Vendetta

di nefert70
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Morte del duca Alfonso ***
Capitolo 2: *** Il duca Cesare ***
Capitolo 3: *** La convenzione di Faenza - parte I ***
Capitolo 4: *** La convenzione di Faenza - parte II ***
Capitolo 5: *** La vendetta è compiuta ***



Capitolo 1
*** Morte del duca Alfonso ***


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PREMESSA
 
 
 
 
Alfonso II d’Este, era duca di Ferrara, Modena e Reggio dal 1559 e cioè dalla morte del padre Ercole II d’Este.
Per volere paterno si era sposato nel 1558 con Lucrezia de Medici che morirà nel 1561 senza dargli eredi.
Nel  1565 si risposò con Barbara d’Asburgo.
Nel 1567 il duca Alfonso ricevette dal papa Pio V una bolla dove veniva caldamente invitato ad avere figli legittimi se non voleva che gli Estensi perdessero il ducato di Ferrara.
La duchessa Barbara morirà nel 1572 lasciandolo nuovamente vedovo e senza figli.
Il duca Alfonso si risposò per la terza e ultima volta nel 1579 con Margherita Gonzaga, anche con il terzo matrimonio però Alfonso rimase senza eredi legittimi.
In mancanza di eredi diretti, il duca designò,  quale proprio successore, il  cugino Cesare d'Este.
Don Cesare era figlio di Alfonso, figlio illegittimo del duca Alfonso I, legittimato nel 1532 dal cardinale Innocenzo Cybo e l'anno successivo dallo stesso padre, che gli aveva assegnato come appannaggio il feudo marchionale di  Montecchio.
Se per i feudi imperiali di Modena, Reggio e Carpi il diritto alla successione doveva essere  riconosciuto dall'imperatore Rodolfo II, per ottenere l'investitura di Ferrara invece l'unica possibilità era il consenso papale, con deroga alla bolla del 1567.
Il duca Alfonso nel 1594 ottenne l’investitura imperiale, per il cugino Cesare, dietro il pagamento dell'ingente somma di 400.000 scudi.
Nel 1592 salì al soglio pontificio Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, che rimase irremovibile, come i suoi predecessori, nel non voler riconoscere come erede del ducato Cesare d’Este.
Fin dal 1595 Alfonso nominò suo successore nel proprio testamento Cesare d’Este, sperando che, con l’aiuto imperiale, potesse mantenere anche Ferrara.
Alfonso nei suoi  anni di governo pacifico, vide mantenuto, anzi accresciuto, lo splendore della sua corte; ma questo fasto e, peggio, le grandi spese per la rivalità con i Medici furono causa di un’oppressione che indebolì l’antico affetto di Ferrara per i suoi signori.
L’anno 1597, il trentottesimo di governo del duca, era cominciato come tutti gli altri, e solo dall’autunno il duca aveva cominciato ad essere infastidito da una leggera febbre a cui non aveva voluto dare molta importanza, infatti a settembre la corte si era trasferita alla Mesola, poi a Belriguardo e da lì a Copparo. Il duca e la corte erano rientrati a Ferrara solo il 9 di ottobre.
 

Ferrara, Palazzo ducale
18 ottobre 1597
Il duca Alfonso era seduto alla scrivania del suo studio e stava leggendo la relazione dell’ambasciatore ferrarese presso la corte imperiale di Vienna. I ricci capelli, un tempo castani, erano diventati grigi e l’agilità della gioventù era stata sostituita da un fisico pesante che ricordava molto quello del nonno, il duca Alfonso I. La leggera febbre, che lo aveva colpito a cominciare dall’autunno, quella mattina era molto più forte ma il duca si era ostinato ad alzarsi dal letto e a svolgere le sue funzioni.
Stranamente aveva saltato il pranzo e si sentiva piuttosto irrequieto. Le carte sulla scrivania erano molte e Alfonso sapeva bene di avere molto lavoro da svolgere ma da circa un’ora il dolore al rene destro era diventato insopportabile, cercò di alzarsi per alleviare almeno un po’ il dolore ma appena spostò la sedia le gambe gli cedettero facendolo cadere lungo e disteso sul pavimento.
Il suo segretario, Laderchi, che era intento a svolgere i suoi compiti alla piccola scrivania posta poco lontano da quella più grande del duca, accorse immediatamente e aiutato il duca a risedersi chiamò i camerieri.
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I camerieri avevano spogliato il duca e l’avevano messo a letto.
Alfonso bruciava per la febbre e non riusciva a tenere gli occhi aperti, persino la leggera fiamma della candela posta accanto al letto lo disturbava.
La sua giovane moglie era accorsa immediatamente appena avvisata ed ora era seduta sull’alto letto tenendogli la mano e cambiandogli le fasce inumidite sulla fronte.
“Alfonso non preoccupatevi, Il medico è già stato avvertito. Arriverà tra poco. “ continuava a ripetere la duchessa Margherita, ma non era sicura che suo marito riuscisse a comprenderla.
Il medico giunse presto e cominciò a visitare il duca, dopo quasi dieci minuti di auscultazioni varie si rivolse alla duchessa “Altezza, i calcoli ai reni che da anni tormentano il duca si stanno muovendo causandogli grave tormento. L’unica cosa che possiamo somministrargli è dell’infuso di finocchio e molta acqua nella speranza che riesca ad espellerne qualcuno, così da ridargli un po’ di sollievo” si inchinò ed uscì.
 
20 ottobre 1597
La duchessa Margherita era nelle sue stanze quando sentì bussare alla porta, “Avanti” disse distogliendosi dai suoi pensieri.
Il medico entrò e inchinandosi “Altezza, mi dispiaccio di portarvi cattive notizie ma la febbre del duca non diminuisce e purtroppo la cura che gli abbiamo somministrato non ha ottenuto effetto. Dubito che possiamo fare altro per lui. Ho consultato altri miei insigni colleghi e anche loro sono dello stesso parere.” Poi rimase in attesa.
“Vi ringrazio per le vostre cure, fate tutto il possibile per alleviare le sue sofferenze. Solo questo vi chiedo” lo congedò Margherita.
Le lacrime cominciarono a scorrere sulle gote della giovane duchessa.
Quando era giunta a Ferrara  nel febbraio 1579, giovinetta di quindici anni, non era stata felice di queste nozze con un uomo molto più anziano, ma le attenzioni del duca l’avevano conquistata ed ora si poteva dichiarare molto felice per questa unione anche se non era riuscita a dare al marito il tanto sospirato erede.
La duchessa si sedette allo scrittoio, posto di fronte alla finestra, aprì un cassetto e prese un foglio, intinse la punta della penna nel calamaio e cominciò a scrivere
 
         Alla Eccellentissima Lucrezia d’Este duchessa d’Urbino
Mi duole informarvi che vostro fratello è già da due giorni a letto con una febbre che non vuole lasciarlo.
I medici non danno molte speranze.
                                                                           Margherita  Gonzaga d’Este
           duchessa di Ferrara Modena e Reggio
 
Reggio , Via della Ghiara
21 ottobre 1597
La costruzione della basilica dedicata alla madonna  era stata inaugurata nel giugno del 1597, alla presenza del duca Alfonso e di sua moglie Margherita e dell’intera corte ferrarese, e i lavori erano stati affidati a Francesco Pacchioni, architetto e scultore.
“Messer Francesco” disse una bionda donna la cui età era difficile da decifrare, per il suo fisico esile  ed aggraziato la si poteva definire fanciulla ma le rughe attorno ai begli occhi azzurri e la lentezza nel camminare la collocavano tra le persone più mature.
Lucrezia d’Este della Rovere, duchessa di Urbino avrebbe compiuto sessantadue anni tra meno di due mesi.
“Madonna ditemi” rispose prontamente il giovane architetto.
“Perdonatemi  ma anche oggi vorrei pregare di fronte all’immagine della santa vergine, potreste far interrompere i lavori in quell’area?” chiese la duchessa
“Certamente, se permettete vi accompagnerò io stesso” disse porgendogli il braccio e cominciando a incamminarsi fra i molti artigiani che lavoravano.
“Sarà maestosa” esclamò la duchessa contemplando gli operai al lavoro
“Sono molto fiero del progetto, il tempio sarà a croce greca con larghezza di 45 metri e lunghezza di circa 60” poi fece fermare la duchessa e mostrandole il cielo terso continuò “proprio qui, al centro della croce sorgerà una cupola con lanterna. Poi ai quattro angoli rientranti della croce ci saranno altrettanti spiazzi quadrati sormontati da altrettante cupole” indicandole gli angoli.
“Avevo visto i progetti ma vedendolo costruire mi sembra ancora più maestoso” si complimentò la duchessa.
Nel frattempo erano giunti all’immagine della madonna e l’architetto si inchinò e lasciò la duchessa alle sue preghiere.
La duchessa non era arrivata neppure alla metà del suo rosario quando una delle sue dame che era rimasta nel monastero la raggiunse con una lettera fra le mani.
La dama era imbarazzata non voleva disturbare la preghiera della sua duchessa ma il messo che aveva recapitato la lettera le aveva detto che era urgente. Si avvicinò cautamente e facendosi il segno della croce si inginocchio accanto alla duchessa. “Mia signora, perdonatemi l’interruzione ma questa è arrivata poco fa’ da Ferrara. Hanno detto che è urgente” disse porgendo la lettera alla duchessa.
Lucrezia interruppe il rosario e prese la lettera, il sigillo della cognata produsse un sorriso amaro sul bel volto.
Lucrezia ruppe il sigillo e lesse le poche righe, il sorriso scomparve lasciando il posto ad una preoccupazione mista a sollievo, voleva bene a suo fratello ma negli ultimi anni molte cose erano accadute che avevano trasformato l’amore fraterno in disprezzo e in alcuni casi anche in odio.
Comunque appena letta la lettera si fece il segno della croce, si alzò e rivolgendosi alle sue dame “Andate a preparare i bagagli ed ordinate alla scorta di disporre la carrozza. Dobbiamo tornare subito a Ferrara”.
 
Ferrara, Palazzo ducale
22 ottobre 1597
Era notte inoltrata quando la carrozza della duchessa Lucrezia attraversò il portone di ingresso del palazzo ducale di Ferrara.
La duchessa scese, visibilmente stanca per il viaggio, e faticosamente salì l’ampio scalone che conduceva alle camere ducali, al primo domestico che incontrò chiese “Dov’è la duchessa Margherita?”. Il cameriere inchinandosi “Nelle sue stanze mia signora”.
Appena giunta nell’ala riservata alla duchessa si fece annunciare e subito fu introdotta nella camera da letto dove trovò sua cognata già con la veste da camera.
“Pensavo di trovarvi al capezzale di mio fratello?” inveì  immediatamente contro la cognata senza neppure salutarla.
“Buona sera, cognata” esordì Margherita poi continuò sconfortata “Vostro fratello mi ha mandato via. Desidera accanto a se solo i medici e Don Cesare”
“E’ assurdo, venite, voglio vedere mio fratello” fu la risposta di Lucrezia che già si stava dirigendo verso la porta.
“Non credo sia una buona idea. I medici consigliano di non farlo agitare. Aspettate domani mattina” cercò di fermarla la duchessa Margherita.
“Ora” fu la risposta di Lucrezia e Margherita fu costretta a seguirla.
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Proprio mentre le due duchessa stavano giungendo alle stanze del duca Alfonso la porta della camera da letto ducale si aprì e ne uscì un uomo sulla trentina, capelli, baffi e pizzo scuri, fisico asciutto, era Cesare d’Este, marchese di Montecchio.
Il Marchese appena vide le due donne si fermò e inchinandosi “Madonna Lucrezia, Madonna Margherita cosa ci fate qui a quest’ora tarda?”
Margherita tentò di rispondere ma Lucrezia fu più rapida “Voglio vedere mio fratello” fu la sua risposta secca.
“Il duca sta’ riposando e poi, come ho già detto prima alla duchessa Margherita, il duca Alfonso non desidera essere disturbato” continuò Don Cesare.
Lucrezia cominciava ad innervosirsi “Cosa avete detto a mia cognata non mi interessa, Voglio vedere mio fratello e lo vedrò. Ora” e senza neppure salutare aprì la pesante porta ed entrò.
Margherita guardò sconsolata Don Cesare “Mi spiace, conoscete bene il carattere di madonna Lucrezia. Speriamo solo che Alfonso non si inquieti”.
“Speriamo” stava dicendo Don Cesare quando dalla stanza si sentì la voce di Lucrezia “Margherita venite”.
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La stanza era avvolta nella penombra, solo poche candele illuminavano la zona del letto.
La robusta figura del duca quasi scompariva nell’enorme letto, era visibile solo il volto, smagrito e pallido.
Appena le due dame entrarono il dottore gli andò incontro “Madonne” disse inchinandosi.
“Come sta’ il duca? domandò Lucrezia.
“Ha sempre la febbre molto alta e purtroppo non riusciamo ad abbassarla. Abbiamo provato tutto. Non ci resta che attendere” rispose il dottore.
“La morte” disse Lucrezia incamminandosi verso il letto del fratello.
“Alfonso, non potete morire ora. Non potete lasciare Ferrara a Don Cesare. Rispondetemi, lo so’ che siete sveglio e mi sentite. Per l’amore che mi avete portato e che vi ho portato, non fatemi questo. Non lasciate il vostro ducato, il ducato che è stato di nostro padre e prima di lui di suo padre a Don Cesare, è solo il figlio di un bastardo di nostro nonno. Se non porrete rimedio lo farò io. Ve lo prometto.” Lucrezia gli parlava ma il duca sembrava non udirla.
“Lucrezia vi prego lasciate stare Alfonso. Vedete, sta’ riposando, non può udirvi.” Margherita si era avvicinata e con la maggior cautela possibile cercò di allontanare Lucrezia dal marito.
“No, è sveglio. Faceva così anche quando eravamo piccoli e non voleva ascoltare. Vero Alfonso che mi senti?” Lucrezia cominciò a prendergli la mano e a scuoterla, ma il duca non reagiva.
Intervenne il medico “Madonna, vi devo chiedere di lasciare la stanza. Non potete disturbare così il duca”
“Me ne vado. Ma tornerò” disse irritata Lucrezia lasciando la stanza.
La duchessa Margherita baciò la fronte del marito, salutò il dottore e seguì la cognata.
Mentre le due donne uscivano Don Cesare rientrava.
Appena la porta si fu chiusa alle spalle delle due donne il duca Alfonso aprì a fatica gli occhi e disse “Non le fate entrare mai più” poi facendo avvicinare Don Cesare gli sussurrò all’orecchio “Guardatevi da mia sorella, vi causerà gravissimi danni.” poi richiuse gli occhi.
 
