Lay down in my arms and rescue me...

di The_Perfect_Sky_Is_Torn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sole di settembre. ***
Capitolo 2: *** Giornata storta. ***
Capitolo 3: *** Ah, Bethie. ***
Capitolo 4: *** Onice e cioccolato. ***
Capitolo 5: *** Brontolio di stomaco. ***
Capitolo 6: *** Passo, passo, respiro. ***
Capitolo 7: *** Fingere di non esistere. ***
Capitolo 8: *** Una brutta interrogazione. ***
Capitolo 9: *** Sangue. ***
Capitolo 10: *** Pensieri confusi. ***
Capitolo 11: *** Lividi e fumetti. ***
Capitolo 12: *** Non ti farei mai del male, Zayn. ***
Capitolo 13: *** Lascia che ti aiuti. ***
Capitolo 14: *** Niente sarebbe più stato come prima. ***
Capitolo 15: *** "Cara Pat..." ***
Capitolo 16: *** -Tu sei un genio.- ***
Capitolo 17: *** IMPORTANTE. ***
Capitolo 18: *** Grossi guai. ***
Capitolo 19: *** Scusa, Zayn. ***
Capitolo 20: *** Emofilia di parole. ***
Capitolo 21: *** Un pugno di farina. ***
Capitolo 22: *** Il fuoco della rivoluzione. ***



Capitolo 1
*** Sole di settembre. ***


CAPITOLO PRIMO


ELIZABETH.
 
-E dire che sembra ancora agosto...- Pensava Elizabeth guardando fuori dalla finestra della sua camera.

In effetti,  il cielo era azzurro chiaro e terso come non lo si vedeva da giorni, e il sole splendeva e scaldava tanto che riportava i pensieri indietro, ad un’estate appena terminata.

La ragazza chiuse di scatto le tende, sospirando, e tornò a dedicarsi allo sgradevolissimo compito che la teneva segregata in casa, mentre avrebbe potuto uscire con le sue amiche e godersi quelli che, l’avrebbe potuto giurare, erano gli ultimi sprazzi di caldo della stagione. Mancava poco perché la sua cittadina tornasse al solito tempaccio grigio e umido, che opprimeva quella regione praticamente tutto l’anno, ad eccezione di un paio di settimane in piena estate. Riordinando le sue cose per la scuola, svogliatamente, Elizabeth si rendeva conto sempre più di come quel bel periodo fosse ormai passato.

Raccolse un blocco di quaderni nuovi di zecca, che se ne stavano in bilico in fondo al suo letto, e iniziò a scrivere su ognuno il proprio nome e la materia a cui erano destinati. Era sua madre a pretendere quella pratica, per quanto ogni anno se ne lamentasse. Tirò fuori dal cassetto della scrivania il suo astuccio azzurro, e ci infilò matite, penne e colori a legno, tutti rigorosamente appena usciti dalla cartoleria in centro. Finita anche quella procedura, sbuffando, si tirò sulle punte per arrivare a prendere lo zaino, rimasto ad impolverarsi sulla cima dell’armadio nei mesi precedenti; avutolo tra le mani lo lanciò sulla sedia, scocciata, e iniziò a preparare la cartella per la mattina seguente.

Delicatamente adagiata sul letto gemello al suo stava anche la sua divisa, fresca di bucato e stirata di tutto punto: aspettava solo di essere indossata. Anche quello opera di sua mamma, che non era stata per nulla contenta quando, un paio di anni prima, quegli stessi capi erano improvvisamente scomparsi poche ore prima dell’entrata in classe, ed erano poi saltati fuori sporchi e spiegazzati, tra le esclamazioni teatrali della stessa Elizabeth che si “dispiaceva” enormemente:

-Oddio, mamma, che peccato, dovrò mettere i jeans…-

E invece neppure quell’anno l’aveva scampata, e da quel momento non c’era più neanche da provare a fare una cosa simile: era controllata nei minimi particolari.

Non era affatto felice di tornare a scuola, no. E non perché avesse poi chissà quanti problemi con lo studio: riusciva ottimamente in tutte le materie senza fare alcuno sforzo. Semplicemente era la sua scuola a non andarle a genio. Per prima cosa doveva svegliarsi tutte le mattine alle sei, solo per prendere uno stupido bus e fare chilometri di strada grigia e impolverata in centro città, quando la metà dei suoi compagni stavano ancora dormendo; tutto questo, solo per poter arrivare in tempo alla “Classic Education School”. Era certamente una bella struttura, con tutti i suoi campi sportivi e le classi tinteggiate a nuovo ogni anno… Ma con tutta sincerità, che persone ci si poteva aspettare di trovare in un posto che aveva come motto “il luogo perfetto per un’educazione perfetta”?

La cosa che odiava di più della sua scuola, infatti, erano proprio loro, i suoi compagni. Creature che rasentavano la perfezione, divise sempre tirate a lucido, mai un capello fuori posto, una media impeccabile, sogni per il futuro quali “diventare avvocato” o “studiare medicina”… Il tipo di persone che sua madre amava, in fondo.

Ma lei? Cosa ci faceva lei lì in mezzo? Come avrebbe mai potuto sentirsi a suo agio o, peggio, farsi delle amicizie? Ogni anno che passava sola, in un angolino del corridoio durante la ricreazione, e sempre in un tavolo appartato in mensa, la domanda si faceva più pressante. Risposta tuttavia non c’era. La storia era sempre la stessa, e quello non sarebbe stato che un ennesimo, monotono capitolo.

–Elizabeth, hai finito di sistemare il tuo materiale scolastico?- La voce acuta di sua madre la fece rabbrividire.

“Il mio materiale scolastico”, pensò lei con ribrezzo. Sorvolando su quel termine, quanto mai irritante, quale di quelle cose si poteva definire davvero sua? Bah. Era solo una delle mille cose che la sua famiglia aveva deciso per lei.

–Certo, mamma.- Urlò giù per le scale, finendo tutto in fretta e furia.

–E ricordati che questa sera voglio vedere la tua luce spenta alle nove e mezza!- Puntualizzò severamente la stessa voce, dal fondo delle scale.

Elizabeth sbuffò. Non aveva voglia di discutere quel pomeriggio, neppure sul fatto che a sedici anni ancora doveva andare a letto all’orario di una bambina delle elementari. Si limitò ad assentire ancora una volta, mordicchiandosi il labbro. Guardando ancora una volta fuori dalla finestra, quel mondo che stava correndo avanti senza di lei, riuscì solo a pregare, chiunque la stesse ascoltando, perché facesse succedere qualcosa.

–Qualsiasi cosa, purchè succeda.- Terminò la sua supplica, scorrendo lo sguardo sulle case più lontane dalla sua, in periferia, dove non aveva mai potuto mettere piede.


 
 
ZAYN.
 
-Alza quelle braccia, su, muoviti!- Urlò Yaser, guardando con occhi acuti il figlio che, nel mezzo della stanza spoglia, obbedì senza fiatare.

Zayn si sentiva piuttosto stupido lì, con le braccia in alto, ma sapeva che non era mai un bene contraddire suo padre, soprattutto in un momento come quello. Si era provato la divisa che avrebbe dovuto indossare il giorno dopo, a scuola, e Yaser si era reso conto che gli andava parecchio larga. Certo, l’avevano ordinata via internet, usata, nel disperato tentativo di spendere il meno possibile.

-È normale che almeno qualcosa non vada bene, per il prezzo che ci hanno fatto.- Pensava il ragazzo tra se e se, evitando però di rendere pubblico il proprio parere. Evidentemente, infatti, non era ciò che pensava suo padre.

–Al diavolo, quei maledetti! Gliela rimandiamo indietro, altrochè! Io li denuncio, se la vedranno con me!- Tanto non l’avrebbe fatto, non lo faceva mai. Evitava il più possibile di avere a che fare con polizia e simili, dal momento che…

-Papà, p-per domani mi serve…- Sussurrò il ragazzo, cercando il più possibile di non far arrabbiare il genitore. Restava con le braccia alzate, per quanto gli si fossero ormai indolenzite, evitando qualsiasi gesto che avrebbe potuto far perdere la calma a Yaser. Per fortuna, quella volta il suo commento fu ben accettato.

–Ovviamente, accidenti a loro! Per un po’ te la tieni così, poi tra qualche giorno, quando si sarà calmato tutto sto casino, la rimandiamo indietro e chiediamo un’altra taglia.- Finito di parlare si bloccò un attimo per guardare il figlio che, basso e smilzo com’era, sembrava nuotare in un mare di stoffa blu e rossa.

–E abbassa quelle braccia, che sembri uno stupido!- Urlò poi come ultima cosa, per allontanarsi e finalmente mettersi calmo in poltrona, a bere una birra guardando la partita.

A quel punto Zayn, ancora tremante per la paura di una possibile sfuriata, non aspettò un solo secondo: cercando di non inciampare, prese con se il povero mucchietto dei suoi vestiti abituali e corse nella propria stanza, sospirando di sollievo. Quel giorno suo padre era in buona, altrimenti la faccenda non si sarebbe certo chiusa così. Si liberò velocemente della divisa, pensando con un misto di irritazione e tristezza che l’avrebbe indossata fin troppe volte dal giorno seguente.

Se solo pensava a quel primo giorno di scuola sentiva lo stomaco attorcigliarsi. Per quanto potessero essere in difficoltà economiche e letteralmente sommersi di bollette non pagate, suo padre non aveva sentito ragioni quando era stata ora di compilare l’iscrizione. L’aveva così messo in lista per la “Classic Education School”, un posto per ricchi e privilegiati che venivano scortati da genitori in Ferrari e potevano permettersi di tutto. E soprattutto era un posto per gente intelligentissima e con una media più che eccellente, fatta di sfilze di voti che lui non aveva mai neppure provato ad immaginare.

Non gli piaceva la scuola, anzi poteva dire di detestarla, e a quanto pare l’odio era reciproco… In tutti quegli anni non era stato bocciato solo perché, ne era certo, in tutto il casino che era la sua vita, un qualche santo vigilava almeno sulla sua istruzione. Ma neppure un mago con tanto di bacchetta, di quelli che si trovavano nei libri fantasy che cercava in tutti i modi di rimediare, per leggerli poi alla chetichella la sera tardi, grazie ad una pila, avrebbe potuto fare nulla contro suo padre.

E così il giorno dopo si sarebbe dovuto presentare a quella classe di ragazzi perfetti, senza nemmeno una cellula fuori posto, con il suo zainetto rattoppato, le matite mangiucchiate, una sfilza di sei presi per il rotto della cuffia e anche quella ridicola divisa di due taglie di troppo… Per fortuna, almeno il grosso livido che aveva sulla guancia aveva iniziato a svanire. Fino al giorno prima il suo viso era gonfio e con un’enorme macchia rossastra sotto l’occhio; in quel momento, per fortuna, il gonfiore era sparito e del rosso non restava che una traccia lievissima. Per il giorno dopo sarebbe scomparso, calcolò.

Zayn attraversò la stanza, con addosso solo una maglietta grigia, e andò alla finestra. Non che ci fosse molta alternativa, comunque.

Camera sua era una stanza spoglia, con solo un letto disordinato, un piccolo armadio con i suoi pochi vestiti e le scarpe, e la scrivania, traboccante di fogli di giornali vecchi con sopra disegni e fumetti, qualche quaderno di scuola e la sua benedetta collezione di fantasy, appena sei a dire la verità, ma che aveva comperato con molti anni di risparmi e che per lui valevano quanto un tesoro.

Sedendosi sul davanzale, completamente privo della paura di cadere giù, il ragazzo iniziò a dondolare le gambe, guardando lontano, verso il quartiere ricco della città e verso il centro, un luogo dove non aveva mai la possibilità di andare, se non poche volte l’anno. Guardò ancora più lontano e riuscì a scorgere il profilo di alcune villette in collina. Quelle si che erano di gente ricca, accidenti. A lui sembravano come castelli tanto erano grandi e curate. Pensò un attimo a chi ci potesse abitare, laggiù. Chissà se c’erano ragazzi come lui, che si preparavano al primo giorno di scuola.

–Certo,- Pensava –Per loro non sarà così complicato. Dev’essere tutto facile quando sei ricco.- E sospirando malinconico, immaginando tutte le cose che non avrebbe mai potuto avere, alzò lo sguardo al cielo e provò a fissare il sole, anche se sapeva bene che era un passatempo da stupidi.

Sentendo il calore sulla pelle, e vedendo quel cielo così azzurro e terso, sussurrò: -E dire che sembra ancora agosto…-




**SPAZIO ME**
Buongiorno a tutti! Questa è la prima FF che scrivo su questo sito e sono un po' agitata... Spero che possa piacere a qualcuno!! ;)
Visto che era l'inizio ho scritto un pezzo dal punto di vista di Elizabeth e uno dal punto di vista di Zayn, per far vedere un po' di quello che avrebbe parlato la storia; d'ora in avanti invece saranno divisi, ci sarà prima il capitolo di Elizabeth e successivamente quello di Zayn, e sarà così per un po'. :)
Spero che possa interessarvi e che lascerete magari una piccola recensione... <3

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Capitolo 2
*** Giornata storta. ***


-CAPITOLO SECONDO-

 
ELIZABETH.
 
Nella stanza regnava la tranquillità più assoluta. Stavano per scoccare le sei, come indicava il ticchettare pigro dell’orologio a muro, e il sole non aveva ancora fatto capolino da dietro allo scuro profilo della notte.

Ad un certo punto, però, la calma fu guastata da un trillo acuto ed insistente, proveniente dalla sveglia viola poggiata sul ripiano lucido del comodino. Elizabeth fece comparire una mano dal groviglio delle coperte sotto il quale era sepolta, e con gli occhi ancora pieni di sonno iniziò a frugare a fianco del letto, cercando l’origine del rumore fastidioso. Le sue mosse furono però troppo brusche: dopo aver sbattuto le dita contro qualcosa di duro e freddo sentì un tonfo sul pavimento, soffocato dal tappeto.

–Proprio un buon inizio…- Brontolò scocciata, raccogliendo l’oggetto caduto e spegnendo la sveglia fastidiosa. A quel punto, lasciato il sonno sul cuscino, non potè fare altro che alzarsi a sua volta.

Corse nel suo piccolo bagno personale e si lavò, destandosi completamente grazie all’acqua fredda. Si guardò allo specchio e per un momento si bloccò, interdetta: sembrava uno zombie. Mmh.. Stava già ricominciando ad odiare il lunedì mattina, ed era solo l’inizio.

Finito il suo compito nella piccola stanza ne uscì, a passo svelto, per dedicare tutta la sua attenzione alla divisa rossa e blu che, come da rituale, l’aspettava ben piegata sul letto gemello al suo. E dire che forse le sarebbe addirittura potuta piacere, senza tutti i brutti ricordi di mattinate grigie a cui era legata. La indossò, squadrandola con disgusto e provando un certo piacere nello strattonare duramente i lembi della gonna, che non le cadevano mai bene sulle gambe lunghe.

Alla fine, verso le sei e quaranta, si trovò pronta per scendere al piano di sotto. Raccolse in fretta la cartella ai piedi della scrivania e corse giù per le scale, ricordando all’ultimo momento le scarpe che l’aspettavano sul pianerottolo. Almeno quelle poteva scegliersele da se, e la cosa era piuttosto evidente: le sue vecchie All Star, ormai più grigie che bianche, stonavano chiaramente con il resto dell’abbigliamento.

Una volta in cucina, Elizabeth trovò sul tavolo una grossa tazza di latte fumante e dei piccoli panini dolci ripieni di marmellata fresca. Sua madre, evidentemente, era appena uscita. Nonostante la fame, la paura di perdere il bus fu più forte dello stomaco, e la ragazza si limitò a bere qualche sorso dalla tazza, ustionandosi la lingua, e a dare qualche morso ad un panino soffice e gustoso. Nel frattempo, saltellando per il corridoio, infilava le sue adorate scarpe e il cappotto blu. Finalmente pronta, qualche minuto prima delle sette, uscì di casa camminando svelta, verso la fermata.

Il tempo, come aveva previsto, era tornato grigio ed uggioso, niente a che vedere con il sole del giorno prima; ad una raffica di vento più forte delle altre, Elizabeth si strinse nella stoffa calda della giaccone. Il tragitto verso la scuola fu lento, come al solito, mentre l’autobus arrancava nelle strade polverose del centro, facendosi pigramente strada nel traffico cittadino. Un incidente sulla strada principale, tuttavia, rallentò ancora più il mezzo, che riuscì a scaricare i ragazzi appena due minuti prima della campanella. Nel tentativo di non arrivare tardi Elizabeth si lanciò in una corsa disperata lungo il marciapiede, ma il suo sforzo non basto a farla arrivare in tempo: quando, timidamente, bussò alla porta della classe, la professoressa era già nel bel mezzo dell’appello.

–Spero che questo non sia l’orario a cui intendi arrivare ogni giorno, Elizabeth.- Venne rimproverata, con durezza. Lei annuì, cercando di svignarsela in prima possibile, prima che… Ecco, lo sapeva. Uno alla volta i suoi compagni avevano alzato la testa e avevano preso a fissarla, con uno sgradevolissimo sguardo stupito e critico nelle pupille.

Se qualche ragazzo l’avesse fissata l’anno prima, avrebbe certamente pensato che lo facesse perché era carina. Non aveva problemi ad ammetterlo: allora aveva grandi occhi verdi, un viso regolare, un fisico niente male e lunghissimi capelli castano miele, scossi da leggerissime increspature che li arricciavano appena sulle punte.

Quel giorno, invece, tutti gli sguardi erano fissi sulla sua testa. Questo perché i suoi capelli lunghissimi erano scomparsi, sostituiti da un taglio corto da ragazzo ornato da un enorme ciuffo sul davanti, che le copriva appena l’occhio sinistro. Come aveva convinto sua madre? Semplice, non glielo aveva detto. Era arrivata a casa, un pomeriggio, e la sua lunga chioma non c’era più. Le bastava chiudere gli occhi per risentire gli strilli che si era beccata, eppure nessuno aveva potuto farci niente: ormai il taglio era stato fatto.

Elizabeth non se n’era mai pentita, neppure per un secondo, ma tutta quell’attenzione non le piaceva. Si sentiva sempre un animale allo zoo, lì dentro. Unica piccola imperfezione lì in mezzo.

Sospirando, si buttò nell’ultimo banco rimasto libero e iniziò a disporre la sua roba, sperando che prima o poi il discorsetto d’inizio anno della prof prendesse abbastanza i suoi compagni da costringerli a distogliere gli occhi da lei. Allora, finalmente, avrebbe potuto appoggiare la testa al banco e aspettare la prima campanella, contando i secondi a ritroso.

 
 
**SPAZIO ME**
So che questo capitolo non è niente di che… Ma mi serve, come mi serviranno i successivi, per introdurre ciò che succederà dopo. Quindi mi dispiace se questa parte poco entusiasmante della storia vi annoia, ma non sarà sempre così!
Spero che qualcuno sia così gentile da leggere e lasciare una recensione (magari di più di 10 parole…). Detto questo, vi saluto :)
Love u

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Capitolo 3
*** Ah, Bethie. ***


 
-CAPITOLO TERZO-

 
ZAYN.
Pum. Pum. Pum. Il sonno leggero di Zayn fu improvvisamente scosso da passi pesanti che salivano le scale, senza preoccuparsi minimamente di fare piano. Il ragazzo aveva ormai imparato a svegliarsi ad ogni minimo rumore, dopo le tante volte in cui era stato costretto ad aspettare suo padre fino a notte fonda. Trattenne il fiato sentendo i passi avvicinarsi sempre più alla porta della sua piccola stanza, che dopo pochi secondi fu sbattuta bruscamente al muro.

Una voce fin troppo familiare urlò: -Cosa accidenti ci fai ancora a letto? Ma sei cretino? Alzati, veloce!- Vedendo la figura arrabbiata di suo padre avvicinarsi al letto, sempre più minacciosa, Zayn si bloccò un attimo; poi, esitante, buttò giù le gambe dal letto e si alzò, stiracchiandosi cautamente e continuando a fissarlo.

–Cosa mi guardi con quella faccia? Ti muovi o devo farti muovere io?- Urlò ancora Yaser, perdendo la pazienza. A quel punto il sedicenne si scosse, impaurito dalla sottile minaccia presente in quelle parole, e facendo il più svelto possibile prese la sua enorme divisa dal pavimento, dove era caduta durante la notte, per correre nel minuscolo bagno in corridoio. Lì si lavò, cercando di sbrigarsi ma accuratamente. Non voleva che i suoi nuovi compagni pensassero che fosse uno straccione, anche se sotto sotto era convinto che alcuni l’avrebbero fatto lo stesso. Una volta vestito cercò di arrotolare il più possibile i polsi della camicia, cercando di far sbucare fuori le dita, e fece lo stesso anche con i pantaloni; sebbene il risultato non fosse proprio dei migliori, almeno così riusciva a camminare senza inciampare!

Tornò in camera, accorgendosi con sollievo che suo padre si era spostato al piano di sotto, e radunò le sue poche cose prima di scendere a sua volta. Si accorse solo all’ultimo minuto che il sole era appena sorto, e lasciava appena appena qualche straccio di luce arancione e rosata tra le nuvole spesse che ricoprivano il cielo. Guardando la sveglia, si rese conto che erano appena le sei e mezza. Perché accidenti si era dovuto svegliare così presto? La scuola distava un po’ da casa sua, si, ma in macchina dubitava che ci volessero più di venti minuti. Facendo le scale due gradini alla volta, combattè la voglia di chiederlo a suo padre: non voleva farlo arrabbiare ulteriormente.

–Tanto- Pensava, -Se c’è una ragione me la dirà lui per primo.-

E così fu, infatti. Zayn stava cercando di togliere un po’ di fango dalle sue vecchie scarpe da ginnastica, perchè l’ultima volta che era uscito aveva piovuto a dirotto e passando per i campi si erano davvero ridotte in uno stato pietoso; Yaser, invece, sorseggiava un caffè amaro, che costituiva la sua unica colazione. Per quanto uno potesse essere affamato, in casa loro non c’erano mai state grandi colazioni, e neppure una tazza di latte con i cereali preparata alla buona. Quelle erano cose che accadevano prima, quando la mamma…

-Oggi non ti ci porto io, a scuola. Devo andare al lavoro prima, che venga un colpo a tutti loro.- Brontolò Yaser.

-Quindi ci vado a piedi?- Chiese Zayn stupito. Dalle labbra di suo padre uscì quella che sarebbe dovuta essere una risata, ma che sembrava più un tetro sogghigno.

–Davvero? Io pensavo che ci volessi andare volando.- Lo schernì, gli occhi pieni di irritazione.

Il ragazzo si morse le labbra, cercando di non rispondere troppo frettolosamente; poi, moderando le parole, chiese: -Ma… Non conosco l-la strada… Come f-faccio?- Si schiarì subito la voce, sapendo che suo padre odiava quando, in sua presenza, il timore lo faceva balbettare “come una femminuccia”; tuttavia l’altro l’aveva già notato.

Stringendo le labbra con disappunto, e alzando la voce di un’ottava, esclamò: -Non me ne frega niente se non sai la strada, in qualche modo la troverai; e se vengo a sapere che hai fatto tardi…- Il sedicenne annuì, rapido, sapendo fin troppo bene come terminava la frase in sospeso. Volendosene andare il più in fretta possibile infilò le scarpe ancora piene di terra, raccattò lo zaino e uscì, dimenticando il cappotto.

Una volta fuori venne assalito dal freddo, ma non poteva rientrare senza essere vittima di una sfuriata del genitore, così si strinse il più possibile nella maglia troppo larga e iniziò a camminare. Dapprima si diresse semplicemente verso il centro, ricordando all’incirca la strada che aveva osservato alla finestra; poi, chiedendo informazioni a qualche passante, leggendo i cartelli e incrociando il più possibile le dita, riuscì a trovare la strada giusta per arrivare al piazzale della scuola appena dieci minuti prima della campanella.

La osservò, incantato. Era la struttura più gigantesca che avesse mai visto, tutta dipinta di giallo, con un  giardino enorme e altrettanto enormi campi da calcio e atletica a est. Dalla parte opposta, invece, c’erano delle piscine al chiuso, che si intravedevano grazie a delle altissime vetrate azzurrine, e la mensa, anche quella proporzionata al resto dell’edificio. Tutto lì gli incuteva soggezione, tenendo conto del modesto ambiente da cui proveniva! Cercò tuttavia di fare finta di nulla, mentre sentiva gli occhi di tutti posarsi sulla sua figura esile e senza cappotto in quella mattina fredda. Al suono della campanella si diresse dentro con gli altri, guardandosi intorno tra l’incuriosito e lo spaventato.

Arrivato nell’ufficio del preside, fu velocemente spedito nella sua classe, dove si sedette in un banco il più lontano possibile dagli occhi di tutti, e aspettò pazientemente che arrivasse la professoressa. I suoi compagni erano proprio come li aveva immaginati: ben vestiti, pettinati alla perfezione, l’espressione snob che sporcava i loro visi fin troppo maturi. Stava già per rassegnarsi ad un altro anno in mezzo a gente di quello stampo, quando all’improvviso sentì un timido bussare alla porta. Quando venne spalancata, entrò una ragazza, chiaramente in ritardo.

La guardò distrattamente, poi tornò nuovamente a fissarla. Era… diversa, diversa da quella massa di persone troppo perfette. Aveva degli occhi verdi luminosi e furbi.

–Bellissimi…- Pensò Zayn, sospirando impercettibilmente. Solo dopo passò ai suoi capelli, nonostante fossero quelli la particolarità che la distingueva. Erano castani, un castano miele con leggere sfumature d’oro liquido, e tagliati dietro corti, da ragazzo, e davanti con un ciuffo enorme che le ricadeva sugli occhi. Il viso in generale era bello, regolare, un po’ sbarazzino. Incuteva simpatia in mezzo a tutti quei volti impassibili. Ed era davvero bella, pensava il ragazzo.  

–Spero che questo non sia l’orario a cui intendi arrivare ogni giorno, Elizabeth.- La rimproverò irritata la professoressa. Lui tese le orecchie, sentendo il cuore perdergli un battito. Elizabeth. El. Beth. Bethie. Eliza. Ely. Lei annuì, facendo comparire un sorriso timido. Zayn sentì qualcosa, nello stomaco, qualcosa di… leggero. Poteva sentire il cuore battergli nelle orecchie. Cosa stava succedendo?

Cercò di calmarsi, guardando altrove, ma cedette e presto riportò gli occhi sulla ragazza. Decise che l’avrebbe chiamata Bethie. Gli piaceva quel nome, tanto. Lei si era girata e stava cercando un posto dove sistemarsi. Ce n’era uno proprio davanti a lui.

–Mettiti qui, mettiti qui!- Pregò, incrociando le dita sotto il tavolo. Trattenne il fiato, vedendola camminare verso di lui, ma poi lei fece una brusca svolta per sistemarsi una fila più indietro, dove nessuno la poteva vedere. Beh, nessuno a parte lui.

–Guardami, guardami, ti prego…- Si trovò a supplicare, sperando che Elizabeth spostasse gli occhi su di lui. Invece lei si sedette al banco e poggi la testa sulle braccia, annoiata.

–Certo che quei capelli sono proprio stupendi…- Pensò, assumendo senza accorgersene la stessa posizione.

Ah, Bethie. 


 
**SPAZIO ME**
Nessuno mi segue la storia ma pubblico lo stesso, ultimamente mi sento ispirata per questa FF! Comunque, so che questi capitoli sono davvero una noia, ma ripeto, non saranno tutti così; adesso li faccio molto dettagliati per far conoscere gli ambienti ed i personaggi, evitando di descriverli tutto d'un colpo... Infatti più che dire subito come sono i protagonisti preferisco che i particolari vengano fuori con la storia, mi piace di più! Quindi, lo ridico ancora, adesso la storia scorre così lenta, ma tra un po' inizierà a succedere qualcosa per davvero e allora le cose cambieranno! 
Spero davvero che qualcuno legga questi capitoli perchè ci tengo, e se magari un'anima buona mi lasciasse qualche recensione... *w* Alla prossima. Love u <3

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Capitolo 4
*** Onice e cioccolato. ***


-CAPITOLO QUARTO-


ELIZABETH
I minuti scorrevano lenti, Elizabeth non ce la faceva proprio più; la voce della professoressa sembrava una colata di nero cemento che le si appiccicava addosso e la soffocava. Si permise di non ascoltare una parola, tanto era il primo giorno, non pensava avrebbero parlato di nulla di importante. E poi, in ogni caso, avrebbe saputo recuperare benissimo.

Tuttavia, quando suonò la prima campanella, non riuscì lo stesso a sentirsi sollevata: alzandosi dal banco di fretta, senza neppure prendere la sua merenda, corse fuori dall’aula senza guardare in faccia nessuno, aspettando solo di trovarsi in un angolino nascosto per poter riprendere fiato e stare per i fatti suoi qualche minuto. Non se la sentiva proprio di reggere gli assurdi discorsi dei suoi compagni, fissati con la squadra locale di calcio e con i computer, dei quali conoscevano tutte le marche ed i programmi. Delle femmine, irritanti vocine che spettegolavano su smalti rosa della boutique all’angolo della strada, o magari di qualche ragazzo carino delle classi superiori, non ne voleva neanche parlare. Come se non bastasse, sapeva che qualcuno le avrebbe chiesto dei capelli se fosse rimasta, e non aveva voglia di spiegare a quelle menti ottuse che li aveva tagliati semplicemente perché le piacevano così, e non ne poteva proprio più di quella zazzera inutile che la impacciava nella corsa. Si, perché Elizabeth correva e anche veloce. E a dirla proprio tutta, le piaceva molto anche il calcio; solo che la squadra del suo paese non la sopportava, era la peggiore in assoluto, nonostante tutti nella sua scuola la elogiassero.

Incoraggiata da tutti questi motivi per nascondersi, trovò in breve tempo un angolino nel lungo corridoio dove, mezza coperta da un muro, poteva sedersi e pensare. Si ripromise che si sarebbe portata un libro, il giorno successivo, giusto per far vedere che faceva qualcosa e scoraggiare a prescindere quei pochi che avrebbero potuto pensare di venirla a richiamare.

Passò lì tutta la ricreazione, senza fare nulla, accontentandosi di dare una cauta occhiata in giro. Sempre le solite facce. Una volta suonata la campanella, le spalle le crollarono al pensiero di tornare nella classe che, per quanto grande, le sembrava come mai minuscola e soffocante. Avevano inglese quell’ora, perlomeno la materia le piaceva abbastanza. Tornata dentro si sedette al banco e si rimise ad aspettare, giocherellando con la matita. Si aspettava un’altra ora pallosa almeno quanto le precedenti, invece appena la prof si sedette e scorse il registro si rese improvvisamente conto che non sarebbe stato così.

-Vedo che abbiamo il piacere di accogliere in classe un nuovo compagno!- Esclamò da dietro i suoi spessi occhiali da gufo, facendo scorrere lo sguardo severo tra i banchi.

-Un momento, eh? Cosa?- Pensò Elizabeth stranita. Che nuovo compagno? Lei non aveva visto nessuno!

-Che ne dici di venire qui e presentarti alla classe?- Aveva continuato intanto la professoressa. La classe era improvvisamente immersa in un silenzio denso e imbarazzante, come se tutti stessero aspettando qualcosa che non arrivava. Poi, finalmente, qualcuno, qualche banco dietro di lei, si scosse, alzandosi silenziosamente. Dovette fare un grande sforzo per non voltare la testa, ma alla fine ci riuscì. Un ragazzo le passò di fianco, poi andò a posizionarsi di fianco alla prof. Si tormentava le mani, nervosissimo.
Elizabeth lo osservò con attenzione. Era basso, a occhio qualche centimetro meno di lei, e non si poteva certo dire che lei fosse una cima. In proporzione, aveva un fisico piuttosto sottile, asciutto, dall’apparenza un po’ fragile. La sua pelle era un po’ più scura delle loro, sembrava straniero. Aveva anche i capelli nerissimi, una pozza di petrolio, tagliati molto corti; sembrava che li avesse accorciati da poco perché, nell’ansia, continuava a portarvi le mani, senza trovare mai un appiglio soddisfacente dove infilarle. Teneva la testa bassa, così la ragazza non riuscì a vederlo in viso, ma facendo spallucce pensò che ne avrebbe fatto a meno.

-Beh, io m-mi chiamo Zayn… ehm, Malik. Ho s-sedici anni e… ehm…- Balbettò lui. Aveva una voce calda, anche se in quel momento appariva piuttosto spaventata, e un accento diverso da quelli della sua città. Definitivamente, non era di lì.

-Da dove vieni, Zayn?- Chiese infatti la prof, addolcendo un po’ il tono, vedendo che al moro iniziavano a tremare le mani. Accidenti, doveva essere davvero molto timido. Insomma, un po’ Elizabeth lo capiva. Non sembrava troppo in linea con il modello di studenti di quella scuola, in primis per la sua divisa, che gli ciondolava addosso: doveva essere di almeno due taglie troppo grande!

-Mh… Io s-sono nato a Bradford, m-ma mio padre è d-del Pakistan…- Spiegò il ragazzo, alzando la testa di qualche centimetro, appena rincuorato dalla voce della professoressa. Elizabeth, guardandosi intorno, riusciva quasi a sentire i pensieri dei suoi compagni di classe. “O mio dio, un immigvato, che ovvove!”.

Lei, invece, fece appena caso all’informazione, perché all’improvviso riusciva a vedere in viso Zayn. Non poteva dire che fosse brutto, proprio no. Aveva sopracciglia dritte e decise, aggrottate in quel momento per l’agitazione, e i lineamenti straordinariamente regolari per essere un maschio, partendo dal naso dritto per arrivare alle labbra, con il labbro inferiore decisamente pieno ed imbronciato. Gli occhi, poi, contornati da ciglia fitte, erano una colata di onice e cioccolato fuso, con scintille dorate.

-Gli occhi, quelli sono decisamente belli-, decise la ragazza, riflettendo tra se. Non ricordava nessun altro che li avesse di quel colore, era davvero particolare. Non riuscì a rifletterci troppo, perché immediatamente fu catturata dalla domanda successiva.

-Molto bene. Vuoi dirci qualcosa di te?- Esclamò la prof a quel punto. All’improvviso, Elizabeth incrociò le dita, pregando non sapeva neppure lei quale santo.

-Di che ti piace il calcio, la squadra di qui mi raccomando… Per favore interessati ai computer… Ama la Apple… Qualcosa così, ti prego!- Sussurrò a fior di labbra. Per quanto quella scuola fosse tanto stimata per la sua ferrea istruzione, nessuno era ancora riuscito a fare nulla contro il fenomeno del bullismo, che dilagava fin troppo velocemente. Se non avesse risposto così a quella domanda, per il moro c’erano mesi e mesi di torture ad aspettarlo. Lei lo sapeva bene, aveva già vissuto altri anni a combattere contro quelle amebe che volevano cambiarla e risucchiarla nel loro noiosissimo e, così dicevano, perfettissimo universo.

-Io… Ecco, m-mi piace disegnare…- Balbettò con un filo di voce il moro, parlando alla punta delle sue scarpe infangate. La ragazza sentì, a seguire la sua voce, una quantità insopportabile di risolini ed esclamazioni di dissenso. Mhhh, okay.

-Buona fortuna, Zayn.- Pensò tra se Elizabeth, appoggiando la testa sul banco e sospirando.


 

**SPAZIO ME**
Mh, come capitolo fa abbastanza pena, non mi stupisco che nessuno mi recensisca… Ma io sono testarda, hahahaha ;) Spero che da qualche parte ci sia qualcuno a cui possa piacere questa roba… Love u

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Capitolo 5
*** Brontolio di stomaco. ***


-CAPITOLO QUINTO-



ZAYN
Tornando al proprio posto dopo la presentazione, Zayn avrebbe voluto solo scomparire. Non ricordava quasi nulla di quello che aveva detto, ma sapeva fin troppo bene di essere arrossito e di aver balbettato come un idiota.

-Perché mi comporto così, accidenti?- Si chiese, scuotendo la testa scoraggiato. C’era stato un tempo in cui chiacchierare con gli altri gli piaceva; un tempo in cui era allegro, aveva tanti amici, rideva alle battute e ne faceva di proprie. Non arrossiva, allora, e non balbettava neppure, ben  lontano dall’essere timido. Erano tempi passati, però, pensava il moro, sentendo ancora nelle orecchie le risatine dei suoi nuovi compagni.

Si seppellì nel banco, facendosi il più piccolo possibile, e smise di ascoltare la professoressa nel momento esatto in cui iniziò a spiegare il programma del nuovo anno. Tutta roba complicata, che lui non capiva e che non aspirava neppure a capire. Non sarebbe stato certo studiando quella roba che avrebbe combinato qualcosa di buono.

Nonostante tutte le sue preghiere perché il tempo passasse in fretta, la lancetta dell’orologio sul muro sembrava incollata sempre allo stesso punto. Quelle due ore sembrarono eterne, ma finalmente ad un certo punto finirono, con il trillare insistente di un’altra campanella. Disorientato, guardò tutti i suoi compagni alzarsi in fretta e dirigersi in corridoio. Sbirciando l’orologio per la millesima volta quella mattina, però, capì dove stavano andando. Era ora di pranzo! Così, dato che aveva una certa fame, corse dietro agli altri lungo il corridoio, cercando però di non farsi notare.

Arrivarono in una sala enorme: alla sua sinistra c’era una lunghissima teca di vetro, che gli arrivava al petto; lì venivano esposte i grandi recipienti colmi del menù del giorno. Dietro ad essa stavano, dritte come soldati, una decina di cuoche con tanto di cuffietta rosa in testa; condendo ogni piatto con un sorriso formale, riempivano man mano i vassoi di tutti i ragazzi nella mensa. Quel giorno servivano maccheroni con il sugo e carne, il tutto accompagnato da verdure. Seguendo i movimenti di un ragazzo con i capelli dorati prese un vassoio da una pila, le posate da un’altra, e una tovaglietta in un angolo. Posizionato tutto nel modo giusto, seguì il biondo fino alla fila.

