Direzione contraria

di AgnesDayle
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In direzione ostinata e contraria ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***



Capitolo 1
*** In direzione ostinata e contraria ***


primo DC

In direzione ostinata e contraria

 

Suo fratello glielo aveva spiegato molti anni prima, uno dei primissimi giorni da matricola sperduta in quel mondo sconosciuto che era l’università. Aveva parlato con un leggero sorriso, ironico, perché in fondo credeva anche lui che quella fosse soltanto una stupida superstizione.

“Non importa quanto tu sia in ritardo per la lezione,” aveva esordito, facendola fermare bruscamente, “Non devi passare per il centro dell’atrio fino a quando non ti sarai laureata.”

Carla aveva aggrottato le sopracciglia e, scettica, aveva gettato un’occhiata di fronte a sé: era vero, l’atrio era praticamente deserto e gli studenti sembravano preferire il colonnato, nonostante questo significasse allungare il loro percorso.

“Se lo farai non riuscirai mai a laurearti,” l’aveva avvertita, continuando a camminare e facendole cenno di seguirlo.

Carla a quel punto l’aveva guardato con sufficienza e la sua sempiterna istintività l’aveva spinta a tirare dritto, in direzione del grande cancello da cui si accedeva all’aula magna, inaugurando così un’abitudine a cui non avrebbe mai rinunciato negli anni successivi.

Anche quel giorno di ottobre, con il cardigan stretto tra le mani per il gran caldo e la borsa di pelle che sbatacchiava contro il fianco, percorse l’atrio di gran carriera, senza curarsi degli sguardi che curiosi si posavano su di lei: non che quella curiosità fosse dovuta al suo disinteresse per la famosa tradizione, aveva ragione di pensare che dipendesse dal piglio agguerrito che doveva avere negli occhi, quella sicurezza che molti in quegli anni avevano imparato a conoscere e temere.

Salì in fretta la maestosa scala in marmo che tanti anni prima l’aveva messa in soggezione e, fedele alle sue abitudini, al bivio scelse la scala alla sua sinistra e tra le due porte d’ingresso quella alla sua destra. Si fermò un attimo, stordita dall’assordante cacofonia che regnava nell’aula: il familiare miscuglio di voci, sedie trascinate, risate e saluti che aveva accompagnato i suoi quattro anni di università.

Qualcuno tra le prime file le fece cenno. Puntuali come lei non sarebbe mai stata, Alessandra e Francesca non l’avvertivano nemmeno più quando le tenevano un posto: sapevano che non si sarebbe mai persa una lezione e che non sarebbe mai arrivata in tempo per trovare un posto a sedere. Mentre camminava verso le amiche, diede un’occhiata all’orologio e scoprì di non essere affatto in ritardo: erano le 10:45 e la lezione sarebbe iniziata alle 11. Forse in un altro posto questo sarebbe bastato, ma non lì e non per quella particolare materia: nonostante non fosse previsto dal regolamento di facoltà, la professoressa Testa aveva imposto la frequenza obbligatoria, costringendo ben quattrocento ragazzi a seguire le lezioni di Storia del diritto medievale.

— Alzati.

Mentre cercava di non calpestare i poveri sventurati costretti a sedersi a terra, una voce particolarmente sgradevole attirò la sua attenzione.

— Come scusa?— domandò una ragazza che sembrava appena essersi seduta.

— Questo è il mio posto e mi ero alzato un attimo per andare a fumare,— le rispose indispettito un ragazzo dalla figura allampanata.

L’altra si guardò imbarazzata intorno.— Ma guarda che non c’era nulla sulla sedia,— spiegò in difficoltà.

— Io sono venuto alle 8 per prendere posto e non me lo faccio rubare così…

Carla distolse lo sguardo da quella scena penosa e riprese subito a camminare, ancora più nervosa di quando era arrivata.

Stava quasi per arrivare al suo posto quando prese la sua decisione: non ci stava. Non era da lei stare in silenzio né poteva permetterselo, visto che era rappresentante degli studenti. Così, consapevole delle amare conseguenze che avrebbe pagato all’esame, raggiunse la cattedra e la temibile professoressa Testa.

— Professoressa.