23 ottobre 1597
Appena sveglia la duchessa Margherita fece una frugale colazione e dopo essersi vestita si diresse verso gli alloggi del duca suo marito.
Come al solito le stanze erano semivuote, la successione di Alfonso aveva causato molti attriti e questa era la conseguenza, il duca Alfonso nei suoi ultimi giorni era stato lasciato solo.
Margherita aprì la porta della stanza da letto, le candele erano state spente ma le finestre erano rimaste chiuse, all’interno della stanza c’era un odore nauseabondo.
Appena entrata Margherita dovette coprirsi il naso con il fazzoletto impregnato di profumo “Vi prego aprite le finestre” ordinò poi si avvicinò al marito e prendendogli la mano domandò “Come vi sentite?”.
Il duca aprì a fatica gli occhi e uno spasmo di dolore gli attraversò il volto già segnato dalla malattia, “Cosa ci fate voi qui? Avevo dato ordine di non farvi più entrare”.
Margherita rimase scioccata dalle parole del marito “Ma Alfonso perché dite queste cose? Sono vostra moglie e mi preoccupo per voi”.
“No,  andate e non tornate più. Non avete più nulla da fare qui” fu la secca risposta del duca a cui non era possibile replicare.
Margherita , trattenendo a stento le lacrime, obbedì. Appena uscita dalla stanza si coprì il volto con il velo e correndo si diresse nelle sue stanze dove, buttandosi sul letto, scoppiò a piangere.
 
27 ottobre 1597
Già da molti giorni gli unici che potevano entrare all’interno della camera da letto ducale erano i medici, il segretario Laderchi, don Cesare d’Este e il conte Ercole Mosti.
Mentre i medici si affaccendavano per dare un po’ di sollievo agli ultimi giorni del duca, il conte Mosti si avvicinò a don Cesare “Don Cesare, venite, vi devo parlare in privato, allontaniamoci.”
E appartatisi in un angolo il conte cominciò “Ormai sappiamo che il duca sta’ morendo, i medici sospettano che gli restino solo poche ore di vita. Conosciamo tutti bene l’opinione che il duca ha della sorella e in molte occasioni aveva ipotizzato l’intenzione di sopprimerla. Ora che il governo passerà nelle vostre mani, quella donna sarà ancora più pericolosa. Conoscete bene l’avversione verso la vostra famiglia. Se la vostra intenzione e di seguire l’intento del duca Alfonso, contate su di me”.
Don Cesare ascoltò attentamente e proprio mentre stava per dare la sua risposta si avvicinò il segretario Laderchi che aveva udito il discorso del conte “Marchese, non potete macchiarvi di un si atroce delitto proprio all’inizio del vostro governo. E’ vero il duca in più di un occasione aveva ipotizzato la soluzione proposta dal conte ma come vedete non l’ha mai attuata.”.
Don Cesare rimase pensieroso e mentre rifletteva si sentì chiamare dal duca Alfonso “Don Cesare, dove siete? Vi devo parlare”.
Alla voce del duca don Cesare lasciò i due uomini e raggiunse il letto del moribondo “Eccomi mio signore, ditemi”.
Con la poca forza rimastagli il duca cominciò “Dio mi chiama all’altra vita e come cristiano mi rassegno alla sua volontà.  Vi ho fatto e vi faccio erede di tutto quanto possiedo. Vi prego, fate tutto il possibile per conservare questo stato, che i miei predecessori mi trasmisero e io con tanta fatica mantenni. Mostratevi, in tutto, un successore degno di me”.
Il campanile della chiesa stava suonando i quattro rintocchi del pomeriggio quando Alfonso II ‘Este, duca di Ferrara, Modena e Reggio spirò l’ultimo respiro.
 

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Capitolo 2
*** Il duca Cesare ***


Ferrara
28 ottobre 1597
Chiesa del Corpus Domini
 
Il corpo del duca era stato immediatamente preparato, vestito sontuosamente ed esposto nella chiesa del Corpus Domini, ed era rimasto esposto all’omaggio del popolo ferrarese solo per un giorno.
La sera successiva dal palazzo ducale un piccolo corteo comprendente la giovane duchessa vedova e la sorella del duca raggiunse la chiesa dove il vescovo pronunciò una veloce e poco accorata orazione funebre. La salma del duca portata da quattro facchini con quattro torce fu tumulata all’interno della chiesa.
Mai un duca di Ferrara aveva avuto un funerale cosi sotto tono, la duchessa Margherita era l’unica sinceramente addolorata, il velo nero calato sul viso veniva velocemente sollevato solo per asciugare le lacrime.
La duchessa Lucrezia al contrario non versò un lacrima, per tutta la durata della cerimonia funebre non aveva tolto gli occhi furenti di odio dal volto del nuovo duca.
Il duca Cesare, da parte sua, non sembrava ne addolorato ne sollevato, solo preoccupato.
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Palazzo ducale
La sala delle udienze era gremita dei nobili ferraresi, il nuovo duca, dopo la celebrazione del funerale del defunto duca aveva ordinato a tutti i nobili di prestagli giuramento.
Ad uno ad uno i nobili eseguirono l’ordine, si inchinarono e giurarono fedeltà al nuovo duca.
Solo il vescovo cittadino, Giacomo Fontana, non presenziava alla cerimonia, fedele ai suoi principi e al volere papale.
Perfino la duchessa Lucrezia era presente e offrì il suo giuramento, subito dopo ritornò al suo posto accanto al conte Cesare Trotti, il più acerrimo contestatore del potere di Don Cesare d’Este.
“Ha voluto il giuramento e lo ha ottenuto ma questo non significa nulla. Giusto conte?” Lucrezia aveva parlato con un filo di voce all’orecchio del conte.
“Avete perfettamente ragione, madonna. Ho già inviato un messaggero a sua santità. Aspettiamo che ci indichi il comportamento da tenere” fu la risposta del conte.
 
 
Ferrara – Palazzo Ducale
29 ottobre 1597
Don Cesare si era appena affacciato al balcone della loggia ducale da dove  il popolo ferrarese lo aveva acclamato, seppur molto tiepidamente, nuovo duca.
Rientrato si era diretto allo studio dove lo attendeva il segretario Laderchi.
“Vostra altezza, avete avuto il riconoscimento da parte del giudice dei Savi, quello del popolo e dei nobili, mi duole dirvi di non illudervi. Roma non resterà a guardare. Mi sono già giunte notizie sull’intenzione di Sua Santità e non sono decisamente a Vostro favore”.
Il duca Cesare si accasciò sconsolato sulla sedia del suo predecessore, “Cosa mi consigliate di fare? Pensate sia possibile una negoziazione?”
“Possiamo tentare” rispose Laderchi “esaminerò i possibili candidati all’operazione e poi vi farò sapere”
Il duca continuò a parlare, forse più a se stesso che al segretario “Don Alfonso mi ha nominato erede ma non ha posto le basi perché io possa esserlo. Per quanto abbia tentato di ottenere l’approvazione papale non ha fatto in modo che i nobili mi fossero fedeli. Se dovessimo arrivare ad uno scontro armato, quanto dei nobili presenti al giuramenti sarebbero tra le mie file e quanti in quelle papale?”
 
Roma – Santa Sede
 
Il Cavalier Gualengo entrò timoroso nella grande sala delle udienze, questa volta temeva ciò che Sua Santità doveva dirgli.
 
Appena giunto di fronte al trono pontificio si inchinò e baciò la pantofola di Sua Santità Clemente VIII.
 
“Sua Santità mi ha fatto chiamare?”
 
“Ci è appena giunta la notizia della dipartita del duca Alfonso. Vi invito a persuadere Don Cesare a non voler contrastare la volontà Apostolica.  Comunicate a Ferrara che la Santa Sede è disposta ad offrire a Don Cesare larghe concessioni, a creare Cardinale il fratello purchè non si faccia nominare duca e ci costringa a procedere con rigore.”
 
Sua Santità fu breve e deciso, detto ciò porse la mano all’ambasciatore e lo congedò.
 
 
4 novembre 1597
Sua Santità Clemente VIII guardava dalla finestra il cielo plumbeo e non si accorse dell’arrivo del suo segretario.
“Vostra santità” lo chiamò per la prima volta nelle vicinanze della porta, poi avvicinandosi ripetette “Vostra santità” e solo allora il papa si girò.
“Eminenza non vi avevo sentito bussare. Ero immerso nei miei pensieri. Il problema di Ferrara non mi dà tregua.”
“Vi capisco Santità. Sono qui proprio per questo”.
Poggiando una grande pergamena sulla scrivania continuò “Questo è l’edito che dichiara formalmente devoluto il ducato di Ferrara alla Chiesa”. Poi poggiandone un secondo continuò “Questa invece è l’intimazione al duca Cesare a lasciare immediatamente la città. Verrà affissa in tutte le strade di Roma e spedita in tutte le città dello Stato. Tre nunzi apostolici sono già pronti per consegnare copia dell’editto a  tutte le corti cattoliche.”
Il Papa prese in mano i due fogli “Credete basterà?”
“Purtroppo dubito che Cesare D’Este andrà via da Ferrara” rispose il cardinale.
“Bene, allora dobbiamo anche cominciare a reclutare nuove milizie dentro e fuori lo stato pontifico, dobbiamo essere pronti a prenderci ciò che ci appartiene. Se necessario con la forza.” Concluse il Papa riconsegnando i documenti al cardinale.
Ferrara – Palazzo Ducale
20 novembre 1597
Il duca Cesare non era mai stato un uomo molto risoluto e il peso del governo di un ducato era per lui troppo gravoso.
La sera era sempre sfinito, la duchessa Virginia lo vedeva rientrare negli appartamenti ducali ad un’ora sempre più tarda e sempre più pensieroso. Era seriamente preoccupata.
Quella sera non resistette e mentre il marito si riposava davanti al camino gli si andò a sedere di fronte.
“Cesare mi preoccupate, non Vi avevo mai visto così. Capisco che il governo di una città e tutto quello che ha comportato sia molto pesante per Voi. Ma cosa posso fare per alleviare il vostro peso?”
Cesare la guardò, sorridendole debolmente “Mia cara, come vorrei poteste fare qualcosa. Purtroppo ormai tutto è perduto. Proprio oggi ho ricevuto la notizia che il messi che avevo inviato al Papa non sono stati neppure ascoltati. Qualsiasi negoziazione è preclusa. Non resta che la resistenza armata. Ma non avrei mai voluto arrivare a tanto. Le casse dello stato sono esauste. Uno dei miei primi atti dovrà essere l’aumento delle gabelle. Come potrà il popolo ferrarese amare un tale duca?”
Cesare si alzò e si inginocchiò di fronte alla moglie “Per contrastare l’esercito papale dovremo fortificare borgo San Luca, irrobustire i presidi militari delle zone di confine e poi dovrò difendere la Romagna. Ho già dato l’ordine di inviarvi ottomila soldati. Come pensate risponderà Sua Santità a tutto questo?”
Poi alzandosi baciò la moglie sulla fronte e si diresse verso la sua camera da letto “Ora andate a dormire”.
Virginia rimase a lungo davanti al camino, le lacrime cominciarono a scorrere prima piano, poi sempre  più copiose dai begli occhi scuri della duchessa, poi si alzò e raggiunse anche lei la propria camera.
 