Quando già stava per arrivare il suo turno, all’improvviso venne spinto da parte da qualcuno alle sue spalle. Un ragazzo moro e un suo amico lo superarono, guardandolo di traverso, come sfidandolo a ribattere, cosa che ovviamente non fece; con un sospiro rassegnato, si posizionò dopo i due. Vedendo che non reagiva, però, uno dopo l’altro quelli dopo di lui lo superarono, spintonandolo bruscamente. Inizialmente il moro cercò di fare finta di nulla; dopotutto cosa cambiava a lui? Non aveva fretta. Quando però gli spintoni divennero sette, otto, dieci, tredici, e ancora, si trovò a pensare che di quel passo non avrebbe più mangiato.

-Scusa, c’ero p-prima io…- Mormorò timidamente, picchiettando un dito sulla spalla di uno dei furboni che qualche secondo prima era dietro di lui.

-Hai detto bene, “c’eri”. Adesso ci sono io prima, e vedi di scocciarmi.- Sputò l’altro, guardandolo appena. Il moro si strinse nelle spalle, mordendosi il labbro, preso da un’improvvisa voglia di rispondergli a tono; dopo un altro sospiro, però, semplicemente lasciò stare.

Fu così che, quando finalmente arrivò il suo turno, ormai il tempo per la pausa pranzo era quasi finita. Ricevette quello che rimaneva in fondo alla pentola, ma dopotutto era sempre più di quello che era abituato a mangiare a casa propria, dove poteva ritenersi fortunato se il padre metteva in tavola qualche pietanza precotta del supermercato. Una volta ci pensava lui a cucinare, ma era stato tempo prima; i suoi sforzi non venivano ma apprezzati e così dopo un po’ l’abitudine si era spenta. E dire che era anche abbastanza bravo: non ricordava una sola volta in cui avesse lasciato bruciare una pietanza o avesse sbagliato gli ingredienti per una ricetta.

Immerso in quei pensieri, iniziò a cercare un tavolo appartato e possibilmente vuoto dove mangiare in pace. Il suo stomaco brontolava con forza e non vedeva l’ora di assaggiare quei maccheroni, avevano un aspetto davvero invitante!

Stava ancora perlustrando la mensa, quando la rivide. Quei capelli li avrebbe riconosciuti ovunque. Se ne stava in un angolino vicino alle finestre, il tipo di posto che stava cercando lui, lontano almeno tre o quattro metri dagli altri tavoli. Stava tagliando la carne e muoveva leggermente la testa al ritmo di una musica che, si accorse all’improvviso, arrivava dalle cuffiette che aveva alle orecchie. Era bella anche così, quell’enorme ciuffo sulla testa che tremava a ritmo di una canzone che poteva solo immaginare e la guancia destra gonfia di cibo.

Zayn pensò che sarebbe stato bello andare da lei. Si immaginò con il carattere di un tempo, quello della sua infanzia. Non avrebbe avuto paura. Si sarebbe avvicinato, un sorriso stampato sul volto, e le avrebbe domandato: -Ehi, sei sola? Disturbo se mi siedo qui?-

Non avrebbe disturbato, a quei tempi. Chiunque sarebbe stato felice di accogliere in classe il suo vecchio io, simpatico, divertente, gentile con tutti. Era cambiato troppo in fretta, non ricordava la strada percorsa e non sapeva come percorrerla all’inverso. Aveva bene impresso però il momento in cui la gente aveva iniziato a spaventarlo. Era stato molto tempo prima, dopo che sua madre…

Pum!

All’improvviso sentì una fitta fortissima al braccio destro, quello con il quale reggeva il vassoio. Trattenendo il fiato per il dolore, riuscì appena in tempo a riacchiappare al volo la sua roba prima che si sfracellasse al suolo, combinando un disastro. Quella di riafferrare gli oggetti prima che cadessero era un’abilità che aveva sviluppato naturalmente a casa sua, dove un solo libro caduto, una volta, aveva scatenato il finimondo. Ma cosa l’aveva colpito?

Si guardò in giro, incontrando gli occhi neri di un ragazzo molto più alto di lui. Il suo viso sembrava minaccioso, ma cercò di non badarci. L’aveva colpito con un pugno, con il chiaro intento di fargli cadere il pranzo. L’ultima parte del suo piano non era riuscita, ma in compenso aveva beccato benissimo un punto dove aveva già un livido pulsante. Esaminò il cibo, quasi intatto, poi tornò a guardare il ragazzo. Era alto e abbastanza muscoloso, con folti capelli castani e occhi neri. Ricordò vagamente di averlo visto in ultima fila, nella sua classe, durante la sua presentazione.

-Non vogliamo sporchi Pakistani nella nostra scuola.- Scandì, come fosse stata la cosa più semplice del mondo. Lo guardò, come aspettandosi una reazione, ma Zayn era pietrificato. Sapeva che il castano l’avrebbe potuto mettere fuori gioco in pochi secondi e non aveva voglia di provare, assolutamente.

Allo steso modo, con movimenti lenti e calcolati, l’altro gli prese dalle mani il vassoio. Camminando senza fretta, lo portò fino al bidone e vi rovesciò dentro tutto il contenuto, salvando appena le posate, che appoggiò sul bancone delle cuoche con fare soddisfatto. Poi tornò da Zayn e glielo rimise tra le mani, quasi con gentilezza.

-Noi non vogliamo sporchi Pakistani come te nella nostra scuola.- Precisò, come insicuro che il messaggio fosse stato recepito correttamente.

Sentendo le guance diventare improvvisamente rosse il moro capì che la scelta migliore era andarsene davvero. Uscì dalla mensa, camminando svelto, senza sapere dove rifugiarsi. Forse la sua sarebbe potuta essere un’uscita ad effetto, senza la risata tonante che gli esplose alle spalle una volta varcata la porta. Tutti si erano divertiti un mondo e lo sapeva. Quel tipo castano aveva offerto loro uno show davvero interessante.

-Bhe, dopotutto non avevo neanche così tanta fame.- Sussurrò tra se e se, strofinandosi il punto dolente sul braccio e lasciandosi alle spalle tutto l’istituto che ancora sghignazzava. 


**SPAZIO ME**
Non ho ancora trovato nessuno che legga questa FF, o almeno nessuno che mi faccia recensioni (nessuno che non sia mio compagno di scuola ahahahah)
Comunque io non desisto ahahah ;) E avverto che tra poco ci sarà finalmente una piccola svolta, tutti questi capitoli (speriamo) riusciranno a prendere un senso! :)
Ringrazio chiunque legga, sperando che almeno una persona ci sia... <3
Love u

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Capitolo 6
*** Passo, passo, respiro. ***


-CAPITOLO SESTO-



ELIZABETH.

Passo, passo, respiro. Elizabeth correva, con il ciuffo di capelli più lunghi che le solleticava la fronte, tenuto malamente fermo da una mollettina che aveva recuperato nel bagno tempo prima. Era orribile, rosa e di plastica scadente, ma nessuno l’avrebbe vista, quindi andava bene così.

La sua casa era piuttosto lontana dal centro, in un quartiere ricco di villette con immensi giardini e spazi aperti intorno. Mesi prima aveva trovato, a poche centinaia di metri da quel’ammasso di casette troppo curate, una distesa erbosa che aveva più o meno le dimensioni di un parco da calcio. Si era allenata alla corsa tutti i giorni quell’estate, verso le quattro del pomeriggio; e uscendo da scuola alle tre riusciva benissimo a mantenere quell’abitudine anche d’inverno.

Posizionò i suoi paletti per segnare le distanze che avrebbe dovuto percorrere, poi prese il cronometro dalla tasca e si preparò a farlo partire. Dopo una decina di minuti di riscaldamento, era ora di lavorare sulla velocità. Aveva un nuovo record da battere, e sapeva di potercela fare, ma quel giorno le gambe non la seguivano. Non riusciva a concentrarsi, la sua mente volava via e si imbottiva di pensieri tutti suoi, ben lontani da quei numerini neri sullo schermo.

Non riusciva a non pensare a quel tipo nuovo. Zayn. La scena della mensa continuava a pungolarle il cervello. Aveva fatto finta di non vedere nulla, immersa nella sua musica, ma a dire il vero aveva osservato tutto fin troppo attentamente.

-Non vogliamo sporchi Pakistani nella nostra scuola.- Aveva detto Ben. Elizabeth lo conosceva fin troppo bene, quello sbruffone che si credeva dio. Più di una volta era stata mira delle sue battutine sarcastiche, e di conseguenza della derisione della sua banda. All’inizio la ragazza era stata portata a pensare che non avesse paura di niente e nessuno, visto come diceva le cose in faccia a chiunque non gli andasse a genio e come la scampasse sempre. Poi, però, aveva anche riflettuto sul fatto che la banda, in fondo a tutto, uno scopo doveva pur averlo. Ben non girava mai senza. Chissà come se la sarebbe cavata in quel caso, contro qualcuno di più autoritario.

Certo non era il caso di quello Zayn. A Elizabeth bastava chiudere un attimo le palpebre per rivedere la sua espressione terrorizzata. Aveva avuto anche pietà di lui, scorgendo la paura nei suoi begli occhi; poi però aveva pensato che contro l’intera scuola non avrebbe contato nulla, e aveva lasciato perdere. Dopotutto, non lo conosceva neppure!

Nonostante questo, però, aveva sentito una stretta allo stomaco vedendolo correre via, rosso in viso, senza aver mangiato neppure un boccone. E soprattutto, seguito dalle risate di tutti. Cosa ci fosse di divertente lei non sapeva dirlo. Quella frase minacciosa non le ispirava certo allegria; al massimo le faceva venir voglia di bucare le ruote alla nuovissima bici di Ben la mattina dopo. Sapeva che non l’avrebbe fatto, però; era già abbastanza odiata dai suoi compagni senza prendersi contro anche altra gente.

Si chiese come avrebbe reagito il moro. Non sembrava il tipo da fare la spia al preside, era troppo terrorizzato. Chissà, magari avrebbe semplicemente fatto finta di nulla. Per tutto il resto della giornata era stato chino sui libri, senza mai alzare lo sguardo e senza dire una sola sillaba. Non sembrava proprio il silenzio di chi trama una vendetta… Avrebbe quasi voluto parlargli, ma…

Oh, accidenti, non lo conosceva neppure, non poteva farsi mettere in mezzo in quella faccenda. Zayn era un ragazzo di sedici anni e come tale se la sarebbe dovuta cavare da solo.

Riportò la propria attenzione sulla corsa. Prese in mano il cronometro, poi si mise in posizione. Guardò qualche secondo il paletto a cui doveva arrivare; era lontano da lei circa una cinquantina di metri, misurati ad occhio. Sapeva ritrovare sempre lo stesso punto perché era segnato, altrimenti non avrebbe avuto la pazienza di portarsi dietro un metro ogni volta. Fece un respiro profondo, poi sussurrò:

-Tre, due, uno…- Bang.

Elizabeth corse, scattò in avanti più veloce che poté, e immaginando di poter picchiare Ben alla fine del percorso riuscì a tagliare il traguardo un ventisette decimi di secondo prima del suo ultimo record.

***


-Elizabeth, tesoro, sei in casa?- Esclamò la voce acuta di sua madre aprendo la porta d’ingresso. La ragazza sbuffò, un po’ per il “tesoro” e un po’ per la domanda fin troppo ovvia.

-No, mi hanno rapita gli alieni.- Borbottò indistintamente, mordicchiando la matita. Erano da poco passate le otto di sera e stava ancora studiando. Forse si era trattenuta un po’ troppo al campo, felice per il nuovo risultato, ma la colpa in fondo era tutta di quella stupida matematica, e della professoressa, che aveva assegnato agli alunni “un semplicissimo problema di ripasso.” Al diavolo.

-Cosa, tesoro? Non ti ho sentito.- Chiese la stessa vocina, ricordandole che non era sola.

-Si ma’, sono qui…- Disse un po’ più forte, sospirando e tornando a calcolare. Sperava che sua madre capisse che non era giornata, sparava con tutto il cuore che stesse zitta e le preparasse qualcosa di consolante per cena, ma sapeva che non era il tipo. Infatti, quando poco tempo dopo scese per mangiare, la testa bionda di sua mamma Michelle si girò velocemente nella sua direzione, con un sorriso falso che le tendeva il viso troppo truccato in modo innaturale.

-Come è andata la scuola, Elizabeth? È andato tutto bene?- Chiese, mettendole davanti al naso un piatto con pesce e verdura. Arricciò il naso, dato che il pesce non le piaceva troppo; ma la corsa del pomeriggio l’aveva sfinita al punto che non voleva altro che ingoiare qualcosa, fosse anche quella robaccia salutare che si trovava nelle riviste a cui la sua famiglia era abbonata.

-Certo, ma’, tutto benissimo.- Sussurrò sarcastica. Sua madre sapeva bene quanto odiasse quella scuola da privilegiati e quanto le pesasse andarci, ma faceva sempre finta di niente. Anche quella volta, dunque, non notò, o decise di ignorare, l’ironia presente nella sua voce, ribattendo:

-Ne sono felice, tesoro. Questo per te sarà un anno importante. Hai gli esami, ricordi?- E come scordarlo.

-Si, me lo ricordo.- Rispose asciutta la ragazza, prima di ripulire velocemente il piatto e metterlo dentro alla lavastoviglie. Voleva correre via il prima possibile, per evitare il discorsetto sulle responsabilità che era certa si stesse formando sulle labbra lucide di Michelle.

Mentre saliva le scale di corsa, sapendo di sfuggire da un tormento solo per buttarsi nella geografia, che era quasi peggio, sentì alle spalle l’ultima frase della bionda, più acuta che mai:

-Ricordati, tesoro, a letto alle nove e mezza!- Accidenti.
 


**SPAZIO ME**
Shiao a tutti, rieccomi qui! Questo capitolo non mi piace troppo ma volevo pubblicare, vabbè, ci si accontenta :’) Tanto non è che lo legga poi tanta gente ahahah ;)
Ne approfitto per ringraziare di cuore le cinque persone che l’hanno messa tra le ricordate e le cinque recensioni sparse nei vari capitoli… GRAZIE, DAVVERO! <3
Alla prossima, Love u <3

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Capitolo 7
*** Fingere di non esistere. ***


-CAPITOLO SETTIMO-

 

ZAYN.

Quando Zayn arrivò a casa erano ormai passate le quattro del pomeriggio. Aveva dovuto fare tutta la strada a piedi per la seconda volta, e contando che non aveva neppure mangiato nulla era davvero sfinito.

Una volta davanti alla porta si fermò un attimo, cercando di cogliere i rumori provenienti dall’interno. Sentì un brusio ronzante e familiare, la televisione, e capì quindi che suo padre era in casa. Facendosi coraggio prese le chiavi dalla tasca interna dello zaino ed entrò, ricordandosi all’ultimo minuto di togliersi le scarpe impolverate: sapeva che sarebbe toccato a lui pulire e, per quanto possibile, cercava di risparmiarsi del lavoro inutile.

 Fece una rapida revisione mentale delle tante cose che avrebbero potuto spingere suo padre a prendersela con lui quel pomeriggio, sospirando di sollievo una volta arrivato alla conclusione che non c’erano motivi palesi perché si arrabbiasse; quindi, anche se non totalmente calmo, decise che non avrebbe rischiato nulla a passare per il salotto.

Una delle maledizioni peggiori di quella casa era che la scala che portava al piano di sopra, dove si trovavano le camere, era accessibile solo dalla sala, stanza dove di solito si trovava suo padre. Ed era lì anche quel pomeriggio, infatti, stravaccato sul divano con in mano una lattina di birra scadente, mentre guardava con occhio distratto la partita.

-Ciao, pa’- Mormorò con un filo di voce il moro, entrando nella stanza e esitando appena di fronte all’imponente figura sdraiata davanti a lui.

In tutta risposta Yaser grugnì, scocciato, spostando pigramente lo sguardo dallo schermo fino al ragazzo, bloccato dal timore, con la cartella penzolante su un fianco. Tuttavia, anziché distogliere subito gli occhi e riportarli alla partita, restò ad osservare suo figlio, accorgendosi degli sguardi nervosi che quest’ultimo gli lanciava.

-Cazzo hai da guardare? Non avrai mica combinato qualcosa già al primo giorno?- Ringhiò, sollevandosi leggermente, già pronto a scattare.

-No, no, n-non ho fatto niente pa’, d-davvero!- Si difese Zayn, balbettando, la voce improvvisamente acuta. Il ragazzo sentì le guance andare a fuoco mentre il tono minaccioso di suo padre gli penetrava nella pelle. Chiuse un secondo gli occhi, come in attesa di qualcosa che, fortunatamente, non arrivò.

-Sparisci allora.- Brontolò Yaser a quel punto, già dimenticato il precedente scatto d’ira, limitandosi a lanciare la lattina, ormai vuota, contro la schiena del ragazzo, che correva via il più velocemente possibile su per gli otto gradini che lo avrebbero momentaneamente messo in salvo.

Una volta arrivato in camera, Zayn si lasciò cadere sul letto, respirando profondamente. Aveva davvero temuto il peggio quando suo padre era scattato a quel modo; per fortuna ultimamente sembrava andarci meno pesante del solito… Ma doveva comunque stare attento, attentissimo, perché a quel punto ogni piccolo errore gli sarebbe costato caro.

Suo padre andava al lavoro ogni sera alle sette e mezza e ritornava a notte fonda; così fino a quell’orario il moro doveva solitamente fingere di non esistere: non fare nessun rumore, non disturbare, e soprattutto non uscire dalla sua stanza per nessuna ragione al mondo. Sarebbe stato quasi meglio sparire, ma non ne avrebbe mai avuto il coraggio. Sgattaiolare fuori ed essere beccato era una di quelle cose che si rifiutava anche solo di immaginare. E non era una buona idea neppure uscire una volta che Yaser era al lavoro: un giorno, tanti mesi prima, verso le otto il moro era andato in fondo alla strada per giocare un po’ a pallone contro il muro di un vecchio edificio abbandonato. Suo padre, proprio quel giorno, era tornato a casa prima, e non l’aveva trovato; l’aveva così cercato in giro, fino a scoprirlo che si divertiva con un ragazzino incrociato per caso. Quella serata era ancora impressa nella sua mente in modo impressionante: gli bastava chiudere un attimo gli occhi per risentire lo stesso dolore e udire le stesse urla…

No, doveva smettere di pensarci. Dopotutto era passato, da quel giorno non aveva più corso rischi, arrivando tutt’al più ad uscire in giardino.

Per bloccare l’ondata di ricordi che gli avevano invaso la testa prese la cartella e ne tirò fuori i libri di matematica. La prof aveva dato dei problemi “di ripasso” per il giorno dopo, e lui non ci teneva ad essere preso subito di mira perché non faceva i compiti. Avrebbe già fatto abbastanza fatica da solo, senza bisogno di ulteriori casini.

Iniziò a fare i primi calcoli, cercando di capire il ragionamento da fare, ma dopo pochi passaggi si era già perso. C’erano delle operazioni che non gli tornavano, e oltretutto i risultati che gli venivano erano assurdi. Dov’era che aveva sbagliato? Cercò di tornare indietro, ma si confuse ancora di più. Non ci capiva niente di quella roba! Provò a ricominciare, e ci mise venti minuti buoni prima di arrivare ad una soluzione, che oltretutto era ben lontana da quella giusta. Quel dannatissimo problema non aveva proprio intenzione di venirgli. Lanciò uno sguardo disgustato alla pagina, piena di inchiostro nero e numeri pasticciati, e decise che ne aveva avuto abbastanza.

Riposto tutto nuovamente nella cartella, si rassegnò a consegnare un foglio in bianco, sarebbe stato meno umiliante di tutti gli sbagli dei quali era certo fosse pieno il suo esercizio. A quel punto, scoraggiato, decise che gli avrebbe fatto bene leggere un po’, per risollevarsi l’umore.

Prese dalla scrivania “Harry Potter e la pietra filosofale”, uno dei tre libri della saga sui quali era riuscito a mettere le mani, e si stese sul letto a leggere, attento a non far cigolare le molle.

-Leggo mezz’oretta questo, poi torno al resto dei compiti.- Si ripromise, lanciando un’occhiata alla vecchia sveglia su comodino. Non mancava tanto prima che suo padre se ne andasse, appena qualche ora… Poteva resistere, in compagnia di Harry, Ron, Hermione e la magica scuola dove avrebbe voluto trovarsi in quel momento.

***

Zayn sobbalzò quando sentì la porta di casa sbattere all’improvviso. Trattenne il fiato qualche secondo, ascoltando attentamente, e quando si rese conto di non esserselo sognato, che suo padre era finalmente andato al lavoro, saltò giù dal letto, lasciando il libro aperto in due sulla coperta. Camminò piano lo stesso, in caso di un falso allarme, ma non c’era niente di cui preoccuparsi: era davvero solo.

La prima tappa del ragazzo fu la cucina: il suo stomaco vuoto brontolava come mai e aveva assolutamente bisogno di metterci dentro qualcosa. Aprì il frigorifero, trovandoci solo alcolici, che ovviamente non aveva il permesso di toccare, e un po’ di formaggio che stanziava lì da un paio di giorni. Cercando in fondo alla dispensa trovò qualche fetta di pane, giusto un po’ secco; lo prese e ne fece un panino. Lo divorò in due morsi, senza preoccuparsi del sapore, e sentì finalmente la sua pancia riempirsi, facendo cessare i crampi causati dalla fame. Sospirando, e sognando grandi torte con cioccolato e panna, bevve un po’ d’acqua fredda;  poi tornò velocemente al piano di sopra.

Si tolse la divisa di scuola, restando in boxer, e fece una corsetta verso il bagno, dove si spogliò del tutto buttandosi sotto il getto della doccia. L’acqua calda rilassò lentamente i suoi nervi tesissimi, dopo di che il ragazzo iniziò ad insaponarsi lentamente, come a lavarsi di dosso tutte le preoccupazioni. Ed effettivamente, una volta finito, si sentiva molto più rilassato, finalmente solo e con addosso dei jeans e una maglietta al posto di quell’enorme uniforme.

Tornò in salotto e si sedette sul divano, beandosi della piccola bolla di pace che si era creata dopo l’uscita di Yaser. Riaccese la Tv e iniziò a guardare un programma a caso, tanto l’importante era rilassarsi!

Restò lì per un’oretta, poi tornò di sopra. Di solito andava a dormire piuttosto tardi, ma quel giorno, forse per la camminata, forse per tutte le emozioni, era stanco morto. Indossò il pigiama in pochi secondi e si infilò sotto le coperte, beandosi del silenzio e del calore delle lenzuola.

Fu in quel momento che gli venne in mente lei. Bethie. Aveva iniziato a chiamarla così nella sua testa senza neppure pensarci, gli veniva naturale.

All’improvviso davanti agli occhi iniziarono a sfilargli immagini di quella mattinata di scuola, ma non delle scene che si sarebbe aspettato di ricordare. Sotto le palpebre chiuse rivisse il momento in cui, timidamente, la ragazza aveva bussato alla porta ed era entrata, causandogli un brivido. Rivide i suoi capelli di miele, quel taglio corto e sbarazzino, e i suoi occhi, quel verde così bello e intenso… Sentì il cuore fargli una capriola nel petto e si morse forte il labbro, per evitare di sorridere come un ebete. Non gli piaceva comportarsi così, gli sembravano cose da… innamorati, ecco.

Ma lui non lo era, affatto. Stava solo pensando al fatto che fosse carina, così carina, con quel visino furbo e intelligente che gli ispirava simpatia, e… NO! Stava ricominciando con i suoi farneticamenti.

Dopotutto, anche se (per pura ipotesi) Bethie gli fosse piaciuta, Zayn sapeva di non avere possibilità. Da quel giorno sarebbe stato additato come lo sfigato, come lo stupido, come lo“sporco Pakistano”. Il moro era certo che lei non ne avrebbe voluto sapere nulla di lui.

Non era bello, non aveva nessun tipo di talento con cui attrarla, e da quel momento in poi sapeva che sarebbe stato anche uno tra i più impopolari della scuola, quello che a ricreazione fa capannella con i secchioni e i gay, sebbene non fosse ne uno ne l’altro.
Quale ragazza avrebbe mai voluto anche solo essere amica di un tipo del genere?

-Nessuna…Tanto meno lei.- Sussurrò sconfortato il moro, accorgendosi solo dopo di aver parlato ad alta voce. Non aveva nessuna speranza, lo sapeva, quindi era meglio che evitasse di farsi venire una cotta inutile. Doveva restare con i piedi per terra. Non avrebbe più pensato a Beth… Elizabeth, ancora meglio.

Cercando di bloccare i pensieri prese il cuscino e vi mise la testa in mezzo, come ad isolare forti rumori che, lo sapeva, non provenivano ne da fuori, ne tantomeno dal cervello. Non era la sua testa a fargli riascoltare cento e cento volte la voce della ragazza, fino a farlo addormentare; no. Era semplicemente il suo cuore, stanco, dopo tanti anni, di continuare ad essere ignorato.


**SPAZIO ME**
L’ultima parte mi fa letteralmente schifo ma volevo pubblicare entro stasera, ed eccomi qui…
Come sempre ringrazio le sei recensioni sparse per i vari capitoli, le cinque persone che hanno messo questa storia tra le seguite e quella benedetta ragazza che l’ha messa addirittura nelle PREFERITE!! **
Ringrazio tutti quelli che leggono, anche se magari non recensiscono, anche se devo dire che una piccola recensione non mi dispiacerebbe, anzi sarebbe utile per sapere come migliorare la storia eccetera… Anyway, spero che questo capitolo possa piacere a voi più di quanto piaccia a me…
Love u <3

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Capitolo 8
*** Una brutta interrogazione. ***


-CAPITOLO OTTAVO-

 

ELIZABETH.

I primi giorni di scuola passavano; lenti ovviamente, ma passavano. Tra lezioni varie, compiti fatti svogliatamente, pagine studiate in fretta sul bus in attesa di arrivare in classe, era ormai arrivato il venerdì, l’ultimo giorno prima dell’attesissimo weekend. Tutti si sentivano meglio di venerdì mattina, sentendo già nell’aria il clima di libertà che serpeggiava tra i banchi.

Beh, quasi tutti. Elizabeth non era tanto più allegra del solito, infatti: il giorno prima aveva avuto una lunga discussione con sua madre, che avrebbe voluto iscriverla ad un corso di danza classica. Ma cosa gliene importava a lei di fare quegli stupidi balletti con un ridicolo gonnellino rosa confetto? Per chi l’avevano presa? A lei piacevano la corsa, il calcio, gli sport dove ci si divertiva davvero, mica quella roba là, dove il massimo dell’emozione era volteggiare sulle punte senza cadere. E facendosi un male cane, oltretutto.

Sua mamma aveva strillato, supplicato e minacciato, ma si era portata le mani alla bocca davanti al netto rifiuto della ragazza, che per  nulla al mondo si sarebbe sottoposta a quella tortura. Non ne aveva già abbastanza con quella scuola odiosa?

Così, quel venerdì mattina, Elizabeth faceva fatica a ritrovarsi nella felicità leggera degli altri suoi compagni. Le facevano anche un po’ rabbia, a dire il vero, così irritanti con quei loro sorrisetti soddisfatti.

L’unico che non sorrideva mai era quello nuovo, Zayn. L’aveva osservato a lungo durante quella settimana, e poteva giurare di averlo visto sorridere appena un paio di volte, sempre per cortesia. Certo, lui aveva anche meno motivi di lei per sorridere.

Dal primo giorno, il fatto che un ragazzino Pakistano si fosse appena trasferito nella loro scuola aveva fatto il giro di tutte le classi, e per il moro erano stati brutti momenti. In corridoio tutti lo spintonavano sempre, sembrava un piccolo sacco da boxe messo lì apposta per essere sbatacchiato contro gli armadietti; in mensa era peggio, se possibile: Zayn cercava sempre un angolino nascosto per sfuggire ai suoi perseguitatori, ma ogni volta quelli lo scovavano tra la folla e facevano capannella intorno a lui, urlandogli nelle orecchie i peggiori insulti mai sentiti. Questo, ovviamente, continuando a prenderlo a pugni, neanche l’avessero preso per un antistress dove sfogare la propria rabbia. Elizabeth dubitava che fosse riuscito a finire di mangiare anche una sola pietanza senza che essa venisse rovesciata, buttata a terra, o rubata.

E la parte più sconvolgente della cosa era che nessuno faceva niente per fermare tutto quello, Zayn al primo posto. Quando lo colpivano strizzava forte gli occhi per il dolore, e magari certe volte lanciava un gemito soffocato, ma a parte quello non sembrava avere altre reazioni. Se veniva picchiato incassava tutto nel più totale silenzio, neanche fosse abituato ad essere preso a pugni ogni giorno.

-Certo che è ben strano…- Pensò la ragazza, sbirciando verso il suo banco. La testa scura del ragazzo era bassa, le spalle incurvate, le caviglie strettamente intrecciate tra di loro. Non si muoveva di un millimetro; riusciva a stare immobile per delle ore, in modo che sembrava non respirasse neppure.

Alzando le spalle, però, dovette riportare i suoi pensieri alla lezione e alla professoressa, che con piglio severo stava scorrendo il dito lungo il registro per decidere chi interrogare. Quando vedeva quell’unghia laccata di rosso avvicinarsi al suo Elizabeth aveva ogni volta un tuffo al cuore, però quella mattina per fortuna non ci si soffermò mai.

-Malik, interrogato!- Annunciò infatti la voce seria della donna. Elizabeth alzò gli occhi al cielo: era una sua impressione o il mondo si stava coalizzando contro di lui in quei giorni?

Lo vide alzare la testa, titubante, e poi alzarsi di scatto, prendendo il libro da sotto il banco e camminando svelto fino alla cattedra. Di tutto il procedimento, la cosa che stupiva di più era l’assenza di ogni suono: il moro non faceva mai stridere la sedia contro il pavimento, non lasciava mai cadere una penna, nemmeno i suoi passi facevano rumore sulle piastrelle tirate a lucido. Sembrava volteggiare a due centimetri da terra, come un fantasma.

Arrivato alla cattedra, senza dire una parola, aspettò la prima domanda, con le mani che gli tremavano appena. Aveva il viso calmo, ma era più che ovvio che fosse solo una facciata da come si passava le dita tra i capelli cortissimi, cercando un appiglio che non c’era.

La prof iniziò con una domanda facile, alla quale però rispose titubante, balbettando in modo incontrollato. Sembrava spaventato, ma Elizabeth non riusciva a capire da cosa… Il massimo che rischiava era prendere un brutto voto, no? Non c’era niente di male, anche se lì non capitava troppo spesso che qualcuno non fosse preparato.

Già alla seconda domanda, però, Zayn si trovò in difficoltà. La professoressa gli aveva chiesto l’eccezione della terza proprietà delle potenze con esponente negativo, una cosa che lei avrebbe saputo dire in cinque secondi netti; lui, invece, cercando la risposta giusta faceva sempre più confusione.

-Allora, n-nella terza p-proprietà delle potenze abbiamo escluso il caso c-che, ehm… l-l’esponente del dividen… no, no, aspetti, del divisore, sia maggiore dell’esponente del d-dividendo, p-perché… L’abbiamo escluso perché, ecco… si, il risultato c-che si ottiene applicando il t-teorema… Ecco…-

Fece un gran respiro, come a spazzare via quell’ammasso di parole imprecise, e restò in silenzio, un silenzio denso come catrame che penetrò tra i banchi, e fece scorrere per la stanza sguardi che dicevano: “e adesso?”

La prof cercò di andare avanti, ma il moro era completamente terrorizzato, Elizabeth lo vedeva tremare fin dal suo posto. Ma cosa aveva, accidenti? Era solo un’interrogazione! Una brutta interrogazione, però. Quando Zayn tornò al suo posto, mordendosi il labbro con forza, sul registro, vicino al suo nome, faceva bella mostra un “cinque” rosso d’inchiostro fresco.

Per tutto il giorno, Zayn fu totalmente assente. Non alzò mai lo sguardo e non disse una sola parola, neppure in mensa, quando metà scuola si radunò intorno a lui per sfotterlo pesantemente. Sembrava non essere neppure cosciente della gente intorno a se, lo picchiavano e nemmeno li guardava, senza mangiare, senza fare nulla di speciale, gli occhi fissi in un punto vuoto, sempre verso il basso ovviamente…

Elizabeth pensava sempre più che avesse qualcosa di strano. Non nel senso di “sbagliato”, ovviamente. Semplicemente sembrava diverso da lei e tutti gli altri, sembrava avere cose per la mente che la maggior parte della gente faceva fatica ad immaginare. Era perso in un mondo tutto suo, e chissà com’era poi, questo mondo. Non ci voleva poi tanto perché fosse meglio di quello reale, comunque.

-Chissà se c’è posto per due, in quel posto…- Si chiedeva la ragazza, mentre faceva i suoi soliti allenamenti di corsa, mentre studiava, mentre cenava. Aveva quel chiodo fisso in testa e non riusciva a staccarsene.

Solo prima di dormire, quando la calma e il silenzio le permisero di pensare meglio, si rece conto di quanto fosse assurdo che stesse ogni minuto del suo tempo a rimuginare su un tipo con il quale non aveva mai neanche parlato, che non conosceva, e che tra l’altro non le interessava neppure come “ragazzo”. Molti dei suoi ragionamenti (compreso quello del posto per due, in effetti) sembravano proprio da ragazzina innamorata. Eppure lei non lo era, assolutamente! Zayn, però, avrebbe tanto voluto conoscerlo meglio lo stesso.

-Uno di questi giorni lo saluto e gli dico qualcosa.- Si ripromise mentalmente quel venerdì sera, già mezza addormentata, senza neppure immaginare quanto presto sarebbe arrivato quel momento, e che cambiamenti avrebbe portato nella sua vita ordinata…
 




**SPAZIO ME**
Capitolo piuttosto inutile, ma… Mi serviva per poter scrivere meglio il prossimo, credo che capirete leggendo… Se lo leggerete! In questo momento comunque mi interessa di più approfondire il punto di vista di Zayn, quello di Elizabeth sarà importante più avanti.
Come al solito ringrazio davvero di cuore quelle buone anime che recensiscono, VI AMO! Ringrazio ovviamente anche tutti gli altri lettori (se mai ci siano ahahah), le cinque “ricordate” e addirittura una “preferita”!!
Spero che questa storia possa piacervi, io mi impegno tanto a scriverla!
Love u
 

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Capitolo 9
*** Sangue. ***


IN QUESTO CAPITOLO SONO PRESENTI SCENE DI VIOLENZA, SE QUESTO RISCHIA DI DARVI FASTIDIO NON LEGGETE! :)


-CAPITOLO NONO-


 

ZAYN.

Non ci poteva credere. Solo la prima settimana e già aveva preso un’insufficienza. Non era possibile, eppure aveva studiato tutto… Ma ripeterlo alla cattedra, davanti a tutta la classe che lo fissava acutamente, come sotto esame sotto gli occhi severi della professoressa… Non ce l’aveva fatta, gli era venuta l’ansia, ed ecco il risultato. Un cinque.

Come l’avrebbe detto a suo padre? Non poteva nasconderglielo: quando poi l’avrebbe scoperto si sarebbe infuriato il doppio, come quella volta, un anno e mezzo prima, quando aveva preso addirittura un tre e non gliel’aveva comunicato. Yaser lo era ovviamente venuto a sapere, e non amava ricordare ciò che era successo dopo.

Ma come poteva dirglielo, accidenti? Il ragazzo sentì il respiro farsi più pesante mentre raccoglieva mentalmente le parole da pronunciare. Immaginò la figura imponente di suo padre davanti a se e sentì una stretta allo stomaco; forse stava per vomitare.

Arrivato davanti alla porta di casa, era ormai in preda al terrore. Non ce l’avrebbe mai fatta. Poteva dormire fuori, non entrare affatto, scappare da qualche parte, purchè lontano da lì… Ma no, non poteva…

Si costrinse ad aprire il battente, richiudendolo piano dietro di se, il cuore che martellava prepotente nelle tempie, e camminò con lentezza fino al salotto. Suo padre era lì, come sempre disteso davanti alla televisione, in compagnia della sua solita birra. Zayn respirò profondamente, ma non sembrava esserci più tanta aria lì attorno. Aveva lo stomaco annodato, sentiva una leggera nausea al pensiero di ciò che stava per fare…

-Papà, o-oggi…- Sussurrò, chiudendo in fretta le palpebre, per poi riaprirle, esitando. Si inumidì le labbra secche, piantando con forza le unghie nel palmo della mano.

-Cosa hai combinato, coglione?- Scattò subito suo padre, lo sguardo più attento. Strinse i pugni al punto che le nocche gli diventarono bianche.

Il respiro di Zayn era quanto mai affannato e sconnesso. Aveva il cuore in gola, le gambe gli tremavano, gli sembrava di essere sul punto di svenire. Cosa aveva fatto per meritarsi tutto quello? Dov’è che aveva sbagliato?

-Hai preso di nuovo un’insufficienza! Lo sapevo, sei solo un cretino!- Urlò a quel punto Yaser, leggendo la risposta negli occhi del figlio.

Si alzò dalla poltrona, camminando pesantemente nella sua direzione, sotto gli occhi supplicanti di Zayn, che non poteva fare altro che restare a guardare, impotente, sentendo il respiro strozzarsi in gola; quando gli fu davanti lo guardò con disprezzo qualche secondo, stringendo le labbra, le pupille puntate sul suo viso come ad incenerirlo. Poi, in un attimo talmente breve che sembrava non esserci mai stato per davvero, alzò una mano e lasciò uno schiaffo sulla guancia del ragazzo, con forza.

Il moro trattenne il fiato per il dolore, ma non emise un suono. Lo sapeva che sarebbe finita così. Era passato fin troppo tempo dall’ultima volta.

-Sei uno schifo! Io faccio di tutto per mandarti in quella merda di scuola e tu non studi neanche!- Gli urlò contro Yaser, le vene sul collo che pulsavano pericolosamente. Tirò un pugno nello stomaco al ragazzo, facendolo tossire per il dolore, e senza neanche dargli il tempo per rialzarsi con un calcio gli fece perdere l’equilibrio, costringendolo ad appoggiarsi contro al muro. Zayn era in trappola, e lo sapeva.