La donna stava sistemando il suo prezioso impermeabile e l’immancabile Louis Vuitton sulla cattedra, con una cura maggiore rispetto a quella per i suoi studenti, costretti a stare per terra o all’in piedi.

— Mi dica,— rispose, rivolgendole uno sguardo infastidito: l’aveva già riconosciuta.

— Vorrei farle presente il disagio degli studenti. L’aula non è abbastanza grande,— iniziò a spiegarle con calma.

— Cosa crede, che a me faccia piacere questa situazione? Torno a casa con un mal di testa feroce praticamente ogni giorno!

Si costrinse a respirare e cercò di mantenere un tono ragionevole:— Tre ore di lezione per terra sono un po’ difficili da sopportare.

— Non è colpa mia se la facoltà non dispone di aule più capienti,— la liquidò.

— Ma è lei ad aver imposto la frequenza, quindi è suo dovere garantirci un’aula sicura e spaziosa.

Appena incontrò gli occhi inviperiti della professoressa, Carla seppe di aver già perso la possibilità di superare l’esame con un buon voto.

— Chi si stanca può anche andarsene.

Si fronteggiarono per un lungo momento, una offesa perché qualcuno aveva osato sfidarla, l’altra indignata da una simile noncuranza per il prossimo.

Sapeva cosa avrebbe fatto la stragrande maggioranza degli studenti: avrebbero chinato la testa, avrebbero preferito la strada più semplice, perché troppo abituati a “evitare il centro dell’atrio” per avere una reazione. Carla, invece, aveva sempre tirato dritto, incurante della supposta sfiga di cui tutti parlavano e così, anche quella volta, mettendo da parte le conseguenze delle sue azioni, scelse di andare dritto, in una direzione opposta a quella che avrebbero seguito tutti gli altri.

— Ragazzi,— esordì al microfono abbandonato sulla cattedra,— La professoressa ha detto che chi si stanca di stare per terra o all’in piedi può anche andare via. Non so voi, ma io credo che dovremmo andarcene tutti,— la sua voce, da sempre abituata a parlare davanti a folle di studenti, era risuonata forte e sicura,— Perché penso che chi è seduto oggi domani potrebbe anche arrivare tardi e quindi è interesse di tutti cambiare aula.

Lasciò andare il suo sguardo lungo le prime file: alcuni si alzarono praticamente subito, altri solo dopo esortazione dei vicini; c’era chi si consultava e chi le rivolgeva sguardi infastiditi.

— Se anche restasse un solo studente, io farò comunque lezione,— avvertì la professoressa, irritata.

Carla continuò a fissare i suoi colleghi con sguardo duro, di sfida e, mentre alcuni di loro sembravano accusarne gli effetti e raggiungevano la piccola folla che si stava raccogliendo fuori l’aula, c’era anche chi restava seduto. Non si sorprese nel trovare tra questi ultimi anche quella particolare persona: seduto in terza fila, con l’immancabile camicia e pantaloni scuri, Manfredi le rivolgeva il suo solito sguardo di sufficienza, quello che le riservava  da quando si erano conosciuti, quattro anni prima. Pronta come sempre ad accettare qualsiasi tipo di sfida, Carla alzò il mento, strinse le labbra e sostenne quello sguardo freddo per un tempo che sembrò allungarsi a dismisura, mentre intorno a lei qualcuno iniziava a urlare “fuori” ai colleghi rimasti seduti.

Poi successe qualcosa che non si sarebbe mai aspettata: Manfredi, sempre senza distogliere gli occhi da lei, si alzò lentamente e si sistemò la tracolla sulla spalla. Gli occhi scuri, la smorfia sarcastica sulle labbra e le sopracciglia appena arcuate le dissero che non credeva minimamente in quel gesto, ma che per quella volta—e quella volta soltanto— era disposto a concederle ciò che per lei, povera ingenua, sembrava contare così tanto.

— Se ha finito con i suoi comizi, io vorrei iniziare la lezione,— sbottò la professoressa, avvicinandosi al microfono.

Carla diede un’ultima occhiata all’aula: almeno cinquanta persone erano rimaste sedute e una ragazza che fino a quel momento era seduta sul pavimento adesso stava occupando il posto che Alessandra e Francesca avevano riservato per lei. Tutti sordi alle urla di chi era uscito: “fuori.”