Roma – Piazza San Pietro
22 dicembre 1597
 
Piazza San Pietro era gremita, i popolano si mischiavano ai signori  e tutti erano in attesa dell’apparizione del Pontefice alla finestra dalla quale solitamente impartiva le benedizioni, solo che questa volta non si trattava di una benedizione, il popolo romano sapeva bene che ci sarebbe stato un annuncio di guerra, ormai erano diversi giorni che per le strade di Roma circolava la voce che il duca Cesare d’Este non aveva dato seguito all’intimazione papale a lasciare il ducato e i romani sapevano che sua Santità Clemente VIII non era persona da lasciar correre così, aveva minacciato la presa delle armi e ora avrebbe mantenuto la promessa.
Piazza San Pietro, nonostante la moltitudine di persone, era silenziosa, tutti erano in tacita attesa.
Le alte porte della basilica si aprirono e ne uscì un drappello di soldati nella tipica divisa a strisce e si posizionarono proprio sotto la finestra del Papa, era giunto il momento.
La finestra venne aperta da due sacerdoti e Sua Santità Clemente VIII apparve circondato dai cardinali. Dopo aver benedetto la folla un ecclesiastico cominciò a leggere la bolla di scomunica di Cesare d’Este..

Clemente Vescovo, servo dei servi di Dio, a futura memoria sulla questione.
Egli che regna nell'alto dei Cieli, a cui è dato ogni potere in cielo ed in terra, ha affidato la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica, al di fuori della quale non c'è salvezza, ad uno solo in terra, cioè al principe degli apostoli Pietro, e al successore di Pietro, il pontefice di Roma per essere da costui governata con pienezza di potere. Costui e solo costui è stato costituito principe di tutte le genti e di tutti i regni, per erigere, demolire, disgregare, disperdere, impiantare e costruire, perché possa preservare il suo fedele popolo, cinto dal legame reciproco della carità, nell’unità dello Spirito e presentarlo salvo ed incolume al suo Salvatore.
Obbedendo a tale dovere, noi chiamati per bontà di Dio al governo della suddetta Chiesa, non tralasciamo alcuna fatica, adoperandoci con ogni sforzo, affinché la stessa unità sia conservata integra.
Ma il numero degli empi è cresciuto, fra questi è subentrato Cesare D’Este che si è dimostrato nemico della chiesa, occupando il trono, sta usurpando con atti mostruosi a suo favore il luogo del supremo comando della Chiesa nonché la sua più alta autorità e giurisdizione, riconducendo lo stesso regno, ad una misera condizione
Essendo tutti questi fatti ben palesi e noti a tutte le nazioni, cosicché non vi è più spazio rimasto per giustificazioni, difese o temporeggiamenti, d’innanzi all’empietà di detto Cesare D’Este, siamo costretti dalla necessità a levare contro di lui le armi della giustizia, non potendo placare l’indignazione. Sorretti dunque da quella Autorità che volle collocarci su questo supremo trono di giustizia permettendo tale dismisurato onere, in pienezza della potestà apostolica, dichiariamo tale Cesare scomunicato. In aggiunta, dichiariamo il medesimo Cesare, con il predetto diritto, privato del regno, così come di ogni dominio, dignità e privilegio; nonché solleviamo i nobili, i sudditi ed i popoli di questo regno, e tutti gli altri uomini, e coloro che hanno in qualche modo prestato giuramento, e noi stessi con la presente autorità, dal rispettare ogni altro suo potere, fedeltà e debito, ora e per sempre. Raccomandiamo ed ordiniamo a tutti e ai singoli nobili, ai sudditi, ai popoli e agli altri già detti, di non obbedire ai suoi ordini né alle sue leggi. Coloro che agissero diversamente, li includiamo nella sentenza della stessa scomunica.Poiché sarebbe in realtà troppo difficile che tali atti venissero portati ovunque sarebbe necessario, vogliamo che le copie di questi, effettuate per mano di un pubblico notaio e sigillate con il sigillo di un prelato ecclesiastico di questa curia, abbiano validità in ogni procedura giuridica, e in qualunque località presso qualunque popolo, nel caso siano esibite o esposte
 
Dato a Roma presso il santuario di Pietro, nell’anno dell’incarnazione del Signore 1597, il 22 dicembre, nel quinto anno del nostro pontificato
 
 
 
 


Appena terminata la lettura il Papa prese dalle mani del suo segretario un grande cero acceso e lo lanciò dalla finestra nello stesso momento cominciarono a risuonare suoni di trombe, tamburi e salve di cannoni.
La folla spaventata lanciò un urlo poi tacque nuovamente in attesa delle parole del santo padre.
“Si può procedere con la campagna militare” poi benedisse nuovamente la folla, si girò e rientrò nei suoi appartamenti.
 
Ferrara – Cattedrale
25 dicembre 1597
Nella notte la neve era caduta copiosa sulla città rivestendola di un manto candido.
Il duca, accompagnato dalla moglie e dai figli era giunto in chiesa molto presto, attraversando il breve percorso che divideva la cattedrale dal palazzo ducale a piedi.
Monsignor Fontana stava benedicendo l’ostia quando le porte si aprirono e un gelido vento entrò a far rabbrividire tutti i presenti.
Un Messo scortato da quattro guardie papali varcò l’entrata e si diresse verso l’officiante.
“Come osate?...” il duca tentò di fermare gli indesiderati ospiti ma fu subito fermato e costretto a rientrare al suo posto.
Il messo consegnando una pergamena al vescovo pronunciò solo “Leggete”.
Monsignor Fontana srotolò il foglio e alzando li occhi verso il duca scosse il capo poi cominciò la lettura della scomunica.
La duchessa cominciò a tremare e strinse forte la mano del marito.
“Non intendo continuare ad ascoltare” si alzò e porgendo la mano alla moglie attraversò  la navata e uscì.
 
Ferrara – Palazzo Ducale
26 dicembre 1597
Il duca Cesare era seduto nella sala delle udienze in attesa dell’arrivo dei membri delle più autorevoli famiglie di Ferrara, li aveva convocati per decidere come affrontare la nuova situazione che si era venuta a creare.
L’ora dell’incontro però era già trascorsa da oltre quindici minuti e nessuno si era presentato, i suoi timori si stavano materializzati. La scomunica non era più così grave come al tempo degli Svevi ma comportava la diminuzione della fedeltà dei sudditi e così era accaduto anche a lui.
Il suo animo era già vacillante e timoroso di natura, Cesare non si era mai fato illusione di essere un duca forte come i suoi predecessori ma questa scomunica lo sprofondava ancora di più nel suo smarrimento.
La porta si aprì e per un attimo il duca si illuse che le nobili famiglie fossero al suo fianco, invece entrò solo Laderchi.
“Quali nuove?” domandò con la voce spezzata.
“Purtroppo nulla di buono, Sua maestà cattolica non ha ancora rivelato i suoi intendimenti mentre abbiamo ricevuto notizia che Comacchio e Cento si sono ribellate. Gli ambasciatori di Francia, Parma e Mantova ci hanno tolto il loro appoggio e si dichiarano favorevoli al Papa. Venezia si dichiara neutrale. L’esercito papale sta attraversando il ducato d’Urbino e entro domani sarà ai confini dello Stato”
Il duca si alzò e si diresse verso la finestra “Cosa mi resta da fare? Le casse dello Stato sono vuote. L’esercito è mal provvisto e disorganizzato, sempre se mi è ancora fedele. Anche i nobili congiurano alle mie spalle. Che soluzioni mi restano?” Il duca tornò verso la poltrona e sedendosi mise le mani alle tempie, poi continuò “ Fatemi solo un altro favore, convocate padre Palma ho bisogno di confessarmi.”
________________________
Stanze del Duca
Il duca era inginocchiato di fronte al crocifisso in tacita preghiera, gli occhi chiusi, la testa bassa e le mani congiunte, quando sentì bussare alla porta, si alzò ed andò ad aprire.
“Padre Palma entrate, vi aspettavo con ansia” baciando la mano del gesuita.
“Figliolo, conosco il vostro cuore e i problemi che lo assillano, sediamoci e ditemi tutto”
Si accomodarono uno di fronte all’altro, vicino al grande camino acceso, per un po’ Cesare rimase in silenzio poi cominciò a parlare.
“Padre, ormai tutto è perso. Anche voi la pensate come me? Tutti lo pensano. Volevo mantener fede alle promesse fatte al duca Alfonso ma purtroppo non so più come contrastare sua Santità.” Sospirando continuò “Cosa mi consigliate?”
“Il buon duca Alfonso non vi potrà certo accusare di non aver tentato il tutto per tutto. Ma ormai la situazione è diventata insostenibile. Dovete fare tutto per evitare una guerra che avete già perduto in partenza. Sapete, Voi stesso, benissimo di non poter contare sulla fedeltà dei sudditi, dopo la vostra scomunica. Non vi resta che una sola soluzione. Venire a patti con Papa”
“Venire a patti. Cedere su tutti i fronti, vorrete dire?”
“Perché cedere su tutto. Il Papa non ha potere su Modena e Reggio. Trovate un paciere degno di fiducia e dategli ampi poteri. Qualcuno che sia vicino alla Santa Sede e non sia incorso nelle censure ecclesiastiche”
“Chi padre, chi? A Roma il cavalier Gualengo aveva già tentato di mediare ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti. A chi posso affidare i pieni poteri?”
“Conosco il malanimo che intercorre tra madonna Lucrezia e voi. Forse è giunto il momento di porvi rimedio e chiedere il suo aiuto. La duchessa, sorella del nostro defunto duca, è principessa religiosa e ben informata negli affari politici. Quale intermediario migliore di lei?”
“Conoscete bene il risentimento di Madonna Lucrezia nei confronti di mio padre e quindi miei. Ritenete che sia capace di accantonarli per il bene del ducato. Io temo possa approfittarne per vendicarsi”
“Cosa avete da perdere, ormai è già tutto perduto. Il ducato integro non potrete mai mantenerlo e sono sicuro che madonna Lucrezia tenterà di ottenervi le condizioni migliori. Vi fidate di me?”
“Certo padre. Mi fido di Voi e mi fiderò di mia cugina.”
 
Ferrara – Palazzo Ducale
27 dicembre 1597
Il duca Cesare era appena rientrato dalla solita messa mattutina quando il segretario Laderchi lo trovò seduto alla poltrona nello studio ducale.
“Avete chiesto udienza alla duchessa per mio conto?”
“Si Vostra altezza. La duchessa vi attende. Potete raggiungerla nel suo studiolo anche ora”
“Bene, vado immediatamente”.
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La duchessa Lucrezia attendeva il cugino nel suo studiolo, continuava a torturarsi le mani e non riusciva a rimanere ne seduta ne alzata.
Quando udì bussare alla porta per un momento il cuore le si fermò, il momento era giunto.
“Cugino caro, entrate. Vi stavo attendendo con ansia. Cosa vi porta così di buona mattina nelle mie stanze?”
Cesare si inchinò e baciando la mano che Lucrezia gli porgeva “Cugina ho da parlarvi di cose molto urgenti”
“Accomodatevi”.
Lucrezia si sedette sulla poltrona, lisciando la seta della gonna e poggiando le mani in grembo attese che si sedesse anche Cesare e cominciasse a parlare.
“Mi cara cugina, conoscete molo bene la situazione che si è venuta a creare tra il nostro ducato e Sua  Santità. Vostro fratello ha ritenuto di eleggermi suo successore  e ritengo, non sbagliando. E’ vero mio padre è nato illegittimo ma vostro nonno, nostro nonno, prima di morire sposò mia nonna e legittimò mio padre. Ritengo quindi di essere nel mio pieno diritto quando rivendico il trono ducale. Conosco molto bene le animosità che intercorrevano tra voi e mio padre, ma voglio sperare che, per il bene del ducato vogliate seppellirle. Sono qui ha chiedervi di intercedere per nostro conto presso la santa sede in merito alla contesa che ne è sorta.”
Cesare parlò tuto d’un fiato e poi tacque. Per un lungo momento anche la duchessa tacque poi si alzò e raggiunse la finestra, guardando la città ancora parzialmente addormentata “Il mio desiderio più grande e i trascorrere qui i miei ultimi giorni, nella città dove sono nata e vissuta. Farò tutto quanto in mio potere perché non mi si costringano a lasciarla. Partirò immediatamente per incontrare il cardinale legato purché voi mi conferiate pieni poteri.” Poi si rigirò e guardò Cesare fisso negli occhi.
Cesare si alzò e la raggiunse, prendendole la mano “Vi ringrazio cugina. Ogni cosa voi concorderete sarà ben fatta. Posso solo chiedervi di farvi accompagnare, in questo difficile viaggio, dal Cavalier Gualengo, conosce molto bene molti cardinali e vi potrà essere di aiuto.”
“Sarà per me un onore garantirmi il suo aiuto”.
 