Il ragazzo sentì la grossa mano del padre prendere la sua spalla e attaccarla alla parete, poi una serie di pugni nello stomaco, uno dopo l’altro, velocemente. Era senza fiato, non riusciva più a respirare…

-Sei solo un deficiente! Non capisci niente!- Continuava ad urlargli contro Yaser. L’uomo gli tirò un pugno in faccia, spaccandogli il labbro, che iniziò a sanguinare copiosamente; subito dopo una serie di schiaffi gli fecero sanguinare anche la guancia e il sopracciglio destro. Faceva sempre più male, e il ragazzo avrebbe voluto urlare, ma sapeva che suo padre odiava quando lo faceva, lo chiamava femminuccia e picchiava ancora più forte; così strinse le labbra e non si lasciò sfuggire un suono.

Un altro colpo al fianco gli fece perdere la presa alla parete, così che pochi secondi dopo si trovò steso a terra, sbattendo la testa su quel pavimento freddo. Un calcio nello stomaco lo spedì dritto contro al muro, così che le fitte alla pancia si unirono a quelle sulla schiena. Stavolta non riuscì a trattenere un gemito mentre un altro pugno gli arrivava forte, sulla spalla, provocandogli un dolore atroce.

-Sei solo un fallito, un fallito, uno schifo!- Le urla nelle suo orecchie si stavano facendo più distanti, sovrastate da un ronzio soffocante. Davanti agli occhi vedeva macchie nere e rosse, luci intermittenti che gli impedivano di mettere a fuoco la stanza e il viso rabbioso del padre.

-È colpa tua se Tricia se n’è andata, facevi schifo anche a lei!- Sbraitò a quel punto Yaser, tirando un calcio nello stomaco del ragazzino con tutta la forza che aveva in corpo.

Il dolore alla pancia fu terribile, una fitta lancinante che sembrava aver colpito un punto scoperto; la sensazione aumentò quando il moro sentì in bocca il sapore del sangue. Ne sputò un po’ sul pavimento, cercando convulsamente di respirare, ma non ce la faceva proprio più.

Forse suo padre aveva ragione. Forse era davvero colpa sua.

-Lei se n’è andata perché sei un lurido verme, ti odiava!- Calci, pugni, ancora calci. Zayn aveva la bocca piena di sangue, non riusciva neanche più a sputarlo, non sapeva più da dove proveniva il dolore, non vedeva più nulla oltre quelle fastidiosissime lucine rossastre davanti agli occhi. Il ronzio si era intensificato, gli stava distruggendo i timpani.

Forse era vero. Magari l’aveva sempre odiato. Nessuno l’avrebbe mai potuto amare. Era un fallito. Era uno schifo.

Suo padre stava andando davvero oltre quel giorno. Di solito, quando vedeva il sangue gocciolare sul pavimento, si fermava, sfregandosi le nocche. Quel pomeriggio sembrava ci stesse prendendo gusto a picchiarlo. Facendogli scrocchiare la mascella sotto un pugno sorrideva, di una gioia sadica e malvagia, anche se il ragazzo non poteva vederlo.

-Sei un coglione, ecco cosa sei!- Un pugno, un altro, un calcio alla gamba. Il ragazzo lanciò un grido soffocato, ormai quasi incosciente.

Nessuno poteva volergli bene. Era un buono a nulla.

-Non capisci niente! Tutti i miei soldi buttati!- Gli schiaffi continuavano ad infrangersi contro la sua pelle, le unghie la laceravano,  provocando tagli lì dove ancora non ce n’erano.

Voleva solo dormire. Voleva solo farla finita.

Un calcio allo sterno lo mandò dritto contro la parete, sbatacchiato come una marionetta. Battè la testa un’ennesima volta.

Basta. Per favore.

Aveva perso il conto dei colpi, non avrebbe neanche saputo dire quanto tempo era passato. Sentì una fitta terribile al torace; non riusciva più a respirare, sentiva i polmoni urlare in protesta, gli serviva dell’aria, ma i colpi ripetuti sembravano aver rubato tutto l’ossigeno dalla stanza. Il sapore del sangue scuro in bocca gli dava la nausea, ma non aveva la forza di sputarlo…

Per favore...

Ad un certo punto qualcosa di ancora più duro lo colpì di nuovo, facendogli un male incredibile. Da quel momento non capì più niente, mentre il ronzio nelle sue orecchie diventava sempre più insistente e sopprimente, e piano piano la vista gli si oscurava…

Prima che Yaser avesse avuto il tempo di vibrare l’ennesimo pugno, il ragazzo perse conoscenza, disteso nella rossa pozza del suo stesso sangue.




**SPAZIO ME**
Buonsalve :)
Questo è un capitolo abbastanza decisivo, anche perché poi, come vedrete, in qualche modo farà… eh, no, non posso dirlo! :P Non è che mi sia piaciuto tanto scriverlo, perché insomma, anche se è una storia inventata il pensiero che capiti anche nella realtà mi fa un pochetto schifo… Per me per chi picchia i propri figli, o chi in generale non può difendersi, dovrebbe stare in un bel posticino fornito di sbarre e guardie fuori dalla porta, chiamato prigione. Occhei, basta che sennò mi scaldo ahah ;)
Comunque, dicevamo, scrivere questo capitolo non è stato quel che si dice “bello”, e neanche il risultato finale è proprio quello che mi aspettavo, ma… Ci si accontenta, right?
Da questo momento in avanti ci saranno un paio di svolte importanti, quindi continuerò in fretta :D
Ringrazio come sempre quelle anime buone che mi recensiscono, le cinque che hanno questa FF tra le ricordate e quella benedetta che ce l’ha tra le preferite :’) GLASSIE. <3
Love u <3

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Capitolo 10
*** Pensieri confusi. ***


-CAPITOLO DECIMO-




ELIZABETH.

Un timido raggio di sole si fece strada tra le tapparelle abbassate, colpendo in pieno il viso di Elizabeth, ancora profondamente addormentata. La ragazza sbattè qualche volta le palpebre, disorientata, poi riuscì finalmente a mettere a fuoco la sua camera. Sorrise.

Non sapeva neanche lei perché sorrideva… Forse perché era sabato, e se ne poteva stare al calduccio nel suo letto invece di alzarsi fin troppo presto per andare alla sua odiosissima scuola; o magari perché sembrava che l’unico raggio di sole in quella città costantemente annuvolata si fosse infilato proprio nella sua stanza.

Fatto sta che quella mattina si sentiva stranamente bene. Non aveva voglia di restare a poltrire sotto le coperte, e dopotutto aveva già dormito due ore buone più del suo solito, così si alzò in fretta, stiracchiandosi come un gattino.

Sua madre era già andata al lavoro, come tutti i giorni: non conosceva neppure la parola vacanza, quella donna, così lei era totalmente sola in casa.

Beandosi della sua totale indipendenza, la ragazza si infilò sotto la doccia, lasciando che il getto tiepido le bagnasse i capelli corti e la rilassasse ancora di più, togliendole di dosso l’umidità appiccicosa della notte. Restò sotto l’acqua per un tempo che le parve interminabile, lavandosi con attenzione, poi uscì, avvolta in una nuvola di vapore, e si avvolse in un asciugamano.

Tornata in camera agguantò dall’armadio un vecchio paio di jeans, che abbinò con una maglietta di almeno due taglie più grandi, che aveva rubato dal guardaroba di suo padre da ragazzino… Tanto a lui non poteva certamente servire più.

Scendendo in cucina trovò la propria colazione già pronta e disposta con ordine sul tavolo: latte, ormai freddo, una scatola di biscotti al cioccolato, e dei cornetti dall’aspetto delizioso.Mhh… Con lo stomaco brontolante Elizabeth si buttò sul cibo, bagnando la punta della brioche strapiena di crema nel latte, e poi mangiandola a piccoli morsi, gustandosi il sapore delicato. Lei amava mangiare, soprattutto i dolci, e per fortuna era di costituzione naturalmente magra, così poteva permetterselo!

Una volta finito quello spuntino, la ragazza iniziò a pensare a cosa fare. Insomma, va bene che era vacanza, ma non poteva restarsene con le mani in mano tutto il giorno. Non era una cosa che riteneva divertente, il poltrire. Lei preferiva decisamente fare.

Decise che per prima cosa avrebbe finito i compiti per il lunedì, così da avere tutto il fine settimana libero; una volta fatto quello, poi, uscì all’aperto per i suoi allenamenti di corsa, per una volta fuori orario.

Si cambiò di nuovo, infilandosi un vecchio paio di pantaloncini corti, e uscì di casa passando dalla porta sul retro. Una volta arrivata nel suo grande campo si regalò cinque minuti per contemplare la bellezza di quell’erba leggera sotto la luce tiepida del sole, seminascosto dietro a ciuffi di nuvole, ovviamente. Si stava benissimo lì, il silenzio quasi totale era musica per le sue orecchie, fin troppo abituate al rombare delle macchine in centro e agli urli sempre eccessivi della gente che incontrava.

Nessuno sapeva più ascoltare il silenzio, tra quelli che frequentava. Dubitava che qualcuno nella sua scuola ne fosse in grado: loro non avrebbero mai avuto la pazienza di scoprire le regole di quello strano gioco. Erano per la maggior parte intelligentissimi, ma agivano come automi, seguendo sempre gli stessi schemi. Lì non c’era una logica, c’era solo il vento sottile che le accarezzava la pelle e faceva frusciare l’erba.

Lei, invece, era riuscita a tenersi fuori da quella schiera di robot, era riuscita a tenere ben salde le proprie idee, e sapeva ancora immaginare. Forse ogni tanto certi suoi giochi potevano sembrare infantili, ma per lei erano davvero importanti, anche a sedici anni compiuti. Ricordava ancora il giorno in cui, tanto tempo prima, aveva giurato che non si sarebbe mai sentita troppo adulta per fermare un attimo il mondo e ammirare le cose più semplici. Da che ricordava, non aveva mai rotto quella promessa. Di quelle fatte a sua madre, ne poteva contare al massimo un paio che aveva davvero rispettato; ma quella non l’avrebbe mai tradita, lo sapeva.

Era tutto merito di Maya. Era stata lei ad insegnarle tutto quello che sapeva, altro che la scuola. La sua Yaya… Cosa avrebbe fatto per averla ancora lì con lei… Di certo sarebbe stata una persona migliore, molto migliore di quello che era.

 Ma quella era un’altra storia, Elizabeth doveva convincersi che lei ormai apparteneva al passato… Scosse la testa ripetutamente, cercando di arginare i pensieri, che avevano preso a scorrerle nella mente fin troppo veloci. Non voleva pensarci, non in quel momento. Doveva correre.

Si allenò duramente, cercando di coprire il ronzio dei pensieri con il bruciore dei muscoli, ma sapeva che era un’impresa vana. Quella mattina la sua testa era andata totalmente nel pallone. Quando sotto le palpebre le comparve l’immagine di Zayn le venne quasi rabbia. Possibile che non potesse starsene in pace cinque minuti senza che la gente si infilasse nei suoi pensieri? E che gente, poi.

Chissà perché pensava così tanto spesso al moro. Non aveva neanche niente di speciale, dopotutto, escludendo una timidezza ai confini dell’assurdo e quelle sue strane capacità di sembrare un fantasma, per l’assenza di ogni rumore e movimento.

La ragazza non potè fare a meno di domandarsi che cosa stesse facendo in quel momento. Magari era in giardino e stava giocando a calcio con i suoi fratelli, oppure era andato a fare una gita con i suoi genitori… O magari era semplicemente chiuso nella propria camera a disegnare… Già, disegnare cosa, poi? Avrebbe voluto chiederglielo, il giorno della presentazione. Si potevano capire tante cose su una persona dai soggetti dei suoi disegni, perché spesso si tende a trasferire sulla carta quello che si agita dentro la testa e non si riesce a catturare in parole.

Una volta aveva conosciuto una ragazza bravissima a scrivere poesie. Non che ci avesse parlato poi tanto; non aveva abbastanza esperienza in amicizie per sapere cosa dire, e così le poche volte che si erano trovate insieme non si erano dette granchè. Però Elizabeth era riuscita a leggere un paio delle sue creazioni, tramite il giornalino della scuola, e aveva capito su  di lei una moltitudine di cose. Sarebbero potute andare d’accordo, se non fosse stato per la sua naturale diffidenza nei suoi coetanei.

Tornando con il pensiero a Zayn, la ragazza cercò di immaginarselo nella propria camera, intento a tirare fuori un’opera da qualche foglio e una delle sue matite smangiucchiate. Seguì mentalmente la linea delle gambe, intrecciate con forza sotto la sedia, come era sua abitudine, proseguì per il profilo del fianco, che ricordava vagamente, sempre nascosto da quella divisa troppo abbondante, e infine arrivò alle spalle, sottili e leggermente curve.

Lì si fermò un attimo, prendendo fiato, perché nel frattempo senza quasi accorgersene aveva continuato a correre; poi una volta rifatta scorta di ossigeno ripartì da dove era rimasta.

Dopo le sue spalle arrivò al suo collo, sottile, e finalmente al viso, la parte di lui che preferiva. La mascella era ben squadrata, abbastanza spigolosa, stranamente priva di quelle rotondità tipicamente infantili che ancora si annidavano nei suoi compagni. D’altronde era incredibilmente magro, non c’era da stupirsene. Il suo naso era dritto, così come le sopracciglia scure, sempre aggrottate in un misto di preoccupazione e timore. Poi c’erano i suoi occhi. Beh, quelli Elizabeth li adorava davvero! Cambiavano a seconda della luce, variando dalle sfumature del cioccolato al latte a quelle dell’onice fuso a quelle dell’oro più puro.

Tuttavia, non senza stupore, la ragazza si rese conto di ricordarli immersi in un alone di… no, non era tristezza, era più… cupezza, ecco. Come se fosse passato troppo tempo dall’ultima volta in cui aveva davvero pensato a qualcosa di bello. E il suo sorriso, poi? Non riusciva a ricordarlo, semplicemente perché non l’aveva mai visto davvero, neanche una volta in una settimana.

Si chiese cosa potesse avere. Sempre così insicuro, timido, sfuggevole, come distaccato dal resto del mondo…

Ma perché ci stava pensando, poi? Chi era lei per farsi quelle domande? Perché si interessava tanto a quel tipo? Le sembrava di avere la testa in procinto di esplodere… Da una parte la curiosità era troppa, dall’altra l’irritazione per il suo eccessivo interessamento la spingevano a zittire il proprio cervello.

Dio, sembrava una ragazzina innamorata. Beh, una ragazzina lo era, ma innamorata proprio no. Da quanto tempo non amava davvero qualcuno…

Ehi, no, aspetta. Cosa le prendeva? Era per caso la giornata dei viaggi mentali filosofici e nessuno l’aveva avvisata? Avrebbe voluto friggersi il cervello nella candeggina pur di zittirlo, pur di non sentire le sue continue richieste. Dopotutto lei stava bene così, non aveva bisogno di andarsi a complicare la vita con strambi ragionamenti sull’amore, o magari su quel tipo della sua classe.

-Ricordati bene, cara… Il giorno in cui ti sentirai abbastanza saggia da non volerti fare più domande, ripensa al braccialetto che ti ho regalato. Un cerchio perfetto, ricordi? Bene, quel giorno guardalo e trovane l’inizio. Quando sarai riuscita a scoprire quello, tesoro mio, vieni da me. Sai cosa farò? Ti darò una domanda più difficile. So che già questa ti sembra impossibile, ma fidati di me, c’è di più. C’è sempre di più, e ce ne sarà finchè tu lo cercherai. Il mistero scompare solo davanti agli occhi di chi non lo vuole vedere.-

Elizabeth si prese la testa tra le mani, sentendo una stretta al cuore al ricordo.

-Yaya, ti prego, non mettertici anche tu…- Sussurrò, decidendo improvvisamente di interrompere gli allenamenti. Tutto d’un colpo le era venuta una voglia tremenda di pane scuro con la marmellata, quella casereccia che non mangiava più da tanti anni…
 





**SPAZIO ME**
Non saprei, questo capitolo non mi convince particolarmente, anche perché sono praticamente moribonda ahhaah, ho la febbre e a malapena capisco cosa scrivo. Giusto per dimostrare la mia intelligenza, infatti, anziché starmene a letto mi metto a pubblicare i capitoli…
Comunque devo dire che ciò che ho scritto è stata un po’ una sorpresa anche per me, perché quando ho iniziato a stenderlo non avevo neanche mai pensato alla figura di Maya, anzi non avevo proprio idea che sarebbe esistito un personaggio come lei… E invece mi è saltata fuori, da chissà quale angolo malmesso della testa, e ricordatevela, perché sarà importante!
Comunque, lo so che più che un capitolo sembra davvero un vagheggiamento senza senso, ma… Quasi tutto ha una ragione, io lascio piccoli indizi per quello che succederà, probabilmente se riuscirete ad arrivare alla fine di questa FF capirete perché ho scritto certe cose!
Cambiando argomento, ringrazio davvero con tutto il cuore le 14 recensioni totali, quella persona che mi ha messo tra le ricordate, le otto che invece mi hanno infilato nelle seguite… E addirittura, non ci credo io per prima, le tre che mi hanno tra le preferite!! Grazie a tutte, davvero, e anche a chi legge in silenzio ovviamente… Vi voglio tanto bene :’)
Aggiornerò presto, così potrete vedere che fine ha fatto Zayn ;)
Love u 

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Capitolo 11
*** Lividi e fumetti. ***


-CAPITOLO UNDICESIMO-

 

ZAYN.

Zayn aprì piano gli occhi, guardandosi intorno, e cercò di ricollegare tutti i pensieri confusi che infuriavano nella sua mente. Era sabato mattina; l’orologio segnava le dieci e mezza. Quindi, calcolò, suo padre doveva essere uscito da circa tre quarti d’ora. Nei weekend lavorava ad orario continuato, se ne andava la mattina e tornava la sera tardi, fermandosi a mangiare dei panini da qualche parte sull’autostrada.

Il ragazzo sospirò di sollievo, pensando che non l’avrebbe dovuto affrontare quel giorno, ma tutto d’un tratto sentì una fitta fortissima al petto. Ahi. Trattenne il fiato, cercando di stare il più possibile immobile, finchè il dolore non sparì; a quel punto si ridistese, buttando la testa indietro sul cuscino.

Gli faceva male ovunque… Ma doveva alzarsi, non poteva certo starsene lì tutto il giorno, no? Cercando di fare il più piano possibile si tirò a sedere, stringendo forte le palpebre, sentendo diverse parti del suo corpo gemere in protesta. Sbuffò, alzandosi in piedi, e provò a fare qualche passo. Poteva andare.

Con passo strascicato si diresse in bagno, accorgendosi all’ultimo minuto di avere ancora addosso la divisa di scuola, macchiata di rosso in più punti. Se la cavò, buttandola sul pavimento, e si mise davanti allo specchio, osservandosi con sguardo critico. Accidenti se ci era andato pesante.

Il giorno prima, una volta ripresa conoscenza, si era ritrovato disteso per terra, la testa pulsante; il suo sangue denso era ovunque, macchiava i suoi vestiti e il pavimento, impregnando la stanza di un odore insopportabile. Si era alzato, senza curarsi del dolore quasi insopportabile, e in qualche modo era strisciato fino alla sua camera, dove si era rifugiato, steso sul letto, con il respiro corto. Lì era di nuovo caduto nel buio dell’incoscienza, dal quale era riemerso solo qualche minuto prima, strappato da quel sonno senza sogni da un paio di sottili raggi di sole, infiltrati attraverso le persiane rotte. Non aveva fatto in tempo a darsi una ripulita.

Ora invece era tempo che ci pensasse, anche perché il suo aspetto non era dei migliori. Il viso, in primis, aveva un aspetto piuttosto spaventoso, anche se il moro era abituato a vederlo ridotto in quella maniera.

Le labbra erano spaccate in più punti, con i tagli circondati da ampi aloni rossastri causati dal sangue secco; la stessa era la situazione delle sopracciglia, disastrate. Gli occhi erano gonfi, e intorno ad uno si era già formato un grosso livido violaceo. Ne trovò altri sul collo e sulla mascella, per non parlare del segno rossastro e graffiante di cinque dita sulla guancia! Si toccò il naso, con delicatezza, e con sollievo realizzò che perlomeno quello era sopravvissuto, solo un po’ gonfio e rossastro.

Se il viso era messo male, però, il corpo era peggio. Zayn non si fermò neppure a contare gli innumerevoli lividi che gli ricoprivano le gambe, le braccia, la schiena e la pancia; né fece troppo caso al numero esorbitante di tagli e graffi di varie misure che decoravano la sua pelle. Sarebbe stata un’inutile sofferenza e lui non ne aveva voglia, non in quel momento. Voleva solo infilarsi sotto la doccia e lasciare che il getto caldo dell’acqua gli distendesse i muscoli.

Mentre le goccioline bollenti gli picchiettavano sul capo, scivolando con leggerezza fino al mento, cercò di togliersi di dosso tutte quelle macchie rossastre e grumose, ma non riusciva proprio ad esercitare la pressione necessaria per lavarsi davvero, faceva troppo male…

Una volta finita la lunga doccia uscì dal bagno, ancora avvolto in una nuvola di umidità, e si infilò a caso una maglietta e i pantaloni della tuta, restando scalzo. Si sentiva ancora tutto dolorante e indolenzito, e non poteva neppure sfiorarsi i lividi senza sobbalzare, ma in fondo stava meglio.

Scese in cucina, chiedendosi distrattamente se sua padre si fosse ricordato di lasciargli qualcosa da mangiare, ma scoprì con disappunto che la dispensa era ancora più vuota del suo stomaco. Sospirò, stringendosi nelle spalle con una smorfia. Dopotutto non aveva così tanta fame.

Tornò di sopra, in camera sua, senza sapere che fare. Non riusciva quasi a muoversi, non ricordava che facesse così tanto male… Ma d'altronde quella volta suo padre aveva davvero esagerato, di solito si fermava un po’ prima… E poi lunedì avrebbe avuto scuola, e come avrebbe fatto a nascondere i lividi? Prima o poi la gente avrebbe iniziato a sospettare, lo sapeva, e loro avrebbero dovuto trasferirsi. E lui ne era stanco… Perché nonostante tutto, Zayn finiva ancora per affezionarsi.

Era passato tanto tempo dalla prima volta in cui era stato costretto a fare le valige e andarsene dalla casa in cui era nato. Da allora aveva vissuto in tanti posti diversi, tanti paesi della zona, trasferendosi più o meno ogni anno. E nonostante quello, ogni volta finiva per prendere a cuore i luoghi, la gente, anche se sapeva che avrebbe dovuto lasciarli. Aveva una buona memoria, lui. Si ricordava di un sacco di cose che la maggior parte delle persone non guardava neppure. Per esempio si ricordava sempre della gente, anche se poi quella raramente ricambiava, e se lo faceva era con qualche lontano vagheggiamento, come: “Ahh, si… Dunque, sei… Zyan, vero? O era Zayan?”

Non rimaneva mai impresso nella mente delle persone, quasi nessuno si ricordava mai di lui. Beh, c’era anche da dire che ce ne aveva messo, per affinare le sue capacità di passare inosservato. Con suo padre, un ragazzino appariscente o rumoroso non avrebbe avuto vita facile… Lui, invece, in qualche modo riusciva a cavarsela. Sapeva come evitare ogni genere di rumore, sapeva quale gradino della scala saltare perché cigolava sempre, sapeva come spostare la sedia senza farla stridere, sapeva come prendere al volo un oggetto appena prima che cadesse… Tutte piccole abilità che gli avevano salvato la vita.

Certo, il prezzo era una totale impopolarità, ma il moro era più che felice di doverlo pagare. Non gli piaceva troppo, essere in mezzo alla gente, infilato in quella confusione giocosa. Lui preferiva osservare.

Era da lì che venivano molti dei suoi disegni. Vedeva una persona per la strada, e come una macchina fotografica la sua testa registrava ogni più piccolo particolare. Poi tornava a casa e la infilava in un fumetto, distorcendone appena i tratti.

Gli piacevano, i fumetti, quasi quanto i libri fantasy. Li amava perché se li poteva creare da se, perché dentro c’erano mille e mille possibilità per far andare le cose in  modi sempre diversi… Gli piaceva perché i buoni vincevano, vincevano sempre. Si immaginava un supereroe rincorrere suo padre per tutta la città, prenderlo per la collottola e spedirlo dritto in qualche punto sperduto dell’Asia, da dove non sarebbe più tornato indietro.

Non aveva mai immaginato che gli facesse del male, però. Dopotutto, era pur sempre suo padre. Era la ragione per cui era quasi morto fin troppe volte, ma in fondo era, allo stesso tempo, anche la ragione per cui era vivo. E l’aveva cresciuto, in qualche modo, quando lasciarlo in balia del mondo sarebbe stata la cosa più facile da fare.

Quel giorno, però, non aveva voglia di pensare a Yaser, non con i lividi che ancora si stavano formando sotto la maglietta. Prese una matita e si sedette alla scrivania, iniziando a disegnare. Non sapeva neppure lui cosa, mentre le sue dita tracciavano linee sulla carta indipendentemente dal suo volere.

Occhi grandi, enormi, espressivi, con ciglia lunghe e uno scintillio furbo che li caratterizzava. Un naso dritto, regolare, e labbra decise ma delicate nello stesso tempo, in un sorriso che scopriva i denti bianchi. Il collo, delicato ma non eccessivamente esile, e la linea delle spalle, femminile ma allo stesso tempo forte.

Fu solo una volta arrivato ai capelli, rappresentati in un unico grande ciuffo scompigliato che copriva appena uno dei due occhi, che si rese conto di chi fosse il soggetto del disegno. Il ritratto, che pure era stato fatto inconsciamente e a memoria, ricordava a tal punto il viso di Elizabeth che il moro riuscì quasi a sorridere, meravigliato. Si limitò ad alzare appena un angolino della bocca, ma era più di quanto non avesse fatto tutta quella settimana messa insieme, quindi poteva bastare…

Bethie. Non ne voleva proprio sapere di andarsene dalla sua testa, eh?

Cosa avrebbe fatto per poterle parlare… Poter diventare coraggioso tutto d’un tratto, prendere in mano la situazione, andare da lei e sparare qualche battuta solo per vederla sorridere, e sapere di essere la causa di quella curva bellissima sul suo volto…

Ehi. Aspetta.

Da dove gli venivano quei pensieri? A lui Elizabeth non piaceva. Cioè, gli piaceva ovviamente, ma non in quel senso! E allora perché si metteva a fare quei farneticamenti? Dio, tutta colpa di quello stupido del suo cervello.

-Devi smettere di pensarci Zayn…- Borbottò al nulla, scuotendo piano la testa.

Oh. Perfetto. Si metteva anche a parlare da solo adesso.

E poi, cosa pretendeva uno come lui? Non era bello. Non era simpatico. Non aveva nulla da offrire. Probabilmente aveva ragione suo padre, nessuno l’avrebbe mai amato… Quindi, anche nel (remoto) caso in cui Bethie gli fosse piaciuta, lui non avrebbe potuto fare nulla comunque. Lei era bella, lei meritava amore. Un amore che lui non le avrebbe saputo dare.

Lui non era abbastanza per lei, semplicemente. Lui non era abbastanza per essere amato. Lui non era mai abbastanza per niente.

Prese il disegno tra le mani, accartocciandolo con forza, per poi buttarlo sul pavimento; la pallina di carta rotolò leggera fino a sotto la scrivania, poi si fermò. A quel punto Zayn scostò la sedia, silenziosa come al solito, e si buttò sul letto, senza preoccuparsi dell’ondata di dolore che gli provocò quella mossa.

Voleva solo dormire ancora. Possibilmente per sempre.





**SPAZIO ME**
Mi è venuto molto peggio di quello che pensassi, ma lo voglio mettere stasera, perché domani forse non potrò… Quindi, avete appurato che Zayn è vivo e vegeto, almeno in parte…
Nel prossimo ci sarà una scena decisiva, ci sarà un cambiamento molto serio, quindi non perdetevelo…
Spero che questa schifezza possa piacere a qualcuno e che qualche anima pietosa recensisca… ;)
Al solito ringrazio di cuore le recensioni, le ricordate, le seguite e le preferite, vi adoro, GRAZIE DAVVERO! <3
Love u

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Capitolo 12
*** Non ti farei mai del male, Zayn. ***


-CAPITOLO DODICESIMO-

ELIZABETH.

Quando Elizabeth si svegliò, riportata alla realtà dal fastidioso suono della sveglia, avrebbe voluto solo infilare la testa sotto il cuscino e fingere di non sentire. Di nuovo lunedì? Di già? Dove erano finiti quei due giorni di vacanza?

Doveva già tornare a scuola. Doveva infilarsi dentro quella divisa odiosa, prendere il suo solito pullman in mezzo allo smog della città, rinchiudersi in quella classe odiosa e restarci fino al pomeriggio. Piuttosto avrebbe preferito prendere una canoa e remare fino in Africa.

Con una smorfia schifata stampata in viso si costrinse ad alzarsi e prepararsi; tanto i suoi genitori non le avrebbero mai permesso di saltare le lezioni, se non per una malattia grave al pari della lebbra, e comunque lamentandosene.

Una volta pronta prese lo zaino, vi infilò dentro un grosso panino con la nutella e una mela per la merenda, e uscì di casa, imprecando contro il mondo intero. Per un pelo non perse l’autobus, ma alla fine riuscì ad arrivare in tempo, appena cinque minuti prima che suonasse l’ultima campanella; per fortuna, perché era già arrivata in ritardo un paio di volte e sapeva che sarebbe arrivata quella in cui gliel’avrebbero fatta pagare, magari con una comunicazione sul diario. Era meglio che sfruttasse un po’ della sua velocità per raggiungere quella maledetta classe, prima di aggiungere altri guai a quella giornata che già di per se non sembrava una delle migliori.

Solo una volta seduta al suo banco, i libri ben disposti davanti a se e senza la minima intenzione di ascoltare, si permise di prendere fiato e guardarsi intorno. Solite facce. Jam, ultima fila, si era tagliato i capelli, e Taylor, una ragazza due posti alla sua destra, aveva scordato a casa il foglio con i compiti, per cui si stava disperando, torturandosi le mani; a parte quello, non sembrava esserci nulla di nuovo. Stava per tornare al suo stato di dormiveglia in attesa della campana, quando lo vide.

Zayn. Cosa gli era successo? Aveva il viso ricoperto di lividi bluastri e graffi, che sembravano vecchi di almeno un paio di giorni, nonostante avessero appena iniziato a sparire. La ragazza lo guardò meglio, puntando gli occhi su di lui, e si accorse di come stava teso sul bordo della sedia, come stringeva i pugni sotto il tavolo. Doveva essergli successo qualcosa, era impossibile che si fosse ridotto così cadendo, soprattutto perché lui non cadeva mai, leggero e silenzioso com’era.

Cosa accidenti poteva avere fatto? E va bene il discorso che lei non doveva impicciarsi, che non poteva passare il suo tempo a pensarlo, perché semplicemente NON le piaceva, ma… Quella era una cosa diversa. Insomma, come poteva non farsi delle domande di fronte a quel suo viso disastrato?

Continuò a pensarci tutto il tempo, scartando ipotesi su ipotesi, perché nessuna le sembrava accettabile. Accidenti a quel ragazzo, perché le doveva importare così?

***


Ora di pranzo, finalmente. Durante la lezione di geografia aveva avuto paura di morire dalla noia; ma era possibile che lì dentro non ci fosse mai una lezione piacevole? Anche le cose che apprezzava, addirittura le sue materie preferite diventavano una palla assurda in quelle quattro mura.

Si mise in fila per prendere qualcosa da mangiare, anche se quel giorno non aveva poi tanta fame, il panino che aveva mangiato a merenda dopotutto era enorme! Tuttavia non riuscì a trattenersi dal riempire il piatto di fronte al menù del giorno, pasta con un formaggio particolare che lei adorava, e una volta lì… Perché no, si prese anche una porzione di pesce e verdure.

Trovò un angolino dove infilarsi per non venire disturbata e iniziò a mangiare con calma, gustandosi il sapore del primo. La stanza rimase in un silenzio relativamente tranquillo per qualche minuto, rotto solo da un brusio di chiacchiere di sottofondo, mentre i ragazzi iniziavano a pranzare allegramente; la pace però non era destinata a durare oltre.

-Che hai fatto al faccino, checca?- Esclamò la voce roca di Karl, un tipo biondo dell’ultimo anno, in un punto non identificato alla sua destra. Elizabeth tuttavia lo sentì abbastanza vicino da preoccuparsi.

Si girò, impercettibilmente, fingendo di essere tutta presa dal cibo, mentre in realtà squadrava preoccupata la scena che si stava svolgendo appena un paio di tavoli più in là. Zayn, lo sguardo basso e le mani tremanti, era stato come investito dalla domanda del ragazzo che lo sovrastava, con tutto il suo arsenale di muscoli ben scolpiti grazie alla palestra e al football. Il moro non trovò la voce per rispondere, ignorando la provocazione.

-Non si risponde più?- Lo prese in giro Karl, la voce più acuta atteggiata in un falso tono di rimprovero. Sorrideva, lo sguardo fisso su di lui, mentre con una mano forte gli stringeva il mento e lo sollevava, fino a stabilire un contatto visivo.

Senza la forza di opporsi Zayn lo lasciò fare, cercando però di non incontrare i suoi occhi. Elizabeth si chiese perché… Cosa avrebbe potuto fargli uno sguardo? Certo, il moro evitava sempre di guardare negli occhi le persone, quello era vero.

-Allora, sei sordo o cosa?- Sbottò a quel punto il biondo, strattonandolo leggermente, spazientito dal suo silenzio.

Perché non diceva niente? Cosa gli costavano due o tre parole? Magari poi l’avrebbero lasciato in pace, no? E invece Zayn se ne stava zitto, come congelato, pallidissimo, stringendo con forza le dita intorno al bordo della sedia. Elizabeth non capì cosa stesse facendo finchè non si accorse che le dita del biondo stavano spingendo proprio su un grosso graffio sulla mascella, facendogli un male terribile. La ragazza sarebbe quasi voluta intervenire, ma cosa avrebbe potuto fare, lei, contro quel palestrato che la superava di quindici centimetri in altezza?

Mentre provava ad immaginare quanti secondi sarebbe riuscita a tenergli testa, prima che lui la spiaccicasse come una frittella sul pavimento, Karl e il suo gruppetto si erano mossi. Visto che le loro provocazioni non avevano effetto sul moro, iniziarono a parlare forte, così che gli altri si girassero a guardare.Si esibivano per il pubblico.

-Sai cosa sei?- Iniziò il biondo, facendo ricomparire quel sorrisetto prepotente e stringendo ancora di più la presa.

-Sei solo uno schifo di immigrato. Un nero di merda. Sei uno sputo in questa scuola. Non avrebbero dovuto prenderti, eh? Ma ci penseremo noi a mandarti via… Non insozzerai a lungo questo posto, Malik, mettitelo in testa.- Proseguì poi, scandendo ogni lettera, sempre con quell’espressione colma di sadico divertimento. La minaccia nelle sue parole era palese.

Sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno alzasse un dito per fermarlo, Karl prese il moro per il colletto, costringendolo ad alzarsi. Uno della sua combriccola si portò alle spalle del moro, tenendogli i polsi dietro alla schiena, in modo che non potesse coprirsi mentre il biondo lo colpiva allo stomaco, una, due, tre volte.

L’espressione di Zayn in quel momento era spaventosamente contratta, in preda ad un dolore che non aveva mai manifestato quando veniva picchiato; forse fu proprio quello a spingere gli altri ragazzi a picchiarlo sempre con maggior forza, fino a che la campanella che segnava la fine del pranzo non suonò, costringendoli ad interrompersi. Lasciarono il moro cadere a terra, senza respiro, e semplicemente gli voltarono le spalle, andandosene con tutta la tranquillità del mondo, come se non fosse successo niente.

Elizabeth aveva assistito a tutto, senza poter fare nulla, come al solito; quella volta però la smorfia sul viso del moro le provocava una stretta al cuore.

La sala si stava lentamente svuotando, tutti i ragazzi stavano tornando in classe, così come avrebbe dovuto fare anche lei. Si alzò, esitando,  e si diresse verso il bidone, ripulendo con attenzione i resti sul suo vassoio, prendendo tempo… Neanche lei sapeva per cosa. Quando poi si accorse di essere rimasta praticamente sola in mensa, e consapevole che sarebbe rientrata in ritardo per la lezione successiva, alzando le spalle si decise ad andarsene.

Stava per imboccare il corridoio, quando un rumore la fece fermare. In un punto imprecisato in mezzo ai tavoli qualcuno respirava pesantemente; si sentiva benissimo in quel silenzio tombale. Aspettò, tendendo le orecchie, finchè un gemito leggero non la spinse a tornare sui suoi passi per cercare… Qualcuno.

Fece qualche passo tra le sedie, lanciando lunghe occhiate in giro per la stanza, finchè non lo vide. Doveva essere stata stupida per non averlo capito prima: era lui, Zayn.

Lo osservò, zitta, chiedendosi se fosse il caso di intervenire. Il moro era seduto a terra, le ginocchia portate al petto e la fronte debolmente poggiata su di esse, mentre le sue dita non riuscivano ad evitare di tormentare il polsino della camicia troppo larga. Sembrava senza fiato come dopo una lunga corsa, le sue spalle si alzavano e si abbassavano veloci, mentre dalle sue labbra l’aria usciva in piccoli sbuffi affannati.

Elizabeth non ce la faceva a vederlo così, sapeva che doveva dargli una mano, era più forte di lei; fu per quello che, nonostante il lieve accenno di paura che le rendeva la voce piuttosto insicura, decise di parlare.

