
tre metri sotto terra,
forse Inoi avrebbe sentito da lui parole di scusa.
Per fortuna Shinta si mise a fare i
capricci e a piangere,
costringendo la mamma a cedere. Kenji avrebbe voluto battergli un
cinque.
«Ma bada bene»
disse sua madre, fissandolo. «Se lo spaventi,
o lo fai piangere o altro―»
«Sì,
sì, brucerò in eterno.»
Stava per sbatterle la porta in
faccia quando gli venne in
mente che quella era forse l’ultima volta che la vedeva.
Esitò, si morse il
labbro, poi si volse.
«Buonanotte,
mamma.»
Lei, già a metà
corridoio, si fermò e sbatté le palpebre.
Non se l’era aspettato, questo era evidente. Notò
che il suo bel viso si
rilassava e perdeva quasi tutti i segni della collera.
Per lei il saluto doveva essere un
progresso.
«Buonanotte,
Kenji.»
Poi proseguì, la lanterna
ballonzolante in mano. Il ragazzo
la guardò andare, mise giù Shinta e insieme
entrarono in camera. Mentre
preparavano il futon, gli fece promettere di non uscire mai
più di casa da
solo, anche se la mamma o il papà erano vicini. Doveva
essere un giuramento
assoluto, spiegò, perché era una cosa importante.
Quello era l’unico modo in
cui avrebbe potuto proteggerlo
una volta lontano.
Sapeva (lo insinuava una voce
preoccupata) che sarebbe stato
meglio restare e assicurarsene di persona, ma Kenji era semplicemente
troppo
giovane e arrabbiato per farlo. E dopotutto, Shinta non era suo figlio.
«Promettilo.»
Serio, il bambino promise.
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Capitolo 7 *** VI - Grandi speranze ***
Capitolo
VI
Grandi speranze
“La
forza di volontà
attraversa anche le rocce.”
Proverbio giapponese.
La
mattina dopo, quando
finalmente decise che usare Shinta
come scusa per poltrire stava andando ogni sentimento di buona creanza,
spalancato lo shoji del figlio maggiore, Kaoru trovò solo il
più piccolo
avvoltolato in un bozzolo di coperte.
Lì per lì rimase interdetta: non aveva visto
Kenji in giro.
Ma non vi diede troppo peso, perché il giorno prima era
stato strano e forse desiderava starsene fuori dalle scatole. Faceva
bene, si
ricordò, perché appena l’avesse beccato
l’avrebbe costretto a scusarsi con
Inoi. La bambina era sempre più sola, emarginata tra gli
amici.
All’ora di pranzo la faccia tosta era ancora assente.
Indirizzò una scrollata di spalle perplessa a Kenshin, che
sembrava giù di
morale (come al solito nelle ultime due settimane), e disse che
l’aveva sentito
sgattaiolare in cucina quella notte.
Probabilmente aveva rubato gli onigiri avanzati dalla cena.
E infatti le polpettine erano sparite.
«Adesso metto via tutto e chiudo a chiave. Vedrai che
stasera si fa vedere. Magari è sotto il pavimento che ci
ascolta» brontolò, e
per buona misura pestò ripetutamente un piede sul pavimento,
sapendo per
esperienza di causare una piacevole pioggia di polvere e ragni.
Ma la giornata ― pur lentamente ― trascorse senza Kenji e,
nel tardo pomeriggio, i due genitori cominciarono a preoccuparsi.
Quella storia
prima o poi avrebbe dovuto finire. Quanto voleva aspettare Kenji, per
crescere?
Kaoru lo chiamò, col pieno intendimento di fargli
l’ennesima
(possibilmente ultima) ramanzina e metterlo a tavola insieme agli altri
pargoli.
Nessuna risposta.
«Kenji, guarda che ti stai mettendo nei guai! Sul
serio!»
Ancora niente. Sotto gli occhi un po’ intimoriti di Kenshin,
marciò fino alla sua stanza ed entrò. Non
s’era più intrufolata dalla mattina,
sicura che il figlio fosse accampato lì e non gradisse
disturbi. Ora scoprì che
proprio di accampamento si trattava. Guardando con occhi consapevoli,
si rese
conto che l’ambiente era un vero e proprio macello, col futon
nella stessa
condizione in cui l’aveva lasciato lei per portare Shinta a
lavarsi, le stampe
appese storte alle pareti e roba rovesciata un po’
dappertutto. Come se
qualcuno avesse camminato al buio per farsi strada…
«Il farabutto» commentò. «Ma
me la paga.»
Sebbene sentisse di averne colpa in prima persona
(dopotutto, Kenji non s’era certo relegato in casa da solo),
represse il
sentimento e marciò fuori.
«Kenji, t’ho detto di venire fuori!»
Ma ancora niente Kenji.
E il risultato fu il medesimo quand’ebbero setacciato la
casa. Kenji non c’era.
Kaoru e Kenshin si guardarono.
«E’ uscito, allora» disse lui.
«E non me ne sono neanche
accorto.»
Lei si morse un labbro. In un angolo della cucina notò
Shinta, un po’ spaesato.
«Shinta-chan» si accucciò e tese le
braccia nella sua
direzione; lui rispose accorrendo, felice. «Dimmi, hai
dormito bene questa
notte con Kenji-chan?» E lanciò
un’occhiata al marito.
Il figlioletto annuì. «Kenji mi ha lasciato
dormire vicino.
Inoi-chan invece non vuole.»
Come se si fosse sentita chiamata in causa, la bambina fece
la sua entrata trionfale in quell’istante. «Che
succede?»
Suo padre le carezzò la testa, tirandosela contro un fianco.
«Shinta-chan, Kenji ti ha detto dove andava?»
Shinta batté le palpebre. «No.»
«Accidenti.»
«Però mi ha detto di non uscire da
solo.»
Quello attirò la loro attenzione.
«Sei uscito da solo?»
Kaoru parve ricordarsi di una cosa. «Ah, ieri, mentre
c’erano Megumi e Ota, il portone è rimasto aperto
e Shinta è uscito, ma gli ho
subito mandato dietro Kenji.»
Il volto dell’uomo si rabbuiò.
«E’ successo qualcosa, mentre eri fuori?»
chiese rivolto al
figlio.
Un altro diniego.
Ma non era un mistero che il piccolo potesse distrarsi
praticamente davanti a tutto… e se Kenji avesse visto
qualcosa? Se Shinta fosse
stato in pericolo?
All’improvviso ebbe il flash di un tizio sospetto venire
dalla direzione della casa, proprio verso l’ora di pranzo,
mentre lui tornava
con un carico di farine e miso.
«Dove vai, Kenshin?»
«Fuori a cercarlo.»
«Aspetta, vengo con te.»
«No. Kaoru, chiuditi in casa e tieni d’occhio i
bambini.»
«Uh?»
«Credo» abbassò la voce «che
quello stupido abbia visto qualcuno
avvicinarsi a Shinta con cattive intenzioni.» Lei
sgranò gli occhi. «Pensaci:
“non uscire da solo”; tu che lo mandi a prendere
Shinta e lui che torna
sconvolto.»
Che idiota! Che idiota! Perché non se n’era
accorto prima?
La normalità lo stava davvero rendendo cieco ai pericoli?
«E ora secondo te sta dando la caccia a
quell’uomo?»
Strinse le labbra in una linea.
«Credo di sì.»
«Oh dei…»
«Te lo riporto sano e salvo, te lo prometto.»
Tuttavia, quando il canto degli uccelli annunciò
l’alba,
Kaoru ― addormentatasi contro lo shoji della cucina, una bokken contro
la
spalla, le teste di due bambini sulle gambe (in un campeggio
improvvisato) ―
vide che non era ancora tornato.
Si stropicciò gli occhi e uscì.
Lo incontrò sulla soglia, morto di stanchezza. Solo.
Kyoto, finalmente!
Kenji saltò giù dal treno e si stirò,
sentendosi crampi in
tutto il corpo.
Il viaggio era stato pazzesco, folle al punto di fargli
considerare un paio di volte una fuga alla cowboy, come nei racconti
dello zio
Sano. Era già stato molte volte in città insieme
ai suoi, di solito per far
visita a zia Misao, a quel musone di zio Aoshi e a tutta la loro cricca
di
aspiranti ninja; però, da bravo studente medio, non
s’era mai curato di
informarsi sulle attuali distanze percorse.
Quattrocento e passa chilometri, aveva sentito dire a un
occidentale impettito.
Dopo un paio di calcoli per convertire in misure più
familiari, per poco non gli erano schizzati gli occhi fuori delle
orbite.
Un conto era percorrere quegli spazi in allegra compagnia,
scorrazzando per i vagoni insieme a Sozou e facendo disperare i vari
adulti, un
conto era farseli da solo, col timore di vedersi comparire facce note a
ogni
fermata.
Poi c’era stato quel controllore sospettoso…
Ma adesso era finita e, grazie agli dèi, poteva assaltare
l’Aoiya.
Figurativamente parlando, s’intende.
Accorgendosi che il pomeriggio volgeva rapido alla sera, ben
conscio dei pericoli che una metropoli come Kyoto poteva regalare al
buio (ebbe
un’immagine di suo padre poco più grande di lui,
lì, un assassino della notte,
e sfiatò dal naso), accelerò il passo.
L’albergo non era cambiato. Sempre tradizionale, con le
belle lanterne gialle appese all’entrata e rumore di risa
dalle sale.
Prese un forte respiro.
Non possono ancora sapere che sei scappato, si
disse.
Ma di certo sanno già che sei qui. Giocatela bene.
In treno aveva avuto tutto il tempo di perfezionare le
prove: un collage di vecchie lettere di suo padre, giunte durante brevi
assenze
o minute di altre spedite da casa, tutte scritte su carta uguale. I
pezzi erano
pochi e strappati ad arte; chiunque avrebbe detto che la lettera fosse
stata
una, incidentalmente distrutta nel viaggio.
Niente missiva per avvertire del mio arrivo? E cosa
sarà
mai per il servizio di posta perderne una?
Era tutta questione di sangue freddo.
E determinazione.
Li avrebbe convinti, perché doveva
trovare Hiko.
E seppe che ci sarebbe riuscito quando, individuato il
previsto gruppo di Oniwabanshu in sua attesa, levò un
braccio e salutò col suo
sorriso più accattivante del mondo.
Cari
Aoshi e Misao,
come state?
――――――――――――――――――――
Spero
che dalle vostre parti le cose vadano bene e gli affari siano fiorenti
come e
più del passato.
Vi
prego di scusarmi per non essere venuto in visita, qui al dojo Kamiya
ogni
giorno è impegnativo (oserei dire estenuante) e non mi
è possibile spostarmi.
Mi scuso anche per le poche, scarne righe che vi mando.
Per
essere sinceri, avrei un favore da chiedervi.
――――――――――――――――――――
Si
tratta di Kenji e della sua educazione alla spada. Come sapete, io sono
l’ultimo allievo della scuola Hiten Mitsurugi, ma non ho mai
avuto intenzione
di prendere il posto del mio maestro come quattordicesimo successore,
né di
insegnare informalmente (di questo è stato più
volte scontento Yahiko, ma ahimè
tempo proprio di essere deciso).
Mio
figlio prova curiosità per questo stile,
com’è naturale.
――――――――――――――――――――
Ve
lo chiedo come favore personale, fate in modo che
――――――――――――――――――――
possa
incontrare il mio vecchio maestro e imparare qualunque cosa riguardi
l’Hiten
Mitsurugi.
――――――――――――――――――――
Abbiate
cura di lui fino a quel momento. Non sarò lì
finché tutto non sarà pronto.
Con
affetto
――――――――――――――――――――
Kenshin Himura
Kenji era sparito.
Non era in casa, nessuno l’aveva visto in città,
nessuno
sapeva qualcosa.
I Sagara e i Myojin guardarono con un misto di orrore e
preoccupazione i due genitori, scarmigliati dalla notte insonne ma
decisi a
continuare le ricerche senza un attimo di sosta.
«Potrebbe essergli successa qualsiasi cosa, è solo
un
bambino» gemette
Kaoru, tenendosi una
mano sulla fronte.
Kenshin stava ritto accanto a lei, gli occhi cerchiati.
«Vi aiuteremo» disse Yahiko, facendo per
incamminarsi.
«Siete già stati al Vecchio Tempio?»
«Non ancora.»
«Ieri ci siamo resi conto tardi che mancava»
aggiunse Kaoru,
tormentandosi le mani. «Ultimamente se ne stava parecchio per
conto suo…»
«Beh, allora ci vado io. Sano, tu puoi andare al
porto?»
Sanosuke annuì, scambiando un’occhiata con Megumi.
«E la
volpe qui dice che spargerà la voce alla clinica, il viavai
aiuterà a
diffondere la notizia. Così, se il barattolo sta giocando a
nascondino, forse
capirà che un bel gioco dura poco.»
Accanto a lui, stordito per il mucchio di informazioni che
gli venivano riversate addosso in qualità di pargolo
più grande (gli altri
erano tenuti in casa per non sollevare polvere inutile), Sozou
deglutì.
Sparire senza una notizia?
Sebbene desiderasse essere cinico, quella non era una cosa
da Kenji.
Ne avrebbe parlato a qualcuno, prima di levare le tende. A
lui, almeno.
Ma forse aveva ritenuto che il loro giuramento di reciproca
fedeltà sarebbe stato stracciato facilmente. E non aveva
tutti i torti. In quel
momento notò che tutti gli sguardi s’erano puntati
su di lui.
«Sozou»
disse zio
Kenshin.
Era così preoccupato che il suo volto sembrava grigio.
«Non so niente» rispose, scuotendo la testa.
«Non mi ha mai
detto di volersene andare… se se n’è
andato spontaneamente.»
Sua madre gli strinse forte la spalla.
«E’ la verità? E’ importante,
Sozou.»
«E’ la verità.»
«Mamma! Papà!» Si voltarono tutti per
vedere Inoi correre
verso di loro, il pugno alzato. «Guardate! Era in camera di
Kenji!»
Le diedero appena il tempo di raggiungerli e subito il
foglietto, minuscolo, stropicciato e sporco passò di mano,
finendo in quelle di
Kaoru.
La donna lesse muovendo appena le labbra.
«Che cosa dice? E’ suo?!»
«“Torno presto”» fu la flebile
risposta.
Kenshin prese il foglio e scorse a sua volta l’esiguo
messaggio, impallidendo se possibile ancora di più.
«Ma è almeno la sua calligrafia?» chiese
Sanosuke, guardando
oltre la spalla dell’amico. Questi annuì.
«Dove l’hai trovato, Inoi-chan?»
«Era finito sotto il suo futon.»
Sul gruppo scese il silenzio.
«Beh» mormorò poi Megumi, maneggiando
con insipienza il
bordo del suo haori floreale. «Almeno sappiamo che non
è stato rapito.»
Kenshin emise un verso ambiguo, tra la risatina e il gemito.
«Ha solo tredici anni. Quanto durerà in giro da
solo, prima
di esser rapito davvero?»
«Questo no, zio Kenshin» protestò Sozou.
«Kenji sa badare a
se stesso, l’hai visto anche―»
Sua madre lo zittì con un’occhiata.
«Lo so io dov’è andato»
sbottò allora Yahiko, che doveva
essersi trattenuto a stento fino ad allora. «Kaoru, dove sono
le tue sacche da
viaggio?»
Altrove, il mattino giunse roseo e tiepido, facendo capolino
con gentilezza nella stanza dell’ospite più
giovane. Questi si svegliò con un
profondo respiro, gli eventi del giorno prima già in arrivo
nel cervello appena
desto.
Il viaggio. L’arrivo. L’accoglienza sorpresa ma
calorosa e,
soprattutto, l’assenza di zio Aoshi.
Di tutti, lui era la persona cui Kenji aveva guardato con
più apprensione. Se c’era qualcuno che poteva
smontare il suo piano prima
ancora che partisse, quello era il capo degli Oniwabanshu. Ma il Grande
Buddha
mancava e questa era già una piccola vittoria.
Significava che la sorte gli arrideva.
Zia Misao, nell’ascoltarlo e vagliare la lettera rappezzata
col piccolo Shiki in braccio, s’era convinta con ingenuo
ottimismo e gli aveva
dato il benvenuto nell’Aoiya, promettendogli di aiutarlo a
trovare Seijuro
XIII. Sarebbe stato molto semplice.
Al di là di uno scintillio divertito, che un po’
lo insospettì,
gli occhi della donna non avevano tradito sospetto alcuno. Sempliciotta
da
giovane, sempliciotta da adulta.
Semmai, Kenji doveva stare attento col nonno Okina. Il
vecchio era ancora acuto.
Buttò le coperte a lato e si alzò, già
inebriato dal profumo
che filtrava sotto le porte.
Doveva proprio essere ora di colazione.
Sciogliendosi accuratamente i muscoli, per poter scattare in
caso di fuga d’emergenza (non aveva ancora del tutto escluso
di esser sgamato),
uscì. La locanda non era enorme, ma la gente non mancava. La
nuova epoca
apparteneva ai commercianti e ai viaggiatori, figure che spesso
coincidevano,
come diceva sempre suo padre. Rabbuiato dal ricordo di quella
persona,
bighellonò per il giardino finché le distrazioni
non gli ridiedero una certa padronanza.
Cavoli, doveva darsi un tono.
I veri giochi erano ancora tutti da giocare, non poteva
farsi prendere dalla collera. Quella l’avrebbe sfogata
allenandosi con Hiko.
E a proposito di Hiko… voleva che glielo cercassero appena
possibile. Subito.
Balzò sulla veranda che adornava l’intero
perimetro interno
dell’Aoiya ed entrò in uno dei passaggi riservati
al personale, chiudendosi
subito dietro lo shoji e sgattaiolando via per i corridoi.
La sua memoria era buona: non faticò a trovare le cucine,
dove Omasu ― i capelli raccolti in un fazzoletto e un cucchiaio in mano
― lo
nutrì generosamente.
«Sei mattiniero, Kenji-chan» commentò
mentre lui masticava,
appollaiato su un vecchio cassone per le stoviglie. Per fortuna la
scodella
nascose la sua smorfia al “chan”. «Ti
aspettavamo per le otto o le nove… come
quella pelandrona di Misao; ora che ha la scusa del piccolo Shiki non
si
alzerebbe mai!»
Kenji offrì un sorriso educato, maledicendosi internamente
per non aver preso la colazione ed essersela battuta a mangiare
altrove.
Trangugiò gli ultimi sorsi di soba e restituì
tazza e
cucchiaio.
«Grazie, zia Omasu.»
Lei arrossì tutta e il ragazzino si congratulò
mentalmente
con se stesso. Onestà ed educazione, i migliori amici degli
imbucati. Beh,
apparente onestà, d’accordo… ma non
è che stesse progettando una rapina
colossale alla banca; alla fine aveva solo piegato un po’ la
verità.
Pochino pochino.
Evacuò la cucina e andò in cerca di qualcosa da
fare,
pregando che quel giorno zia Misao sentisse un’oncia di
dovere nei confronti
del povero ospite e si alzasse prima.
Ma scoprì presto che non ne avrebbe avuto bisogno. Giunto
nei pressi dell’atrio, dove alcuni sconosciuti si vestivano e
pagavano gli
extra del soggiorno, colse il trambusto di un carro alla porta.
Incuriosito dal
baccano schioccante, rimase a vedere.
E, quando la porta si spalancò, riconobbe zia Okon con una
sacca a tracolla e un bambinetto dai capelli nerissimi alle calcagna.
Ricordò
che ― era vero ― non l’aveva ancora vista da
quand’era arrivato.
Levò la mano, vagamente intrigato dal bambino.
«Hey, zia O―»
Il saluto gli morì in gola.
Non era stato un carro a fare casino. Era un uomo,
stracarico di quelli che sembravano orci di terracotta legati per i
manici e
issati in spalla.
«Maledizione, Okon! Dammi una mano, altrimenti le mie opere
finiranno per scheggiarsi!»
«Subito amore» cinguettò lei.
«E non chiamarmi “amore” quando siamo
qui» ringhiò lui,
cercando di apparire minaccioso.
«Va bene, amore.»
«Urgg.»
A causa del suo movimento brusco, un vaso si sganciò e cadde
in frantumi.
Mentre si aprivano le porte dell’inferno e tutto il
personale storico della locanda accorreva per salutare, ridendo, il
ritorno
“dei poveri eremiti montani”, Kenji rimase a
osservare la scena a bocca
spalancata.
Dall’ultima (e unica) volta che l’aveva visto erano
passati
quasi sette anni, ma quel volto era rimasto impresso a fuoco nella sua
mente.
L’avrebbe riconosciuto fra mille. Avanzò di pochi
passi, il cuore in tumulto
per l’emozione.
Eccola, finalmente. La sua unica speranza di imparare. Il
grande uomo che gli avrebbe trasmesso la tecnica che altri
volevano
uccidere.
Lo guardò con insistenza.
E infine Seijuro Hiko, tredicesimo maestro della scuola
Hiten Mitsurugi, il volto e il corpo ancora irrealmente giovani come se
immuni
al tempo, incrociò il suo sguardo.
A Tokyo, Kenshin Himura prese una decisione.
«Io vado.»
«A Shinshu?»
«Sì. Parto adesso. Giusto il tempo di prendere il
necessario
per il viaggio.»
«Ma―» balbettò Kaoru.
«Mi raccomando, abbi cura di Inoi e Shinta.
Tornerò in men che
non si dica.»
«No, voglio venire anch’io!»
Lui scosse la testa. «E’ meglio di no. Il treno non
arriva
fino al paese e non possiamo far scalare di corsa le montagne ai
piccoli. Da
solo farò prima.»
Kaoru cercò, invano, di trovare una risposta.
Fu battuta sul tempo da Sano.
«Ma tu sai come arrivare a Shinshu?»
«Chiederò per strada» rispose Kenshin.
«Non m’interessa se ci sono montagne, sia Inoi sia
Shinta
sono in forma» puntualizzò Kaoru. Poi
abbassò la voce. «Non ho alcuna
intenzione di restare a casa da sola… dopo quello che
è successo.»
«Perché, cos’è
successo?» s’intromise Yahiko.
I due indicarono che l’avrebbero spiegato più
avanti.
Prima che potessero riprendere a discutere, Megumi si
schiarì la voce.
«Scusate, non sta certo a me dirlo, ma… siete
sicuri che
Kenji vorrà seguire il signor Ken? Negli ultimi
tempi―»
«Sì, lo so, nelle ultime settimane non siamo
andati proprio
d’accordo ed è arrabbiato col
sottoscritto» ammise Kenshin. «Però
è mio figlio
e, finché non sarà adulto, è in questa
casa che dovrà stare. Voglio assicurarmi
che―» s’interruppe, guardando altrove.
«Lo convincerò. Devo solo ritrovarlo e
assicurarmi che stia bene. Kaoru, per favore, preparami una sacca con
del cibo,
una coperta e un po’ di denaro, io corro in
stazione.»
Lei stava per protestare ancora, ma davanti ai suoi occhi
tormentati tacque.
Poi sparì in casa, le guance rigate di lacrime.
I Sagara e Yahiko, ancora in giardino, capirono che il loro
ruolo doveva essere deciso oppure la loro presenza sarebbe diventata
inopportuna.
Sanosuke fece schioccare le nocche.
«Non sia mai che io lasci solo un amico in
difficoltà.
Accetti una mano, Kenshin?»
Fu sollevato nel vedere il suo sorriso d’assenso. Non che un
rifiuto gli avrebbe impedito di andare, ma tant’è.
Yahiko storse la bocca. «Io invece ho la palestra, muovermi
è impossibile. Però terrò
d’occhio il dojo e se Kaoru non si sente sicura
potrà
dormire da me e Tsubame.»
«Grazie,
Yahiko.»
«Ah. E un’altra cosa.»
L’espressione di Kenshin si fece stupita quando, armeggiando
alla cintura, il giovane uomo liberò la sakabato.
«Oro.»
«Portala con te. A scorno di quello che dice il governo, io
continuo a pensare che non ci si possa muovere tranquilli
senza.»
Kenshin alzò le mani.
«Yahiko, è tua, l’ho regalata a te. Non
posso riprendermela
ogni volta che mi garba. Ultimamente ha girato fin troppe
mani.»
Imperterrita, la spada continuò ad essergli offerta.
«Primo, questa non è “ogni
volta” , secondo, quello che mi
hai dato tu era un concetto più che un’arma in
sé e per sé, no?» Yahiko
s’indicò la testa. «E quello
resterà sempre in zucca. Fossi sicuro che non ti
offendi, potrei arrivare a dirti che te la restituisco. Ora serve
più a te.»
Kenshin scosse il capo, ma strinse il pugno intorno alla
familiare, fredda guaina di ferro.
«Un regalo non torna indietro.» Poi
s’inchinò leggermente.
«Ma accetto il prestito, grazie.»
Mentre Yahiko brontolava qualcosa sulla sua “bistrattata
gentilezza, che non si sarebbe più fatta vedere”,
Kaoru tornò col necessario
per la spedizione.
«E tu, Sano?» chiese Megumi, appoggiando il palmo
della mano
sul petto del marito.
«Non preoccuparti, volpe. Sono sicuro che la signorinella ha
messo della roba in più in saccoccia, vero?»
Kaoru confermò, un po’ rassegnata.
Poi Kenshin la baciò, salutò Inoi e Shinta e
diede
un’occhiata a Sano.
«Prenderemo il primo treno.»
La moglie annuì, si strinse a Megumi, ricambiata e
attorniata dai bambini perplessi, e giunse le mani.
Fa’ che sia a Shinshu. Fa’ che lo trovino
presto. Che sia
sano e salvo!
A volte sua moglie lo accusava di avere una pessima memoria,
ma certe cose erano troppo gravi per essere dimenticate, persino per
Kakunoshin
Nitsu. Fissò il ragazzino coi capelli rossi, spuntato da una
notte all’altra
dal pavimento dell’Aoiya, le gambe dritte, gli occhi decisi,
e si passò una
mano fra i capelli.
Per tutti gli dèi. Non di nuovo.
Accettò il bicchiere di sakè portogli da Omasu e
cominciò a
centellinarlo, senza muoversi dall’uscio.
«Seijuro, entra fredd―» sullo sfondo, Shiro degli
Oniwabanshu fu zittito. «Ma la legna costa!»
«Sst!»
«Dunque» disse Hiko, squadrando Kenji.
«Ti ricordavo più
alto, stupido allievo.»
Sapevo che prima o poi sarebbe venuto.
La faccia del ragazzo divenne paonazza.
«Non sono Kenshin. Sono Kenji!»
E sembri anche più avventato di lui.
Le prospettive erano tutt’altro che rosee.
Kakunoshin,
ovvero Seijuro XIII era sopravvissuto a un Himura, ma non era sicuro di
poterne
reggere due. La pazienza di un uomo aveva dei limiti.
Acchiappò il figlio e tentò una dignitosa,
compassata uscita
di scena.
«E’ stato un piacere rivederti, figlio dello
stupido
allievo.»
«Cosa? Hey… un attimo! Aspetta! Devo
parlarti!»
Seijuro si trovò la porta bloccata ― ed era stata appena
alle sue spalle.
Il ragazzo era veloce.
Interessante. Suo malgrado, avvertì una scarica di
adrenalina. «Parlarmi? E di cosa, se non è troppo
chiedere?»
«Io, uh… ecco, voglio― ma non possiamo parlarne in
privato?»
«E’ una cosa illecita?»
«No!»
«E allora che problema c’è?»
«…»
«Marmocchio, mi sto stufando. Ho ancora parecchio da
sbrigare su al rifugio, non ho tempo da perdere con te.»
Il viso del postulante divenne quasi viola, come se fosse
sul punto di esplodere. Ah, l’orgoglio.
Un punto a sfavore per lui, nel confronto col padre.
Tuttavia, Seijuro scoprì subito che era pieno di risorse.
Ignorava quando e come fosse arrivato, ma se sapeva ancora il fatto suo
poteva
scommettere che la mezza pinta avesse viaggiato da sola, senza
l’appoggio né
tanto meno il permesso di qualcuno, convincendo Misao della propria
buona fede
grazie a qualche trucchetto ben congegnato.
E poi lo vide inchinarsi profondamente davanti a tutti, i
pugni stretti contro i fianchi.
«Signor Hiko, sono venuto qui per chiedervi di insegnarmi
l’arte della spada. Vi prego, permettetemi di chiamarvi
“maestro”.»
«Ah» rispose, lisciandosi il mento dopo che Okon
gli ebbe
preso il figlio di braccio. «Allora sai anche essere
educato.»
«Ma Kenji è educatissimo»
commentò Omasu dalle quinte.
Accanto a lei, comparso chissà quando, Okina si appoggiava a
uno stipite, le braccia incrociate. I suoi occhi scintillarono.
Seijuro sogghignò.
«Ragazzo, quando un aspirante allievo chiede di essere
ammesso, la tradizione vuole che si sporchi la fronte, non lo
sai?»
Dalla piccola folla di spettatori si levò un coro di voci
costernate.
Sporcarsi la fronte.
Cioè prostrarsi fino a premerla contro il pavimento, i
gomiti flessi in fuori, le mani stese una di fronte all’altra
davanti alle
ginocchia, nell’inchino più formale che esistesse.
Kenji quasi spalancò la bocca.
Era una scusa per umiliarlo, fin lì ci arrivava. Quel che
non capiva era perché.
Che tipo di uomo era veramente Hiko?
Ma soprattutto, cosa doveva fare lui adesso? Prostrarsi
sul serio?
«Allora? Già cambiato idea?»
Strinse la mascella, mentre il formicolare bruciante della
rabbia gli pompava nelle arterie.
«No.»
«Dimostralo.»
«Un guerriero non si prostra davanti a nessuno.»
«E tu saresti un guerriero? Bah, ne ho
abbastanza.»
Kenji lo vide girare sui tacchi, indirizzando un gesto a qualcuno nel
corridoio. «Una volta i mocciosi conoscevano il proprio posto
e non ti
importunavano a oltranza. Che tempi.»
Se ne stava andando.
La sua unica possibilità se ne stava andando, e in fretta, e
lui doveva fare qualcosa o non si sarebbe mai perdonato.
«Aspetta!»
Era una prova. Una prova. Una prova.
Continuò a ripeterselo intanto che piegava le gambe,
soffrendo a ogni centimetro, giurando vendetta quando le sue ginocchia
collisero col legno della pavimentazione.
E’ per l’Hiten Mitsurugi!
Poi strinse i denti e si buttò in avanti.
«Per favore, mi prenda come allievo.»
Nulla.
Né risa, né mormorii di compatimento, men che
meno una
risposta.
Lentamente, sollevò la testa e sbirciò. La stanza
era vuota,
priva di vita… fatto salvo per lui ed Hiko.
L’uomo lo sovrastava, l’espressione indecifrabile.
Quand’era uscita tutta l’altra gente?
Non… non lo avevano visto
umiliarsi in quel modo?
«Cosa faresti» disse Seijuro XIII, facendogli segno
di
sedere dritto «se ora ti dicessi che non prendo
più allievi?»
Kenji deglutì, conscio d’aver passato una prima
verifica e
di essere alla seconda.
«Direi che non accetto una risposta del genere. Che lei
è
ancora giovane e in grado di insegnare. Che ne valgo la
pena.»
«Se vali o non vali la pena sarò io a deciderlo,
pel di
carota.»
Digrignò i denti.
«Che ho già fatto parecchio da solo. E che non ho
altri cui
rivolgermi.»
Gli occhi dell’uomo baluginarono.
«Cosa vuoi dire con
“parecchio”?»
«So eseguire le basi dell’Hiten Mitsurugi. Ho
bisogno di una
guida per i livelli―»
«E chi ti ha insegnato. Tuo padre?»
All’improvviso, seppe di esser scivolato su un terreno
franoso. Questa persona era come zio Aoshi, scaltra e informata.
«No. Ho imparato da solo.»
«Come?»
«Dalle descrizioni.»
«E lui non ti ha detto niente? Non ha cercato di
impedirtelo?»
«E’ stato lui a mandarmi qui. Non può
più fare niente del
genere.» Almeno così si sapeva,
aggiunse tra sé, venefico. Ma non doveva
assolutamente distrarsi. Si frugò nel gi, cercando i
frammenti della presunta
lettera. «Ecco―»
Hiko la prese, scorse le poche righe e un’ombra di sorriso
gli animò le labbra.
«Ah.»
Il ragazzino lo fissò, in trepida attesa.
Ma l’uomo cominciò a muoversi verso
l’interno della locanda,
il mantello svolazzante oltre le spalle.
Il cuore di Kenji fece l’ennesimo salto. Aveva fallito?
«Maestro!»
«Ma sì, ti darò una settimana. Il tempo
di tornare su al
rifugio e sistemare le ultime cose per l’inverno. Io e la mia
famiglia lo
trascorriamo sempre a Kyoto. Sarai tu a dovermi far cambiare
idea.» Si tolse la
lunghissima coda dal collo. «Adesso vieni, voglio mangiare,
stupido allievo.»
L’appellativo passò inosservato.
Per un attimo, Kenji aveva dimenticato persino l’umiliazione
dell’inchino.
Ce l’aveva fatta.
Seijuro Hiko l’avrebbe istruito.
Era il suo maestro!
Fu più forte di lui: accartocciò il viso,
fletté le
ginocchia e saltò alto, abbandonandosi
a un belluino grido di giubilo.
Kenshin fissò con orrore il nodoso impiegato della stazione,
trovandosi momentaneamente muto.
Non così Sano.
«Che cazzo vuol dire?»
L’omino si ritrasse un po’ dietro il vetro
appannato del
botteghino.
«Q-quello che ho detto, signore. C’è
stata una frana, le
linee sono tutte bloccate.»
«Ma non è possibile!»
«La prego di credermi, pensa che mi prenderei―»
«Poche storie!» Il pugno del
non-tanto-ex-attaccabrighe
cozzò contro il banco. «Qui
c’è un ragazzo che è scomparso e deve
essere
recuperato, non abbiamo tempo per le vostre―»
«Sano…»
«―stronzate.»
«Sano.»
«Uh?»
Kenshin gli mise una mano sull’avambraccio per buona misura,
scuotendo la testa. Poi si rivolse al bigliettaio.
«Quanto ci vorrà perché i treni
ripartano?»
«Cre-credo qualche giorno, signore. La frana è
davvero
grande e un treno si è schiantato.»
«Ma quand’è successo?»
s’intromise uno sconosciuto. S’era
già formata una piccola calca e l’impiegato
cominciò a sudare visibilmente.
«Stanotte, ci hanno dato notizia appena―»
Kenshin gli ostruì la visuale, costringendolo a guardarlo.
«Quanto?»
«Quanto cosa, signore?» pigolò
l’omino.
«Quanto ci vorrà di
preciso?»
Non poteva essere. Non potevano bloccare tutto, lui doveva
andare!
«N-non ci hanno detto.»
«Non ha altri casi da portare a esempio?» disse,
ripetendosi
di mantenere la calma. Puoi sempre partire a piedi, Kenshin.
«Altre
frane, altri incidenti.»
L’impiegato impallidì fino a diventare quasi
trasparente e
Kenshin, a un gesto di Sano che indicava i suoi occhi, si rese conto di
avere
l’espressione un po’ tirata. Sospirò,
imitato dagli altri mancati passeggeri.
«Per favore.»
«S-sì, ora ricordo… uh…
l’ultima volta… sì, qualche anno fa,
c’è voluta più di una settimana. Ah,
ma» si corresse, cogliendo nell’aria un
sentore di morte «oggigiorno le tecniche di lavoro sono molto
più svelte,
certamente ci vorrà―»
«Quanto?»
«Q-quattro, cinque giorni!»
«E dove ce la vedi la differenza, tappo?»
sbraitò Sanosuke,
sentendosi preso in giro.
«Già, è una vergogna!»
commentò qualcuno.
«Noi dobbiamo partire, come facciamo adesso?»
aggiunse una
donna, tenendo per mano tre bambini.
E mille altre proteste finché, ormai preoccupato per la
propria vita, prima di abbassare lo schermo e chiudere il botteghino il
bigliettaio non accennò al fatto che avrebbero potuto usare
le carrozze offerte
dal servizio postale.
Se riuscivano a trovarne ancora una.
Difatti, quando arrivarono al grande centro dei trasporti di
Tokyo, non lontano dalla stazione, non c’era più
un cavallo neanche a pagarlo,
figuriamoci un carro.
«Nessun problema» dichiarò Sanosuke,
caricando i pugni.
«Assaltiamo la prima che incrociamo e facciamo scendere
tutti.»
«Sano, non è il momento di scherzare»
rispose Kenshin a capo
chino. Si sentiva malissimo, una combinazione dell’assenza di
suo figlio,
dell’aver saltato la colazione e del ritrovarsi privo di
risorse.
Erano in giro da oltre un’ora (il tempo di attraversare
Tokyo, a piedi, per arrivare dalla periferia al centro) e non avevano
combinato
nulla.
«A questo punto, non resta che andare alla vecchia
maniera»
mormorò, certo che l’amico avrebbe protestato ma
pronto a controbattere. «Cioè
a piedi. Ci vorrà di più, però non
starò con le mani in mano.» Sistemò
meglio
in spalla la sacca con la sakabato, assicurandosi d’averla
ancora. «Che ne
pensi?»
Gli sembrava già di sentirlo.
“Sei
matto?” avrebbe detto, ruminando il solito filo
d’erba.
“Sono più di duecento chilometri, e va bene che
tredici anni fa me li sono
corsi in un giorno, ma ero io ed ero tredici anni più
giovane e non c’è verso
che ora riusciamo a esserci prima di”― un momento.
Perché Sano stava zitto?
Si voltò, incuriosito.
«Sano?»
Ma Sanosuke era sparito.
Lo ritrovò cinque minuti dopo, accanto a una carrozza che
aveva cercato di fermare, già in manette.
Il suo cuore pianse.
***
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Capitolo 8 *** VII - La giovane tigre e la giungla ***
Capitolo
VII
La giovane tigre e la giungla
“La vita
è una candela
davanti al vento.”
Proverbio giapponese.
Ci volle del
bello e del buono per liberare Sano, colpevole
d’aver minacciato una carrozza piena di ufficiali.
Lì non erano sotto la
giurisdizione dell’ispettore Urayama, sempre troppo
indulgente.
Sano
arrivò persino a dirgli di mollarlo lì,
tanto prima o
poi sarebbe venuta Megumi. Kenji era più importante.
Ma Kenshin
stesso fu trattenuto come possibile complice e,
in men che non si dica, per quanto dicesse e facesse, la giornata era
tragicamente scivolata via.
Tornarono a
casa al tramonto, stanchi come dopo un vero
giorno di viaggio.
«Oy
Kenshin.»
«Sì,
Sano?»
«Mi
dispiace.»
Lui scosse la
testa. «Stavi facendo del tuo meglio.»
Continuarono
per un pezzo senza parlare.
«Kenshin?»
Kenshin lo
guardò, socchiudendo le palpebre contro il
bagliore rossastro del sole.
«Perché
non hai denunciato la scomparsa di
Kenji?»
Non fosse
stata la questione così seria, avrebbe riso.
«L’ho
fatto. Ma non alla polizia.»
«Vuoi
dire che la tieni fuori? Il suo potere si è
allargato
parecchio da un decennio in qua.»
«Non
mi fido. Troppi personaggi della Bakumatsu sono entrati
nel governo e nella gestione della giustizia, e non tutti sono stati
amici
miei. Se dovessero sapere che mio figlio è a piede
libero…»
«Ah,
andiamo. Chi vuoi che pensi ancora al passato? Sono
cose sepolte, dovresti avvertire più gente che puoi e
basta.»
«Potrebbe
stupirti il numero di persone che la pensano
diversamente. Persino mio figlio, nato nella nuova era, tiene il
passato in
considerazione più del presente.»
Tacque,
stringendo le labbra all’intensa fitta di dolore.
Kenji. Kenji,
Kenji, Kenji. Dov’era? Come stava? Era in
pericolo? Forse in quel
momento aveva bisogno di lui, stava scappando, cercava di difendersi,
veniva
sopraffatto e uomini senza volto gli tiravano indietro la testa,
scoprendogli
la gola―
«Hey!»
La robusta
presa di Sano lo stabilizzò, tenendolo in piedi.
Kenshin si
toccò la fronte col dorso della mano.
«Stai
bene? Ti ho visto ondeggiare di brutto.»
«Sì,
ho solo» deglutì
«solo avuto un po’ di vertigini. Sto
già meglio.»
«Mh»
fece l’amico, scettico.