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Capitolo 3
*** La convenzione di Faenza - parte I ***


Ferrara – Palazzo ducale
28 dicembre 1597
 
Lucrezia discese piano l’ampia scalinata, ad attenderla nell’ampio cortile interno del palazzo ducale completamente ricoperto dalla neve discesa nella nottata, vi erano una compagnia di cavalieri e la lettiga.
 
Lucrezia si sedette, accomodò la coperta di pelliccia fin sotto il mento e attese.
 
Otto uomini sollevarono la lettiga e la piccola compagnia cominciò il lungo e faticoso viaggio.
 
Lucrezia all’interno socchiuse gli occhi, cullata dal dondolio cominciò a visualizzare frammenti della sua via passata, ecco sua madre Renea, sua sorella Eleonora…
 
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Ferrara
 
31 marzo 1554
 
Il duca Ercole entrò bruscamente nella biblioteca. La duchessa Renea stava leggendo alle figlie, sedute ai piedi della madre, la bibbia riformata.
 
“Come sospettavo. Quante volte vi ho già detto, pregato e anche implorato di non leggere quel libro alle nostre figlie. Sono principesse devote al Santo Padre e tali devono rimanere” invei immediatamente il duca.
 
La duchessa si alzò e posando il libro aperto sulla sedia si diresse verso il marito che era rimasto appoggiato alla porta “E quante volte io vi ho risposto che le mie figlie saranno educate nell’unica vera fede. Cosa siete venuto a fare qui?”
 
“Mi è stato appena comunicato che non volete partecipare alle cerimonie per la celebrazione della Santa Pasqua, ma questo ormai non mi sorprende più”.
 
“E allora perché siete venuto?” rispose Renea
 
“Ormai è da molto tempo che non assistete alle messe di corte, certo non mi sorprende che non vogliate assistere a quella di Pasqua. Ma come osate impedire alle mie figlie di assistervi?”
 
Il duca Ercole pronunciò quelle parole urlando e le principesse temendo il peggio si abbracciarono nascondendo i visi l’una sulla spalla dell’altra.
 
La duchessa emise un lungo sospiro e poi molto pacatamente rispose “Perché sono le mie figlie e mi sono sempre occupata della loro educazione e continuerò a farlo secondo il mio cuore. Ora vogliate allontanarvi da quella porta. Io e le mie figlie partiremo domani per la villa di Consandoli dove trascorreremo tutto il periodo delle festività. Potrete giustifica così la nostra assenza alle celebrazioni.”
 
 
7 settembre 1554
 
Gli appartamenti della duchessa Renea erano silenziosi, già da molte ore sia la duchessa che le figlie si erano ritirate nelle proprie camere per la notte.
 
Il silenzio fu bruscamente interrotto dal rumore di numerosi passi maschili. Una compagnia di soldati ducali aprì bruscamente le porte degli appartamenti della duchessa e vi entrò senza farsi annunciare.
 
Le dame cominciarono ad urlare e la duchessa uscì dalla sua stanza senza neppure indossare la vestaglia, “Cosa accade?” chiese preoccupata, ma appena visti gli uomini del duca capì.
 
“Come osate introdurvi nei miei appartamenti in questo modo  e nel cuore della notte?”
 
“Vostra altezza deve scusarci ma abbiamo ricevuto l’ordine di condurvi immediatamente al castello. Il duca, Vostro marito, è stato molto chiaro. Doveva avvenire questa notte e senza avvisi. Vi prego pertanto di vestirvi e di seguici senza opporre resistenza”
 
“Altrimenti” replicò provocatoria la duchessa.
 
“Altrimenti saremo costretti ad usare la forza. E credetemi altezza, vorrei evitarlo”
 
Nel frattempo anche le principesse Lucrezia e Eleonora, sentito il forte trambusto provenire dalla stanza materna erano giunte.
 
“Madre cosa accade?” chiese Lucrezia abbracciando la madre.
 
“Vostro padre mi sta facendo arrestare” rispose secca la duchessa
 
Eleonora cominciò a piangere e si buttò al collo della madre “No!!! Noi verremo con voi madre. Non vi lasceremo sola”
 
Il capitano intervenne immediatamente e prendendo le principessine per le braccia le allontanò dalla madre “Mi dispiace contraddirvi altezza. Vostro padre ha dato precise  istruzioni anche in merito a voi. Sarete condotte, questa sera stessa, al monastero del Corpus Domini ed affidate alle cure di vostra zia”
 
Le principesse guardarono la madre e ricominciarono a piangere ed urlare.
 
“Non potete togliermi le mie figlie” urlò la duchessa cercando di raggiungere le figlie che nel frattempo venivano trascinate fuori dalla stanza da quattro soldati.
 
Il capitano le si parò di fronte e trattenendola “Il duca è stato molto chiaro. Finchè non ritroverete la ragione e ricomincerete a praticare l’unica vera religione sarete custodita in alcune stanze del castello, servita da nuove dame e non vi sarà permesso di rivedere le vostre figlie. Ora vestitevi o mi costringerete a condurvi via in camicia da notte”
 
 
2 ottobre 1560
 
Il 3 ottobre 1559 il duca Ercole II era deceduto.
L’erede Alfonso, non era a Ferrara ma in Francia presso la sorella Anna duchessa di Guisa.
Renea immediatamente mandò dei messaggeri ma il nuovo duca giunse a Ferrara solo con il nuovo anno.
Renea ormai libera da vincoli coniugali, dopo l’insediamento del nuovo duca, cominciò ad organizzare la partenza per il suo castello di Montargis in Francia.
 
La duchessa vedova Renea era pronta, le poche carrozze erano state approntate e tutto era sistemato per il suo rientro in Francia, il suo viso era radioso come non lo era da molto tempo, l’unica cosa che l’affliggeva era il dover lasciare le sue adorate figlie.
Quella mattina tutti si erano svegliati presto per preparare le ultime cose.
 
Le principesse Lucrezia ed Eleonora attendevano vicino alla porta l’arrivo della madre.
 
Renea diede un ultimo sguardo alla camera che era stata sua per molti anni e con un sospiro prese sotto braccio le figlie e percorse l’ampio corridoio.
 
Eleonora non smetteva di piangere. “Figlia mia basta di piangere” la sgridò dolcemente Renea posando un bacio sui biondi capelli della figlia.
“E’ giusto così. Sapete come desidero tornare in Francia e se avessi potuto lo avrei fatto anche prima. Mi mancherete ma non posso portavi con me. Lo sapete. Non me lo permetterebbero. Presto sarete entrambe spose e madri. Non avete più bisogno di me.”
 
“Madre ci mancherete molto” disse Lucrezia prima di abbracciare e baciare la madre per l’ultima volta.
 
La stessa cosa fece Eleonora poi Renea salì sulla sua carrozza e senza voltarsi in dietro lasciò Ferrara.
 
 
1 novembre 1562
 
Il duca Alfonso aveva fatto convocare le sorelle nel suo studio e quando giunsero le accolse con un caloroso sorriso e un bacio sulla fronte.
 
“Ho una sorpresa per voi” annuncio tutto allegro prendendo le sorelle sotto braccio e dirigendosi verso la porta.
 
“Cosa succede Alfonso non vi ho mai visto coì allegro” chiese meravigliata Lucrezia
 
“Ve l’ho detto ho una sorpresa per voi” e nel frattempo aprì le porte dell’appartamento che aveva fatto preparare per le sorelle 
 
“Da oggi queste sono le vostre nuove stanze, Anzi per meglio dire i vostri appartamenti. Ho pensato che avreste gradito il fatto che fossero contigui. Li ho appena fatti adornare di nuove pitture. Spero siano di vostro gradimento?”
 
Le principesse cominciarono a girare su se stesse con il naso per aria ad ammirare i sontuosi affreschi  per poi attraversare di corsa tutte le stanze.
Quando ebbero finito tornarono felici e si buttarono fra le braccia del fratello continuando a ringraziarlo.
 
“Sono felice che vi piacciano. Le soprese non sono finite qui. Da oggi vi sono assegnati 200 scudi al mese per ognuna e il mantenimento di 28 persone di servizio. Sarete libere di dare conviti e trattenimenti musicali a vostro piacere e di accogliere chi meglio vi piaccia”
 
Le principesse non sapevano cosa dire e insieme riuscirono solo a rispondere “Grazie”
 
 
18 gennaio 1570
Appartamenti delle principesse Lucrezia ed EEleonora
 
Negli appartamenti delle principesse c’era grande fermento, Lucrezia continuava ad andare da una stanza all’altra con nuovi ordini fino a quando Lucrezia, che era come al solito seduta su un alta poltrona vicino al grande camino non la chiamò.
 
“Lucrezia, sorella mia tranquillizzatevi. Nostro fratello ha già predisposto tutto pensate solo a finire di vestirvi”
 
Lucrezia si fermò e si sedette ai piedi di Eleonora  e prendendole la mano “Sorella, avrebbe dovuto essere il tuo grande giorno se solo la tua salute non fosse così cagionevole”
 
“Non fatevene cruccio, io sono felice di non essere costretta ad abbandonare queste stanze. Siete felice?”
 
“Si, ormai non pensavo più di sposarmi. Ringrazio il Signore Iddio per avermi destinata consorte di un tale Principe. Mi sono state raccontate cose splendide sul suo conto. Prego solo Iddio che voglia benedire queste nozze con l’arrivo di molti figli.”
 
“Non temete, vedrete che presto mi annuncerete la buona novella. I medici che vi hanno visitata sono tutti concordi che nulla impedisce un veloce concepimento.”
 
Dal camerino uscì una delle dame di Lucrezia “Madonna Vi prego affrettatevi tra poco giungerà Vostro fratello a prendervi e ancora non abbiamo finito di vestirvi”
 

Ferrara – Duomo
 
La corte tutta era schierata di fronte all’entrata del duomo mentre la popolazione era disposta in due ali ai lati, tutti erano in attesa del corteo dello sposo.
 
Il piccolo corteo raggiunse la piazza tra il mormorare della popolazione e un affascinante uomo di circa quarant’anni scese da cavallo e raggiunse il duca Alfonso.
 
Lucrezia rimase pietrificata, il viso improvvisamente le sbiancò e se non avesse appoggiato la mano sul braccio del fratello probabilmente sarebbe caduta, guardò Alfonso spalancando gli occhi e questo le rispose con un impercettibile gesto del capo.
 
La popolazione immediatamente fece silenzio e attese le parole del visitatore.
 
L’uomo si tolse il cappello piumato e con un ampio gesto si inchinò prima di fronte al duca  poi a Lucrezia “Le loro altezze devono scusarmi ma dai loro visi desumo che non sono stato annunciato. Sono Cesare Gonzaga figlio di Ferrante duca di Guastalla. Sarò io a rappresentare Francesco Maria nella cerimonia nuziale. Nessuno vi aveva avvertito che sarebbe stata una cerimonia per procura?”
 
Per un momento tutti fecero silenzio poi il duca Alfonso porse la mano al duca Cesare “Purtroppo no. Attendevamo lo sposo. Ma immaginiamo che qualcosa di molto grave lo abbia trattenuto.”
 
Poi prese la mano della sorella e la poggiò su quella del duca Cesare “ Che la cerimonia abbia inizio”
 
Il duca Cesare e Lucrezia entrarono in chiesa e si incamminarono lungo la navata.
 
“Comprendo la Vostra delusione ma Francesco mi ha assicurato il suo arrivo entro pochi giorni” cercò di giustificare il duca Cesare.
 
“Certo non preoccupatevi” rispose Lucrezia anche se il fazzoletto che teneva nell’altra mano era ormai diventato invisibile.
 
 
5 febbraio 1570
 
Finalmente Francesco Maria era giunto a Ferrara il 28 gennaio accolto da banchetti, mascherate, balli e rappresentazioni, la principessa sembrava soddisfatta e le era tornato il sorriso.
 
Lucrezia era ancora a letto quando il suo sposo entrò in camera già vestito.
 
“Marito mio come mai siete già vestito a quest’ora del mattino?”
 
“Sono venuto a salutarvi, ragioni particolari mi impongono di partire”
 
“Io… sarò pronta in pochissimo tempo” disse Lucrezia scendendo dal letto
 
“No. Non affrettatevi. Voi non verrete con me”
 
“Come?”
 
“In questo momento non vi posso condurre con me. Ho già parlato con vostro fratello e rimarrete a Ferrara fin quando non vi verrò a prendere” poi si avvicinò, prese la mano di Lucrezia e la bacio.
 