-Ehi?- Lo chiamò, mantenendo la voce bassa, cercando di non spaventarlo. Tuttavia Zayn alzò la testa di scatto, il timore dipinto in volto, mentre il suo respiro continuava ad accelerare. Il ragazzo sciolse quella posizione, distendendo un po’ le gambe, e cercò di riportare il viso a quella maschera composta e assente dietro alla quale si nascondeva, quando le emozioni prendevano il sopravvento.

Elizabeth lo guardò, avvicinandosi di qualche passo, senza dire niente. Lo vide indietreggiare, spaventato, nervoso.
-Se v-vuoi colpire a-anche tu f-fai in f-fret-tta p-per favore…- Sussurrò, rapido, mangiandosi le parole tanto era agitato, coprendosi d’istinto il viso e strizzando le palpebre, come in attesa del dolore, per poterlo gestire meglio.

La ragazza spalancò gli occhi per lo stupore, senza capire il senso di quelle parole, poi stringendosi nelle spalle fece un altro paio di passi avanti, chinandosi, in equilibrio sulle punte dei piedi. Ormai i loro occhi erano alla stessa altezza.

-Non ti farei mai del male, Zayn…- Sussurrò la ragazza, con voce appena percepibile. E all’improvviso quelle parole le sembrarono giuste, mentre negli occhi costantemente nascosti del ragazzo moro sembrò accendersi una scintilla nuova, sconosciuta. Forse speranza.





**SPAZIO ME**
E finalmente i due si sono parlati, ieeee *balla la conga*
Ovviamente il discorso non finisce qui… Se vorrete leggere cosa si diranno i due vi toccherà aspettare il prossimo :P
Visto che sto ancora piuttosto male, anche se non ho più la febbre fortunatamente, oggi non sono potuta uscire, così ho lavorato a questo capitolo. Spero che a qualcuna faccia piacere!! :)
Ringrazio con tutto il cuore le sedici recensioni, nei vari capitoli, le 12 seguite, le 2 ricordate, e addirittura le 5 preferite!!!! Davvero, ragazze, grazie mille, mi sembra incredibile che così tanta gente possa aver letto e apprezzato, siete una gioia immensa <3
Spero che questo capitolo possa piacere a qualcuno, la prima parte io la detesto mentre la seconda non mi sembra poi troppo male.. ;) Spero di sentirvi con qualche recensione, mi fareste felicissima, anche con delle critiche!
Love u

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Capitolo 13
*** Lascia che ti aiuti. ***


-CAPITOLO TREDICESIMO-



 

ZAYN.


Driiin!
Il suono acuto della campanella di fine pranzo trapanò le orecchie di Zayn. Il ragazzo biondo che lo stava prendendo a pugni alzò l’ultima volta una mano, interdetto; poi si accontentò di tirargli un ennesimo colpo, prima di lasciarlo cadere a terra e girargli le spalle, come se lui non fosse mai davvero esistito. Non sarebbe stata una brutta idea.

Le nocche del biondo si erano sfogate lungamente sul suo stomaco, dove, nascosti dalla maglietta, i lividi continuavano a pulsare e i tagli peggiori si stavano ancora rimarginando. Il dolore gli aveva quasi fatto perdere la testa, spingendolo ad urlare più di una volta, ma aveva stretto i denti ed aveva resistito, per quanto possibile. Ora, però, mentre i punti colpiti continuavano a pulsare e bruciare, diffondendogli brividi ovunque e mozzandogli il respiro, non aveva neanche la forza di alzarsi e tornare in classe.

Si accoccolò lì sul pavimento, le ginocchia strette contro il petto e la testa bassa, appoggiata su di esse, cercando di riportare almeno un po’ dell’aria persa ai polmoni, che bruciavano in protesta. Il respiro però gli usciva spezzato, a sbuffi, mentre cercava di trattenere i gemiti. Gliene scappò giusto uno, prima che si tappasse saldamente la bocca, mordendosi il labbro con quanta più forza possibile.

Respira. Respira.

Ad un certo punto, però, sentì una cosa che lo costrinse ad alzare la testa. L’ultimo suono che avrebbe voluto sentire, in assoluto: una voce di ragazza. E che ragazza…

-Ehi?- Chiamò Elizabeth, palesemente rivolta a lui. Magari voleva finire il lavoro che il biondo non aveva potuto portare a termine. L’avrebbe sfottuto, e poi se ne sarebbe vantata con tutti a lezione. Altrimenti, per quale assurdo motivo avrebbe mai potuto essere lì?
Il moro cercò di frenare la paura che aveva sentito salirgli dentro. Cercò di smettere di ansimare, e per quanto difficile ci riuscì; fallì però nel tentativo di atteggiare la faccia in una smorfia impassibile. L’ansia era troppa; cosa gli avrebbe fatto?

Allungò appena le gambe, indietreggiando, poggiandosi sul palmo delle mani, non appena la vide fare qualche passo nella sua direzione. Lo sapeva. Sarebbe stato picchiato anche da una ragazza, come somma umiliazione. Dio, quanto era caduto in fondo. Aveva ragione suo padre a dire che era uno sfigato buono a nulla. Non sapeva neanche alzarsi e scappare, mentre la ragazza assottigliava sempre più la distanza tra loro, gli occhi seri puntati sul suo viso.

-Se v-vuoi colpire a-anche tu f-fai in f-fret-tta p-per favore…- Si ritrovò a supplicare, la voce rotta, senza riuscire più a reggere l’ansia. Un suo pugno avrebbe fatto molto meno male di quel batticuore. Pregava solo perché se la sbrigasse in fretta e poi lo lasciasse lì, sul pavimento, come un rifiuto abbandonato tra l’erba del parco, di quelli che nessuno si curava di raccogliere.

Elizabeth però, anziché agire, si limitò a fermarsi, interdetta, spalancando gli occhi. Ecco. Lo sapeva. Aveva sbagliato tutto. Lui era solo un fallito, con che coraggio aveva parlato, con che coraggio le aveva detto cosa fare? Adesso lo avrebbe preso a calci, lo sapeva. Chiuse gli occhi, preparandosi a un colpo. Era terrorizzato. Ormai non aveva più alcun senso fingere di essere calmi, non lo era, non lo sarebbe mai sembrato. Il suo respiro pesante invase l’aria, colmando il silenzio che si era formato. Perché non si sbrigava?

La ragazza, però, non fece quello che si era aspettato. Anzi. Si avvicinò a lui, a piccoli passi, poi si chinò, arrivando a guardarlo negli occhi. Insomma, l’avrebbe fatto se lui non avesse strizzato le palpebre, mantenendo lo sguardo basso, evitando quelle iridi verdi.

-Non ti farei mai del male, Zayn…- Sussurrò, con voce bassissima, appena udibile, leggera, ma che nelle sue orecchie ebbe la forza di un colpo di cannone.

Riaprì gli occhi, troppo stupito per fare alcunché. Cosa? Nessuno gli aveva mai detto una cosa simile. Come la doveva intendere? Non capiva, non capiva quanti significati erano nascosti dietro a quelle semplicissime parole. Eppure, in un angolino nascosto del suo cuore, sentì qualcosa che non si aspettava. Qualcosa che lo spinse ad alzare il capo di qualche centimetro, per assicurarsi che quei grandi pozzi verdi stessero dicendo la verità. Forse, Bethie non lo avrebbe preso a calci. Forse davvero, non voleva fargli male.

Cos’era quello che sentiva? Come poteva chiamarsi quel sentimento che gli stava lentamente scaldando il cuore? Non ricordava di averlo mai provato, se non qualche rara volta da bambino. Credeva si chiamasse speranza.

No, non poteva permettersi di sperare. Sarebbe stato tutto un’illusione. Zayn non voleva più stare male, non poteva permettersi di credere alle parole di Elizabeth. Era tutto un trucco per fregarlo. Tutta una messa in scena, per poi poterlo prendere di sorpresa. Non si poteva fidare; aveva passato troppo tempo a farlo delle persone sbagliate.

-Voglio solo aiutarti.- Mormorò Elizabeth, tendendo le mani verso il moro.

Zayn si ritrasse, colto dal panico. Eppure Bethie sembrava così seria, così tranquilla, così… Sincera… Ma no, non doveva crederle. Non poteva. Avrebbe fatto ancora più male quando poi l’avrebbe tradito.

-Per favore, lascia che ti aiuti. Voglio solo portarti in infermeria. Lì hanno del ghiaccio.- La voce della ragazza sembrava quasi supplicante, come se lui avesse avuto il potere di opporsi. Sembrava triste, nei suoi occhi scintillava un’ombra cupa che non riusciva a collegare a nulla. Si aspettava una risposta, era evidente, ma il moro sembrava aver perso tutte le parole. Non sapeva che dire, era paralizzato, nel tentativo di ricordare qualcuno che l’avesse trattato in quel modo.

Gli venne in mente sua madre. Strinse i pugni, mentre cercava disperatamente di arginare i ricordi. Non era il momento. Proprio no…

-Ce la fai ad alzarti?- Domandò Elizabeth, riportandolo alla realtà. Non demordeva, era testarda. Zayn annuì, rapido, mordicchiandosi il labbro inferiore. Era nervoso, quel tipo di situazione gli era nuova… Ma continuava a ripetersi di non fidarsi, non poteva permetterselo.

Si tirò su, con fatica, cercando l’appoggio di un tavolo lì vicino, evitando accuratamente di guardare verso la ragazza, che lo fissava. Sentì i muscoli doloranti lanciargli grida di protesta, chiedendo di essere lasciati in pace, ma lui li liquidò con una smorfia, cercando un equilibrio stabile sulle ginocchia.

-Seguimi, dai.- Lo spronò la voce calma alla sua destra, facendolo irrigidire. Guardò di sottecchi verso il viso di Elizabeth, per cercare di capire se era un ordine. Se lo fosse stato non avrebbe certo potuto opporsi… Ma l’espressione della ragazza era incoraggiante, come quando si aiuta ad un bambino piccolo di compiere i suoi primi passi. Non sembrava esserci aria di pericolo lì intorno.

La vide girargli le spalle, incamminandosi verso la porta. Lui restò immobile, finchè lei non si accorse che non la stava seguendo. Sospirò, tormentandosi le mani, e sussurrò, senza guardare per davvero il moro, raggelato in mezzo alla stanza:

-Vieni?- I suoi occhi verdi cercarono un cenno di assenso su quello del ragazzo, che si decise finalmente ad andarle dietro.

Non voleva che si arrabbiasse, non poteva farla irritare o sarebbe stata la fine. Pur sentendo male ovunque, accelerò il passo fino a raggiungerla, pur restando sempre ad almeno un metro di distanza. Elizabeth, sapendo che non avrebbe potuto ottenere di meglio, si strinse nelle spalle e si incamminò nuovamente, accompagnata da quella presenza silenziosa e impaurita che percorreva i corridoi al suo fianco.

***


-Mi scusi signorina, potrebbe darmi un po’ di ghiaccio per un mio compagno che ha preso una storta? Ha detto che gli fa male camminare fino a qui e così sono venuta io!- La voce di Elizabeth trillava allegra nella stanza, colma di una finta allegria, eppure totalmente credibile. L’infermiera non avrebbe messo in dubbio la sua storia per niente al mondo.

Zayn si chiese come facesse. Era ancora in corridoio, in attesa che la ragazza uscisse, come gli aveva consigliato, e ascoltava il dialogo tra le due donne. Lui, quando mentiva, non riusciva a trattenersi dal balbettare, anche se c’erano certe bugie che aveva detto talmente tante volte da arrivare quasi a crederci lui stesso.

Ci stava ancora pensando, quando un ciuffo di capelli castani sgusciò fuori dalla porta, guardandosi attorno e chiudendola con attenzione. Appurato che erano solo loro due, la ragazza si avvicinò al moro, mostrandogli il pacchetto del ghiaccio, un sorrisetto sulle labbra.

-Seguimi.- Aggiunse poi, sempre sorridendo. Zayn era combattuto… Da una parte aveva ancora paura che fosse tutto uno scherzo, una trappola, o chissà cosa; ma Elizabeth sembrava così sincera… Fece un sospiro, mordendosi il labbro. Beh, tanto peggio di così non c’era molto, no? Tanto valeva rischiare…

E così il moro tornò a seguire le spalle di Bethie, mentre questa camminava spedita; evidentemente sapeva bene dove andare. Camminarono in silenzio per qualche minuto, percorrendo tanti di quei corridoi che Zayn non avrebbe neppure più saputo tornare indietro, ormai. Per un attimo, il pensiero di non avere vie di fuga lo raggelò. Dove sarebbe potuto correre, se la situazione si fosse fatta critica?

-Sempre che tu riesca a correre, stupido.- Borbottò una vocina antipatica nel suo orecchio. Okay, se quella fosse stata una trappola sarebbe finito fregato. Cosa poteva farci ormai? Era arrivato lì, tanto valeva proseguire…

Il moro sapeva molto bene come farsi portare dalla corrente. Conosceva alla perfezione la sensazione di impotenza. Aveva ben chiaro come ci si sentiva, quando ci si rendeva conto  di non poter in alcun modo opporsi al mondo circostante. Aveva imparato a conviverci, giorno dopo giorno; ormai gli era meno pesante. Ci si abitua proprio a tutto…

Ad un certo punto, arrivarono vicino ad una scaletta. Il moro sbarrò gli occhi, interdetto, ma Elizabeth gli fece cenno di salire. Per fargli vedere che era tutto a posto salì lei per prima, per poi sorridergli una volta arrivata in cima. Zayn, per quanto esitante, incominciò a salire a sua volta, stringendo forte le mani attorno al corrimano, più per l’ansia che per paura di cadere. C’era una piccola botola sul soffitto, che portava ad una stanza semibuia e polverosa.

-Questo sarebbe un laboratorio, ma non lo usa nessuno, ci mettono le cose vecchie e l’attrezzatura rotta…- Spiegò svelta la ragazza, andando ad accendere la luce. Sembrava muoversi bene lì dentro, evidentemente c’era già stata parecchie volte. Il ragazzo non potè fare a meno di chiedersi come l’avesse scoperto, ma fu presto distratto.

Elizabeth si avvicinò a lui, più di quanto non avesse mai fatto. D’istinto si ritrasse, trattenendo bruscamente il fiato, ma poi, vedendo lo sguardo un poco offeso di lei, provò a tranquillizzarsi, lasciando che colmasse lo spazio che li divideva. Era tanto che non si trovava così vicino ad una persona… Beh, a parte suo padre, ovviamente. Sentiva il cuore in gola, batteva velocissimo; eppure non era come al solito… Il moro sospettava che non fosse solo la paura a farlo correre in quel modo, anche se non sapeva cos’altro avrebbe potuto essere.

Quando si ritrovò con il ghiaccio tra le mani, non aveva idea di cosa fare. Di dove metterlo, soprattutto. Gli doleva ovunque. Lo premette in un punto qualsiasi del petto, sentendo una miriade di brividi gelati spandersi per tutto il corpo, e prese a dondolarsi sui talloni, mentre il nervosismo tornava a prenderlo. Non sapeva che fare… Una persona normale a quel punto avrebbe parlato, no? Magari per dire grazie. Lui però sentiva le parole bloccate in gola, nel timore di dire qualcosa di sbagliato.

-Comunque, io mi chiamo Elizabeth.- Mormorò improvvisamente la ragazza di fianco a lui, puntandogli gli occhi in pieno viso, come aspettandosi qualcosa.

-Zayn.- Mormorò fin troppo rapido il moro, in tutta risposta, con appena un filo di voce. Era la prima parola che diceva da quando si conoscevano… E per giunta era stata inutile, sapeva già il suo nome.

-Beh, Zayn, puoi anche sederti se vuoi.- Gli disse lei, buttandosi sul pavimento. Evidentemente non aveva intenzione di andarsene; e anche se avesse voluto, in ogni caso, la lezione ormai era iniziata da tempo e non avendo una giustificazione sarebbe stato stupido presentarsi in classe. Probabilmente sarebbero dovuti stare lì un po’ di tempo… Il moro si lasciò sfuggire uno sbuffo nervoso, prima di accoccolarsi lentamente a terra, sempre con le ginocchia strette al petto, a circa un metro da Elizabeth.

Il silenzio tra loro era pesante, sembrava una colata di cemento, eppure tutti e due aspettavano che fosse l’altro a romperlo. In ogni caso, fu sempre la ragazza a parlare per prima, con l’impressione che se avesse aspettato il compagno avrebbe benissimo potuto stare zitta per ore intere.

-Ti fa male?- Sussurrò, ma con la sensazione di aver urlato. Zayn scosse la testa, preferendo quel movimento alle parole, che certo avrebbero tradito la bugia.

-Certo che Karl è proprio un bastardo.- Continuò poi lei, la voce accesa da una nota d’indignazione. Zayn si perse un attimo, non sapendo chi fosse quel tale, poi però collegò che doveva essere il tipo che lo aveva picchiato. Cercò per qualche secondo il coraggio dentro di se, poi ne chiese conferma.

-Il biondo?- Borbottò, la voce ancora timorosa. Elizabeth annuì, felice di averlo spinto a parlare. Il moro vide i suoi occhi grandi e verdi accendersi, mentre lo guardava con curiosità. Cercò di immaginare quello che stesse pensando in quel momento… Probabilmente le sembrava un matto.

-Comunque… Di dove hai detto che sei?- Continuò la ragazza, prendendo senza quasi accorgersene la sua stessa posizione. Zayn ammutolì. Quella domanda portava sempre guai… Tutta colpa di quella successiva, inevitabile, che tanto gli veniva sempre rivolta, prima o poi. “Perché ti sei trasferito?” E a quel punto poteva solo mentire, arrossire, balbettare. S’inventava sempre qualcosa sul lavoro di suo padre, sperando che suonasse verosimile, ma dopotutto lui neanche sapeva che lavoro facesse suo padre, accidenti. Nonostante tutto, si costrinse a rispondere.

-B-Bradford.- Balbettò, cercando di schiarirsi la voce. Ora non aspettava altro che la domanda successiva… Che però, con suo stupore, non arrivò.

-Com’è Bradford? Più bella di qui?- Chiese invece Bethie, lo sguardo perso, cercando di immaginare quella città che evidentemente non aveva mai visto. Beh, non è che fosse proprio un posto famoso, in effetti.

-Non m-mi ricordo tanto, ero p-piccolo, ma… Era b-bella.- Mormorò il moro, mangiandosi le parole. Non era vero. La sua città se la ricordava talmente bene che se chiudeva gli occhi poteva quasi dubitare di essersene mai andato. Ma erano ricordi troppo personali per essere condivisi, solo pensarli gli faceva venire una stretta al cuore.

Elizabeth però sorrise, e Zayn si accorse di essere riuscito a mettere insieme quasi dieci parole nella stessa frase. “Beh, è già un miglioramento, no?” Pensò stringendosi nelle spalle. Prese un respiro profondo. Forse a quel punto sarebbe toccato a lui dire qualcosa… Dopotutto, ormai sembrava non esserci più nessun pericolo, no? Si inumidì le labbra, nervoso, poi cercò da qualche parte in fondo alla gola un briciolo di voce.

-Elizabeth è un b-bel nome…- Sussurrò allora, la mente improvvisamente vuota. La ragazza rise, piano.

-Oh, io lo odio. Fa così… Vecchio!- Sbottò, allargando le braccia. Zayn si fece piccolo per l’imbarazzo. Una cosa aveva detto, una sola… E ovviamente aveva già fatto la figura dello stupido! Avrebbe fatto prima a stare zitto… Certo che però, a lui, quel nome piaceva sul serio.

La ragazza guardò l’orologio, improvvisamente preoccupata, poi si ridistese, girandosi un’altra volta verso di lui.

-Mancano circa venti minuti alla prossima ora… Tra un po’ dobbiamo muoverci. Il tempo è passato in fretta!- Esclamò, gli occhi sinceramente sorpresi. “Si, per te.” Pensava Zayn, per il quale tutta quella tensione era stata un tantino pesante.

-Come va con il ghiaccio?- Si informò ancora Elizabeth, cercando di essere gentile.

-Bene.- Soffiò il moro, stringendo istintivamente i pugni. Staccò l’impacco freddo dal petto, perché ormai non aveva più tanto effetto, ma mezzo secondo dopo averlo fatto se ne pentì amaramente. Sullo straccio bianco lo che avvolgeva si era formata una piccola macchia rossa, non troppo evidente, ma abbastanza da essere notata prima da lui, e poi anche dalla ragazza al suo fianco. Sangue.

-Zayn!- Esclamò Elizabeth, presa in contropiede. Il moro si fece ancora più piccolo, desiderando di scomparire.

Maledetto mondo… Quel Karl gli aveva riaperto uno dei tanti tagli, fino a farlo sanguinare di nuovo. Avrebbe dovuto stare più attento, lo sapeva, ma era fin troppo abituato al bruciore e al dolore, ormai riusciva quasi a non farci più caso…

Incontrò le iridi verdi della compagna, sentendo il magone salirgli alla gola. Era nei casini. Grandi. Enormi. Casini.






**SPAZIO ME**
Buonasera belle!! :)
Rieccomi di nuovo! Stando male posso aggiornare un po’ più spesso, quindi… Eccovi un altro capitolo! Non pensavo mi venisse così lungo, quando ho iniziato a scrivere, ma visto che è la loro prima “conversazione” volevo spiegarla bene, non andare di fretta… Tanto nessuno mi corre dietro, no? Nel prossimo ci sarà il seguito, ovviamente dal punto di vista di Elizabeth… Dove si vedrà quali sono, precisamente, i casini nei quali si infila il nostro Malik! Spero che questa schifezza possa piacere a qualcuno e che ci sia un’anima pietosa che mi lasci almeno una recensione… **
A proposito, devo ringraziarvi TANTISSIMO!! Davvero, grazie mille…Diciassette recensioni nei vari capitoli, tre ricordate, QUATTORDICI seguite e addirittura SEI, SEI, e dico SEI, preferite! Dio, volete farmi morire… Grazie, sul serio :’)
Love u

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Capitolo 14
*** Niente sarebbe più stato come prima. ***


-CAPITOLO QUATTORDICESIMO-



ELIZABETH.

-Come va con il ghiaccio?- Chiese Elizabeth, vedendo l’espressione tirata del moro. Quel ragazzo era davvero un mistero… Non capiva perché sembrasse così spaventato da lei, dopotutto gliel’aveva detto che non gli avrebbe fatto nulla, no?

-Bene.- Soffiò l’altro, irrigidendosi ulteriormente. La ragazza sospettava che ci fosse qualcosa che non andava, ma cercò di fare finta di nulla. Non voleva forzarlo, era già abbastanza diffidente.

Quando il ragazzo staccò l’impacco freddo dalla superficie ruvida della divisa, però, non riuscì più a fingere di credergli: sullo straccio arrotolato, immacolato fino a poco tempo prima, ora spiccava una piccola macchia rossa, neanche troppo evidente, ma che ai suoi occhi sembrava impossibile da ignorare. Era sangue, ancora fresco.

-Zayn!- Urlò, senza riuscire a trattenersi. Lo vide farsi il più piccolo possibile sotto i suoi occhi, la preoccupazione dipinta in viso. Lo sapeva, lei, che nascondeva qualcosa! Ma perché sembrava così impaurito? Insomma, non era niente di irrisolvibile, sarebbero bastati un paio di cerotti…

Cercò di abbassare la voce, per non spaventarlo ulteriormente, poi gli disse, la voce appena un poco autoritaria: -Togliti quella camicia, su!-

Il moro, a quelle parole, non potè trattenersi dal fare un balzo all’indietro, cercando disperatamente una via di fuga. Strisciò all'indietro, poggiando il peso sulle mani, cercando di allontanarsi il più possibile dalla ragazza, negli occhi una scintilla di terrore puro, rasentante la pazzia. Elizabeth non sapeva che fare, non si aspettava una reazione del genere; inizialmente cercò di avvicinarsi di nuovo a lui, ma si bloccò quando lo vide scuotere la testa con forza, indietreggiando fino a raggiungere il muro, per poi appoggiarvici le spalle, con la sensazione di essere in trappola.

-Cosa…?- Soffiò la ragazza, disorientata. In risposta, l’altro si limitò a stringere i pugni fino a far diventare bianche le nocche, muovendosi lateralmente come un granchio, sempre con le spalle alla parete. Cercò riparo dietro ad un vecchio banco e si accoccolò li dietro, respirando pesantemente.

-Ehi, Zayn? Va… Va tutto bene?- Riprovò Elizabeth, sentendosi stupida. La risposta era talmente ovvia!

-Per f-favore…- Balbettò invece l’altro svelto, chinando il capo, come chiedendo pietà.

-Zayn, lascia che ti dia una mano. Non ti farò del male. So dove trovare dei cerotti, vedi?- Cercò di spiegargli Elizabeth, la voce lenta, accesa da un accenno di dolcezza, mentre raggiungeva un armadietto e ne tirava fuori una vecchia cassetta del pronto soccorso. Camminava a piccoli passi, con lentezza esagerata, come se avesse avuto davanti a se un animale spaventato, pronto a scappare alla prima mossa brusca.

-Qui c’è del disinfettante e delle bende. Se mi lasci avvicinare, te li do. Poi, se vuoi, torno quaggiù. Non devi avere paura di me.- Continuò la ragazza, sempre con quel tono tranquillo, tenendo alte le mani affinchè l’altro potesse vedere ciò che aveva. Dovette aspettare qualche minuto, poi finalmente il moro annuì, rapido, mordendosi il labbro inferiore. Elizabeth aveva già notato quel tic, spuntava sempre fuori quando era nervoso.

-Va bene, adesso vengo, okay?- Lo avvertì, azzerando pian piano i metri che li separavano.

Quando gli fu affianco, notò che tremava. Gli poggiò la valigetta vicino ad un piede, e notò come il suo sguardo si spostasse preoccupato dal pavimento alle sue mani.

-Vuoi che mi allontani o posso rimanere?- Chiese sempre Elizabeth, vedendo che l’altro non si muoveva. Visto che restò in silenzio, la ragazza preferì pensare che il suo fosse un assenso per la seconda proposta. Si sedette lì vicino, sempre mantenendo qualche decina di centimetri tra loro.

-Dai, Zayn. Va tutto bene. Puoi toglierti la camicia, per disinfettare il taglio. Non avere paura di me.- Lo incoraggiò allora, vedendo che continuava a stare immobile. Quel ragazzo aveva davvero qualche problema… E la cosa che la stupiva maggiormente era che lei fosse ancora lì, a pregarlo affinchè si facesse aiutare. Insomma, chi era lui per prenderla in quella maniera? Dopotutto, avrebbe potuto benissimo dargli il ghiaccio e tornare in classe, no? E invece era lì, a supplicarlo.

Non che le sue suppliche funzionassero poi tanto, poi, dal momento che il moro non si era ancora mosso dalla sua posizione. C’era da dire, però, che la tensione sul suo viso era leggermente diminuita, e lei gli era seduta vicino, quindi forse qualche miglioramento c’era stato.

Stanca di aspettare, la ragazza decise che avrebbe agito.

-Non ti farò del male, non avere paura.- Mormorò per l’ennesima volta, cercando in qualche modo di convincerlo, mentre allungava lentamente una mano verso di lui, in modo che potesse vedere bene il movimento. Non si scansò.

Le dita di Elizabeth incontrarono il nodo della cravatta e lo sciolsero, tirandola via. Poi, leggere, arrivarono ai bottoni della sua camicia. Il respiro del ragazzo era pesante, affaticato, mentre sentiva la paura prenderlo sempre più ogni secondo che passava; non poteva fare nulla, però. Non poteva opporsi.

Slacciati ormai tutti i bottoni, Elizabeth lo aiutò a sfilarsi la parte superiore della divisa, scoprendo il corpo magro del moro. Mentre tremiti di freddo e timore lo scuotevano, la ragazza si concentrò su di lui. La prima cosa che notò fu proprio la magrezza del compagno: ad ogni respiro poteva scorgere il profilo delle costole sotto la pelle scura. Per secondo, invece, notò lo stato in cui era ridotto. Era letteralmente ricoperto di ematomi color inchiostro, alcuni tendenti al blu e altri ormai diventati giallognoli con il tempo, e la sua pelle era adornata di sfregi e graffi rossastri. Alcuni di questi sanguinavano leggermente; ecco spiegata la macchia sul panno del ghiaccio.

-Zayn, come… Cosa ti è successo?- Sussurrò, senza riuscire a trattenersi, sbarrando gli occhi. L’altro chiuse i suoi, tormentandosi il labbro e cercando il più possibile di coprirsi, mentre la sua mente era alla ricerca di una risposta plausibile.

-Non sono stati solo quegli altri, vero? Non si sono mai spinti… a questo punto.- Aggiunse la ragazza, stringendo forte i pugni, mentre un’ondata di preoccupazione la coglieva impreparata. Ora capiva la reazione spropositata del moro: non voleva che vedesse tutto quello.

Zayn, intanto, tremava, ansimando pesantemente. Per qualche secondo rimasero in silenzio, l’aria riempita solo dal suo respiro affannato e dal battito accelerato del suo cuore. Il ragazzo non aveva proprio idea di cosa dire. Nessuno era mai arrivato a vederlo in quelle condizioni, così non aveva mai preparato scuse adeguate… Sentì il magone salirgli alla gola, e credette per qualche secondo di essere sul punto di vomitare, poi però provò a calmarsi, mentre gli occhi verdi della compagna rimanevano fissi su di lui.

Elizabeth non sapeva che fare, per una volta. Insomma, aveva immaginato tante cose riguardo al segreto del nuovo arrivato, ma non avrebbe mai neanche pensato ad una cosa di quella portata.

-Ti aiuterò, Zayn. Davvero. Non ti farò mai del male.- Ribadì, la voce ridotta ad un soffio appena udibile. Gli occhi dell’altro si alzarono, quasi increduli. Elizabeth annuì, per dare forza alla sua promessa, poi prese la valigetta del pronto soccorso. Dentro c’era una bottiglietta di acqua ossigenata, forse un po’ vecchia, ma niente di inutilizzabile, e del cotone polveroso.

La ragazza cercò di essere il più delicata possibile mentre gli disinfettava i tagli peggiori, ma nonostante questo sentì lo stesso i muscoli del moro tendersi come molle per il bruciore quasi insopportabile. Dal momento che sembrava provare davvero parecchio dolore, si chiese come facesse a starsene così, totalmente immobile, e in silenzio per lo più. Beh, per lo meno non sembrava più così terrorizzato.

La paura nel suo sguardo era stata sostituita da un’aria di smarrimento che risultava spiazzante per la compagna. Gli occhi del moro erano fissi nel vuoto e nessuno sarebbe mai riuscito ad indovinare quali cupi pensieri gli passassero per la testa, meno di tutti Elizabeth.

Una volta finito di ripulire le ferite, le dita svelte della ragazza presero le bende e i cerotti e li sistemarono con cura sulla pelle scura di Zayn, sempre immobile. Solo il suo lieve tremore lasciava intendere quanto in realtà lo stesse scuotendo quella faccenda, e quanto fosse difficile per lui quella situazione.

-A che pensi?- Chiese Elizabeth, troppo curiosa per trattenersi. Il silenzio tra loro stava pian piano diventando più caldo, meno soffocante, così non si preoccupò troppo del lungo tempo che passò prima che la risposta del moro lo spezzasse.

-Io…- Iniziò Zayn, respirando frettolosamente, cercando il coraggio di fare una domanda che gli premeva da tempo. Sospirò. –Perché l-lo fai?- Balbettò infine, mordicchiandosi il labbro.

-Cosa?- Domandò Elizabeth di rimando, senza capire subito a cosa si riferisse.

-Questo.- Precisò Zayn, sempre di poche parole, sospirando.

-Beh, credo… Non lo so, sinceramente. C’è stato un momento in cui avrei potuto scegliere di andarmene e fare finta di nulla davanti a tutto quello che vedevo, ma senza alcuna ragione ho deciso che non volevo passarci sopra. Ho deciso di immischiarmi in questa faccenda semplicemente perché non potevo non farlo, capisci? Da quando ti ho visto per la prima volta… Non so, ho capito che ci ero dentro. Forse ti sembra una pazzia… Ma semplicemente non potevo ignorarti. E poi io ti capisco. Io non sono come quegli altri, davvero. Da quando ti sei presentato a tutti, il primo giorno, ho capito che neanche tu eri come loro. Mi incuriosivi, sapevo che c’era sotto qualcosa.- Spiegò Elizabeth, parlando veloce, improvvisamente timorosa di dire le cose sbagliate. Era tanto che non metteva così tante frasi sincere una dietro l’altra, era fuori allenamento.

-Io voglio davvero aiutarti, Zayn. Non pensare che la mie siano bugie, sei uno dei pochi a cui non ho mai mentito, e non voglio farlo. Forse ti chiederai perché… Beh, non lo so neppure io, okay? Ma credo che un po’ sia perché ti capisco. Cioè, non sono mai arrivata al punto dove sei tu, ma… Per certe cose, so come ci si sente.- Continuò, quasi incredula di aver pronunciato così tante parole di seguito. Zayn la guardava con occhi sgranati, attento, per una volta senza alcuna traccia di timore sul volto.

-Mi permetterai di darti una mano, Zayn?- Chiese a quel punto Elizabeth, allungando quasi timidamente le dita verso di lui, lasciandole poi a mezz’aria.

Il moro guardò il pavimento qualche secondo, combattuto. Il suo povero labbro sanguinava ormai sotto la pressione dei denti, ma lui non ci faceva troppo caso. La ragazza tenne d’occhio il ritmo rapido delle sue spalle, che si alzavano e si abbassavano ansiose, aspettando una risposta.

Tutto d’un colpo, poi, Zayn sollevò la testa, piantandole per la prima volta gli occhi dritti in viso. Onice e verde si fusero in un abbraccio che parve durare anni, ma che raccolse solamente qualche secondo, poi le dita più scure del moro si sollevarono appena, tremanti, per congiungersi con quelle pallide della ragazza.

Le loro mani si strinsero a vicenda, e mentre i loro occhi non accennavano a mollarsi nell’aria qualcosa cambiò. Entrambi riuscirono a recepire il variare dell’atmosfera, ed entrambi sentirono all’altezza del cuore un’emozione nuova, calda, sicura. Capirono subito che qualcosa era cambiato, con quel contatto.

Ma nessuno dei due, né quel giorno né nei giorni a venire, sarebbe riuscito a capire come e quanto profondamente quel gesto, all’apparenza così insignificante, avrebbe totalmente stravolto le loro vite. Niente sarebbe più stato come prima.








**SPAZIO ME**
Scusate l’enorme ritardo, avevo detto che l’avrei messo la settimana scorsa e invece non ce l’ho fatta… Ma tra Pasqua, parenti vari eccetera, non sono proprio riuscita a scrivere.
In ogni caso, la loro prima conversazione è ufficialmente finita! So che probabilmente sembrava che dovesse andare avanti per millenni ahaha, e mi scuso se questo vi ha annoiato, ma volevo approfondire bene questa parte; dopotutto non è una cosa da poco, no? Quindi, Zayn e Elizabeth si sono finalmente parlati. Cioè, Malik ha più che altro ascoltato, ma spesso è il suo corpo a parlare per lui, credo sia ormai palese ;)
Spero che questo capitolo possa piacere a qualcuno… Ringrazio davvero tanto tutti quelli che lo leggono, e ne approfitto per dire che una recensione non mi dispiacerebbe affatto, anche critica, perché voglio sapere dove sbaglio e migliorare!
Un grazie ENORME, ENORME, ENORMISSIMO, alle due ricordate, alle QUINDICI seguite e alle (oddio, è uno scherzo?) NOVE preferite! Per non parlare delle VENTIDUE recensioni totali, cioè, io vi amo, GRAZIE DAVVERO.
Love u e buona Pasqua <3

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Capitolo 15
*** "Cara Pat..." ***


-CAPITOLO QUINDICI-


ZAYN.

Zayn si rigirò tra le coperte troppo calde del suo minuscolo letto. Non riusciva a dormire, eppure la sveglia sul comodino indicava chiaramente che erano da poco passate le due. Sospirando, scalciò via il piumone e si alzò, riuscendo a non far cigolare le vecchie molle. Con addosso solo boxer e maglietta andò alla finestra, l’aprì in silenzio e si sedette sul cornicione.

Guardare le stelle non era proprio il massimo, in quella cittadina perennemente rannuvolata, ma a lui piaceva lo stesso. E poi lì faceva più fresco, magari gli avrebbe anche dato una sbollita al cervello.

Perché il vero motivo della sua improvvisa insonnia non era certo la temperatura. Era lei, sempre lei. Bethie. Non riusciva a non ripensare a ciò che era successo quella mattina. Se solo chiudeva le palpebre poteva risentire sulla pelle il tocco delicato delle sue dita calde, mentre con precisione e delicatezza passavano il cotone umido sulle ferite peggiori. Nessuno l’aveva mai trattato in quel modo. Nessuno gli aveva mai detto quelle cose.

Non riuscì a non pensare ai suoi occhi, così verdi. Li aveva incontrati davvero solo una volta, ed era bastato per perdercisi dentro… Erano bellissimi. Lei era bella, dopotutto. Ed era anche talmente gentile da aiutare un povero sfigato come lui.

Era più forte di lui, lo sentiva: stava iniziando a fidarsi. Non poteva esserci cosa più pericolosa, se ne rendeva conto, ma per una volta il suo cuore si era fatto sentire e aveva deciso per lui. Sapeva che lei avrebbe potuto tradirlo in qualsiasi momento, rivelando tutto ciò che aveva visto quel pomeriggio… Forse l’aveva anche già fatto. Forse, appena arrivata a casa, era andata a parlare con sua madre e le aveva raccontato tutto. Magari i servizi sociali erano già davanti alla porta, pronti per buttarla giù e fare irruzione. E cosa avrebbero trovato? Tutte le bottiglie di Vodka che il padre teneva di scorta nella dispensa, per le giornate storte. Quelle dove, inevitabilmente, alla fine era lui a pagare. Gli parve quasi di sentirli correre su per le scale…

Ma no, cosa diceva. Cercò di fare un respiro profondo, lasciando uscire dai polmoni un grosso carico d’aria, che non si era reso conto di stare trattenendo. Con mano tremante si massaggiò le tempie, cercando di rilassarsi. Andava tutto bene, o meglio non peggio del solito. Qualcosa dentro di lui era assurdamente convinta che Elizabeth non avrebbe rivelato nulla. Ecco, era tutta una storia assurda. Fece un altro sospiro.