Non li degnò di uno sguardo, quando percorse l’aula e  raggiunse gli altri colleghi, ma non poté fare a meno di pensare che in fondo i veri nemici non fossero la professoressa Testa e la sua arroganza, quanto piuttosto quel muro di indifferenza, quell’incapacità di provare anche una sola volta ad andare verso una direzione che non fosse quella più semplice.

***

Sua madre glielo aveva spiegato anni prima, una delle prime volte in cui si era offerta di aiutarla a preparare la cena. Aveva parlato con un leggero sorriso, dolce, perché in fondo sapeva che quello fosse il vero segreto della sua buona fama come cuoca.

“Non importa quanto tu sia in ritardo,” aveva esordito, con una mano posata gentilmente sulla sua, “Non avere mai fretta in cucina, trova il piacere in ogni piccolo gesto.”

Nonostante non le avesse mai dato retta, quel consiglio era rimasto sempre fisso nella sua mente così da ritagliarsi sempre il tempo necessario a cucinare qualcosa di buono. Detestava saltare i pasti e ancora di più mangiare i cibi surgelati che piacevano tanto a Carla.

Sveva amava andare al mercato, scegliere la frutta di stagione, litigare con il venditore che voleva sempre fregarla, ascoltare i consigli di quello che ormai l’aveva presa in simpatia; adorava tagliare le zucchine sottili sottili, pelare il pomodoro con cura e persino sgusciare i gamberetti. Cucinare, e ancora di più cucinare per qualcuno, era la cosa che più la rilassava al mondo.

In quel momento, però, nonostante ogni tentativo, non le riusciva proprio di rilassarsi e sospettava che questo avesse poco a che fare con i funghi un po’ molli che aveva comprato il giorno prima e molto, invece, con il malumore della sua coinquilina: la perennemente tesa Carla quel giorno sembrava fuori di sé, mentre andava su e giù per la piccola cucina del loro appartamento e inveiva contro una certa professoressa e certi suoi colleghi.

— E mentre lei continuava a fare lezione, voi cos’avete fatto?— domandò per fare andare avanti l’amica con il racconto. Altrimenti, con il suo amore per i particolari, avrebbero fatto notte.

— Ho portato alcuni ragazzi con me dal preside,— le spiegò l’altra, mentre portava alla bocca una manciata di cubetti di pancetta.

— Serve per la pasta!— la rimproverò Sveva, allontanandola dal ripiano. Carla era fatta così, non sapeva cucinare praticamente nulla e per sopravvivere mangiava tutto ciò che di commestibile trovava in frigorifero.

— Il preside ci stava per mandare via, ma appena ha sentito le parole “frequenza obbligatoria” ha capito che la faccenda richiedeva il suo interesse.

— Quindi la cosa si è risolta?

L’amica le rivolse uno sguardo intenerito.— Come sei ingenua e sprovveduta, tu…— la prese in giro, con una leggera pacca sulla spalla,— Il preside ha obbligato la professoressa a ritrattare in pubblico le parole che potrebbero dare dei problemi alla facoltà e a tranquillizzare gli studenti sul carattere facoltativo della frequenza, anche se di fatto non cambierà nulla e i non frequentanti non supereranno mai l’esame.

Sveva buttò i funghi in padella, facendo scostare rapidamente l’amica: la forte e combattiva Carla aveva il terrore degli schizzi d’olio bollente.

— Non capisco come fai a sopportare tutto questo.

Con la coda dell’occhio, Sveva la vide sospirare e per un attimo le vennero alla mente ricordi passati, quando l’amica portava i capelli castani sempre sciolti e una graziosa frangetta sugli occhi nocciola. Adesso, invece, i lunghi capelli tinti di rosso tiziano erano sempre raccolti e tirati indietro, conferendole un’aria perennemente tesa.

— Ci vuole diplomazia e pazienza,— le rispose dopo un po’,— E il vero problema non è neanche scontrarsi con l’autorità. Quello è stimolante, lo metti sempre in conto. Ciò che davvero pesa è l’indifferenza degli altri studenti. Nel resto d’Italia e d’Europa c’è un risveglio in atto, aria di cambiamento. A Barcellona, quest’estate, potevi avvertire la tensione per le strade, leggere la rivoluzione negli occhi e nelle parole dei nostri coetanei,— si lasciò andare a un sorriso nostalgico: quello che le illuminava gli occhi quando ricordava le settimane trascorse a stretto contatto con i leader del movimento parigino,— C’era voglia di ascoltare l’altro, soprattutto. Non si aspettava il turno per dire la propria, si cercava insieme una soluzione.