Come era entrato Francesco Maria se ne andò lasciando Lucrezia sola e sconsolata a guardare la porta che si richiudeva alle spalle del marito
 
 
17 maggio 1570
 
“Madonna una missiva per voi da Urbino”
 
Lucrezia immediatamente smise di leggere e prese la lettera che il valletto gli porgeva, poi volse lo sguardo verso Eleonora e sorrise.
 
“E’ di Francesco” gli occhi illuminati di felicità alla vista del sigillo.
 
“Eleonora, leggi. Francesco Maria mi annuncia una sua prossima visita. Devo immediatamente parlare con Alfonso e far organizzare gli intrattenimenti” così dicendo aprì la porta ed uscì.
 
 
19 maggio 1570
 
Lucrezia continuava ad alzarsi e volgere lo sguardo alla finestra che dava nel cortile interno per poi tornare vicino a Eleonora e continuare a leggere.
 
“Lucrezia vi prego sedetevi, mi state facendo venire mal di capo” sbottò Eleonora.
 
“Perdonami cara. E’ che sono già trascorsi due giorni dall’arrivo della missiva di Francesco, mi auguravo che almeno oggi sarebbe giunto”
 
Proprio in quel momento dal cortile sottostante udirono lo scalpitare dei cavalli, Lucrezia immediatamente si alzò e guardò fuori dalla finestra.
 
“E’ lui” e corse via lasciando cadere il libro ai piedi della sorella.
 
 
5 giugno 1570
 
Lucrezia era allo scrittoio e stava apponendo il sigillo alla missiva per il suocero.
 
“Eccola e portate il mio più sincero affetto a vostro padre” disse consegnando la lettera nelle mani del marito.
 
Francesco Maria si inchinò e voltandosi se ne andò.
 
 
16 novembre 1570
 
All’inizio del novembre 1570 furono uditi rumori intensi come di acque scroscianti e “rombanti” verso Ravenna, nell’antico corso del Po di Primaro.
Alla mattina del 16 novembre furono avvertite piccole scosse. Il terremoto causò collassi dei camini, apri fessure nelle case e provocò grande panico nella popolazione.
 
Alfonso entrò nella camera della camera della sorella Eleonora facendo il possibile per non svegliarla.
 
“Dorme?” chiese a Lucrezia che era seduta ai piedi del letto
 
“Si, si è appena addormentata”
 
“E voi come state? I vostri dolori di petto sono diminuiti?” continuò Alfonso dopo la risposta della sorella.
 
“Molto meglio, ma anche io sono molto debole”
 
“Siete sempre convinta di voler rimanere nei vostri appartamenti anche questa notte? Dopo quello che è accaduto oggi. Non volete seguire l'esempio degli abitanti che si rifugiano nelle vie, nelle piazze e nei giardini. Anche io questa note dormirò in giardino, in un cocchio”.
 
“No, ne ho discusso con Eleonora, preferiamo rimanere nelle nostre stanze. E poi nostra sorella è toppo debole e febbricitante per trascorrere la notte all’aperto. Se Iddio vorrà che moriamo, morremo. Non temo la morte, fratello.”
 
“Come volete. Ma per ogni eventualità lascerò il capitano Contrari con una piccola guarnigione a vostra protezione.”
 
“Grazie”.
 
 
17 novembre 1570 – ore 3:00
 
Lucrezia dormiva nella sua camera quando un forte boato la svegliò, immediatamente si sedette sul letto che oscillava vorticosamente. La principessa cominciò ad urlare e cercò di scendere dal letto senza riuscirci, nello stesso momento la porta si spalancò e il capitano Contrari entrò e mantenendosi in un equilibrio precario raggiuse il letto e sollevate le coperte prese fra le braccia Lucrezia che gli si aggrappò al collo terrorizzata.
 
“Mia sorella?” domandò con la voce spezzata dalla paura
 
“Ho già mandato a prenderla. Non preoccupatevi…. Aggrappatevi stretta, madonna”
 
Lucrezia non se lo fece ripetere una volta di più e strinse forte le braccia attorno al collo del capitano Contrari e sprofondò il viso sull’ampio petto.
 
“Presto tutti fuori di qui” urlò il capitano ai due servitori che ancora erano nelle stanze a raccogliere gli ultimi oggetti, ma appena il capitano e Lucrezia uscirono il tetto dell’appartamento cadde.
“Sono usciti?” domandò Lucrezia rialzando il viso.
 
“Purtroppo no, madonna. Il tetto è caduto prima che riuscissero a lasciare la stanza” rispose Contrari.
 
Lucrezia cominciò a piangere e riappoggiò il viso sul petto del capitano.
 
Appena raggiunsero il cortile trovarono ad attenderli il cardinale Luigi che aveva già fatto salire Eleonora su una giumenta e teneva l’altra pronta per Lucrezia.
 
“Grazie Capitano” disse cercando di prendere la sorella dalle braccia del Contrari.
 
“Non preoccupatevi, monsignore. Ci penso io” rispose Contrari poggiando il più delicatamente possibile Lucrezia sulla giumenta e aggiustandole lo scialle sulle spalle.
 
Lucrezia sciolse l’abbraccio, “Grazie Capitano” disse continuando a tenergli la mano e guardandolo fisso nei profondi occhi scuri.
 
Il capitano baciando la mano di Lucrezia “E’ stato un onore esservi di aiuto” poi diede una pacca al cavallo che partì alla volta del palazzo del cardinale.
 
 
2 gennaio 1571
 
Lucrezia volse un ultimo sguardo al palazzo che l’aveva vista nascere e crescere, poi con le lacrime agli occhi salì sulla carrozza dove l’aveva preceduta sua sorella Eleonora.
 
“Cosa avete Lucrezia. Non siete contenta? Era da molto che attendevate ce vostro marito vi chiamasse a Pesaro.”
 
“Si, attendevo… attendevo che mi venisse a prendere e invece… eccoci qui, ho dovuto chiedere a nostro zio di accompagnarmi fino alla mia nuova casa. Neppure nostro fratello l’ha voluto fare. Voi tra poco mi lascerete, Alfonso mi accompagnerà solo fino a Primaro e poi sarò sola ad affrontare la mia nuova vita…”
 
“Vedrete che andrà tutto bene” rispose Eleonora cercando più di convincere se stessa che la sorella.
 
“Credete, ho un brutto presentimento sorella cara. Oggi finisce un periodo della mia vita.
Quando Anna è partita mi scrisse che il viaggio era stato un modo per tagliare tutti i fili della sua italianità. Io rimarrò in terra d’Italia ma ora capisco cosa intendeva. Tutto ciò che conosco, che ho amato, è a Ferrara. Lì ho vissuto momenti felici e momenti tristi. La nostra vita non è sempre stata felice, soprattutto all’inizio, nostra madre era troppo rigida e la sua vigilanza severa, guai errare… ma dopo la sua partenza finalmente ho potuto essere libera, ho avuto la mia corte, la mia esistenza ha brillato… Ora dopo il matrimonio pensavo che avrei continuato a brillare come principessa regnante ma temo che il mio sposo non sarà così d’accordo. Ho già potuto appurare più di una vola che egli non ha per me alcun affetto e questo, cara Eleonora, è preludio di un nero avvenire…”
 
Eleonora non seppe cosa rispondere, allungò solo una manina inguantata e l’appoggiò su quella della sorella.
 
 
9 gennaio 1571 - Pesaro

Lucrezia decise di indossare il suo vestito più elegante, broccato di velluto rosso e gioielli a profusione ma il suo animo era triste e neppure l’abito più sontuoso l’avrebbe mai nascosto.
 
Quando salì sulla lettiga lo zio si avvicinò e prendendole la mano le chiese “Siete pronta mia cara? Tra poco incontrerete la vostra nuova famiglia”
 
“Sono pronta da molto tempo a compiere il mio dovere. Fate partire il corteo”
 
Ad un miglio di distanza dalla città ad attenderla vi erano i marito, il duca Guidobaldo, suo suocero e il cardinale Giulio della Rovere.
 
Il duca appena la vide l’abbracciò forte e la baciò affettuosamente sulle guance quasi a voler compensare la freddezza del suo sposo.
 
Lucrezia tornò a sedersi sulla lettiga e il corteo si diresse verso la città dove il clero e i gentiluomini della corte l’attendevano per accompagnarla al duomo.
 
Lucrezia cominciò a sorridere al suo nuovo popolo che l’acclamava dalle strade e dalle finestre.
 
Il suo cuore cominciò a riscaldarsi nel vedere l’affettuosa accoglienza che i pesaresi le stavano tripudiando ma al termine della giornata dopo la splendida cena Lucrezia dovete ritirarsi ed affrontare la dura realtà.
 
Lucrezia si era ritirata poco prima delle quattro. La giornata era stata stancante ma dopo essersi fatta togliere il pesante vestito da cerimonia e fatto indossare la vestaglia da camera cominciò a spazzolarsi i capelli in attesa dell’arrivo del suo sposo.
 
L’orologio del duomo suonò le ore sei e Lucrezia attendeva ancora…



 

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Capitolo 4
*** La convenzione di Faenza - parte II ***


28 settembre 1574
 La camera da letto del duca Guidobaldo era appena illuminata dalle candele poste ai lati del letto.
 Ad assistere le ultime ore del duca vi erano solo la moglie, la figlia Lavina e la nuora Lucrezia. L’erede, Francesco, non era ancora giunto.
 “Francesco dov’è?” domandò la duchessa alla nuora Lucrezia.
 “Non lo so. Ho mandato già molti messaggeri ad avvisarlo delle condizioni del padre, ma non ho avuto risposte. All’ultimo ho chiesto di attendere risposta ma l’unica risposta che mi ha portato…”
 Lucrezia si era fermata temendo di addolorare ancora di più la duchessa madre.
 “Non temete, ormai mi attendo di tutto da mio figlio”
 Lucrezia con un filo di voce continuò “Di avvisarlo quando sarà divenuto il nuovo duca”
 La duchessa madre si portò il fazzoletto alle labbra per fermare le parole che stava per pronunciare e con l’altra mano strinse forte quella di Lucrezia.
 Nello stesso momento Guidobaldo aprì debolmente gli occhi e rivolgendosi alle tre donne disse “E’ giunta la mia ora. Avvicinatevi Vittoria, desidero salutarvi… “
 La duchessa asciugò le lacrime e avvicinandosi al letto si inginocchio prendendo la mano del marito
 “Vittoria, siete stata una moglie perfetta. Vi ringrazio di tutto e perdonatemi i torti che vi ho fatto” Poi poggiandole la mano sul capo “Andate e che Dio vi protegga sempre”
 Vittoria piangeva disperatamente mentre si alzava per lasciare il posto alla figlia.
 Dopo che Guidobaldo ebbe benedetto la figlia “Lucrezia avvicinatevi ho da dirvi un’ultima cosa”
 Lucrezia lasciò che Lavinia le lasciasse il posto e poi inginocchiatasi anch’essa prese la mano del suocero.
 “Povera, dolce Lucrezia. Cosa abbiamo fatto? Perdonami e perdona anche tuo fratello, pensavamo di farvi cosa gradita ad unire la vostra vita a quella di mio figlio, invece… Mai avrei pensato che si sarebbe comportato in modo così sconveniente… Non ho parole per chiedervi perdono… Perdonatemi”
 Poi accarezzando il viso di Lucrezia la benedisse.
  
Gennaio 1575
 
Lucrezia era allo scrittoio, intinse la penna nell’inchiostro e cominciò a scrivere
 
Carissima sorella,
mi auguro che le feste per il Santo Natale e il nuovo anno siano trascorse gradevolmente.
Altrettanto non posso dire delle mie.
Come vi ho già raccontato nelle mie precedenti, dalla morte del duca Guidobaldo, che per me fu un amorevolissimo padre, la mia vita ha subito un’ulteriore inasprimento.
La mia salute malferma  ha dato motivo, al mio sposo, di escludermi da tutti i festeggiamenti per il suo insediamento.
Anche la notte di Natale, si è presentato in cattedrale con la sua nuova amante impedendomi di partecipavi.
Sapete che non amo lamentarmi in vano, ma questo è un comportamento indegno ed oltraggioso. Ho già scritto a nostro fratello ma da lui non ottengo risposta.
Cosa ho fatto  di male per essere costretta a subire tutte queste umiliazione?
Nella nostra bella Ferrara ero ammirata, onorata ed avevo una piena vita sociale.
Ora sono costretta a vivere in questo luogo ingrato ed inospitale.
Non posso accettare oltre un trattamento simile, comincerò immediatamente a chiedere a mio marito il permesso di ritornare a Ferrara. Non credo me lo negherà, perché farlo? Quando lui è il primo a non desiderare che io viva qui?.
 