“Meglio”
era un eufemismo, anzi, una menzogna
bell’e buona
(cosa avrebbe detto a Kaoru? Quando avrebbe rivisto il loro bambino?),
ma
salutò comunque con un finto sorriso l’uomo che
proseguiva, diretto alla
clinica.
«Riposa,
Kenshin. Domani partiamo. E lo troveremo.»
Avrebbe voluto
crederci con altrettanto ottimismo.
Kenji non
stava più nella pelle. Quella sera, dopo aver
ascoltato le brevi istruzioni del maestro (partenza all’alba,
bagaglio leggero)
ed essersene andato a letto, non riuscì a chiudere occhio.
Fu una pessima
cosa. Distrutto dalle fatiche emotive e
fisiche del viaggio, piombategli addosso in un giorno solo,
crollò durante la
mattina ancora buia e l’unica cosa a svegliarlo furono gli
scrolloni di Omasu.
«Kenji,
Kenji, che stai facendo? Hiko è
già uscito!»
Scattò
a sedere di riflesso, gli occhi chiazzati di rosso.
«Cosa?!»
Fuori, il sole
era sorto.
Uscì
e corse a perdifiato, la sua piccola sacca a tracolla,
ritrovando il maestro solo grazie alle previdenti raccomandazioni di
Okon,
rimasta all’Aoiya.
Era
già a una buona distanza dalla città.
«Ma…
e… stro, aspetta!»
«Sei
in ritardo, granello di riso. Ti avevo detto
l’alba» fu
il laconico commento dell’uomo. «Non sopporto
l’imprecisione.»
«Beh»
non riuscì a trattenersi dal dire,
«ieri ho pur sempre
attraversato mezzo Giappone!»
«Non
sopporto nemmeno le lagne. Sei venuto di tua spontanea
volontà, mi hai costretto a portarti con me e ora accampi
scuse? Cresci,
poppante. E accelera il passo, sei lento come una lumaca.»
Davanti a
quella pioggia d’insulti, Kenji spalancò
la bocca.
Come si
permetteva? Ma chi si credeva di essere? Avrebbe
potuto almeno voltarsi mentre gli parlava! Forse aveva paura di
guardarlo negli
occhi?
Stava per
mandarlo a quel paese quando il cervello gli
impose uno stop. Meglio andarci piano.
E’ pur
sempre un grande maestro, qualche licenza
deve
essergli concessa. Non prendere ad esempio tuo padre, Kenji, chi
chiamerebbe
“maestro” uno che finge di abbandonare la spada per
non insegnare?
Il ricordo del
volto sempre sorridente portò con
sé rabbia,
ma anche il pensiero di casa. Per un attimo rivide sua madre e i suoi
fratelli
e si chiese se si stavano preoccupando almeno un po’.
Probabilmente
no. Ormai Kenji Himura era un caso perso.
Si accorse di
essere rimasto indietro e si mise a correre.
Adesso aveva
una missione precisa, uno scopo che veniva
prima di tutto. Doveva impegnarsi in quello.
E di tanto
impegno avrebbe avuto bisogno, perché una volta
arrivati allo spartanissimo rifugio, la vita con Seijuro Hiko
seguitò a
peggiorare di minuto in minuto, rivelandosi per quel che era il
tradizionale
rapporto allievo-maestro: ovvero, di semi-schiavitù.
Quella
mattina, mentre il momento di partire si avvicinava,
Kenshin strinse forte Kaoru contro di sé.
La casa era
silenziosa. A quell’ora, di solito, Shinta
sarebbe sgattaiolato nella loro camera per dire che doveva fare
pipì, oppure si
sarebbe rivolto a Kenji, che adorava nonostante il fratello fosse tutto
tranne
che entusiasta di lui.
Inoi poi aveva
l’abitudine di battere forte le mani nel
mezzo della notte, per spaventare i pipistrelli che, a sua detta,
infestavano
la veranda. Era qualcosa destinato a far nascere pazzeschi litigi al
buio, tra
lanterne fracassate e piedi sbattuti contro gli stipiti,
perché immancabilmente
Kenji si svegliava.
Ma ieri i
bambini non erano riusciti ad addormentarsi fino a
tardi, consci dell’anormalità delle cose. E Kenji
non c’era.
Il giorno
giungeva quieto, irreale.
Sentì
Kaoru mormorare qualcosa e le sospirò nella
spalla.
Poi cominciò lentamente a districarsi dal suo abbraccio.
«Torna
presto» gli disse lei dalla soglia, il sole
appena
nato sui capelli.
Kenshin le
carezzò una guancia, annuendo, e raggiunse
Sanosuke. Ci sarebbero voluti almeno quattro giorni fino a Shinshu, se
procedevano a tappe forzate.
Il suo cuore
era diviso. Era fuori di sé per Kenji e
inquieto per il resto della famiglia, sola con strani tizi in giro che
guardavano troppo i bambini.
«Abbi
cura di loro; e di te.»
«Lo
farò.»
Nel
pomeriggio, le persone cui Kenshin aveva accennato con
Sanosuke (contattate per ottenere aiuto al posto della polizia)
ricevettero un
telegramma.
Il postino lo
consegnò direttamente al padrone dello
stabile, che stava rincasando dopo una breve assenza.
L’uomo
accettò la missiva, entrò fra i
saluti del personale
e si diresse ai piani superiori per cambiarsi, aprendo la busta mentre
saliva
le scale.
Sul
pianerottolo incontrò un vecchio, ancora in forma
nonostante la settantina.
Mosse
impercettibilmente il capo.
«Okina.»
«Bentornato,
Aoshi. Com’è andato il
viaggio?»
«…»
«Misao
e il piccolo sono alle terme, se li cerchi.»
Aoshi gli
spiaccicò in mano il telegramma, proseguendo verso
la propria camera.
«Comincia
a raccogliere informazioni.»
Il vecchio
Okina osservò incuriosito il pezzo di carta, poi
lo lesse e corrugò la fronte.
Ah, come
temeva.
Ma il caso era
già risolto.
Kenji
scomparso. Pensiamo
diretto Shinshu. Per favore aiutateci.
Pulisci
questo. Rassetta quello. Ramazza l’ingresso. Vai per
l’acqua. Sposta la legna.
Kenji
rifletté che, se avesse stretto i denti ancora un
po’,
presto sarebbe stato incapace di muovere le mandibole.
Era
inammissibile. Quello non era allenamento. Che gli
venisse un colpo, in tutto ciò che aveva fatto finora ― ed
era già al secondo
giorno ― non c’era il più piccolo collegamento col
kenjutsu. Seijuro Hiko lo
stava solo usando come schiavo personale.
E lui era a
tappo.
«Basta»
dichiarò dopo
l’ennesima corvée. «Non sono venuto
qui per queste stronzate.»
Dal suo posto
davanti al focolare, quello del massiccio,
tondeggiante forno da ceramica, il “maestro” gli
lanciò un’occhiata. «Ohh, ma
guarda. Sono impressionato.»
«Bene.»
«Era
ironia, ragazzo, ironia.»
Kenji lo
fulminò con lo sguardo, sperando di vederlo
prendere fuoco.
Lui aveva
avuto un sogno, e quell’uomo indegno
gliel’aveva
rovinato per sempre. In che razza di mani era caduto l’Hiten
Mitsurugi? In
quelle di un pallone gonfiato e di un bugiardo…
«D’accordo»
sbottò Hiko in
quel momento.
Si
alzò, entrò nella casetta e tornò
con due oggetti
oblunghi in mano.
Due spade.
Gliene
lanciò una e, nel prenderla, Kenji si
sentì balzare
il cuore in gola. Lo guardò, incredulo. Stava davvero
succedendo? Lo stava
sfidando a un incontro?
Guardò
bene e, mentre l’uomo avanzava sino alla
distanza
prestabilita, colse nei suoi occhi una luce sinistra.
«Mostrami
che sai fare, mezza pinta. Ma fallo bene»
sguainò
la spada con un unico, fluido movimento. Il tradizionale filo della
lama
riverberò alla pallida luce del sole.
«Perché io non avrò
pietà.»
Deglutendo,
Kenji lo imitò.
«Allora
nemmeno io.»
Il cuore gli
batteva già a mille. Nel notare il peso della
spada, maggiore rispetto a quello cui era abituato, fu invaso da uno
shock
adrenalinico.
Davanti a
sé aveva un avversario vero. Lentamente, per
prendere tempo, cominciò a girare in tondo.
Si
inumidì le labbra, teso.
Era un
maestro, non c’era dubbio. Osservava i suoi movimenti
con una rilassatezza che avrebbe ingannato il principiante ma, per
fortuna,
Kenji non lo era.
Era
però dotato di una conoscenza incompleta
(eufemisticamente parlando) dell’Hiten Mitsurugi, quindi
sapeva cosa aspettarsi
solo fino a un certo punto. Cosa fare? Attaccare o aspettare
d’essere
attaccato? Puntare tutto su una bella mossa o andarci coi piedi di
piombo?
«Avanti,
che aspetti?»
Facile.
«Te
ne
pentirai»
sussurrò.
Kenji non era
tipo da starsene con le mani in mano.
Individuata
quella che sembrava un’apertura, finse di
compiere un altro passo e, all’improvviso, scattò
diretto al fianco del nemico.
Quella mossa non falliva mai. Era quella che conosceva meglio.
Ma il fianco
di Hiko scomparve, sostituito dal vuoto.
Allarmato, il
ragazzo ebbe appena il tempo di compiere una
veloce rotazione del busto e levare la spada.
Tzann!
Quasi cedette
sotto la forza del colpo (c’era
un’enorme
disparità di peso tra le loro braccia, dannazione!). Poi
però la spada di Seijuro
scomparve, e il padrone con essa.
La terra
cominciò a cedere sotto i suoi piedi, friabile
dalle piogge, mentre Kenji parava un colpo dietro l’altro,
abbandonando
progressivamente il calcolo per affidarsi al puro istinto. Accortosi di
essere
spinto con le spalle al muro, si abbassò e grazie alla
propria agilità
sgattaiolò lontano, di nuovo nell’erba.
Fece per
sorridere.
Il maestro lo
aveva già raggiunto. Lo colpì
duramente alla
spalla, di piatto.
«Ah!»
Kenji perse
l’equilibrio e ruzzolò per un tratto,
tirandosi
in piedi a fatica.
«Tutto
qui, poppante?»
«Certo
che no!» rispose, inferocito. E
attaccò con nuovo
slancio.
Un’incursione.
Un’altra. E un’altra.
Diede fondo a tutte le
proprie risorse, incurante del dolore alla spalla, smanioso di mettersi
alla prova,
di vincere. Schizzò da un lato all’altro della
piccola radura, certo di essere
invisibile.
Era degno di
prendere nelle proprie mani l’Hiten. Era degno.
Lo era!
Portò
a segno solo un colpo, strappandogli un lembo di
pantalone. Poi lo vide sogghignare.
Allora si
raddrizzò, tergendosi il sudore dal mento. Aveva
il fiato pesante. Doveva concludere presto.
Ma il maestro
non gli diede tempo di pensare. Con un
roboante grido di battaglia, corse verso di lui.
Tutto
ciò che Kenji poté fare fu scartare,
inutilmente: Hiko
gli colpì anche la spalla destra, scaraventandolo lontano.
L’impatto
con un tronco gli tolse il respiro e gli
strappò
un grido.
L’aria
riverberava ancora del colpo quando scivolò
miseramente a terra, tra le radici.
«Urgh.»
Un’occhiata
gli rivelò che la sua spada era
svanita. Poi il
maestro troneggiò su di lui.
Aveva perso.
Chinò
il capo, ansimando con vigore. Per alcuni attimi
quello fu l’unico suono oltre allo stormire dei rami. Alla
fine, Seijuro gli
pungolò il fianco con un piede.
«Beh,
cosa ti aspettavi? Sei appena uscito dalla pancia di
tua madre. Non avrai pensato sul serio di vincere.»
«Maledizione.
Maledizione, maledizione.»
«Farà
tanto. Avanti, in piedi. Questo non
è niente.»
«Ni-niente?
Mi hai quasi rotto―»
«Ah,
piantala.» Di nuovo un piede nel fianco.
«Primo
insegnamento: la pazienza. Hai portato secchi e legna per
più di un giorno
brontolando senza sosta, e questo non va bene. Gli allenamenti per
diventare un
maestro della spada sono ben altra cosa, faticosi, ripetitivi e spesso
noiosi;
come pensi di diventarlo se due faccende di casa ti infastidiscono?
Secondo,
adesso: impara a perdere con dignità. Rotolare nella polvere
come un suino non
ti servirà a riguadagnare l’onore perduto. Per
quello, devi rialzarti e provare
con maggiore impegno. O puoi sempre ricorrere al seppuku.»
Kenji si
voltò sulla schiena, tirandosi su malamente.
«Cosa? Seppuku?»
Era fuori di
testa!
Lo vide
ghignare, la spada appoggiata alla spalla.
«Terzo:
sii meno credulo.» Si volse e
incamminò verso la
baracca, tranquillo, senza una goccia di sudore addosso. Pazzesco.
E come faccio a
imparare da uno che mi dice di non essere
credulo?,
si disse Kenji, tra il costernato e
l’imbestialito.
Ora cominciava
a capire perché suo padre non parlasse
volentieri dell’apprendistato da samurai.
«Adesso,
se alzerai l’onorevole deretano da terra e
preparerai una cena decente, forse mi sentirò in vena di
proseguire con gli
insegnamenti e correggere quella tua patetica, incompleta scusa di
Hiten
Mitsurugi.»
Kenji rimase
immobile, ammutolito.
Quelle
parole… significavano che aveva superato
l’ultima
prova. Significavano che l’aveva davvero
impressionato.
Gli avrebbe
insegnato l’Hiten Mitsurugi in ogni suo
più
piccolo segreto.
Adesso era a
tutti gli effetti allievo di Seijuro Hiko XIII.
«Muoviti!»
Ma la
prospettiva non lo entusiasmò come aveva pensato prima
di partire.
Il pomeriggio
tardi, a Tokyo, Kaoru ricevette un telegramma
urgente, portatogli da un garzone delle poste.
Che sia da
Kenshin?
Salutò
gli studenti che uscivano e
l’aprì.
«Da
Kyoto?» mormorò, stupita.
Nell’uscire
dal la palestra, Yahiko la trovò nel
bel mezzo
del giardino, gli occhi sbarrati, la bocca semiaperta come se fosse sul
punto
di lanciare un urlo.
«Che
c’è?»
Lei
abbrancò con forza un lembo della sua manica.
«Yahiko…
per favore… vai a
telegrafare.»
Ma tre giorni
erano troppo pochi perché due uomini
coprissero la distanza tra Tokyo e Shinshu e, la mattina dopo, quando
un uomo
uscì dal centro del telegrafo della meta chiedendo se
qualcuno conoscesse un
certo Himura, nessuno poté rispondere.
Così
il telegramma fu messo da parte.
Non era
destinato a durare a lungo, nella baraonda degli
uffici.
Soprattutto
senza che nessuno si presentasse a reclamarlo.
La notte del
quarto giorno dalla scomparsa di Kenji, Kenshin
e Sanosuke si accamparono per l’ultima volta prima di
raggiungere Shinshu.
Grazie alla
fortuna e a pochi spiccioli erano riusciti a
fare un pezzo di strada sui carri da fieno, i cui ultimi covoni
venivano venduti
tra un paese e l’altro, nonché a dormire in
qualche locanda economica. Sano
diceva che se avessero proseguito, entro mezzanotte avrebbero raggiunto
Shinshu, ma erano entrambi esausti. Non più giovane e
disabituato a quella
vita, Kenshin voleva essere padrone delle proprie forze al momento
d’incontrare
suo figlio.
Si mise
più vicino al fuoco, tendendo le mani.
Notò
che Sano aveva gli occhi cerchiati ― già,
dopotutto
erano dodici anni di più anche per lui ― e pensò
che dovevano formare un bel
paio.
Riprendere il
kenjutsu e un movimento fisico regolare non
gli aveva ridato poi quella gran forza.
Sospirò.
Kenji…
I miseri
pesciolini piantati sul fuoco cominciarono ad
annerire e s’affrettò a toglierli, allungandone
tre all’amico.
Masticarono in
silenzio, come avevano fatto per la maggior
parte del viaggio.
Non era di
conversazione che Kenshin aveva bisogno, ma di
supporto morale, e Sano lo sapeva benissimo. Non per la prima volta
nella sua
vita si rese conto di avere in lui un vero amico.
«Grazie,
Sano» mormorò.
«Hm?
E di che?»
«Per
avermi accompagnato.»
L’ex-attaccabrighe
scrollò le spalle, corrugando
la fronte.
«Non dirlo neanche. In questi casi ti è proibito
andare da solo. E poi nessuno
di noi vorrebbe farsi strangolare dalla signorinella»
sogghignò.
Suo malgrado,
Kenshin sorrise.
«Piuttosto…
mi chiedevo una cosa.»
«Cosa,
Sano?»
«Secondo
te, perché Kenji è andato con
mio fratello?»
Ah. Bella
domanda.
Se
l’era chiesto fino a impazzire.
«Sempre
che ci sia.»
«Beh,
è partito lo stesso giorno, è un
po’ strano no? Forse
voleva cambiare aria, vivere qualche avventura.» Sanosuke
sghignazzò.
«Poveraccio. Non conosce ancora bene Ota!»
Kenshin non
rispose, la cena intatta.
Vivere
avventure? Era un desiderio pericoloso. E una parte
di lui, per quanto volesse negarlo, sapeva che suo figlio era il tipo
da avere
quel genere di idee, sebbene non ne avesse mai parlato apertamente.
Cosa gli
avrebbe detto Kenji, quando l’avesse visto? Avrebbe
gridato? Avrebbe taciuto, come nelle ultime due settimane in cui
l’aveva
costretto in casa (la sua ultima azione! Forse la sua ultima azione di
padre!),
rifiutandosi di guardarlo? Sarebbe scappato? E se fosse riuscito a
riportarlo a
casa (doveva riuscirci), cosa sarebbe venuto dopo?
L’avrebbe
scoperto presto.
Il suo Kenji.
Il loro Kenji. Non potevano
rinunciare
a lui.
Chiuse gli
occhi, sopraffatto dall’ansia.
Sempre che ci sia.
Sempre che ci
sia…
E la mattina
del quinto giorno, quando incrociò lo sguardo
stupefatto e innocente di Ota, seppe subito che non c’era.
Aveva
sbagliato tutto.
Kaoru
aprì gli occhi, trovandosi in cucina.
Si
sollevò sui gomiti e si tolse di grembo il gi che aveva
cominciato a rammendare la mattina. Guardò verso le paratie
di carta di riso
per calcolare l’ora corrente ― doveva essere primo pomeriggio
― e sospirò.
Aveva di nuovo dormito tutta la mattina, riversa sul tavolo.
Una breve
occhiata le rivelò che Inoi e Shinta
l’avevano raggiunta
e imitata, la bambina accoccolata sui cuscini destinati ai commensali e
il
fratellino vicino, stretto in un abbraccio contro il freddo.
Il suo cuore
si strinse.
I suoi poveri
bambini.
Per quanto
cercassero di mostrarsi normali (almeno Inoi),
era chiaro che si sentivano spaesati.
Si
stropicciò gli occhi e si chinò su di loro,
avvolgendoli
nel gi rammendato. Shinta uggiolò qualcosa, poi si strinse
più vicino alla
sorella. Carezzò le loro piccole teste e si alzò
ad attizzare il fuoco della
stufa, che faceva di quella stanza il posto più accogliente
della casa.
Scaldatasi a
sufficienza le mani, fece un salto in camera,
dove in quella settimana non aveva dormito neanche una volta (il letto
sembrava
troppo vuoto senza Kenshin, e dopo la prima notte aveva preso
l’abitudine di
dormire nella stanza dei piccoli, stringendoli a sé).
Recuperò un grande
asciugamani, un cambio e si diresse alla baracca del bagno.
Non
scaldò neanche l’acqua, preferendo sciacquarsi
con
qualche secchio d’acqua fredda.
Il contatto la
svegliò definitivamente, prospettandole un
altro giorno di deliri.
Kenji mancava
da una settimana. Kenshin da cinque giorni.
E, il giorno
prima, era arrivato un telegramma da Shinshu,
per farle sapere che il ragazzo non si trovava lì e i due
uomini partiti alla
ricerca tornavano momentaneamente a Tokyo.
Kaoru
c’era rimasta di sasso. Pensava avessero già
proseguito per Kyoto, ma all’improvviso fu dolorosamente
chiaro che non avevano
ricevuto il suo telegramma. Dalle le scarne righe trasudava tutta la
disperazione
di Kenshin.
Doveva credere
suo figlio disperso, sparito nel nulla.
Era subito
corsa al centro telegrafi, lasciando Inoi e
Shinta alla palestra con Yahiko, per rispondergli, pregando che fosse
ancora a
Shinshu.
Le si spezzava
il cuore al pensiero della faccia che doveva
avere, scarpinando sulla via del ritorno, senza la più
pallida idea di cosa
fare.
Sperava in una
risposta oggi, la conferma che Kenshin aveva
saputo.
Ma era ormai
pomeriggio, nessun garzone aveva bussato alla
sua porta; e i telegrammi arrivavano in fretta, molto più in
fretta delle
lettere.
Ormai poteva
dire perduta ogni speranza.
Torna presto,
Kenshin. Ti prego. Ti prego.
Tornò
in casa e si rivestì di tutto punto. Poi
recuperò la
borsetta, svegliò Inoi e Shinta, pulì loro il
viso e dopo averli ben coperti
annunciò che andavano al mercato.
«Ma
mamma, oggi non c’è
lezione?»
«Lo
zio Yahiko ha le chiavi» rispose, cercando di
mostrarsi
allegra. «Non c’è bisogno che rimaniamo
in casa. E poi dobbiamo fare la spesa
per la cena.»
Di recente
aveva cucinato sempre lei, non c’era qualcun
altro che potesse farlo; oggi voleva dar e a tutti una tregua comprando
un
pasto pronto o attraccando all’Akabeko (ma scartò
subito l’idea ― non era in
vena di starsene in giro nel baccano).
Uscirono e si
diressero con calma verso l’area del mercato
stabile, avvolti dal freddo e dalla condensa del loro respiro.
Passarono
vicino alla stazione, ma Kaoru era talmente
concentrata su ciò che doveva comprare, per non dire
generalmente confusa, che
non notò il rinnovato viavai di gente.
Se
l’avesse fatto, forse si sarebbe fermata.
Giunta nel bel
mezzo dei banchi carichi di frutta e verdura,
cominciò a cercare il fidato venditore di pollame.
Progettava di
preparare un bel ramen caldo con carne,
verdure e magari un uovo (quello almeno era capace) per scacciare i
primi
rigori dell’inverno e allontanare il brutto senso di vuoto
che sovrastava la
casa.
Inoi e Shinta
gironzolarono nei paraggi, sempre sotto il suo
vigile sguardo.
Non aveva
dimenticato gli ammonimenti di Kenshin. E Tokyo
era molto più grande e attiva rispetto a dieci anni prima,
quindi anche più
pericolosa.
Meglio
starsene attenti e tranquilli.
Ma non
poté fare granché quando, usciti
dall’area
commerciale, lei i figli si trovarono nel bel mezzo di una bolgia
pazzesca.
Tra nitriti di
cavalli, enormi carri puzzolenti e gente che
sbraitava a destra e a manca, si tirò contro un muro.
Alcuni
passanti la imitarono.
«Ma
che diavolo succede?» esclamò,
tenendo Inoi per mano.
«Il
circo, signora» rispose una vecchietta curva ―
un’anziana
geisha. «Oggi lascia Tokyo, chissà dove
vanno.»
Oh.
Già, il circo.
Non riportava
bei ricordi… se non il fatto che erano stati
tutti insieme, felici e senza preoccupazioni.
Dai carri vide
spuntare il muso di qualche animale esotico e
storse il naso, riconoscendo da cosa proveniva la puzza. Letame,
foraggio
marcito, parassiti. Bleh. Le pulivano ogni tanto, quelle povere bestie?
Attese che i
carri fossero passati, poi disse a Inoi di
tener ben stretta la mano di suo fratello. E attraversarono la strada
di corsa.
Fu un egregio
errore.
Il corteo
circense, infatti, non era terminato e la sua
comparsa improvvisa fece imbizzarrire gli scalcagnati palafreni del
secondo
gruppo.
Kaoru
sgranò gli occhi e lanciò un grido,
impietrita.
Le bestie
nitrirono, sfuggendo al controllo dell’acrobata
che li guidava e facendo cozzare il massiccio carro contro quello
vicino.
Il carro
colpito ondeggiò, muggendo. Un urlo isterico si
levò dalla folla mentre i suoi cavalli scivolavano,
resistevano in precario
equilibrio per alcuni terribili secondi e poi cadevano su un fianco,
portando
con sé anche il traino. La struttura di legno di
aprì come una vecchia botte:
ne balzarono fuori alcune zebre e una giraffa, impazzite per lo
spavento e
ancora più spaventate quando si trovarono in mezzo a una
folla ululante.
Da quel
momento, tutto fu confusione.
Kaoru strinse
forte i figli e cercò una via di fuga, mentre
altri carri del circo venivano coinvolti nell’incidente,
bloccati dalla gente
che un po’ scappava un po’ accorreva per vedere.
Saltimbanchi, domatori e clown
struccati saltarono fuori da ogni dove per fermare lo scempio.
Altri animali
scapparono.
La strada si
trasformò in un inferno.
«Inoi,
Shinta! Tenetevi stretti!»
Kaoru si
sentiva in balia di una forza superiore. Non si era
mai trovata in un tumulto, ma ora capiva perché le persone
che c’erano state ne
parlavano in modo traumatizzato. Non c’era via di scampo.
Corpi premevano da
tutte le parti, i calcagni pestavano i piedi di quelli dietro, gomiti
affondavano nei fianchi e nei ventri, e non si riusciva a respirare.
«Aiuto»
gridò.
La sua voce si
perse nel frastuono.
Credeva di
esser sul punto di morire ― e i suoi bambini con
lei ― quando, all’improvviso, la pressione diminuì
e furono sputati in una via
laterale.
Rimase a
terra, stordita.
Dopo un
po’, quand’ebbe ripreso fiato, vide gli
autori della
divina intercessione: i poliziotti, che grazie al loro tempestivo
intervento
avevano smosso la folla curiosa e liberato lo spazio
dell’incrocio.
I domatori
stavano legando i primi animali, altri
raccoglievano resti di oggetti o aiutavano i feriti.
Si
passò una mano sulla fronte, accorgendosi di tremare.
C’era mancato poco.
Stupida,
stupida, stupida! Perché non aveva guardato? Non
meritava di essere madre!
E Tokyo era
davvero diventata una città pazzesca.
Stava per
rialzarsi e controllare i figli, quando una voce ―
o meglio, due voci la strapparono all’orrore della
situazione.
«Hey
signorinella, che diavolo è successo
qua?»
Sano…
«Kaoru,
tutto bene?!»
Si
voltò di scatto, gli occhi già pieni di
lacrime.
E Kenshin.
Kenshin,
Kenshin,
Kenshin!
Ma non poteva
essere lui. Era arrivato a Shinshu due giorni
prima, a piedi. Avrebbe dovuto metterci altrettanto per tornare.
Lui la
raggiunse e abbracciò, rivelando da vicino tutto il
proprio pallore.
«La
ferrovia ha ripreso a funzionare stamattina e abbiamo
preso il primo treno. Ma qui cos’è
successo?»
«I-il
circo…»
«Papà!»
gridò Inoi,
buttandosi in mezzo a loro.
L’uomo
la strinse, sorridendole.
«Ciao,
Inoi-chan.»
«Papà…
non te ne vai più
ora, vero? Vero?!»
Kaoru lo vide
carezzarle la testa, triste, e non poté
aspettare.
«Kenshin,
Aoshi ha mandato un telegramma. Kenji è
a Kyoto! A
Kyoto, c’è stato per tutto questo
tempo!»
Sia lui sia
Sano la fissarono di scatto. Poi il bruno,
bilanciando la sacca logora su una spalla, corrugò la
fronte.
«Ah.
Allora avevamo ragione.»
Kenshin
sedette in terra accanto a Kaoru e Inoi, stanco.
«Sono
un idiota. Avrei dovuto pensarci subito. Non aspettare
di essere a Shinshu.»
«Oh,
Kenshin,
non―»
«No,
avrei dovuto saperlo. Fidarmi di più del mio
istinto,
non rifiutare l’idea a priori.»
«Dai,
Kenshin» mormorò Sanosuke
«almeno sai che è al sicuro.
Misao e il Grande Buddha sono responsabili.»
L’uomo
emise una risatina.
«Dovrebbe
consolarmi? Quel ragazzo sarà
già da Hiko. E lui
gli insegnerà l’Hiten Mitsurugi.»
O quel poco
che non sapeva, comunque.
Ci fu un
attimo di silenzio, interrotto solo dal fruscio
degli hakama di Kenshin, che si alzava e aiutava Kaoru a fare
altrettanto.
E poi, Sano
che si guardava intorno perplesso.
«Oggi
niente mercato per Shinta?»
«Uh?»
«Non
l’hai portato. Poverino, lo sai che Yahiko lo
annoia a
morte con tutti i suoi discorsi di kenjutsu…»
«Ma
che dici, non vedi che―»
Kaoru si
voltò.
Trovò
la figlia, che stava già guardando tutto
intorno,
spaesata.
«Shinta?
Tesoro, non è il momento di giocare a
nascondino»
chiamò, facendo qualche passo avanti.
«Shinta?»
Il suo cuore
cominciò ad accelerare.
Nella via con
loro c’erano solo pochi anziani.
Andò a
controllare oltre gli angoli, mentre Kenshin e Sano facevano
altrettanto.
«Shinta?!»
«Shinta!»
«Hey,
barattolo Himura!»
Presto si
diressero verso quello che restava della folla,
inoltrandosi tra carri e poliziotto scontrosi.
«Avete
visto un bambino? E’ alto così,
coi capelli neri, un
gi verde…»
Non era
possibile.
Un ufficiale
cercò di fermarli, dicendo che l’area
era
ancora chiusa.
«Non
trovo più mio figlio!»
Allora li
fecero passare. Setacciarono la zona, diventando
sempre più disperati, finché non tornarono al
punto di partenza.
«Shinta…»
gemette Kaoru, coprendosi il
volto.
Kenshin la
prese per le spalle, ancora più smorto di
quand’era arrivato.
«Non
è il momento di farsi prendere dal panico.
Pensa!
Quand’è stata l’ultima volta che
l’hai visto? Cosa gli hai detto di fare?»
«Io…
io gli ho detto di tenersi stretto.
L’ho preso forte
per il gi e gli ho detto di stringere anche la mano di Inoi, e
poi―»
«No,
mamma» interloquì Inoi, gli occhi
sbarrati. «No, ero
io. Tenevi me.»
«Cosa?»
La bambina
sembrò addirittura spaventata dalla sua reazione
e indietreggiò nel padre, lottando per non piangere.
«Io
l’ho tenuto stretto. L’ho tenuto
stretto davvero, ma quando
siamo caduti non sono riuscita. Ho battuto la
testa…»
Subito Kenshin
le controllò delicatamente la fronte,
trovandovi un piccolo bozzo. Kaoru se la baciò, stringendola
forte.
«Scusami,
tesoro.»
«Dobbiamo
trovarlo» concluse il marito, lo sguardo
duro.
La sera stessa
crollarono.
Kaoru pianse
selvaggiamente, odiandosi e insultandosi mentre
Kenshin sedeva in un angolo, Inoi addormentata in braccio.
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Capitolo 9 *** VIII - La mano della ragione ***
“Anche un viaggio di
mille
leghe comincia con un passo”.
Proverbio
giapponese.
Nove giorni.
Nove giorni
che mancava da casa, e non si era mai sentito
così bene.
Kenji
aspirò avidamente l’aria di montagna, sbloccando
le
spalle, le braccia, le ginocchia con torsioni che solo i giovani
possono
eseguire. Hiko aveva cominciato ad istruirlo solo da due giorni, ma lui
si
sentiva già un’altra persona. Sparite le
incertezze, spariti gli errori, stava
imparando come non aveva mai imparato. Gli piaceva. Si sentiva bene,
fermamente
diretto a una meta senza più deviazioni forzose.
E Hiko non era
poi così male, se lo si sapeva prendere per
il verso giusto. Molte delle sue forze le assorbiva il piccolo
Kazuma…
In quel
momento lo vide uscire dalla capanna, una ramazza in
mano.
«To’»
gliela lanciò. «Renditi utile.»
Poi se ne
andò.
Certo, il
più delle volte era un gran bastardo.
Kenji storse
la bocca e s’avviò verso il battuto
dell’ingresso, mordendosi la lingua.
Non dire niente,
ingoia, ingoia.
Hiko aveva
terminato di correggere le mosse che già sapeva.
Oggi avrebbe dovuto cominciare le cose nuove, le più
succulente ― come il Kuzu
Ryu Sen o magari addirittura il Ryu Mei Sen. Beh, forse non una delle
tecniche
di successione, riconobbe, ma non si sapeva mai.
Cominciò
a spazzare via foglie e sassi, accompagnato dai
suoni della casa. La sua mente divagò presto.
Okon e il
piccolo Kazuma erano saliti dalla città per
qualche giorno.
Pensandoci,
non era rimasto abbastanza scioccato al trovare
Hiko sposato. Dai racconti (e dalla prima esperienza) avrebbe potuto
giurare
sull’inesistenza di una donna adatta a lui. O meglio, di una
donna che si adattasse
a lui… Non l’avesse conosciuta bene, avrebbe detto
che zia Okon era una santa.
E Kazuma:
dèi santi, il demonio aveva figliato. Il bambino
però sembrava normale, forse la madre sarebbe riuscita a
salvarlo. Colse uno
dei suoi gridolini e dedusse che stava giocando.
Gli ricordava
molto Shinta. Capelli neri, visetto tondo e
una certa propensione per il chiasso.
Il figlio del
maestro. Chissà se suo padre lo sapeva.
Il pensiero lo
ributtò indietro nel tempo e nello spazio e,
per un istante, rimase immobile.
Chissà
cosa stava facendo la sua famiglia. Lo stava
cercando? Ci aveva rinunciato? Lo aveva… già
dimenticato?
Era un
po’ strano che non si fossero fatti vedere a Kyoto. O
che lo zio Aoshi non li avesse avvisati (ormai era tornato e Kenji non
aveva
mai contato troppo sulla possibilità di convincerlo ― anche
perché, dopo nove
giorni, si dava per scontato che la famigerata rete
d’informazione degli
Oniwabanshu avesse scoperto della sua illecita fuga).
E non era
venuto nessuno.
Hiko lo stava
coprendo? Ne dubitava.
Piuttosto,
sospettava che sapesse tutto. Se c’era qualcuno
che doveva conoscere l’avversione di suo padre per
l’insegnamento dell’Hiten,
quello doveva essere lui.
«Ma
non mi mancano» sbottò, riprendendo a spazzare.
Figuriamoci.
In fondo, un
giorno sarebbe andato per la propria strada,
no? Anzi, l’aveva già fatto. Non poteva certo
restare attaccato al kimono della
mamma per sempre.
Si chiedeva
solo cosa stessero facendo.
Rivide sua
madre venirgli incontro per abbracciarlo, mentre
suo padre giocava con Shinta spruzzandogli l’acqua del
bucato, poi si scrollò e
mise più energia con la ramazza.
Ah, per
favore.
Si chiedeva
come stessero, tutto qui. Non era certo colpa
sua se nessuno di loro lo apprezzava per quel che era veramente.
«Ti ho
detto che non lo voglio sapere!»
A nessuno
importava cosa pensasse.
«Perché
dovrei? Anche se mi costa ammetterlo, sei una
persona disonesta.»
Il manico gli
si spezzò nel pugno.
«Merda.»
«Yahiko,
ti affido la palestra.»
«D’accordo.
Non preoccupatevi. Abbiate cura di voi,
piuttosto… e buona fortuna.»
Megumi si
trovò a concordare con la raccomandazione del
giovanotto. Distolse per un attimo lo sguardo da Sano, lasciandogli
Sozou, e lo
posò sulla coppia in partenza.
Sia Kenshin
sia Kaoru (ma soprattutto Kenshin) avevano un
aspetto terribile, con occhiaie violacee a infossar loro gli occhi.
Erano quasi
due giorni che Shinta mancava all’appello e quello precedente
avevano corso
come matti da un capo all’altro della città,
frugando, chiedendo, avvisando
conoscenti.
E nonostante
tutti avessero dato una mano, il piccolo non
era stato trovato.
Poi, un
barlume di speranza.
Qualcuno aveva
rintracciato il circo europeo, che dalla
disastrosa partenza sembrava svanito nel nulla. E davanti a un vecchio
manifesto, quello strappato dai muri lungo il canale, Sozou aveva avuto
un
brivido.
S’era
ricordato d’essersi sentito spiato parecchio, nel
periodo in cui il circo era stato a Tokyo. No, non era stata
un’impressione.
Era successo anche ad alcuni suoi amici.
Uno di loro,
figlio del vicinato, fu chiamato. Le sue parole
gettarono un’ombra oscura sulla coincidenza.
Qualche giorno
prima era scomparsa anche una bambina e
Tatsuya e la sua ghenga, che la tormentavano da un po’, erano
stati trovati
morti in un vicolo.
Forse avevano
visto qualcosa che non dovevano vedere. Magari
le persone che la portavano via.
Le cose
s’erano poi chetate con la partenza del circo. La
polizia sapeva, ma teneva tutto segreto. A loro, raccomandò,
lui non aveva
detto niente: la sua via era stata diffidata dallo spargere la voce,
c’erano
indagini in corso.
Poi era
sgattaiolato via, accompagnato da un fratello
maggiore.
Inutile
raccontarsi la visita all’ispettorato, pensò
Megumi,
passandosi una mano stanca fra i capelli ― le grida, i pianti e le
minacce
echeggiavano ancora nei suoi poveri timpani.
Era stata la
prima volta che aveva visto Kenshin insultare
l’ispettore Urayama. Il pover’uomo non era stato
mai avvisato della scomparsa
di Kenji e non aveva ancora controllato le nuove denunce (era stato
assente un
giorno a causa di indisposizione). Ignorava che Shinta Himura fosse tra
gli
scomparsi.
Appena aveva
visto e saputo, aveva subito dato loro le più
confidenziali informazioni.
Non sapeva
molto, aveva premesso. Ma il caso era più ampio
di quel che pensassero, perché negli ultimi anni molti
bambini erano scomparsi.
Dapprima avevano fatto il possibile per trovarli subito, diramando
annunci e
informazioni.
Poi alcuni
avevano cominciato a ricomparire. Nei quartieri a
luci rosse.
Erano tutti
inorriditi.
Sì,
aveva confermato Urayama, si trovavano alle prese col
mercato di schiavi.
Adesso il caso
era un mano ad abili ufficiali e si cercava
di risalire ai mandanti tanto quanto ai materiali esecutori, ma non si
poteva
fare senza cambiare tattica. Da qui la segretezza.
A quel punto
il signor Ken aveva sostenuto Kaoru, sebbene
lui stesso non sembrasse molto solido sulle gambe.
Megumi
sospirò, sperando che mangiassero durante il viaggio.
Al ritorno i loro figli avrebbero avuto bisogno di due genitori, non di
due
cadaveri.
Carezzò
la testa di Sozou e dovette trattenersi per non
stringerlo forte. Non sapeva cosa avrebbe fatto, se fosse scomparso
anche lui.
E a proposito:
Urayama sosteneva che ora si potesse stare
tranquilli, ma per buona misura Yahiko e Tsubame avevano invitato lei e
il
bambino a stare da loro.
Megumi
tornò dal marito e lo baciò.
«Buon
viaggio.»
«Non
preoccuparti» fu la risposta. Sano si strapazzò
Sozou
contro il fianco.
«Ounf!»
«Tornerò
vittorioso. Questo significa anche un pugno destro
fracassato, però, lo sai» l’umorismo
suonò particolarmente smorzato. «E tu,
scricciolo, metti su un po’ di muscoli e proteggi tua
madre.»
«Contaci,
papà.»
«Cerca
di non far fare delle sciocchezze a quei due»
sussurrò, preoccupata. «Soprattutto a
Ken… sai a cosa mi riferisco.»
Infatti
l’uomo portava un involto oblungo in spalla.
Sanosuke
annuì.
Certo che, se
la situazione non fosse stata così disperata,
sarebbe stato comico raccomandare a lui di badare agli altri.