Tutto quello perché non aveva trovato una scusa abbastanza in fretta. Ma… Dopotutto, non le aveva neppure parlato di suo padre, no? Come avrebbe potuto farlo? Quindi, forse il suo segreto era ancora al sicuro. Dopotutto… Quelli erano solo un po’ di lividi, non era abbastanza perché Bethie pensasse davvero a qualcosa di serio. Se l’avesse visto di sabato mattina, beh, allora si, avrebbe affrettato le conclusioni, ma così… Poteva benissimo essere stato un qualsiasi bulletto fuori dalla scuola.

Scosse la testa, cercando di fermare quell’ammasso di pensieri distorti. Erano le due di notte ed era stanchissimo, doveva smettere di tormentarsi il cervello. Ma come fare? Ogni cosa lo riportava a quelle iridi verdi, alle sue parole gentili.

Quel giorno, per la prima volta dopo tanto tempo, si era sentito al sicuro. Per qualche secondo, si era davvero sentito bene. Chi era quella ragazza, per fare tutto quello? E come doveva chiamare quel tiepido calore nel petto, che dopo anni lo faceva sentire vivo sul serio?

C’era un unico modo per risolvere quella questione senza perderci la testa.

Zayn scivolò lentamente giù dal cornicione, andando poi a sedersi alla scrivania, armato di matita e fogli stropicciati. Senza accendere la luce, che avrebbe certamente fatto svegliare anche suo padre, scrisse la data in alto a destra, come gli era stato insegnato tempo addietro. Poi, con la sua calligrafia un po’ pasticciata, iniziò a scrivere veloce, lasciando finalmente i pensieri liberi di riversarsi sulla carta.

“Cara Pat…”

***


Di nuovo mattina, di nuovo scuola. Zayn era a terra per la nottata in bianco, ma nonostante ciò non era triste come al solito di varcare la porta della sua classe. Sapeva che ci avrebbe trovato Elizabeth, e tanto valeva per mantenere il suo umore a livelli accettabili.

Una volta seduto al suo banco, la cercò con lo sguardo. Quel ciuffo di capelli castani era indistinguibile… Solo dopo qualche secondo si rese conto, con sorpresa, che anche lei aveva gli occhi fissi sul suo viso. A quel punto distolse subito lo sguardo, ringraziando la sua pelle scura, che perlomeno mascherava un po’ il colorito acceso che era certo avessero assunto le sue guance.

Quando finalmente trovò il coraggio di tornare a guardarla, lei gli sorrise appena. Era solo un piccolo movimento, tanto lieve che il moro non avrebbe saputo dire se ci fosse stato davvero, ma in qualche modo lo spinse a rispondere, con un sorrisetto ancor meno accentuato e saturo di timidezza. Ma era pur sempre un qualche segno, no?

Per tutta la mattinata restò distratto, la mente che vagava per la stanza, concentrandosi sempre sullo stesso punto. Continuava a ripetersi che aveva bisogno di stare attento, altrimenti avrebbe preso un altro votaccio; ma neppure la minaccia presente dietro a quest’idea riusciva a tenere i pensieri distaccati da quel ciuffo di capelli castani.

Arrivata l’ora di pranzo, prese un gran respiro. Bene, era arrivata l’ora peggiore: quella della tortura. Ormai aveva iniziato a distinguere gli altri ragazzi non dal nome, o dall’aspetto, bensì dal loro modo di picchiare. Sapeva perfettamente dove lo avrebbero colpito e quanto forte sarebbe stato l’impatto, così almeno riusciva a prepararsi un po’ e a reggere meglio il dolore. Beh, come consolazione era piuttosto scarsa.

Andando in mensa corse, per fare il più in fretta possibile, così da non finire al solito in fondo alla fila; arrivò così tra i primi, un gran fiatone ma anche un vassoio di cibo fumante in mano. Iniziò la sua solita ricerca di un tavolino appartato, e quando ne ebbe trovato uno ci si diresse con decisione, sedendosi con le spalle al muro per evitare brutte sorprese. Iniziò a mangiare qualche boccone, lo stomaco vuoto che brontolava con forza, finchè non sentì un suono di passi strascicati in pericoloso avvicinamento. Lasciò cadere la forchetta, aspettandosi come minimo un pugno, che però non arrivò.

-C’è posto qui?- Chiese una voce, la sua voce, facendogli alzare gli occhi di scatto, il cuore improvvisamente agitato che martellava nel petto come un tamburo impazzito.

Annuì, timidamente, anche se l’aveva già visto da se che era completamente solo, e a quel punto Elizabeth si sedette vicino a lui, a distanza di mezzo metro circa, per evitare di farlo sentire a disagio.

-Come va?- Chiese la ragazza, lanciandogli un sorriso appena accennato. Già, come andava? Avrebbe dovuto saperlo? Era passato troppo tempo dall’ultima volta che se l’era chiesto.

-Bene.- Sussurrò rapido Zayn, guardandola di sottecchi, per pura cortesia. Poi, un po’ più interessato, aggiunse: -A te?-

-Diciamo che geografia mi ha quasi ucciso, comunque a parte questo bene.- Disse allora lei, alzando gli occhi al cielo, ricordando una lezione che lui aveva l’impressione di non aver mai seguito. Cercò di ricordare, riuscendo solo a riportare alla mente qualche chiacchiericcio vago sull’economia della Russia. Annuì, per farle vedere che era attento, poi si infilò in bocca una forchettata di maccheroni, mentre la fame ricominciava a farsi sentire.

Di solito, al quel punto, qualche ragazzo aveva già finito il proprio pranzo, ed era venuto a tormentarlo. Guardandosi intorno quel giorno, tuttavia, notò che nessuno si stava avvicinando, anzi. La maggior parte dei suoi perseguitatori se ne stava tranquillamente al proprio tavolo, parlando con alcune ragazze. Solo un paio gli stavano lanciando sguardi poco simpatici, conditi con un pizzico di curiosità. Pensò che non era sicuro, per Bethie, starsene lì con lui. Avrebbero preso di mira anche lei. Doveva dirglielo? Cercò, in qualche modo, di mettere a punto una frase di senso compiuto; difficile, dal momento che la presenza della ragazza riusciva ancora a mandarlo in palla.

-Loro… Se la p-prenderanno c-con te se s-stai qui…- Mormorò, mangiandosi le parole. Lanciò uno sguardo preoccupato alla ragazza, pensando che se ne sarebbe andata, lasciandolo di nuovo solo. Scoprì, con sorpresa, che non lo voleva.

-Oh, non ti preoccupare per me… So come difendermi.- Lo informò Elizabeth, guardandolo con una tale sicurezza negli occhi verdi da costringerlo a crederle.

-Tu, piuttosto. Perché non fai qualcosa?- Lo provocò la ragazza, guardandolo seriamente interessata. Il moro arrossì, pensando a come le potesse sembrare. Uno sfigato di prima categoria, senza dubbio. Perché non reagiva? Come spiegarlo a quelle iridi così sincere, senza tradire la paura e il suo segreto?

Alzò le spalle, mordendosi il labbro, e la vide diventare subito più attenta. Aveva capito che quando iniziava a tormentarsi il labbro inferiore era nervoso, accidenti. Avrebbe potuto usarlo contro di lui in ogni conversazione! Senza accorgersene, iniziò a mordicchiarlo ancora più forte, costringendosi subito a smettere.

-Va bene, se non vuoi rispondere è lo stesso. Piuttosto… Io ero venuta per, diciamo… Chiederti una cosa.- Si affrettò a replicare Elizabeth, balbettando leggermente. Era lei quella agitata, in quel momento. Zayn lo notò subito e si mise in guardia, preparato per ogni possibile richiesta. Magari lo voleva ricattare. Sapeva troppo, sarebbe stato costretto ad obbedire…

-Domani, vuoi venire a studiare in biblioteca con me? Dopo la scuola, intendo.- Dalla sua voce traspariva benissimo l’ansia, magari per paura di un rifiuto.

Zayn ci pensò. Avrebbe dovuto chiedere a suo padre, e avrebbe rischiato di farlo arrabbiare. Ma dopotutto, con la scusa che era per studiare, forse se la sarebbe potuta cavare… Ma valeva la pena di correre quel rischio per una ragazza che conosceva da appena due settimane?

La guardò negli occhi per la prima volta quel giorno, osservando la sua sincera preoccupazione. Fece scorrere lo sguardo sul profilo delle sue guance, poi giù lungo il tronco. Stava giocherellando con il bordo della maglietta, in ansia per il suo silenzio. Pensò a quando l’aveva aiutato, alle sue dita leggere contro la sua pelle martoriata. Aveva mantenuto il segreto, evidentemente. Si trovò a riflettere su quante sarebbero state le possibilità di trovare di nuovo qualcuno come lei, e riprese a mordersi il labbro, accorgendosi che non erano poi tante. Incrociò i suoi occhi verdi per l’ennesima volta. Forse, forse, ne valeva davvero la pena.

-Va bene.- Acconsentì, lasciando finalmente uscire insieme ad uno sbuffo tutte le preoccupazioni. Dopotutto, dal giorno prima, sapeva di esserci dentro. A quel punto, ormai, non gli restava che giocare la partita in cui si era infilato.





**SPAZIO ME**
Okay, sono consapevole che ci ho messo un tempo assurdo per pubblicarlo, e che oltretutto fa schifo, ma SCUSATE, davvero. Non l’ho neanche riletto, perché devo andare assolutamente, ma giuro che appena posso lo rileggo e lo correggo!
In ogni caso, nonostante sia davvero un capitolo orribile… Una recensione non fa male a nessuno, no? E poi domani è il mio compleanno, fatemi un regalo, please <3
Al solito, devi ringraziare tantissimo le 26 recensioni totali, le 10 preferite (VI AMO), alle 2 ricordate e alle 15 seguite, VI AMO DAVVERO DAVVERO TANTO. <3
Love u

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Capitolo 16
*** -Tu sei un genio.- ***


-CAPITOLO SEDICI-


 

ELIZABETH.

Elizabeth guardò l’orologio, sentendo il nervosismo salirle dentro. Zayn era in ritardo di una decina di minuti, e ancora non c’era segno di lui in giro. Magari all’ultimo secondo aveva cambiato idea e aveva deciso di non venire… Magari l’aveva semplicemente presa in giro, per la sua proposta assurda, che suonava fin troppo come un appuntamento da ragazzini…

Ma lei non aveva pensato a quel tipo di appuntamento, quando l’aveva invitato. Lei voleva solo conoscerlo meglio, scambiarci due parole, capire cosa c’era dietro la sua timidezza quasi assurda… Voleva aiutarlo, perché le era sembrato così indifeso, così solo… E forse anche lei si sentiva sola, in quella scuola dove nessuno poteva capirla e accettarla per come era. Forse anche lei aveva bisogno di un amico.

Beh, fatto stava che per possibile amico si era scelta un tipo asiatico, strano, dai mille segreti, che non spiccicava mai parola e sembrava impaurito dal mondo intero. Si trovò a domandarsi perché, tra tutti, proprio lui l’avesse colpita, soprattutto perché non attirava certo l’attenzione, anzi; spesso in mezzo alla folla tendeva a scomparire, esile e silenzioso com’era.

Evidentemente, anche in quel momento doveva essere sparito. Lo stava aspettando da circa un quarto d’ora ormai e si sentiva piuttosto stupida; perché stava ancora lì? Non sarebbe stato più intelligente lasciar perdere e tornarsene a casa?

Proprio mentre valutava l’idea di andarsene, un tonfo leggero proveniente dalla sua sinistra la fece voltare. Zayn era proprio lì, piegato in due, le mani sulle ginocchia, mentre prendeva fiato dopo una corsa. Aveva appoggiato rumorosamente i libri sulla sedia, e l’aveva fatto per avvertirla, perché per il resto era stato così silenzioso che se l’era trovato di fianco senza neppure accorgersene.

-Tutto bene?- Chiese la ragazza, notando il suo respiro pesante. Non doveva essere molto allenato.

Lui annuì, increspando leggermente le sopracciglia, poi guardandola timidamente esordì con uno: -S-scusa…- balbettato a mezza voce.

-Per cosa?- Domandò Elizabeth, interdetta.

-Il… I-il r-ritardo…- Sussurrò l’altro, mordicchiandosi il labbro inferiore, lo sguardo spaventato. Forse pensava che si sarebbe arrabbiata, ma in ogni caso non era niente di grave, certo non al punto di preoccuparsi così!

-Non ti preoccupare, ero appena arrivata anche io.- Mentì la ragazza, alzando le spalle, liquidando la faccenda. Si sedette, prendendo lo zainetto da sotto il tavolo, fingendo di ricontrollare le cose da fare; in realtà era intenta a spiare le mosse del moro, che dopo la sua frase si era rilassato un poco e si era seduto insieme a lei, tenendo la sedia appena un po’ a distanza.

-Che compiti hai?- Chiese, cercando di farlo parlare un po’, sperando che alla lunga si sciogliesse.

Le sue speranze risultarono vane quando, dopo qualche secondo di immobilità, Zayn tirò fuori dalla cartella il diario e glielo porse, aperto sulla pagina del giorno dopo. C’erano un mucchio di esercizi di matematica, qualche pagina di storia e un breve tema di inglese. La ragazza annuì, facendogli segno di riprenderlo, e iniziò a guardare la propria roba. Aveva anche lei matematica, poi storia dell’arte e degli esercizi di inglese.  

Iniziarono a studiare, zitti, senza dirsi altro. Inizialmente Elizabeth si sentì a disagio, avrebbe voluto dire qualcosa, provare nuovamente a mettere in piedi una conversazione; dopo qualche tempo, tuttavia, si accorse che non si stava male, in quel silenzio. Non era freddo e neppure imbarazzante, era semplicemente… Tranquillo.

Capì che Zayn, con il silenzio, le diceva più di quanto i suoi compagni e sua madre facessero ogni giorno con le parole, e contemporaneamente si rese conto che il moro in quel momento non era nè spaventato, né nervoso per la sua presenza. Per la prima volta, era semplicemente calmo, a suo agio in quell’immobilità. Avrebbe dovuto ricordarselo, per il futuro. Con lui non c’era bisogno di usare troppe parole, se non era necessario.

Restarono così per quasi un’ora, lavorando. Di tanto in tanto la ragazza si distraeva, iniziava a sbirciare il moro, le sue dita veloci, la sua calligrafia pasticciata, i suoi occhi leggermente strizzati per la concentrazione, il suo mordicchiarsi il labbro di tanto in tanto, quando incontrava qualche parola difficile tra le pagine di storia… Poi, però, ridendo di se stessa, tornava al proprio quaderno, sbrigando uno dopo l’altro tutti gli esercizi di matematica. Per lei erano talmente facili che avrebbe potuto svolgerli ad occhi chiusi.

Zayn, invece, passato a sua volta alla matematica, sembrava davvero in difficoltà. Era la seconda volta che accartocciava un foglio pieno di calcoli sbagliati e ancora non era riuscito ad arrivare in fondo al primo esercizio.

-Qualche problema?- Domandò Elizabeth, cercando di essere gentile. Il moro scosse la testa, guardandola appena e arrossendo, ma lei insistette, sporgendosi appena verso di lui.

-Dai, dico davvero. Con questa roba me la cavo bene, posso darti una mano.- Propose, con un sorriso incoraggiante. Il ragazzo di fianco a lei girò appena il capo, per guardarla, e letta la sincerità nei suoi occhi verdi tirò un sospiro, annuendo finalmente.

-Non m-mi vengono…- Sussurrò, timido, mostrandole il quaderno. Lei lo prese, un sorriso che andava da un orecchio all’altro, e lesse velocemente quello che, per lei, era un esercizio talmente facile da non meritare neanche mezzo secondo per l’esecuzione.

-Vuoi che te li faccia io? Ci metto un attimo, tanto.- Propose, sinceramente vogliosa di aiutarlo. Insomma, chiunque avrebbe approfittato di una proposta simile per lavorare un po’ meno, no? Ma lui non era chiunque, Elizabeth se ne sarebbe resa conto in fretta.

-Io… V-vorrei capire c-come si fanno…- Balbettò infatti Zayn, arrossendo sempre più, lo sguardo basso.

-Oh, allora posso spiegartelo, ti va?- Ribattè allora la ragazza, cercando di non farlo sentire in imbarazzo. Il moro la guardò esterrefatto, gli occhi colmi di stupore.

-Lo f-faresti davvero?- Domandò, incredulo.

-Certo, perché no!- Confermò Bethie, avvicinandosi un po’ a lui con la sedia. Iniziò con l’illustrargli il procedimento per quell’esercizio, ma presto si accorse che il moro aveva idee veramente poco chiare su tutta la matematica in generale. Pensò bene di ripartire dal principio, parlandogli a lungo di tutte le proprietà che ormai sapeva a memoria, e soffermandosi molto su ognuna per fare in modo che anche il ragazzo capisse.

Quando ebbe finito, quasi un’ora dopo, Zayn la guardava con la bocca leggermente spalancata, stupito.

-Tu sei un genio.- Affermò, per la prima volta senza balbettare, troppo incredulo per provare timore. –E io… Ho capito.- Ammise, quasi senza crederci sul serio, come se fosse stata una cosa impossibile.

-Oh, beh… Grazie, sono contenta che ti sia servito!- Esclamò Elizabeth, sinceramente contenta. Si rabbuiò solo quando si rese conto che il tempo era volato, e a lei restavano ancora gli esercizi di inglese… Non si poteva certo dire che quella materia le venisse facile, nonostante poi alle verifiche prendesse quasi sempre il massimo dei voti.

Zayn la guardò, leggermente curioso, studiando i suoi tratti improvvisamente nervosi. Sembrò riflettere un attimo, mentre si mordicchiava il labbro inferiore, poi con un sospiro riuscì a mormorare: -Tutto o-okay?-

Elizabeth sentì un qualcosa di caldo nascerle dentro, salire dallo stomaco fino al petto e poi accucciarsi nel cuore, illuminandolo. Aveva parlato, finalmente, aveva parlato per primo, e le aveva fatto una domanda, le aveva chiesto se andava tutto bene… Significava che ci aveva fatto caso, no? Magari non era l’unica a cui importava…

-Si, certo… Solo ho inglese, sai, è un po’ come la matematica per te…- Spiegò lei, aprendo il libro sulla pagina giusta. Analisi, analisi, lei la odiava quella maledetta analisi. Stava già immergendosi nel quaderno, alla ricerca di un foglio pulito, quando il moro parlò di nuovo, per la seconda volta. Già quello avrebbe potuto lasciarla a bocca aperta; quello che disse, poi, fu per lei la più piacevole delle sorprese.

-Io s-sono… sono a-abbastanza bravo i-in i-inglese… P-potrei, sai… A-aiutarti…- Balbettò, arrossendo.

-Oddio, mi faresti un favore enorme!- Esclamò la ragazza, sentendo il sorriso tornarle in viso. Davanti alla sua espressione  gioiosa, Zayn non riuscì a trattenersi dal sollevare a sua volta un angolo della bocca, in un sorrisetto timido.

Scosse la testa, come a sminuire la faccenda, poi si avvicinò a lei, arrivando al punto di poterle quasi sfiorare il gomito. Entrambi trattennero il fiato per qualche secondo, il battito appena accelerato, poi tornarono ai compiti.

Il moro iniziò a spiegare l’esercizio, certamente con molta meno chiarezza della compagna, e balbettando di tanto in tanto, quando la parola giusta non aveva proprio intenzione di venirgli alle labbra; il risultato finale fu, però, che Elizabeth riuscì a finire tutto in molto meno tempo del solito.

-Grazie mille, adesso è mille volte più facile.- Esclamò la ragazza, sorridendo.

-Anche p-per me…- Mormorò in risposta Zayn, guardando con stupore la sua matematica, tutta inequivocabilmente giusta.

-Potremmo vederci qualche altra volta, sai… Così ci diamo una mano a vicenda!- Propose Elizabeth, trattenendo il fiato. Aveva cercato di essere il più possibile naturale, come se quelle parole le fossero venute così, dal nulla; la realtà era che ci aveva pensato a lungo, prima di pronunciarle. Non sapeva come le avrebbe prese, e soprattutto quale sarebbe stata la sua risposta… E se si fosse rifiutato?

Sentì l’ansia salirle dentro, mentre l’altro ci ragionava sopra, combattuto. Si morse il labbro, imitando quel gesto che era tanto comune nel compagno, e si accorse di volere un assenso più di quanto sarebbe stato lecito. Era proprio solo per studiare che voleva vederlo?

-Si… Si può f-fare.- Decise alla fine Zayn, guardandola in viso.

Si. Si. Si.

Elizabeth non sapeva cosa fosse quello che sentiva salirle dentro. Era così felice che avrebbe voluto urlare, saltare sul tavolo e cantare al mondo ciò che era appena successo; si limitò, invece, a sussurrare un: -Domani?- Incerto.

Magari era stata troppo precipitosa? Sarebbe sembrata invadente?

E invece il moro annuì, sembrando quasi a suo agio.

–Domani.- Confermò, senza sapere di aver appena dato il via ad un’abitudine che si sarebbe spenta solo parecchio tempo dopo.





 
**SPAZIO ME**
Okay. Già mi sento in colpa perché ho ritardato un sacco… Poi, ammettiamolo, questo capitolo è una schifezza. Una vera schifezza. Certe volte posso anche dire, okay, non sarà bellissimo, ma ci sta; questa volta invece lo detesto proprio! Ma come ho già detto sopra, ci ho già messo troppo, non posso sperare che tenendolo qui a marcire migliori magicamente.
Ringrazio, come sempre, tutte le recensioni (28 totali), le 10 preferite (VI AMO), le 17 seguite (*-*) e le 3 ricordate! Se mai ce ne fossero, lancio un bacio anche ai lettori silenziosi ;)
Vi prego di lasciarmi una recensione, anche negativa (me ne aspetto parecchie dopo questo capitolo)… Mi servono per migliorare, pleasee <3
Love u 

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Capitolo 17
*** IMPORTANTE. ***


VI CHIEDO SCUSA. 

EHI.

Okay, diciamolo, mi vergogno come un cane a tornare qui dopo tanto tempo. È solo che quest’anno con la scuola e tutto (ho avuto gli esami) non ho davvero avuto il tempo per seguire la FanFiction, vi giuro, non trovavo neppure il tempo per pensare al capitolo. Mi scuso mille volte, davvero, mi dispiace tantissimo; se potete perdonatemi, e non accoglietemi a pomodori!

Ora che siamo in vacanza,  le cose vanno finalmente meglio; posso respirare! Per questo, oggi ho scritto il capitolo 17, che avevo in progettazione da qualche tempo.

Mi chiedo però se, dopo tutto questo tempo, ci sia ancora qualcuno che mi segua…
Se voi volete, io ve lo metto, e vi assicuro che d’ora in poi pubblicherò regolarmente una volta a settimana, se non più spesso quando potrò; se non volete, basta che me lo dite…
Per favore, scrivetemi anche solo “SI” o “NO” nella recensione, però scrivetelo almeno quello, sennò non so davvero che fare…

Io continuo ad amarvi, sappiatelo, e ho tanta voglia di portare avanti la storia… Quindi, aspetto i vostri pareri!

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Capitolo 18
*** Grossi guai. ***


-CAPITOLO DICIASSETTE-


 

ZAYN.

Erano ormai tre giorni che Zayn faceva i compiti in biblioteca, insieme ad Elizabeth. Non sapeva neppure lui come fosse riuscito a convincere suo padre, ma probabilmente il fatto che fosse per scopi scolastici aveva contribuito a farlo acconsentire. Yaser era senza dubbio molto attento agli studi del figlio, e il moro sapeva che, pur di fargli prendere voti alti, avrebbe fatto qualsiasi cosa; quindi sapeva come giocarsi le sue poche carte. Certo, anche il fatto che avesse evitato di parlargli della compagnia che avrebbe avuto aveva influito.

Era stato fortunato, in ogni caso, ad ottenere il permesso di rientrare dopo le sette e mezza, perchè così al ritorno non avrebbe avuto nessuno a controllarlo, e poteva permettersi un po’ più di libertà.

Anche quel pomeriggio, quando arrivò, Elizabeth era già lì. Lo batteva sempre sul tempo quella ragazza.

-Ehi, come va?- Lo salutò lei, sorridendo.

-Bene; a te?- Rispose lui, più che per cortesia che per altro, alzando appena di un millimetro le labbra in un sorrisetto timido. Dopo tutto quel tempo passato insieme, ormai si sentiva un poco più sciolto in quella situazione; eppure ci voleva ancora del tempo prima che abbandonasse la sua solita posizione difensiva.

-Mh, insomma… Oggi ho un sacco di roba da fare!- Si lamentò la ragazza, stringendosi nelle spalle con fare scocciato.
Il moro all’improvviso si sentì di troppo, pensando che forse lei avrebbe preferito studiare da sola, senza di lui che, oltretutto, aveva sempre bisogno di aiuto per fare matematica. Esitò qualche secondo più del solito, sedendosi al suo fianco, al punto di far impensierire la compagna.

-Ehi, sei sicuro che vada tutto bene?- Chiese lei, sempre fin troppo gentile. Zayn non poteva fare a meno di chiedersi per quale strana ragione una persona del genere si fosse interessata proprio a lui, uno sfigato buono a nulla. Che cosa ci guadagnava lei?

-Si…- Sussurrò, non riuscendo ad eliminare del tutto la nota di indecisione che gli incrinava la voce. La ragazza non ci credette, e gli piantò gli occhi in viso, cercando di leggere la verità. Lo fissò finchè il moro non sospirò, accorgendosi di aver perso la partita.

-Sei… Sei s-sicura che non ti d-disturbo?- Soffiò, le guance arrossate dall’imbarazzo. Abbassò lo sguardo, maledicendosi per aver balbettato ancora una volta, come un idiota. Elizabeth intanto aveva spalancato gli occhi, guardandolo in un misto di sorpresa e incredulità.

-Perché dovresti disturbare?- Chiese, confusa, le sopracciglia aggrottate nel tentativo di capire, tramite i gesti del moro, quello che non avrebbe mai detto a parole. Zayn arrossì ancora di più, se possibile, e si passò una mano nei capelli, che lentamente stavano iniziando a ricrescere. Scosse la testa, cercando di accantonare il discorso, ma la ragazza insistette.

-Per quale ragione hai pensato una cosa simile?- Lo spronò a parlare, avvicinandosi di un passo, pur lasciandogli i suoi spazi. Il moro sospirò, lo sguardo fisso sulla punta delle scarpe ancora un po’ infangate, mordendosi il labbro con tanta forza da farlo quasi sanguinare.

-E va bene, se non vuoi dirmelo fa lo stesso…- Si arrese a quel punto Elizabeth, stringendosi nelle spalle.

-Però, Zayn…- Aggiunse, pochi secondi dopo, la voce improvvisamente calda. –Sappi che non potresti mai darmi fastidio.- Concluse, trattenendo il fiato per quell’uscita azzardata. Dopo quelle parole tra i due calò un silenzio denso, imbarazzante; il moro era talmente immobile che sembrava non respirare neppure. Ad un certo punto, tuttavia, raccolto il coraggio a due mani, rialzò la testa e la guardò per mezzo secondo, sempre rosso ma più sollevato.

-Grazie.- Sussurrò, con semplicità, la voce appena udibile anche in quel luogo silenzioso, prima di sedersi al solito posto e tirare fuori i quaderni, come se niente fosse accaduto.

Elizabeth rimase un attimo interdetta, colpita dal tono insolitamente tranquillo e dolce con il quale il moro aveva parlato; stringendosi nuovamente nelle spalle, tuttavia, lasciò perdere, e, diario alla mano, si impegnò per decidere quale, tra quelle odiate pagine, studiare per prima.

***

Dopo qualche ora, erano ormai arrivati alla fine. Zayn rimase quasi a bocca aperta , nel segnare una spessa linea sopra l’ultimo esercizio da svolgere. Probabilmente, se fosse stato solo, quel lavoro si sarebbe protratto fino a notte, nel tentativo, vano per lo più, di non fare un pasticcio; con l’aiuto di Elizabeth, invece, non aveva neppure faticato troppo.

Controllò l’orologio: era perfettamente in orario per tornare a casa. Certo, avrebbe potuto prendere l’autobus, così da avere una buona mezz’ora in più per stare lì; doveva tuttavia comprare dei quaderni e sapeva di non avere soldi sufficienti per entrambe le cose.
-Devo andare.- Soffiò appena, stupendosi in prima persona del tono di rammarico con cui aveva pronunciato le due parole. Era strano, per lui, che riusciva a sentirsi bene e al sicuro solo nella solitudine della sua cameretta, non volerci tornare. Indugiò un attimo prima di alzarsi, pensandoci.

Il fatto era che con Bethie si sentiva innaturalmente protetto, senza la costante necessità di guardarsi le spalle. Per quanto odiasse farlo, non poteva non ammettere di aver iniziato a fidarsi più del dovuto, e ciò lo spaventava. Avrebbe potuto cacciarsi in grossi guai, lo sapeva, e non era certo il tipo di persona che corre rischi inutili…

-Ti aiuto, dai.- La proposta della ragazza lo fece sobbalzare, tirandolo bruscamente fuori dai suoi ragionamenti contorti; guardandola, mentre raccoglieva le sue matite sparse per la tavola, con un sorriso in volto, si trovò ad annuire senza aver neppure capito bene le sue parole. Scrollò le spalle, cercando di riprendere il controllo, e con un sospiro si alzò in piedi, iniziando ad ammucchiare i libri impilati in precario equilibrio in diversi punti della scrivania.

Ad un certo punto, sia lui che Elizabeth cercarono di afferrare il quaderno di inglese, facendo sfiorare le loro dita; al contatto sobbalzarono, come colpiti da una scossa elettrica, e lo lasciarono cadere a terra. Entrambi guardarono altrove, imbarazzati e stupiti da quella reazione; la ragazza fu però la prima a riprendersi, così si chinò in fretta per raccattare il quaderno. Non riuscì a trattenersi dal mollarlo di nuovo, però, quando si accorse che dalle pagine stropicciate erano usciti diversi fogli colorati, che in poco tempo riuscì ad identificare come fumetti. Li prese in fretta e diede loro un’occhiata critica.

-Dio, Zayn, sono bellissimi!- Esclamò, incredula, la bocca spalancata. Il moro diventò rosso come un peperone, e senza neppure il coraggio di guardarla in faccia rispose un “Grazie” balbettato, appena udibile.

-Dai, dico davvero! Li hai fatti tu?- Proseguì Elizabeth. Effettivamente alla sua presentazione aveva detto di amare il disegno, eppure non si sarebbe mai immaginata una cosa simile. Aveva davvero del talento!

-Mhh, si, li ho fatti io.- Mugugnò Zayn a quel punto, desideroso solo di scomparire all’istante, magari risucchiato dal pavimento. Nessuno aveva mai visto i suoi fumetti prima di quel momento, suo padre specialmente, che li avrebbe considerati un passatempo inutile e stupido. La ragazza, nonostante l’imbarazzo del moro la spingesse a cambiare argomento, era troppo stupita per dare ascolto alla parte più razionale di sé.

-Fammi vedere, ti prego! Disegnami qualcosa, qualsiasi cosa.- Aveva supplicato, facendo sporgere il labbro inferiore. E a quel punto Zayn non aveva saputo resistere, quegli occhi grandi e supplicanti gli avevano mandato in pappa il cervello; si sedette, sbuffando, ma in fondo quasi contento, e senza dire altro iniziò a tracciare i primi tratti di un supereroe che gli era sempre piaciuto, e che aveva ritratto centinaia di volte: Batman.

***

Zayn guardò l’orologio, sentendo l’ansia salirgli dentro. Cercò di prendere un respiro profondo, ma tutto ciò che ottenne fu un gemito strozzato. Nonostante tutti i suoi tentativi di calmarsi, stava lentamente andando in panico. Era tardi, troppo tardi. Suo padre si era sempre raccomandato che tornasse a casa prima delle otto, mentre ormai stavano per scoccare le otto e un quarto. Non aveva mai fatto così tardi in vita sua, per quanto fosse assurdo ammetterlo.

Quel giorno si era lasciato distrarre, come uno stupido. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo che fidarsi di Bethie lo avrebbe messo in guai grossi; ne era consapevole, eppure non aveva saputo resistere. Si era perso nei suoi occhi caldi e nelle sue gentilezze e aveva disegnato per lei tutto ciò che gli aveva chiesto, esclusa se stessa.

-Poi se vieni male ti offendi.- Si era giustificato il moro, terrorizzato alla sola idea. E lei, per non rompere l’equilibrio che si era creato, non aveva voluto insistere, chiedendogli di rappresentare qualcos’altro. E il moro si era fatto fregare, aveva lasciato che il tempo scorresse senza dargli peso. Così si ritrovava, per la prima volta da mesi, o forse anni, in ritardo.

Si fermò mezzo secondo davanti alla porta di casa, pensando che tutto quel terrore in fondo non aveva spiegazioni: suo padre era fuori, al lavoro, non lo sarebbe mai venuto a sapere. Giusto?

Dopo un tentativo di tranquillizzarsi, clamorosamente fallito, prese le chiavi e aprì la porta con lentezza. Sperava di poter sgattaiolare subito nella propria camera, invisibile come un fantasma, ma qualcosa, o meglio qualcuno, glielo impedì.

Guardò verso l’alto, scorgendo terrorizzato la faccia di Yaser, che lo aspettava. Perché accidenti proprio quel giorno era voluto stare a casa dal lavoro? E per quale motivo poi? Tante domande senza risposta.

-Dove sei stato, stronzetto?- Sputò Yaser, prendendolo per un orecchio e costringendolo a guardarlo negli occhi. Quasi lo sollevò da terra, incurante di causargli un dolore atroce, e attese la risposta, il viso irato a pochi centimetri da quello del figlio.

Zayn avrebbe voluto rispondere, fingere, giustificarsi, anche inventare una balla se necessario; avrebbe voluto scappare, correre altrove, o magari non essere mai nato… Tutto quello che riuscì a fare, tuttavia, fu balbettare qualche parola senza senso, troppo terrorizzato anche solo per pensare, lo stomaco attorcigliato che già si stava preparando ai colpi.

Il primo schiaffo fu talmente veloce da risultare quasi invisibile. Il moro si sentì semplicemente sbalzare mezzo metro più lontano, senza alcuna percezione eccetto il bruciare della guancia. Il secondo, però, seguito da tre pugni veloci, lo vide benissimo, perché andò a colpire lo zigomo, con forza. Cercò di appoggiarsi al muro per non cadere a terra; farlo sarebbe stato consegnarsi al nemico, e non era ancora pronto… Come se lo fosse mai stato.

Una ginocchiata nello stomaco, tuttavia, lo prese alla sprovvista, costringendolo a piegarsi in due per non vomitare; in quella posizione, bastò un calcio ben assestato agli stinchi per farlo cadere a terra. Trattenne il fiato per il dolore lancinante, mentre su di lui si avventavano mani e piedi con furia omicida; cercò con tutto se stesso di non emettere alcun rumore, ma non potè evitare di gemere un paio di volte.

Ormai più che respirare rantolava, sia per la mancanza di ossigeno che per la paura, che gli aveva formato un grosso nodo in gola. Non ce la faceva più, sentiva che stava per mettersi a piangere, ma non poteva farlo, non poteva mostrarsi debole, altrimenti suo padre se la sarebbe presa di più.

Mentre una scarica di calci rabbiosi si scontravano contro la sua schiena e il suo stomaco, fino a fargli sentire il sapore metallico del sangue in bocca, si chiese, non certo per la prima volta, cosa avesse fatto per meritare tutto quello. Istintivamente prese ad ascoltare le parole che Yaser gli stava buttando addosso, come cera bollente, mentre lo colpiva.

-Sei solo un coglione, lo sai? Uno stupido coglione! Un buono a nulla, una femminuccia senza palle! Perché non reagisci, eh? Non ne sei capace? Hai paura, ammettilo! Hai paura perché non sei altro che una maledetta checca!- Stava urlando, proprio in quel momento, mentre si chinava per vibrargli un pugno sulla mandibola.

Zayn tossì, sputando fuori un po’ di sangue, mentre le orecchie iniziavano a ronzargli. Davanti agli occhi vedeva una grossa macchia nera che gli oscurava la visuale, riusciva solo a sprazzi a guardare il padre, ma per quanto lo riguardava avrebbe preferito il buio più completo.

-Sei solo uno schifo, un bastardo di merda, non sai neanche più leggere l’orologio, eh? Scommetto che eri da qualche parte a fare minchiate, altro che scuola! Non ti meriti tutti i sacrifici che faccio per mandarti là! Dovresti andare a lavorare, con la testa che ti ritrovi! Non capisci niente, niente; sei così stupido! Quando ti deciderai a fare qualcosa di buono nella vita? Sei solo una checca inutile, ecco cosa sei, inutile, inutile!- Continuava il monologo Yaser, ringhiando tra i denti le parole e dando loro la stessa cadenza di pugni e calci, così che a Zayn ogni colpo sembrava doppiamente doloroso.

Aveva sentito quelle parole tante di quelle volte che avrebbe potuto recitarle a memoria… E in fondo gli dava ragione, a suo padre. Era inutile. Era un buono a nulla. Non riusciva mai a capire niente.

Cosa vivi a fare, stupido?

-Sei stato solo un errore, lo sai? Un maledettissimo errore! Se quella sera avessi usato il preservativo ora il mondo sarebbe migliore! Sei un fottuto sbaglio, mettitelo in testa! Tricia sarebbe ancora qui se non fossi nato tu, hai rovinato tutto!- Continuò, aumentando l’intensità.

Davanti agli occhi di Zayn volteggiavano lucine bianche e rossastre, non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Cercò di sputare un po’ del sangue che aveva in bocca, ma ricordava solo vagamente come collegare i pensieri confusi alle labbra. Gemette, perché ogni volta risentire quelle parole era dura. Lo sapeva, sapeva di essere sbagliato, di essere un errore; sapeva che era stata tutta colpa sua. Eppure, sentirselo dire dal proprio padre era ogni volta devastante.