— Carla, ero lì con te e mi costringevi a farti da traduttrice, me lo ricordo fin troppo bene!— la interruppe guardandola male,— E come al solito stai descrivendo solo quello che hanno voluto vedere i tuoi occhi!

Dopo aver controllato la cottura della pasta, aggiunse:— Vai ad apparecchiare, è quasi pronto.

Si misero a tavola e Carla continuò a blaterare contro i suoi colleghi per tutta la durata del pranzo. Non che Sveva non ci avesse fatto l’abitudine ormai. Del resto non le dava nemmeno fastidio stare ad ascoltare quella che nel corso degli anni era diventata molto più di una semplice coinquilina. Certo, se pensava a come erano andate le cose all’inizio, quando ancora Monica occupava la terza camera del loro appartamento, faticava a credere che quella ragazza dall’aria battagliera fosse la stessa persona che un tempo era solita mettersi all’ombra dell’amica. Quanto le aveva disprezzate?

— Ho bisogno di riposare un po’,— si lamentò Carla, con un’occhiata verso la porta della sua stanza.

— Carla…

— Non iniziare!— la minacciò con una posata,— Mi aiutano a rilassarmi, mi conciliano il sonno!

— Ma se a volte tiri fino all’alba per leggere quella robaccia!— le rinfacciò senza nascondere una smorfia di disgusto,— Se non ti conoscessi, potrei prenderti per una donnetta insoddisfatta.

L’amica sbuffò, portando via i piatti sporchi.— Non posso farci nulla. Mi piace leggere roba seria, ma non disdegno neanche…

— Romanzetti rosa di quarta categoria?— le chiese ad alta voce,— Le storielle che Harmony spaccia per romanzi storici? Con la damigella in pericolo e l’aitante gentiluomo pronto ad assisterla e, all’occorrenza, farle alzare la gonna?

Non si prese nemmeno la briga di nascondere il suo divertimento, quando Carla tornò nella sala da pranzo e la fulminò con gli occhi: Sveva era una delle poche persone immuni allo sguardo inviperito della ragazza e ne erano entrambe consapevoli.

— Mi piacciono. Mi distraggono. Mi rilassano,— scandì lentamente con tono perentorio.

— E te ne vergogni infinitamente!— le schiacciò l’occhio mentre finiva di sparecchiare,— Tanto più che quando viene Gabriele ti preoccupi di nasconderli con molta cura.

— Ci manca solo che li veda Gabriele!

Sveva non poté  impedirsi di esprimere tutta la sua sufficienza.— Non capisco perché il suo parere conti così tanto. O forse hai paura che possa aver voglia di leggerli e prendere spunto per le sue discutibili tecniche di rimorchio?

— Si unirebbe a te per sfottermi da qui all’eternità. Solo questo.

Come al solito, Sveva continuò a punzecchiare Carla mentre era impegnata a lavare i piatti. Era più forte di lei: quell’assurdo amore dell’amica per quel genere di romanzi era un vero mistero. Era incredibile che una ragazza intelligente e volitiva come Carla riuscisse anche solo a tollerare quella roba melensa e banale. Una volta le aveva svelato che ci aveva anche provato a smettere, ma il risultato era stato disastroso: dopo due mesi di astinenza, era tornata a essere più fissata che mai e in una sola settimana era arrivata a leggerne una decina. Adesso, invece, se ne concedeva uno dopo una lettura più impegnativa o una giornata particolarmente stressante.

— Almeno sei andata dall’assistente?— le chiese Carla, sottraendola ai suoi pensieri.

— Vado domani,— sollevò le spalle noncurante.

— Sveva…

L’interessata la guardò divertita.— Che c’è, adesso è il tuo turno con le ramanzine?

— Sì, concedimi di recuperare un po’ di dignità!— le rispose con un sorriso ironico,— Dimmi, quanto ancora dovrai rimandare l’incontro con il temutissimo dottore La Scala?