Megumi
salutò brevemente Kenshin, Kaoru e Inoi (che non
avevano voluto lasciare per nulla al mondo) e rimase a guardarli mentre
salivano sul treno. A farle compagnia c’erano suo figlio, i
Myojin e
l’anonimità della stazione.
La locomotiva
fischiò.
Poi
partì.
I passeggeri
salutarono una volta dal loro scompartimento,
finché non divennero troppo piccoli per poterli distinguere.
Megumi
sospirò.
Fa’ che
tornino sani e salvi. Tutti insieme. Quei due non
meritano una tragedia così grande.
Il mondo aveva
perso ogni colore.
Kaoru
fissò il paesaggio fuori del finestrino, senza
vederlo.
Tutto quello
cui riusciva a pensare erano i suoi bambini. Il
suo Kenji, lontano da casa da quasi dieci giorni, impegnato a diventare
loro
estraneo. Il suo Shinta, che voleva vedere, stringere forte e non
lasciare mai
più, mai più, mai più.
Il suo Kenji,
che quell’ultima sera le aveva dato la
buonanotte con gentilezza, nonostante l’avesse maltrattato.
Il suo Shinta,
troppo piccolo, troppo indifeso per essere
strappato alle sue braccia, gettato in mano ad aguzzini senza nome.
Non poteva dar
torto a Ken per essersene andato.
Era una madre
orribile.
No, no, non
era nemmeno una madre.
Una vera madre
non avrebbe mai allontanato il figlio
maggiore con indifferenza… e non si sarebbe mai fatta rubare
il minore sotto il
naso, in pieno giorno.
Era una
persona spregevole.
Kaoru si
posò una mano sugli occhi e cominciò a piangere.
Inoi allora
s’alzò e le sedette in braccio, nascondendo il
viso nella sua spalla.
Ai singhiozzi
della moglie, Kenshin avvertì una familiare
agonia al petto.
Si sentiva
morire. Barcollava sull’orlo del baratro in cui
dodici anni prima s’era lasciato cadere, trafitto dalla
vendetta di Enishi come
il cuore del pupazzo nel dojo.
L’alito
freddo di quel precipizio gli ghiacciava la pelle,
tentandolo.
Ma non sarebbe
caduto.
Non importava
se il tempo era passato, se le sue gambe non
erano più quelle di una volta, era pronto a giocarsi il
tutto per tutto per
riavere Shinta. E Kenji.
Ma chi cercherai
per primo?
All’improvviso,
la domanda traditrice. Kenshin strinse i
pugni fino a vedersi sbiancare le nocche, sbigottito.
Poi
chinò la testa in direzione della porta di legno, che
chiudeva il piccolo scompartimento, lontano da Kaoru e Sanosuke.
Dèi,
no.
Non potevano
chiedergli di scegliere.
Non si poteva
chiedere a un genitore di scegliere tra i
propri figli!
Nessuno dei
due aveva la precedenza sull’altro.
Però―
No, nessuno!
Sai che non
è vero, affermò
una voce, gelida. Non la
sentiva da tanto tempo. La precedenza va al
più debole. A quello che non sa
e non può difendersi. E Kenji…
Kenji.
E’ con
Hiko. E’ al sicuro.
Lo rivide in
mezzo alla radura, giovane ed esultante, poi
sconvolto, la spada caduta ai piedi.
«Papà,
ascoltami!»
Perché
non l’aveva fatto? Oh dèi, perché?
E
perché quel ragazzo aveva dovuto intestardirsi su una cosa
come l’Hiten?
E Shinta, coi
suoi sorrisi sdentati, sempre pronto a
giocare… non avrebbe più rivisto neanche lui?
Chinò
il capo, appoggiando un gomito al bracciolo di legno,
e con una mano strinse forte quella di Kaoru.
Aoshi chiuse
la porta scorrevole del proprio ufficio,
peraltro non molto diverso da una qualunque stanza
dell’Aoiya, e vide che
qualcuno usurpava il suo posto al tavolo nero.
Misao,
naturalmente.
Accennò
un minuscolo, impercettibile sorriso (uno che solo
lei avrebbe potuto cogliere) e avanzò. Di solito non lo
raggiungevano durante
il lavoro, ma era stato lontano a lungo. Il piccolo Shiki
lanciò un gridolino,
indicandolo.
Misao si
accorse di lui e lo salutò.
«Aoshi!»
«Non
si indica col dito, Shiki» commentò lui.
La giovane
donna lo guardò di traverso, storcendo la bocca.
«Ah,
avanti, non fare il musone. Quest’adorabile bambino si
sta solo divertendo, non è vero, piccolo dolce adorabile
Shiki?» e strofinò il
naso contro quello del figlio, facendolo scoppiare in una cascata di
risa.
L’uomo
roteò gli occhi, riconoscendo tra sé che erano
davvero adorabili. Ma―
«Se
continuate così, tu e Okina lo farete crescere
imbecille.»
«Che
cosa vorresti insinuare?!»
Già,
dopotutto, lei era stata cresciuta
da Okina…
Guardava
altrove, offesa.
Da parte sua
Aoshi scrollò le spalle (un gesto raro nel suo
repertorio), le tolse Shiki e se lo issò in braccio.
Immediatamente il bambino
smise di trastullarsi e cominciò a osservarlo con grandi
occhi seri, come
sempre. Poteva restare delle ore a fissarlo. E il capo degli
Oniwabanshu, nel
vedere occhi acuti e brillanti come i propri, ogni volta si sentiva
rassicurato.
Ah, forse in
un prossimo futuro avrebbe avuto intorno
maggior serietà.
Ma dopo si
lasciò andare e posò sulla moglie uno sguardo
intenso, che parlava poco di lamentele e molto di soddisfazione.
Ficcò
una mano in tasca.
Un bigliettino
scese svolazzando fino a Misao, che lo prese
senza difficoltà.
«Arrivano
questa sera.»
Lei si
raddrizzò. «Davvero?»
«Sì.»
«Hai
avvisato Hiko? Cosa vogliono fare con Kenji?»
Spostò
Shiki sull’altro braccio, fissando un punto della
parete esterna.
«Il
problema non è il maggiore. E’ sotto la nostra
protezione e non corre pericoli. Se sono furbi cercheranno subito il
minore.»
«Il
povero Shinta» mormorò Misao.
Sapeva che
adorava il bambino (adorava tutti i
bambini). L’ultima visita a Tokyo
l’aveva passata a coccolarselo in braccio.
Strinse i
pugni, promettendo retribuzione ai responsabili.
«Siamo
vicini a trovare il covo.»
Nel primo
pomeriggio, dopo un pranzo delizioso preparato da
Okon (fosse stata sua madre così brava!), Kenji
indugiò presso il focolare
della casupola, circondato da scaffali e casse stracolme di ceramiche.
S’era
alzato vento. Gli spifferi mescolavano nella stanza l’intenso
odore della
terracotta, spesso, dolciastro, e gli dava la nausea. Quasi quasi
sperava che
Hiko non lo allenasse.
Aveva scelto
un periodo davvero stupido per diventare suo
allievo. Qualche giorno e l’autunno era stato sostituito da
un inverno precoce.
Avrebbe dovuto muoversi in primavera… anche se le castagne
di Kyoto erano
buone.
Ma non ho proprio
programmato la partenza.
Le sue
speranze ebbero breve durata: poco dopo Hiko comparve
sulla soglia e lo chiamò.
«Seguimi.»
Poi si
addentrò nella foresta, cominciando a salire. Presto
s’inerpicavano sul fianco della montagna, Hiko veloce, Kenji
spesso impigliato
in qualche stupido arbusto.
Oh, che palle.
Dove diavolo
lo stava portando?
Un ramo
spinoso scattò e gli graffiò la mano, facendolo
sobbalzare. Imprecò sottovoce, mentre
l’irritazione cresceva.
Nonostante si
ripetesse d’aver fatto l’abitudine ai modi del
maestro, in verità non ce l’avrebbe fatta neanche
in un trilione di anni.
Odiava sentirsi escluso dal piano A. E, se permettete, col freddo che
faceva
sapere la ragione di quell’uscita gli avrebbe fatto comodo.
Non era mai
troppo tardi per ammutinarsi.
«Allora,
si può sapere dove stiamo andando?»
Il maestro non
rispose e accelerò il passo, aggirando un
costone roccioso.
Quando Kenji
lo imitò fu investito dal rumore assordante
dell’acqua. S’irrigidì, schermandosi gli
occhi.
C’era
un’alta, stretta cascata che si gettava dalla
sommità
delle rocce e riempiva una gola rigurgitante di spuma. Un'unica,
levigata
piattaforma di pietra permetteva ai non natatori di avventurarsi nei
pressi
della magnifica attrazione. Sembrava esser stata usata per decenni, no,
per
secoli.
Hiko lo
attendeva lì.
E Kenji ebbe
un’illuminazione. Sì. Quello era il luogo che
aveva visto allenarsi generazioni e generazioni di maestri, dal primo
all’ultimo Seijuro Hiko, compresi i loro allievi. Se le cose
stavano così,
allora significava che voleva proseguire la sua istruzione?
Ma
d’istinto sentì che mancava qualcosa. Il posto
emanava
uno strano sentore di sacro, di magico ― la sensazione di trovarsi
innanzi
all’intransigente tribunale della natura. Raggiunse il
tredicesimo maestro e
rimase al suo fianco, silenzioso, lasciando che milioni di goccioline
gli
pungessero la faccia.
E fu
lentamente assorbito dalla vibrazione rimbombante della
cascata, un’onda continua, ipnotica. Così, era
come se il mondo non esistesse.
C’erano solo lui e il suo corpo ― no, anzi.
Solo lui e i
suoi pensieri.
E fu proprio
allora che Hiko, finalmente, parlò, con una
voce che sembrava emergere dall’acqua stessa.
«Perché
vuoi apprendere l’Hiten?»
Rispose senza
accorgersene.
«Perché
mi piace.»
Nell’atmosfera
surreale nacque una nota stonata.
«Non
è una ragione sufficiente. L’Hiten Mitsurugi Ryu
è una
tecnica antica, nata senza padroni e destinata a non avere padroni. Men
che
meno il capriccio.»
Ah, adesso
capiva.
L’aveva
portato lì per sapere, per valutarlo ancora.
«Non
c’è altro?»
Distolse gli
occhi dalla cascata.
«Voglio
aiutare la gente.»
«E
il Kamiya Kasshin non ti basta? La sua filosofia non è
“la spada che protegge”?»
Strinse i
pugni.
«Non
basta.»
«A
chi? Alle persone? Alla tua ambizione?»
Kenji rivide
l’uomo vestito di nero chino su Shinta e tremò.
«Ci
sono ancora uomini troppo forti per il Kamiya Kasshin. E
se non posso sconfiggerli, faranno del male.»
La voce di
Hiko sembrò schernirlo.
«Un’altra
minaccia dal passato di tuo padre?»
«No.
Parlavo in generale.»
«Tutto
qui?»
«Vorrei…
vorrei anche» esitò, poi decise. Non era
un’idea
stupida, tutt’altro ― perché tacerla?
«Vorrei che non andasse perduto. E’ una
parte di noi e non credo a quelli che la dicono morta.»
La cascata
tornò a riempire il silenzio.
Pian piano,
Kenji sentì avanzare la sentenza. Il suo respiro
accelerò.
Hiko apriva le
labbra, impietoso.
«Ma
anche così non è sufficiente. Non ti
darò i segreti
dell’Hiten Mitsurugi. Per ragioni del genere ti basta la
scuola di tua madre,
ragazzo.»
Fu riscosso
dal suo torpore.
«No―»
«Soprattutto
sapendo che tuo padre è contrario.»
Kenji si
tirò un po’ indietro, il viso contorto. Tra la
sorpresa e la conferma disincantata trovò il tempo
d’arrabbiarsi.
Suo padre,
sempre suo padre! Perché gli davano tutti retta?
Persino il suo vecchio maestro!
«Lo
sapevi fin dall’inizio.»
«Quelle
briciole di messaggi avrebbero potuto convincere
solo Misao Shinomori, te l’assicuro. Ma ho apprezzato
l’intraprendenza.»
«Perché
mi hai accettato come allievo, se lo sapevi?»
«So
ancora riconoscere il talento, Kenji Himura.»
L’uomo
fece qualche passo verso il baratro della gola e lo guardò
oltre la spalla,
freddo. «Tu sei quasi dotato.»
A lui
scappò un’irriverente, incredula pernacchia.
Quasi dotato?
«Non
farmi ridere. Sono bravo e lo so benissimo. Nessuno
raggiunge la perfezione in uno stile a nove anni. E nessuno avrebbe
potuto imparare
l’Hiten da autodidatta in così poco tempo, e
così bene.» Fece un passo verso
Hiko, alzando un pugno. «Insegnami! Finisci il lavoro e
lasciami andare, se non
vuoi più essere importunato non lo
farò!»
L’uomo
parve considerare le sue parole, le labbra piegate
agli angoli.
«Di
certo la stima di te stesso non ti manca.»
«Per
favore.»
«E
neanche le abilità con cui ammaliare un vecchio cultore
della spada come me, è vero.»
Kenji lo
incalzò, avvicinandosi ancora. Arrivò persino a
chiedergli se doveva prostrarsi di nuovo.
Dopo essere
arrivato sin lì, non poteva assolutamente
lasciarsi respingere senza lottare.
«No»
gli fu risposto.
«E
allora cosa devo―»
«Niente.»
Di punto in bianco, Hiko pareva deciso a lasciare
il luogo. «Non puoi fare niente. Devo pensarci
bene.»
Kenji
spalancò la bocca, pronto a lottare.
Ma chiamarlo
(o tentare di fermarlo) fu inutile: Hiko s’era
volatilizzato come un fantasma.
Col cuore che
batteva dolorosamente, Kenji rimase a guardare
la cascata roboante, nascondendo le mani negli hakama. Poi
imboccò la strada
del ritorno, senza fretta.
Sperava di
ricordarla.
Tornato al
riparo degli alberi sentì il vento affievolirsi.
«Perché
vuoi conoscere l’Hiten?»
Perché?
Ah…
Sì,
lo sapeva perché.
I motivi che
aveva spiegato erano sinceri, ma ce n’era un
altro, ben nascosto sotto la pila già segreta, troppo
personale. Troppo
vergognoso per uscir di bocca a una persona orgogliosa e tagliente come
lui.
Si sarebbe
sentito ridicolo (denudato) davanti agli occhi di
tutti (di un uomo).
Non voleva
dirlo a Hiko.
Ma allora,
come continuare con l’Hiten?
Uscì
dalla boscaglia in un punto piuttosto alto, trovandosi
su quella che era una piccola sporgenza erbosa. Da lì poteva
dominare tutta la
città di Kyoto. Rimase senza fiato.
Doveva esser
passato più tempo di quanto pensasse e ora la
Città dei Mille Anni bruciava alla luce del tramonto,
riverberato dai mattoni
rossi dei tetti e dalle foglie secche.
Osservò
con riverenza. Dalla vecchia capitale, in fondo,
diramavano anche le sue radici. Si chiese come fosse ai tempi della
gioventù di
suo padre, quando imperversava la Bakumatsu e i samurai ancora
cingevano alla
vita due spade. Quanto era cambiato? Quanto era rimasto lo stesso? Una
volta
aveva sentito raccontare di quei tempi…
Il tempo in
cui le strade si bagnavano di sangue tutte le
notti, e teste mozzate rotolavano per ogni dove.
Scosse la
testa, provando un brivido.
Sembrava
impossibile. A guardarla, Kyoto era una dignitosa,
ricca città nobil-borghese, trafficata di mercanti e
turisti.
Ed era meglio
così.
Accorgendosi
che presto sarebbe venuto buio, s’affrettò a
proseguire.
Al suo ritorno
il fuoco del forno era acceso e la canna
fumava copiosamente, ma di Hiko non c’era traccia.
Kenji
girò intorno alla panciuta costruzione di
calcestruzzo, allontanandosi dal sentiero, e scrutò i
dintorni come se temesse
un agguato. Poi scosse la testa.
Ah, per
favore.
Individuò
luce nella casupola e vi entrò.
Ad accoglierlo
trovò zia Okon, impegnata tra tazze, cucchiai
e un Kazuma più capriccioso del solito.
L’ambiente
era pervaso dal buon odore del cibo.
«Kenji-chan!
Eccoti, finalmente. Stavo cominciando a
preoccuparmi.»
Sedette con
lei al piccolo tavolo spartano, vicino alla parete
più interna, e scrollò le spalle.
«Tuo
marito mi ha mollato sui bricchi, zia.»
«Ah,
lui è fatto così.»
La
guardò un po’, scocciato.
Poi
evitò uno spruzzo di zuppa.
«Hey.»
«Su,
basta Kazu» protestò lei, maneggiando il figlio in
modo
da mettergli la cena fuori portata. «Non capisco
perché faccia così» brontolò
«ha solo quattro anni, d’accordo, però
di solito si comporta bene.» A quel
punto sorrise. «Kenji, ti ho tenuto in caldo la parte
migliore, serviti. Scusa
se non lo faccio io, ma come vedi…»
«Figurati.»
Col buco che
si trovava nello stomaco, lamentarsi era fuori
discussione.
«Il
maestro non torna?»
«Ha
detto che aveva da fare in città, così sono
rimasta io
ad aspettarti.»
Raccattò
un cuscino tutto liso, sedendovi per allontanare il
fondoschiena dal gelo del pavimento; poi cominciò a
ruminare, più che un po’
irritato.
Ah,
così adesso spuntavano impegni più importanti.
Quell’uomo s’era divertito a rimembrare i vecchi
tempi con lui, dandogli
l’illusione di essere un allievo a tutti gli effetti, e ora
si faceva venire i
patemi d’animo…
Pah.
Pian piano,
però, prese a masticare con calma e si godette
il sapore della cena.
Kazuma
ridacchiava, placato dalla madre.
Kenji
scrutò nella ciotola, pensoso.
Era strano
mangiare in una casa sconosciuta. Non tanto per il
posto o l’arredamento, che comunque certo non gridavano
ricchezza (nonostante
Okon provenisse dal lussuoso, famoso Aoiya), quanto per la gente.
Era strano
cenare senza dover fare a spintoni con Inoi per
lo spazio vitale minimo, o prestare attenzione a Shinta che tendeva a
rovesciare tutto quello che gli si metteva in mano. Mancavano anche le
sgridate
di sua madre, stanca per il baccano. Le occasionali intrusioni di zio
Sano e
Sozou, orfani della loro cuoca quando le epidemie colpivano. Mancava la
pioggia
che filtrava dal tetto sul tavolo (ma non gli spifferi, quelli no). E
mancava
un’altra persona, sempre sorridente…
Posò
la tazza.
Basta.
«Non
ne posso più.»
Notando
l’occhiata interrogativa di Okon,
s’affrettò a
ringraziare, aggiungendo che era pieno ed era tutto molto buono.
Lei sorrise,
guardandolo rassettare.
Quando Kazuma
si fu addormentato nell’unico letto, sotto
quattro strati di pellicce, gli toccò i capelli.
«Santo
cielo, Kenji. Sembrano il nido di un corvo!»
«Uh?»
fece lui, guardandola dal basso.
«Vieni
un attimo qui, vicino al fuoco. Si può sapere che hai
combinato? I tuoi bei capelli…»
«Beh,
qualcuno mi ha portato fuori
dal sentiero. Gli
venisse un accidente.»
«Tsk
tsk» fece lei, tirandogli un po’ un orecchio.
«Non
incolpare gli altri della tua disattenzione, Ken-chan.»
La
sentì maneggiare vicino al nodo che gli legava la coda.
Storse la bocca.
«Non
sono un moccioso.»
«Oh,
non vuoi che ti pettini?»
«Mi
riferivo al “chan”. Si può sapere
perché me lo
appiccicate tutti quanti? Tra due anni sarò un adulto.
Eppure sembra che
nessuno se ne accorga.»
«Mm»
fu la risposta.
Zia Okon era
riuscita a slegare, o meglio, a liberare il
laccio dalla massa incolta e stava saggiando la situazione.
Udì una risata.
«Che
c’è?» disse, acido.
«Sembra
una criniera!» Si voltò a guardarla.
«Dai, non ti
arrabbiare. Come sei permaloso.» Gli pettinò
gentilmente la frangia, irregolare
come il resto. Il gesto ebbe l’immediato effetto di
rilassarlo. «Ti va se te li
spazzolo un po’? Ho con me la mia spazzola, sarà
piacevole, vedrai. E ne hanno
davvero bisogno.»
Acconsentì,
ancora sulle sue.
Presto
però il ritmico lavorio delle setole disciolse le
ultime vestigia d’irritazione. Le mani della donna erano
delicate, districavano
senza tirare.
Chiuse gli
occhi.
Il fuoco
scoppiettava, mandando odore di resina. Quello e lo
stormire della foresta lo cullavano lentamente nel sonno, come
succedeva sempre
a casa, a Tokyo.
A
casa…
«Kenji»
mormorò zia Okon, passando un pettine nei capelli
ormai lisci.
«Mh.»
«Posso
chiederti una cosa?»
«Mh.»
«Non
senti nostalgia di casa?»
Era
così stanco che non riuscì neanche a mettersi
sulla
difensiva.
Lasciò
ciondolare la testa, finché lei non gliela
raddrizzò
gentilmente.
«Forse»
concesse.
«Come,
“forse”? O sì, o no. Sei proprio strano,
Ken-chan.»
«Se
rispondessi di sì, smetteresti con quel
“chan”?»
Lei
ridacchiò.
«Forse.»
Kenji si
passò una mano sulla faccia, esasperato. Ma prima
che potesse aggiungere altro, la donna raccolse per bene i suoi capelli
nel
pugno e sbirciò oltre la sua spalla.
«Ti
faccio la coda o preferisci dormire senza?»
Quella domanda
colpì a tradimento, perché era la stessa che
suo padre gli rivolgeva ogni volta che lo pettinava, di sera, dopo il
bagno.
Quando era più piccolo, certo: ultimamente di rado.
Perché
Kenji stava venendo su tutto il contrario di quello
che avrebbe voluto, ecco il motivo.
Lui sarebbe
diventato un assassino, no? Meglio tenerlo a
distanza.
Strinse le
mani sugli hakama, emettendo un verso strozzato.
Okon parve
indecisa.
«Niente
coda?»
«Niente,
grazie.»
«D’accordo,
come preferisci.»
Accettò
passivamente la sua carezza e la guardò riporre le
ultime cose, abbassare la fiamma della lampada ad olio sul tavolo e
avviarsi
verso il giaciglio.
Una volta
inginocchiata, rimboccò le coperte al figlio.
«Sai,
Kenji… è del tutto normale che ti manchi la tua
famiglia. Non c’è niente di cui
vergognarsi.»
«Io
non―»
Okon gli
rivolse un sorriso.
«Dici
di essere quasi un uomo: è vero, ma sembra quasi che
passato quel traguardo non dovrai più amare e aver bisogno
di nessuno. La vita
non va così, per fortuna. Noi cerchiamo le persone che
amiamo e le persone che ci
amano ci cercano, e se questo smette di succedere è molto
triste.»
Lui rimase con
la bocca socchiusa.
Ah, dannata.
Gli stava dicendo proprio quello che voleva
sentire.
«Però,
l’hai riconosciuto anche tu» sussurrò,
guardando nel
fuoco. «Può succedere che le persone smettano di
amarci.»
A quelle
parole, la zia corrugò la fronte.
«Chi
ha smesso di amarti, Kenji?»
Non rispose,
odiando la pietra che gli pesava in gola.
Ah, basta! A
che serviva pensarci? Ormai era convinto,
discuterne non poteva ricucire più niente.
«Kenji.»
La sentì muoversi, poi, subito dopo, gli stringeva
le mani. «Credi che abbiamo smesso di volerti bene? Ma
è impossibile, come fare
il ghiaccio dal fuoco. So di cosa parlo, perché conosco i
tuoi genitori e non
ho mai visto persone tanto innamorate dei propri figli. La tua famiglia
ti ama.
Ti vorrà sempre accanto.»
«Allora
perché non sono qui?» sbottò.
«All’inizio
non sapevano dove fossi. Tuo padre è andato fino
a Shinshu, credendoti col giovane Ota.»
«Ota?»
«Sì.»
Si
sentì preso in giro.
«Non
ci vogliono dieci giorni per andare e tornare da
Shinshu!» Si liberò, alzandosi in piedi.
«Al massimo due!»
«Però
le ferrovie erano bloccate da una frana.»
«Uh?»
«E’
la verità. Sono andati a piedi, lui e il signor
Sanosuke.»
A piedi?
«…Lui
e zio Sano?»
«Proprio
così. Non voleva aspettare, volevano ritrovarti
subito.»
Kenji
esitò, colto da una vaga, circospetta speranza.
In effetti, la
ferrovia di Kyoto era stata particolarmente
silenziosa nei giorni dopo il suo arrivo, come se mancasse
all’appello una
grossa fetta del suo traffico ― quella proveniente da Tokyo.
«Ora
però le ferrovie sono sbloccate. E’ da giorni che
sento
fischiare le locomative.»
«Locomotive»
lo corresse gentilmente zia Okon, seduta con la
sua solita compostezza. «E’ vero» rispose
«infatti sono tornati a Tokyo il
settimo giorno, usando il treno. Poi, ecco… ci sono stati
dei problemi.»
Kenji strinse
le palpebre.
“Problemi”,
eh?
«Che
tipo di problemi?»
Non fu
difficile vedere il suo disagio, persino nella luce
ambrata del focolare.
«Ah.
Non so di preciso, so solo che―»
«Che
non si sono voluti muovere.»
«No!»
esclamò, battendo i delicati pugni sulle gambe.
«Kenji, ma perché fai così?
Perché sei diventato così cinico?»
«Forse
perché ho passato le mie ultime settimane in famiglia
da segregato» sibilò, cominciando ad avviarsi
verso la porta. Doveva uscire. Il
discorso era degenerato in fretta e non voleva offendere la zia, anche
se
sapeva benissimo che agiva da ambasciatrice per certe persone.
«Sono
sicura che nessuno dei tuoi genitori si è divertito a
costringerti.»
«Allora
non dovevano farlo! Non avevo fatto niente di male!»
La donna si
alzò a sua volta e, con una rapidità che gli
ricordò d’improvviso la sua appartenenza agli
Oniwabanshu, lo placcò per le
spalle.
«Non
capisci che sono preoccupati per te? Che l’hanno fatto
per il tuo bene?»
«Voglio
solo imparare l’Hiten Mitsurugi, cosa
c’è di male in
questo?!»
Lei lo
scrollò, dura.
«Ragazzo,
possibile che tu sia tanto intelligente e non
capisca? Non lo sai che cosa ha fatto tuo padre con quelle tecniche,
quando
aveva poco più dei tuoi anni? Guardati, sei il suo ritratto
vivente. Ha solo
paura che tu segua le sue orme fino all’estremo.»
Furioso, Kenji
se la scrollò di dosso, mettendosi fuori
portata.
«Ah,
queste sono le mie uniche possibilità, vero?! Chiudermi
in casa o diventare un assassino?!»
Il piccolo
Kazuma si mosse sotto le coperte, ma questo non
lo fermò. La sua voce continuò a salire.
«Bella
fiducia! Bell’impegno! Già, ma dopotutto son
troppo
stupido, finirò sicuramente in quel modo! Non ho sentito e
visto abbastanza su
di lui―figurati se non ci casco anch’io!»
Ricordò alcune delle ultime parole di
suo padre e contorse tutto il viso, livido. «Una persona
disonesta, ambiziosa e
testarda come me non potrebbe altro che diventare omicida, anzi,
sicuramente
ripiomberò il Giappone nella guerra!»
Lì
dovette bloccarsi per riprendere fiato.
«Quindi…»
continuò alla fine «è
comprensibile.»
Okon stringeva
le labbra in una linea sottile, le mani
premute contro il ventre. «Che cosa?» chiese piano.
«Che
nessuno voglia venire a prendermi.»
«Oh,
Kenji.»
Lui
abbassò la testa, nascondendola nell’ombra.
Dannazione,
tutte quelle parole feroci e stava pure per―
«Vieni
qui.» Lentamente, dandogli tempo di ritrarsi, Okon lo
abbracciò. D’istinto lui poggiò il naso
sulla sua spalla, pietoso tentativo
d’attutire il respiro. «Kenji… davvero
pensi questo di te? Sei convinto di
essere così?»
«…»
«Non
è possibile, credimi. Anche se è vero che sei un
po’
testardo, le azioni parlano più delle parole. Sei un bravo
ragazzo, su questo
non ci piove. Si tratterebbe solo di confermarlo anche alle persone che
ti
amano e si preoccupano per te.»
«Ma
non è possibile» sussurrò, con qualche
difficoltà. «Mio
padre non ha neanche voluto ascoltarmi. Mi ha chiuso fuori e
basta.»
La
sentì sospirare. «Può darsi che non
voglia capire, ma
anche tu sei in torto. Conosci i suoi motivi.»
«Non
diventerò mai un nuovo
Battosai.»
«Bene.
Allora diglielo. Gridaglielo, se non vuole
ascoltarti.»
«Facile
a dirsi.»
La
lasciò con un movimento pacato, avvicinandosi al
focolare.
«Vuoi
davvero buttare via tutto, Kenji?»
Scosse la
testa.
«Se
credi veramente in quello che fai, devi insistere. Parla
a tutt’e due, e vedrai che da quel momento ti
aiuteranno.»
Levò
gli occhi dal fuoco, il cuore incastrato in gola.
«Dici…?»
Si sentiva
speranzoso e scettico al contempo ― una parte di
sé vedeva l’uscita da una lunga, buia strada e
un’altra gli insinuava di stare
attento, di non lasciarsi convincere come uno sciocco. Forse non
avrebbe dovuto
fidarsi…
«Ne
sono sicura.»
Ma voleva
farlo disperatamente.
«Vuoi
molto bene a tuo padre, vero?»
Sgranò
gli occhi, sentendosi avvampare.
«Anche
a mia madre, cosa credi» bofonchiò, distogliendo
lo
sguardo.
Sì,
lui…
Anche senza
vederla sapeva che Okon sorrideva.
«E
vorresti rivederlo.»
«Lui
è…» si bloccò, incerto. Ma
dirlo l’avrebbe reso reale,
vero? Reale a tutti gli effetti. Non avrebbe più potuto
rimangiarselo e questo,
col suo carattere, era importante. «Il mio punto di arrivo.
Vorrei essere come
lui. Anche di più, se possibile.»
Non si
voltò più e raggiunse la porta, con le orecchie
che
bruciavano per la vergogna. Quella era la confessione più
personale che avesse
fatto in tutta la sua vita.
Sperava che la
zia tenesse la bocca chiusa.
«Sono
arrivati stasera.»
Gli si
bloccò il respiro.
«Arrivati?»
«Te
l’avevo detto che ti amano. Non ti lascerebbero mai
sparire senza cercarti.»
«…Vado
un po’ fuori.»
Si fosse
disturbato a guardare, avrebbe trovato sul suo viso
un’espressione molto dolce.
Kenji era davvero un bravo ragazzo.
Uno spirito
onesto sotto la scorza ruvida, imbarazzata e un
po’ arrogante. Checché ne stesse dubitando, Himura
aveva cresciuto un figlio
degno di lui.
Okon sedette
accanto al piccolo Kazuma, tirando un respiro
di sollievo.
Fiuu. Missione
completata. Non era stato facile, ma c’era
riuscita. E questo anche grazie alla predisposizione del
“nipotino”, s’intende.
Si stese sul
giaciglio e sorrise al marito, entrato in
silenzio.
«Già
fatto?»
Lui
inarcò un sopracciglio, servendosi dagli avanzi ormai
freddi.
«Porca
miseria, ce ne ha messo di tempo per levarsi dalle
scatole» disse, a voce contenuta. «Per colpa sua ho
dovuto fare la fame al
freddo.»
«Oh,
per favore.»
Il profilo un
po’ aquilino dell’uomo si stagliava contro la
luce smorzata del fuoco, su un torso ancora muscoloso. Dal giorno in
cui aveva
salvato l’Aoiya dalle Dieci Spade di Makoto Shishio,
Kakunoshin Nitsu non era
cambiato molto.
Solo qualche
ruga in più e un po’ di grigio dei capelli, nei
punti che lei conosceva.
Okon sapeva
che molti non comprendevano la sua scelta,
incluso probabilmente Kenshin Himura, che presto sarebbe venuto a
conoscenza
del matrimonio. Okina era uno dei pochi ad aver annuito con
approvazione. La
gente infatti non si spiegava cosa una donna raffinata come lei
trovasse di
allettante nel vivere insieme a un eremita misantropo, indurito dagli
anni, amante
del sarcasmo e dei sistemi radicali.
Ma Okon
l’aveva sempre saputa più lunga.
In quella
prima occasione d’incontro era stata sicura che
sarebbe venuto fuori qualcosa di buono.
Certo, non
s’era illusa di trovare tutte rose e fiori. Però
conosceva abbastanza la vita per riconoscere che valeva la pena di
provare.
E quel che
aveva scoperto l’aveva convinta in modo
definitivo.
Ora,
finalmente, aveva un marito che la rendeva felice (a
scorno delle premesse poco incoraggianti) e un bellissimo bambino.
«Hai
sentito?»
«Perché
altro avrei finto di esser via?»
Sorrise.
«E’
adorabile, non pensi?»
Seijuro
sfiatò dal naso. «Non è la definizione
che userei in
giro.»
Kenji sedette
davanti al forno da ceramica. Con un bastone
raccattato dalla spazzatura (c’era roba dappertutto ― Hiko
non conosceva il
significato della parola “ordine”?)
spostò le ceneri nell’ampio avan-camino e
accolse con piacere il calore delle fiamme. Per fortuna le braci non
s’erano
spente.
Rimase
lì, immobile per qualche tempo.
Il bosco era
silenzioso come solo un bosco sa essere, pieno
di fruscii sommessi. Si osservò le mani, flettendo le dita.
Poi un
riflesso catturò la sua attenzione.
A pochi passi
da lui giaceva un otre semicircolare colmo
d’acqua. Incuriosito, se lo tirò vicino.
Subito fu
salutato da un volto noto, piatto, inespressivo.
Così,
nel bagliore caldo del fuoco, i suoi capelli erano
rossi come il sole e i suoi occhi non più celesti, ma
ametista. Si passò una
mano in quei capelli, ancora sciolti e lunghi sulla schiena.
S’erano
schiariti da anni (da piccolo li aveva avuti simili
a quelli di Inoi, un intenso color castagna). Ma i suoi occhi non erano
mai
stati come i suoi.
Adesso
sì.
Abbassò
lentamente le ciglia, cercando di imitare la sua
espressione pensosa.
Che faccia
stava facendo suo padre, in quel momento?
Corrugò
la fronte, stringendo le sopracciglia. Probabilmente
quella. Triste e tormentata.
E sua madre
probabilmente piangeva.
Chiuse gli
occhi e sospirò, rilassando i muscoli. Poi cercò
di immaginare che faccia avrebbero fatto al vederlo tornare.
Lento, sempre
concentrato sulla superficie nera e brillante
dell’acqua, piegò le labbra. Scoprì
che, sorridendo, i suoi occhi s’addolcivano
proprio come quelli di suo padre.
«Dovresti
sorridere di più.»
Gliel’avevano
detto, qualche volta.
«Forse.»
Non era
disposto a rinunciare ai suoi sogni.
Sorrise al suo
riflesso.
«Bentornato
a casa, Kenji.»
Voleva
sentirle, quelle parole.
Perciò
sarebbe sceso in città, domani, con la sua spada
camuffata da bastone. Avrebbe messo in gioco tutto quanto.
Non molto
lontano, in una di quelle foreste buie e
disabitate, un bambino si svegliò chiamando sua madre.
Si
trovò chiuso in un carro freddo e puzzolente.
Toccò
tutto intorno, alla cieca, finché non inciampò in
qualcosa e cadde. No… era solo un sogno cattivo.
Adesso
arrivava la mamma. O il papà. O Kenji-chan… o
anche
Inoi-chan!
Singhiozzò,
spaventato.
«Mama…»
Un ombra si
mosse in fondo al posto buio. Lanciò un grido
soffocato.
«Sst»
disse una voce.
Una mano gli
carezzò la guancia. Era liscia e morbida come
quella di sua madre.
«Mamma!»
«No,
non sono la mamma» rispose la voce, femminile. Altre si
aggiunsero: «Siamo prigioniere come te.»
«Voglio
la―» gridò, ma fu zittito da un abbraccio.
«No,
non strillare, ti prego. Ci divideranno se strilli.
Lascia che ti nascondiamo ancora.»
Allora Shinta
si lasciò stringere forte, avvolto dal calore
di tanti corpi esili, il pianto soffocato nelle loro vesti.
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Capitolo 10 *** IX - Quando le parole fuorviano ***
Nota dell'autrice: pronti
per un'altra super-dose di angsts? Finalmente Kenji e Kenshin si rivedono! Sì, non ci sono andata
leggera in questa fic XD ma neanche nelle altre, direi...
Ancora grazie a Killkenny per i suoi commenti <3
“La bocca è
spesso causa
delle calamità.”
Proverbio
giapponese
L’alba.
S’illuminava
il mondo, come l’acqua che lascia cadere le sue
impurità.
Ma gli occhi
dei suoi bambini potevano
vederla?
Avrebbe ritrovato Shinta e Kenji?
Kenshin si
vestì con pochi movimenti meccanici, imitato da
Kaoru, mentre Inoi dormiva nel terzo futon aggiunto su loro richiesta.
Per
nessuna ragione avrebbero lasciato sola l’ultima…
Abbassò
un attimo le palpebre, distrutto. Quella notte erano
crollati, ma avevano dormito sonni spaventosi.
Dovevano
trovarli e mettere fine a quell’incubo.
«Kenshin.»
Abbracciò
sua moglie senza neanche sforzarsi di sorridere.
«Per
favore, sveglia Inoi. Io scendo da Aoshi.»
Quando fu
arrivato al supposto cuore dell’organizzazione
(per i clienti, l’ufficio del direttore, che nessuno vedeva
mai) trovò il
vecchio amico in compagnia di Misao.
«Himura!»
esclamò lei «Sono vicini.»
Risvegliato da
quello che sembrava un sonno millenario, il
suo spirito combattivo pervase ogni più piccola fibra del
suo corpo,
svegliandolo.
«Dove?»
Quei bastardi.
«Sappiamo
che gente sospetta è arrivata in città
ieri»
rispose Aoshi, in piedi accanto alla finestra. Dopo tutti quegli anni,
indossava ancora gli abiti da Oniwabanshu. Era una visione in qualche
modo
confortante. «Sono possibili acquirenti. I miei uomini li
stanno sorvegliando
per vedere se prendono contatti. Il momento in cui lo faranno, sapremo
dov’è
tuo figlio.»
Avevano preso
Shinta. Avrebbero pagato.
«E’
da parecchio che stiamo dietro a questo caso. Ma sono
scaltri. Hanno usato il circo come copertura, di questo siamo
sicuri.»
«Da
parecchio…?»
«Sì.
Un anno fa siamo stati contattati da Saito per una
collaborazione. Pare che il governo da solo non riesca a
risolvere.»
«Dopo
tutti questi mesi a brancolare nel buio, ci credo»
commentò Misao. «Se è difficile per
noi, per loro deve essere impossibile.»
Kenshin
guardò prima l’uno, poi l’altra.
La tensione
adrenalinica s’era tramutata in bruciante
delusione.
«Non
possiamo aspettare che si tradiscano. In questo
momento, Shinta―»
«Stiamo
setacciando i boschi, Himura. Non è semplice, anche
per chi li conosce.»
«Non
posso starmene con le mani in mano.»
«Sei
libero di muoverti. Dovunque tu sia, in Kyoto ti
troveremo.»
Allora
annuì e, fatto dietrofront, fece per uscire.
Ma dalla porta
sgattaiolò dentro un garzone.
«Oh.»
Aoshi
spiegò il foglietto che quello gli porgeva, lesse e
Kenshin incrociò il suo sguardo freddo.
«Hiko
dice che tuo figlio è in città. Crede che vi stia
cercando.»
Non
poté che sgranare gli occhi. Kenji? Cercarli? Voleva
dire che finalmente tornava a casa?
«Dove?» fu tutto
quello che riuscì a dire.
«Probabilmente
la porta nord.»
«Già.»
Con ritrovata
energia, girò sui consunti talloni dei sandali
e uscì, diretto alla camera dove Kaoru vestiva Inoi.
Kenji scese
dalla montagna di buona lena, aprendosi la
strada tra sentieri e scorciatoie invase dalle erbacce.