Gliel’aveva messo in testa da quando aveva cinque anni, che era uno sbaglio. Non sarebbe mai dovuto nascere, e il tutti sarebbero stati cento volte meglio. Non sarebbe mancato a nessuno, sicuramente, perché nessuno gli voleva bene. Chi mai può voler bene ad un errore? Chi mai poteva voler bene a lui?

Nessuno. Non ti vuole nessuno. Sarebbe meglio che la facessi finita, davvero. Non hai ragioni di stare a questo mondo, sei un errore. Qui non c’è posto per te.

Zayn soffocò un singhiozzo, mentre fitte di dolore gli giungevano da tutto il corpo e l’odore del sangue si spandeva nell’aria, impegnando il piccolo spazio dove era appoggiato. Si lasciò andare, definitivamente, mentre nelle orecchie il gracchiare di una radio mal sintonizzata gli stava distruggendo i timpani.

Uccidimi, per favore.

Supplicò mentalmente, distrutto. Che senso aveva tornare ad alzarsi, disinfettare le ferite, vivere la propria vita in punta di piedi, nell’attesa del prossimo attacco? Che senso aveva vivere se era uno sbaglio?

Poi qualcosa lo colpì, più forte di qualsiasi schiaffo. Il viso di Elizabeth si proiettò nei suoi pensieri, bello e dolce come sempre, e gli sembrò talmente vicina da poterla toccare. Anche mentre perdeva conoscenza, stordito dai troppi colpi e dai troppi lividi sovrapposti, il sapore del sangue che ancora gli infestava la lingua, non riuscì a non pensare che, forse, una piccola ragione per continuare ad alzarsi c’era.














 
**SPAZIO ME**
Mi sono già precedentemente scusata per il ritardo immenso, davvero, MI DISPIACE TANTISSIMO.
Ora però sono tornata, spero che a qualcuno faccia piacere!
Sinceramente non penso che questo capitolo mi sia venuto granchè, anche perché ho scritto la prima parte più di un mese fa credo, e altre spezzettate nel tempo, così amalgamare il tutto è stato un casino. In ogni caso, spero ci sia qualcuno a cui piaccia… E preparatevi, perché dal prossimo capitolo ci sarà una grossa svolta, ma GROSSA davvero.
Ringrazio come al solito tutte le lettrici, le 36 recensioni totali, le 3 ricordate, le 12 preferite (oddio, seriamente?) e le 18 seguite (mi volete morta!).
Per favore, lasciatemi una recensione, mi serve tantissimo per capire dove sbaglio e per migliorarmi…
Love u

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Capitolo 19
*** Scusa, Zayn. ***


-CAPITOLO DICIOTTO-



 

ELIZABETH.

Quella notte, mentre si rigirava tra le coperte, senza riuscire a prendere sonno, Elizabeth si ritrovò a pensare al pomeriggio che aveva trascorso, soprattutto l’ultima parte.

Si era sempre trovata abbastanza bene con Zayn; insomma, non era certo un chiacchierone, e di sicuro certi suoi comportamenti erano tanto strani da mettere a disagio, ma la ragazza aveva spesso sentito di preferire di gran lunga la sua silenziosa compagnia, rispetto a quella, sempre troppo rumorosa ed irritante, di sua madre e dei suoi compagni di scuola.

Eppure, quel pomeriggio era stato diverso. Zayn era stato diverso, soprattutto. Parlando di fumetti, con una matita in mano, era diventato tutta un’altra persona. Più sciolto, meno ansioso e preoccupato; più rumoroso e coinvolto, meno sfuggevole e taciturno. Erano quasi riusciti a mandare avanti una discussione normale, alla quale il moro aveva contribuito concretamente, e non con i suoi soliti monosillabi.

Certo, ci era voluto tempo perché si lasciasse andare almeno un po’, e tanto impegno da parte della ragazza, che aveva cercato con tutta se stessa di evitare argomenti imbarazzanti e di metterlo a proprio agio; una volta rilassato, tuttavia, il moro aveva mostrato parti di se che Elizabeth non era ancora riuscita a scorgere.

Arrotolandosi tra le lenzuola, come una farfalla nel proprio bozzolo, ripensò a quando le aveva raccontato dei suoi soggetti preferiti, della sua abitudine di ritrarre gente che vedeva per la strada e che gli rimaneva in testa, senza alcun motivo. Non aveva avuto bisogno di spronarlo per farlo andare avanti, anzi: per la prima volta, si era trovata ad ascoltare ciò che l’altro diceva, senza dover riempire vuoti in mezzo alle sue frasi frammentate.

Elizabeth sorrise, ripensando a quello che poteva considerare il momento migliore dell’intera giornata. Aveva chiesto al compagno di disegnare una caricatura della prof di geografia, che detestava più di ogni altra, e lui l’aveva tracciata alla perfezione, buffissima e talmente somigliante da risultare incredibile. Vedendola, la ragazza non aveva potuto trattenere una risata forte, squillante, che era rimbombata tra le pareti della stanza come il trillare di un campanellino. Si era guardata intorno, preoccupata che quel gesto potesse mettere il moro a disagio, e invece l’aveva scoperto a fissarla, timidamente. Sorrideva.

Elizabeth non riusciva a ricordare un’altra volta in cui l’avesse visto sorridere davvero. In quel momento, nei suoi occhi non c’era traccia di amarezza o malinconia; quelle iridi di onice e cioccolato erano calde, liquide, infiammate. Certo, non era stato un sorriso ampio, ed era scomparso quasi subito; in quei pochi secondi, tuttavia, la ragazza avrebbe potuto giurare di aver visto in Zayn qualcosa di molto simile alla felicità.

***

Quando, la mattina successiva, Elizabeth arrivò a scuola, per una volta dieci minuti in anticipo, la prima cosa che fece fu guardarsi intorno, cercando Zayn. Arrivava sempre prima di lei, prima di chiunque altro a dirla tutta, assurdamente puntuale, e si cercava un angolo nascosto dove sedere e passare inosservato, in attesa della campanella.

La ragazza ricordava ancora che, le prime volte che aveva notato questa manovra, aveva pensato che il moro preferisse la solitudine, e si era perciò ben guardata dall’avvicinarsi; passati un paio di giorni, tuttavia, le scene in mensa l’avevano convinta che fosse la paura a costringerlo a prendere le distanze dal resto degli studenti.

Nonostante quello, Elizabeth faceva ancora fatica a comprendere certi suoi strani comportamenti. Era okay la diffidenza, ma quello che traspariva dai gesti del moro era puro terrore, verso chiunque; doveva essere successo qualcosa di davvero grave, all’infuori della scuola, probabilmente tempo prima, per farlo diventare così. Chissà, forse era stato vittima dei bulli anche nella scuola che aveva frequentato precedentemente.

Mentre questi pensieri le invadevano il cervello, la ragazza aveva continuato a frugare tra la folla che si stava iniziando a radunare, senza però trovare il compagno. Aggrottò le sopracciglia, guardando meglio; possibile che fosse assente? Il giorno precedente stava benissimo!

Ad un certo punto, però, un’esclamazione proveniente dalla sua destra le fece voltare il capo di scatto, trattenendo il fiato. In pochi minuti, là si era formato un capannello di persone, tutti ragazzi dell’ultimo anno; erano disposti a cerchio, probabilmente intorno a qualcun altro, ed Elizabeth si trovò a supplicare, pregare che non fosse chi pensava. Sentendosi assurdamente egoista, pregò che per una volta avessero preso di mira qualcun altro, un secchione magari; chiunque, ma non Zayn…

-Oggi finalmente ti sei fatto trovare, eh, bastardo?- Urlò una voce, proprio al centro del gruppetto. Senza volerlo, la ragazza si avvicinò, insieme a tanti altri studenti desiderosi di godersi lo spettacolo; spintonando, si trovò abbastanza vicino alle schiene degli aguzzini. Sbirciando oltre, sentì una stretta al cuore. Le parve di sentire il rumore di uno sciacquone nell’aria, che risucchiava lentamente tutte le sue speranze: era il moro. Chiuse gli occhi, come a non voler vedere, sentendo l’ansia salirle dentro. Avrebbe voluto fare qualcosa… Ma cosa?

-Cosa hai fatto a questo bel faccino?- Lo schernì un’altra voce, diversa dalla prima. Ormai la folla era aumentata, c’era praticamente tutta la scuola ad osservare, così i ragazzi iniziarono a giocare per il pubblico. Sciolsero la morsa dentro la quale stringevano il moro, e lasciarono tutti liberi di vedere le torture che avevano in mente per lui.

Elizabeth prese al volo l’occasione e lo guardò meglio, cercando di capire la faccenda del “bel faccino”. Accidenti. Aveva la pelle completamente ricoperta di lividi e graffi; l’occhio sinistro era gonfio e cerchiato, e così anche le labbra. La ragazza trattenne il fiato, spiando l’espressione terrorizzata di Zayn e quella spietata degli altri ragazzi.

-Non rispondi? Sai cosa succede a chi non lo fa?- Lo provocò quello che, a prima vista, sembrava il capo: si trattava di Jakob, Elizabeth non fece fatica a riconoscerlo. Una montagna di muscoli, capelli nero pece, era conosciuto da tutto l’istituto per la sua indole non particolarmente pacifica.

La ragazza avrebbe preferito essere altrove, qualsiasi luogo sarebbe andato bene, ma non lì; riconosciuto con chi aveva a che fare, aveva anche capito che ci sarebbe andato pesante, e l’ultima cosa che voleva era vedere Zayn soffrire proprio davanti ai suoi occhi. Cercò codardamente di scappare, ma la folla intorno a lei la schiacciava, non le permetteva di allontanarsi. Si rassegnò allora ad assistere allo spettacolo.

Irritato dal silenzio denso di panico ostentato dal moro, Jakob gli diede un pugno sul braccio, neppure troppo forte, che tuttavia fece gemere Zayn in modo incontrollato.

-Allora ce l’hai la voce, stronzetto! Perché non dici niente?- Lo derise il maggiore, chinandosi su di lui, in modo da accentuare ancora di più la già evidente differenza di altezza. Il moro non riuscì a spiccicare parola, sebbene Elizabeth potesse giurare che ci avesse provato; aveva visto le sue labbra sfarfallare, per un secondo, ma non ne era uscito neppure un sibilo. La ragazza, un groppo in gola, pregava dentro di se perché qualcuno arrivasse e mettesse fine a tutto quello; non aveva mai desiderato così tanto il suono della campanella! Mancavano ancora un po’ di minuti, però, durante i quali poteva succedere di tutto.

-Sei ostinato, eh?- Ghignò Jakob, un sorrisetto cattivo stampato sulle labbra rosse. Gli diede un calcio, così forte che le gambe di Zayn non ressero; sarebbe caduto a terra se non fosse stato prontamente riacciuffato per un orecchio da uno dei ragazzi lì presenti. Il gioco divenne ancora più sporco quando, a turni, quelli del gruppetto iniziarono a tenerlo immobile, per permettere ai compagni di picchiarlo.

Iniziarono a sommergerlo di pugni e calci, come se fosse stato un sacco da boxe, il tutto sotto gli occhi degli altri studenti, che incitavano, fischiavano, elogiavano i più grandi. Lì intorno era tutto un susseguirsi di: “Dai, fategliela vedere!”, “Rimandatelo al suo paese!” “Siete i più forti!” “Fate sputare sangue a questo sfigato!”, il tutto condito da fischi e urla nei punti culminanti di quella lotta impari.

Elizabeth credette di vomitare, quando vide il sangue scendere, gocciolante, dal naso dell’amico. Aveva le gambe molli, lo stomaco attorcigliato, non riusciva a stare ferma con quella scena davanti! Gli occhi del moro erano chiusi, strizzati, mentre le sue labbra erano leggermente aperte, sporche dal sangue che scendeva dal naso e da quello che usciva dai vari taglietti che si erano aperti. Sembrava quasi incosciente, tremava, e tossiva quando lo colpivano allo stomaco, mascherando i gemiti e le urla di dolore.

Quando vide una lacrima argentea rotolare giù dalle sue ciglia lunghe, per poi infrangersi sulla pelle segnata degli zigomi, Elizabeth non riuscì davvero più a sopportare tutto quello. L’avevano picchiato decine di volte, ma lui non aveva pianto, mai.

-Basta!- Urlò, la voce strozzata. Tutto intorno a lei sembrò gelarsi, tutti restarono immobili per un secondo. Tutti, tranne Zayn. Il moro alzò la testa di qualche centimetro, aprendo appena le palpebre, quel tanto che serviva per lanciarle un’occhiata. La ragazza non riuscì a capire bene cosa ci fosse dentro quelle iridi umide, non fece in tempo a leggerle; fu distratta da una voce possente, che urlò una frase nel silenzio generale, scandendo bene le parole.

-Qualcuno vuole che ci fermiamo? Qualcuno è dalla parte di questo sporco bastardo?- Domandò Jakob, gli occhi ben fissi su di lei, l’espressione minacciosa.

La mente di Elizabeth si svuotò di ogni pensiero coerente, lasciandola alla deriva di ricordi sparsi.


 
Camminava silenziosa nel corridoio, eppure pareva che tutti la vedessero. Tutti gli occhi erano puntati su di lei. Tutti ridevano.
-Vattene di qui!- -Questo non è il tuo posto.-
Lacrime nascoste, lacrime represse.
-Mi fai schifo, puttana.-
Una porta sbattuta. Vetri che cadevano. Risate, risate ovunque.
-Sarebbe meglio che non fossi mai nata!-




 
Un singhiozzo le morì in petto, lasciandola senza fiato. Chiuse gli occhi, e istantaneamente focalizzò l’immagine di Zayn, pochi secondi prima. Si spinse dentro le sue iridi e lesse l’incredulità, lo stupore, e soprattutto la speranza, speranza che finalmente qualcuno ci fosse anche per lui.

Ma non ce la fece, gettò la spugna. Abbassò il viso e si fece piccola tra la folla, lasciando che solo il silenzio facesse eco alle parole di Jakob. Il ragazzo sorrise, fiero della vittoria, e lasciò un altro paio di pugni sul viso del moro, giusto per ribadire il concetto. La campanella suonò, e pian piano gli studenti iniziarono a sparpagliarsi, dirigendosi verso la porta. Zayn, senza nessuno che lo costringesse a stare in piedi, non resse e cadde sulle ginocchia, prima di abbandonarsi lungo disteso sull’asfalto.

Elizabeth, il cuore gonfio divorato dai sensi di colpa, gli voltò le spalle, dirigendosi come tutti verso il portone. Sentiva le iridi del moro contro la propria schiena, pungevano come aghi, le facevano male dentro, perché sapeva di averlo ferito, di averlo tradito, di averlo deluso. Sapeva tutto, ma non era riuscita a fare la cosa giusta in ogni caso. Non diede neppure un’occhiata verso il corpo inerme del compagno, mentre camminava lentamente verso la sua classe.

Scusa, Zayn.

***

Elizabeth era in classe da neanche dieci minuti, e già le pareva che fossero passate ore. Si sentiva soffocare, la voce del prof le arrivava lontana, distorta, incomprensibile. Come aveva potuto essere così codarda? Come aveva potuto darla vinta a Jakob? E soprattutto, come aveva potuto abbandonare Zayn?

Le domande le affollavano la testa dolorante, scandite dal pulsare delle tempie. Sentiva un grosso nodo alla gola, come se avesse ingoiato qualcosa di duro che le aveva intasato la trachea. Probabilmente, era una grossa palla di sensi di colpa.

Non ce la faceva più a stare lì, non avrebbe mai retto fino al pomeriggio; finse così di stare male, per ottenere il permesso di andare a casa prima. Chiamò sua madre con il telefono della scuola, e lei, distratta dal lavoro, rispose un “Certo tesoro.” senza neanche ascoltarla. Prese le sue cose, il fiato corto, e uscì da quella prigione, lasciandosi poi scivolare su una panchina.

Cercò con gli occhi il punto in cui, fino a poco prima, era stato disteso Zayn. Piccole macchie di sangue qua e là confermavano il suo passaggio. Non era più lì, e non era neppure entrato in classe, quindi doveva essere tornato a casa... Certo, non sembrava proprio nelle condizioni di fare troppa strada a piedi, e a quell’ora non c’erano pullman in servizio.

Elizabeth si alzò, di scatto, appena si rese conto che il compagno doveva essere ancora lì nei paraggi. Corse verso la macchia di sangue più grande, che ben presto la pioggia avrebbe spazzato via, e sentendo qualche speranza tornare in vita dentro di se prese a cercare, lì intorno, qualche segnale che indicasse la direzione presa da Zayn. Si lasciò scappare un sorrisetto sollevato, quando vide che piccole gocce rossastre avevano segnato il cammino percorso dal moro.

Prese un grosso respiro ed iniziò a seguire le tracce, sentendosi protagonista di un pessimo film giallo. Dovette girare un po’, ma alla fine si ritrovò davanti ad un vecchio capannone abbandonato sul retro della scuola, dove probabilmente un tempo venivano conservati gli strumenti del giardiniere (proprio così, c’era un giardiniere che andava, ogni due settimane, a tagliare l’erba e rifinire le siepi).

Davanti alla porta le tracce scomparivano, per cui era palese che Zayn fosse lì dentro. Elizabeth sentì l’ansia salirle dentro. E se si fosse arrabbiato? E se non l’avesse voluta lì? Se lo sarebbe meritato, dopo ciò che aveva fatto. Nonostante ciò, deglutì rumorosamente e mise la mano sulla maniglia, prima di aprire il battente di scatto, pensando confusamente a cosa avrebbe potuto trovare una volta dentro.

Si bloccò, tuttavia, non appena i suoi occhi si scontrarono con uno dei pochi scenari che non si era immaginata: quello che mai e poi mai avrebbe voluto vedere.













**SPAZIO ME**
Per prima cosa... Se non si fosse capito, la parte scritta diversamente è un flashback, e ci da qualche indizio sul passato di Elizabeth, che ancora è venuto fuori molto poco... Ma lo vedremo, pure lui.
Sono riuscita ad essere puntuale, una settimana precisa! *balla sulla sedia*
In ogni caso, ho ancora motivi per scusarmi. Avevo detto che ci sarebbe stato un grosso sconvolgimento, ma per questioni di tempo e lunghezza ho preferito tagliare qui e mettere tutto nel prossimo capitolo, altrimenti questo mi sarebbe venuto davvero troppo lungo. Comunque, vi giuro, la novità c’è, esiste, è reale, e sta per arrivare HAHAHA :’) Non perdete la speranza, voi tre che leggete.
A proposito di lettori, devo ancora una volta fare dei ringraziamenti! Ho ricevuto ben 44 recensioni totali, siamo cresciuti parecchio dall’ultima volta! Grazie mille! Ringrazio anche le 12 preferite (DIODIODIO), le 16 seguite e le 4 ricordate. GRAZIE MILLE, DAVVERO!
Mi farebbe un piacere enorme una recensione, anche corta, perché questi ultimi capitoli mi lasciano un po’ perplessa e non riesco mai a valutarli, un vostro parere mi sarebbe di enorme aiuto! Ve lo chiedo in ginocchio, dieci paroline per me, peeeer favore! <3 Spero di sentirvi <3
Love u

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Capitolo 20
*** Emofilia di parole. ***


Questo capitolo è dieci volte più lungo di tutti gli altri. Vi chiedo scusa, so che avrei dovuto spezzarlo, ma mi serviva tutto POV Zayn. Scusate, e ricordatevi di mettervi comodi prima di leggere HAHAH <3



-CAPITOLO DICIANNOVE-


 

ZAYN.

Mentre un ennesimo pugno si abbatteva contro la sua mascella, causandogli un dolore atroce, per via dei tanti lividi e graffi già presenti, ancora neppur lontanamente guariti, il moro si trovò a pensare a quanto la tempistica incidessero sulla sua vita. Il giorno prima era arrivato in ritardo di qualche minuto, e suo padre l’aveva picchiato; quella mattina, dal momento che ci aveva messo un po’ più del solito a fare tutta la strada fino a scuola, per via del dolore intenso alle articolazioni, non era riuscito a rifugiarsi in tempo nel suo solito posto, e così era stato preso anche dai bulli che, fino a quel momento, non l’avevano mai trovato prima che suonasse la campanella.
 
E sempre per colpa di pochi attimi, al posto di essere al sicuro, si trovava in mezzo ad una folla di ragazzi, che incitavano una delle tante bande che l’aveva preso di mira. Il capo, (era piuttosto convinto che si chiamasse Jakob), gli aveva fatto qualche domanda, alla quale non era riuscito a rispondere per colpa dell’ansia e della paura, che gli avevano bloccato le parole in gola; al suo silenzio si era arrabbiato, e con i compagni aveva iniziato a picchiarlo, come al solito.
 
Tuttavia, quell’anno, per Zayn era la prima volta che veniva maltrattato subito dopo averle prese di santa ragione da Yaser, e ogni volta ricordare quanto male facesse era impossibile. Le ferite, già mezze aperte e pulsanti, riprendevano a sanguinare in fretta, dando soddisfazione ai suoi aguzzini, che se ne prendevano il merito, non sapendo tutto quello che c’era dietro; e soprattutto lanciavano fitte insopportabili, che gli facevano vedere letteralmente le stelle, strozzandogli il respiro in gola e impedendogli di restare dritto.
 
E anche quella mattina, mentre sentiva tante mani diverse scagliarsi contro di lui, cercando di scatenare una sua reazione, non riuscì a trattenersi dal gemere qualche volta, nonostante in situazioni normali avesse imparato a trattenersi. Mascherò tutto con qualche colpo di tosse, però, perché non voleva farsi vedere più debole di quanto non sembrasse già.
 
Stringendo i denti e trattenendo il fiato riusciva quasi ad arginare il dolore fisico, eppure nulla poteva fermare quello psicologico, che derivava dalle tante frasi che gli stavano sputando contro. Sembrava che non ci facesse neppure caso, perso com’era in quell’universo di dolore, eppure erano forse la cosa che percepiva più chiaramente.
 
-Negro schifoso!-
-Fate sputare sangue a questo scarto dell’umanità!-
-Siete i più fighi, ammazzatelo di botte!-
-Non meriti di insozzare la nostra scuola, tornatene in Pakistan!-
-Sfigato del cazzo!-
-Sei uno sputo inutile, muori!-
 
Una parola, un colpo; ma al cuore. Non l’avrebbe mai ammesso, Zayn, ma tutto quello faceva molto più male dei pugni, che lasciavano ferite superficiali, destinate a guarire. Più cresceva, invece, più il moro si rendeva conto di averne una, dentro, forse destinata a durare per sempre.
 
Non faceva caso alle frasi di odio di chi lo picchiava, da piccolo; semplicemente non le capiva, non ci credeva.  Poi, crescendo, aveva imparato a comprenderle, ad accettarle, e le aveva fatte sue, interiorizzandole. E ora, non serviva più che il mondo gliele ripetesse: lo faceva da solo, ventiquattro ore su ventiquattro, sentendosi sbagliato. E quando anche gli altri le ribadivano, la sfida diventava terribilmente impari; sapeva già che avrebbe perso, mentre una metà di se stesso cercava di distruggerlo e il mondo la supportava.
 
Così Zayn si sentiva: una nullità, uno schifo, uno sputo dell’umanità, uno stupido puntino nero su un foglio immacolato, pronto per essere cancellato. Non l’avrebbero trattato in quella maniera, se non lo fosse stato; pensava. E questo spiegava anche perché nessuno l’avesse mai amato: chi mai avrebbe potuto voler bene ad un errore come lui?
 
Ogni frase proveniente da quel folto pubblico, che si divertiva a vedere il suo sangue sporcare il cemento, non faceva altro che confermare quello che già pensava di sapere, quello che gli era stato messo in testa sin da bambino.
 
Sentiva le forze venirgli meno, al punto da costringere gli altri ragazzi a sostenerlo per poterlo picchiare meglio, come un sacco da boxe. Ad ogni pugno gli sembrava di dover svenire, mentre  nelle sue orecchie il ronzio, che precedeva solitamente la perdita di coscienza, andava e veniva. Quando gli arrivò una ginocchiata nello stomaco credette di essere sul punto di vomitare, ma con forza riuscì a ricacciare in fondo la cena del giorno precedente.
 
Ad un certo punto, però, udì tra i tanti urli di spregio uno diverso, che lo colpì, se possibile, con maggiore potenza.
 
-Dove hai lasciato le bombe, schifoso terrorista? Voi Pakistani siete capaci solo a fare del male, ad uccidere gente! Senti un po’ ora cosa si prova!- Strillò una voce acuta, forse di ragazza. Il cuore di Zayn, agitato per via del dolore, parve per un attimo fermarsi, mentre i ricordi lo invadevano. Nella sua mente si affacciarono scene che aveva pensato di aver rimosso ma che, evidentemente, aveva inconsciamente conservato. Ricordò nel dettaglio tutte le parole dette da suo padre, ogni singolo insulto, e pensò a lei.
 
Non ce la faceva, il dolore era troppo, quei ricordi erano troppo. Iniziando a tremare, sentì una stupidissima lacrima scivolare fuori dalle sue lunghe ciglia, per poi scendere, lenta, fino al mento. Era tanto che non piangeva, e sicuramente non avrebbe voluto farlo lì, in mezzo a tutti, ma fu più forte di lui, non seppe trattenersi. Tirò su con il naso, frenando le successive, che già si erano affacciate, pronte a sgusciare fuori, e si preparò ad una nuova serie di pugni, ancora più violenta, perché aveva presto imparato che i bulli odiano chi piange. Piangere è da deboli.
 
All’improvviso, però, una voce conosciuta lo costrinse ad alzare la testa.
 
-Basta!- La protesta rimbombò nell’aria, improvvisamente priva di ogni suono, e giunse alle sue orecchie, totalmente incredule. Non riuscì a capirne il senso, finchè non sbirciò cautamente tra la folla, trovando il viso ansioso di Elizabeth. Sentì il cuore accelerare, passando da zero a cento in pochi secondi, meglio di una Ferrari.
 
Non poteva crederci, era impossibile. Si era messa in mezzo a quella faccenda, aveva rischiato di venir catalogata, come lui, negli sfigati, o peggio di venire presa a pugni a propria volta; per lui? Nessuno si era mai interessato a ciò che gli succedeva, nessuno l’aveva mai protetto, tratto in salvo. Si era abituato a fare tutto da solo, con il tempo, complice il pensiero di non meritare nessun aiuto, neppure dettato dalla pietà; aveva imparato che non c’erano mani compassionevoli per lui, c’erano solo insulti e voci brusche, colpi violenti e derisione. Nessuno aveva mai voluto toccarlo per un motivo che non fosse puramente violento. E ora? Come avrebbe dovuto intendere quel gesto?
 
Non voleva, non poteva sperare, lo sapeva, eppure… E se? Se avesse finalmente trovato qualcuno capace di apprezzare anche l’errore che era, in grado di volergli bene, di considerarlo una persona di pari valore, di, perché no… Trattarlo come un amico? Non aveva mai avuto amici lui, non sapeva neppure cosa volesse dire in fondo, ma… L’idea che si era fatto era quella che un amico fosse colui che sapeva amarti per e nonostante i tuoi difetti, semplicemente per ciò che eri. Ci sarebbe mai stato qualcuno così, per lui? Qualcuno che l’avrebbe saputo amare?
 
-Qualcuno vuole che ci fermiamo? Qualcuno è dalla parte di questo sporco bastardo?- Sputò in quel momento Jakob, riportandolo duramente alla realtà. Trattenne il fiato, supplicando perché quella folla confusa dicesse qualcosa, emettesse anche solo un suono; spiò la figura di Elizabeth, ma aveva la testa chinata, non riusciva a raggiungere i suoi occhi di prato. Taceva, come avevano sempre taciuto tutti.
 
Sentì la risata sprezzante di Jakob graffiargli i timpani, facendogli abbassare lo sguardo. Ingoiò a vuoto un paio di volte, cercando di scacciare il magone che gli aveva preso la gola. Provò a respirare normalmente, ma sentiva che presto sarebbe andato in iperventilazione e non serviva a nulla cercare di trattenersi. L’importante era non piangere, non lì. Non ancora.
 
Prima che la campanella suonasse, la sua pelle fu nuovamente battuta, ma il moro sembrò non accorgersene, perso nel suo universo personale. Ormai, neppure il dolore fisico riusciva a spostare la sua attenzione dal silenzio. Quello stesso silenzio che aveva succeduto la domanda di Jakob, che gli aveva gelato il cuore.
 
Zayn sentì qualcosa spezzarsi dentro, e all’improvviso fu assalito da un dolore del tutto nuovo. Gli parve di soffocare, mentre decine e decine di voci riempivano la sua mente. Era stato solo uno stupido, un illuso. Aveva sperato, di nuovo; ed era rimasto deluso, di nuovo.
 
Nessuno avrebbe mai potuto amarlo.
Nessuno avrebbe mai potuto accettarlo.
I suoi difetti non erano fatti per essere compresi, nessuno ci sarebbe mai riuscito.
Era destinato a rimanere solo, così come era sempre stato.
Era uno sbaglio, un errore, uno sfigato, uno schifo.
Avrebbe fatto meglio a non essere mai nato.
Nessuno l’avrebbe mai guardato con affetto, nessuno si sarebbe mai preoccupato per lui.
Nessuno lo avrebbe mai aiutato.
Era nato per soffrire, era nato per fare del male.
Era stanco, soprattutto, stanco di tutto quello. Stanco di sentirsi soffocare ingabbiato in quel mondo al quale non apparteneva.
Avrebbe voluto andarsene, scappare, cambiare vita, ma l’abitudine era l’unica cosa che ancora lo spingeva ad alzarsi dal letto.
Dove sarebbe potuto fuggire, mentre i mostri che lo uccidevano ogni giorno rimanevano accucciati comodamente dentro di lui, ridendo dei suoi sforzi?

 
E così Zayn si lasciò scivolare sull’asfalto, improvvisamente libero dalla presa dura dei compagni di scuola, con l’impressione però di continuare a cadere all’infinito, fino alle porte del suo inferno personale. Seguì con gli occhi arrossati la figura leggera di Elizabeth, che gli dava le spalle per poi entrare nell’edificio, e la sensazione di soffocamento che l’aveva colto negli ultimi minuti iniziò a salire spaventosamente. Si lasciò scappare un singhiozzo, per poi fermare le lacrime con la manica della camicia, leggermente insanguinata.
 
Non aveva neppure la forza di alzarsi, e per andare dove, poi? Non poteva presentarsi in classe conciato in quella maniera, e non poteva assolutamente tornare a casa. Così rimase steso sull’asfalto, incurante del freddo o dei passanti che avrebbero potuto scorgerlo; gli sembrava quasi uno scherzo del destino che, dopo averlo fatto sentire uno scarto, lo lasciassero lì, proprio come il rifiuto che credeva di essere. Era già tanto che non l’avessero infilato a forza nel bidone dell’immondizia.
 
Lasciò scorrere i minuti, incurante del tempo, finchè le fitte pressanti in tutto il corpo non diminuirono di intensità e permisero ai pensieri negativi di prendere il pieno controllo della sua mente. A quel punto si alzò, scrollando le gambe, e raccolse la sua roba, iniziando a camminare, con l’unico obbiettivo di tenersi occupato, impedire alla mente di percorrere sentieri troppo dolorosi. Fece qualche giro in giardino, finchè non sentì le ginocchia diventargli molli; non aveva più forze.
 
Vide un capanno malmesso, in un angolo, e pensò che per essere lasciato marcire in quella maniera doveva essere ormai in disuso. Sospirando, vi si diresse, raccogliendo le ultime energie rimaste.
 
Una volta chiuso lì dentro, tuttavia, il senso di soffocamento prese il sopravvento, gli chiuse la gola e gli fece bruciare gli occhi, che ancora erano colmi di tutte le lacrime non piante in quei minuti. Le voci nella sua testa erano tornate, pressanti, forti, cattive.
 
Si buttò per terra, prendendo la testa tra le mani, cercando di mantenere il controllo. Le spalle gli si alzavano ed abbassavano rapidissime, colte ogni tanto da un brivido convulso, mentre le sue dita fragili stringevano debolmente i capelli ancora corti, che però iniziavano a fornire una buona presa. Iniziò a dondolare leggermente, provando a calmarsi, ma i mostri nella sua testa erano più potenti, rabbiose, prepotenti.
 
Era un errore. Uno sbaglio. Avrebbe dovuto morire.
Sarebbe stato solo per sempre, nessuno l’avrebbe amato mai. Le persone non amano gli sfigati schifosi come lui.
Era stupido, era inutile, era incapace. Suo padre glielo aveva sempre detto, no?
E, soprattutto, era tutta colpa sua. Era nato per soffrire. Era nato per fare del male.
Non sarebbe mai successo nulla se lui fosse stato diverso, lei sarebbe stata ancora lì.
Si meritava il dolore, si meritava ogni singolo pugno.
Si meritava ogni singola sfumatura dell’inferno.

 
-Basta, basta…- Gemette. Non riusciva più a sopportare tutto quello, non in quel momento, i ricordi resi più vividi dalle parole di quell’ignara ragazza che, senza saperlo, era andata più vicino che mai a ciò che il moro si portava dentro da anni.
 
Non sapeva più che fare, gli pareva di venire stritolato in una morsa. Gli sembrò di perdere la testa, mentre una vocina gli sussurrava all’orecchio: “Trova qualcosa che faccia più male…”
 
Forse era pazzo, ma avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di dimenticare quei pensieri. Strisciò fino allo zaino, per poi recuperare l’astuccio e aprirlo, rabbiosamente. Lo rovesciò, disperdendo ovunque le sue amate matite da disegno, e finalmente trovò quello a cui puntava: le forbici. Restò a guardarle qualche secondo, passando le dita sulle lame lucide.
 
-Il dolore fisico scaccerà quello mentale.-
-Ma io ho paura…-
-Non farà male. Starai meglio.-
-Non servirà a nulla!-
-È l’unico modo per uccidere le voci nella tua testa.-
-Tu sei una di quelle!-
-Fallo, Zayn, fallo.-
-Basta, per favore…-
-Ti ho detto di farlo… Il dolore fisico scaccerà quello mentale…-
-Ma…-
-Zitto Zayn, starai bene, fallo e basta!-
 
Deglutendo a vuoto, il moro impugnò le forbici maldestramente e se le posizionò sul braccio. Aveva paura, ma aveva anche imparato a non dubitare delle voci nella sua testa, le stesse che lo insultavano ogni giorno. Prese un respiro e fece pressione, muovendo appena la lama. Non sentì nulla, così andò avanti. Prendendo il coraggio a due mani, spinse ancora di più e fece un taglio secco, talmente veloce da non poterlo seguire con gli occhi.
 
La sua pelle, già martoriata, si macchiò nuovamente di sangue, che prese a scendere abbondantemente dalla ferita appena creata. Guardandolo, all’improvviso Zayn sentì l’adrenalina impadronirsi di lui. Prese a respirare in fretta, fin troppo, e prima che se ne accorgesse sul suo viso era spuntato un sorriso; non di quelli sinceri, che evitava da tanto tempo, piuttosto una smorfia maniacale, ai limiti della pazzia. La sua mente sovraffollata all’improvviso si zittì, lasciandolo immerso nel silenzio. Era vero, era vero tutto quello che gli era stato detto: il bruciore diffusasi per tutto il braccio gli impediva di formulare anche solo un discorso coerente, costringeva le voci nella sua testa a stare zitte, a sottomettersi al suo volere. Per la prima volta nella sua vita, Zayn sperimentò la sensazione di potere.
 
Tuttavia, l’euforia durò poco. Passarono pochi secondi, prima che la porta del capanno si spalancasse di colpo. Elizabeth era lì, davanti a lui, la bocca spalancata di fronte al ciò che stava vedendo: lui, rannicchiato a terra, le forbici in una mano e un taglio ancora sanguinante che non si era preoccupato di coprire. All’improvviso tutto gli sembro dannatamente sbagliato, la sua mente tornò a funzionare, riportando in vita quei mostri, ancora più forti.
 
Credette di svenire, sentendo ogni forza venirgli meno. Abbassò lo sguardo, per paura di vedere negli occhi di Elizabeth la delusione, l’incredulità, l’orrore. Aveva sbagliato, ancora. Era stato un coglione. Ancora. Si chiese quanto potesse fargli schifo, e quanto avrebbe resistito prima di scappare via da lui; raggomitolandosi ancor più su se stesso, si fece schifo quanto mai prima.
 
Dopotutto, non aveva fatto fatica a voltargli le spalle, prima, no? Non doveva fare altro che ripetersi. Niente di nuovo, niente che non avesse ancora provato. Forse, con qualche sforzo, sarebbe stato in grado di reggere la delusione e il rifiuto.
 
Ciò che la ragazza fece, però, lo lasciò sorpreso. Non fuggì, non urlò, non gli disse brutte parole. Semplicemente,    -Che hai fatto, Zayn?- Mormorò, la voce soffocata, non dall’orrore, ma dalla preoccupazione. La vide chinarsi al suo fianco, prima di prendere il suo braccio martoriato tra le mani, con delicatezza. Gli strappò di mano le forbici, ma non bruscamente, più come una mamma che toglie dalle dita del suo bambino oggetti che potrebbero farli del male. E in effetti, a ben pensarci, era proprio così.
 
Zayn era confuso, non sapeva che pensare, non sapeva cosa sarebbe successo; a quel punto forse non gliene importava neppure più, perché erano successe troppe cose, il limite era stato oltrepassato, e lui non ce la faceva davvero più. E così stette in silenzio, lasciando che qualche lacrima gli lavasse il viso, finchè la ragazza non si alzò e raccolse le sue cose, per poi aiutarlo a rimettersi in piedi, a fatica.
 