La Vostra amatissima sorella
Lucrezia
 
 
30 aprile 1575
 
Lucrezia era seduta su una poltrona, una coperta sulle gambe e gli occhi chiusi quando sentì aprirsi la porte e il rumore di stivali sul pavimento.
Lucrezia aprì gli occhi e vide suo marito porgerle una lettera.
 
…Avendo, la duchessa mia moglie, più volte espresso il desiderio di venire a Ferrara
 soprattutto per curare il male agli occhi, che da un po’ di tempo l’affligge.
Mi sono risoluto a concederle questo desiderio,
anche se avrei preferito che rimanesse qua,
vista l’insistenza che ha dimostrato…
 
“Spero siate soddisfatta. La missiva partirà oggi stesso per Ferrara” disse Francesco Maria riprendendo la lettera e dirigendosi verso la porta.
 “Oggi stesso darò ordine di preparare i miei bauli. Entro pochi giorni sarò partita” rispose Lucrezia ma Francesco Maria non la udì, perché era già lontano.
 
 
5 maggio 1575
 
Il piccolo corteo composto dalla carrozza della duchessa Lucrezia, quella contenete i bagagli e le sue dame e i pochi cavalieri di scorta era partita da Pesaro due giorni prima e nella tarda mattinata era finalmente giunta nel cortile del palazzo ducale di Ferrara.
 Il capitano della guardia ducale si precipitò ad aprile la porta della carrozza e porse la mano alla duchessa.
 “Madonna Lucrezia è bello rivedervi a Ferrara” disse il capitano Contrari con un ampio sorriso.
 Lucrezia ricambio immediatamente il sorriso e poggiando la mano su quella del capitano “Anche per me è bello essere tornata a casa… e rivedervi”
 Poi Lucrezia volse gli occhi verso l’ampia scalinata di marmo bianco e sorrise “Non sapete quanto mi è mancato questo palazzo e tutto quanto ho lasciato qui”
 “Posso immaginarlo. Mi permettete di accompagnarvi nei vostri appartamenti”
 “Certo, mi farebbe piacere. Porgetemi in vostro braccio”
 Il capitano porse il braccio e Lucrezia vi poggio la mano. I loro occhi si incontrarono e per un lungo istante nessuno parlò, il tempo sembrava essersi fermato. Esistevano solo loro e quello che vedevano l’uno negli occhi dell’altro.
 
 
12 giugno 1575
 
Le finestre erano aperte e il calore del solo primaverile riscaldava la stanza.
Lucrezia era seduta in un ampia poltrona, le spalle alla finestra in modo che la forte luce non le disturbasse gli occhi che in quegli ultimi giorni erano tornati a darle fastidio.
 Un leggero bussare alla porta la risveglio dalla leggera sonnolenza che l’aveva colta.
 “Altezza, il capitano Contrari chiede di essere ricevuto?”
 Lucrezia aprì di scatto gli occhi e si sistemò meglio sulla poltrona, ormai la visita del capitano era una consuetudine quotidiana e lei l’attendeva con ansia.
 “Fatelo accomodare”
 Ercole Contrare entrò con passo spedito, l’ampia figura si stagliava nella stanza e la riempiva.
 Il marchese Contrari oltre a essere il capitano delle guardie era anche il capo di una delle famiglie più ricche e influenti di Ferrara oltre ad essere uno degli uomini più affascianti della corte. I suoi occhi azzurri avevano fatto cadere ai suoi piedi molte giovani e meno giovani dame.
Dal ritorno di Lucrezia a Ferrara però il marchese non sembrava più interessato a nessuna delle belle donzelle che gli giravano intorno. Aveva occhi solo per la bella duchessa d’Urbino.
 A corte i bisbigli sulle frequenti visite del marchese alla duchessa stavano diventato sempre più insistenti e già si cominciava a spettegolare che la duchessa avesse mancato alla sua fede coniugale.
 Il capitano giunto vicino alla duchessa si inginocchiò e presale la mano la baciò tenendola fra le sue per più tempo del consentito.
 “Lucrezia sorrise e a malincuore ritirò la mano “Sapete che attendo con ansia le vostre visite”
 “Anche io non vedo l’ora di porre fini ai miei doveri per trascorrere qualche momento con voi”
 “Prendete la sedia e raccontatemi la vostra giornata”
 Il marchese aveva appena finito di parlare quando udirono bussare alla porta.
 “Vostro fratello”
 Il duca Ercole entrò e rimase impietrito alla vista del marchese “Cosa ci fate voi qui?”
 Lucrezia posò una mano su quella del marchese “Il marchese è così gentile da essere venuto a chiedere notizie sulla mia salute. Ma stava proprio andando via”
 Il marchese si alzò e inchinandosi prima alla duchesse e poi al duca uscì dalla stanza.
 “Allora è vero” imprecò il duca Ercole appena uscito il marchese
 “Cosa?”
“La vostra tresca con il capitano Contrari. Non volevo credere che vi sareste resa così ridicola”
 “Ridicola? L’unica volta che mi sono resa ridicola è quando ho sposato un uomo che non mi voleva. Un uomo che mi ha umiliato in ogni modo possibile. E ora voi vorreste negarmi una sincera amicizia”
 “I principi non hanno sincere amicizie” e uscì sbattendo la porta.
 
 
7 luglio 1575
 
Lucrezia e il marchese passeggiavano in giardino senza parlare solo la mano del duca era appoggiata a quella della duchessa.
 "Lucrezia conoscete i miei sentimenti per voi”
 “E voi conoscete i miei per voi Ercole. Ma purtroppo sono sposata a un uomo che detesto e che mi detesta. Non potete immaginare quante umiliazioni mi ha inflitto. Ma sono pur sempre sua moglie”
 “Meritate di essere felice. Permettetemi di rendervi felice”
 “Quanto lo desidererei” posando le mani sull’ampio petto del marchese Lucrezia si lasciò baciare con tutto il trasporto e il desiderio mai provato.
 Quando le loro labbra si staccarono il marchese notò un mantello svolazzare oltre un albero e improvvisamente divenne di pietra.
 “Cosa accade Ercole? Cosa avete?”
 “Nulla non vi preoccupate, mi sembrava di aver visto il mantello del marchese di Montecchio. Ma devo essermi sbagliato. Ora che guardo meglio non c’è nessuno”
 “Siete sicuro. Non vorrei che ci avessero visti.”
 “State Tranquilla. Ma ora rientriamo non vorrei che le vostre dame si preoccupassero e ci venissero a cercare”
 
 
20 luglio 1575
 
 
La festa era quasi conclusa e la maggior parte degli ospiti stava tornando ognuno alle proprie abitazione quando Lucrezia si sentì gli occhi scuri e profondi del marchese di Montecchio che la fissavano.
 Lucrezia si sentì improvvisamente a disaggio e alzandosi dalla sedia si diresse verso il marchese che nel frattempo aveva rivolto la parola al duca suo fratello.
 “..bacio…giardino…Contrari”
 Avvicinandosi Lucrezia riuscì a captare solo poche parole ma quelle poche le diedero i brividi e soprattutto lo sguardo che subito dopo le rivolse il fratello.
 “Alfonso cosa avete? Perché mi guardate in questo modo?”
 Poi il duca si rivolse al marchese “Vi porrò fine”
 
 
2 agosto 1575
 
La dama entrò nella camera e trovò Lucrezia alla finestra.
 
“E’ arrivato il marchese? Ditegli che sono pronta”
 
“No altezza.… E’ successa una disgrazia”
 
“A chi? … No… non ditemi che il marchese…”
 
“E’ appena giunta la notizia. Il marchese Contrari era stato invitato a pranzo da vostro fratello il duca ma appena giunto è stato colto da un malore”
 
“Ma è vivo? Sta bene… Mandate immediatamente qualcuno ad informarsi della sua salute… presto… Mio Dio…NO. Ti prego NO”
 
Non trascorsero che pochi minuti che Lucrezia mandò a chiamare nuovamente la sua dama
 
“Avete mandato qualcuno a palazzo Contrari? Mandate qualcun altro… Ho bisogno di avere notizie”.
 
Trascorsero altri pochi minuti e suo fratello Alfonso si fece annunciare.
 
“Ditemi… come sta il marchese?”
 
“E’ morto”
 
“No… non potete avermi fatto questo”
 
“Cosa vi avrei fatto? Il Marchese ha avuto un colpo di goccia. Appena l’ho viso cadere ho mandato a chiamare il medico e poi non vedendolo arrivare sono andato io stesso a chiamarlo. Ma quando è giunto il marchese era già morto. Questo sarà detto”
 
“Certo questa è la versione ufficiale. Adesso ditemi la verità… No, non ne ho bisogno… la posso immaginare. “
 
Lucrezia si avvicinò alla finestra e guardando lontano continuò.
 
“Ditemi solo una cosa…siete stato spinto da rivelazioni che vi sono state fatte?”
 
“Mi sono giunte molte voci. Si. Avete mancato al vostro dovere di moglie e principessa. Quello che è accaduto era necessario. Il marchese era troppo potente ora i suoi beni torneranno agli Este”
 
“Siete stato usato… era solo una questione economica… Che tu sia maledetto Alfonso di Montecchio. Il mio odio perseguiterà lui e la sua stirpe finché avrò vita. Ora lasciatemi sola”
 
Dopo che il fratello se ne fu andato Lucrezia si abbandonò al pianto “Ercole, amore mio cosa ti ho fatto. A causa mia hai perso la vita. Ma ti giuro che ti vendicherò. Troverò il modo. Te lo giuro.”
 
 
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Lugo -
1 gennaio 1598
“E quel momento è giunto.”
 
“Madonna avete detto qualcosa?” domandò la dama che le era seduta di fronte.
 
Lucrezia non si era accorta di aver pronunciato quelle parole ad alta voce e scossa rispose “Nulla, stavo sognando. Dove siamo?”
 
“Nei pressi di Lugo si vedono già i nostri soldati schierati”
 
Lucrezia aprì la pesante tenda di velluto rosso e la fredda aria invernate le sferzò il viso “Capitano”
 
Il capitano della guarnigione che l’accompagnava si affiancò alla carrozza “Ditemi Madonna”
 
“Mandate un messaggero al comandante e annunciategli il nostro arrivo”
 
“Eseguo immediatamente”
 
Quando arrivarono al campo i soldati si aprivano al passaggio della carrozza e quando questa si fermò davanti alla tenda del comandante il capitano uscì a ricevere la sua illustre ospite.
 
“Madonna Lucrezia è un onore ricevervi. Perdonate il luogo inospitale. Ma vi prego venite a riscaldavi dentro la tenda da campo” e porgendo la mano a Lucrezia l’aiutò a scendere dalla carrozza.
 
“Vi prego madonna accomodatevi su questa sedia”
 
“Non preoccupatevi. Ho trascorso già troppo tempo seduta. Preferisco rimanere per qualche momento in piedi” e si avvicinò al braciere che ardeva al centro della tenda.
 
“Giungendo ho visto i soldati già schierati in ordine di battaglia”
 
“Si Vostra Grazia. Anche l’esercito papale è già schierato.”
 
“Bene… Fate ritirare i soldati e fate consegnare questo messaggio al campo papale” disse Lucrezia estraendo una lettera dal manicotto di pelliccia.
 
“Siete certa di voler ritirare i soldati.” domandò preoccupato il comandante.
 
“Assolutamente. Il duca mi ha pregato di mediare la resa di Ferrara.”
 
“Capisco… sono ai Vostri ordini”
 
 
Campo esercito papale
 
Il cardinale Aldobrandini era nella sua tenda  con le mani rivolte verso il braciere quando il capitano dell’esercito pontificio scostò la pesante tenda e d entrò
 
“Eminenza è accaduto qualcosa al campo ducale. Abbiamo visto arrivare una carrozza con lo stemma ducale e poco dopo le truppe hanno cominciato a ritirarsi. Poco dopo una staffetta è uscita dal campo e si è diretta verso di noi”
 
Il cardinale si voltò e con un ampio sorriso esclamò “Finalmente!!! Ci sono buone speranze che evitiamo uno scontro armato. Appena il messaggero arriverà al campo portatelo alla mia presenza”
 
“Ai vostri ordini” rispose il capitano uscendo.
 
Il cardinale Pietro Aldobrandini, cardinal nipote, era decisamente soddisfatto, ormai non si aspettava più di riuscire ad entrare in Ferrara senza sparimenti di sangue. Ma questo improvviso ritiro delle truppe gli dava molta speranza.
 
Il messaggero fu condotto alla presenza del cardinale e dopo essersi inchinato ed avergli baciato l’anello gli consegnò la lettera della duchessa.
 
Il cardinale si accomodò sulla sua sedia da campo, con un colpo secco ruppe la cera lacca e cominciò a leggere.
 