Contro la sua
schiena era legato quello che, a prima vista,
sarebbe sembrato un semplice bastone, usurato dal lavoro, ma che in
realtà era
la sua spada a filo tradizionale. I tempi erano cambiati e, se dieci
anni prima
lo zio Yahiko poteva ancora uscire con la sakabato Shinuchi al fianco,
ora
certi strumenti bisognava camuffarli.
Raggiunse un
punto più libero e ne approfittò per
controllare la propria posizione.
Sì,
come pensava: la porta nord era la più vicina.
Chiunque
avrebbe usato quella, scendendo dal versante dove
sorgeva la casupola di Hiko. Anche la porta est era abbastanza comoda,
trafficata di carrozze come un boulevard parigino ― non che Kenji ne
avesse mai
visto uno, ma ormai aveva sentito tante volte l’espressione
in bocca allo zio
Sano da farla propria.
Suonava bene,
non c’è che dire.
Il ragazzino
mise le mani sui fianchi, storcendo la bocca.
Un obiettivo,
un compito soltanto lo separava dal rivedere i
propri genitori. Per quello, aveva bisogno di passare inosservato
abbastanza a
lungo da raggiungere il fabbro.
Usare la porta
nord era fuori questione: solo un ingenuo
avrebbe pensato di trovarla priva di sentinelle Oniwabanshu.
Certo,
probabilmente il discorso valeva per tutte le entrate
della città… ma cacciarsi nella tana del leone
non andava bene comunque, no?
Per buona
misura, sarebbe passato da est. Coprendosi la
testa.
Raccattò
un’ampia sciarpa dalla bisaccia di bambù, se la
drappeggiò su quella che gli copriva le spalle, poi
l’annodò e da dietro tirò
un lembo fin sopra la fronte, cercando di tenere sotto la frangia.
Si accorse di
avere qualche difficoltà. Il nodo che teneva a
bada i suoi capelli era troppo morbido. La punta della sua coda
spuntava da
dietro, irriverente come quella di una volpe.
L’avrebbero
sgamato subito. Magari anche prima di metter
piede in città.
Sbuffò,
strappando via la stoffa e sedendo su un tronco
muscoso.
No,
lì ci voleva una nuova sistemazione. Slacciò il
sottile
pezzo di stoffa che gli legava i capelli, lo studiò e prese
una decisione.
Poco dopo
riprendeva a muoversi, la testa ben coperta. Si
notava appena il bozzo della coda alta, che usava a volte per
allenarsi. Al
massimo l’avrebbero scambiato per una ragazza un
po’ timida.
Non che la
prospettiva lo esaltasse.
Proseguì
rimanendo a metà delle massicce colline, posizione
che gli permetteva di scrutare Kyoto dall’alto.
Era quasi
giunto a tiro dell’entrata quando si trovò davanti
una ripa scoscesa. In fondo scorreva un piccolo torrente, gonfiato
dalle
piogge. Di saltare non se ne parlava.
Dovrò
aggirarlo.
Andando verso
il basso trovò una rupe.
«Maledizione.»
Risalire gli
avrebbe rubato un sacco di tempo.
Ma
s’avviò di buona lena, prestando attenzione a non
incappare in altri pericolosi, nascosti imprevisti. Presto fu nel
profondo del
bosco.
C’erano
molte erbacce, però si procedeva bene.
Balzò
da un dosso fangoso all’altro.
Nel superare
una piccola barriera rocciosa intravide un paio
di baracche e storse il naso, colpito dalla puzza che ne proveniva.
Dèi, allora
c’erano altri disperati che vivevano da eremiti come quel
pazzo di Hiko? Ah,
correzione: adesso il maestro era benedetto dalla presenza di zia Okon.
Per
quello che era stato, adesso era un re con tanto di corte al seguito.
Bah.
Scorse una
figura cenciosa e s’affrettò a proseguire.
Dubitava di voler restare per un tè.
All’uscita
dal bosco trovò un sole giovane a riverberare
sulla melmosa, chiassosa porta orientale di Kyoto.
E
all’improvviso si sentì piombare addosso tutta la
tensione
che lo scarpinare aveva attutito. Deglutì. Quanto tempo
poteva avere, prima che
gli uomini di zio Aoshi lo riconoscessero, portassero notizia di lui
alla base
e tornassero con la sua famiglia?
Forse venti
minuti. Mezz’ora volendo essere generosi. La
folla era ancora esigua, poche le probabilità di
confondersi.
Venticinque
minuti. Non chiedeva di più.
Per correggere
un particolare che non gli aveva mai ispirato
grande entusiasmo…
Poi sarebbe
stato pronto.
Si
pulì le mani sudate sugli hakama (dicendosi poi di non
ripetere, perché dava nell’occhio), indi prese un
bel respiro, si stabilizzò
sulle gambe e sbucò all’aperto con passo
tranquillo.
Forse sarebbe
stato meglio trasportare qualche ciocco di
legno ― di quei tempi era pieno di garzoni che la vendevano ― ma ormai
era
tardi.
Non importa.
Salutò
le guardie con un educato cenno del capo.
Gli omoni
vestiti all’occidentale lo fecero passare senza
problemi; si sentì fissato a lungo e dovette reprimere un
moto di stizza.
Ci scommetteva
quel che voleva che l’avevan scambiato per
una ragazza.
In gi e
hakama, sporca di terra? Imbecilli.
Ma non era il
momento di mandarli al diavolo: doveva essere
il primo cliente dal fabbro.
Vi giunse con
qualche difficoltà, confondendosi spesso nel
moltiplicato numero di bivi e incroci (anche perché, pur
avendo visitato spesso
Kyoto, non era mai stato fisicamente dal signor Arai). Appena aperta la
porta,
la signora lo salutò con un sorriso.
«Buongiorno.
Prego, entra.»
«Grazie.»
In quel
momento ricordò una cosa: lei e il marito conoscevano
suo padre.
Forse aveva
meno tempo del previsto.
Negli stessi
brevi attimi, in un’altra parte di Kyoto, un
uomo dal volto zigomoso usciva dalle mura e le costeggiava per un
tratto.
Era vestito di
scuro, fatto comune per il popolo in tempi di
duro lavoro. Le sue mani però, dondolate in modo
ingannevolmente spontaneo,
erano piene di calli.
E i suoi occhi
più neri dello straccio che, legato con due
spaghi, avvoltolava sulla sua schiena una lunga vanga.
Quando fu
sicuro di non essere seguito, l’uomo tagliò per la
boscaglia e sboccò nella zona di Rakuninmura.
Quella
baraccopoli era stata sgomberata da anni, vicina
com’era a una bella città in espansione. Ma quel
giorno non era completamente
deserta.
Si
fermò.
Due facce
spiacevoli sbucarono dalla capanna più vicina,
accennando un asciuttissimo saluto.
L’uomo
strinse le palpebre.
«Signori.
Spero li abbiate in contanti, non facciamo più
affari a parole.»
La sua voce
era appena un sussurro.
«Lo
sappiamo. Voi andate a… vanghe.»
Lui contrasse
le labbra.
«Si
lavora come si può.»
Aoshi aveva
appena finito di stringere l’ampia cintura dei
pantaloni, infilandovi le fedeli kodachi, quando un ragazzino
entrò dalla
finestra.
Era uno dei
figli di Omasu, il migliore tra le nuove reclute.
Bene: se
l’era sentito che il momento di concludere era
vicino.
Accettò
da lui il messaggio e scribacchiò due parole su un
pezzetto di carta, consegnandoglielo.
«Portalo
a Himura. Sai dov’è?»
«No,
ma lo troverò.»
In un lampo il
giovane Toga era sparito. Aoshi infilò il
cappotto blu, uscì dalla stanza e andò in cerca
degli altri (per modo di dire,
visto che sarebbero stati loro a venire da lui).
La prima che
trovò fu Okon.
«Sei
tornata?» non poté esimersi dal chiedere.
«Non vedo il
tuo sgradevole marito, però.»
La donna gli
rispose con un candido sorriso.
«Oh,
è in cucina adesso. Sta facendo preparare la colazione
per Kazuma, stamattina abbiam lasciato la montagna piuttosto di
fretta.»
«Hm»
rispose, proseguendo.
«Ha
detto che parteciperà anche lui alla spedizione!»
La frase gli
giunse già lontana, ma arrivò. E dannazione,
avrebbe voluto essere più veloce.
Seijuro Hiko
grattava sui suoi nervi come pochi altri.
«Misao.
Li abbiamo.»
Kenji
rinfoderò la spada con un movimento impacciato,
percependo la differenza.
Pazzesco.
Neanche due settimane e s’era già disabituato.
Lì
ci sarebbe voluta pratica.
Sbirciò
in direzione dell’orologio da parete e gemette tra
sé. Ce n’era voluto del bello e del buono per
convincere il signor Arai che non
voleva un’affilatura, ma piuttosto il contrario. E adesso era
tardi.
Riportò
la propria attenzione sull’uomo e la moglie e
sorrise, inchinandosi.
«Vi
ringrazio infinitamente. Se mi dite il prezzo del vostro
servigio, appena potrò―»
«Oh,
non ce n’è bisogno» esclamò
lui, grattandosi la nuca.
«Davvero. Non posso dire di essere contento maneggiando
spade, ma finché si
tratta di un intervento simile, collaboro volentieri. Non mi devi
niente.»
Fantastico.
Cercò
di non mostrarsi troppo felice.
«Siete
davvero gentili» e s’inchinò di nuovo.
«Sciocchezze»
rispose la signora, muovendo per offrirgli un
tè caldo. «Piuttosto, dicci, come sta tuo padre?
E’ qualche anno che non lo
vediamo.»
La domanda gli
ricordò ciò che doveva fare ora e
Kenji s’irrigidì.
«Ci
farebbe piacere salutarlo» stava blaterando il signor
Arai. «Prima che tu nascessi, ha salvato il nostro
Iori… non lo ringrazieremo
mai abbastanza.»
«Sono
sicuro che apprezzerà il favore che avete fatto a
me»
affermò, la gola stretta. «Comunque glielo
ricorderò. Adesso devo andare,
grazie di tutto.»
«Ma―»
La torre
cittadina rintoccava le dieci mentre Kenji
attraversava di corsa il giardino, lontano dai loro convenevoli,
sparendo nelle
viuzze del centro storico.
La galoppata
non gli distese i nervi come aveva sperato.
C’era poco da fare, era teso.
Arrivato al
grande momento, metteva tutto nelle mani del
proprio coraggio… e scopriva che quello aveva le dita di
burro.
Vibrò
un pugno in aria, stizzito.
Ah, andiamo!
Aveva davvero così poco fegato? Ma per favore!
Controllò
il respiro, come Hiko gli aveva insegnato a fare
se andava in battaglia; poi, calmatosi, proseguì verso il
mercato.
Tempo di
ricongiungersi alla famiglia.
Di confrontarla.
In
realtà gli sarebbe bastato levarsi la sciarpa di testa ed
entro cinque, dieci minuti al massimo un qualche Oniwabanshu non
precisato
avrebbe fatto il suo lavoro, portandolo dove doveva andare ― o portando
chi
voleva vedere direttamente da lui.
Ma era un
metodo troppo radicale. Necessitava di più tempo.
Una bella
camminata per Kyoto gli avrebbe rilassato i nervi.
«Se
credi veramente in quello che fai, devi insistere.
Parla a tutt’e due, e vedrai che da quel momento ti
aiuteranno.»
«Spero
che tu abbia ragione» mormorò.
Pochi minuti
dopo, confusosi nel chiasso del mercato
ortofrutticolo, li sentì.
Li riconobbe
subito. Anche perché… erano davanti a lui, e
gli venivano incontro.
Il cuore gli
fece una strana capriola, scendendo nei piedi e
rimbalzando nello stomaco.
Si
voltò d’istinto verso la bancarella.
La sciarpa gli
schermava il viso.
Calma.
Andrà bene. Non se tu a essere in torto. O magari―
ma non è questo il punto! Concentrati, prendi un bel fiato e
fallo.
Ma invece di
voltarsi si fermò ad osservarli, oltre il bordo
del cappuccio verde.
C’erano
suo padre, sua madre, sua sorella Inoi (certo Shinta
dormiva ancora all’Aoiya) e lo zio Sano, vestiti da viaggio.
Lo zio gli
bloccava la visuale ― si spostò più vicino,
sentendosi ogni battito cardiaco
nelle orecchie.
Santo cielo,
sembrava dovesse andare a suicidarsi.
Erano solo i
suoi genitori.
E avevano
un’aria terribile. Sua madre mostrava al mondo un
viso pallidissimo, intorno a due occhi arrossati dal pianto, mentre suo
padre
guardava in giro stringendo forte la mano di Inoi. Fu assalito dai
sensi di
colpa.
Forse…
forse si era davvero comportato in modo immaturo,
scappando di casa.
Però
ci sei stato tirato.
Certo lo
avrebbero riconosciuto presto.
Ma avresti
dovuto pensarci di più, forse.
Cosa gli
avrebbero detto?
Nel
giocherellare coi frutti del banco, pateticamente
timoroso del confronto, colse qualche stralcio di conversazione.
«Dove
sarà, Kenshin?»
La voce di sua
madre era bassa.
«Qui
vicino, ha detto Aoshi. L’hanno visto passare.»
Parlano di me.
«Dovrebbe
mancare poco.»
«Lo
spero.»
«Inoi,
non allontanarti.»
«Kenshin,
quando riavremo i nostri figli? Non ne posso più
di aspettare…»
Uh?
«Kenji
sta bene. E anche Shinta starà bene, vedrai»
sussurrò
suo padre, strozzato. «E’ mercato di schiavi: non
si danneggia la merce prima
della vendita.»
Uh?
«Non
puoi esserne sicuro! Come fai a essere così
calmo?!»
«Non sono calmo, Kaoru. Sto
solo cercando di dare un
minimo di sicurezza a nostra figlia.»
Kenji si
ritrovò a fissarli apertamente.
Figli? Shinta? Mercato di
schiavi? Di che diavolo
stavano parlando?
Non erano
lì per lui?
Perlustrò
la via con gli occhi, certo di aver sentito male.
Shinta sarebbe saltato fuori da un attimo all’altro.
Ma il
quartetto continuò a restare tale, senza fratellino
minore.
Un rivolo di
sudore freddo gli colò lungo il collo.
«Quando
pensano che succederà?» disse lo zio.
«Presto.
Stanno seguendo uno dei loro nel bosco.»
«Perché
non possiamo andare anche noi?» esclamò sua madre.
«Shinta potrebbe―»
Suo padre la
prese per le spalle. «Non si può.»
«Perché
no!»
«Sarei
voluto andare io per primo. Ma quando arrivano le
notizie, gli Oniwabanshu sono già avanti.»
Sua madre
singhiozzò.
«Riavremo
il nostro Shinta, vedrai.»
Kenji smise di
ascoltare, scioccato.
Shinta.
Rapito.
No…
Di punto in
bianco ebbe una visione. Nella sua testa si
scatenò un tifone plumbeo: un lampo gli mostrò la
via di casa, a Tokyo, e
Shinta accosciato davanti a un fiore. Un altro gli occhi di uomo, due
pozzi
neri. Un altro ancora, quell’uomo che passava guardandolo
come se volesse
squartarlo, scomparendo alla fine oltre l’angolo, ridendo
della sua minaccia.
Le sue gambe
persero forza.
Non poteva
essere. Non poteva, lui era―
Era venuto
lì proprio per poterli proteggere tutti, un
giorno. A che serviva, se la sua famiglia―
Rivide il
fratellino, sempre impegnato in qualche stupido
gioco, tutto dolcezza e gioia.
Non lui. Per favore.
«Shinta.»
Ma era
successo. Era così sconvolto che non vide neanche il
gruppo muoversi. Sentì solo una spalla cozzare contro la
sua, alcune parole di
scusa.
Trattenne il
respiro.
E’…
passato,
pensò. Mi ha urtato e non mi
ha
visto.
Né
lui né sua madre né sua sorella.
«I
boschi sono immensi, qui intorno. Saranno in qualche
baracca.»
Erano venuti
per lui, forse, ma avevano testa solo per
Shinta. Come al solito, del resto. Si tenne per gli hakama, con la
mascella
incastrata.
Smettila.
Hanno ragione. Tu sai badare a te stesso, Shinta no.
Si
voltò del tutto, deciso a farla finita. Togliere quel
peso avrebbe solo reso più facile la situazione.
Voleva dare
una mano a trovare il suo fratellino.
Mentre
cominciava a seguirli, accelerando, vide un
garzoncello vestito in modo molto sobrio sbucare da uno dei vicoletti e
prender
suo padre per una manica. Lo riconobbe: l’aveva visto
all’Aoiya. E se anche
avesse avuto un qualche dubbio sul motivo della sua venuta, vedere sua
madre,
sua sorella e lo zio Sanosuke stringersi attorno a suo padre, che
apriva un
minuscolo messaggio, confermò tutti i sospetti.
«L’hanno
trovato.»
Il suo cuore
impazzì.
«Davvero?!»
«Sì.
Ci aspettano alla porta est.»
«Andiamo
allora!»
E Kenji, tra
il felice e l’allibito, li vide partire di
slancio.
«Aspe―»
«Ah!» la voce
di sua madre coprì la sua. Lei s’era bloccata nel
bel mezzo della strada,
andando a sbattere contro un tizio.
Suo padre
frenò.
«Muoviti,
Kaoru.»
«Kenji!
Dovrebbe essere qui!»
Non fu
difficile distinguere la sorpresa sul volto
dell’uomo. Il ragazzo si piantò le unghie nei
palmi.
C’è
Shinta, c’è Shinta, c’è Shinta.
Ma una sordida
rabbia cominciò a farsi strada nel suo petto.
Due figli mancanti, però Shinta era sempre al primo posto,
eh?
Gli erano
passati accanto senza riconoscerlo. L’avevano
persino urtato. Ora li stava guardando in piena luce del giorno, il
cappuccio
storto, la faccia completamente visibile, e ancora non lo notavano.
Eppure era
lui quello che non vedevano da più tempo.
«La tua
famiglia ti ama. Ti vorrà sempre
accanto.»
Loro―
«Allora
diglielo. Gridaglielo, se non vuole ascoltarti.»
Zia Okon aveva
ragione, non doveva rinunciare così presto.
Era importante. Voleva bene alla sua famiglia.
Accennò
un altro passo.
«Dobbiamo
cercarlo e andare con lui» stava dicendo sua
madre. «Sono sicura che è qui, in una di queste
vie» e si guardò in giro,
agitata, mentre suo padre sembrava fatto di pietra.
Da questa
parte. Guarda da questa parte!
«Aoshi
non ci ha più detto niente. Non sanno dove sia.»
«Aveva
detto in città, in centro!»
«Kyoto
è grande, Kaoru. Potrebbe essere a chilometri da
noi.»
Dove voleva
arrivare…?
Zio Sano
sembrò chiedersi la stessa cosa, ma si finse
estraneo, stranamente a disagio.
«Avanti,
Kenshin!»
«Kaoru.
Venderanno Shinta questo pomeriggio.»
«Ah?»
«Il
posto è lontano. Non abbiamo tempo.»
Lontano.
«Dobbiamo
andare subito.»
«Ma…
Kenshin… e
Kenji?»
Le labbra di
suo padre si tramutarono in una linea, fino a
scomparire. Nello stesso momento Kenji sentì i suoni della
strada attutirsi.
Alla fine,
dopo una pausa soffocante, suo padre buttò fuori
due parole, le mani che tremavano contro i fianchi.
«Prima
Shinta.»
Sua madre
parve divisa, poi scosse la testa. «No. Kenji è
qui, lo
voglio.»
Lui la
trattenne per un braccio.
«Prima
volevi Shinta. Sai bene chi è più in pericolo.
Kenji
può aspettare.»
Ogni sillaba
era un ago di ghiaccio.
«Voglio
entrambi i miei figli!»
«Allora
dividiamoci!» sbottò Kenshin, lasciandola andare.
«Basta con le discussioni. Non c’è
motivo per andare insieme. Tu cercherai Kenji. Io andrò con
Aoshi, a
salvare Shinta che
potrebbe esser mezzo morto di freddo!»
Sua madre
sbiancò, le guance rigate di lacrime silenziose.
«Non
mi merito questo» disse. «Anche Kenji è
importante.»
Quella fu la
goccia che fece traboccare il vaso.
Il ragazzo
vide suo padre indurirsi come una radice; per un
istante pensò che sarebbe stramazzato al suolo.
«Non ho tempo, adesso,
per quel ragazzo e le sue
stronzate sull’Hiten!» Parecchia
gente si voltò, costernata dal volume
della sua voce. «Se fosse stato ragionevole e non fosse
scappato di casa, non
saremmo in questa situazione! Invece no, ha dovuto essere testardo,
fino
all’ultimo! E ora Shinta rischia la vita. Sarà traumatizzato a vita!»
Basta.
Kenji si
voltò, rapido. Aveva sentito abbastanza.
Abbastanza…
Ma si mosse
troppo in fretta e cozzò contro qualcuno,
mandandolo a terra.
«Oh,
scu―ah.»
Gli occhi di
sua sorella lo inchiodarono dal basso, grandi,
trasparenti.
Cristallizzò
sul posto.
Quando
s’era mossa?
Perché
spalancava la bocca?
Perché
non le diceva di stare zitta?!
«Kenji!»
Lo strillo
attraversò la via e Kaoru smise di parlargli.
Kenshin
levò la testa di scatto, torse il collo e lo vide.
Suo figlio era lì, a pochi passi da loro.
Con una
sciarpa scivolata sul collo a scoprire i brillanti
capelli rossi e Inoi ai piedi, caduta. Lo guardò con un moto
di sollevata,
avida disperazione, notando che sembrava in salute.
Stava bene.
L’avevano trovato.
Ma, quegli
abiti…?
«Kenji-chan!»
gridò ancora Inoi, alzandosi con foga.
Assistettero
ammutoliti all’agile balzo del ragazzo, che si
mise fuori portata della sorella.
«Kenji.
Kenji!» esclamò Kaoru, avanzando.
La gente
mormorava.
«Hey
voi, che avete da guardare? Smammate» esclamò
Sanosuke.
Lo sguardo
pallido di Kenji non li sfiorò neanche. Era
puntato su di lui, suo padre, accusatorio e ferito.
Sembrava sul
punto di dire qualcosa, poi ci ripensò. Prima
che Kaoru potesse scattare per catturarlo e abbracciarlo, il ragazzino
sparì.
«Kenji!»
Solo grazie
alla vista pronta e allenata Kenshin poté
cogliere un barlume di verde, verso la fine della strada. E
scattò.
Le case
cominciarono a passargli accanto, assieme alle
persone che si ritraevano tra lo spaventato e il confuso, in un
caleidoscopio
di colori. La sensazione familiare dell’inseguimento lo
avvolse. Incontrò molti
bivi, sempre più larghi, meno affollati.
Si stava
allontanando dal centro.
«Kenji!»
chiamò. «Aspetta!»
Era veloce.
Più veloce di quel giorno alla radura. Questo
poteva significare solo una cosa: Hiko lo stava istruendo.
Col passare
dei minuti il suo corpo cominciò a diventare
sempre più fiacco, sempre più difficile scorgere
il movimento che indicava la
direzione di Kenji.
L’avrebbe
perso!
Lo
chiamò ancora, rallentando.
Un attimo.
Si
guardò intorno e riconobbe alcuni edifici: lui conosceva
bene quella zona… qui, decenni prima, la spada di Battosai
aveva colpito più di
una volta.
Sorrise
amaramente al crudo presagio. Ma ora, forse quel
ricordo avrebbe potuto aiutarlo.
Tornò
indietro per un tratto e, facendo appello a tutto il
proprio fiato, saltò il muricciolo che individuava
dall’altra parte un vicolo
cieco.
Da
lì, con poche rapide svolte, giunse presso la zona
residenziale più bella, quella dei giardini e delle case
laccate.
Udì
i suoi movimenti ancora prima di girare l’angolo.
Aveva visto
giusto.
Suo figlio
andò quasi a sbattergli addosso: sbarrò gli
occhi, mandò un’esclamazione e si contrasse
violentemente per saltare indietro,
sfuggendo alla sua presa.
Nessuno disse
niente. Kenji indietreggiò ancora.
Kenshin
sentì un coltello straziargli il cuore e incidervi
parole senza nome. Eccolo, il suo irruento, testardo, maleducato
ragazzo.
Era in piedi
davanti a lui, appena piegato in avanti,
vestito di nero, i capelli raccolti alti sulla nuca…
l’immagine vivente
dell’assassino che aveva macchiato le strade di Kyoto
trent’anni prima, che lui
stesso aveva eliminato.
E quella che
portava sulla schiena, non più celata dalla sciarpa―
«Kenji.»
Una spada
vera.
Si misurarono,
scossi dagli ansiti.
Kenji era
convinto di averlo seminato quando entrò nel
quartiere nobiliare. Rallentò, congratulandosi per aver
reagito così alla
svelta.
Non ce
l’avrebbe mai fatta a confrontarli, ora.
Non gli
sarebbe uscita una parola.
A dire il
vero, non gli usciva neanche un pensiero. La sua
testa era un calderone amorfo e grottesco.
Attraversò
al trotto la via, progettando vagamente di
tornare alla montagna, o almeno di trovarsi un buco dove riflettere. Doveva
farlo…
Svoltò
l’angolo.
Accecò
all’istante.
Ostacolo.
Il tempo
rallentò mentre il suo corpo reagiva inchiodando,
flettendo le ginocchia e fiondandolo indietro, a cinque metri di
distanza.
Giusto in
tempo per non andare a sbattere.
Per non essere
preso,
corresse la sua mente, inviando
segnali d’allarme più complessi.
Era suo padre.
L’aveva raggiunto.
Impossibile.
Fece alcuni
passi indietro, ansimando forte per lo spavento.
L’aveva preso di sorpresa. Non se l’aspettava. Ma
come…? Un’occhiata ad alcuni
punti di riferimento gli rivelò la verità.
Ah. Aveva
quasi girato su se stesso. Maledizione. Aveva
dimenticato che suo padre conosceva Kyoto meglio di lui, ma non avrebbe
mai
pensato che avesse tanta energia in corpo.
Beh, lui si allena, Kenji.
Il pensiero e
la sua voce misero in moto tutti gli
ingranaggi e perse la paradisiaca ignoranza data dallo shock.
Strinse le
palpebre, riprendendo ad arretrare.
L’espressione
di suo padre era
contratta.
Hah. Era
sopraffatto dalla compassione, proprio.
«Kenji…
non scappare più. Per favore.»
Pur odiandosi
per quell’atto di codardia, il ragazzo puntò
il naso altrove, lasciando appena uno spiraglio tra le ciocche di
capelli per
controllarlo.
«Stai
sprecando tempo. Vai a prendere Shinta.»
Cazzo. Gli
tremava la voce.
«Allora
hai sentito tutto. Sei davvero la persona con cui mi
sono scontrato alla bancarella.»
Al diavolo
tutto. Doveva scappare.
Fece per
scattare, ma se lo ritrovò misteriosamente davanti.
«Non
farlo. Adesso parliamo, vuoi? Per favore.» Sembrava
disperato.
Però
in realtà era lui quello disperato, pensò Kenji,
stringendo i denti. Era lui ad esser stato finalmente rifiutato, dopo
una vita
di distanze.
Pensandoci, in
quelle settimane erano venute a galla tante
cose, tanti particolari penosi. E che cos’aveva fatto di
male? Voler bene alla
sua famiglia? Voler proteggere i suoi fratelli e seguire una passione
ben
controllata dalla ragione?
«Lo
sai che non intendevo in quel senso, quando ho detto di
cercare prima Shinta. Hai una vaga idea della situazione? Hai pensato
cosa
dev’essere per lui stare lontano da casa, in mano a gente che
lo colpisce e lo
maltratta e lo venderà ad altri schiavisti? Io ci sono passato.» Suo
padre pareva sul punto di crollare. «Quando avevo otto anni
sono stato rubato
dal letto di morte dei miei genitori e portato via, completamente
indifeso
finché non mi ha trovato il maestro.» Stava
alzando di nuovo la voce. «Lo sai,
te l’ho raccontato quand’eri piccolo! Ma allora,
come fai a non capire? Come ti
permetti di pensare che io o tua madre non ti amiamo nel momento in cui
cerchiamo di salvare tuo fratello? Lui non ha la tua spada o la tua
forza!»
Quelle cose le
sapeva benissimo, sì.
Ma
checché dicesse zia Okon, ormai era convinto.
Gli
scappò una risatina, poi deglutì per evitare che
si
tramutasse in un singhiozzo.
Non era così patetico.
Suo padre
parve sconcertato.
«Volevate
trovarmi a tal punto» disse, sempre guardando la
fine della strada «che non vi siete neanche accorti quando mi
siete passati
accanto. O quando mi sono avvicinato, col viso scoperto,
visibilissimo.»
«Kenji―»
«Oppure
quando vi ho chiamati―»
«Non
ci hai chiamati.»
«Sì
invece. Mentre tu correvi via e la mamma ti fermava.»
Non aveva
più molto tempo. Doveva chiudere in fretta.
Prima
però voleva sapere.
«Dimmi,
è perché sono il tuo ritratto? O per il mio
carattere?»
«Che…
cosa?» sussurrò suo padre.
«Sì,
dev’essere per il mio aspetto. Uguale nel corpo, uguale
nel destino, no? Anzi» s’interruppe, colto da
un’intuizione «dev’essere tutta
colpa dell’Hiten. Già, è per quello che
mi hai sempre tenuto a distanza, in un
modo o nell’altro.»
«Tenuto
a distanza?»
«Ma
sì, tu odi quella tecnica. Ora che ci penso è fin
troppo
evidente. Hai dimenticato che ti ha permesso di proteggere le persone
che ami,
che è nata per proteggere, alla
faccia di tutto quello che dice Hiko, e
che non è detto che “quattordicesimo
maestro” equivalga a “quattordicesimo
assassino”!»
Si accorse
solo ora di aver urlato.
Questo, invece
che schiacciare ancora di più l’uomo che
aveva davanti, lo risvegliò.
«Kenji…
io ho ucciso con quella tecnica.»
«Era
tanti anni fa, in guerra!»
«L’uomo
è sempre lo stesso.»
«Ma
i tempi di pace vengono.»
«No,
tu non capisci. La violenza chiama la violenza. Il
kenjutsu è l’arte dell’assassinio. Non
sto dicendo che tu sia cattivo, Kenji,
non c’è bisogno di essere cattivi. Io ho
imbrattato queste stesse strade di
sangue credendo di fare il bene, il futuro del Giappone!»
Venne verso di lui.
«Non ti ho tenuto distante da me! Ti ho tenuto lontano da una
cosa pericolosa,
che può solo farti del male.»
Il ragazzino
lo guardò dritto negli occhi, sperando oltre
ogni speranza di farsi capire.
«Allora,
perché mi hai chiamato così?
“Kenji” è “la via
della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Suo padre
parve sorpreso.
«Io
e tua madre… pensavamo al Kamiya Kasshin. Non certo
all’Hiten.»
Se solo fosse
riuscito a farsi capire.
«Ma
è una parte di te.»
Il volto di
suo padre intristì. «Credi che ne sia
felice?»
«Dovresti,
visto che è grazie alla spada che ora hai tutto
quello che hai.»
«Allora
per te il fine giustifica i mezzi.»
«No.
So solo che l’Hiten non ti ha portato solo
tragedie.»
Quello lo fece
esitare. «Hai ragione. Ma dimentichi una cosa
importante» i suoi occhi erano severi ― lo chiudevano fuori
come un muro «per
arrivare qui, ho fatto esperienze che non augurerei al mio peggior
nemico; men
che meno a mio figlio. La Bakumatsu, Tobafushimi, l’Hiten
Mitsurugi ― che è poi
la causa di tutto ― mi hanno lasciato cicatrici fisiche e mentali che
non mi
abbandoneranno mai. Solo te, tua madre e i tuoi fratelli le rendete
accettabili.»
Tutto quel
parlare di spade e guerra rinfrescò a Kenji la
memoria.
«Allora
perché pratichi ancora?»
«No
io―cosa?»
Affondato.
«Ti
ho visto, sai? Nel boschetto del Tempio. Tante belle
parole e poi…» Sarcastico, incrociò le
braccia anche se aveva voglia di
piangere. «Oltretutto eri così lento che avrebbe
potuto superarti una farfalla.
Che pena. Lo facessi io, la mamma e Inoi e Shinta sarebbero
più al sicuro.»
Suo padre ci
mise un po’ di più a recuperare, stavolta.
Il suo viso
mostrò i chiari, rarissimi segni della collera.
«Già,
così al sicuro che ora Shinta è
sparito.»
Kenji avrebbe
voluto darsi un pugno in faccia.
«Io
ho smesso davvero di praticare per
anni, a causa
della mia salute ― e poi per proteggere te. Preferivo evitarti una
passione
malsana. Ma sei diventato un piantagrane lo stesso, allora, per poterti
difendere in un altro modo, pian piano ho ricominciato.» I
suoi occhi
irradiavano rabbia e dolore e… amore. «Avevo
giurato di rimediare ai miei
errori difendendo la gente, ricordi? Ti sembra ipocrita riprendere la
spada?»
Sembrava
attendere un suo diniego. Una conferma.
«Per
te.»
Prima di tutto
per lui.
«Kenji,
torniamo a casa. Riprendiamoci Shinta e torniamo.»
Kenji
esitò, diviso fra sensazioni contrastanti.
«Può
darsi che non voglia capire, ma anche tu sei in
torto. Conosci i suoi motivi.»
Non avrebbe
rinunciato all’Hiten Mitsurugi. Ed era stato
messo per secondo ― ma… un attimo, era davvero
così? Avevano atteso tanto per
venire a prenderlo a causa del rapimento.
«Io…»
Ora lo
cercavano. Lo volevano.
Riprenditi.
Avanti, riprenditi.
Suo padre
cominciò ad avvicinarsi.
«Io
voglio restare da Hiko» disse, lasciandosi quasi
toccare.
Il volto di
suo padre scurì.
«No.»
Kenji
balzò indietro, scottato. «Allora vattene da solo!
E’
così difficile accettare che è quello che
voglio?! La via della spada ―
qualunque stile mi piaccia!»
«Tu
puoi ancora uscirne, sciocco ragazzo! Prima che ti
succeda qualcosa.»
«Oh,
piantala. Non mi succederà niente.»
Cominciò
a slegare i muscoli delle gambe, pronto allo
scatto. Vide gli occhi di suo padre cogliere il movimento; anche la sua
postura
si fece più morbida, pronta a qualunque mossa.
«Non
farlo, Kenji.»
«Se
ci tieni così tanto, accettami per intero.»
«Non
con l’Hiten.»
Ah. Ah, non
c’era proprio niente da fare.
Fletté
le ginocchia, soffocato da un peso lacerante.
«Non
è me che vuoi, allora.»
E in un attimo
era dentro il giardino di una delle ville,
oltre il muro di cinta. E via.
Vedendo a
malapena dove andava.
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Capitolo 11 *** X - Cercando Shinta ***
Nota
:
eccoci al decimo capitolo... siamo quasi alla conclusione, questione di
pochi capitoli ^^ e, per la gioia di Killkenny, finalmente oggi
qualcuno capisce qualcosa e smette di fare la testa dura ;-) Meno male
che Hiko esiste!
Kenshin lo
vide spiccare un salto e compiere un arco in aria,
all’indietro. Poi, in men che non si dica era scomparso.
«Kenji!»
Raggiunse il
muro, preparandosi a saltare. Ma si fermò prima, conscio che
non ce l’avrebbe mai fatta.
Non aveva
più vent’anni.
«Kenji,
torna qui!»
Cominciò
a costeggiare la barriera, veloce, tentando di cogliere movimenti o
rumori. Svoltò nella via contigua. Forse lo avrebbe visto
uscire, o saltare su qualche tetto.
Ma dopo pochi
minuti seppe di illudersi. Era diventato troppo veloce… non
poteva fermarlo.
Non poteva.
Si
appoggiò pesantemente contro una staccionata, il respiro
affannoso. Poi si coprì gli occhi, chiudendo fuori la luce.
Dannazione.
Aveva fallito.
Era stato a un
passo―
«Volevate
trovarmi a tal punto che non vi siete neanche accorti quando mi siete
passati accanto.»
Dèi
santi.
«E’
per quello che mi hai sempre tenuto a distanza?»
Dèi
santi…
Era quello che
Kenji credeva? Che non lo volesse, che lo odiasse? Lo amava alla
follia, come pochi altri al mondo!
No, Kenshin
odiava se
stesso.
Non solo non
aveva riportato indietro il suo carissimo figlio, l’aveva
allontanato ancora di più. Se solo fosse stato
più attento. Se solo non avesse detto quelle
parole… Aveva visto il pianto nei suoi occhi.
Cosa doveva
fare per rimediare?
«Voglio
restare da Hiko.»
Come poteva
fare per impedirgli di seguire le sue orme? Kenji non sarebbe stato mai
più lo stesso.
La
possibilità lo riempiva d’orrore.
Sentendo
chiamare il proprio nome, abbassò la mano e
guardò verso il fondo della via.
C’era
Kaoru che correva verso di lui, tenendo Inoi per mano. Sanosuke le
seguiva a mo’ di retroguardia.
Il loro arrivo
gli ripiombò addosso la situazione.
Shinta.
Shinta,
sì.
C’era
qualcos’altro che doveva fare adesso, senza ritardi.
Per quanto il
suo cuore fosse dilaniato.
Kenji
attraversò la città come una furia, sbandando e
deviando di sovente.
Coi capelli
sferzati all’indietro, al pari di una fiaccola nel vento, la
veste nera e il capo tenuto basso, sembrava uno spirito vendicatore
lanciato in una cavalcata feroce.
«Per
te.»
Balzò
oltre una pila di legna, abbandonando un vicolo.
«Non
scappare più. Per favore.»
Non
così.
«Torniamo
a casa.»
Non
così! Anche se voleva.
Doveva
pensare. Doveva doveva doveva. Si soffermò a riflettere che
poteva sempre tagliarli fuori e andare a fare la sua vita altrove, dove
più gli aggradava. Ma una voce dentro di lui
scoppiò in una cruda risata, sbattendogli in faccia che non
ne era capace.
O
piuttosto… non voglio.
Nonostante
tutte le sue arie da duro, Hiko aveva ragione.
Era solo un
moccioso, ancora attaccato alle mani di mamma e papà. E
quella vita, tutto sommato, gli piaceva.
Tornare dalle
scorribande della Triade il mattino o il pomeriggio tardi, per trovare
sorrisi ad accoglierlo, il profumo di cibo
nell’aria… la sicurezza.
Mirò
alla prima cosa che vide (un mucchio di spazzatura) e le diede un
calcio.
«Dannazione!»
Restò
lì ad ansimare, completamente ignaro della sua posizione.
Per quanto ne sapeva poteva anche esser fuori Kyoto.
«Kenji,
torniamo a casa. Riprendiamoci Shinta e torniamo.»
Aspirò
con violenza.
I suoi occhi
non riuscivano a staccarsi dal pattume.
Dèi
del cielo. Shinta.
Come aveva
potuto dimenticare?
Forse sto già diventando una
persona orribile.
Si passò le mani sul volto, senza accorgersi che erano
sporche.
«I
boschi sono immensi, qui intorno. Saranno in qualche baracca.»
Rimase con le
braccia a mezz’aria.
Baracche?
Foresta?
Quella
mattina, muovendosi verso la porta orientale, era stato costretto a
deviare e addentrarsi nella boscaglia per evitare una gola. Rivide il
tratto roccioso e l’avvallamento nascosto, puzzolente di
marcio. Le baracche, così ben nascoste che
all’inizio neppure le aveva riconosciute…
«Lo
so dov’è» mormorò.
Si
guardò dietro, maledicendosi per esser scappato a vanvera.
«Venderanno
Shinta questo pomeriggio.»
Pomeriggio.
Che ore erano?
Quando nel pomeriggio?!
All’improvviso
seppe che sarebbe andato da solo.
Non
c’era tempo.
Muoversi
subito.
Avvertire
nessuno.
Animato da una
violenta apprensione, riprese la sua folle corsa.
Era stato lui
a trattenere i genitori e lo zio. E non si sarebbe mai perdonato se a
Shinta fosse successo qualcosa per colpa sua.
Sanosuke
Sagara non era tipo da sentirsi facilmente a disagio. Non rientrava
nelle sue sensibilità, tutto qui. Spesso i sassi eran
più acuti di lui, e non aveva grandi problemi ad ammetterlo:
ai patemi mentali, lui preferiva domande dirette e bicipiti.