-Vieni, andiamo a casa mia.- Sussurrò, piano, come per paura di spezzarlo. E lui, già spezzato da tempo, non fece altro che annuire, perchè nonostante il gesto di poco prima avesse fatto aumentare la sua diffidenza verso la ragazza, dentro di lui era accesa la consapevolezza che, in fondo, avrebbe sempre finito per seguirla ovunque.

***

 
Arrivati a casa di Elizabeth, Zayn riusciva a malapena a reggersi in piedi. Gli faceva male ovunque, e aveva perso davvero molto sangue negli ultimi giorni, e la lunga camminata che erano stati costretti a fare aveva potuto solo peggiorare la situazione. Erano rimasti in silenzio, scambiandosi a malapena qualche segno per il tragitto; tuttavia il moro era più o meno consapevole che prima o poi avrebbe dovuto parlare, e di conseguenza mentire nuovamente, e questo lo spaventava. In ogni caso, in quel momento si sentiva troppo debole per preoccuparsene.
 
Guardandosi attorno, il moro si rese per la prima volta conto di quanto la sua compagna fosse ricca. Solo l’ingresso di quello che, a suo parere, era più un palazzo che una cosa, era grande quanto il suo salotto! Si sentì immediatamente intimidito, fermo sulla porta, quasi preso dalla paura di entrare in quell’ambiente che, con lui, non sembrava avere nulla da spartire.
 
-Entra, Zayn. Puoi lasciare le scarpe lì. I miei non ci sono, non ti preoccupare.- Tentò di rassicurarlo Elizabeth a quel punto, buttando disordinatamente le proprie All Star su un tappetino. Il moro, copiando i suoi movimenti, si tolse le vecchie tennis e lasciò la cartella vicino allo stipite, prima di seguirla in sala. Era immensa, avrebbe potuto perdercisi.
 
A quel punto sentì la ragazza sospirare e, confusamente, si rese conto che presto avrebbe dovuto iniziare a mentire. Prese un grosso respiro, per prepararsi, e poi osservò di sottecchi i capelli castani dell’altra, che le nascondevano il viso. Quando li scostò, per spostare le iridi verdi su di lui, entrambi tremarono.
 
-Credo che sia meglio che tu ti dia una ripulita, per prima cosa.- Sospirò allora, accennando al sangue che si era seccato sui suoi vestiti e sulla sua pelle, rendendola ancora più scura. Il moro annuì, passandosi una mano tra i capelli e facendo una smorfia di assenso, prima di seguire la ragazza in bagno.
 
-Puoi farti una doccia se vuoi; dopo ti aiuterò a medicarti, va bene?- Propose a quel punto Elizabeth, cercando di tirare fuori un sorriso incoraggiante, nonostante la preoccupazione. Ciò che aveva visto l’aveva scossa profondamente, ma sapeva che in quel momento non poteva permettersi di mostrarsi debole, non quando il moro lo era abbastanza per entrambi.  Lui, intuendo i suoi pensieri, pensò bene di assecondarla e annuì nuovamente, timido in quell’ambiente sconosciuto.
 
Una volta solo si spogliò, appallottolò i suoi vestiti e li buttò in un angolo; erano inutilizzabili in quel momento. Sgusciando sotto il getto d’acqua bollente, si sentì improvvisamente meglio. Cercò di sciacquarsi di dosso il sangue e la polvere, ma sfregare faceva troppo male, così lasciò che fossero le gocce a ripulirlo. Si prese anche qualche minuto per calmarsi, perché per lui una doccia faceva più di una seduta di yoga: lo calmava, gli distendeva i nervi, lo faceva sentire immediatamente meglio. Così, mentre l’acqua li scivolava addosso, cercò di prepararsi alle ore successive, ripetendosi come un mantra che sarebbe andato tutto bene.
 
Purtroppo, non potè restare lì dentro per sempre. Dopo un po’ ritenne giusto uscire, prendere uno degli asciugamani che Elizabeth gli aveva lasciato e iniziare ad asciugarsi. Si rese conto solo all’ultimo minuto, però, di non avere vestiti di ricambio. Arrossendo fino alla radice dei capelli, si coprì alla meglio con il tessuto bianco che ancora stringeva tra le mani, e aprendo la porta di pochi centimetri sbirciò fuori.
 
La ragazza era lì, seduta a terra, in sua attesa. Tossì un paio di volte, per attirare la sua attenzione; quando l’ebbe ottenuta, imbarazzato come mai, raccolse le forze per parlare senza balbettare, pur con scarsi risultati.
 
-Io… N-non ho v-vestiti p-puliti, come…?- Tentò, mordendosi il labbro. Elizabeth quasi rise di fronte alla sua timidezza, per poi mostrargli un fagotto che teneva in mano e che lui non aveva notato.
 
-Prova questi.- Esclamò lei, porgendoglieli. Zayn allungò le dita e cercò di raggiungerli senza spalancare la porta, ma alla fine fu costretto ad aprirla, ben stretto nell’asciugamano, per poi richiudersela in fretta alle spalle una volta raggiunto l’obbiettivo. Sospirò, sentendo il rossore sulle guance sbollire leggermente. Recuperò la propria biancheria, fortunatamente indenne, e indossò i pantaloncini e la maglietta che la ragazza gli aveva dato. Gli stava tutto leggermente largo, ma comunque si trovava molto più a suo agio che con la sua divisa, letteralmente immensa.
 
Uscendo, si rese conto che anche Elizabeth si era cambiata: indossava dei jeans e una maglietta blu, piuttosto larga. Confrontandola con quella che aveva addosso, verde, si rese conto di avere addosso pezzi dell’armadio della compagna. E dire che aveva pensato fossero da maschio!
 
Elizabeth accolse con un sorriso la sua comparsa, visibilmente più tranquilla. Gli sfiorò il braccio, facendogli segno di seguirla, e lo portò in salotto, dove si sedettero sul tappeto, con una cassetta del Pronto Soccorso. Tirando fuori i cerotti per medicarlo, la ragazza fece sparire ogni traccia di allegria, tornando seria.
 
Allungò due dita con esitazione, per accarezzare leggermente il punto dove Zayn aveva passato la lama delle forbici, rosso e gonfio. Il moro sentì il magone salirgli in gola, ricordando quei momenti, e prese a tremare leggermente, sperando che l’altra non se ne accorgesse.
 
-L’avevi già fatto?- Sussurrò lei con dolcezza, alludendo al taglio. Il moro tremò più forte per qualche secondo, deglutendo a vuoto.
 
-N-no.- Soffiò, mordendosi il labbro per il dolore, mentre Elizabeth vi applicava sopra un cerotto color carne, cercando di fare il più delicatamente possibile.
 
-Perché oggi?- Chiese allora la ragazza, nel tentativo di non essere troppo diretta, per non spaventarlo. Zayn, tuttavia, già spaventato di per se, dovette fare un grande sforzo per rispondere; solitamente, lo sapevano bene entrambi, sarebbe rimasto zitto, ma quel giorno sentiva qualcosa di diverso. Forse la sensazione di toccare il fondo gli aveva dato la spinta giusta per incominciare a risalire.
 
-Troppi pensieri.- Borbottò, intimorito. Pensava che Bethie l’avrebbe preso in giro, che l’avrebbe deriso per essersi fatto comandare da delle voci inesistenti nella sua testa, e invece lei restò in silenzio, aspettando che spiegasse un concetto che non le era chiaro. Zayn lo capì e, sospirando, recitò meccanicamente la frase che aveva sentito ripetere tante volte nel suo cervello.
 
-Il d-dolore fisico scaccia q-quello m-mentale…- Chiuse gli occhi dopo quelle parole, sentendo forse di aver detto troppo; eppure non potè non sentire la domanda successiva della ragazza.
 
-Dolore mentale… Per quello che è successo?- Domandò, tracciando disegni immaginari sulla pelle del ragazzo con la punta delle dita, facendolo rabbrividire per la dolcezza nascosta in quel gesto.
 
-In generale.- Ammise allora, stringendosi nelle spalle, per poi pentirsene subito, colto da una fitta di dolore. Elizabeth annuì, posando un altro cerotto sull’avambraccio sinistro, segnato da qualche unghiata profonda. Per un po’ restarono in silenzio, incapaci di dire altro.
 
Il moro sentiva il cuore a mille nella cassa toracica, e aveva l’impressione che avrebbe potuto vomitare se solo avesse aperto la bocca, lo stomaco attorcigliato dal terrore; Elizabeth, invece, aveva paura di farlo chiudere ancora più in se stesso, temeva di esagerare, di fare troppe domande. Sentiva quanto a disagio fosse il compagno e non voleva assolutamente farlo stare peggio. Passarono così un po’ di minuti, in cui l’unico suono fu lo scricchiolio della carta protettiva delle bende e lo scuotersi del disinfettante dentro alla bottiglietta; poi, la ragazza tornò a parlare.
 
-Togliti la maglietta, su.- Lo spronò, tentando di essere il più delicata possibile. Lo sentì irrigidirsi a quelle parole, preso dal panico, finchè non ricordò di essersi già trovato in quella situazione. Lei aveva già visto; che motivo c’era di nascondersi ulteriormente? Eppure era difficile, dopo tanti anni passati a scuotere il capo a quella richiesta, obbedire senza sentire il cuore in gola.
 
Aspettò qualche attimo, cercando di calmare il respiro, poi prese i lembi verdi della maglietta e li sollevò con lentezza, sentendo il rossore invadergli le guance. Ora, privo anche di quel debole scudo, l’alzarsi e l’abbassarsi frenetico del suo petto era fin troppo evidente.  D’improvviso, poi, sentì l’esclamazione soffocata della ragazza, che lo fece agitare ancora di più.
 
-Dio, Zayn!- Elizabeth lo squadrò, in ansia. Dubitava che sarebbe riuscita a fare qualcosa di buono, in quella situazione; era palese che i cerotti non sarebbero mai bastati. Si rese improvvisamente conto che, l’ultima volta che l’aveva visto senza maglia, i lividi che l’avevano terrorizzata erano vecchi ormai di qualche giorno; quelli, invece, erano appena spuntati, freschi della sera prima, e avevano un colorito violaceo tendente al nero. Quanti ai graffi e ai tagli, beh, sembrava che ce ne fossero strati e strati disposti uno sopra l’altro, rossi, gonfi e pulsanti. Inoltre, l’altra volta l’aveva visto in penombra. In quel momento, invece, erano in piena luce, cosa che le permise di distinguere l’intreccio di cicatrici, alcune rosate, altre color argento, tutte più o meno profonde, che gli ricoprivano la pelle.
 
Lasciò cadere la cassetta del Pronto soccorso, totalmente sconvolta. Zayn, di fronte alla sua reazione, sentì le tempie iniziare a pulsare, frenetiche. Tremava.
 
-Cosa ti è successo?- Domandò Elizabeth a quel punto, in un soffio di voce tremula. Non aveva ancora realizzato quanto grande fosse la faccenda nella quale si era infilata.
 
-Non sono stati quegli altri, vero?- Rincarò, sentendo il respiro fermarsi in gola, iniziando ad intuire la verità.
 
Il moro sapeva, sapeva che avrebbe dovuto mentire, annuire, convincerla che sì, erano stati proprio i bulli della scuola a ridurlo così; eppure non ci riusciva, la voce non gli arrivava alle labbra, il suo corpo non rispondeva ai comandi, riusciva solo a tremare, forte, convulsamente, in preda al panico più cieco. Si raggomitolò su se stesso, stringendo le ginocchia al petto, incurante del dolore atroce. A quella reazione, la ragazza si trovò improvvisamente certa della risposta.
 
-È successo qualcosa a casa, Zayn?- Tentò, cercando di essere il più delicata possibile. Il moro, a quelle parole, sentì il mondo crollargli addosso. All’improvviso, gli parve che qualcuno avesse rubato ogni singolo atomo di ossigeno dalla stanza. Non riusciva più a respirare, aveva caldo, troppo caldo; stava soffocando. Appoggiò il capo sulle ginocchia e iniziò a dondolarsi leggermente su se stesso, come a tranquillizzarsi, senza risultati. La testa gli faceva malissimo, le orecchie gli ronzavano.
 
-Tua madre?- Provò la ragazza, prendendo quei comportamenti come una conferma. Non sapeva come muoversi in quella situazione, si sentiva in imbarazzo più che mai, eppure doveva sapere. Non lo faceva per curiosità, era necessario che sapesse. Voleva aiutarlo.
 
Alle sue parole, finalmente il moro sembrò ritrovare un briciolo di lucidità. Scosse la testa freneticamente, ansimando. Sua madre non poteva essere messa in mezzo a tutto quello. Sua madre era passato, era un ricordo, qualcosa da cui scappare. Non poteva ricordare. Non in quel momento.
 
-È tuo padre, allora? Tuo padre ti picchia, Zayn?- Mormorò Elizabeth a quel punto, abbassando inconsciamente la voce. Si pentì di essere stata tanto diretta, ma non ne poteva più di tutte quelle mezze verità sussurrate.
 
Le sue parole arrivarono alle orecchie del moro distorte, lontane, soffocate. D’improvviso gli parve di essere schiacciato in una morsa. Sentiva confusamente che avrebbe dovuto fare qualcosa, negare, continuare la recita, ma sinceramente non ce la faceva, non riusciva a fare nulla in quel momento, pensare prima di tutto. Intorno a lui vedeva i mobili oscillare, sembrava che tutto stesse tremando, come se fosse improvvisamente passato un terremoto. Aveva sempre più caldo, come in una caduta libera verso il sole; sentiva la fronte bruciare. Gli doleva ovunque, il torace soprattutto, ma faticava a comprenderne il motivo; impietrito, impotente, non riusciva a muoversi, gli sembrava di essere uscito dal proprio corpo.
 
Attorno a lui sentiva rumori strani, insistenti, continui. Qualcosa sbatteva, ripetutamente, come una finestra con il troppo vento; ma era vicino, troppo vicino alle sue orecchie, così come quelli che non avrebbe potuto identificare che come guaiti di dolore.
 
Gli parve di impazzire, non riusciva a capire più nulla. Strinse forte la testa tra le ginocchia, sentendo ancora più calore. Si prese i capelli tra le mani e tirò, cercando di urlare, di uscire da quell’incubo, ma non sentì neppure dolore, solo una sensazione di umido tra le dita. Si rese conto, poco lucidamente, di aver iniziato a sudare copiosamente. Da qualche parte nella sua mente stavano venendo fuori le solite voci, malefiche, rabbiose. Finchè…
 
-Zayn, Zayn!- Strillò Elizabeth, vicino al suo orecchio, cercando di penetrare il muro di terrore che si era creato attorno. Ancora una volta, però, al moro parve che sussurrasse. Intorno a lui i rumori continuavano, a tratti coperti dal ronzio fastidioso che non gli abbandonava le orecchie. Sentiva il corpo leggero, sospeso, eppure allo stesso tempo gli faceva male davvero ovunque, la testa soprattutto.
 
Sentiva qualcosa strisciare contro il suo braccio, e inizialmente ne fu spaventato; si rese conto, poi, che Elizabeth glielo stava accarezzando, come cercando di calmarlo. Un guaito più forte degli altri, incredibilmente vicino, lo costrinse ad ascoltare meglio. Quelli erano gemiti, di cosa non avrebbe saputo dirlo, ed era piuttosto certo che provenissero dalla sua bocca. Allo stesso tempo, quasi all’improvviso, si rese conto che l’altro rumore, ancora presente, era prodotto dai suoi denti che battevano, rapidi.
 
Stava ancora tremando, e continuava ad avere troppo caldo. Ormai era zuppo di sudore. Gli sembrava di impazzire, non capiva più nulla, e soprattutto non sapeva come far finire quell’inferno.
 
-Zayn, calmati, ti prego. Va tutto bene.- Soffiò Elizabeth, sempre nel suo orecchio. Il moro aprì gli occhi a quel sussurro, intercettando il suo sguardo terrorizzato. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, ma non voleva piangere, sarebbe stato troppo. Non si era accorto di aver continuato a dondolare su se stesso, finchè la ragazza non l’aveva fermato, appoggiandogli dolcemente una mano sulla spalla.  Lentamente si era avvicinata a lui e l’aveva abbracciato, da dietro, facendo aderire la sua schiena umida alla propria pancia; aveva poi posizionato le mani sul cuore del compagno, accorgendosi di quanto rapido battesse.
 
-Tranquillo, Zayn, tranquillo. Non ti farò del male, va tutto bene. È solo un attacco di panico.- Mormorò ancora, cercando di rassicurare l’altro e anche se stessa, scossa da ciò che stava vedendo. Il moro aveva letteralmente perso la testa. Aveva preso a dondolare su se stesso, tremando convulsamente, gemendo e battendo i denti, gli occhi chiusi, terrorizzato. Sudava più di quanto lei avesse mai fatto durante un allenamento di corsa, e soprattutto era andato in iperventilazione. La ragazza aveva già incontrato un ragazzo che aveva attacchi simili, nei primi anni di scuola, e ricordava sempre che la prima cosa che facevano le insegnanti quando succedeva era fargli regolarizzare il respiro. Il moro, in quel momento, stava incamerando troppo ossigeno, e tuttavia il senso di soffocamento che era certa provasse lo spingeva a cercarne altro, disperatamente.
 
Prese ad accarezzargli i capelli, cercando di calmarlo, tenendo la mano sinistra sul petto del compagno, per evidenziarne il movimento.
 
-Guarda la mia mano, falla rallentare. Sta tranquillo, andrà tutto bene.- Tentò, sospirando di sollievo quando il moro diede segno di ascoltarla, guardando qualcosa di concreto per la prima volta dopo parecchi minuti. Si concentrò sulle dita sottili della ragazza e, dopo vari minuti, riuscì a rallentare il respiro quel tanto che bastava per farlo pensare lucidamente. Solo il passare del tempo potè fermare i tremiti impauriti che lo scuotevano.
 
Dopo quelle che sembrarono ore, finalmente, Zayn si lasciò scivolare all’indietro, tra le braccia protettive di Elizabeth, privo anche solo della forza di tenere gli occhi aperti.
 
-Così va meglio. È tutto a posto, non ti preoccupare.- Mormorò al suo orecchio la ragazza, stringendolo in un abbraccio, senza però fargli male. Zayn era stremato, prosciugato di ogni energia. Era stanco, di tutto. Era stanco di se stesso, di quella vita. Non ce la faceva più, e questa volta per davvero. Sentiva di aver davvero toccato il fondo, quel giorno, e rischiava di non alzarsi più.
 
Fu allora che qualcosa, cosa non lo avrebbe saputo dire neanche lui, lo spinse a parlare. Semplicemente ne sentiva il bisogno, e non poteva più fingere, non riusciva più a sopportare tutto quello che, per tanti anni l’aveva schiacciato. E così parlò, e fu come la prima volta dopo tanto tempo.
 
-Aveva detto che… Se l’avessi detto a qualcuno, m-mi avrebbe ucciso. Non posso. Non ci riesco. Lui… Lui mantiene, ciò che dice. M-mi ammazzerà. Mi p-porterà via e mi ammazzerà. Lui dice… Dice che può farlo. Dice che m-mi ha dato la vita e che p-può togliermela. Non posso dirlo. M-mi ammazzerà.- Sussurrò, con appena un filo di voce tremante, ancora scossa dalle lacrime non versate. Dovette prendere aria più volte per finire il discorso, facendo pause di parecchi secondi, ma alla fine ci riuscì, sotto lo sguardo incredulo della ragazza, che non si aspettava più nessuna parola da parte sua.
 
Erano stretti, uno pressato contro l’altro, la testa del moro appoggiata con delicatezza nell’incavo del collo della ragazza, che gli cingeva il petto con le braccia, morbidamente; eppure non si trovavano a disagio, nessuno dei due pensava a spostarsi.
 
Elizabeth non poteva credere che finalmente il moro avesse parlato davvero, e soprattutto non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva appena sentito.
 
-Perché glielo permetti? Perché non lo fermi?- Domandò Elizabeth, con tutta la delicatezza di cui era capace. Continuava a lasciarli carezze leggere sulla pelle, dopo aver constatato che avevano un effetto calmante su di lui. Lo sentì irrigidirsi, trattenendo il fiato, per poi buttarlo fuori in uno sbuffo, ma non rispose, così dopo qualche tempo fu la ragazza a continuare.
 
-Lui non è Dio, Zayn… E Dio non è come lui.- Mormorò, stupendosi in prima persona per le proprie parole.
 
-Non devi morire perché lui lo vuole. Non puoi lasciargli decidere il tuo futuro.- Continuò poi, strofinando il naso contro i suoi capelli. Era triste vedere quanto quel ragazzo fosse succube del proprio padre, quanto profondamente fosse ferito; faceva male allo spirito della ragazza, così decisa ad aiutarlo, constatare fino a che punto fosse distrutto.
 
-Me lo merito.- Soffiò soltanto, lo sguardo fisso sulla punta dei propri piedi nudi, sentendo le lacrime continuare a salire verso le palpebre socchiuse. Sentì una stretta dentro, all’altezza del cuore, pronunciando quelle parole; la totale sincerità con cui le aveva dette lo feriva in prima persona.
 
-Non è vero, Zayn, non credo che tu…- Iniziò Elizabeth. Poi il moro fece quello che né lei, né Zayn stesso, avrebbe mai potuto immaginare. La interruppe.
 
-Tu non sai niente! Non puoi capire, nessuno può capire!- Gemette, alzando impercettibilmente la voce, che nel silenzio risuonò come uno strillo. Respirava rapido, dome dopo ad una corsa, stringendo i pugni fino a far diventare bianche le nocche.
 
-Spiegami.- Lo esortò allora Elizabeth, senza sapere che altro dire in quella situazione, la voce disperata proprio come quella del compagno. E forse fu proprio quella voce, così partecipe, così sofferente, a fare breccia dentro al cuore del moro, riportando a galla tutti i ricordi che aveva tante volte cercato di dimenticare.
 
-Quando sono nato, sono stato un errore. Ero sbagliato, già da allora.- Iniziò, la voce spezzata. Elizabeth non capiva l’attinenza al discorso che stavano facendo, eppure lo lasciò parlare, consapevole che sarebbe bastato un gesto per farlo bloccare.
 
-Ero un bambino strano. Ero i-iperattivo, dicevano i m-medici. Mi muovevo di continuo, s-saltavo ovunque. Eppure ero… Ero anche solitario, n-non mi piaceva avere t-tanta gente intorno. P-parlavo poco, combinavo disastri. I miei n-non sapevano come gestirmi. Ero un p-problema. Mi hanno sempre v-visto come un problema.- Continuò a sussurrare  al pavimento, le frasi balbettate che si spezzavano in punti strani, quando la voce gli veniva meno. Gli faceva male dire quelle cose, ma pian piano si rese conto che tenerle per se, nasconderle, per tutto quel tempo, era stato ancora più doloroso. A quel punto, prese a parlare in modo quasi frenetico.
 
-Non sapevano p-più cosa fare, mia madre n-non mi avrebbe voluto, odiava quella situazione e f-forse odiava… Forse odiava anche me. Era stanca, s-sempre più stanca. Quando andai in p-prima elementare fu un disastro. Faticavo a capire l-le maestre e avevo s-sempre bisogno di aiuto, tutti p-pensavano che fossi stupido, e avevano ragione… M-mia madre iniziò a prendere d-dei farmaci, degli antidepressivi, s-sempre di più, s-sempre di più, e mio padre iniziò ad arrabbiarsi con m-me, urlava e mi m-minacciava… Mia m-madre piangeva e… E io n-non sapevo cosa fare… Iniziai a p-parlare sempre meno e ad andare sempre p-peggio a scuola, ero un d-disastro… Poi un giorno…- A questo punto Zayn si bloccò, perché non aveva più fiato. Sentiva le lacrime spingere ai lati degli occhi e il magone salire, incrinandogli la voce. Ansimò qualche volta prima di ripartire, il voce amara.
 
-Un giorno andò all’ospedale. N-non mi dissero cosa era successo, r-restai con i vicini fino a notte. Mio padre t-tornò a casa furibondo, iniziò a urlarmi contro ancora p-prima di arrivare in casa. F-fu l’ultima volta che vidi mia m-madre, e la p-prima che mio padre mi… M-mi p-picchiò.- Si bloccò sulle ultime parole, incerto, impaurito. Ormai era inutile trattenere il pianto. Lasciò scendere con lentezza una lacrima, poi due, tre, quattro; un’infinità di gocce salate trattenute per anni solcarono le sue guance, da troppo tempo a secco.
 
-S-sono sempre stato uno sbaglio, un errore, io… Io l’ho f-fatta andare via, lei è s-scappata. Neppure mia m-madre mi voleva! Sono inutile, inutile in questo m-mondo, ho fatto s-solo del male, l’ho costretta a fuggire d-da me! L’ho fatta andare in depressione! Sarebbe meglio se n-non fossi mai nato, no? Tutti starebbero meglio. N-nessuno mi ha mai voluto bene, n-nessuno, perché n-nessuno potrebbe mai voler bene ad un errore. Sono solo s-sbagliato, inutile, s-sfigato, incapace, io… Mi merito tutto q-questo…- Concluse, scoppiando definitivamente in singhiozzi.
 
Ed Elizabeth, che ancora lo stringeva, non potè fare altro anche accogliere le sue lacrime e piangere insieme a lui, stringendolo per fargli sentire la sua presenza, accarezzandogli il capo per farlo sentire protetto. Piansero insieme Zayn ed Elizabeth, il primo per via del dolore causato dai ricordi, e la seconda per strane e incomprensibili motivazioni. Non era pietà, non era dispiacere, non era rabbia. Era solo troppo, tutto.
 
Elizabeth non sapeva che dire, a quel punto. Capiva di non poter scegliere le parole, di non aver nessun copione, nessuna battuta prestabilita, nessuna frase che facesse al caso suo. E così improvvisò, contando su quello che il suo cuore le stava urlando.
 
-Capisco, Zayn, ti giuro che capisco. So come ci si sente, so com’è essere abbandonati. Ma quello è il passato, okay? Il presente è diverso. Nel presente c’è chi ti vuole bene. Ci sono io.- Fece un gran respiro, asciugandosi le lacrime.
 
-Non ho il potere di cancellare i ricordi, non so prometterti che andrà tutto bene. Ma ti dico una cosa, Zayn: non sei solo. Ci sono io con te. Ti voglio bene. Non la meriti, questa sofferenza, fidati di me. Non meriti di morire, e non permetterò che succeda. Tu meriti di vivere, Zayn, e io ti insegnerò a farlo. Okay? Non sei solo. Non lo sarai mai più.- Quelle parole caddero nel silenzio, improvvisamente quieto, senza lacrime, senza tumulti interiori. Per mezzo secondo, fu la pace.
 
Zayn ed Elizabeth non si spostarono di lì, non parlarono più. Restarono in silenzio, ad abbracciarsi, stringendosi l’uno all’altro, come per salvarsi la vita, uno appigliato all’altro, unica roccia al di sopra del baratro. E nel silenzio in cui nascono i sogni, le grandi promesse, nacquero loro due, di nuovo, come nasce una fenice dalle proprie ceneri.
 
Da un ragazzo in frammenti e una ragazza fintamente ricostruita, nacque qualcosa di nuovo, di forte, di potente. Un “noi”.











 
**SPAZIO ME**
Ciaoo *agita la manina*
E’ la seconda settimana che riesco ad aggiornare in orario e mi sento potentissima HAHAH :’) Anche se, per via della lunghezza spropositata, questa volta ho fatto una fatica assurda. In ogni caso, aveva promesso, e ce l’ho fatta.
Come avevo promesso, qui c’è una svolta. Mentre la scrivevo, mi sono preoccupata  che, dopo aver tanto parlato della rivoluzione che ci sarebbe stata, avreste trovato questo cambiamento troppo banale, però fidatevi, da qui le cose cambiano per davvero.
Abbiamo così scoperto il passato di Zayn, la storia che ha, in poche parole, fatto iniziare il suo calvario. Ricordatevela, però, perché tornerà fuori in futuro. Non tutto è come sembra.
Inizialmente volevo mettere anche la storia di Elizabeth, però poi ho pensato che sarebbe stato davvero troppo per un capitolo solo, quindi la saprete prossimamente. A parte questo, beh, non so che dire. Certe parti mi soddisfano, altre per niente. Avevo in mente parecchie scene ed è stato frustrantissimo non riuscire a riprodurle come avrei voluto, però mi sono dovuta accontentare. L’ultima parte non riesco neppure a rileggerla, è tardi, però prometto che se ci sono errori domani ci darò un’occhiata e li correggerò.
Ringrazio tantissimo, come al solito, le 48 recensioni totali (WOW.), le 5 ricordate, le 19 seguite (voi mi volete morta, ammettetelo) e le (oddiooddioddioo) 15 preferite! Vi amo tutte, grazie mille <3
Vi chiedo per favore un parere su questo capitolo, mi preme molto dato che ci ho messo tantissimo tempo e impegno per scriverlo! Per favore, dai, una recensione non vi ucciderà mica, no? Anche solo per dirmi che faccio schifo! Io vi aspetto, eh <3
Love u

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Capitolo 21
*** Un pugno di farina. ***


-CAPITOLO VENTI-


 

 
ELIZABETH.

 
Quella sera, una volta rimasta sola, Elizabeth si chiuse in camera propria, per pensare meglio. Quel pomeriggio era stato uno dei più intensi che avesse mai vissuto, ma sapeva che non era altro che il primo di una lunga serie. Aveva paura, e più volte le era venuta la tentazione di farsi indietro, abbandonare quel progetto troppo grande per una ragazzina come lei; quando, però, le tornava in mente Zayn, all’improvviso l’idea di lasciarlo nuovamente solo le sembrava una pazzia.
 
La ragazza ancora non riusciva a credere a ciò che aveva vissuto. In poche ore, aveva imparato a conoscere il moro più di quanto non avesse fatto in due settimane, ed era rimasta davvero colpita, a dirla tutta, da ciò che aveva scoperto. Per tutto quel tempo Zayn le era sembrato scostante, solitario, certamente impaurito dalla gente, ma comunque in qualche modo capace di controllare la situazione; quel pomeriggio, in cui se l’era trovato tra le braccia, fragile come mai, si era resa conto di quanto il moro fosse totalmente schiavo degli eventi, senza alcuna possibilità di scegliere, e comunque senza il coraggio di farlo.
 
Chiunque, a conoscenza di ciò, avrebbe potuto pensare a Zayn come un codardo; la ragazza sapeva però quanto sbagliata fosse quella definizione. La situazione in cui si trovava il moro era senza dubbio una delle più critiche sulla quale avesse mai posato gli occhi, e lui, così timido e insicuro com’era, tormentato dai suoi demoni interiori, ne risentiva ancora di più. Tuttavia non aveva mai mollato, era andato avanti, aveva sopportato tutto a bocca chiusa, senza mai sfogarsi, senza mai parlarne, solo con se stesso e i suoi pensieri. Era forte, Zayn.
 
Doveva solo capire come impiegare la propria forza, la propria fermezza. Così come aveva avuto per anni il potere di lasciarsi distruggere lentamente, ora doveva rigirare la faccenda e prendersi il diritto di ribellarsi, ricostruirsi. Era testardo, tenace in un certo senso; doveva solo imparare a far lavorare quelle qualità in modo positivo, e non facendosi del male.
 
Elizabeth sapeva bene che sarebbe stato un percorso difficile e non privo della possibilità di cadere a terra, così come era più o meno consapevole di esserci dentro anche lei, senza ormai la possibilità di tornare indietro. Si era spinta troppo oltre per fare tutta la strada al contrario.
 
Più di ogni altra cosa, sentiva dentro il desiderio di aiutare l’amico. Dopo tutto quello che aveva passato, meritava senza dubbio qualcuno al proprio fianco che gli desse una mano, ed Elizabeth era più che vogliosa di prendersi quell’impegno.
 
Neppure lei sapeva cosa la spingesse a farlo. Forse si era riconosciuta fin troppo nelle parole del moro, per poter rimanere indifferente… E forse c’era anche qualcosa di più, qualcosa di mistico. Lei non credeva a destino e cavolate simili, ma dalla prima volta che l’aveva visto si era resa conto di esserci dentro. E poi, lui era stato il suo primo vero amico; l’unico con il quale non avesse mai portato una maschera, nonostante non sapesse tutta la verità.
 
In ogni caso, Elizabeth sapeva che non sarebbe mai riuscita a lasciarlo solo. Lo avrebbe accompagnato, con pazienza e decisione, nella sua risalita dall’abisso in cui era caduto, e non si sarebbe preoccupata del tempo, degli imprevisti, del dolore: avrebbero rivisto la luce, insieme. E chissà che forse, finalmente, anche lei sarebbe riuscita a liberarsi del proprio passato.
 

***

 
Il giorno dopo era finalmente sabato. La scuola, nonostante si fosse solo agli inizi, era più impegnativa che mai, dato l’imminente esame a fine anno; usandolo come scusa, i professori si sentivano liberi di torturarli con carichi di compiti insostenibili. Per questo, quando Elizabeth si svegliò, e si rese conto di poter restare a letto ancora qualche tempo prima di alzarsi, non riuscì a trattenere un sorrisetto.
 
Si alzò verso le otto e mezza, stiracchiandosi come un gattino e dirigendosi con lentezza fino alla doccia, dove si lasciò svegliare definitivamente da un perfido scroscio di acqua gelida. Ridendo, ne regolò la temperatura, raggiungendo il giusto calore, e si lavò canticchiando, per poi vestirsi e scendere a fare colazione.
 
La prima cosa che fece, come ogni sabato mattina, fu svolgere in fretta tutti i compiti assegnati per il lunedì. Aveva preso quell’abitudine da piccola e intendeva mantenerla, perché nonostante il fastidio di dover iniziare il weekend studiando, il senso di totale libertà che ne seguiva ripagava ogni cosa.
 
Una volta finito, erano ormai le dieci. Prendendo una fetta di crostata dalla dispensa e camminando a piedi nudi per casa, iniziò a pensare a cosa fare. Era, come al solito, sola; sua madre lavorava continuamente, ogni giorno, e arrivava a casa solo la sera, per preparare qualcosa per cena e scappare nella propria camera a leggere qualche “libro educativo”. Elizabeth però non ci faceva troppo caso; sapeva che lei era fatta così, e si rendeva conto anche di non poter pretendere nessun cambiamento, dopo ciò che era successo.
 
Solitamente, la prima cosa che faceva di sabato mattina era uscire fuori a correre. Era portata per quello sport, e il suo impegno fruttava davvero buoni risultati, così che non era poi tanto raro che avesse un nuovo record da battere. Quella mattina, tuttavia, si fermò un attimo a pensarci.
 
I ricordi del pomeriggio precedente erano ancora freschi nella sua mente, le impedivano di concentrarsi per tropp tempo su qualcosa che non fosse Zayn. Chiunque altro si sarebbe sentito infastidito da questo pensiero assillante, ma alla ragazza, stranamente, piaceva. Erano lontani i giorni in cui si era fatta prendere dalla rabbia per l’impossibilità di togliersi il moro dalla testa.
 
Avrebbe tanto voluto avere un modo per contattarlo, per sapere se il giorno prima era andato tutto bene… Magari avesse avuto il suo numero di telefono! Si sentì una stupida per non averlo chiesto prima, pensando che probabilmente neppure quello di casa sua sarebbe figurato sull’elenco, dato che si era trasferito solo da un paio di mesi. Battendosi una mano sulla fronte, però, dovette ricredersi. Il postino aveva portato a casa loro l’elenco aggiornato giusto la settimana prima!
 
Corse, in fretta, fino a raggiungere il salotto, dove faceva bella mostra un tavolinetto in legno pregiato, su cui stavano appoggiati un paio di suppellettili fin troppo preziosi, il telefono grigio argento e, ovviamente, anche ciò che stava cercando. Lo prese in mano e ne sfogliò le pagine, cercando di indovinare la corretta compitazione del cognome del compagno, difficilmente comprensibile in inglese. Alla fine, fortunatamente, riuscì a trovare una versione che pareva convincente.
 
“Yaser, Malik.” C’era scritto. Al pensiero che quello potesse essere il padre di Zayn, Elizabeth sentì la rabbia salirle dentro. Per quanto non l’avesse mai conosciuto, le veniva fin troppo facile odiarlo, dato tutto ciò che aveva fatto.
 
La ragazza si annotò il numero, pregando con tutta se stessa che fosse giusto, per evitare chiamate a vuoto e brutte figure, e infine lo digitò sui tasti lucidi dell’apparecchio sul tavolino, incrociando le dita dietro alla schiena.
 
-Pronto?- Esclamò la voce dall’altra parte della cornetta, in un misto di stupore e sonno. La ragazza tirò un sospiro di sollievo, riconoscendo la voce dell’amico.
 
-Zayn? Sono Elizabeth.- Tentò, indecisa su cosa dire, aspettando la conferma dell’altro. Si morse il labbro, mentre il silenzio dopo le sue parole le faceva temere di aver sbagliato qualcosa. Poi, finalmente, dopo qualche secondo di troppo, il moro riuscì a rispondere.
 
-Ehi, ehm, ciao. Sì, sono io.- Disse, nervoso. La ragazza si chiese distrattamente se il suo tono incredulo derivasse dal fatto che, probabilmente, nessuno lo chiamava mai; pensò anche che, in effetti, a lui avrebbe potuto sembrare assurdo che lei avesse il suo numero. Per questo, nonostante il moro non avesse chiesto nulla, si sentì in dovere di spiegare come l’aveva ottenuto.
 
-Sai, ti ho cercato sull’elenco… Volevo, beh, non so… Volevo sapere come è andata ieri, sai, dopo…- Balbettò, mangiandosi le parole. Si morse il labbro, respirando a fondo. Si sentiva ridicola; in fondo era stata lei a chiamarlo, avrebbe dovuto almeno prepararsi qualcosa da dire. Di solito era Zayn a faticare a parlare, e in quel momento i ruoli si erano buffamente rovesciati. Infatti, quando il moro rispose, nelle sue parole non c’era quasi traccia di imbarazzo.
 
-Capisco, grazie. Io… Credo che sia andata bene, diciamo. Non è successo nulla.-Spiegò, facendole intendere, in poche parole, di averla passata liscia. Elizabeth annuì alla cornetta, dandosi della stupida non appena se ne accorse, e si affrettò a chiedere la cosa che più di tutte le premeva in quel momento.
 