— Te l’ho detto: mi ha avvisata senza mezzi termini che se fossi andata a ricevimento senza una buona idea non avrebbe collaborato con me,— ignorò l’occhiata scettica dell’amica e continuò a spiegare:— Lo so che non puoi capire, ma La Scala è uno più stimati esperti di letteratura greca della nostra facoltà ed è rarissimo che accetti di seguire uno studente per la tesi.

— Ma tu non hai dovuto insistere,— la guardò con un sorriso che mal celava un qualche tipo di orgoglio.

— Non significa che posso andare lì con la prima idea che mi passa per la testa!

Carla sbuffò, guardandola male.— Hai paura.

— No, io…

— Hai paura. Ma non hai alcun motivo, Sveva. Negli ultimi tre anni ti sei letteralmente chiusa in casa a studiare, per non parlare della tua media a dir poco imbarazzante: non sarà certo la tesi a darti problemi!

Sveva scosse la testa e, prima di lasciarsi andare a commenti poco educati, preferì lasciare la cucina. Carla non poteva capire e sarebbe stato superfluo spiegarle il motivo per cui la tesi contava così tanto per lei. Molto più della laurea in sé, a voler essere sincera. Aveva seguito le lezioni di La Scala con una devozione e una passione che aveva provato raramente nel corso dei suoi studi. L’amore e la foga con cui aveva analizzato le poesie struggenti di Saffo, il commento ironico alle commedie di Aristofane, il tono solenne con cui aveva recitato brani delle tragedie di Sofocle avevano acceso qualcosa dentro Sveva: una voglia di essere all’altezza di quello studioso, il bisogno di condividere con lui quella dedizione che anni prima l’aveva spinta a iscriversi a Lettere.
Sì, aveva paura. Ma non aveva nulla a che fare con la laurea o con i voti. Era solo la paura di rivelarsi maledettamente ordinaria agli occhi dell’assistente, di non essere in grado di parlargli da pari a pari, di essere come in fondo si sentiva dentro: mediocre.

***

Il romanzo procedeva come sempre: in quel momento i protagonisti si detestavano, ma Carla sapeva che presto sarebbe successa una qualche banalità che avrebbe portato entrambi a un amore di carta, un po’ melenso ma per lei rassicurante. E rassicurante era proprio la parola più adatta per descrivere quelle storie che tanto si vergognava a leggere. Per lei era come spegnere il lato più battagliero della sua testa e immergersi in un mondo semplice, bianco e nero…e rosa… tanto, ma tanto rosa.

— Caro Marchese, mi sa che dovrete aspettare per concludere…— mormorò mentre chiudeva il libro.

Il citofono iniziò a suonare proprio quando si era appena seduta alla scrivania, con il libro di procedura penale davanti. Tre scampanellate in rapida successione. Per l’esattezza, tre stramaledette scampanellate in rapida successione.

Si alzò rapidamente per catapultarsi da Sveva e impedirle di…

— Sì, aspetta che apro.

Troppo tardi. Sveva, la cui stanza era la più lontana dalla porta, come sempre e inspiegabilmente era arrivata prima di lei e aveva già aperto.

— È lei, vero?— domandò guardandola male.

Lei e la sua adorabile tripla scampanellata. Finalmente è venuta a prendere le sue cose.

Mentre Carla si sforzava di fare un respiro profondo a occhi chiusi, Sveva buttò lì con noncuranza la cosa peggiore che potesse dire in quel momento: — Ah, c’è anche il coso

Aprì gli occhi atterrita e non perse tempo a spalancare la porta e a origliare la conversazione tra le due persone che stavano salendo le scale in quel momento: Monica e Andrea.

— A un certo punto dovevi pur affrontarli…— disse Sveva con un’odiosa pacca sulle spalle.

— Fanculo!

Uscì nel pianerottolo e cominciò a salire le scale di corsa, mentre Sveva le borbottava dietro qualcosa che suonava come “molto maturo, Carla”.

Arrivata al quarto piano, stava tirando un sospiro di sollievo quando sentì Monica dire qualcosa che la terrorizzò: — Ma dove vai? Non è questo, è più su!

Carla non perse tempo a maledire la cretinaggine della sua vecchia coinquilina e si mise a suonare all’unico campanello dove non avrebbe mai dovuto suonare.