Ma
c’erano anche casi in cui la sua materia grigia riceveva una
spinta in più, aprendosi a possibilità
sconosciute. La vita l’aveva abituato alle situazioni serie,
per quanto poco gli piacessero. E se non era seria quella…
Osservò
a debita distanza il migliore amico, muto da quando l’avevano
rintracciato.
Aveva solo
sillabato “Shinta”, poi era partito a razzo. Facile
indovinare che le cose fossero andate male con Kenji. La domanda era:
quanto male? Le occasioni di vedere Kenshin così scuro
c’erano state, certo, ma non si classificavano proprio tra le
date da ricordare.
Adesso avevano
raggiunto il punto d’incontro: la porta nord. Neanche
l’importuna insistenza di Misao riuscì a
strappargli altre parole. Non parliamo poi di Aoshi, con quel suo
complesso del mutismo.
Qui
c’era puzza di altre grane.
Ficcò
le mani in tasca, incurante del freddo che entrava dall’haori
rosso aperto, e s’accostò a Kaoru.
Lei non si
smentiva. Conosceva Kenshin meglio di chiunque altro: e infatti, dopo
aver visto la sua faccia in quella strada da ricconi, non aveva
sussurrato che il suo nome.
«Hey.»
«Oh,
Sano» mormorò lei, strappata ai pensieri. Inoi le
camminava a fianco, quasi trascinata per mano, la testolina bassa.
«Si
risolverà tutto, vedrai. Adesso andiamo e li
massacriamo.»
Kaoru
accennò un sorriso.
«Ci
dispiace di averti coinvolto―»
«Porca
vacca, anche tu con ‘sta storia. Piantatela. Voi avreste
fatto lo stesso.»
«Zio
Sano ha detto una parolaccia» dichiarò Inoi,
mogia.
«Sì,
zio Sano è maleducato.»
«Oy…»
Kaoru si
passò il dorso della mano sulla fronte. «Sono
fuori di me. Per Shinta, per Kenji, ma anche per Kenshin. Non ha un
bell’aspetto… Non ce la faccio
più.»
«Ancora
poco» le disse, stringendole la spalla. «Tieni
duro.»
«Ah,
fosse facile. Lo so già che dovrò restare qui ad
aspettare. Sempre ad aspettare.»
«Devi
proteggere Inoi. Non sarebbe sicura venendo con noi, no?»
Lei
annuì, la fronte imperlata di sudore.
Poi
rallentò sino a fermarsi, guardandolo con decisione.
«Allora
promettimi che non gli farai fare scemenze» guardò
Kenshin con la coda dell’occhio. «Quel
testardo… ha ripreso a praticare il kenjutsu da qualche
anno, per mantenersi in forma, dice lui. Per sentirsi
sicuro.»
Sanosuke
spalancò la bocca, lasciando cadere lo stuzzicadenti che
ruminava da un po’. Lei parve imbarazzata.
«Non
ha voluto divulgarlo più del necessario. Comunque,
finché non si sforza non ci saranno problemi. Ma sono pronta
a scommettere quello che vuoi che oggi lo farà.
Impedisciglielo, ti prego. Non può più muoversi
come una volta ― non deve!»
Deglutì,
fissando istintivamente la schiena dell’amico.
«Lo
farai, Sano?»
«Puoi
contarci, signorinella.»
Fu allora che,
raggiungendo il gruppo degli Oniwabanshu ― Aoshi, Misao, Omasu, tutti
in stato di guerra pur senza esser vistosi ― si accorsero che qualcosa
non marciava.
«Che
succede?»
«Abbiamo
un contrattempo. La persona che doveva darci la posizione del covo non
è tornata.»
Misao e Omasu
erano piuttosto pallide. Kaoru soffocò
un’esclamazione.
«Cioè…
voi pensate che―»
«No»
fece Aoshi, duro. «Tornerà. Ma dovremo cercare da
soli.»
Davanti a lui,
Kenshin annuì.
«Muoviamoci.»
«Un
momento» disse una voce, autoritaria.
Si voltarono
tutti, Sanosuke compreso.
Verso di loro
marciava un uomo alto, scuro di capelli, vistosamente muscoloso. Sano
avrebbe voluto sbattersi una mano in faccia.
Seijuro Hiko.
«Avevo
detto che sarei venuto anch’io, mi pareva.»
La tensione
era palpabile.
Stavano
andando in battaglia, certo, per l’ennesima volta nella loro
vita. E speravano sempre che fosse l’ultima. O meglio, lo
speravano quei quattro, cinque pulcini, si corresse Hiko. Per lui, una
vita senza qualche scrollone sarebbe stata la morte. Non era mai stato
particolarmente sensibile, né al sangue né allo
stress; forse perché ci era nato e cresciuto.
Ma
“non sensibile” non significava “poco
perspicace”, intendiamoci. Notò la durezza nei
tratti di Kenshin, che aveva accolto il suo arrivo con uno spasmo e ora
procedeva nel sottobosco a passo di marcia, la testa avanti come un
toro. Corrugò la fronte.
Avrebbe potuto
mostrare un maggiore apprezzamento per la sua presenza. Lo avrebbe
aiutato di nuovo, e non solo col piccolo scomparso.
Ma come al
solito lo stupido aveva bisogno di tempo per capire.
Quando
arrivarono a un punto in cui l’orografia del monte mutava,
rendendo necessario che il gruppo si dividesse, Shinomori si
fermò per illustrare le tre direzioni.
«Avete
le bussole?»
La giovane
Omasu, Sagara e lo stupido ex-allievo annuirono.
«Tenetevi
sempre aperti verso nord-est. Cercate una conca o una gola.»
Un altro assenso collettivo. «Andremo a coppie. Misao,
vieni.»
«Eccomi.»
Appena il
tempo di augurare buona fortuna e i due erano già lontani.
Hiko vide gli
altri tre rimasti guardarsi, poi Sagara accennare un passo verso
Kenshin.
Eh no,
ragazzo.
«Vado
io con lui» dichiarò, levandolo di mezzo.
«Hey!
Qui non decidi tu, bestione!»
«Come
mi hai chiamato?»
Sensata come
al solito, Omasu prese la testa di gallina per un braccio e
cominciò a tirarlo nell’altra direzione.
«No,
un momento! Hey! Hey!»
«Su,
Sagara-kun, non è il momento di fare storie.»
Hiko scosse la
testa, sconcertato. Santo cielo, cosa ci voleva a capire che
c’era un discorso privato da fare, oltre a cercare un
bambino?
«Non
ti preoccupare, Sano, vai pure con la signora Omasu.»
Hm. Finalmente
il pomo della discordia parlava.
«Ma―»
«Davvero.»
Sagara
zittì, lasciandosi portare via con aria pensosa.
…E
lui avrebbe fatto bene ad affrettarsi dietro lo stupido ex-allievo,
perché aveva tutta l’aria di volerlo seminare.
Kenji era
entrato nella foresta col sole quasi allo zenit, volando sulla distanza
dalla porta est ai primi arbusti.
Non si volse a
guardare, a controllare, niente.
Se anche ci
fosse stato qualcuno di noto o di sospetto non si sarebbe fermato. La
sua mente era concentrata su un unico obiettivo: ricordare i movimenti,
i riferimenti di quella mattina, per ritrovare il posto maledetto.
S’inerpicò
lungo il fianco del monte, collinoso alla base, e rallentò
solo quando la strada divenne più aspra. Non c’era
sentiero. Per di più, gli sterpi secchi erano tutti
avviluppati, una vera trappola per le gambe. Ansimò,
cominciando a sentirsi davvero senza fiato.
Era allenato,
vero, ma forse stava raggiungendo i suoi limiti.
No. Non ancora.
Artigliò
con forza la roccia e fletté le gambe, saltando per tirarsi
su. Scavalcata la barriera di macigni, che riconobbe essere il fianco
del dirupo dell’andata, si fermò a riflettere.
La capanna di
Hiko era… da quella parte. E lui era salito dritto da qui,
per evitare la scarpata.
Quindi avanti.
I suoi sandali
affondarono leggermente nel terriccio muscoso, conducendolo nella
boscaglia.
Una gola, una
gola… dov’era?
Dove poteva
trovarla?
Era sparita?
S’appoggiò
a un tronco, massaggiandosi le mani per ridar vita alle
estremità gelate. C’era un po’ di brina
nei rami nascosti al sole. Brina e ghiaccio…
Ebbe
un’illuminazione.
L’acqua.
La piccola
conca era vicina a un torrente. Sarebbe bastato trovarlo e risalire il
suo corso. Nel silenzio degli alberi, tra il sempreverde ombroso e lo
spoglio, non ci volle molto a cogliere il rumore dell’acqua.
Sguainò
la sakabato. Poi, gli occhi spalancati per cogliere qualsiasi
movimento, s’appiattì tra i cespugli.
Nulla.
Strisciò
avanti, silenzioso.
Infine,
trattenendo il fiato, spiò oltre il bordo della conca
puzzolente.
«Allora,
Kenshin» disse Hiko
dopo ere di silenzio, fruscii e cinguettii, badando a contenere la
voce. «Quanto ancora vuoi mancarmi di rispetto? Sono venuto
per parlarti, non per una gita di piacere.»
Lo
sentì espirare.
«Questo
l’avevo capito.»
Continuarono
ad avanzare, rapidi e attenti.
«Ma?»
«Sto
cercando mio figlio, ora.»
«E
io ti sto dando una mano. Non puoi negarlo.»
«…»
Lo
superò con alcune ampie falcate, scrutando le forme del
monte.
«Sono
consapevole di non essere stato un genitore ideale, se questa
è l’idea che hai di me ― cosa di cui dubito, ma
non si sa mai. Quello che so è di averti sempre dato
consigli ragionevoli.»
Lui gli
voltava le spalle, teso verso un suono che non voleva arrivare.
«Visto
il modo con cui ci siamo lasciati quasi trent’anni fa e il
modo in cui ci siamo ritrovati, non so se te lo meriti, ma credo che
continuerò ad aprirti gli occhi finché ne avrai
bisogno.»
«Non
sono più un ragazzo, maestro» fu la risposta, data
a denti stretti. «Anzi, signor Hiko.»
«E’
vero, non sei più mio allievo.»
Erano giunti a
un empasse. Si massaggiò il mento, pensieroso.
Ma fu Kenshin
a rompere il silenzio: voltatosi a guardarlo, fermo presso una fossa,
lasciò cadere le spalle.
Aveva un
aspetto terribile. E risentito, sebbene vagamente rassegnato.
«Ce
l’ho io una cosa da dirvi.»
Hiko
inarcò un sopracciglio.
«Se
volevate tanto darmi una mano, non dovevate prendere Kenji come
allievo. Sapevate benissimo come la penso.»
Ah, ecco.
C’erano
arrivati, finalmente.
«Non
vedo il problema.»
La sua faccia
trasfigurò. «Non vedete―»
«Ha
passato varie prove, cosa credi. Non l’ho accettato su due
piedi. E’ del tutto capace di intendere e di volere,
nonché mediocremente prodigioso.»
«Ha
solo tredici anni!»
«A
quattordici, tu hai deciso il tuo destino.»
Lui si fece
cupo. «E’ proprio quello che mi spaventa. Kenji non
è pronto, come non lo ero io. Non ha idea della situazione
in cui si sta cacciando.»
«Parli
proprio come se fosse il tuo doppio.»
«Potrebbe…»
«Piantala.»
«Piantarla? Mio
figlio―»
«Smettila
di scappare da Battosai. Alla tua età non hai ancora
imparato che si affrontano, i problemi?»
Il ragazzo ―
no, uomo ― che aveva cresciuto si raddrizzò, aggrottando le
sopracciglia.
«Battosai?
Io? No, qui non si tratta di me.»
«Sì
invece.»
«…»
Seijuro
alzò gli occhi al cielo, controllando che non vi fossero
segnali di fumo.
«Siete
stupidi entrambi, ma qui il problema principale è farti
capire.»
«Facile
sputar sentenze per chi non ha figli.»
«Hah.
Ma io ce l’ho, un marmocchio.»
Vederlo
trasecolare fu decisamente divertente.
«Cosa?»
«Non
hai visto Okon con Kazuma?»
«La signorina Okon?»
«Signora,
prego. L’ho sposata tre anni fa. Buffo, non trovi?»
Kenshin sembrava troppo sconvolto per le congratulazioni. Forse era la
mazzata finale. Hiko sospirò. «Ma non è
questo il punto. Il punto è che il fatto che tuo figlio ti
somigli non significa che sarà uguale a te.»
«Lo so che non è
uguale a me. Io non ero così testardo.»
«Dici?»
A un’occhiata del ragazzo ― uomo ― rispose con altrettanta
austerità. «Ma, come al solito, manchi di vedere
il problema principale. Qui non si tratta di decidere se il pargolo
imparerà o meno l’Hiten, anche perché
ormai è tardi, sa già quasi tutto. Si tratta di
sapere se tu lo riprenderai
così come l’hai fatto, oppure lo caccerai di casa,
con ogni probabilità condannandolo.»
«Io
non caccerò mai mio figlio di casa. Sono venuto qui a
riprendermelo.»
«Non
vorrà restare.»
Lo vide
stringere convulsamente un pugno, poi voltare la testa verso
l’interno del bosco.
Rafforzò
i suoi propositi. Bisognava levargli di torno Battosai, ancora una
volta.
«Senti,
ascolta quel che ti dico: è un vecchio insegnamento di
Seijuro Hiko XII.» Con l’occhio della mente rivide
il maestro nei suoi giorni migliori. «Le persone sono tutte
diverse. Le loro reazioni sono diverse. Nessuno potrà mai
avere garanzie contro i rivolgimenti della fortuna, ma ciò
che determina il risultato della azioni ed è in nostro
potere sono l’intenzione e la preparazione. Tu avevi buone
intenzioni, quando partisti per aiutare i samurai ambiziosi.
Però eri mentalmente immaturo; e ti sei lasciato
manipolare.»
Lo ascoltava,
lo stupido allievo, con la stessa identica espressione di
trent’anni prima ― concentrata e un po’ diffidente,
solo un po’ più consumata.
«Tuo
figlio ti somiglia, è vero. Ha buone intenzioni e un
carattere avventato. Però ha anche capito qualcosa che tu
non avevi appreso: che l’Hiten Mitsurugi non deve avere
padroni, o sarà distorto.»
Kenshin
riprese a camminare, facendosi strada fra rami e sterpi.
«Non
farà i tuoi errori.»
«Mi
state dicendo che dovrei lasciarlo continuare?»
«E’
cresciuto con te.»
«Non
vuol dire.»
«Sa
quello che pensi meglio di quanto tu creda ― anche se, da bravo figlio
di padre stupido, su certi punti è più ignorante
di una capra.» Alzò una mano. «Lasciami
finire.»
«…»
«Sa
quello che temi. Sai cos’ha detto a mia moglie, credendo che
io non ci fossi?»
Kenshin
accennò un preoccupato diniego.
«Che
tu sei il suo punto d’arrivo.»
Lo vide
impallidire.
«E
che non sarà mai un nuovo
Battosai.»
«Lui
può esserne convinto, ma la vita―»
«Sta
a te decidere. Nessuno conosce dove hai sbagliato, dove avresti potuto
fermarti o fare marcia indietro meglio di te. Guidalo. Istruiscilo e
insegnagli a pensare come tu pensi ora, evitandogli la
strada per cui sei arrivato. Lasciarlo solo sarebbe un egregio
errore.»
Il discorso
aveva centrato il bersaglio.
Ah, stupido figlio.
Stava
guardando la sakabato, a labbra strette.
«Non
è quel che volevo per lui…»
«Il
tuo pargolo è nato in tempo di pace e la porta nel cuore. Ha
solo bisogno di fare le proprie scelte e sentirsi accettato. Tu
dovresti saperne qualcosa.»
Istruiscilo e
insegnagli a pensare come tu pensi ora, evitandogli la strada per la
quale sei arrivato.
Dèi
santi. Anche quello?
Doveva vedere
anche quello, nella sua vita?
Permettere a
Kenji di gettarsi nel mondo che lui aveva lasciato a fatica?
Nato in tempo di
pace…
Però,
rifletté, era vero che molte cose erano cambiate.
Forse… forse era possibile. Forse, fra pochi anni, gli
ultimi pericoli del kenjutsu sarebbero spariti, sostituiti da altri
lontani e immateriali.
Riprese a
camminare, deciso.
«Kenshin?»
Basta perdere
tempo. Prima Shinta. Prima Shinta!
E poi, per
Kenji―
Lo rivide
sorridere, fare baccano coi fratelli e schernire Shinya, salvandolo
intanto dall’ennesima caduta.
«Mai un
nuovo Battosai.»
Alzò
il viso.
«Mai un
nuovo Battosai.»
Gli avrebbe
creduto. «Ho capito.»
Il suo punto
d’arrivo.
Si
ritrovò suo malgrado a sorridere. «Lo
guiderò.»
Avrebbe
puntato tutto su quello, ironicamente proprio per non perderlo.
Nonostante non
sia tranquillo… faremo questo viaggio insieme.
Sempre ― si
ricordò, accelerando, sentendo il panico farsi strada
(troppe cose, troppi guai uno sull’altro) ― che trovassero
Shinta.
In quel
momento avvertirono un boato.
Salirono in un
punto più alto, dove gli alberi si aprivano.
E videro il
fumo di un incendio.
―――――――――――――――――――――――――
Proverbio:
invece di soffocare i giovani, bisogna permettere loro di fare
esperienze di vita.
―――――――――――――――――――――――――
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Capitolo 12 *** XI - Non sarò Battosai ***
Nota
dell'autrice: ecco l'undicesimo
capitolo! Finalmente si arriva al sodo. Siete pronti per l'attesa,
seria Kenji action, la tensione (si
spera) e l'immancabile angst? <3 Spero di sì,
perché sono abbastanza soddisfatta del risultato (ho
lavorato più su alcuni capitoli che su altri).
Nel prossimo
capitolo, il climax. Se riesco dovrei terminare la pubblicazione entro
Capodanno ^^ accidenti, la storia l'avevo iniziata (e terminata)
proprio un annetto fa... come vola il tempo.
Buona lettura.
----------------------
“Una
tigre può correre mille
miglia.”
Proverbio giapponese
Nessuno. Il
posto sembrava deserto.
Kenji strinse le
palpebre, lanciando un’occhiata dietro di
sé nel timore che l’avessero sentito arrivare e
gli tendessero un agguato. Ma
la fitta selva di tronchi era immota, silenziosa. Decise allora di
spostarsi.
Non
giù nella gola: prima doveva assicurarsi una buona
panoramica. Seguì i contorni della grossa buca, scivolando
un poco sui bordi
ghiacciati delle pietre, e finì per arrivare
dall’altra parte, che si stringeva
e livellava congiungendosi col fianco della montagna. Da lì
le baracche erano
più vicine.
Dovette
tapparsi il naso per non gemere. Il puzzo di verde
marcio si mescolava ad altri odori allucinanti (forse carcasse di
animali);
roba da togliere il respiro. Che schifo.
Forse
s’era sbagliato.
Forse quel
postaccio era abbandonato.
Eppure no, si
disse, aveva visto della gente. Dall’aspetto
poco raccomandabile, per giunta. E Shinta doveva essere lì,
perché se non ci
fosse stato…
Non voleva
pensarci.
S’appoggiò
contro la roccia, lasciandovi una
striscia
terrosa con la mano imbrattata di limo, e studiò con
diffidenza l’immondezzaio.
Un respiro.
Bene, scendeva
a vedere.
Appena ebbe
posato i piedi sulla bordura grigia, però, un
movimento attirò la sua attenzione.
S’appiattì contro il dosso.
L’umidità gli
passava attraverso i vestiti mentre i suoi occhi seguivano la
sciancata, esile
figura emersa da una delle baracche, diretta verso i resti di un fuoco.
Si
morse le labbra, teso. Il tipo maneggiava qua e là, fissando
periodicamente la
seconda baracca, più piccola ma solida. E chiusa.
Kenji tese le
orecchie. Che cosa ascoltava quell’uomo? Gli
pareva di… no, era troppo lontano, con lo sciacquio del
ruscello non sentiva
niente.
Meglio
avvicinarsi ancora.
Si
spostò all’ombra di un mucchio
d’assi, trattenne il
respiro e da lì passò alla roccia che sovrastava
le costruzioni.
Udì
il cigolare delle ruote ancora prima di veder il
carretto arrancare per la mulattiera. Trainato da un asino massiccio e
corredato di una finestrellina inferriata, ispirava claustrofobia anche
da
fuori. Kenji rabbrividì.
Poi
notò che procedeva sul greto del torrente e
capì come si
erano mossi per quei boschi, come avevano trovato il posto e
trasportato la
legna con cui avevano costruito (o forse era meglio dire improvvisato)
i
ripari.
Osservò
senza fiatare il viaggio del carro, che si
fermò nei
pressi del bivacco.
Scesero due
uomini, uno da cassetta, l’altro dal retro.
La figura
curva ― che aveva brandito una zappa con aria poco
amichevole ― si rilassò e levò un braccio.
«Tutto
normale?»
«Sì.»
«Non
accendere il fuoco» raccomandò
l’uomo sceso da
cassetta. «Abbiamo dei fastidi in giro.»
«I
soliti contadini?»
«No,
stavolta sono quelle maledette spie di Kyoto.
E’ un po’
che sento il loro fiato sul collo. Figli di puttana.»
«Quanto
sono vicini?»
«Troppo.
Spostiamo tutti.»
Kenji
sentì il proprio cuore accelerare.
Aveva visto
giusto. Erano loro.
«In
pieno giorno?!» esclamò il guardiano.
«Lo
sai quali sono gli ordini» ringhiò
il terzo uomo, alto e
massiccio. «Se rischia di saltare la base, via di
corsa.»
«Ma―»
«Muoviti!»
La figura
scarna si contrasse per evitare un colpo e sgusciò
via, farfugliando con alcune chiavi pesanti.
Ne
ficcò una nella porta della casupola serrata,
sollevò una
spranga, ne scostò un’altra e finalmente
aprì la porta. Gli altri due l’avevano
raggiunto, fregandosi le mani.
«Hey…
dici che possiamo divertirci, già
che non c’è il
signor Tsukasa?» suggerì l’uomo da
cassetta.
«Scordatelo.
La merce dev’essere intatta.»
«Oh,
che miserabile che sei.»
Kenji
sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
«Il
signor Tsukasa non s’è fatto vedere
fino a ieri, se lo
sapevo mi regolavo prima!»
«Taci.»
L’omone si rivolse al piccoletto
sghembo,
mollandogli un calcio: «Allora, ce la fai? Levati dai piedi,
le tiro fuori
tutte di persona!»
Entrò
nella baracca e, pochi istanti dopo, una ragazza che
avrà avuto sì e no l’età di
Kenji sbatté in terra, con un’esclamazione di
dolore.
«In
piedi! Su quel carro. E voi altre, uguale!»
In men che non
si dica dalla baracca uscì una decina di
ragazzine ― mistero come avessero potuto stare là dentro ― e
il gigante chiuse
la porta con un tonfo che le fece sobbalzare dalla prima
all’ultima.
Dalla sua
posizione, Kenji continuò a scrutare la casupola,
allarmato.
Shinta?
Dov’era Shinta? Non lo vedeva.
C’erano
solo ragazze.
E di tutti i
generi, notò, di tutte le condizioni: dalla
povera contadina alla signorina in bel kimono, forse sorpresa un attimo
fuori
del giardino di casa. Erano sporche, pallide e attruppate le une sulle
altre.
Si muovevano in simbiosi, senza staccarsi.
Presto anche
quella che era stata buttata avanti si riunì al
gruppo, fissando gli aguzzini con occhi sbarrati.
«Ho
detto dentro al carro!» ruggì il
ciclope.
Kenji strinse
le palpebre.
L’uomo
dovette percepire il suo odio, perché
esitò e si
guardò intorno.
O no?
No…
Stava
studiando le ragazze.
Avanzò,
deciso. «Ferme. Voltatevi.»
Che cosa stava
complottando?
Le prigioniere
impietrirono e obbedirono con muto terrore,
sempre strette tra loro.
«Mettetevi
in fila.»
Quello
sembrò terrorizzarle oltre ogni dire. Si guardarono,
chiudendosi semmai più a riccio.
«Che
cosa nascondete?»
«N-niente,
signore» osò balbettare una.
«Abbiamo solo
freddo.»
«Allora
mettetevi in fila, che problema
c’è?»
Altri sguardi
sgomenti.
Kenji
scattò in piedi, colto da uno strano presentimento.
Senza
ulteriori avvertimenti l’omaccione balzò e,
tolte di
mezzo quattro, cinque ragazze con un unico pugno, giunse al centro del
gruppo,
affondandovi la mano.
E si
bloccò.
«E
questo cos’è?»
L’attimo
dopo sollevava Shinta per una caviglia, tenendoselo
davanti al naso, accompagnato dall’urlo angosciante del
bambino.
Kenji non ci
vide più.
Bastardi.
Li avrebbe
ammazzati tutti. Non meritavano che la morte!
Trovato col
piede il bordo del picco d’osservazione, si
buttò e piombò loro addosso con un ruggito.
Non si
fermò finché i tre uomini non furono
irriconoscibili,
un ammasso di stracci e carne contusa.
Poi
s’appoggiò alla sakabato, lasciandola
affondare nel
terriccio e premendosi una mano contro il fianco. Aveva vinto, ma era
stato
imprudente.
Aveva
dimenticato il ghiaccio, il fango. E quelli, dopo
avergli lasciato abbattere lo smilzo e il mulattiere, s’eran
vendicati
portandogli via il terreno sotto i piedi.
Un momento, un
lampo e un altro tipo di ghiaccio gli entrava
nella carne.
Staccò
lentamente la mano dal fianco sinistro, aprendo piano
i lembi del gi per giudicare la ferita. Uh. Non era un esperto ― forse
Sozou
avrebbe potuto dare un parere più attendibile ― ma non aveva
comunque un
bell’aspetto; sanguinava come una dannata.
E faceva un
male cane.
«Uh»
ringhiò, applicando pressione.
Tra i ciuffi
di capelli osservò di sbercio gli avversari.
Deglutì.
Certo loro
stavano peggio.
Ma se
l’erano meritato. Sì, se
l’erano…
«Hic…
sob.»
Alzò
la testa di scatto e vide suo fratello, di nuovo
attorniato dalle ragazze, stretto fra loro, lanciato in un pianto
isterico. Più
tardi, ragionando a mente fredda, avrebbe provato gratitudine per loro:
l’avevano protetto e isolato da quella situazione disgustosa.
Ma adesso voleva
suo fratello.
Vicino, senza
discussioni.
Strinse i
denti e le raggiunse.
«Datemelo
qui.» Loro gridarono, spaventate dalla
sua spada
gocciolante. «Datemelo!» urlò.
Shinta lo
riconobbe.
«K-k-kenji-chaan!»
strillò. Si districò dalle braccia
che tentavano di trattenerlo, saltò e
gli fu addosso, finalmente al sicuro.
Kenji
barcollò e cadde, emettendo un gemito gutturale.
Ma non
protestò, anzi. Lo tenne stretto e riprese fiato, gli
occhi chiusi, la spada caduta a terra.
«Shinta.»
«Kenji-chan,
Kenjii―»
Era
lì.
Aveva saputo
della sua scomparsa per poco, ma era stato
ugualmente un delirio.
Adesso era
finita.
Dèi,
grazie.
Stava bene.
Pian piano,
però, il sollievo di riavere suo fratello si
smorzò e il ragazzo ebbe la mente abbastanza libera da
capire che quello non
era il momento di distrarsi. Dovevano lasciare quel posto.
Si
raddrizzò con qualche difficoltà, si tolse
Shinta di
dosso (permettendogli però di attaccarsi a una manica, pena
la ripresa delle
grida strazianti), poi recuperò la sakabato e strinse i
denti per non
lamentarsi della ferita.
Infine
guardò le altre vittime.
Lo fissavano,
tremanti.
«In
piedi, andiamo. Dobbiamo scappare.»
I loro guardi
passarono dalla diffidenza all’incertezza.
«Dove?»
«Beh,
via da qui! Questi» accennò ai
corpi dei rapitori,
senza guardarli «non erano gli unici, no? Li ho sentiti
parlare.»
«Sì»
pigolò una bambinetta
«c’era un altro uomo cattivo
ieri, e non da solo.»
«Allora
muovetevi.»
Controllò
che si alzassero tutte, poi fece dietrofront,
scavalcò alcune assi e colse un barlume nel cerchio del
bivacco.
Un’idea.
Poco dopo
s’addentravano di buon passo nel bosco, diretti
alla città, lasciandosi alle spalle le fiamme che
consumavano i resti
puzzolenti di quell’inferno.
Kenshin e Hiko
arrivarono sul posto quando le fiamme s’erano
già spente, soffocate dall’umidità.
Erano riuscite a bruciare una delle due
baracche, sfondandone il tetto; l’altra era solo annerita
dalla fuliggine.
Kenshin
s’avvicinò senza tante precauzioni, troppo
smanioso
di scoprire la verità, e vide che non erano stati i primi ad
accorrere: Aoshi e
Misao aspettavano al centro della piccola conca, vicino a quelli che
parevano…
Tre corpi.
Schizzati di
sangue.
Dovette
rallentare, raggelato. Non poteva essere quello che
pensava.
Fa che non sia
stato lui,
pregò,
assordato dal
silenzio.
«Non
c’è più
nessuno» furono le parole con cui Aoshi lo
salutò. «E hanno cercato di bruciare
tutto.»
Dall’altro
versante del monte, ovvero dalla
sommità,
comparvero le sagome di Sanosuke e della signora Omasu, anche loro di
corsa.
«Cos’è
successo?!»
«Abbiamo
visto il fumo!»
«Erano
segnali?»
«No»
rispose Misao. «Siamo stati battuti
sul tempo.»
Kenshin non
notò il vecchio maestro abbandonare il suo
fianco, perlustrare e scartabellare fra i resti
dell’accampamento. No, lui
vedeva solo i corpi deformati dei tre uomini. Tre criminali, si
rammentò. E la
sciarpa verde di suo figlio, caduta in un angolo…
Ma non poteva
credere che l’avesse fatto davvero.
S’avvicinò
con circospezione, cercando segni di vita.
C’era
qualcosa di familiare, oltre all’odore di
sangue?
La scena
rimase muta finché Hiko non sedette su un sasso,
dando un’ultima occhiata al campo di battaglia.
«Sì,
è stato lui.»
«Lui
chi?» fece Misao, dubbiosa. Aoshi strinse gli
occhi.
«Il
mio allievo, chi altro? Questi segni» Hiko
indicò lunghe
strisce di ciottoli spostati e fango schizzato, lasciate un
po’ dappertutto.
Kenshin le considerò a sua volta. «Li lascia solo
l’Hiten Mitsurugi, coi suoi
movimenti veloci. E il risultato…»
Tutti gli
occhi conversero sui cadaveri.
«Li
ha ammazzati?» esclamò Sanosuke,
sbigottito.
Quelle parole
sembrarono sigillare con un solo sparo la
sorte di quegli uomini, di Kenji e della sua famiglia.
Kenji
posò i piedi sul pavimentato cittadino con una
sensazione molto simile al sollievo. Solo che non ebbe modo di
apprezzarla.
Digrignò
i denti e strinse più forte il fianco
sinistro,
dove la stoffa gli si stava incollando alla pelle. Per fortuna il suo
gi era
nero ― non poteva rendersi conto appieno del macello che doveva essere
il suo
corpo. Uno svenimento mancato.
Forse.
«Stammi
vicino» disse a Shinta.
Il bambino non
se lo fece ripetere.
Ringuainata
con impaccio la spada, Kenji barcollò e torse il
collo per ispezionare le ragazze che aveva salvato insieme al fratello.
Stavano
a debita distanza, ma non lontane, e apparentemente incollate tra loro
col
mastice.
«Allora,
volete muovervi?»
Una (che lo
superava di una buona spanna) avanzò timidamente
mostrando un pezzo di tessuto a fiori.
Lui lo
studiò, perplesso.
«Che
è?»
La brunetta
abbassò gli occhi.
«Sei
ferito» balbettò lei.
«Questa è la stoffa più pulita
che abbiamo, lasciati―»
«Non
c’è tempo» rispose.
«Ma
stai perdendo tanto sangue!»
Non aveva
tutti i torti. Il fianco gli doleva in modo sordo,
mentre la sua testa fluttuava.
Scontroso,
sedette su una catasta di legna e si lasciò
avvicinare. Le mani della ragazza spostarono la stoffa del suo gi e gli
sfiorarono il torso, realizzando con pochi, esperti giri una fasciatura
d’emergenza. Kenji arrossì, incerto sulle proprie
reazioni. Non gli piaceva
quella vicinanza. Lo faceva sentire vulnerabile.
Attese con
impazienza.
«Finito?»
esclamò alla fine, scostandola
e richiudendosi il
gi.
Lei
arretrò e il ragazzo si sentì un verme.
«Grazie»
bofonchiò, raccogliendo Shinta
da terra. «Ngr.»
La ragazza
corrugò la fronte.
«Oh,
non dovresti sforzar―»
«Fatti
gli affari tuoi. Avanti, entriamo. Conosco un posto
dove possiamo riposarci.»
Imboccò
l’entrata est, notando gli sguardi
incuriositi dei
pochi cittadini (ma perché quel deserto? Di solito la
città era piena di vita a
quell’ora) e nel prendere la direzione dell’Aoiya
scelse una strada secondaria.
Al secondo
bivio camminare era faticoso.
Al terzo
barcollava.
Che strano.
Ora che
l’energia della ricerca e dello scontro
l’avevano
abbandonato, si sentiva svuotato. Shinta gli riposava in braccio,
poggiando la
testolina sulla sua spalla; piccole mani stringevano forte il suo
colletto
nero, accompagnate da mormorii sconclusionati. Scostò di
lato la testa per
evitare di starnutire nei suoi capelli.
Non avrebbe
permesso che gli succedesse altro. Stava bene…
ma sarebbe tornato come prima? Oppure la cicatrice degli allucinanti
giorni di
prigionia l’avrebbe cambiato per sempre?
Rivide il
covo, buio e squallido. Risentì le parole di quei
bastardi.
Perse
l’equilibrio ma, prima di cadere, fu sostenuto
delicatamente.
«Ti
aiutiamo.»
Chi erano?
Dov’era? Pensare stava diventando difficile.
Ah
sì, ah sì. All’Aoiya, lì
doveva andare. Ma l’immagine
della gola dove aveva combattuto si faceva avanti, prepotente e
inspiegabile.
C’era qualcosa che richiedeva la sua attenzione. Ma
perché proprio
adesso?
Ah,
perché… all’improvviso non
ricordava nemmeno quale lato
della spada avesse usato. Quale aveva usato? E perché stava
pensando a questo?
Quante volte
li aveva colpiti?
Dove?
Era suo, vero,
il sangue che aveva versato nel bosco? Non
poteva averli uccisi.
Kenji
sgranò gli occhi, cercando di distinguere fra contorni
ondeggianti.
Eppure non
ricordava. Con proterva sincerità,
l’affievolirsi
dell’euforia gli concesse una visione molto più
limpida di quanto non avesse prima.
Li aveva guardati prima di andarsene? No. Avevano parlato, emesso
qualche
suono? Il volto di
suo padre, cupo e
foriero di sventura, si sovrappose all’immagine degli
sconfitti riportando
timori repressi.
No. Non
l’aveva fatto. Non avrebbe mai ucciso
un’altra
persona, per quanto miserabile… neanche se…
perché l’Hiten Mitsurugi―
Ma non ne era sicuro.
L’orrore
di quel tremendo dubbio fece beccheggiare il suo
corpo come una nave sperduta nella tempesta, finché
un’ondata non l’abbatté
rovinosamente sugli scogli, spezzandola. Il terreno tremava. La sua
bocca era
amara e gli dolevano gli occhi.
Che cosa ho
fatto?
L’hai
fatto.
Aveva tolto la
vita.
Nel delirio
dell’anemia, ne ebbe la certezza.
Suo padre
aveva ragione: alla fine era diventato un
assassino. E non avrebbe mai più avuto il coraggio di
guardarlo negli occhi.
Sì,
non respiravano. Non si muovevano.
Erano morti.
Alla fine, tutti gli incubi peggiori di Kenshin
prendevano vita.
Dèi…
perché?
«No.»
Tutti
fissarono Aoshi, che aveva parlato con fermezza.
Hiko si teneva
per i ginocchi, facendo evidentemente uno sforzo
per non gemere.
«La
vita casalinga ti ha davvero rimbambito, Kenshin. Smetti
di aspettare che tuo figlio diventi un omicida e guarda bene. Sono
vivi.» Senza
lasciare la sua postazione, sollevò col piede
un’asse marcita rivelando
impugnatura e lama di una spada spezzata. «Ha usato una spada
a lama invertita.
Non sarebbe riuscito a spezzare questa, senza.»
Ma dove poteva
averla presa?
«E,
porca vacca, scommetto quel che volete che ha rovinato
una delle mie.»
«Himura,
con tutti i decessi che hai visto dovresti
riconoscere i morti, ormai» commentò Aoshi,
asciutto, ignorando Hiko.
Poi
inserì un piede sotto il busto di uno dei rapitori e lo
rivoltò senza tanti complimenti, strappandogli un vagito.
Lo stesso
fecero gli altri, calciati senza pietà da Misao e
Sano.
Kenshin
barcollò. Avrebbe voluto ridere e piangere e
prendersi a schiaffi insieme ― perché lui continuava a
dubitare e Kenji
continuava a dimostrargli che non ne aveva ragione, ancora e ancora,
rimanendo
un po’ più ferito ogni volta…
Ferito.
Tornò
a concentrarsi sul sangue che macchiava la scena, e
che all’inizio aveva creduto quello di un massacro. Visti da
vicino, gli
sconfitti mostravano solo ematomi e tagli superficiali, alcuni
addirittura
vecchi, non dovuti alla recente battaglia.
In lui si fece
strada un brutto presentimento.
«Ma
allora, questo sangue―»
Nel fango
smosso, confuso d’impronte, colse un cratere
più
profondo. Lì c’era una macchia più
larga.
Poi, dai
pressi del bivacco partiva una serie d’impronte
dirette a valle. Alcune erano più infossate, accompagnate da
uno stillicidio
scuro.
«Kenji.»
«Non
è detto» commentò Hiko.
«Ma è probabile.»
Kenshin chiuse
gli occhi per superare la vertigine, ben
piantato sulle gambe.
Dannazione,
avrebbe dovuto mangiare di più.
«Shinta.
Voglio sapere dov’è
Shinta.»
«Beh,
se è con Kenji possiamo stare tranquilli,
no?» disse
Misao, estraendo una lunga, ruvida corda dalla sacca che portava in
spalla e
cominciando a legar le mani di un criminale.
«Per
niente. Non è possibile che fossero solo
tre.»
«Kenshin
ha ragione» dichiarò Sano.
Aoshi
annuì, facendo un cenno ad Omasu.
«I
nostri ne hanno visti almeno sei, uno con una vanga sulla
schiena. Dev’essere il capo.»
Kenshin
corrugò la fronte.
«Una
vanga?»
«Sono
contadini?» aggiunse Sano, confuso.
Le labbra
dell’okashira s’incurvarono, sprezzanti.
«Per
favore. Voi girate con le spade alla cintura?»
«L’ha
camuffata» intuì
Kenshin, percependo una nuova
tensione.
«Ma
quale arma potrebbe passare per una vanga,
gente?!»
Il suo sguardo
incrociò quello di Hiko. «Non ti
viene in
mente niente?» fece il maestro.
Strinse le
mascelle fino a sentir stridere i denti. «Una
nagamaki.»
«Una
che?» fece Sano.
«Oltre
due braccia. Lama dritta, lunga. Affondo diretto e
falciata» recitò Aoshi, impassibile.
«Come
il mio zanbato?»
«Molto
più maneggevole.»
«Merda.»
Kenshin
guardò l’okashira, ricambiato.
«Andate»
disse questi. «Noi restiamo e
sistemiamo il posto.»
Annuì,
deciso. Non sarebbe riuscito a stare fermo comunque.
«Sano.»
«Eccomi!»
«Vengo
anch’io» annunciò Hiko.
«A prender mia moglie.»