-Tu… Insomma, sei solo in casa?- Domandò, tesa. Aveva cercato di essere il più delicata possibile, così che quella domanda non suonasse strana, nonostante entrambi i ragazzi sentissero presenti tra loro le parole non pronunciate: “Tuo padre è lì?”.
 
-Si. È al lavoro, torna stasera.-Mormorò Zayn, abbassando inconsciamente la voce, evitando per quanto possibile di pronunciare il suo nome. Si sentiva costantemente spiato, come se Yaser avesse potuto comparire all’improvviso da dietro alla porta. Elizabeth capì, e sorrise amaramente. Poi, trattenendo il fiato per la proposta, forse esagerata, che stava per fare, parlò di nuovo.
 
-Pensi… Ti piacerebbe, tornare qui? A casa mia?- Tentò, insicura. Per qualche secondo ricevette solo un silenzio imbarazzato come risposta, tale da farle venir voglia di scomparire, ingoiata dal pavimento; poi, però, Zayn riuscì finalmente a tirare fuori qualche parola.
 
-Io… Non so, sai… M-mi piacerebbe, certo, ma come..?- Balbettò, non volendo mettere a nudo tutta la sua paura di venire scoperto, come era accaduto per il ritardo pochi giorni prima. Come avrebbe potuto dire alla ragazza che non era mai uscito di casa al pomeriggio, se non per andare in biblioteca da lei, o al negozio in fondo alla via? Sarebbe passato per stupido, o peggio. Elizabeth capì ogni cosa, attenta come al solito ad ogni minima sfumatura nella voce del moro, ma decise in ogni caso di provare a convincerlo.
 
-Non è complicato, Zayn. Dove abiti?- Chiese, prendendo un foglietto sotto mano per segnare la risposta. Il moro, ovviamente, preferì non darle l’indirizzo completo, le spiegò semplicemente in quale punto della città si trovasse. Elizabeth, a quel punto, proseguì spedita, come se avesse già fatto cose di quel genere centinaia di volte.
 
-Allora, se non sbaglio lì vicino dovrebbe esserci una fermata delle corriere, no? Basta che ti fai trovare lì tra... Mh… Una ventina di minuti, diciamo. Io vengo lì e poi ti accompagno fino a casa mia, visto che conosco meglio la zona, okay?- Spiegò brevemente, gesticolando anche davanti alla cornetta.
 
Il moro sospirò, indeciso, e infine mormorò, piano: -E se mio padre ci scopre?- La ragazza si morse il labbro, incrociando ancora le dita.
 
-Non ci scoprirà, fidati.- Promise, senza sapere neppure lei da dove provenisse quella dubbia certezza. Semplicemente se lo sentiva, che sarebbe andato tutto bene; e dopotutto, dopo tutto quello che la vita aveva riversato loro addosso, un briciolo di fortuna avrebbe potuto donarlo, no?
 

***

 
Mentre percorreva il vialetto d’ingresso di casa sua, il moro che la seguiva docilmente, si stupì per la semplicità con cui erano andate le cose. Non c’erano stati impicci, e neppure quaranta minuti dopo si trovavano a casa, di nuovo insieme. Si sarebbe aspettata una maggiore resistenza da parte di Zayn; invece si era fatto convincere davvero in fretta. Forse, il giorno prima, quando aveva parlato di voler ricominciare da capo, aveva detto sul serio, cosa che oltretutto la ragazza sperava con il cuore.
 
Era ormai ora di pranzo, ed Elizabeth non ci aveva neppure pensato. Ovviamente sapeva cucinare, dato che doveva farlo per se tutti i weekend da tempo immemore, ma non sapeva se Zayn avrebbe gradito l’idea.
 
-Hai fame?- Chiese allora, portando l’amico fino in cucina. Lui si strinse nelle spalle, timidamente, senza rispondere.
 
-Di solito il sabato cucino io, tu che vuoi mangiare?- Tentò allora, cercando di farlo parlare. Lui si morse il labbro, nervosamente, provando a pensare a qualcosa. Sentiva addosso l’ansia senza neppure capirne il motivo; aveva paura di dire qualcosa di sbagliato, di risultare maleducato, di approfittarsi della gentilezza della compagna.
 
-Io… Non so, decidi tu.- Soffiò infine, guardandola supplicante. Lei sbuffò, una volta capito cosa gli passava nella mente.
 
-Dai, Zayn, non ti devi vergognare.- Lo incitò, cercando di scuoterlo dall’imbarazzo. Poi, vedendo che non si muoveva, si arrese e riprese la parola, chiedendo: - Che ne dici della pizza? Ti piace, quella?- Era andata sul sicuro, perché insomma, a chi non piace la pizza? E infatti, a quelle parole, sulle labbra del moro si formò un sorrisetto nervoso, mentre annuiva con entusiasmo. Era tanto che non ne mangiava una vera, all’infuori di quelle precotte del supermarket.
 
-Bene!- Esclamò la ragazza con entusiasmo, cercando di coinvolgerlo.
 
-Dimmi, sai cucinare?- Chiese poi. Le era venuta in mente un’idea stupenda! Il moro annuì di nuovo, pensando a quando ancora preparava da mangiare a casa propria. Gli era dispiaciuto smettere, ma era stato necessario, e in fondo era stata tutta fatica sprecata.
 
-Che ne dici di preparare un po’ di pizza con me, allora?- Mormorò Elizabeth a quel punto, suadente. Il viso del moro si illuminò, a quelle parole, mentre lui già sognava di infilare le mani nell’impasto morbido, come non faceva ormai da anni.
 
-Mi piacerebbe.- Accettò allora, sorridendo timidamente. La ragazza rispose con un sorriso più ampio, iniziando poi a tirare fuori gli ingredienti dalla dispensa. Zayn la stupì, seguendola di sua spontanea volontà e andando a prendere passata di pomodoro e mozzarella in frigo, per poi appoggiarli sul tavolo. Sembrava sentirsi a suo agio nell’ambiente della cucina, in mezzo a tutto quel cibo.
 
La preparazione dell’impasto fu la cosa più complicata. Erano soliti usare dosaggi diversi, e ben presto si ritrovarono presi in un amichevole litigio su quanti grammi di sale andassero messi e su quanta farina fosse giusto utilizzare. Alla fine decisero di preparare due impasti diversi, in due ciotole separate, e di vedere quale sarebbe riuscito meglio, prendendosi dolcemente in giro a vicenda.
 
Elizabeth era felice, e incredula. Zayn sembrava tutta un’altra persona. Parlava più spesso, era più partecipe, più positivo; la sua presenza, pur sempre tranquilla, si stava allontanando sempre più da quella di un fantasma, per raggiungere quella di una persona in carne ed ossa.
 
-Io dico che ci stai mettendo troppo lievito, sembrerà un palloncino.- Borbottò, mentre la ragazza lo stava versando, facendole scappare un sorriso. Lei gli fece una linguaccia, stringendosi nelle spalle.
 
-Mi scusi tanto, Chef!- Sbottò, ironica, fingendosi offesa mentre dentro stava ridendo. –E se lo vuoi sapere, l’acqua sta gocciolando fuori.- Fece notare, indicando con un sorrisetto il bicchiere che traballava sopra una ciotola rovesciata. Perché poi si trovasse lì, era tutto da scoprire. Il moro allungò in fretta una mano, spostandolo più in là, prima di lanciare un’occhiataccia alla compagna.
 
-Parla quella che ha rovesciato un’intera bottiglia d’olio, eh?- Rincarò, sorridendo appena al ricordo della faccia sconvolta dell’amica quando aveva urtato il contenitore, e quello era caduto di lato, inondando il tavolo e il pavimento. Elizabeth arrossì, annaspando.
 
-L’ho fatto apposta io, cosa credi? Volevo ungere un po’ il legno che mi sembrava a secco.- Inventò Elizabeth sul momento, soffocando a malapena le risate per la frase senza senso che le era venuta fuori. Vide le labbra del moro arricciarsi verso l’alto, divertite, e sentì una stretta al cuore. Era bello.
 
-Mh, dovrei crederci?- La provocò allora lui, scuotendo la testa.
 
-Dovresti!- Urlò allora lei, sorridendo e sbattendo una mano sul tavolo, per dare enfasi alle proprie parole. Una cosa che non aveva calcolato, però, era la vicinanza del piatto contenente la salsa di pomodoro, che fece un buffo rimbalzo spandendo il proprio contenuto tutto intorno, compreso sulla maglietta della ragazza, che lo guardava sconvolta. Quando alzò gli occhi, incontrò quelli di Zayn e rise, forte.
 
-Sei impedita allora!- Esclamò lui, guardandola di striscio mentre fingeva di portare via le proprie cose lontano da lei, prima che le distruggesse.
 
-Questo non lo dovevi dire, Malik!- Sbottò allora lei, senza riuscire a smettere di ridere, lanciandogli contro un pugno di farina, che si disperse nell’aria, imbiancandogli i capelli neri. Il moro sgranò gli occhi, valutando la situazione, ed Elizabeth pensò per un attimo di essersi spinta troppo oltre; finchè, con uno scatto, anche lui prese un po’ di farina dalla propria ciotola e gliela getto dritta in viso, aprendo la guerra.
 
Iniziarono a correre intorno al tavolo della cucina, gettandosi addosso tutto quello che trovavano per la loro strada. Elizabeth fu colpita da un pezzo di wurstel, che le rimbalzò sul naso prima di cadere sul pavimento, e Zayn si ritrovò con pezzi di mozzarella dentro la maglietta.
 
Presero ad urlare, chiamandosi e lanciandosi frasi di battaglia adatte a quella strana guerra, inciampando ovunque perché ormai, sommersi tra in una nube di farina, non riuscivano neanche più a vedersi, finchè all’improvviso, “splash!”, un pugno di salsa di pomodoro colpì il vetro della finestra, lasciando dietro di se una macchia scura e umida.
 
I due si fermarono, guardandosi negli occhi per qualche secondo, per poi iniziare a ridere. Elizabeth inizialmente non ci fece caso, ma dopo un po’ si rese conto di non aver mai visto il moro sorridere a quel modo, il viso illuminato di vera gioia. Si asciugò gli occhi dalle piccole lacrime d’ilarità che aveva versato, per osservarlo. I suoi occhi erano socchiusi, contornati da piccole rughe; le sue labbra si erano invece spalancate, tuffate verso l’alto, quasi nel tentativo di perforare le guance sottili. Il suono della sua risata, però, fu qualcosa che Elizabeth era certa non avrebbe mai dimenticato.
 
Adorabile, tutto ciò che riusciva a pensare era questo. Adorabile, ecco com’era la sua risata. Così rara, così preziosa, riscaldava l’ambiente come un piccolo fuoco in una casetta di montagna. E forse così era Zayn , proprio come una di quelle casette: solitario e freddo fuori, ma con un gran calore dentro, segregato alla perfezione, perché non scappasse.
 
E la ragazza rise di nuovo, rise di gioia, d’affetto, d’incredulità, per la sorpresa di aver finalmente trovato un’entrata, di essersi scavata un varco in quelle pietre così strettamente collocate, e così robuste; rise perché Zayn era forte, rise perché era bellissimo, rise perché sì, se lo sentiva, ce l’avrebbero fatta. Avrebbero ricominciato a vivere, entrambi. Forse, chissà, insieme.














 
 
**SPAZIO ME**
Non ce l’ho fatta ad essere puntuale questa volta, scusatemi davvero. Solo che, dopo il capitolo dell’ultima volta, non avevo idea di come impostare questo; non sapevo se mettere subito un’altra scena con loro due o fare qualcosa che riguardasse solo Elizabeth, visto che era un suo POV. Come vedete, però, ho scelto la prima.
Non so che dire, non mi convince molto a dire il vero… Sarà che è quasi completamente allegro, e vi assicuro, per me scrivere un capitolo senza tragedie è quasi impossibile, così ho l’impressione che sia venuto un mezzo aborto. Però, insomma, ci si accontenta, me lo dico sempre, no?
In ogni caso, spero che a qualcuno di voi, lettori invisibili (?), possa piacere, perché è stato davvero un casino tirarlo fuori! Avevo quasi voglia di farlo tornare deprimente ad un certo punto, però poi quella scena mi sembrava troppo dolciosa per “ucciderla” con altri disastri, e così è venuta fuori così, una piccola nota allegra in tutto questo. Mh, forse ci stava HAHAHA.
No, dai, sto divagando.
Come al solito, sono qui anche per ringraziarvi. Voglio urlare un GRAZIE! enorme alle 52 persone che hanno recensito fino ad ora, alle 19 seguite (xmhùtvbesiyv), alle 5 ricordate e alle, oddioddioddioo, 19 preferite! Voi mi volete morta, c’mon, ditelo. E avreste pure ragione, così non vi romperei più con questa robaccia.
Vabbè, io mi dileguo, scusate se il capitolo fa un po’ schifo..
Love u

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Capitolo 22
*** Il fuoco della rivoluzione. ***


CAPITOLO 21



 
ZAYN.


Quando, domenica mattina, Zayn infilò in tasca le chiavi di casa e si chiuse la porta alle spalle, avviandosi per le vie fredde del suo quartiere, fu assalito da un moto di incredulità. Stava sgattaiolando fuori di casa, contro tutte le regole, per la seconda volta oltretutto. Non ci avrebbe mai creduto, se glielo avessero detto anche solo qualche settimana prima, eppure era così, e il moro sapeva bene a chi dare la colpa: a quegli stessi occhi verdi che, in quel momento, lo stavano osservando dall’altra parte della strada, alla fermata delle corriere.
 
Quando Elizabeth gli aveva proposto, il giorno prima, di tornare nuovamente a casa sua, inizialmente era stato riluttante. Da una parte, avrebbe davvero voluto andare, perché lei era praticamente l’unica persona al mondo capace di farlo stare bene, e lui, dopo tutto il tempo passato a soffrire, ne aveva un incontrollabile bisogno. Nonostante l’istinto gli intimasse di accettare, però, non poteva fare a meno di tentennare. E se avesse disturbato? Insomma, Elizabeth aveva una vita privata nella quale lui non c’entrava nulla, e non voleva impedirle di vivere nel proprio mondo. Odiava essere un peso, non sopportava il pensiero di poter essere, anche per lei, un problema. E inoltre, non era proprio da lui avere la fortuna di farla franca due volte di fila, con suo padre. Eppure, la ragazza era stata così persuasiva e convincente che alla fine non aveva avuto scelta, aveva accettato, con un mezzo sorriso imbarazzato sulle labbra.
 
E per quello ora si trovavano lì, in attesa di un bus che li avrebbe scarrozzati fino all’elegante casa di Elizabeth, dove avrebbero ancora una volta passato il pomeriggio. Tutto quello, per Zayn, era più che surreale. Faceva ancora fatica ad immaginare se stesso in quell’ambiente raffinato, dove tutti avevano abbastanza soldi per soddisfare ogni singolo desiderio e potevano mangiare al ristorante anche ogni giorno, volendo.
 
Suo padre aveva sempre detto di odiarla, la gente di quel rango, e Zayn, da bambino, non aveva potuto fare a meno di imitarlo almeno un po’, complice l’invidia bruciante per tutte le cose che lui non poteva avere e fare. Ora però le cose erano cambiate, e sebbene sapesse che sarebbe stato normale, in ogni caso, provare antipatia verso quelle persone che lo guardavano sempre con superiorità, giudicando in un’occhiata i suoi vestiti smessi e il suo fisico fin troppo magro, non riusciva a non pensare che alla fine avessero ragione. In fondo, era lui quello sbagliato, non loro. Si era rassegnato a non meritarle, tutte le ricchezze che non aveva mai potuto avere, e faceva anche a meno di pensarci, di desiderarle, nel tentativo di starci meno male.
 
-A che pensi?- La domanda di Elizabeth lo fece tornare al presente, bruscamente. Spostò gli occhi sul viso della ragazza, fin troppo vicino al suo, per via della folla dentro alla corriera, e fece spallucce, sentendo appena un leggero indolenzimento.
 
-I nostri m-mondi. Sono diversi.- Spiegò in sintesi, scrollando nuovamente le spalle e abbassando lo sguardo, timido nel rivelare i propri ragionamenti. Forse non avrebbe più dovuto sentirsi a disagio, dopo il giorno prima, eppure aveva sempre dentro qualcosa che lo bloccava. Se avesse potuto scegliere, gli sarebbe tanto piaciuto essere ventiquattro ore su ventiquattro il ragazzo allegro che era emerso il pomeriggio precedente, durante la battaglia di cibo; eppure non ce la faceva, e non sapeva neppure spiegarsi perché. Qualcosa dentro lo frenava, e lui non aveva idea di come cambiare la situazione.
 
-Forse lo sono, ma noi non siamo semplici pedine dei “nostri mondi”, Zayn… Io sono un’eccezione nel mio, ad esempio, e tu potresti esserlo nel tuo, se volessi.- Ribattè Elizabeth, mentre lui tornava a perdersi. Quell’affermazione, però, lo scosse, impedendo alla sua testa di cambiare argomento.
 
-Che intendi?- Mormorò, troppo curioso per trattenersi, ma anche troppo impaurito di sembrare stupido per andare oltre a quella breve domanda. Il fatto era che non capiva, non era mai stato bravo a rapportarsi con i concetti astratti, a scuola soprattutto. Elizabeth, suo malgrado, riuscì a comprenderlo, e cercò tra i tanti un esempio pratico che la soddisfacesse.
 
-Tutti quelli del mio “mondo”… Dovrebbero essere arrampicatori sociali con la puzza sotto il naso, no? Sempre concentrati sul proprio conto bancario in lievitazione e sull’apparenza. Giusto?- Rise la ragazza, facendo sorridere appena anche il moro dopo quella descrizione fin troppo azzeccata.
 
-Tu non s-sei così.- Terminò a quel punto Zayn, rosso come un pomodoro, ma finalmente in grado di capire cosa la compagna intendeva. A differenza della maggior parte dei ragazzi che conosceva, lei non era nata dallo stampino pronto e perfetto dei suoi genitori; lei era diversa, un’eccezione in mezzo alla gente del suo rango, in mezzo a tutti quelli a scuola.
 
-Lo spero!- Sospirò Elizabeth a quel punto, una punta di malinconia negli occhi verdi, della quale il moro non riuscì a capire la ragione. –Ho cercato, di non diventare così, sai… Perché io disprezzo quel tipo di persone. Però è stato difficile, se fossi stata sola non credo ci sarei riuscita… Senza di lei, probabilmente sarei diventata la figlia perfetta che mia madre ha sempre voluto, e forse a quest’ora non saremmo qui.- Continuò poi, lo sguardo perso nel vuoto. Zayn drizzò le orecchie a quel discorso bizzarro, sentendosi perso in mezzo a quelle parole che non riusciva bene a collegare.
 
-Lei… Chi?- Ebbe il coraggio di chiedere, arrossendo all’istante. La ragazza sembrò svegliarsi di soprassalto, l’espressione spaventata, e si morse forte il labbro prima di rispondere, come se si fosse lasciata scappare qualcosa di terribilmente grave, che tuttavia il moro non era riuscito a cogliere.
 
-Nessuno, Zayn. Dicevo… dicevo così per dire, davvero.- Balbettò, chiaramente in ansia. Il moro quasi sorrise, trovandola davvero adorabile quando si agitava a quella maniera; tuttavia gli bastarono pochi secondi per tornare in sé e darsi uno schiaffo mentale, confuso anche dai propri pensieri. Adorabile? Cosa gli passava per la testa?
 
Una cosa di cui era sicuro, in ogni caso, era il fatto che stesse mentendo: lui, che l’aveva fatto per fin troppo tempo, era ormai diventato un mago a riconoscere bugie anche molto meno evidenti di quella. In ogni caso, conosceva bene anche la sensazione di aver un segreto irrivelabile; per cui, per evitare di mettere la compagna in imbarazzo, evitò ulteriori domande, sviando delicatamente il discorso e ricevendo, in cambio, uno sguardo grato.
 
In ogni caso, non potè certo cancellare quella frase, sfuggita dalle labbra morbide della compagna. Semplicemente la chiuse a forza in un angolino della propria mente, assieme a tutte le altre domande senza risposta e ai misteri, che troppo spesso rimanevano irrisolti. Non sapeva, però, che questa volta non sarebbe rimasta lì ad ammuffire. Anche troppo presto, quelle parole sarebbero tornate a saltare fuori.

 
***
 
Erano ormai arrivate le due del pomeriggio, talmente in fretta da sbalordire i due ragazzi. Per quanto Elizabeth ci sperasse, non c’erano stati altri episodi come la battaglia di cibo; Zayn era sicuramente più a suo agio, e stava lentamente iniziando a partecipare alle conversazioni e alle attività, ma sembrava sempre rimanere un po’ sulle sue, tra l’imbarazzo e il timore di trovarsi in quelle situazioni, a lui sempre nuove.
 
Così, durante il pranzo soprattutto, i due erano stati circondati da un alone di silenzio, che faceva sembrare tutto ancora più irreale. A Zayn, il silenzio piaceva; lo trovava piacevole, molto migliore di qualsiasi suono o rumore. La musica era un’eccezione, ma anche quella in certi momenti non era totalmente gradita alle sue orecchie. C’erano infatti alcune volte, in cui l’unico suo desiderio sarebbe stato sedersi da qualche parte e bearsi del nulla che lo circondava e lo riempiva, come un palloncino, leggero d’aria. In quei momenti, sebbene dovesse sopportare una malinconia quasi struggente che, per motivi a lui sconosciuti, gli stringeva il cuore, riusciva a togliersi di dosso le preoccupazioni e l’ansia, e poteva finalmente tirare il fiato dalla sua vita soffocante.
 
Solitamente, la gente non riusciva a capirlo. Le persone avevano la brutta abitudine di voler riempire tutto, di voler sovrastare i sentimenti con il rumore, puro rumore. Non c’era musica, nel rumore; non quanta ce ne’era nel vento e nel silenzio. Eppure nessuno sembrava pensarla come lui, su quel punto.
 
Verso i dieci anni, Zayn aveva capito che la gente trovava il silenzio pericoloso. Senza distrazioni, era troppo facile per i ricordi invadergli la mente, per le sensazioni più disparate attorcigliargli lo stomaco; senza il rumore, le voci nella sua testa divenivano improvvisamente più rumorose e acute. Quindi, in un certo senso, il moro poteva dare ragione alle altre persone: il silenzio era senza dubbio un pericolo; lo era, però, soltanto per chi voleva tenere tutto quello lontano da sè. E non era il suo caso, a dirla tutta. Lui amava tutto quello, amava il senso di pesantezza interiore, e sapeva che forse in un certo senso lo si poteva considerare masochismo, ma amava anche la potenza delle voci nella sua mente. Nessuno l’aveva mai capito, prima, e sicuramente non pensava che Elizabeth sarebbe stata l’eccezione.
 
Tuttavia, rimase piacevolmente sorpreso nell’apprendere che, forse intuendo qualcosa, lei rispettasse il suo tacere, non lo infangasse di chiacchiere insensate. Si ritrovarono a guardarsi di sottecchi, un mezzo sorriso sulle labbra, senza dire niente, eppure sentendo, capendo molto più che grazie alle parole.
 
E anche Elizabeth dovette ammettere che era bello, stare lì senza parlare, senza aver bisogno di pensare alle frasi giuste e alle parole corrette, senza la paura di dire cavolate e, soprattutto, senza fastidiosa confusione in testa. Sorrise, accorgendosene, e dentro di se ringraziò il moro per quel regalo, che forse inconsciamente le aveva fatto.
 
Restarono lì per parecchi minuti, quasi studiandosi, finchè Elizabeth non si alzò, piano, e fece il giro del tavolo per andare da Zayn, sempre senza pronunciare verbo. Solo quando fu abbastanza vicina da sentire il ritmo quieto del suo respiro, sussurrò una parola, leggera: -Vieni.- Non era un ordine, ma neppure una richiesta; semplicemente si girò con lentezza, sicura di essere seguita, e Zayn non la deluse, alzandosi, come al solito senza neppure far stridere la sedia contro il pavimento.
 
Attraversarono parecchie stanze della casa, finchè non si ritrovarono davanti alla porta che dava sul retro, evidentemente poco frequentato data la scarsa cura. Una volta fuori, camminarono piano per qualche tempo, ancora senza parlare. Il moro sentiva dentro di sé la curiosità crescere, ma fu paziente e continuò a seguire la schiena della ragazza, che avanzava tra l’erba con sicurezza.
 
Elizabeth, dal canto suo, davvero non sapeva cosa stava facendo. D’improvviso, aveva deciso di portare Zayn al proprio campo, quello dove si allenava a correre; non che avesse in mente chissà cosa, ma in un certo senso voleva anche lei regalare qualcosa a lui, un pizzico della propria vita, e aveva subito pensato a quel posto speciale, che più della sua cameretta aveva raccolto lacrime di gioia e di dolore, e dove era cresciuta, correndo avanti e indietro tra due paletti malamente piantati. Per quanto sembrasse un normalissimo campo, per lei lì c’era molto di più; ed era quasi certa che il moro l’avrebbe saputo cogliere.
 
Quando arrivarono, entrambi trattennero il fiato per qualche secondo. Lì sì, il silenzio era irreale, spezzato solo dal frusciare appena udibile del vento tra l’erba alta. C’erano tratti in cui le sterpaglie erano cresciute a dismisura, e altri, compreso quello in cui Elizabeth si allenava, che invece potevano vantare un taglio d’erba quasi regolare, da giardino. Lontano si stendeva il profilo elegante di alcune villette gemelle, che la ragazza aveva osservato tante volte, durante il tempo passato lì; e perso, nella zona in cui le ebracce raggiungevano livelli di altezza davvero impensabili, si ergeva un muretto in pietre, che sembrava essere piazzato lì casualmente, dato che non aveva nulla da cingere né davanti, né dietro. Si dilungava solo per quattro o cinque metri e poi si bloccava, da ambo i lati; non era altro che il resto sgretolato di quello che una volta doveva essere stato un grande muro portante.
 
Quasi guidati da fili invisibili, si diressero entrambi verso di esso, partendo contemporaneamente e guardandosi sorpresi, con un sorriso appena accennato sulle labbra. In pochi minuti, dopo essersi a malapena mossi in mezzo all’erba, che arrivava loro quasi al petto, riuscirono a trovarsi ai piedi del muretto, per poi arrampicarvisi sopra, senza fatica. Lì, ogni cosa sembrava meravigliosa.
 
-È bello qui.- Osservò Zayn piano, parlando per primo senza neppure accorgersene. Era tanto che non apriva una conversazione di sua spontanea volontà; si era abituato presto a parlare solo se interpellato, per risparmiarsi fastidi inutili. Eppure, in quel momento si sentì bene, per niente in imbarazzo. Anche la sgradevole abitudine di balbettare sembrava essersene andata per qualche attimo.
 
-Molto.- Concordò Elizabeth, con un sospiro appena accennato. –Io ci vengo a correre.- Spiegò poi, indicando con il dito il tratto che percorreva ogni giorno, ormai scavato ed impresso con forza nel terreno.
 
-Corri?- Mormorò il moro a quel punto, gli occhi accesi di puro interesse. Gli capitava raramente di essere veramente interessato a qualcuno, ed era ancora strano per lui ritrovarsi a fare domande, anziché riceverne. La ragazza annuì, pensierosa, per poi scalciare un sassolino, chi rimbalzò alcuni metri più avanti.
 
-Mi alleno sui cinquanta e sui cento metri… Però me la cavo abbastanza anche sulle lunghe distanze.- Spiegò Elizabeth a quel punto, sorridendo appena.
 
-Sei brava?- Domandò ancora Zayn, innocentemente. Se fosse stato chiunque altro, la ragazza si sarebbe sentita in imbarazzo, combattuta tra la voglia di non vantarsi e quella di dire le cose come stavano, e sarebbe caduta nella falsa modestia; con il moro, però, sapeva di poter essere se stessa, così: -Abbastanza, contando che mi alleno da sola.- Ammise, senza imbarazzo.
 
-E tu? Fai qualche sport?- Chiese poi, curiosa. Il ragazzo che aveva imparato a conoscere non sembrava davvero il tipo di buttarsi in una partita di calcio o di basket, in mezzo alla confusione, all’ansia da prestazione, e tutto il resto. Era già abbastanza in ansia di per sé.
 
-No.- Borbottò infatti l’interpellato, sospirando. –Ma mi piacerebbe.- Aggiunse poi, tristemente, facendo rizzare le orecchie alla compagna, che si affrettò a ribattere: -Tipo?- Zayn fece spallucce, lo sguardo lontano.
 
-Non so. Qualcosa. Sarebbe bello.- Mormorò, gli occhi persi a fissare il vuoto. Si stese sulla schiena, lasciando che le gambe penzolassero da un lato del muretto, e godette il sole appena tiepido sulla pelle, inspirando a fondo.
 
-E allora perché…?- Iniziò Elizabeth, distratta dal passaggio di un passerotto, senza neanche pensare alle proprie parole. Zayn si bloccò, sospirando, poi rispose, a fatica, mandando giù l’orgoglio: -A casa… Non abbiamo tanti soldi, sai.- Era riduttivo dire così; sarebbe stato più corretto ammettere di non aver neppure il denaro necessario per comprare un pallone, e che suo padre disapprovava qualsiasi attività che potesse arrecare piacere al figlio, pensando che l’avrebbe distratto dallo studio.
 
-Uhm, già. Scusa, non… Non ci avevo pensato.- Balbettò Elizabeth, in imbarazzo, dispiaciuta per quell’uscita non proprio delicata. Zayn però, con sua sorpresa, riuscì a stiracchiare le labbra in un sorriso tranquillo.
 
-Non preoccuparti. Capisco.- Soffiò, comprensivo. Non voleva che la compagna lo trattasse come uno diverso, che dovesse misurare le parole quando era con lui; tutto quello gli sembrava solo frutto di una pietà che non voleva ricevere, non da lei soprattutto. Tutto quello che gli serviva era che lei fosse sincera; anzi, forse sarebbe bastato che ci fosse stata, e basta. Preso da quei pensieri, tornò a buttare la testa all’indietro, infilando le mani dietro la nuca e chiudendo le palpebre, piano. Restarono immersi nel silenzio per qualche secondo, finchè Elizabeth non parlò, la voce fievole.
 
-Posso chiederti una cosa, Zayn?- Tentò, chiaramente indecisa. Doveva essere una domanda delicata, e il moro non era poi così sicuro di voler rispondere; eppure doveva farlo, doveva iniziare a fidarsi almeno di lei. Doveva dimostrarle, o forse dimostrare a se stesso, di riuscire a controllarsi, di non aver paura delle parole. Poteva farcela, se si impegnava. Annuì infatti, mordendosi il labbro, e aspettando il colpo che, era certo, sarebbe arrivato.
 
-Perché non ti sei mai ribellato a tuo padre? Perché non hai mai chiesto aiuto?- Mormorò la ragazza, la voce così bassa da essere appena udibile, ma che risultò come un colpo di cannone per la potenza delle parole che portava. Zayn prese un paio di respiri profondi, prima di rispondere, cercando di riordinare le idee; era difficile parlare, per lui, e ancora di più farlo riguardo a quelle cose, eppure tentò, incerto.
 
-Io… N-non lo so. Credo che… Forse sia stato il f-fatto che p-pensavo di meritarmi tutto, e poi… È sempre stato così, dopo un po’ p-penso di aver iniziato a c-considerarlo normale…- Si bloccò, senza fiato per lo sforzo di balbettare il meno possibile. Si passò una mano tra i capelli, cercando il coraggio di buttare fuori i suoi pensieri contorti. Elizabeth capì, e aspettò in silenzio che si sentisse di continuare.
 
-Da piccolo m-mi chiedevo sempre c-cosa avessi fatto, poi… H-ho capito di m-mia madre, lui mi ha d-detto tutto… E ho sempre p-pensato di meritare quello che mi faceva… Per me non era c-così strano… Cioè, ci ho f-fatto l’abitudine, e poi… Non sarei mai riuscito a r-ribellarmi, lui è t-troppo forte, io… N-non sono bravo a difendermi, n-non saprei come…- Buttò fuori le parole a fatica, ansimando pesantemente, e spezzando le frasi nei punti meno opportuni. Gesticolava pesantemente, cercando di scaricare l’ansia che lo schiacciava, ma che rimaneva impertinente a formargli un nodo in gola. Sospirò, dopo un po’, cercando di calmarsi. Elizabeth si era avvicinata a lui, e gli aveva preso la mano, stringendola forte e facendogli capire, silenziosamente, che lei non l’avrebbe lasciato solo, e che poteva confidarsi. Gli lasciò carezze leggere lungo il braccio, avendo già provato l’effetto calmante che avevano sull’amico, e raccolse con affetto tutte le sue parole balbettate, aspettando che riprendesse a respirare normalmente.
 
Il moro, ormai, credeva di non riuscire a pronunciare una sillaba di più; eppure, con sforzo, riuscì a sussurrare un’altra manciata di parole, forse le più importanti di tutto il discorso: -Credevo che c-con il tempo s-sarebbe cambiato tutto…- Gemette, gli occhi strizzati con forza, il cuore a mille nel petto. Elizabeth annuì, piano, e gli strinse la mano ancora più forte, offrendogli qualcosa a cui aggrapparsi. Poi, a bassa voce, come temendo di fargli male, la ragazza parlò.
 
-Le cose non cambiano mai da sole, Zayn… Non potranno mai farlo se tu non dai loro una spinta. Forse credi che la lotta più difficile sia quella con tuo padre, ma in verità la più complicata è quella con te stesso. Non puoi continuare a sentirti in colpa, non puoi continuare ad odiarti, capisci? Non te lo meriti, Zayn, non meriti niente di tutto questo.- Prese un respiro profondo, e cercò con lentezza gli occhi del moro, ora aperti, per piantarvi dentro le proprie iridi verdi.
 
-Le rivoluzioni non avvengono mai per caso, bisogna farle divampare, come il fuoco. Il fuoco delle nostre rivoluzioni personali siamo noi, Zayn. Siamo forti, tu sei forte. Dico sul serio. Ma serve il coraggio per andare ad accendere il primo fiammifero. Nessuno può accenderlo per te, anche se c’è chi può incitarti a farlo; e io ti giuro, sono qui per questo, per aiutarti. Non posso prometterti che sarà facile, perché so già che farà male, io ci sono passata; ma devi farlo, per la libertà, per smetterla di avere paura, per te stesso.- Un altro respiro, spezzato. La voce le tremava.
 
-Tu sei forte, sei forte Zayn, e non meriti la sofferenza. Devi solo fare il primo passo, quello immensamente più difficile. Devi volerlo, soprattutto. Apri gli occhi e sogna, aspira a tutte le belle cose che non ti sono state date, esci dalla tua testa e vattele a prendere, perché sono tue, sono lì per te. Devi solo prendere in mano quel fiammifero e accenderlo, Zayn. Allunga la mano, allungala. So che puoi farcela.- Sorrideva Elizabeth, alla fine di quel discorso troppo adulto per essere davvero uscito dalle sue labbra, gli occhi umidi ancora fissi su quelli incandescenti del ragazzo davanti a lei, che la fissava con la disperazione nello sguardo.
 
-Fallo per te, Zay, fallo per me.- Gemette infine la ragazza, prima di lasciare alle spalle ogni dubbio e stringere il moro in un abbraccio soffocante, lasciando che una piccola, solitaria lacrima le rigasse la guancia. Strinse l’amico con ogni forza, come cercando di non farlo scivolare via; e quasi pianse di gioia quando lo sentì ricambiare, piano, tremando.
 
Restarono lì abbracciati, Elizabeth e Zayn, mentre il mondo correva svelto intorno a loro; ascoltarono il silenzio insieme e si aggrapparono l’uno all’altra, nel tentativo di non cadere, di essere forti, insieme. Si donarono tutto in un unico abbraccio, incastonati come pezzi di un puzzle, caldi come solo l’affetto fa sentire; in quel momento, cinto dalle braccia forti dell’amica, Zayn si sentì per una volta intero, come se lei fosse riuscita a recuperare tutti i pezzi del suo cuore distrutto e li avesse rimessi assieme, con pazienza e amore.
 
Forse, qualcosa per cui lottare l’aveva. Forse, ce l’avrebbe fatta. Per lei.












 
**SPAZIO ME**


SCUSATE.
Dico davvero, scusatemi. Non ho parole per farmi perdonare, stavolta. Non riesco e non riuscirò mai a pubblicare regolarmente, ormai lo accetto. Solo, mi dispiace. Non è colpa mia, davvero. Ci sono periodi in cui non riesco a scrivere. Questo capitolo l’ho tirato fuori dai tasti nonostante il periodo non fosse ancora passato, solo e soltanto perché il senso di colpa mi ha spinto ad aprire il file, altrimenti sarebbe ancora in via di progettazione.
So che fa letteralmente SCHIFO, davvero, ma non riesco a fare di meglio, non ora. Scusate, ancora. Cercherò di migliorarmi nei prossimi.
Perché, sì, ci saranno i prossimi. Non so quando pubblicherò, ma vi giuro, vi giuro su quello che volete che porterò a termine questa Fanfiction, dovessi anche morire nel tentativo; e non esagero.
Intanto, mi prendo cinque minuti per ringraziare con il cuore voi pochi che mi seguite ancora, dopo tutti i casini. Se non ho ancora lasciato perdere è solo per voi, sappiatelo; vi amo.
Ringrazio tantissimo le 56 recensioni totali, le 6 ricordate, le 22 seguite (OMFG) e le 19 preferite (DITELO CHE MI VOLETE MORTA). Grazie mille, per seguirmi anche se solo un completo disastro.
E ora, alla fine di tutto, vi supplico di lasciarmi una recensione. Anche corta, anche per dire che fa schifo (perché già lo so). Ho bisogno di pareri, davvero, non so più come fare con questa storia! PER FAVORE, DITEMI COME LA PENSATE- COSA DOVREI CAMBIARE, COSA VA BENE… VI SUPPLICO!
Ora, vi saluto <3
Love u 

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