Eminenza Eccellentissima,
il duca Cesare mi ha inviato per trattare la resa di Ferrara e consegnare la città al suo legittimo signore, Sua Santità.
Come primo gesto ho fatto ritirare l’esercito e molti altri Vi prometto verranno fatti.
Ora Vi chiedo umilmente di poterVi incontrare per discutere tutte le condizioni.
Vostra umile e fedelissima
Lucrezia d’Este della Rovere
duchessa di Urbino
 
 
Il cardinale intinse la penna nell’inchiostro e cominciò a scrivere
 
Eccellentissima duchessa Lucrezia,
sono felice dell’esito a cui sta volgendo questa incresciosa occasione.
Il luogo dove ci troviamo non ritengo sia adatto alle questioni di cui dobbiamo parlare quindi vi propongo di raggiungere insieme la città di Faenza.
Cardinale Pietro Aldobrandini
 
 
Faenza
3 gennaio 1598
 
Il cardinale e Lucrezia erano giunti nella città il giorno precedente ed avevano ricevuto una cordiale accoglienza seguita da diverse cerimonie e da un lauto banchetto serale.
 
Lucrezia, stanca del viaggio, si era ritirata presto e aveva lasciato il cardinale e i plenipotenziari cittadini ai divertimenti.
 
Quella mattina si era svegliata presto, aveva ancora sognato Ettore, ed ora era pervasa da una certa agitazione.
 
Finalmente avrebbe avuto la sua vendetta sulla stirpe dei Montecchio.
 
Lucrezia si fece vestire dalle sue dame, indossando un pesante abito di damasco verde, che riprendeva esattamente il colore dei suoi occhi, poi fece una frugale colazione ed infine uscì dalle stanze in cerca del cardinale.
 
Alla prima guardia che incontrò domandò “Il cardinale è già sveglio?”
 
“Si Madonna. Il cardinale mi aveva mandato, appunto, a scortarvi.”
 
“Bene, non perdiamo tempo. Accompagnatemi”
 
Il cardinale era in un ampia stanza, arredata spartanamente con un grande tavolo di legno scuro e molte sedie. Il Cavalier Gualengo era già seduto e stava leggendo alcune carte.
 
“Madonna Lucrezia spero abbiate riposato bene?” domandò il cardinale venendole incontro e porgendole il braccio.
 
“Benissimo grazie” rispose Lucrezia accomodandosi sulla sedia che le veniva offerta.
 
Dopo che anche il cardinale si fu seduto il cavalier Gualengo prese la parola subito fermato da Lucrezia con un gesto stizzito della mano.
 
“Il duca Cesare mi ha chiesto di perorare la sua causa ed ora vado ad esporvi le condizioni. Cesare è disposto ad abbandonare Ferrara ma vuole mantenere il possesso della Romagna, in quanto bene allodiale. Il duca ritiene inoltre che le artigliere, in quanto forgiate di propria mano dal duca Alfonso o comunque forgiate dietro suo esborso sono di sua stretta proprietà. Inoltre…”
 
Il cardinale interruppe Lucrezia “Madonna, perdonatemi l’interruzione ma il duca non è nelle condizioni di porre condizioni. Mi state facendo un elenco di cose inaccettabili per il Santo Padre.”
 
Lucrezia dopo un attimo di silenzio e uno sguardo connivente con il cavalier Gualengo riprese “Comprendo e posso assicurarvi che sono qui con il proposito di non fare nulla di contrario dalla volontà di Nostro Signore e che il mio proposito è che il popolo possa tornare sotto il dominio della Santa Sede senza danno e spargimento di sangue. “
 
“Bene, apprezzo la vostra sottomissione al Santo Padre e credetemi che non rimarrà ignorata”
 
5 gennaio 1598
Erano due giorno che Lucrezia, il Cardinale e il cavalier Gualengo ogni mattina entravano nella stanza e ne uscivano solo a tarda sera.
Il cardinale era in piedi, di fronte alla finestra e volgeva le spalle ai suoi ospiti.
Quando si rigirò il suo volte era impietrito “Madonna, le nostre condizioni sono irremovibili. O il duca depone la corona e invia il figlio Alfonso come ostaggio o non verrà concessa nessuna sospensione di scomunica.
Lucrezia si alzò in piedi “Non potete non accettare nessuna delle nostre proposte. E’ inaccettabile. Cavalier Gualengo questa notte stessa partirete e porterete le offerte del Cardinale al duca. Informatelo anche che io stessa domani partirò perché la mia presenza è inutile. Non posso far nulla. Ora andate a prepararvi” e si risedette.
Appena il cavalier Gualengo fu uscito Lucrezia si alzò e raggiunse il Cardinale che la fissava.
“Non preoccupatevi non ho intenzione di andarmene senza avervi consegnato Ferrara. Domani mi fingerò malata, e conoscendo la mia salute non sarà difficile da credere. Attenderemo insieme la decisione di Cesare e se lo conosco non tarderà a inviarvi il piccolo Alfonso”
Il Cardinale le prese la mano e la baciò “Per un attimo avevo temuto di aver perso il vostro appoggio”
“Mai” fu la risposta di Lucrezia.
 
6 gennaio 1598
Il Cavaliere Gualengo arrivò a Ferrara nel primo pomeriggio e immediatamente fu ricevuto dal duca.
“Allora ditemi come stanno procedendo le trattative?”
“Male Vostra Grazia, il Cardinale è irremovibile dalle sue posizione. La scomunica verrà sospesa solo nel momento in cui voi abbiate deposto la corona  e mandato vostro figlio Alfonso a Faenza come ostaggio.”
Cesare si sedette sconsolato sulla sedia, il capo fra le mani. “E la duchessa Lucrezia cosa dice”
“Mi ha detto di comunicarvi che oggi stesso partirà”.
Cesare rimase così fino a notte tarda quando fece chiamare il suo segretario.
“Vostra Grazia mi ha fatto chiamare?”
“Si, voglio che facciate suonare tutte le campane a distesa.”
“Ora?”
“Si, a quest’ora della notte. Pensano di spaventarmi con la loro irremovibilità. Vedremo i ferraresi da che parte stanno. Andate.”
 
9 gennaio 1598
Cesare era seduto alla scrivania, le mani sostenevano il capo piegato.
“Eccellenza vi sentite male?” domandò preoccupato il cavalier Gualengo.
Il segretario sapeva di avergli riportato una pessima notizia, ma non si aspettava certo questa reazione.
“Anche la neve ci mancava. Ormai Cento è persa. Il Governatore cacciato dalla città. Le lastre di ghiaccio e i tronchi disseminati lungo le strade, a bella posta, per impedire il transito dei nostri soldati”.
 
10 gennaio 1598
Cesare giunse nelle stanze della moglie senza farsi annunciare, aprì la porta e mandò via tutte le dame.
Virginia seduta su una poltrona accanto al fuoco rimase tramortita, mai suo marito si era comportato così.
“Cosa accade Cesare?” domandò con un filo di voce.
“E’ tutto perso. Il trono che Alfonso mi ha consegnato non sarà mai mio. Cento si ribella, i ferraresi mi ignorano… Quando feci suonare le campane, ricordate, pochi risposero alla chiamata. La situazione volge al peggio. Non mi resta che una soluzione, accettare le condizioni preliminari dell’accordo e conferire a Lucrezia ampio mandato.”
Poi prendendo le mani della moglie continuò “Mia cara, purtroppo c’è una clausola che non posso ignorare, perché le trattative continuino…devo mandare Alfonso come ostaggio a Faenza.”
“No, Cesare. Vi prego non potete… ha solo sette anni.” Virginia cominciò a piangere.
“Lo so. Strazia anche il mio di cuore… ma non posso fare altrimenti. Perdonatemi”
Dopo aver baciato la guancia della moglie, uscì.
 
12 gennaio 1598  ore 5
 
La notte era stata lunga ma fruttuosa, il Cavalier Gualengo stava stilando l’ultima copia dell’accordo.
“Finito. Se le loro eccellenze vogliono apporre le loro firme”
 
Lucrezia era sfinita, si alzò faticosamente dalla poltrona dove si era seduta a riposare “Finalmente così potremmo ritirarci pe riposare”
“Mi rincresce di avervi fatto aspettare ma Sua Santità desiderava che l’accordo fosse firmato al più presto.”
“Non Vi preoccupate Eminenza. L’importate è che sia finita.”
Apposte le firme Lucrezia porse la mano al Cardinale che la baciò e lasciò la stanza.
Quando giunse nelle sue stanze la stanchezza sembrava svanita, dopo essersi fatta spogliare dalle sue dami decise di scrivere al marito per comunicargli la buona conclusione del negoziato.
 
 
13 gennaio 1598
 
Sua Santità aveva appena ricevuto l’avviso che tutto era concluso e la sua era palese.
“Possiamo rallegrarci, la riverenza che i principi d’Italia ci ha mostrato non era cosa scontata. Ordinate immediatamente di intonare il Te Deum.”
 
 
16 gennaio 1598 - Vienna
L’imperatore Rodolfo era alla sua ampia scrivania.
“Alla fine ha dovuto cedere Ferrara. Sospettavo che non fosse una buona idea affidare il compito alla duchessa Lucrezia. Comunque… ecco il rinnovo dell’investitura di Modena, Reggio. Fatelo recapitare immediatamente.” E appose la sua firma in calce al documento.
 

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Capitolo 5
*** La vendetta è compiuta ***


Ferrara – Palazzo ducale
28 gennaio 1598
Ferrara si era svegliata sotto una malinconica pioggerellina invernale, la sola che si ricordasse del triste giorno che andava a cominciare.
Sin dal mattino, nel cortile interno del palazzo, c’era stato un movimento silenzioso e ordinato.
Il duca Cesare era ancora a letto, mai si era così attardato.
Il cameriere personale aveva già servito la colazione sul piccolo scrittoio posto di fronte alle ampie finestre.
Il duca decise infine di alzarsi, mestamente si avvicinò allo scrittoio, guardò l’abbondante colazione e senza prendere nulla si diresse verso lo spogliatoio.
La chiesa era stranamene deserta quella mattina, ma il duca come d’abitudine volle assistere all’ultima messa nella Cattedrale. Fin da quando era piccolo il padre lo avevo condotto la mattina presto, prima di cominciare la giornata alla messa in cattedrale e nulla gli avrebbe impedito di assistervi nel suo ultimo giorno a Ferrara.
A fine celebrazione l’arcivescovo Metteucci, contro ogni previsione, lo aveva raggiunto e gli aveva impartito una speciale benedizione, dopo di ché era rientrato a palazzo.
Il campanile della chiesa stava suonando i tre ritocchi quando, il duca affacciato alla finestra del suo studio, vide le poche carrozze che avrebbero composto il corteo già predisposte e i cavalli che scalpitavano sotto la pioggia.
Dall’ampio portone la duchessa, sostenuta dalla figlia e seguita dalle dame e gentiluomini costituenti la sua corte, si diresse verso la prima carrozza.
A fatica la duchessa salì e con lei la figlia Giulia.
Non passarono che pochi minuti e i restanti figli, Luigi, Laura e Caterina ripercorsero il tragitto della madre e della sorella e si sistemarono sulla carrozza successiva.
Le dame e i gentiluomini nelle tre altre carrozze.
Poco dopo, dal palazzo uscirono i quattro gentiluomini di camera del duca e salirono sull’unica altra carrozza libera.
Il duca Cesare volse un ultimo sguardo all’ufficio che era stato suo per pochi mesi, poi prese un foglio dalla scrivania e con il capo chino raggiunse la porta, l’aprì, percorse il lungo corridoio e raggiunse le scale che lo avrebbero condotto all’ampio portone da cui erano già usciti i suoi familiari.
Senza alzare gli occhi si diresse, mesto, verso la carrozza, salì e il corteo partì.
A scortare il misero corteo c’era l’esercito del duca: 600 cavalieri, 200 archibugeri a cavallo e 300 soldati di fanteria.
Lentamente il corteo attraversò il giardino del Padiglione e si diresse verso Porta degli Angeli dove il duca Cesare diede il suo ultimo ordine.
Il duca fece fermare la carrozza e chiamato il comandate della guarnigione gli consegnò il foglio che teneva in mano e disse “Liberate tutti i prigionieri. Che almeno qualcuno sia felice in questa giornata” poi battendo con il palmo sulla portiera fece riavviare la carrozza.
Le carrozze uscirono dalla città e si diressero verso la loro nuova capitale, Modena.
 