Ma non ve ne
fu bisogno. In quel momento, infatti, colsero
distintamente
il rumore di rami spezzati e spostati, sempre più vicini; si
tesero, ognuno
mettendo mano alle proprie armi. Invece dei complici dei rapitori,
però, dai
meandri stopposi e grigiastri della foresta emersero due figure
familiari,
madide di sudore.
Kenshin
sgranò gli occhi.
«Kaoru?»
In
quell’istante Kenji s’irrigidì,
invaso da una sensazione
sgradevole. Come se qualcuno lo osservasse dal buio.
Passò
gli occhi sull’antica viuzza, sui muri e i
tetti,
attirando l’attenzione delle ragazze.
«Cosa…?»
sussurrò una.
Si riscosse.
«Niente. Ci siamo quasi.»
Shinta si
mosse, nascondendogli il visino nel collo.
«Kenji-chan.»
«Adesso,
Shinta. Fra poco saremo con mamma e
papà.»
«Davvero?»
Sì.
Anche se io…
Gli ultimi
metri furono una tortura, fisica e mentale.
Zoppicando,
giunse alla bella porta dell’Aoiya, fece bussare
e quasi ruzzolò dentro quando l’uscio
s’aprì.
«Nonno
Okina» ansimò, incontrando gli
occhi sgranati del
vecchio. «C’è posto per dei
profughi?»
«Santi
numi, ragazzo, entra.»
«Okon»
fece eco Hiko, compassato.
Il gruppo
accolse l’arrivo delle due donne con un silenzio
tra l’esterrefatto e il preoccupato. Ormai abituato alle
cattive notizie,
Kenshin mosse incontro alla moglie.
«Cos’è
successo?»
Kaoru
saltò il dislivello che portava alla conca e lo
raggiunse,
trafelata, guardandosi freneticamente attorno. La vide riconoscere i
segni di
lotta, l’odore di bruciato e i tre corpi esanimi sul greto.
Per poi guardarlo,
pallida.
«Kenshin,
l’hai trovato? Dov’è?»
La prese per
le spalle.
«Cos’è
successo, Kaoru?
Dov’è Inoi?»
«Dov’è
Shinta?!»
gridò lei, dibattendosi.
Kenshin non
rispose, sbalordito. Perché Kaoru si trovava
lì?
Doveva rimanere all’Aoiya… s’erano
accordati così. Si volse verso la signora
Okon, ora in piedi accanto agli altri Oniwabanshu; era vestita in
uniforme da
spia, con pantaloni neri sotto la gonna dall’alto spacco, per
tener lontano il
freddo.
«Mi
dispiace, Himura, ho cercato di fermarla»
mormorò lei,
dispiaciuta. «Ma quando abbiamo visto il fumo abbiamo temuto
il peggio. Tutta
la città l’ha notato.»
Già.
Il mancato incendio.
«Dov’è
mia figlia?»
«A-all’Aoiya,
al sicuro.»
Kenshin
abbassò gli occhi su Kaoru, che sembrava
sull’orlo
dell’isteria.
«Hai
lasciato Inoi?»
«E’
con Okina. Kenshin, dovevo
venire.»
Sospirò,
ordinandosi di restare calmo. Non era colpa di
Kaoru… capiva cosa provava.
Però
fu più forte di lui. La lasciò,
risentito e calamitato
d’istinto verso la città; proprio sul ciglio della
scarpata, dove conducevano
le orme prima di sparire. Lei e gli altri lo seguirono.
«Kenji
è arrivato prima di noi e ha portato via
tutti»
spiegò. «Ma i rapitori non erano solo
tre.»
«Che
cos’è quello?»
esclamò Omasu.
Tutti
seguirono la direzione da lei indicata. Lontano, un
massiccio blocco di persone brulicava nei pressi della porta nord,
rendendo
difficile il passaggio a quello che aveva tutta l’aria di
essere un moderno
carro-cisterna.
«Sono
i pompieri» rispose Aoshi.
Misao gli
prese il binocolo e lo puntò in basso.
«Sì.
Devono aver visto il fumo.»
«Ma
sono in ritardo» osservò Sanosuke.
«E poi come sperano
di arrivare fin quassù?»
«Sano,
la città di Kyoto ha avuto delle brutte
esperienze
col fuoco» disse Kenshin. «Non puoi biasimarli se,
ancora a distanza di
decenni, si impensieriscono. Tanto più che un incendio in
tardo autunno è
sospetto.»
Prese il
binocolo a Misao e iniziò a scorrerlo sulle vie,
setacciando una zona nota.
Kaoru lo
toccò piano, pallida.
«Che
cosa vedi?»
«Niente.»
«Non
lo trovi?»
«E’
meglio muoversi.»
La mano di
Aoshi comparve nel suo campo visivo e gli spostò
leggermente il binocolo.
«Là.»
Incerto,
Kenshin guardò nella direzione suggerita.
Kenji sedette
sulla veranda, silenzioso, mentre nonno Okina
mandava segnali di fumo dal fornello portatile. La piastra emanava un
piacevole
calore e rendeva il freddo meno pungente; il legno, invece, era gelido.
Lasciò
ciondolare la testa, socchiudendo gli occhi.
Gli sembrava
d’aver vagato per secoli.
Nonno Okina
tornò subito da lui. «Che ci fai
ancora qui? Ti
avevo detto di entrare, sciocco ragazzo.»
Si
sentì prendere sotto le ascelle e sollevare;
deglutì. Non
s’era reso conto d’essere tanto smorto ― e il
vecchio aveva una forza
straordinaria per i suoi settanta.
«Ugh.»
Fermi, fermi
tutti!
«Nonno!»
C’era
un peso attaccato ai suoi hakama ― la stoffa sulla
ferita tirava. Shinta strillò. «Kenji, nooo!
Vicino!»
Ah, ecco
cos’era. Allungò una mano alla cieca,
agganciò la
testa del fratello e se lo tirò dietro.
«Sono
qui.»
Okina
sospirò. Raccolse meglio il suo fardello e lo
trascinò
dentro la locanda, sbuffando come una locomotiva in retromarcia.
«Non
state rendendo le cose più semplici, voi
due.»
«Posso
camminare da solo» bofonchiò
Kenji, umiliato.
«Sì,
proprio.»
Il vecchio lo
mollò con delicata rudezza su un paio di
futon, sfiatando dal naso. La sua barba infiocchettata
tremò. «Non so come tu
ti sia ridotto in questo modo, anche se posso immaginarlo, ma ti
assicuro che i
tuoi non saranno contenti. Adesso togliti quella roba, ché
ti medico.»
Annebbiato,
Kenji obbedì.
I suoi
genitori. Ah, quando avessero scoperto cos’aveva
fatto…
Le mani
cominciarono a tremargli.
Okina
sparì per un attimo, poi tornò con una
grande cassa di
legno, due piatti di onigiri e una coperta. Quest’ultima la
usò per avvolgerci
Shinta, arruffandogli i capelli. Il piccolo si abbassò un
poco, timido.
«Lo
conosci il nonno Okina, vero? Non
c’è da aver paura»
disse il vecchio, porgendogli le polpette di riso. «Avrai
fame: sono per te.»
Shinta
guardò Kenji, poi sorrise e accettò. Kenji
piegò
leggermente le labbra, rincuorato.
Finì
si togliersi il gi e lottò col nodo delle
bende, finché
nonno Okina non gli scostò le dita, lavorandoci al posto
suo.
«Tua
madre e tuo padre?»
Avvertì
il tessuto staccarsi pian piano dalla pelle,
incrostata di sangue. Il dolore lo risvegliò.
«Non
sono qui? Mia madre e mia sorella…»
«Tua
madre è corsa via al primo segno di
fuoco.» La benda
venne via, strappando un po’ di pelle. «Seguita da
Okon. Speravo le avessi
incrociate.»
Kenji strinse
i denti.
«E
Inoi?»
Ebbe la
risposta a spron battuto: mentre il nonno
disinfettava la ferita di nuovo sanguinante, un rumore di passi pesanti
risalì
il corridoio; poi lo shoji si spalancò, lasciando entrare
una bambina dai
capelli color castagna, scarmigliata e impolverata.
«Nonno!
Chi sono quelle―oh.»
I suoi occhi
avevano incontrato quelli di Kenji.
«Ciao,
Inoi-chan.»
Lei
sgranò gli occhi; le tremarono le labbra,
deformò la
bocca e restò muta. Poi, ripresasi, pestò un
piede in terra.
«Con
te non ci parlo! Ti odio!»
E
uscì, andandosene con passo sdegnato. Il ragazzo
abbassò
lo sguardo.
«Piccola
Inoi, mi chiami Toga, per favore?» le
gridò dietro
Okina. Una voce lontana assentì.
In quel
momento Kenji sentì il fianco bruciargli e
guaì,
voltandosi verso il vecchio.
«Hey!»
Il nonno stava
mettendo via della garza sporca e preparava
bende… filo… ago. Con tutto
il coraggio e l’incoscienza dei suoi tredici
anni, Kenji si sentì sbiancare.
«Eh,
no. No nonno, no no.»
«Stai
balbettando, ragazzo.»
«Non
sto balbettando!»
«Ma
guarda. Sei davvero tu quello che è scappato
di casa ed
è sopravvissuto a Seijuro Hiko?»
«Che
c’entra? Non voglio quella roba vicino alla
mia pelle.»
Il nonno si
fece serio.
«E’
brutta, giovanotto. Se non cucio, non posso
assicurarti
che tra una settimana sarai ancora tra noi.» Kenji
deglutì a vuoto. «Mai
ricevuta una ferita d’arma bianca? Sono insidiose, te lo dice
un esperto.
Scommetto che ora ci vedi quasi doppio.»
Deglutì
ancora, poi abbrancò la tazza di
tè che fumava sul
piattino degli onigiri e bevve per farsi coraggio.
Quando
abbassò lo sguardo, il vecchio aveva già
cucito metà
ferita, rapido e indolore. La tazza gli cadde di mano, mancando Shinta
per un
pelo.
«Merda!»
Il bambino sobbalzò. Kenji
corrugò le sopracciglia.
«Scusa, Shinta.»
Lui
accennò un sorriso, gli occhioni lucidi.
Oh no.
Intanto nonno
Okina annodava il filo, lo spezzava coi denti
(ugh) e cominciava a fare una nuova fasciatura. Era incredibile come
tutti
intorno a lui fossero pieni di sorprese. Ogni giorno qualcuno lo
stupiva.
Peccato che
fosse troppo tardi per pensare prima di agire.
In
quell’istante lo shoji s’aprì,
mostrando Toga, Inoi (che
guardava altrove, scontrosa) e una cameriera, dietro la quale
indugiavano le
ragazze rapite. Nonno Okina s’alzò, riponendo i
medicamenti nella cassa e
porgendola al figlio di Omasu.
«Sono
tornati?»
Il ragazzetto
scosse la testa.
«E
Shiro e Kuro?»
«Nemmeno.»
«Ma
dove diavolo sono finiti tutti quanti?»
«Al
momento non ci sono clienti, nonno. L’ultimo se
n’è
andato senza pagare.»
Sulla tempia
di Okina si gonfiò una vena. «Non
farà molta
strada, stanne certo. Comunque io parlavo degli Oniwabanshu. Dove sono?
Questa
è la base, per la miseria, tuo padre e Kuro dovevano star
via poco e Okon non
doveva neanche andarsene.»
La faccia a
spillo del ragazzetto rimase neutra. «Pare che
la città sia in allarme per un nuovo incendio.»
«Nuovo?»
«A
sud. Qualcuno ha incendiato dei covoni incustoditi. I
pompieri e la folla stanno bloccando tutto.»
«E
perché non ne ho saputo niente?»
«Perché
non è tornato nessuno a
dircelo.»
Kenji
poté vedere chiaramente l’espressione del
vecchio
Oniwabanshu: irata.
Faceva paura.
«Sembrerebbe
un po’ troppo per una coincidenza.
Attirare
tutta la gente e l’attenzione
all’opposto… del luogo dove ci sono i
bambini.» I
loro occhi s’incontrarono. «No, hai sentito: non ci
sono altri adulti oltre a
me, qui. Sarà meglio fare un altro paio di segnali di
fumo.»
Un rivolo di
sudore colò giù per il collo di
Kenji.
«No»
disse, la bocca arida. «Non si
può.»
Sbirciò
in direzione del cortile, rigido. Impossibile.
Eppure―
Vide cambiare
anche la postura del nonno.
Erano stati
seguiti.
|
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Capitolo 13 *** XII - Il sole sulla spada punitiva ***
Nota:
ecco il nuovo capitolo, più lungo, più dinamico e
anche più drammatico dei precedenti ;-p Avrei voluto
pubblicarlo a Natale, poi l'ho riletto e non mi è
sembrato il caso; non era proprio l'atmosfera giusta! Così
ve lo regalo come saluto di Capodanno, sperando non vi faccia piangere
^^;
Sto anche cercando di finire una piccola oneshot di Beyblade proprio a
tema festivo, se c'è qualche fan di Chi ha detto che mi voglio
sposare, stia in campana ;-)
Buona lettura.
PS: ho visto che La via
della spada è fra i preferiti di tre persone...
mi farebbe un immenso piacere se gli altri due ammiratori/ammiratrici
segreti lasciassero un commentino <3
“Deru
kui wa utareru."
Il chiodo che sporge va
preso a martellate.
Proverbio
giapponese
Nella luce
smorta del mattino, a Tokyo, Sozou Sagara
sbatteva un tappeto liso della clinica dopo aver fatto ritorno da
scuola (uno
dei primi, timidi tentativi del governo giapponese di istruire la
popolazione
medio-bassa).
Non era
un’occupazione noiosa, rifletté distrattamente. In
momenti normali sarebbe già stato sui compiti di scrittura,
ma negli ultimi
giorni aveva la testa altrove.
Prese la
ramazza e cominciò a spazzare l’ingresso, mentre
una vecchina saliva le scale per entrare. Scorse sua madre alla
finestra
dell’ambulatorio, gli occhi puntati ansiosamente su di lui, e
decise di
rientrare. C’era sempre gente nei paraggi, ma lei sembrava
dimenticarlo
facilmente. Del resto, con quel che era successo non poteva biasimarla.
Sospirò.
Chissà come stavano gli zii. E chissà se avevano
già trovato Shinta.
E
chissà come stava quel fedifrago di Kenji. Ce
l’aveva un
po’ con lui per essersene andato senza una parola, senza
avvisarlo almeno con
una criptica occhiata ― non che l’avrebbe seguito (a lui
dell’Hiten Mitsurugi
non importava un fico secco), però sapere di poterlo fare era
un’altra
cosa.
Diede
l’ultima ramazzata e lanciò un’occhiata
al fondo della
strada, mediamente gremita. Oh.
«Hey,
nipotino» salutò Ota, la sacca issata in spalla.
Per tutte le
foreste di bambù, e quell’haori arancione da
dove sbucava? Un altro acquisto sconclusionato dello zio, si rispose,
cercando
di non criticare.
Aveva comunque
di meglio da dirgli.
«Ciao
zio! Allora, notizie dalla posta?»
Il ragazzo
storse la bocca. «Nein» oddio, papà
aveva
contagiato anche lui. «Mi spiace. C’è
tua madre?»
Sì,
la mamma c’era (anche perché altrimenti la clinica
sarebbe stata chiusa). Lo invitò dentro, chiudendo la porta
principale, poi
quasi s’ammazzò sugli scalini.
«Ouh!»
«Oy,
attenzione.»
«Ma
che―» Sedette diritto, pulendosi le mani sugli hakama.
«Pare
ti si sia spezzato il laccio dei sandali» osservò
zio
Ota. Poi lo tirò su. «Vieni, moneta. Ti porto
dalla mamma.»
«Non
sono mica un moccioso» rimbeccò Sozou, con un tono
che
finì per ricordargli Kenji.
Mentre
entravano, la sua attenzione si concentrò sul sandalo
che gli penzolava mollemente dal piede, privo dell’ancoraggio
centrale. Hm. Non
portava bene. Anzi, portava malissimo. Ma forse i pensieri di quella
mattina lo
stavano plagiando.
Fu quando vide
incrinarsi senza ragione le loro tazze da tè,
dove aveva appena versato il liquido bollente, che colse gli autentici
segni di
un brutto presentimento.
Si morse la
lingua, preoccupato.
Qualunque cosa
fosse, dovunque fosse, stava per succedere
qualcosa di poco piacevole.
Kenshin Himura
si tese sul ciglio della scarpata, stringendo
forte il binocolo.
«Cosa
vedi?» ripeté Kaoru.
«…»
«Kenshin.»
Tese le
labbra.
«Kenji
e Shinta. Con
Okina, nel cortile.» Abbassò leggermente il
binocolo, abbagliato dal riflesso
dell’ottone. «Stanno bene. Li ha portati tutti in
salvo.»
Dirlo fu come
crollare in pezzi. La tensione era svanita;
erano tutti sani e salvi, dentro l’Aoiya, e nessuno poteva
toccarli.
Era finita.
Si
lasciò strappare di mano l’oggetto. La terra era
stranamente morbida sotto i piedi, una sensazione che aveva
già provato in
passato dopo una vittoria disperata. Guardò gli altri,
pronto a fare ritorno.
Adesso l’unica cosa che chiedeva era di poter stringere fra
le braccia i suoi
figli.
Ma non aveva
ancora aperto bocca che la voce di Kaoru lo
bloccò, tesa.
Okina fece
scorrere lentamente lo shoji che dava sulla corte
interna, aprendolo.
Rimase ben
piantato davanti all’uscio, per impedire che gli
ospiti inattesi mirassero ai bambini. Nello stesso tempo,
afferrò discretamente
il tonfa agganciato alla sua cintura, sulla schiena.
«Signori»
disse, stringendo gli occhi. «Che cosa posso fare
per voi?»
La situazione
non prometteva bene.
I tre uomini
intrufolatisi nel suo cortile sogghignarono,
tra sporcizia e barbe malfatte. Esibivano alcuni pugnali e un bastone.
«Lo
sai cosa vogliamo.»
«Ci
avete rubato qualcosa di molto prezioso.»
Più
indietro, contro la veranda dell’ala nord, ce n’era
un
altro, munito di vanga.
Incontrò
i suoi occhi.
Era il capo.
«Qui
non c’è niente per voi farabutti»
rispose «tranne la
galera. Vi siete messi in trappola da soli.»
Gli scagnozzi,
tutti d’aspetto comune (e puzzolenti al punto
che si sentiva fin lì) scoppiarono in una risata.
«Ma
sentilo!»
«Lo
sappiamo benissimo che ci sei solo tu coi tesorucci,
vecchia scopa. Non siamo sprovveduti come pensate!»
«No,
non lo siete» ammise, avanzando ed estraendo il tonfa
d’acciaio, con un rumore di catena. «Ci abbiamo
messo un po’ per stanarvi. Però
ora dovrete provare tutta la forza degli Oniwabanshu di Kyoto, che
difendono la
città dai tempi dello shogunato Tokugawa.» Si mise
in posizione d’attacco.
«Avanti.»
Il capo dei
criminali piegò le labbra all’insù, gli
occhi
neri sprezzanti.
«La
forza degli Oniwabanshu? Tu, vecchio?»
Incrociò
le gambe, restandosene comodamente appoggiato contro un pilastro di
legno.
«Fatelo a pezzi.»
«Con
piacere, signor Tsukasa.»
Okina
sentì chiaramente il sudore rigargli la fronte.
Dannazione, stava diventando troppo vecchio per queste cose. La sua
forza
vacillava e, sebbene fosse ancor più che capace di abbattere
un uomo comune con
poche mosse esperte, contro quattro la faccenda diventava critica.
Poteva solo
guadagnare tempo.
«Ragazzo.»
«Sì»
fu la risposta, sussurrata.
«Al
mio segnale, chiudi lo shoji e porta via tutti.»
«Credi
che lo permetteremo?!» urlarono i tre avversari,
caricandoli.
«Svelto!»
Udì
lo shoji sbattere e turbinò in aria il tonfa, gridando.
«State
a vedere!»
Ma
l’Aoiya non s’era chiusa a riccio intorno a tutti i
rifugiati, come Okina aveva ordinato. Perché col movimento
della vecchia spia
il campo visivo di Kenji s’era ampliato e il ragazzo aveva
potuto vedere gli
uomini che li attaccavano: quello subito abbattuto, gli altri due
impegnati
contro Okina, e il quarto… più lontano, ma ancora
più minaccioso. Che
conosceva.
Riconosceva.
Il mostro
chino su Shinta nella via di casa, a Tokyo.
Dilatò
gli occhi, stregato dall’ira. C’era lui,
c’era sempre
stato lui dietro il rapimento; e Kenji si pentì amaramente
di non averlo
denunciato ― o meglio ancora ― ammazzato quel giorno.
Fissò
il suo viso serpentino in silenzio, pervaso dal
desiderio di aprirgli il ventre con la spada.
Poi,
all’improvviso, lo shoji si aprì. Una valanga di
corpi
cozzò contro il suo spingendolo giù dalla
veranda.
«Inoi?
Shinta?! E―» e Toga e tutte le ragazze rapite,
bianchi come cenci.
Avvertì
una folata di vento.
«Merda!»
Tiratosi in
piedi (con un lancinante dolore al fianco) per
evitare d’essere coinvolto nella lotta di Okina,
abbrancò la sorella.
«Inoi!
Ti sembra il momen―»
Ma gli altri
si stavano allontanando rapidamente dall’uscio,
chi strisciando, chi inciampando, con Toga davanti a tutti a impugnare
delle
kunai fra le nocche.
C’era
un quinto intruso. Un ometto armato di frustino li
osservava dalla stanza, piccolo e velenoso come un porcospino. Doveva
essere
entrato dall’ingresso principale; Kenji aveva lasciato
incustoditi i bambini e
lui li aveva quasi sorpresi. E ora…
Afferrandoli
per il colletto, strappò i fratelli al
ciottolato e arretrò fino all’erba, seguito dalle
ragazze.
Lanciò
un’occhiata indietro, all’uomo in nero.
Davanti,
all’ometto donnola.
Ai lati del
cortile, chiusi dalle belle pareti dell’Aoiya.
Siamo in trappola.
Cacciò
Shinta in braccio a Inoi. Poi sguainò la spada,
cercando di decidere in fretta cosa fare.
Doveva
proteggere gli altri. Ma doveva anche aiutare Okina.
Che fare? Se
fosse riuscito a far scappare i bambini…
Seguì
i movimenti sempre più lenti del vecchio, che cercava
di portare lontano il combattimento, e notò con stupore che
aveva già sconfitto
due uomini. Ce l’avrebbe fatta col terzo? La risposta
arrivò subito: con un
ultimo scatto, l’anziano Oniwabanshu piantò
un’estremità del tonfa sulla testa
dell’avversario, scaraventandolo contro il sostegno della
fontanella di bambù,
che si sfracellò.
«Ve
l’avevo detto di non sottovalutarmi.»
Accidenti.
Accidenti.
Kenji socchiuse le labbra, pieno d’ammirazione.
«Cosa
fai ancora lì? Scappa, ragazzo!»
La sua mente
s’annebbiò per un attimo.
Scrollò
il capo, ordinando alle sue gambe di muoversi. Muoviti.
Con orrore
vide il quinto intruso lanciarsi su Okina,
cozzare contro il tonfa… ed esser scaraventato via insieme a
lui da una forza
sconosciuta.
Cacciò
gli occhi sull’uomo in nero. Era sparito.
Lo
ritrovò troneggiante sul povero Okina, una parola di sprezzo
al fastidioso collaboratore. E quella strana vanga…
«Okina!»
Sanguinava
dalla testa. Shinta lanciò uno strillo,
dibattendosi fra le braccia della sorella.
«Inoi»
sussurrò Kenji. «Lo vedi quel vecchio
ripostiglio?»
Parlava del
casotto costruito presso i ciliegi, contorti dal
vento e dall’età. Non era molto lontano (il
giardino della locanda era
graziosamente minuto) e ci sarebbero stati un po’ stretti, ma
bastava che
fossero al sicuro. Sottolineò il messaggio con un gesto del
capo.
«A-ha…»
«Voglio
che ci entrate e vi chiudete dentro.»
L’uomo
nero lo stava guardando. Sollevava la vanga e se la
poggiava in spalla.
«E
tu?!» stridette Inoi.
«Io
resto qui e combatto.»
L’uomo
si muoveva…
«Non
puoi! Sei―»
«Zitta.»
…sogghignava.
«Obbedisci
una volta tanto, e sbrigati.»
Il suo
singhiozzo suonò indignato. Kenji pensò che
sarebbe
stato bello se quella fosse stata la sua azione peggiore; ma sulla sua
coscienza pesava ben altro, ormai.
Si
spostò e levò la spada in direzione del nemico,
pronto a
coprire la loro fuga.
Le sue gambe,
piantate larghe in terra, sembravano radici.
Nel suo corpo avanzava un torpore cinereo.
Forse
è già arrivato il momento di pagare, Himura.
Il sogghigno
del mostro si allargò.
«Te
l’avevo detto, che non avresti potuto farci niente. Il
tuo adorabile fratellino me lo sono preso lo stesso. Davvero un peccato
aver
avuto tutti quegli impegni coi compratori, da allora a oggi.»
Era un demonio.
«Ma basterà ripetere
l’impresa… dopo aver sistemato te.»
Kenji
lottò per schiarirsi le idee.
«Non
te lo permetterò.»
«Fatti
sotto allora.»
Osservò
i suoi movimenti come in sogno.
Quell’uomo
non era Tatsuya o uno dei tanti bulletti che
aveva bacchettato nella sua ronda di quartiere. No,
quell’uomo era esperto.
Quell’uomo uccideva.
Come te, del
resto.
La mano
cominciò a tremargli.
Stava
brandendo la vanga. La parte più razionale di Kenji si
chiese cosa ci trovasse di tanto minaccioso, ma l’istinto non
mentiva, lo
sapeva. L’uomo posava le dita a metà manico, dove
s’alzava uno strano
rigonfiamento, indugiava, sganciava qualcosa con un rumore sordo e
infine
sferzava l’utensile verso destra, tenendolo con una mano
sola.
Il sole
riverberò sul metallo mentre la porzione anteriore
della vanga si staccava, conficcandosi nel terreno e rivelando una
lunga,
lucente lama, lunga oltre un braccio.
«Ti
piace?»
Kenji
osservò, ammutolito.
«E’
la mia nagamaki, una spada antica. Con lei i miei avi si
sono aperti la strada attraverso i secoli. Non farti ingannare dal suo
aspetto
pesante, o la tua testa cadrà prima di portare un
colpo.»
Il ragazzino
arretrò istintivamente.
Non aveva mai
visto una roba del genere. Non aveva la più
pallida idea di come combatterla.
Poi intravide
il casotto coi suoi fratelli e le persone che
aveva giurato di proteggere, e cominciò a respirare dalla
bocca, nauseato.
No, non poteva
cedere terreno.
Piuttosto,
doveva allontanare lo scontro.
Non farti
prendere dal panico. Respira.
Era il momento
di mettere in pratica gli insegnamenti di sua
madre e di Seijuro Hiko. Doveva resistere sino ai rinforzi. A qualunque
prezzo.
O la vendita della sua anima… sarebbe stata inutile.
Strinse i
denti e cambiò l’angolazione della spada. La
ferita sul fianco pulsava, calda e appiccicosa, mentre le sue braccia
si
raffreddavano.
Non si sentiva
pronto.
«Sono
pronto.»
Ma,
all’improvviso, due ombre armate fino ai denti balzarono
giù dal tetto e si scagliarono sull’uomo nero,
urlando.
Kenshin si
volse, attirato dalla voce di Kaoru.
«Cosa?»
«Kenshin,
all’Aoiya―»
Misao
raggiunse l’amica e le prese il binocolo.
«Okon»
mormorò. «A quest’ora Shiro e Kuro
saranno tornati
dalle porte sud e ovest, vero?» L’incertezza del
suo tono li allarmò. «Non c’è
solo Okina coi bambini, vero?»
«Ma
che sta succedendo?»
Okon si
portò una mano alla bocca. «Non sono
tornati.»
«E
dove sono le altre squadre, allora?!»
«Non
so.»
Sanosuke si
schermò gli occhi dal sole. «Sembra che ci sia
del fuoco, laggiù, oltre la città.»
Al movimento
brusco di Aoshi, Kenshin riprese con violenza
il binocolo e lo puntò prima a sud.
«Sì, bruciano dei fienili.»
Poi
sull’Aoiya.
Kaoru tremava.
E
Kenshin vide.
C’era
della gente nel cortile (la distingueva appena). Okina
era in piedi sulla veranda, la testa rossa di Kenji dietro di lui.
Sembrava
parlassero coi nuovi arrivati, ma la conversazione non doveva essere
piacevole.
Poi,
all’improvviso, uno shoji si aprì e Inoi e altri
bambini caracollarono fuori, rifugiandosi vicino ai due.
Erano
stati… stanati da qualcuno che s’aggirava in casa.
Le sue nocche
sbiancarono.
«Le
strade del quartiere sono deserte» sentì
balbettare
Omasu, equipaggiata a sua volta di binocolino. «Non li
aiuterà nessuno.»
Col gelo
dell’inverno che gli penetrava nelle ossa, come
quel lontano giorno dei suoi quindici anni, quando Tomoe gli era morta
fra le
braccia, Kenshin osservò Okina tentare la difesa della
locanda, indicando a suo
figlio di scappare.
Kenji era
immobile, la spada in mano.
Perché
non fuggiva? Perché?
E’
ferito,
si disse. E
gli altri hanno troppa
paura.
Il vecchio
Okina abbatté in un lampo tre uomini. Poi cadde,
sconfitto da un quarto e dall’ultimo. Che stringeva in mano
una vanga.
E guardava
Kenji.
Tutto in pochi
attimi, rapido, inevitabile.
«No…»
Doveva andare.
Kenji
alzò la spada, coprendo la fuga degli altri bambini.
L’avrebbe affrontato.
Ma non poteva
vincere. Quell’uomo aveva qualcosa di
familiare. Kenshin aveva un’ottima memoria per queste cose e
si ritrovò a
frugarla sfrenatamente; quella camminata; la presa sull’arma.
Ah. Ah!
Al circo,
capì, gettando il binocolo a terra.
Era uno dei
samurai.
Non aveva
bisogno di vedere la nagamaki emergere dalla sua
ingannevole guaina per sapere. Quel tizio aveva fatto le guerre. E
Kenji, per
quanto bravo, non avrebbe mai vinto contro la sua esperienza.
Pervaso da una
forza antica, incurante del richiamo di
Kaoru, fu giù dalla scarpata con un balzo.
L’attacco
a sorpresa di Shiro e Kuro degli Oniwabanshu colse
Kenji di sorpresa, ma lo sbloccò.
Senza stare a
riflettere, fece dietrofront e raggiunse
zoppicando il ripostiglio. Doveva approfittarne. Era
l’occasione attesa.
Spalancò
la porta, suscitando grida di terrore.
«Sono
io! Venite, scappiamo!»
Inoi fu la
prima a muoversi, ma quando fu sulla soglia Kenji
udì due tonfi sordi e la bloccò, agganciando una
mano allo stipite. Poi torse
il collo per guardare oltre la spalla.
Spalancò
gli occhi.
«Papà!»
gridò Toga, cercando di uscire. Lo ricacciò
subito
dentro.
I due
Oniwabanshu giacevano a terra, trafitti. Cercavano
ancora di rialzarsi, da uomini valorosi, ma c’era
già la nagamaki pronta a
colpire.
Kenji
allontanò bruscamente Inoi.
«Sono
io il tuo avversario!» gridò. E l’uomo
in nero si
distrasse, puntando gli occhi su di lui.
Arriva.
In quel
momento seppe. Abbassò lo sguardo su Inoi, che
stringeva con una mano Shinta e con l’altra la sua manica, e
le disse di
rientrare.
«Non
scappiamo?» chiese lei, isterica.
«Dopo»
rispose, sorridendole. Le posò una mano sulla testa
(un gesto nuovo con lei, la spiona, la saccente,
l’insopportabile di casa) e la
spinse indietro.
«Kenji?»
Shinta
ricominciò a gridare.
«Toga,
sbarrate tutto.»
«Kenji?!»
ripeté Inoi.
Le
sbatté la porta in faccia, voltandosi con la spada
alzata, i capelli a schermargli il viso dal sole. La coda alta da
samurai s’era
ammorbidita, ma non l’aggiustò.
Non è
poi un grande prezzo… se mancherò soltanto io,
vero?
L’uomo
in nero lo aspettava al centro della corte.
Alzò
la testa, cercando di non vacillare. Mai come in quel
momento aveva desiderato la presenza dei suoi genitori, degli amici, di
tutte
le persone che a casa lo facevano sentire intrappolato.
Ma quella era
la vita che aveva sempre desiderato:
combattere usando lo stile Hiten Mitsurugi. Difendere gli altri.
Guardare in
faccia il pericolo.
E ora la morte
gli sorrideva.
Dèi…
quant’era stato immaturo! Quanta tracotanza nei suoi
desideri, nelle sue azioni! Che abisso di
stupidità…
Lui non sapeva
niente, assolutamente niente. Aveva
trascurato le reticenze di suo padre con orgoglio, tragicamente ignaro
degli
orrori annichilenti della carneficina. Si era sempre considerato
intelligente,
sempre un passo avanti rispetto a tutti; e con quella presuntuosa
sicurezza
aveva commesso un errore imperdonabile. Solo adesso ― oh certo, solo
adesso che
era troppo tardi ― capiva.
Ma pensare era
troppo difficile.
Quanto tempo
aveva? Come doveva attaccare? Le parole di Hiko
gli vennero in aiuto: «Per prima cosa, il punto
debole.» Il punto debole… ma
quale, se non aveva ancora visto combattere il suo avversario?
Il sole
brillò sulla lama bifronte della nagamaki e la sua
attenzione, sempre più incerta, si concentrò sul
metallo. Una spada lunga.
Armi con poche
abilità e ampio angolo cieco.
«Non
attacchi?»
Cercò
di non dare a vedere che si piegava sulla destra per
risparmiare il fianco ferito.
«Sei
tu l’aggressore.»
L’uomo
nero scoprì una lunga fila di denti bianchi, affilati
come coltelli.
Kenji ebbe un
lampo. Sapeva cosa usare.
«Ma
guarda, hai ragione. In effetti» la nagamaki si mosse,
ingannevole nel suo riflesso «hai un aspetto così
pessimo che conviene
approfittarne.»
Sì,
doveva pareggiare il loro stato fisico, se voleva aver
qualche possibilità. E c’era solo un modo.
Il Noto-jutsu!
L’uomo
gli venne incontro, veloce, e Kenji scattò, brandendo
la spada nella destra e la guaina nella sinistra.
Il Noto-jutsu,
contrario del Batto-jutsu, assordava gli
avversari col sibilo provocato dall’attrito tra guaina e
lama, togliendo il
senso dell’udito e dell’equilibrio.
S’abbassò
ed evitò un colpo di taglio. Poi balzò.
Arrivato
all’altezza della sua testa, vide i suoi occhi
dilatarsi. Impugnatura e guaina si toccarono, scattando e chiudendo
completamente la sakabato.
Si
preparò ad atterrare alle sue spalle, portando avanti il
ginocchio destro.
Ma
l’impugnatura della nagamaki sbucò dalla schiena
dell’avversario, venendogli incontro. Sgranò gli
occhi.
Fu colpito in
pieno stomaco.
Risucchiato
all’indietro dall’impatto, cozzò contro
la terra
e il dolore esplose, strappandogli un grido. Mentre il suo avversario
cadeva,
incapace di orientarsi, il ragazzo si strinse l’addome con un
braccio, si piegò
in due e vomitò.
Che imbecille!
Avrebbe dovuto pensarci! Se il samurai
attaccava di taglio verso destra, per effetto della rotazione era
inevitabile
che una lunga impugnatura affondasse all’opposto.
E
ora… oh no.
Oh no, no, no.
Non ci vedeva. Non sentiva le gambe.
Dèi,
antenati, aiutatemi.
Scrollò
la testa. Dov’era la spada? Dov’era la guaina?
E la ferita
sul fianco s’era riaperta.
«Ugh.»
Ho ancora una
cosa da fare. Vi prego!
«Maledetto»
ruggì la voce dell’uomo nero. «Ti
ammazzo.»
Kenji
levò il capo, sbalordito, ansando pesantemente.
Il bastardo si
stava riprendendo. Perché? Il Noto-jutsu non
doveva avere un effetto così breve. Aveva sbagliato
qualcosa?
Il mostro
rise.
«Sorpreso?»
Lo vide rialzarsi, una mano sull’orecchio. Tra
le sue dita colava un fiotto di sangue. «Io ho vissuto le
guerre, ho visto ben
altro. Tu invece sei solo un lattante.»
Rialzati, Kenji!
«La
tua avventura finisce qui. Oh, non preoccuparti, sei
abbastanza carino… ti lascerò vivo per mostrarti
cosa fanno gli uomini adulti
ai bei bambini.»
Kenji si
sentì sopraffare dal disgusto.
Dèi,
perdonatemi. Merita di morire.
«Col
tuo fratellino sono stato sfortunato, troppi impegni
per indulgere; ma ora nessuno ci interromperà. Magari potrei
dimostrare sulla
tua sorellina.»
L’inferno.
Dentro il suo
petto sfolgorò l’inferno. La sua mano
trovò il
metallo della sakabato e l’abbrancò.
«Maledetto!»
Poi
balzò.
La terra era
lontana. Kenji turbinava intorno all’essere,
saltando, volando, rimbalzando e colpendolo ovunque l’ira
glielo comandasse,
senza pietà. Niente tecniche raffinate. Gli bastava ferire,
spruzzando il suo e
il proprio sangue nell’aria, provando un perverso, disperato
piacere.
Un uomo del
genere non meritava di vivere.
«Gh.»
All’improvviso,
una dissonanza.
Atterrò
pesantemente a pochi metri dall’uomo, sulle
ginocchia, e dovette far ricorso a tutte le proprie forze per tirarsi
in piedi.
Non aveva
più respiro. Il sangue gli colava lungo il fianco,
uscendo dagli hakama e macchiandogli il tabi, il sandalo sinistro,
buona parte
del cortile. La vista sfocava.
La sua presa
sulla spada era debole.
Barcollando,
piantò la guaina in terra per sostenersi e
rivide con l’occhio della mente il volto di suo padre.
Non
l’avrebbe mai perdonato, lo sapeva; ma se Kenji provava
vergogna e pentimento per ciò che aveva fatto ad altri,
sapeva anche di non
potergli risparmiare il dolore di quello che avrebbe fatto a se stesso.
Sperava
che almeno lo capisse, un giorno.
Perché
non c’era altro modo.
Era ancora
l’unico scudo tra quel mostro e gli altri
bambini.
«Dannato
ragazzino. Ora mi hai fatto incazzare.»
Rialzò
la testa, deciso. «Vieni!»
Poi
rinfoderò la spada, tenendola libera dalla cintura.
Batto-jutsu So
Ryu Sen. La sua unica speranza. La forza di
resistenza della guaina avrebbe dato abbastanza peso al suo colpo,
sperava, da
renderlo inarrestabile. E come ultima carta avrebbe avuto la guaina di
ferro da
piantargli sotto l’ascella, uno dei punti più
delicati del corpo umano.
Certo, se
fosse riuscito a vederci abbastanza da prender la
mira.
«T’avevo
promesso» sputò «che se toccavi mio
fratello ti
ammazzavo.»
La lama
brillante della nagamaki. L’unica cosa chiara in
quel mondo sfocato.
«Sei
morto, Himura.»
Doveva
seguirla.
Ruotava,
compiendo un ampio, lento giro sino a scomparire.
Per un attimo la vista tornò e Kenji vide che
l’uomo prendeva la rincorsa.
Strinse le
mascelle.
Tutto fu
silenzio, rotto in sottofondo dai singhiozzi che il
capanno non riusciva a smorzare. Poi i passi pesanti. Sempre
più vicini.
Lo stop.
La lama!
Fulmineo,
estrasse la sakabato e la sentì cozzare contro la
terribile mannaia. Del sangue gli spruzzò in viso.
Allungò
il braccio sinistro, sforzandolo per portare avanti
la guaina.
Ebbe appena il
tempo di sbatterne il dorso contro la
mascella dell’avversario, urlando. Nello stesso momento
l’enorme forza
centrifuga impressa alla nagamaki, nonché i muscoli ben
sviluppati di un
veterano ebbero la meglio, travolgendolo.
Atterrò
contro il tronco di uno dei ciliegi.
Tutto fu nero.
Kenshin
attraversò il bosco correndo come aveva fatto poche
volte in vita sua.
Il cuore gli
scoppiava, ma l’avrebbe fermato solo la morte.
Era come ripetere la folle corsa contro la spada di Enishi, per
impedire che
trafiggesse Kaoru; solo che stavolta non ci sarebbe stato un grottesco
pupazzo
a sostituire la vittima, permettendo che suo figlio ― i suoi figli
tornassero da lui.
Doveva
arrivare in tempo. Doveva.
Con la coda
dell’occhio notò alcuni movimenti e
s’accorse di
non essere solo: Aoshi e Hiko l’avevano raggiunto. Rimanevano
ai lati, senza
tagliargli la strada, accompagnandolo.
Dopotutto,
ricordò, laggiù c’erano anche i loro
bambini.
Uscì
dal bosco, imboccò la grande porta, volò per i
vicoli.
Dèi
e antenati, vi prego…
«Ugh.»
Pian piano,
Kenji si sentì scivolare lungo la corteccia. E
rimase impigliato in un vecchio moncone di ramo, con vesti e capelli.
No, pensò,
annaspando. No!
Non riusciva a
respirare. Tastò confusamente dietro di sé.
La spada gli era caduta. Dove?
La stoffa del
suo gi cominciò a lacerarsi.
Dov’è?!
«Maledetto
moccioso. Al diavolo il tuo bel faccino.»
Perdere la
spada equivaleva a morire! E lui non aveva ancora
vinto…
«Adesso
ti sbudello.»
Il sole sul
metallo. Sbarrò gli occhi.
E il suo corpo
smise di muoversi con un tremito: aveva
finalmente raggiunto il limite.
All’improvviso
sentì un freddo terribile. La sua gola era
scoperta, la testa tirata indietro dai capelli avviluppati sul legno.
Sapeva
dove avrebbe mirato.
Col sangue che
lo abbandonava, colse il movimento
dell’avversario mentre sollevava lentamente la nagamaki, si
avvicinava,
bilanciava l’arma.
L’avrebbe
passato da parte a parte.
Hai perso.
Padre―
«Muori!»
Non contava
quanto soffriva il suo corpo, perché lui non era
importante. Aveva ripreso la spada proprio per garantire la vita e la
sicurezza
della sua famiglia.
Presto Kenshin
giunse all’Aoiya, affiancato dal suo padrone.
E non aveva
tempo di usare la porta.
«Aoshi!»
Si capirono
con uno sguardo. L’okashira agganciò al volo il
suo piede e lo proiettò in aria, facendolo arrivare al
secondo piano con uno
slancio impossibile per le sue gambe.
Appena
sfondata una delle finestre, Kenshin era di nuovo in
piedi, abbandonava la stanza, raggiungeva il corridoio, ne spalancava
un’altra;
e guardava fuori.
Quasi ucciso
sul colpo.
Il vecchio
Okina, steso sul ciottolato in una posizione
innaturale.
Shiro e Kuro,
privi di sensi vicino ad altri uomini, che
recavano i segni della sconfitta.
E,
là in fondo, dove la battaglia imperversava ancora, suo
figlio, dondolante dal tronco del ciliegio, grondante di sangue,
immobile. Gli
occhi spenti.
Con un demonio
che muoveva la spada per aprirgli la gola.
Lanciò
un urlo.
L’istante
dopo gli fu addosso.
A uno
spostamento d’aria il suo corpo oscillò; e Kenji
avvertì la stoffa cedere lasciandolo cadere tra le radici
accoglienti
dell’albero.
Assalito dal
torpore, si chiese se quella era la morte. Se
lo era, di certo faceva meno male di tutte le botte che s’era
preso quel
giorno.
Un ruggito lo
scrollò violentemente, spaventandolo.
No, un attimo.
C’era qualcosa che doveva fare. Qualcosa
d’importante. Si sforzò di sollevare le palpebre,
torcendo il collo e tenendole
aperte. Quella voce era familiare.
Quel suono―
Qualcuno stava
combattendo con l’uomo nero. Ma chi?
Quando infine
i contendenti entrarono nel suo limitato campo
visivo, per un attimo il respiro affannoso gli si bloccò.
Sgranò gli occhi,
implorandoli di funzionare, perché voleva vedere, no, doveva
ammirare suo padre
combattere, agile e forte, familiare e straniero al contempo.
Sapeva che era
lui: avrebbe riconosciuto i suoi capelli in
mezzo a mille. Forse anche perché era un’altra
cosa che condividevano.
Seguì
i suoi movimenti, precisi e letali sebbene stanchi.
Adesso capiva la reverenza che accompagnava i racconti
sull’assassino Battosai.
Sì,
era tutto vero.
Combatteva
come un demonio.
Con un ultimo
ruggito, spezzò la nagamaki e colpì il nemico
in piena faccia. Questi cadde senza un gemito.
Poi suo padre
indietreggiò, abbassò la spada e corse da lui.
Altre figure si muovevano sullo sfondo.
Era venuto.
L’aveva protetto, ancora una volta.
Salvato
nonostante tutto…
Sopraffatto
dalla vergogna, pianse.
Kenshin
guardò il corpo dell’uomo, esausto. Poi si volse
e,
con difficoltà, si precipitò dal figlio.
«Kenji.»
«Papà»
chiamava Inoi da lontano, sconvolta.
S’inginocchiò
presso il ciliegio, raccolse Kenji e vide che
piangeva silenziosamente.
«Kenji!»
Da vicino
aveva un aspetto terribile. Il suo viso spento e i
capelli, scarmigliati, erano imbrattati di sangue, così come
il suo piede, la
gamba e… il fianco.
La sua mano
toccò la stoffa del gi nero, trovandola zuppa.
Aprì
l’indumento per trovare una fasciatura fresca, stretta
ma non abbastanza da impedire ai punti di strapparsi. Ecco la ferita
che aveva
macchiato la montagna.
C’era
sangue dappertutto.
«Pa…pà.»
Dappertutto
tranne che in suo figlio.
«Sono
qui» rispose, spostandolo e stendendolo piano
sull’erba.
Dèi
santi, vi scongiuro.
«Kenji,
sono qui, guardami.» Lo fissava, ma i suoi occhi
erano vacui. «Aoshi, maestro! Portate dell’acqua,
bende, qualsiasi cosa!»
gridò, quasi strangolandosi. «Kenji, stammi a
sentire. Adesso ti fascio la
ferita, ma ho bisogno del tuo aiuto, d’accordo? Hai
capito?» Lo vide annuire.
Gli toccò una guancia, trovandola gelida.
«Kenji―»
No, prima
doveva spostarlo da lì. Faceva troppo freddo.
Il ragazzino
uggiolò piano quando lo sollevò, e Kenshin
lottò per bilanciare fra le braccia il suo peso non
più infantile.
«Papà.»
Premette la
guancia contro la sua fronte madida, avanzando
verso l’Aoiya.
«Sì?»
«Mi dispiace.»
Erano due
parole che non si associavano mai a Kenji. Kenshin
lo strinse più forte, provando una profonda, buia
disperazione.
Perché,
perché era arrivato così tardi?
«Avevi ragione
tu…»
«Non
importa. E’ passato. L’importante è che
tu ti rimetta.»
«E
invece importa» mormorò il figlio, trascinando le
parole.
Stavano entrando nella locanda e lo scalino gli strappò un
sospiro. «Avevi
ragione su tutto…»
Lo stese su un
futon, mentre intorno si scatenava il
purgatorio.
«No,
non è―»
«Ti
ho deluso… mi dispiace. Non pensavo tutte quelle
cose.»
Stava
delirando. Kenshin finì di spogliarlo con mani che
tremavano.
«Non
penso che tu faccia pena.»
Tolse la
vecchia fasciatura.
«Lo
so…»
La mano di
Kenji s’attaccò alla sua manica.
«E ti voglio bene.»
«Lo
s―»
Nel tamponare
la ferita, quasi dissanguata, l’uomo fu
soffocato da un singhiozzo. E chinò la testa.
Un immenso
dolore e un’immensa gioia insieme erano troppo
per un lasso di tempo così breve. Kenji aveva salvato suo
fratello, protetto i
bambini e gli Oniwabanshu senza tradire gli insegnamenti ricevuti, era
tornato
da lui; e proprio ora…
Legò
la nuova fasciatura, tergendosi il volto col dorso
della mano. Poi si sentì finalmente in grado di affrontarlo.
«Kenji,
io… non c’è niente… niente
che non farei per te.
Ascolta…»
Piano, si
chinò in avanti e gli prese il volto fra le mani,
piangendo a sua volta.
«Ti
prego, non pensare mai più―»
Ma le parole
gli morirono in gola.
Suo figlio non
lo sentiva più.
------
Proverbio: chi si fa notare o si comporta male
dovrà presto o tardi abbassare la cresta.
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Capitolo 14 *** XIII - Un cuore sicuro ***
Nota:
ritardo vergognoso dovuto a studio/pigrizia/musa diversamente
impegnata/ecc. ^^; E poi il capitolo voleva creare problemi.
Ho perso il conto di quante volte l'ho riletto e riveduto; se
qualche typo mi è sfuggito, vi prego di segnalarmelo. E'
possibile che vi siano ulteriori modifiche in futuro.
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Capitolo XIII
Un cuore sicuro
“Domandare
non costa che un istante di imbarazzo,
non
domandare è essere imbarazzati per tutta la vita.”
Proverbio
giapponese
Vi voglio bene,
papà…
Non piangere.
Ota di corsa
giunse dal centro postale,
tirato in viso, disinteressato del lavoro.
Spalancò
la porta dello studio
clinico, accennò le sue scuse alla ragazza che si stava
facendo
visitare e cacciò in mano alla “sorella”
un telegramma.
«Megumi,
chiudi tutto. Hanno bisogno
di te.»
Il biglietto
le cadde di mano.
Vi prego,
dèi e antenati, vi
supplico, se esiste una giustizia al mondo non lasciate che ci
abbandoni.
In nome di tutto
ciò che è buono e
onesto…
Perché
ne sarebbe distrutto…
Perché
ne sarebbe distrutta.
Vi
supplico…
Fuggita dal
caos che pervadeva il cuore
dell’Aoiya, Inoi si trovò un angolo appartato (un
armadio a muro)
e sedette con le ginocchia piegate.
Non si era mai
sentita così stanca,
sola e sperduta in tutta la sua vita.
Sua madre non
lasciava Shinta un
attimo, impegnata a cavarsi gli occhi a furia di vegliare Kenji. Suo
padre era crollato dopo l’ultima notte in bianco; ora dormiva
nella
stessa stanza. Zia Misao, zio Aoshi e la zia Omasu facevano a turno
per vegliare il nonno Okina e gli zii Shiro e Kuro.
Zia Okon e suo
marito invece se ne
stavano chissà dove, anche loro a dare una mano.
Quella mattina
poi erano venuti dei
poliziotti: dopo qualche chiacchiera con zio Aoshi, avevan portato
via della gente legata, che lei aveva visto solo da lontano.
E per fortuna,
perché sapeva chi
erano.
Si
stropicciò le palpebre, sperando di
non vederli mai più. In quei pochi minuti passati a
nascondersi nel
casotto del giardino, cercando di consolare Shinta (e se stessa)
mentre suo fratello maggiore combatteva all’ultimo sangue per
salvarli, il suo mondo aveva rischiato di crollare.
E di tutti,
lei era quella che aveva
visto meno. Non ce l’aveva con sua madre per tener sempre
Shinta
sott’occhio, se pensava a questo.
Il suo
fratellino era molto più
silenzioso del solito.
Poi
c’era Kenji. Strinse le labbra,
cercando di non piangere.
Non avrebbe
versato una lacrima per
quell’egoista, imbecille di un fratello, sparito di casa
senza dire
niente. Uno che aveva ripreso Shinta e l’aveva spinta dentro
il
ripostiglio e le aveva carezzato la testa pur sapendo che andava a
mori―
«Sob.»
«Inoi-chan.
Eccoti.»
Era sua madre,
accucciata presso l’anta
dell’armadio, il volto stanco.
«Che
ci fai qui da sola?»
Shinta non era
con lei. Doveva averlo
lasciato nella stanza del papà per venire a cercarla.
Inoi
sentì la propria bocca fare un
movimento strano.
«M-mamma…»
«Non
vuoi venire a mangiare? Zia Okon
ha preparato tante cose buone.»
«Come
sta Kenji?»
«Zia
Megumi dice che bisogna
aspettare. Vedere.»
Si
lasciò abbracciare e scoppiò a
piangere.
Dèi,
perdonate le mie colpe; datemi
i mezzi per espiarle…
…la serenità
per accettare le
cose che non posso cambiare; la forza per quelle che posso
cambiare…
Caldo.
Voci.
Qualcuno si
muoveva intorno a lui,
mormorando.
Si
sentì toccare e fece per alzarsi,
credendo di essere ancora ai piedi del ciliegio, ma delle mani lo
fermarono, trattenendolo contro il morbido. Mani familiari, dolci.
Qualcuno gli
sollevò il capo per
dargli da bere.
Gemette per il
disgusto e per il
dolore.
Poi
tornò il buio, ovattato,
vellutato.
…e la saggezza per
riconoscere la
differenza.
Kaoru tolse
delicatamente i cuscini
dietro la schiena di Kenji e li posò accanto al futon,
asciugandosi
gli occhi.
Megumi
riponeva i propri strumenti
nella borsa medica. Kaoru non aveva il coraggio di guardarla: dopo la
prima visita, sei giorni prima, eseguita alla fine di una lunga,
faticosa giornata di treno insieme a Sozou, le labbra
dell’amica
erano state così strette che aveva temuto il peggio. E anche
adesso,
era possibile che…
Avvertì
la sua mano sul braccio.
Rimboccò
in modo assente le coperte
del figlio, pregando, poi alzò lo sguardo.
Megumi
sorrideva.
«Possiamo
stare tranquilli ora. Il
momento critico è passato.»
Kaoru si
sentì liberata. «Davvero?»
«Sì.
Però deve avere tranquillità e
riposo assoluti, proprio come il signor Ken dopo Kyoto. E ci
vorrà
del tempo.»
Le strinse le
mani.
«Megumi,
grazie.»
«Devi
ringraziare chi lo ha soccorso
per primo. Ha fatto un ottimo lavoro.»
«E’
stato Kenshin» mormorò,
spostando lo sguardo sul marito, che dormiva nel futon a sinistra.
Aveva voluto
spostarsi nella stanza per
esser pronto a ogni evenienza, e quella notte aveva vegliato; ma
avrebbe dovuto lasciar fare tutto a lei, pensò, passandosi
una mano
sulla faccia, perché le ricerche e la corsa e il
combattimento di
quell’ultimo giorno l’avevano svuotato.
Non avrebbe
dovuto riprendere a
praticare l’Hiten. Con la forza della volontà (e
della
disperazione) c’era riuscito, ma sforzarsi era come ingerire
ogni
giorno un po’ di veleno.
Però
aveva salvato il loro bambino e
doveva solo ringraziare che l’avesse fatto; sperava solo che
tornasse quello di prima. Perché Kenshin si muoveva poco, in
modo
rigido, ed era difficile non accorgersene le poche volte che lo si
vedeva in piedi.
La voce di
Megumi la strappò ai
pensieri più cupi.
«Non
preoccuparti. Staranno bene
entrambi: Kenji è giovane e forte e Ken ha passato di
peggio. Presto
salteranno di nuovo in giro.»
Sorrise.
«Megumi.»
«Sì?»
fece lei, già sulla soglia.
«Grazie.
Per essere venuta e averlo
salvato.»
Il sorriso fu
ricambiato. Era bello
accorgersi che, negli anni, erano diventate davvero amiche.
«Prego.»
«E
scusa per il viaggio―»
«Senti,
procione, se dici ancora una
parola uso la mia borsa sulla tua testa. Ti ho già detto che
ho
fatto solo un quarto del lavoro, quindi basta coi
ringraziamenti!»
«Ma
il piccolo Sozo―»
«S’è
fatto un viaggetto, era da un
po’ che lo chiedeva.»
«Dubito
sia il genere di viaggio che
voleva. E l’assenza da casa…»
Megumi
sospirò, richiuse lo shoji e
venne ad inginocchiarsi davanti a Kaoru, aggirando il futon di
Shinta.
«Non
è un problema, Kaoru, credimi.
Credo non sia un segreto che vi vogliamo bene: Sano ed io non
sopporteremmo di perdere anche uno solo di voi.» La
abbracciò.
«Quindi basta sentirsi in debito, d’accordo? Questa
parola è
inesistente. Altrimenti, saremmo tutti indebitatissimi tra di
noi.»
Kaoru
annuì.
Dopo che la
donna fu uscita si stese
accanto a Shinta, cingendolo con un braccio e respirando il profumo
dei suoi capelli.
Il suo
bambino… finalmente di nuovo
al sicuro. Non l’avrebbe lasciato mai più solo,
mai più. Non
avrebbe permesso che si ripetesse l’esperienza.
Lo strinse
più forte e lo sentì
uggiolare, chiuso a palla.
Gli uomini che
l’avevano rapito
dovevano solo sperare di non incrociare mai la sua strada. Li avrebbe
resi irriconoscibili, orrendi fuori quanto dentro. Ma…
spostò gli
occhi sull’altro figlio, quello che riposava un futon
più in là,
non più tra la vita e la morte.
L’aveva
già fatto Kenji.
Il suo primo,
caro, carissimo figlio,
che le aveva strappato il cuore una volta lasciando casa,
un’altra
rifiutandosi di tornare, e un’altra ancora facendosi quasi
uccidere… per salvare il fratellino che aveva sempre
mostrato
d’ignorare.
Ricominciò
a piangere, silenziosa.
E non
c’era più ragione di piangere,
no? Stava bene. Sarebbe tornato a sorriderle, con quel viso due volte
caro.
Gli sarebbe
stata vicina fino a quel
momento; lei e Kenshin e Shinta e Inoi. Tutti. E poi―
Poi risolveremo
il resto.
In quel
momento colse un mormorio e
smise di respirare. Si sollevò su un gomito, attenta a non
urtare
Shinta.
E
incontrò gli occhi di Kenji.
«Mam…ma?»
«S-sì»
esclamò «sono qui.»
Alzatasi,
gattonò con difficoltà fino
al suo letto. Voltava la testa leggermente verso di lei, confuso, e
non sembrava del tutto in sé; gli toccò la fronte.
«Cosa
c’è, tesoro? Ti ascolto.»
«Ho
sete» sussurrò lui, rauco.
La febbre.
Dovette trattenersi per non
coprirlo di baci.
«Ti
prendo subito l’acqua.»
Quando
l’ebbe fatto (c’era un
piccolo tavolino con brocca, bicchieri e medicine pronti
all’uso,
proprio alle spalle dei futon) lo vide fissare verso destra, dove
dormiva Kenshin.
«Kenji?»
I grandi occhi
azzurri erano
preoccupati. «Perché
papà…?»
«Recupera
qui; è la stanza più
tranquilla.»
«Sta
male?»
Kaoru rimase
con la bocca socchiusa,
incerta sulla risposta da offrire.
Prima il riposo.
«No.
No, tesoro. Papà sta bene, vuole
solo starti vicino.» Gli passò una mano nei
capelli, poi prese il
bicchiere. «Ecco l’acqua. Ti aiuto.»
Ma suo figlio
s’era già
riaddormentato, inghiottito dalla spossatezza che sempre accompagna
la vittoria sulla morte.
Non le avrebbe
parlato per altri sei
giorni.
«Papà?»
In una delle
stanze al piano superiore,
caldo e accogliente, Sanosuke Sagara stava contando minuziosamente
delle monete rovesciate sul pavimento, tenendo il portafogli in mano.
Alla voce del figlio, che sedeva poco lontano con un libro sulle
ginocchia, alzò la testa.
«Che
c’è?»
«Quand’è
che Kenji si sveglia?»
Sanosuke
masticò piano il sigaro
incastrato fra i denti (passione recente), studiando il tatami.
«Presto.»
«Ma
presto quanto?»
«Bella
domanda. Tua madre dice a
breve. Da giorni.»
«Voglio
parlargli.»
«Non
sei l’unico, credo.»
Soppesò
i soldi nel palmo della mano.
Hm.
«Non
abbiamo portato abbastanza?»
chiese Sozou.
«Sono
quasi due settimane che siamo
qui; gli alberghi costano anche con lo sconto.»
Il marmocchio
accennò un sorrisino
familiare. Già, era lo stesso di Megumi ― brutto segno.
«Davvero
pensavi di pagare,
papà?»
«Hey
tappo, per chi mi hai preso?»
No, pessima domanda. Gli lanciò il portafogli.
«Ovviamente no. Ma
tua madre vorrà farlo anche se Buddha Shinomori dice che
è tutto
gratis, quindi mi preoccupo. Ho visto delle bettole fantastiche in
città.»
Sozou scosse
la testa.Buddha
Shinomori, eh? Non era la prima volta che lo sentiva.
«Forse
non dovresti sputare nel piatto
dove mangi, papà.»
In quel
momento lo shoji scorse sulle
guide, aprendo uno spiraglio dal quale entrarono alcuni bambini:
Inoi, Shinta, Toga di Omasu con la sorellina e Kazuma Hiko ― o
forse avrebbe dovuto dire Niitsu ― che le frignava in braccio.
«Che
succede?»
«Possiamo
restare un po’ qui?»
disse Inoi, scontrosa. «Ci hanno sgridato perché
facevamo baccano.
Ma io non ne posso più di questo silenzio!»
«Su
su, calabroncina» sghignazzò
Sano, facendo loro segno di entrare e chiudere. «Non fare
così. Lo
sai che tuo fratello deve ancora riposare.»
«Papà
s’è alzato. Sarebbe ora che
lo facesse anche Kenji.»
L’uomo
si fece pensieroso.
«Facile
a dirsi. Kenshin è più
vecchio, ma ha molta più esperienza; un po’ di
affaticamento non è
niente, per lui. Tuo fratello invece ha rischiato di morire.»
Quando
s’accorse delle facce che
esibivano s’affrettò a cambiare discorso, ficcando
i soldi in
tasca e recuperando una scatolina tintinnante dal tavolo, posto sotto
la finestra.
«D’accordo,
d’accordo, tutti qui
adesso. In cerchio, forza. Seduti. Anche tu, Sozou» aggiunse,
cogliendo lo sguardo sospettoso del figlio.
«Quest’Aoiya è un
mortorio, non c’è una cosa interessante da
fare neanche mi
venisse un colpo. Del resto non mi stupisce, visto che la gestisce
quel Buddha.»
«Aoiya
è un albergo» osservò
placidamente Toga, assidendosi a gambe incrociate. «Le
persone
vengono per mangiare e dormire.»
«Bah,
appunto per questo è una noia.
Se Buddha e la donnola fossero un po’ più calati
nel mondo,
vivacizzerebbero il posto. Oggi ‘ste cose fanno i soldi a
palate.
Su, ora vi insegno un gioco divertente.»
«E’
un gioco che mostreresti anche a
zio Kenshin?» indagò Sozou, diffidente.
Sano
sogghignò.
«Oh,
lo zio Kenshin l’ha visto molte
volte. Ha persino giocato con me! E con una fortuna
sfacciata…»
Aprì
la scatola e mostrò i dadi,
pronto a passare la propria conoscenza alle nuove generazioni.
C’erano
sempre quelle voci; sebbene
non avesse mai risposto, sentiva che questa era la volta buona. La
superficie era vicina. Riusciva a percepirla, solida e sicura, con la
certezza di chi abbandona un sogno.
Si
concentrò.
Pian piano, la
luce del sole iniziò a
trapelare dalle palpebre, colorando la sua mente di rosso e giallo.
Sentì le mani; il viso; i piedi (se fosse riuscito a tirarli
fuori
dalle coperte, il freddo l’avrebbe sicuramente svegliato).
Caldo.
Ma fu il suono
di uno shoji che si
chiudeva, secco, a liberarlo.
All’improvviso
era sveglio.
Aprì
gli occhi, affrettandosi a muover
le braccia per non rischiare di addormentarsi ancora. Qualcosa sul
fianco pizzicò.
E lui
ricordò. Shinta. L’uomo nero.
La nagamaki!
Si
tirò su a sedere, forse con troppo
entusiasmo perché la testa gli girò, accompagnata
una fitta. Lo
accolsero una stanza sobria e dorata come un pagliericcio, pochi
mobili, una finestra parzialmente schermata sulla destra. Distratto
dall’insistente pizzicore del fianco, abbassò lo
sguardo e cacciò
via le coperte per passarsi in rassegna.
Qualcuno lo
aveva infilato in uno
yukata azzurrino, da notte, quasi aperto tant’era morbido il
nodo;
sotto, una fasciatura fresca e pulita gli proteggeva la vita. Stava
per slegarla e guardare, poi ci ripensò, accontentandosi di
tastare
attraverso il tessuto.
Sembrava che
ci fosse un lungo bozzo in
rilievo ― la ferita chiusa con altri punti, senza dubbio: un taglio
diagonale sul fianco dal basso verso la spalla, in tutta la sua
gloria.
Richiuse lo
yukata, sospirando. Non si
sentiva proprio fresco, quello era sicuro. Ma da quanto tempo stava a
letto?
Cercò
un segno nella stanza, qualsiasi
cosa, ma trovò solo un paio di futon arrotolati nei pressi
della
finestra. Ed ebbe una reminiscenza.
Doveva
già essersi svegliato, qualche
volta.
Sì,
ora che ci pensava ricordava brevi
sprazzi, fugaci visioni di volti che si chinavano su di lui e di sua
madre che gli parlava, mentre lui guardava di lato… dove
dormiva
suo padre.
Era rimasto
lì, nella stessa stanza; e
c’era anche Shinta. Ma per quanto? Da quanto se
n’era andato?
Forse era stato lui a chiudere lo shoji e svegliarlo.
In quel
momento ricordò un’altra
cosa. La sua forza con la spada, nel cortile dell’Aoiya; la
velocità con cui era s'era precipitato a salvarlo.
Quel
vento… era lui, vero?
Era stato
magnifico. Kenji non aveva
mai visto nulla del genere; neanche Hiko possedeva
un'intensità così
straordinaria. E pensare che l’aveva tenuta nascosta tutti
quegli
anni…
Ah, ma questo
sollevava un altro
problema. Erano all’Aoiya, vero? Non c’erano
paramenti a lutto,
vero? Quindi erano tutti salvi, tutto risolto. Tranne una cosa: la
sua fuga e l’Hiten.
Iniziò
a sentirsi ansioso. Si coprì
metà faccia con una mano, appesantito dalla massa di
pensieri che
gli si affollavano in testa. Forse dormire non era così
male. Prima
o poi avrebbe dovuto riflettere ― e “prima” era
sicuramente
meglio che “poi” –– ma saperlo
non facilitava le cose.
In quella
faccenda aveva torto marcio.
Non per aver voluto imparare l’Hiten Mitsurugi Ryu, ma per
esser
scappato di casa; per aver rischiato la vita.
Un pungente
senso di colpa nei
confronti dei suoi genitori.
Aveva
blaterato tanto di maturità e
indipendenza e, alla fine, s'era dimostrato quello che era: un
ragazzino incapace di gestire le situazioni. Un aspirante eroe
abbattuto alla prima difficoltà.
Guardò
il futon di suo padre.
Aveva ragione
lui, Kenji... non eri
pronto, e gliene volevi per questo.
S'era
incaponito nel cercare una
dimostrazione, una prova che lo smentisse; e quelli erano i
risultati.
Le parole
vorticarono e vorticarono,
avviluppandosi nell'oscurità. La diga si ruppe.
Ricordò.
I corpi
inanimati nella foresta. Un
sottobosco insanguinato.
Il marchio
dell'assassinio.
Si
coprì convulsamente la bocca, gli
occhi sgranati, piegandosi in due. Non vomitò solo
perché non aveva
nulla da rendere. Neanche l'anima.
Che aveva
fatto? L'aveva fatto... vero?
Fu preso dalla disperazione.
Sapeva cosa
l'aspettava: conosceva bene
la storia. Pensò che non avrebbe avuto il coraggio di
guardare la
sua famiglia; il rimorso per avergli dato un terribile dolore
– ma
non per aver punito altri, no – lo schiacciò
dall'alto come un
macigno.
L'Hiten? La
fuga? Problemi?
Diritti
perduti. L'arroganza non aveva
più appigli.
Con quale
coraggio avrebbe potuto
cercare di difendersi? Avrebbe accettato qualsiasi punizione,
qualsiasi cosa... pur di restare.
Pur di
cancellare tutto.
Aveva mancato
alla parola data. Il suo
polso aveva porto il filo tagliente; un imperdonabile fallo in
mancanza di coscienza.
Incredulo,
vegetò, riposando la fronte
sulle ginocchia. Un silenzio eterno e vuoto, privo di colore.
Ma...
Levò
impercettibilmente il capo,
ascoltando qualcosa che non si poteva udire. Un guizzo ocra nel
grigiore del mondo.
Sì,
forse c'era qualcos'altro; Shinta
e l'averlo difeso... Raccolse l'impulso dolcemente, cercando di
attirarlo fuori, di indovinarne la forma. Al primo scorcio se ne
ritrasse, spaventato.
Un pensiero
pericoloso, troppo vero sui
diritti che certa gente aveva alla vita.
Bisognoso di
una distrazione, cedette e
s'avventurò fuori prima che qualcuno potesse costringerlo a
convivere coi suoi incubi.
L'avrebbero
trovato comunque, pensò,
arrancando nel corridoio con le mani incollate al muro. Le sue gambe
sembravano argilla, rapide come i bradipi dei libri di Sozou.
Il pensiero
del migliore amico gli
strappò un sorriso.
Anche quei
tempi erano perduti,
ghiacciati nel freddo che avvolgeva Kyoto. Pentendosi di non aver
preso un haori dalla camera, guadagnò il pianerottolo e
fissò la
stretta scala con occhio terrorizzato. Non ce l'avrebbe mai fatta. Si
sentiva già precipitare.
Mentre cercava
di decidere se tornare
indietro, alcuni schiamazzi catturarono la sua attenzione. Venivano
da una stanza vicina; incuriosito, col cuore che batteva a mille,
lasciò le scale e s’addentrò nel
corridoio a nord, tendendo le
orecchie.
Giunto davanti
a uno shoji un po’
malmesso, si puntellò contro lo stipite e aprì
uno spiraglio.
Quel che vide
lo fece spaventare,
indignare, emozionare. Prese un respiro forte per non affogare nella
marea di sensazioni contraddittorie.
Dentro
c’era zio Sanosuke con tutti i
bambini seduti in cerchio, compresi Sozou, Inoi, Shinta e il figlio
di Hiko; al centro dell’allegra brigata c’era di
tutto, dai
calzini ai soldi veri, e in quel mentre Shinta levava il pugnetto per
lanciare i dadi. Kenji spalancò lo shoji prima di potersi
fermare,
sbigottito.
Cosa ci
facevano lì i Sagara?
Quando lo
videro, i giocatori
ammutolirono.
«Che
diavolo stai insegnando ai miei
fratelli?!»
«Kenji!»
gridarono tutti in coro.
Shinta
balzò in piedi, gli corse
incontro e s’aggrappò a una delle sue gambe con la
forza di una
scimmietta.
«Kenji-chaan!»
Era la prima
volta che lo incontrava da
quel giorno orrendo e la sua vivacità lo sollevò.
«Hey,
Shinta» disse,
inginocchiandosi. «Ahi, piano, o mi farai cadere.»
«Shinta,
vieni qua» intervenne Inoi,
raccattando il fratellino.
Quando si fu
raddrizzata Kenji esitò,
temendo di incontrare i suoi occhi e trovarvi disprezzo, magari
paura.
Lei, invece,
gli parlò con gentilezza.
«Come
stai?»
«Uh»
replicò, espressivo. Inoi che
non cercava di staccargli la testa? «Bene.»
«Non
si direbbe» interloquì zio
Sano, osservandolo con perspicacia. «Non sapevo che fossi
stato
dimesso.»
Parlare a lui
fu difficile a tutto un
altro livello, perché – certo – se ai
piccoli non era stato
detto niente, era impossibile che Sanosuke ignorasse quello che aveva
fatto. Deglutì. Quando trovò il coraggio per
smettere di fissare i
codini di Inoi, nell'espressione dell'uomo trovò solo
divertita
indignazione, come se stesse trattando con un monello testardo.
Si
toccò la nuca, sfiorando un vecchio
bernoccolo.
«Infatti»
rispose, banale.
«Hnf.
Ci avrei scommesso. Mi ricordo
di un altro che a Kyoto ha tagliato i tempi di
convalescenza...»
«Chi,
zio?» chiese Toga.
«Chi,
chi?» inquisirono altri
bambini.
«Ma
Kenshin, ovviamente. Tale padre,
tale figlio, che Buddha ci salvi.»
«Perché
zio Aoshi dovrebbe salvarci?»
domandò candidamente Shinta, strappando a Sozou una risata.
Mentre
l'ilarità si espandeva, Kenji
sentì una mano di ghiaccio stringergli la gola; tale padre...
«U–h,
zio–» mormorò, strozzato.
Del tutto
ignara, Inoi posò Shinta a
terra e lo interruppe, dandogli un altro motivo per ammutolire. La
sua voce era bassa e non disturbò l'atmosfera della stanza.
«Sai,
Kenji? Qualche giorno fa sono venuti i poliziotti.»
La sua
espressione dovette essere
interpretata come un invito a specificare.
«Hanno
ufficializzato la denuncia e
altre cose complicate... si sono mossi subito.»
Ah, allora Ino sapeva.
Sapeva – e
sapeva anche la polizia; stupidamente, aveva sperato che gli
Oniwabanshu coprissero le sue tracce e che il segreto non uscisse mai
dalla famiglia.
«Meno
male, voglio dire, non ne potevo
più di dover vivere sotto lo stesso tetto.»
Kenji si
sentì stringere la gola.
«Dovevi
vedere che manette.»
Oh.
«E...
quando tornano?»
Non avevano
potuto prenderlo perché
era incosciente.
«Come,
quando tornano?» Finalmente
sua sorella staccò gli occhi dalla mischia di infanti
scalmanati e
lo degnò di uno sguardo. «Li hanno già
presi. Hey, ma ti senti
bene?»
Incerto, Kenji
annuì. Poi il
significato della risposta decantò, insieme a un orribile
sospetto.
«Hanno
preso chi?»
Inoi
corrugò la fronte. «I criminali
che hai catturato, no?»
I
criminali–rapitori–catturato?
Un sorrisetto
maligno piegò le labbra
della sorella.
«Non
ce n'era uno che non
piagnucolasse nel camminare giù per il sentiero, alla
carrozza
blindata. Credo che zio Aoshi abbia aggiunto qualcosa al tuo
lavoretto, Ken. E ho sentito dire da papà che saranno
mandati nel
distretto di quel poliziotto, Saito, che indagava sul caso.»
E Kenji
scivolò in terra,
sdrucciolando contro la parete come un ubriaco.
Erano vivi.
Il suo stomaco
brontolò, facendo
voltare qualcuno.
«Fame?»
commentò Sozou quando Kenji
non spiccicò parola.
Si accorse che
lo guardavano.
Doveva
reagire, probabilmente.
«Uh…»
Intuitivo, zio
Sano allungò un braccio
verso un tavolino e gli lanciò qualcosa. «Al
volo!»
In mano a
Kenji atterrò un onigiri.
«Tutto
qui?» fece, ritrovando la
voce.
«Hey,
le cucine sono di sotto. Qui si
consuma.»
Lo lasciarono
mangiare con calma,
tornando ai dadi per non creare pressione. Neanche Sozou venne a
sederglisi accanto, cosa che gli fece intuire, fra un boccone ruvido
e l'altro, che presto avrebbe dovuto porgergli delle scuse.
Poteva solo
immaginare che terzo grado
gli avessero fatto.
Sono vivi...
«Come
stai? Tutto intero?» arrivò
dallo zio, una volta finito l'onigiri.
«Abbastanza.»
«Sicuro
di non dover tornare a letto?»
«Devo
correre in bagno, piuttosto.»
Il lapsus gli
guadagnò l'innocente
scherno dei bambini.
«Avete
visto mio… mia madre?»
aggiunse.
«Dev’essere
giù con Meg, alla
stanza del tè. L’Aoiya è stato chiuso
fino a pochi giorni fa, c’è
ancora poca gente. Se vuoi te le chiamo.»
«No,
vado io. Grazie.»
«Non
vorrai fare le scale in quello
stato.»
Lo
squadrò, sostenuto.
«Sì,
parlo con te. E sì, credo di
parlare con un moccolo che barcolla per i corridoi.»
Kenji si
trovò issato in spalla in un
batter d’occhio, sapientemente poggiato sul fianco destro.
«Mettimi
giù!» ruggì.
Nella stanza,
i bambini ridacchiavano.
Gli venisse un colpo, non si sarebbe fatto trovare in spalla allo
zietto. Non dopo aver combattuto contro una nagamaki.
Per fortuna la
sorte ebbe pietà.
Appena fuori
della stanza, due voci
femminili annunciarono l’arrivo di sua madre e della zia
Megumi.
Durante la
visita continuò a guardare
sua madre, il ritrovarsi più dolce dopo la verità.
Zia Okon era
gentile e simpatica, ma
troppo raffinata per sostituirla (e non lo diceva con malizia: come
figura materna preferiva di gran lunga quella spigliata, calorosa e
anche un po’ violenta di Kaoru Himura).
Nel momento
stesso in cui zio Sano
l’aveva posato a terra, gli era corsa incontro e
l’aveva
abbracciato fino a soffocarlo. Quindi l’aveva sollevato di
peso e
riportato in camera, ordinando a zia Megumi di seguirli.
Il gelido
stetoscopio si staccò dal
suo petto, sparendo nella borsa di pelle.
«Cuore
e polmoni sono sani. Ora
controlliamo la ferita. Stenditi qui, per favore.»
Sentire la zia
così professionale lo
faceva ridere, ma obbedì. E lo spettacolo non fu dei
migliori.
Cos’avevano
da sorridere quelle
vecchie megere? Il suo fianco aveva un aspetto orribile; una cima di
carne cucita e infarcita.
«Va
molto meglio» fu l’olimpica
sentenza. «Fra un mesetto sarai come nuovo.
Rimarrà la cicatrice
però, ti avverto.»
«Meglio
una cicatrice che non aver
niente da cicatrizzare» commentò sua madre, cupa.
Lì per lì Kenji
non ci fece caso, troppo costernato.
«Come
nuovo? Uno schifo, vorrai
dire!»
Zia Megumi
strinse le labbra,
accademica. «Signorino, avresti dovuto ammirarti il primo
giorno.
Puoi considerarti fortunato.»
Kenji
deglutì.
«Bah.»
Fu quando la
fasciatura fu rimessa a
posto, la zia uscita e tutto silenzioso che si accorse della postura
rigida di sua madre, inginocchiata accanto al futon.
La
guardò, colto da un cattivo
presagio.
«Mamma?»
«Dunque»
disse lei, guardando fuori
della finestra «ti senti bene.»
«Sì.
Solo… un po’ debole, ma
passerà.»
«Strascichi
di avventure mozzafiato,
vero?» Volse il capo, fissandolo dritto negli occhi, e il suo
cipiglio confermò che la conversazione era seria.
«E’ questo che
volevi dire?»
«N-no,
io―»
Lo schiaffo
arrivò senza preavviso,
aperto e accurato. Gli schizzò la testa
all’indietro, facendo
riverberare tutti i suoni.
Stordito, si
piegò sul fianco,
boccheggiando.
Non era la
prima volta che lo colpiva,
no ― era sempre stato irrequieto oltre misura. Negli anni aveva
affinato la tecnica per prendere tutta la guancia e far quasi
schizzare gli occhi fuori dalle orbite.
Stavolta
faceva ancora più male,
perché sapeva di meritarlo.
La
cercò di sottecchi. Trovò lacrime
e un tremito.
«Giura che non lo farai mai
più.»
«Io―»
«Né
io né tuo padre ti abbiamo
insegnato a comportarti così! E’ questo il modo di
emularlo?
Scappando di casa dopo un litigio, come lui col suo maestro, per non
farti vedere e sentire mai più?! Rispondimi,
Kenji!»
Abbassò
gli occhi, sentendosi
ribollire di vergogna.
«Avevi
intenzione di tornare dopo
quindici anni, come lui?»
«Aoshi...»
«Non
è una buona ragione» tagliò
corto sua madre, alzando la voce. «Non importa se pensavi che
ti
avremmo trovato presto! Tu non sai cos’abbiamo provato tuo
padre ed
io non trovandoti più, senza sapere dov’eri, come
stavi… Tuo
padre s’è sforzato a tal punto che fino a tre
giorni fa
zoppicava!»