Ferrara – Sagrato del Duomo
29 gennaio 1598
La città si era svegliata ancora avvolta dalla nebbia ma i preparativi, per accogliere il legato pontificio, non potevano attendere.
Ventidue giovani appartenenti alle più importanti famiglie di Ferrara fin dalle prime luci dell’alba si erano posizionati, in ordine di importanza, alla Porta di Castel Tedaldo reggendo il sontuoso baldacchino ducale.
Erano le ore otto quando comparve il lungo corteo composto da 8000 fanti e 12000 cavalieri che componeva l’esercito del nuovo signore di Ferrara, il cardinale Pietro Aldobrandini.
Il cardinale scese dal magnifico cavallo bianco e inchinatosi, posò la fronte sulla nuda terra ferrarese poi raggiunse il Magistrato che, affiancato dai collegi dei Dottori e dalle Corporazioni della Arti, gli consegnò le chiavi delle porte cittadine e delle prigioni.
Il cardinale risalì sul cavallo e, fra rombi di artiglierie e suoni di trombe, percorse le vie cittadine ornate di archi trionfali e di sontuosi tappeti.
Il corteo ci mise più di due ore per raggiungere il centro della città e il sagrato del Duomo dove il nuovo Signore ricevete l’omaggio del Vescovo e del clero.
Sempre sotto il baldacchino sorretto dai ventidue giovani riccamente vestiti raggiunse il palazzo.
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Il cardinale era seduto alla sua scrivania e stava contemplando le pareti affrescate dello studio.
Dalla finestra sentiva ancora le urla di giubilo dei cittadini ferraresi.
Il segretario Lanfranchi bussò ed entrò senza attendere il permesso.
“Mi avete fatto chiamare”
“Si” rispose il cardinale “ Desidero che lanciate delle monete al popolo. Duecento scudi in monete spicciole ritengo siano un importo adatto. E poi affiggete la concessione a mascherarsi, dopotutto è carnevale, che il popolo si diverta”
“Come desiderate eminenza.”.
Poi Lanfranchi si inchinò ed uscì.
 
Ferrara – Palazzo del legato pontificio
1 febbraio 1598
Il segretario del cardinale bussò alla porta dello studio e ricevuto l’invito ad entrare aprì la pesante porta.
Arrivato di fronte alla scrivania cominciò  “Eminenza ho ricevuto molte lamentele da parte dei cittadini, sembra che i soldati, nonostante siano stati accolti e ospitati nelle casa ferraresi si siano dati a gozzoviglie ed eccessi, mancando di rispetto a diverse signore. I cittadini chiedono un  vostro tempestivo intervento”.
Il cardinale sospirò profondamente “Richiamate tutti gli uomini e chi ha commesso degli eccessi sia spedito nelle campagne”.
“Molto bene eminenza” .
Nel frattempo mostrò al cardinale la pergamena che aveva in mano “Eminenza, ecco la stesura definitiva della costituzione come avevate richiesto. Manca solo la vostra firma”
Il cardinale prese il grande foglio e cominciò a scorrerne le parole.
Riduzione della gabella sul frumento e le biade, nonché del dazio sul vino, il sale e il pesce d'acqua dolce e di mare; abolizione del boccatico, che gravava su cittadini e contadini, della cosiddetta "dadia" sui lavori a carico di chi li effettuava e di chi li ordinava, e del dazio sul pesce pescato nel Po; blocco del prezzo del pane; divieto del transito di armi in città; divieto di danneggiare i beni privati di Cesare d'Este, salvaguardia dei diritti dei carcerati sui propri averi durante il periodo della detenzione, con designazione della Compagnia della Morte quale garante; amnistia ai sudditi e ai vassalli per delitti commessi prima del 29 gennaio, l'istituzione di un Tribunale di Rota, formato da cinque uditori, dottori e non ferraresi, in carica per cinque anni, deputati a discutere e decidere cause e controversie della legazione ferrarese. ;
Terminato di leggere il cardinale commentò “Perfetta ma visti i problemi tra la popolazione e i soldati aggiungerei qualcosa che mantenga il controllo dei soldati del presidio di Ferrara, allo scopo di evitare offese ai cittadini e disordini di ogni genere.”
 “Naturalmente, Eminenza” rispose il segretario inchinandosi e dirigendosi verso la porta.
 
2 febbraio 1598
La sala delle udienze era gremita di  cortigiani, in prima fila i membri delle più importanti famiglie di Ferrara.
Il cardinale giunse con un po’ di ritardo e chiese immediatamente scusa ai suoi ospiti, poi la cerimonia di investitura cominciò.
Ad uno ad uno, i ventidue giovani che avevano scortato il cardinale al suo arrivo in città furono chiamati.
Il ginocchio poggiato a terra, il capo chino, le parole di rito e la lama della spada che si poggiava prima sulla spalla destra e poi su quella sinistra, il cardinale lì nominò cavalieri.
_________
 
Il salone delle feste era illuminato da centinaia di candele il Cardinale Aldobrandini attendeva i suoi ospiti sul pianerottolo dell’ampio scalone di marmo bianco.
La maggior parte dei nobili ferraresi era già giunta, mancavano solo i membri delle più importati famiglie della città e la duchessa Lucrezia.
Il cardinale rischiarò il suo bel volto con un ampio sorriso nell’accogliere prima il marchese Bonifacio Bevilacqua, Francesco Sacrati, i fratelli Ottavio ed Ercole Tassoni, il conte Alfonso Giglioli e per finire il conte Ercole Bevilacqua.
Il cardinale cominciava ad innervosirsi, ormai i suoi illustri ospiti era tutti giunti, mancava solo la duchessa, girandosi verso il suo segretario  “Per caso la duchessa ha annunciato che non sarebbe venuta?”. “No, monsignore. Anzi quando ho recapitato l’invito si è dimostrata entusiasta a differenza della duchessa Margherita”.
Proprio in quel momento il cardinale vide l’esile figura della duchessa che a fatica saliva i primi gradini della scalinata, immediatamente scese e porse il suo braccio alla duchessa che lo accettò con un ampio sorriso.
“Ho temuto non veniste” disse il cardinale
La duchessa sorrise “Non sarei mancata per nulla al mondo ai festeggiamenti per il vostro insediamento e poi è molto tempo che non partecipavo più a un banchetto”
Il cardinale ricambio il sorriso lanciando alla sua compagna uno sguardo, che il giorno dopo avrebbe accresciuto, le già innumerevoli voci, che davano il cardinale e la duchessa amanti.
Il cardinale fece accomodare la duchessa alla sua destra poi battendo le mani diede inizio al lauto banchetto.
 
8 febbraio 1598
La duchessa non si era più alzata dal letto dal mattino successivo al ricevimento dato dal cardinale.
La sua inferma salute dopo gli ultimi avvenimenti aveva subito un ulteriore tracollo.
Negli ultimi giorni aveva chiamato il notaio e aveva voluto redigere un nuovo testamento.
Un leggero bussare alla porta svegliò il leggero sonno della duchessa, poi una delle sue dame si avvicinò “Madonna, è giunto il notaio con la versione definitiva del vostro testamento”.
Aiutata dalla dama Lucrezia si sistemò gli ampi cuscini dietro la schiena “Fatelo passare”.
Il notaio appena attraversata la porta di inchinò e si diresse verso il piccolo scrittoio posto di fronte alla finestra, posò la sua cartelletta, la aprì e ne trasse pochi fogli vergati fittamente.
“Ecco Madonna Lucrezia, il testamento come mi avevate richiesto” e porse i fogli ad una dama.
Lucrezia fermò il passaggio con un gesto della mano “No, leggetemelo voi, poi io lo firmerò”
“Come desiderate” disse il notaio e cominciò “Io Lucrezia d’Este sposa di Francesco Maria della Rovere, duca  d’Urbino, nelle mie piene facoltà…Lascio 30.000 scudi da elargirsi tra le varie congregazioni religiose che in questi ultimi anni mi furono care ed esattamente…. Lascio 30.000 scudi al duca d'Urbino mio marito, come convenuto nel patto dotale, pregandolo di ricordarmi sempre con affetto.….   Lascio tutti i miei beni in Francia di derivazione materna a mia sorella la duchessa di Nemours. Lascio tutti i miei beni in Italia al cardinale Pietro Aldobrandini, pregandolo di riceverli come segno di gratitudine e affetto… ”
Il notaio terminato di leggete porse il foglio ad una delle dame che lo porse alla duchessa “Spero di aver eseguito bene le vostre direttive?”
“In modo eccellente” rispose Lucrezia apponendo la sua firma in calce al documento.
 
11 febbraio 1598
Lucrezia stava riposando quando udì bussare alla porta “Chi può essere?” chiese debolmente.
Una della dame aprì la porta e poi comunicò alla duchessa “Madonna, l’abate Brunetti chiede di essere ricevuto”
Lucrezia fece un sorriso amaro e poi “Mio marito vuole assicurarsi che stia morendo. Accontentiamolo. Fate passare l’abate”
L’anziano monaco entrò titubante nella stanza e rimase a dovuta distanza, inchinandosi “Madonna, vengo da parte del vostro sposo che ha saputo del vostro malessere”
“Dite piuttosto che il mio sposo vuole assicurarsi che questa volta rimarrà vedovo” rispose ironica Lucrezia.
L’abate sapeva che la duchessa diceva la verità ma naturalmente non poteva darle ragione così apertamente “Madonna non dite così, il vostro sposo è sinceramente preoccupato” mentì l’abate.
“Certo, comunque comunicategli che non sarò un peso per lui ancora per molto. Non lo accuso di nulla. Il destino si è accanito contro le nostre due persone, mio fratello e suo padre sono stati le cause dei nostri dolori, nessun altro. Ormai sono entrambi nel mondo della verità, e tra poco li raggiungerò anche io. Io lo perdono per tutto il male che mi ha causato. Chiedetegli di perdonare il mio a lui. Ora andate. Lasciatemi riposare”.
“Come desiderate, madonna Lucrezia.” L’abate s’inchinò ed uscì dalla stanza.
 
13 febbraio 1598
L’abate Brunetti era nella stanza che gli avevano assegnato, seduto al piccolo scrittoio stava scrivendo una missiva al suo duca.
Eccellenza,
 Vi comunico con vivo cordoglio che ieri sera alle ore 11 madama Lucrezia d’Este, vostra moglie, è morta nella sua stanza nel palazzo ducale di Ferrara
Vostro fedelissimo,
     Abate Brunetti
 
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Il cardinale era nello studio che era stato di Cesare di Montecchio e prima di lui di tutti i duchi di Ferrara, ormai erano diversi giorni che trascorreva il suo tempo in quella stanza ricevendo tutti i rappresentanti delle maggiori famiglie di Ferrara che venivano a chiedergli posizioni di rilievo come ringraziamento all’ostilità dimostrata nei confronti di Cesare d’Este.
Il conte Ercole Trotti era appena uscito dall’ufficio e il cardinale si era alzato dalla sedia e stava guardando fuori dalla finestra.
Il  tempo, da quando era giunto a Ferrara, era sempre grigio e pioveva in continuazione, il cardinale cominciava ad odiare quell’umidità che gli penetrava nelle ossa, neppure tutti i camini accesi riuscivano a riscaldarlo.
Un leggero bussare alla porta distorse il cardinale dai suoi pensieri “Avanti”
Il segretario entrò “Eminenza, mi è stato appena comunicato che la duchessa Lucrezia è morta ieri sera alle ore 11”
Il cardinale si fece il segno della croce “Vado immediatamente nella sua stanza. Organizzate sontuose esequie, voglio che sia degno della dama che fu.” E così dicendo uscì dallo studio attraverso un’ala di nobili che si apriva al suo passaggio.
 
Ferrara, Duomo
14 febbraio 1598
La bara della duchessa era stata predisposta al centro della navata, attorniata da sei candelabri che illuminavano la buia chiesa, nessuno era presente per vegliare la salma.
Solo due guardie erano state poste all’esterno della cattedrale a controllare che nessuno trafugasse o infierisse sulla salma della duchessa.
Un ragazzino cencioso osservava la scena dall’angolo della strada di fonte alla chiesa, sembrava che attendesse qualcosa, in mano aveva un foglio che poco prima un elegante gentiluomo gli aveva consegnato.
Suonava mezzanotte quando le due guardie si sedettero a terra e cominciarono a russare sonoramente.
Ecco, il momento era giunto, il fanciullo si avvicinò cautamente all’ampia scalinata e piano la percorse, arrivato al portone spinse la piccola porta nell’ampio portone della chiesa e senza neppure aprirla tutta la oltrepassò.
Richiuse cautamente la porta e si diresse verso le luci al centro della navata, giunto, non si fece neppure il segno della croce, srotolò il foglio e lo appoggiò sul drappo di velluto che ricopriva il feretro.
Poi veloce come era entrato uscì e si perse nei vicoli bui di Ferrara.
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Il foglio era stato posto, come gli era stato detto, in modo che fosse perfettamente illuminato dalla flebile luce delle sei candele. Le lettere sembravano prendere vita e danzare la lenta melodia delle satiriche parole.
“Inimica alla Patria e al proprio sangue,
sotto tinto color di falsa aita.
Precipitando altrui perde la vita,
 l’iniqua donna che qui giace esague.”
 
 
 
 
FINE
 

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