La perdita
delle coordinate.
«Papà?»
«Sì.»
«Zoppicare,
ma―»
«Sì!
E tu pensavi―tu volevi
davvero―»
«No!»
esclamò, interrompendola. «No.
Non volevo stare via per sempre.»
«E
quanto allora, maestà?»
«Neanche...
un anno.»
«Ah.»
Nascose gli
occhi sotto la frangia.
Fino a questo punto arrivava la sua immaturità...
«Mi
dispiace.»
«Meno
male.»
«Ma
non ripeto mai lo stesso errore»
mormorò.
Sua madre
ingoiò ciò che stava per
dire e si ricompose, ripiegando le braccia sulle gambe.
«Farai
altre stupidaggini del genere,
in futuro?»
«No.»
«Lo
giuri?»
Lasciò
che i suoi occhi dicessero il
resto.
E finalmente
lei lo abbracciò,
stringendolo forte, passandogli le mani fra i capelli, baciandolo
sulla fronte.
«Grazie
per Shinta» gli sussurrò
all’orecchio. Ora piangeva. «Grazie. Ma non
rischiare mai più
così. Ti voglio troppo bene per perderti, Kenji.»
Pensò
che non poteva prometterglielo.
Troppi pericoli aspettavano, affilando gli artigli... tacque e
affondò il naso nella stoffa profumata della sua spalla,
lasciandosi
cullare.
Riaffiorò
un pensiero del risveglio.
Sì, i pericoli aspettavano... e lui...
«Mamma?»
«Mh?»
«Dov’è
papà?»
Non era
proprio
come suo padre, nonostante tutto.
Kenshin
aspirò l’aria di Kyoto,
frizzante anche nel primo pomeriggio.
Faceva piacere
essere di nuovo
all'aperto. Posò il secchio coi fiori davanti alla tomba,
notando
che qualcun altro aveva lasciato dei segni d’affetto:
crisantemi
freschi, gialli e rossi; a detta di Misao comparivano varie volte
l’anno.
Sorrise,
giunse le mani e pregò in
silenzio, circondato dal cinguettio dei passeri.
Tomoe…
grazie per aver protetto
mio figlio. Sono certo c’entri anche tu, vero?
Gli
sembrò che le piante stormissero
in risposta, portando un riverbero della sua bella voce. Ma forse era
soltanto il vento.
Chissà
perché, alla fine, tutto
riporta a Kyoto.
Ma Tomoe non
rispose. Kenshin lasciò i
fiori insieme agli altri e se ne andò.
«Tornerò
presto» disse. «Spero che
tu sia felice.»
E
poté sentirla ricambiare il sorriso,
vicina e lontana.
Sulla via del
ritorno comprò i dolci
preferiti di Inoi e Shinta, attardandosi per osservare il mondo
multicolore e irriconoscibile del mercato.
Per tutti gli
dèi, durante la sua
gioventù andare al mercato era la cosa più
divertente del mondo ―
adesso era paragonabile a una battaglia. Evitò per un pelo i
gomiti
di una signora imbestialita e si defilò, contento di
raggiungere la
strada un po’ più tranquilla dell’Aoiya.
Una volta
entrato notò la presenza di
alcuni estranei. Onesti clienti, naturalmente; salutò la
signora
Omasu e proseguì.
Nel corridoio
principale trovò Shiro,
munito di stampella, e si fermò a parlare. Sia lui sia Kuro
si
stavano riprendendo bene, disse l'uomo; chi preoccupava di
più era
Okina, perché il vecchio testardo aveva i suoi anni e
s’era preso
una bella batosta.
«Ma
se conosco la sua pellaccia,
presto tornerà a comandarci tutti.»
Kenshin
s’allontanò, scuotendo la
testa e lasciandolo alla sua ghiotta sghignazzata.
«Oro…»
Se non altro,
dagli ultimi giorni si
andava diffondendo il buonumore. Le cose tornavano alla
normalità e
presto anche lui e la sua famiglia sarebbero tornati a Tokyo. Ne
avrebbe parlato con Kaoru, sì. Era ora, ormai.
Ma gli altri
sembravano tutti spariti e
davanti alle scale gli passò la voglia di cercarli. Avrebbe
preso
ancora una boccata d’aria in giardino.
Non fu
un’idea grandiosa, in realtà,
perché appena messovi piede rivide il ciliegio dove suo
figlio era
stato quasi decapitato; e trovò Hiko.
«Kenshin»
salutò lui, inclinando
sobriamente il capo.
Lo raggiunse,
incuriosito.
Il suo vecchio
maestro se ne stava nei
pressi della ricostruita fontana, le braccia incrociate. Il suo
mantello svolazzava piano nella brezza.
E, sorpresa
delle sorprese, sotto
indossava non il classico abbigliamento a gi e pantaloni,
bensì un
kimono nero decorato da un dragone a filo d’argento.
«Che
ci fate ancora qui? E quel
vestito?»
Facile notare
la sua irritazione.
«Come
al solito sei un esempio di
educazione. Vorresti che me ne andassi da casa mia?»
«Casa
vostra? L’Aoiya?»
Aoshi doveva
essere impazzito.
«Ho
sposato Okon degli Oniwabanshu,
hai già dimenticato?»
Ah
già. Sì, aveva dimenticato.
Del resto, la
cosa era abbastanza
incredibile da giustificare il sospetto di uno scherzo.
«D’estate
torniamo su, ma per Kazuma
l’inverno qui è migliore.»
«Il
volere divino è davvero
imperscrutabile» commentò Kenshin, divertito.
Hiko non lo
sapeva, ma nei pochi anni
passati insieme il suo metodico sarcasmo aveva sviluppato in lui una
vena d’ironia sotterranea. Ogni tanto riaffiorava. Quel che
si dice
una lama a doppio taglio, heh.
«Cosa
vorresti dire?» ringhiò Hiko.
«Non
avrei mai detto che la signora
Okon avesse tanto da espiare in questa vita.»
Alla vista
della grossa vena violacea
sulla sua tempia, fu lì per ridere. Ma forse non era il
caso. Il
vecchio maestro gli aveva piazzato una mano sulla spalla, quasi
polverizzandogliela.
«Ne
riparleremo più tardi, Kenshin»
lo informò, a denti stretti. «Intanto rinforza il
tuo cuore di
cinquantenne…»
«Quarantunenne,
prego!»
«…perché
arriva il tuo pargoletto
prodigio. Il maestro lascia il posto al padre. Ci vediamo.»
Kenshin non
rispose neppure. Alle sue
parole s’era voltato, setacciando il giardino con gli occhi.
Ed eccolo, il
suo Kenji.
Lo fissava da
uno shoji, alla fine
della veranda, un po’ pallido ma dritto e con un haori nero
troppo
grosso sullo yukata azzurro, sui capelli sciolti.
S’era
svegliato, finalmente.
L’haori
lo faceva sembrare più
piccolo. Provò un moto di tenerezza.
Ma, resistendo
alla tentazione di
precipitarsi, Kenshin prese un profondo respiro, gli sorrise e si
avviò verso di lui.
Suo figlio,
irrigidita la mascella,
incontrò il suo sguardo con decisione e fece altrettanto.
Avrebbe dovuto
rimanere in camera a
riposare. Dopo la breve camminata e la visita e la discussione con
sua madre era stanco, ma non abbastanza da mettersi l’anima
in
pace. Dalla finestra aveva visto suo padre far ritorno
all’albergo.
Era uscito
subito.
Quando lo vide
parlare con Hiko si
fermò, osservandolo in cerca dei segni di un corpo stanco.
No, non
sprizzava vitalità, ma
sembrava sano. Il riposo doveva essere stato un ottimo balsamo (come
diceva sempre lui stesso).
Era lui piuttosto a far pena,
adesso. Kenji Himura che barcollava.
Meno male che
i suoi seguaci non
potevano vederlo.
In quel
momento Hiko s’accorse di lui
e posò una mano sulla spalla di suo padre. Kenji
s’irrigidì. Il
grande momento. Suo padre lo individuò poco dopo e
fissò con
insistenza.
No, non
distogliere lo sguardo.
Strinse forte
lo stipite della porta.
Calmati.
Andrà bene, come con la mamma.
Ma sapeva che
stavolta c’era molto di
più in gioco, perché sua madre non aveva parlato
dell’Hiten
Mitsurugi e a lei non aveva mai detto “fai pena”,
“ti odio”
o altre frasi da perfetto stronzo.
Ah, e poi
c’era la faccenda del
ceffone… suo padre non l’aveva mai colpito,
neanche una volta (e
forse era per questo che era venuto su così arrogante, a
detta della
mamma). Sospettava però che, quando l’avesse visto
e gli avesse
riferito che voleva continuare con Hiko, il brav’uomo avrebbe
cambiato idea.
La prospettiva
sinceramente lo
terrorizzava. Quanto avrebbe fatto male?
Tanto, si rispose,
avviandosi
nella sua direzione. E non intendeva fisicamente.
Suo padre
sorrideva.
Si
fermò a un paio di passi da lui,
accennando un sorriso e distogliendo gli occhi.
«Papà.»
«Ben
svegliato, Kenji.»
Sembrava sano.
Debole ma sano, come lui
dopo tante prove di spada.
Il cuore gli
si strinse. Non avrebbe
voluto questo, per suo figlio. Non la spada, non il sangue…
ma,
evidentemente, il destino aveva altri progetti.
Trattenne un
sospiro.
Sarebbe andata
bene, si disse. Era
pronto a guidarlo; i tempi stavano cambiando. Sarebbe andata
bene…
In quel
momento notò che il viso di
Kenji assumeva una colorazione scarlatta, con una sola macchia
più
scura sulla guancia sinistra ― un momento, la forma era familiare.
Ah. Ma certo. Piegò le labbra, impietosito. Kaoru doveva
esserci
andata pesante.
E
l’aria bastonata di Kenji, appena
pepata di cocciutaggine, confermava i suoi sospetti.
«Sei
sveglio da molto?» chiese,
dispiaciuto di non poterlo consolare subito.
«Un
po’.»
«Zia
Megumi ti ha già visitato? Come
ti senti?»
Quella domanda
gli strappò un’occhiata
fugace. «Sì, mi ha già visitato. Sto
bene.»
«Bene.»
«…»
«Eh.»
«E…
tu?»
Oh.
«Bene»
sorrise. «Molto meglio,
grazie.»
Poi scese il
silenzio. Carico di
tensione crescente. Kenji seguitava ad evitare i suoi occhi, muovendo
senza soluzione di continuità le braccia nelle maniche
troppo larghe
dell’haori, che gli nascondeva le dita.
Kenshin
infilò a sua volta le braccia
nel gi e trattenne un sospiro. Dritti al sodo, allora.
«Papà―»
«Passeggia
un po’ con me» lo
interruppe, scendendo dalla veranda. Da lì poté
vederlo in pieno
viso. «Vuoi?»
Suo figlio si
morse un labbro,
atteggiamento tipico di quand’era molto nervoso.
«Hm.»
Il tono di suo
padre era cambiato.
Primo, lui non interrompeva mai nessuno, secondo l’aveva
guardato
con un cipiglio che poco lasciava all’immaginazione.
Scese al
livello del giardino,
sedendosi prima di buttar giù le gambe (che pena, che pena,
Kenji!)
e lo raggiunse. La vista dei ciliegi gli provocò un brivido,
così
si concentrò sulla schiena dell’uomo che lo
precedeva.
Presto lo
avrebbe raggiunto in altezza.
Faceva uno strano effetto.
La domanda
vera però era… lo avrebbe
raggiunto in bravura? Gli sarebbe stato permesso? E cosa avrebbe
fatto in caso contrario?
A quel punto
suo padre aggirò la
fontanella ed entrò nella parte più graziosa del
giardino,
fermandosi presso il laghetto delle carpe, dove alcuni arbusti e un
piccolo tempio creavano un ambiente più chiuso. Lo attese
lì.
Kenji strinse
i denti.
Coraggio. Via il
dente, via il
dolore.
«D’accordo.
Visto che sembri
impaziente di discutere, discutiamo.»
Lo vide
muovere le maniche col gesto di
chi si libera di un impedimento, coprire la breve distanza che li
separava ― Kenji aspirò con asprezza ― e levare un braccio.
Chiuse forte
gli occhi, aspettando il
colpo.
Che non
arrivò.
Socchiuse le
palpebre, sbirciando. Suo
padre lo guardava con un’espressione tra il funereo e
l’arrabbiato,
la mano ancora per aria. La abbassò lentamente, lasciandola
cadere
contro il fianco.
Sembrava
irritato per non esser
riuscito a schiaffeggiarlo.
«Ti
sei quasi fatto ammazzare.»
Kenji
abbassò di nuovo lo sguardo,
mordendosi le labbra.
«E
lo sai perché?»
La sua bocca
era secca. «Per
testardaggine» rispose, «per
impreparazione… e per salvare
Shinta.»
Suo padre
annuì. «E che cos’hai da
dire?»
«Che
mi dispiace… per la prima. Mi
vergogno per la seconda. Ma non mi pentirò mai della
terza.»
Suo padre
tentennò, poi annuì ancora.
«Scapperai
ancora?»
Scosse la
testa. «No. Lo giuro.»
La risposta fu
pungente: «Come
l’ultima volta?»
Fece una
smorfia.
«L’altra
volta ho voluto fare il
furbo, giocando sulle parole… perché
l’Hiten non era e non è un
gioco, per me» ecco, aveva introdotto l’argomento.
«Ma è stata
l’unica. Ho imparato la lezione. Non―» merda, e
adesso perché
gli mancava la voce?
«Tornerai
a casa?»
Ah, no. Quella
era una domanda a doppio
fondo.
«Vorrei»
si limitò a dire,
guardandolo finalmente dritto in faccia. Non voleva rinunciare. Non
voleva…
«Tu
non tornerai più dal mio vecchio
maestro.»
La replica
giunse come un fulmine a
ciel sereno, secca e perentoria. Raramente suo padre dava degli
ordini: ma quando lo faceva non c’era via di scampo.
E lui, che
cosa doveva fare? Voleva
tornare a casa e desiderava continuare con l’Hiten. Avrebbe
dovuto
aspettare fino ai quindici anni prima di conciliare le due cose?
Deglutì,
cercando di decidere in
fretta.
Ma suo padre
non gli lasciò tempo di
riflettere, ponendogli un’ultima, umiliante domanda.
«Kenji,
dimmi un’ultima cosa.»
Vagamente
incuriosito, sebbene deluso
(e la stanchezza lo rendeva debole), Kenji tornò a guardarlo.
«Prima
non ti ho schiaffeggiato.
Dimostra di essere una persona matura e dimmi se ho fatto
bene.»
Si
sentì avvampare daccapo, tra
l’irato e lo spaventato.
Oh, non era
giusto… lo metteva con le
spalle al muro. Non c'era che una risposta.
«Tu non
sai cos’abbiamo provato
tuo padre ed io non trovandoti più!»
«Kenji?»
«No»
accennò un diniego. «Hai fatto
male. Me lo merito.»
Si
strozzò sull’ultima parte, perché
la mano di suo padre era già alzata e in movimento.
Strinse i
denti.
Poi giunse il
contatto, ma lento,
morbido, e si ritrovò a guardarlo negli occhi mentre gli
copriva con
delicatezza i segni lasciati dalla madre. Subito dopo le dita calde e
ruvide gli scivolavano sulla nuca, attirandolo a un petto che
conosceva bene.
«Ti
chiedo scusa anch’io» gli fu
sussurrato, «per come ti ho trattato in quegli ultimi
giorni…»
Kenji si
rilassò, allentando stretta
convulsa sui bordi dell’haori.
«Ti
voglio bene. Per favore, non dire
mai più che preferisco tuo fratello o tua sorella a te. Io
tengo a
voi in modo eguale.»
Dannazione.
Stava cominciando a
piangere.
Smettila, Kenji
Himura. Smettila,
smettila!
Suo padre gli
accarezzò i capelli.
«Per me non esiste niente di più prezioso di voi e
vostra madre.
Quindi non sprecare la tua vita… non buttare via gli affetti
sinceri. Sono le uniche cose importanti.»
«Non
ho intenzione di farlo» mormorò.
E
ricambiò timidamente l’abbraccio.
«Bene.»
Una pausa. «Ma per Hiko non
cambio idea. Se vorrai sapere qualcosa, chiederai a me.»
Uh?
Aveva sentito
bene? Aveva―
«Mi insegnerai?» chiese,
scioccato, sentendosi stupido mentre formulava la domanda
(perché
non era semplicemente possibile che suo padre intendesse in quel
senso). E invece lui annuì, un mezzo sorriso sulle labbra.
«Tu?
Dimostrerai per me? Ti allenerai con me?»
Non poteva
essere vero. Non ci credeva.
E invece suo
padre annuiva ancora,
dandogli un paio di buffetti in testa.
«Forse
non sarò in grado di
dimostrare proprio tutto, lo sai, ma credo che basterà
spiegare. O
no?»
E, tra
l’incredulità e lo stupore,
Kenji sentì un sorriso farsi strada sulla sua faccia. Lo
nascose. Un
segreto ancora li divideva, un segreto che avrebbe potuto attendere
molti anni... e non voleva che lo intuisse. Forse non sarebbe mai
uscito dall'ombra in cui era nato.
Era disposto a
compiere persino quel
passo, per lui...
«E
così» una voce commossa nei suoi
capelli «io sarei il tuo modello?»
Arrossì.
«Mollami―»
«Perché?»
«Ci
stanno guardando tutti.»
«E
allora?»
E difatti non
lo mollò, mentre facce
note sbucavano da ogni dove ― le finestre, la veranda, persino i
cespugli del giardino, ululando e applaudendo.
Seguitò
ad opporsi, implorando
ossigeno quando sua madre arrivò in rinforzo con baci e
minacce. Ma
le sue parole non rispecchiavano la felicità che gli si
leggeva in
volto, lo sapeva.
Sì,
il mostro non sarebbe uscito
dall'ombra.
Il suo cuore
era sicuro in mezzo a
loro.
«Bentornato,
Kenji.»
|
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Capitolo 15 *** I figli della pace (e i loro genitori) ***
Nota:
eccolo, finalmente! Chiedo scusa per il ritardo... ma ho cambiato
talmente tante cose di questo capitolo, come di quello precedente, da
non ricordare neanche più come fosse all'inizio ^^;
Spero che vi
piaccia e, se avete tempo, lasciatemi un commentino!
Pubblicità
vergognosa: date un'occhiata a Kyoto 1865 ;-)
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Epilogo
I figli della pace (e
i loro genitori)
“Isogaba
maware.”
Chi va
piano va sano e lontano
Proverbio
giapponese (e non solo)
Due mesi dopo, levati i punti e guarita
la ferita sul fianco, Kenji era impegnato ad analizzarsi nella luce
fredda dell’inverno di Tokyo, seduto contro il muro della
palestra.
«Piantala
di sfogliarti quella crosta
e renditi utile» esclamò Kaoru, in assetto da
insegnamento. «In
casa mancano miso e salsa di soia.»
«Non
è già uscito papà?»
«Per
la legna.»
«E
io che posso farci?»
«Puoi
farci che, se non vai, stasera
non c’è niente per cena.»
«Cucinavi
tu?»
Sua madre
strinse gli occhi. Con la
scusa che poteva di nuovo sfuggirle, se ne stava approfittando un
po’.
«Kenji…»
S'alzò,
chiudendo il gi verde e
spolverandosi gli hakama. «E va bene,
d’accordo» mugugnò.
«Cos’è
quel muso lungo? Avanti,
marsch. Muovi gli
stecchini!» e gli picchettò i polpacci col
piatto della shinai.
«Il
miso pesa» protestò lui,
allontanandosi. «E poi sono troppo occupato per queste
cose.»
Kaoru
sentì un guizzo al nervo
sopraciliare e non ebbe bisogno di toccarsi per sapere che aveva
un’espressione asimmetrica (assassina) sul viso.
«Ma
davvero?»
Lo stava
scimmiottando. Certo era ritta
sull’ingresso della palestra, le braccia incrociate.
Si permise un
sogghigno e vide Shinta
arrivare a razzo dalla casa, con Inoi e alcune sue amichette che
osservavano dalla cucina.
«Kenji-chan!»
«Ciao
tappo.» Lasciò che gli si
attaccasse alle gambe. «Inoi e le altre Oniwawwa non ti fanno
giocare? Spero non stiano provando una nuova ricetta.
L’ultima era
veleno di Okina.»
E
indirizzò un sorrisetto con tanto di
saluto alla sorella, scura in volto. Da quand’era stata a
Kyoto
s’era infatuata della disciplina degli Oniwabanshu, come lui
aveva
notato a cuor (ingenuamente) leggero; poi aveva coinvolto tutte
quelle sceme delle sue amiche. Inutile dire che si divertiva un mondo
a prenderle in giro.
Non guardatelo
male: aveva cominciato
solo dopo aver rischiato la buccia a causa dei loro biscotti.
«Voglio
venire con te» dichiarò
Shinta, tirandogli una manica.
«Con
me?» Poté scorgere un gesto
preoccupato di sua madre. «Io vado al mercato. Roba
noiosa.»
«Non
è noiosa.»
Un’occhiata
e seppe che avevano il
permesso. Davanti a quella dimostrazione di fiducia salì la
voglia
di far compere.
«Allora
dammi la mano, fratellino.»
Se lo
tirò dietro, marciando con
baldanza fuori di casa.
Il carrellino
a ruote incappò
nell’ennesimo buco e Kenshin dovette balzar fuori della sua
portata
per non rimetterci la caviglia.
La legna
legata sul piccolo, umile
mezzo di trasporto (una “creazione moderna”, a
detta del
farabu―del venditore che gliel’aveva rifila―venduto)
protestò,
scivolando leggermente a lato.
Sospirò
e liberò tutto dalla buca.
Poi, controllati i cordami, proseguì. Aveva ancora una casa
da
visitare, quella mattina.
«Buongiorno,
signor Himura.»
«Oro?
Buongiorno.»
Era un tizio
del vicinato, padre di
un'amichetta di Inoi. Vestito da contadino, una matita dietro
l’orecchio, trasportava fascine di paglia.
«La
vedo in forma.»
«Non
c’è male, proprio no, grazie»
rispose.
«Ah,
vedo, vedo. Riconosco ancora la
falcata di un giovanotto ― se non l’avessi vista in faccia,
l’avrei scambiata per quel bellimbusto di suo
figlio!»
Oro.
«Signor
Togu, mi prende in giro.»
«Affatto»
esclamò quello, un po’
brillo, allontanandosi. «Stia attento alle ragazze, signor
Himura.
Se la credono Kenji, la rincorreranno fino in capo al
Giappone!»
Oroo.
«Gra…zie»
fece, esterrefatto.
Kenji rincorso
dalle ragazze? Questa
era nuova.
Rimuginando
divertito sulla notizia
(suo figlio non era ancora entrato in quella fase, apparentemente),
voltò l’angolo e raggiunse la casa di Yahiko con
la falcata che il
vicino aveva appena ammirato.
Giovane? Non
esageriamo. Fiducioso?
Perché no.
Si sentiva
bene, nello spirito
perlomeno. E da poco c’era una ragione in più per
essere felici.
Entrò
nel piccolo cortile, bussando
sulla porta aperta e trovando subito una donna graziosa con un
bambino. «Buongiorno, Tsubame. Yahiko non
c’è?»
«Oh,
salve, signor Kenshin» sorrise
lei, smettendo di spazzare. «Yahiko è sul retro,
sta recuperando la
palla di Shinya. Vuole che glielo chiami?»
«Non
fa niente. Volevo solo―»
«Zio
Kenshin, la tua legna sta
codendo» disse Shinya, indicando lo scassato carrello alle
sue
spalle.
«Oro?»
«Shinya-chan,
si dice “cadendo”,
non “codendo”» corresse Tsubame.
In quel
momento Yahiko Myojin emerse
dallo stretto retro dell’abitazione stringendo sottobraccio
una
scala e una palla di cuoio. «Hey Kenshin! Come va?»
«Bene,
grazie» rispose lui dalla pila
di legna, stringendo le corde.
«Hmm.
Sembri più contento del solito.
Oserei quasi dire raggiante. Cos’è, Kenji ha
saltato di dieci
metri, stavolta?»
Incapace di
trattenersi, Kenshin
scoppiò in una risata rassegnata.
Rincorso dalle
ragazze, raggiante…
che altro? Doveva proprio avercelo scritto in faccia.
«Ti
ringrazio, Yahiko» anche se
forse dovrei offendermi. «No, Kenji
non c’entra stavolta.
Kaoru ed io volevamo invitarvi a un tè, se non avete
impegni.»
«Oggi?»
«Sì,
questo pomeriggio. Sano e Megumi
hanno detto che verranno. Ma se avete altro da
fare…»
«No,
siamo liberi. E se anche non lo
fossimo ci libereremmo, lo sai» aggiunse Yahiko, riponendo la
scala
contro il fianco della casa.
Kenshin
sorrise.
«Una
festa?» domandò Shinya, gli
occhi già brillanti. «Perché? Chi
compie gli anni?»
«Nessuno.
Non proprio.»
«Uh?»
fece Yahiko, avvicinandosi a
Tsubame. «Che vuoi dire?»
«Sì,
cosa si festeggia, signor
Kenshin?»
«Questo
è un segreto.»
Lo stesso
pomeriggio, con gli stomaci
quasi vuoti (in previsione di chissà quale festino), gli
ospiti si
ritrovarono sulla porta della palestra Kamiya Kasshin.
I Sagara sulla
destra, i Myojin sulla
sinistra, vi fu un attimo di silenzio.
«Heilà.»
«Ciao.»
«Ota
non è venuto?»
«Alla
fine no» rispose Megumi. «Dice
di aver riscoperto la vita campestre. E' salito sul treno per
Shinshu.»
«Peccato»
disse Tsubame, posandosi
una mano sulla guancia.
Ma altri
convenevoli furono poco
cerimoniosamente interrotti da Sanosuke il quale, chinatosi in
avanti, li scrutò uno a uno con aria cospiratoria.
«Ma
voi avete capito perché siamo
qui?»
I bambini e
Tsubame scossero la testa,
mentre Yahiko s'incupiva.
«Io
spero solo che non abbia cucinato
Kaoru.»
«Non
preoccuparti, ci abbiamo pensato
io e papà» ribatté una voce sbucata dal
nulla.
Si voltarono;
l’uscio era socchiuso.
«Ciao
Kenji!» esclamò Sozou.
«Ciao.
Oh, c’è anche Nyannya.»
«Oi,
rosso, mio figlio si chiama
Shinya» brontolò Yahiko, rimpiangendo di non aver
portato Shinuchi
(o anche una bokken… ma poteva sempre recuperarne un
esemplare).
Gli fu
risposto con un inchino
irriverente, cui si aggiunse la risata di Sozou.
«Avanti,
entrate, è tutto pronto.»
«Hey,
Kenji… tu lo sai?» insistette
Sano.
Il ragazzo
sbatté le palpebre, a metà
fra la strada e il cortile. «So cosa?»
«Il
motivo della festa. Ci siamo
spaccati le cervella, ma niente.»
Spallucce.
«Mi venisse un colpo se lo
so. Mamma e papà sono strani da un paio di giorni,
all’inizio
pensavo per i nuovi iscritti… ma la palestra non li ha mai
fatti
canticchiare.» Non fu difficile vederlo reprimere un brivido.
«Ieri
ho visto la mamma indossare il kimono da sposa con aria estatica, in
camera sua. E mangia come una locusta.»
Yahiko rimase
a bocca aperta,
scarmigliato. Poi qualcosa parve risollevarlo.
«Beh,
se non ha cucinato lei, almeno
sappiamo che non è arrivata la nostra ora.»
Il commento
strappò sorrisi malvagi,
compreso quello di Kenji, che li invitò a entrare.
«Piuttosto, se
c’è qualcuno che dovrebbe saperlo quella sei tu,
zia Meg. Non vi
dite sempre tutto, tra signore?»
Lei
arricciò le labbra e non disse
niente, entrando per prima con passo imperiale.
«Oh,
pazienza, lo sapremo presto»
sentenziò Sanosuke. «Se cantano non può
esser così male, no?»
E difatti non
lo era giacché mezz’ora
dopo, tra dolci e notizie e pettegolezzi del vicinato, gli Himura
proposero un brindisi al loro nuovo figlio.
Vi fu un
attimo di silenzio.
Poi, tra
congratulazioni, sorpresa e
risate per la costernazione stampata sui visi dei figli già
nati
(Kenji era persino inciampato a faccia in giù nel piatto dei
fagioli
rossi), l’allegra brigata festeggiò, dimenticando
beghe e
dispiaceri.
Il sole
tramontava quando l’ultimo
avanzo fu spazzolato (da Kaoru) e l’ultimo piatto lavato e
riposto
(da Kenshin). L’uomo si terse la fronte, positivamente
esausto, ed
entrò nella saletta da pranzo dove trovò Inoi
impegnata a pulire
alla bell’e meglio il pavimento.
Dietro di lei,
in un angolo, Shinta
s’era addormentato.
«Inoi,
dov’è tuo fratello? No, non
questo» aggiunse, ridendo quando il piccolo
cominciò a masticare
dolci immaginari.
«Fuori.»
«Gli
avevo detto di pulire.»
«Lo
so, ma ha preso i piatti ed è
sparito.»
«I
piatti li ha portati a me.» La
spettinò con gentilezza. «Lascia stare. Facciamo
domani.»
«D’accordo.»
Si
appoggiò contro la sua gamba e gli
abbracciò la vita, ancora troppo bassa per arrivare
più in alto.
Kenshin sorrise. Col fiocco un po’ storto e il naso sporco di
cioccolato, la sua bambina era adorabile.
La prese in
braccio e le diede un bacio
sulla guancia.
«Papà!»
«Oro?
Adesso protesti anche tu?»
Lei ci
pensò per bene, rossa nella
penombra delle lanterne, poi scosse la testa e ricambiò.
Più
tardi, sbrigate altre faccende,
andò a darle la buonanotte. Rimboccò bene le
coperte a Shinta e
osservò entrambi, soddisfatto. Una volta in corridoio vide
che Kaoru
lo aspettava in camera, col lume acceso.
Non vedeva
l’ora di raggiungerla.
«Ma
prima recuperiamo l’ultimo.»
Qualche tempo
dopo il brindisi, una
sorpresa per tutti tranne che per Megumi («Lo sapevo che
questa
volpe nascondeva qualcosa» ― Sano), Kenji era sparito. Gli
sembrava di ricordarlo mentre trascinava fuori Sozou…
Pensò
che a volte, quando credeva di
non essere visto, cambiava. Il suo sguardo vagava lontano, perso
dietro l'ombra cupa di un temporale.
Forse il viso
che mostrava ogni giorno
non era una maschera, si disse. Forse la perturbazione veniva dal
riaffiorare di brutti ricordi. Sapeva quanto potesse essere forte il
carattere di un adolescente.
Uscito di
casa, lo individuò nello
spiazzo antistante la palestra; impugnava la spada usucapita ad Hiko
e si muoveva nelle forme armoniose del più bel kata del
Kamiya
Kasshin, con i bagliori delle lanterne cittadine alle spalle, appena
sopra il muro di cinta.
Rimase ad
osservarlo. La sua coda
mandava riflessi ramati, mentre il suo corpo eseguiva i movimenti con
ferreo controllo. Uno spettacolo preoccupante e affascinante.
Se solo fosse
rimasto un bambino per
sempre. Se solo non avesse amato in quel modo l’Hiten
Mitsurugi,
accontentandosi dello stile materno. Era stata necessaria una grande
dose di rassegnazione per iniziare ad istruirlo. Dopo aver rifiutato
in passato le richieste di Yahiko, Kenshin non si sentiva molto
onesto.
Ma ormai era
tardi per vacillare.
E la
felicità che coglieva negli occhi
di Kenji, nonostante tutto...
All’improvviso,
l’aria mutò.
Arriva.
Si
scansò quanto bastava per evitare
il colpo. Con una mano gli bloccò la fronte, mentre la spada
vibrava
un fendente a vuoto sul legno.
Lo sguardo in
risposta fu minaccioso.
«’Cidenti.
Non ancora.»
«Non
ti sembra un po’ tardi per
questo? Sarai stanco.»
«No,
sono stato attento a non
abbuffarmi.» Kenji saltò giù dalla
veranda per recuperare una
lanterna spenta. La agganciò alla punta della sakabato, poi
si volse
sogghignando. «Scommetto che invece Inoi rotolava.»
Kenshin
corrugò la fronte. «Quando la
smetterai di tormentare tua sorella…»
«Devo
pur allenarmi per il nuovo
arrivo, no?»
Lo
guardò rinfoderare la spada.
«Sei
geloso?» chiese, divertito.
«Certo
che no! Solo sorpreso. Pensavo
che almeno a me l’avreste detto.»
«Se
l’avessimo fatto, sarebbe andato
a monte lo scopo della festa, non trovi? E poi anch’io e tua
madre
lo sapevamo da poco.»
«Lo
so, vi fate gli occhi dolci
dall'altroieri» bofonchiò Kenji, ficcando le mani
sui fianchi.
«Oro.
Pensavo di farglieli da
quattordici anni.»
Era divertente
prenderlo in giro.
«Dai,
vieni» disse, invitandolo al
chiuso. «Ho messo su l’acqua per un
tè.»
«Lo
sai che il tè non mi fa dormire.»
Lo shoji si
richiuse ugualmente alle
loro spalle.
Kenshin volse
la schiena al figlio e
tolse il bollitore dal piccolo fornello a carbone, quello dove Kaoru
cuoceva il pesce.
«Hai
ragione.» Recuperò qualcosa
dalla vecchia, bassa credenza. «E chissà quante
altre cose mi
dimenticherò di te, col nuovo fratellino.»
Gli
posò davanti un piatto: l’ultima
cosa rimasta del festino.
Poi si
versò l’acqua bollente nella
tazza, osservando con la coda dell’occhio mentre Kenji
passava
dallo sconcertato all’estatico. Per un attimo, chiaro: guai
farsi
vedere contenti come scolaretti.
«Un
takoyaki!»
«Salvato
apposta per te.»
«…Grazie.»
Messaggio
ricevuto? Sulla sua bocca e
negli occhi concentrati danzavano i segni di un sorriso represso.
«Lo
sai» osservò, cominciando a
soffiare sulla tazza mentre il silenzio della notte avvolgeva la casa
e la città, «quando la mamma era incinta di te,
non c’era giorno
che tu le dessi pace. Ti muovevi e ti agitavi. Oro, una volta dormiva
dietro di me e mi hai dato un calcio a metà schiena. Bello
forte.»
Provò
il tè e lo trovò troppo caldo.
Il fuocherello della cucina s’abbassò leggermente,
gettando ombre
tremolanti sui mobili.
Kenji
sogghignò.
«Inoi
invece era calma. Troppo, tanto
che per qualche tempo abbiamo temuto… che non nascesse viva.
E
Shinta aveva sempre il singhiozzo; un goloso annunciato.»
Avvertì
un’involontaria ondata di
nostalgia per quei giorni così vicini e così
lontani, quando tutto
era nuovo e Kaoru non l’aveva ancora reso padre, o quando
Kenji gli
arrivava appena alle ginocchia. Era una nostalgia stemperata alla
felicità, naturalmente; insieme a nuovi problemi erano (e
sarebbero)
arrivate nuove soddisfazioni.
Sorseggiò
la bevanda e sorrise.
«Insomma,
fra un mesetto cominceremo a
scoprire come sarà tuo fratello. O tua sorella.»
Kenji parve
dubbioso. «Vuoi dire che
credete a quella roba?»
«E’
la saggezza delle levatrici.»
«Non
farti sentire da zia Megumi.»
«Finora
ci hanno azzeccato.»
Suo figlio
storse la bocca, offeso.
«Quindi
io sarei un esagitato senza
speranza?»
Kenshin
strinse le labbra.
«Non
saprei. Ma tua madre sta già
pregando di non sentire altri calci.» Finito il
tè, ripose tazza,
barattolo e piatto (del takoyaki) dove potesse individuarli la
mattina seguente per lavarli; quindi sbadigliò.
«Ora
di andare a nanna.»
«Non
sono agitato» protestò lui,
tirandosi in piedi di malavoglia. «E non sono
stanco.»
«Puoi
sempre leggere. Ti impegni
pochino nella scuola.»
«Ugh.»
Uscirono in
corridoio e, dal momento
che la lanterna era una sola, lo accompagnò fino alla sua
porta. La
luce nella camera matrimoniale era ancora accesa.
«Buonanotte.»
«E
se vi somiglia?» chiese Kenji di
punto in bianco.
«Come?»
disse, a metà falcata. «Oro,
non dovrebbe?» rispose, intuendo l'arcano.
«No,
lascia perdere.»
Sparì
in camera.
Kenshin
aggrottò la fronte. Alla sua
età era troppo vecchio per gli indovinelli, sinceramente ―
ma
immaginava di non aver molta scelta, con tre (quattro) pargoli. La
sua perseveranza di solito era ripagata da qualche illuminazione.
Eccola,
infatti.
Scosse il
capo, seguendo Kenji e
guardandolo preparare il futon.
«Hai
paura che venga uguale a te?
Dubito sia possibile.» Sentì un transfuga
rivoletto di sudore
colargli lungo il collo. «Saremmo rovinati.»
«Prego?»
Troppo
sarcasmo alla Hiko.
«Mettiti
un po’ qui, davanti a me.»
Gli
indicò il tatami, facendogli segno
di alzarsi.
«Voi
tre siete tutti diversi. Ognuno
ha qualcosa di speciale che gli altri non hanno.» Gli prese
il naso
tra due dita e lo strizzò forte ― Kenji tirò via
la testa di
scatto, massaggiandoselo con aria oltraggiata. «Non
cambierebbe
nulla se il nuovo fratello ti somigliasse.»
«Lo
so, cosa credi. Non intendevo mica
questo.»
«Certo
che no.»
Un’occhiata
diffidente. «Hm.»
«Alla
mamma hai dato la buonanotte?»
«Sì.»
«Vieni
qui allora» e aprì le
braccia; lui venne con calma, orgogliosa reticenza. Lo strinse forte.
«Sarai
sempre speciale, sciocco.
Sempre Kenji.»
«Lo
so. L’unico e irripetibile.
Senza di me sareste persi.»
Rise.
«Sei
proprio un elemento.»
Kenji attese
di sentire lo shoji che si
chiudeva, distante, lasciò cadere il libretto che aveva
cercato di
leggere e studiò distrattamente il soffitto.
Davanti alla
morte le piccole cose
assumevano un valore sconvolgente, pensò. Non esistevano
altre
certezze.
Con un colpo
di reni si tirò a sedere
e sgattaiolò fuori.
«Kenji,
dove vai?»
«In
bagno» rispose.
«Ricordati
di chiudere quando torni.»
Proseguì
uscendo sulla veranda chiusa
per la notte. Ma non entrò nel bagno ― aprì piano
il paletto del
pesante pannello scorrevole e uscì.
Dal tetto si
dominava un tratto di
quartiere e si poteva vedere il monte Ueno. C’era la luna
piena e
Tokyo sembrava un’altra città, disturbata solo
dall’abbaiare
lontano di un cane.
Si
sdraiò, ben coperto dall’haori
pesante. Guardò su, nel buio.
Quel posto lo
aiutava a pensare.
Il riverbero
del sole sulla lama di una
nagamaki continuava ad accecarlo. Non l’avrebbe scordato.
Le voci dei
suoi genitori gli giunsero
alle orecchie, trasportate da qualche spiffero; era sopra la loro
stanza.
«Come
credi che sarà il bambino in
viaggio?»
Poteva
immaginarla, sua madre, distesa
su un fianco con la testa sulla spalla di suo padre e quel sorriso
sulle labbra.
«Hm,
non saprei, proprio no.»
«Abbiamo
il combattente, la spiona e
il panda» Kenji sorrise, perché lo stava citando.
«Il prossimo
potrebbe essere normale, non credi?»
«Basterà
che sia sano. E che ti
somigli.»
«Già
Inoi e Shinta somigliano a me,
adesso è il tuo turno!»
«Vuoi
dire rosso e con gli occhi a
palla? Ne abbiamo già fatto uno così, mi
sembra.»
Kenji tese un
orecchio, piccato.
«Ma
se somigliasse anche solo per un
quarto a Kenji, io mi riterrei fortunata, Kenshin.»
Con un
profondo respiro d’aria tersa,
si rilassò nella notte.
Tanto, nessuno
poteva vederlo, e...
...basta
|
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