Fa che non apra lui. Fa che non apra lui. Fa che…

La porta si aprì. Mentre un paio di seri occhi scuri la fissavano, Carla decise che quella non era affatto la sua giornata.

Manfredi.

 

Note d'autore (perché a volte ritornano...):

Ciao a tutte! Negli ultimi tempi mi ero convinta che non avrei più scritto long per EFP, ma stamattina è successo l'impensabile: complice il maltempo, mi sono svegliata con la giusta ispirazione per portare a termine questo capitolo e, soprattutto, per mandare avanti questa long che avevo in mente già da tempo. Si tratta di qualcosa di  diverso da Down in a Hole, ma spero che darete una piccola chances anche a questi nuovi personaggi. Non vi nascondo che sono molto emozionata all'idea di cominciare un nuovo percorso qui su EFP e che c'è sempre quel pizzico di paura di annoiare o essere indifferente ai lettori. Spero che questo capitolo introduttivo vi sia piaciuto (se qualcosa non vi ha convinte, non esitate a farmelo sapere!) e che le mie due nuove disagiate vi abbiano incuriosito. 

Un bacio a tutte,

Agnes 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


dc cap 2

Capitolo II



Rimasero impalati sul pianerottolo per una manciata di secondi, ma a lui sembrò comunque un tempo interminabile. In quegli anni, l’aveva vista in mille versioni diverse: abitini provocanti, borse enormi, giubbini di pelle per darsi un tono, camicie, polo, elegantissima, a volte anche sportiva…ma in quel momento persino il flemmatico Manfredi non poteva evitare di fissarla un minimo turbato: l’impeccabile Carla Ferrari era lì con dei pantaloncini sbrindellati che arrivavano a metà coscia, un’informe tshirt viola con la scritta Camposcuola Sorriso 1998 e un paio di peluche ai piedi dalle dimensioni imbarazzanti.
— Non sapevo portassi gli occhiali,— disse lei mentre continuava a fissarlo.
Non sapevo ti piacesse distruggere le fantasie erotiche del maschio medio,  avrebbe voluto risponderle. Non lo fece, ma qualcosa del suo sguardo dovette tradire il pensiero perché la vide arrossire, a disagio.
Una voce squillante e vagamente familiare li raggiunse: — Ti dico che è più su, non pensi che avrebbero aperto la porta sapendoci qui?
— Moni, ricordi male…
Carla sembrò ancora più a disagio e impaziente, quando lo guardò negli occhi e gli chiese: — Posso entrare?
Le fece un cenno e, quando furono dentro, chiuse la porta facendo attenzione a non fare rumore.
Nella penombra dell’ingresso, mentre Manfredi stava appoggiato alla porta fissando Carla al centro della stanza, inevitabilmente calò un silenzio carico di imbarazzo.
— Se continui a fissarla così, la porta prenderà fuoco.
Incuriosito, la osservò distogliere gli occhi e guardarsi intorno impacciata.
— Scusami per l’improvvisata, ma… non so come spiegartelo,— disse ancora più in difficoltà.
— La dentista ti ha portato a casa gente troppo altolocata per il tuo abbigliamento?
Lei lo guardò senza capire, prima di avere un’illuminazione e darsi una frettolosa occhiata all’abbigliamento: — Sono proprio ridicola conciata così, vero?— gli domandò, con un sorriso divertito che finì con il sorprenderlo,— Comunque no, non sono scappata per questo motivo. È che non volevo incontrare quelle persone…
Manfredi la soppesò con lo sguardo, indeciso se insistere o meno. In fondo non era da lui intromettersi negli affari altrui.
— Hai tagliato con la dentista?— domandò alla fine. Quando lei annuì, come al solito non fu in grado di trattenersi: — E come mai, divergenze insostenibili sul locale da frequentare?
Anziché incazzarsi, Carla si mise a ridacchiare: — Ma ti sembro davvero così superficiale?
Lui sollevò le spalle e in quel gesto volle ricordarle tutte le volte che le aveva incontrate per le scale, troppo impegnate a commentare il delirio della sera prima o troppo ubriache o troppo in tiro per prestare attenzione a chi era dietro di loro.
— E poi, quando diavolo smetterete di chiamarla dentista?
A quella domanda, neanche Manfredi riuscì a nascondere un sorriso divertito: — Non vorrei mai offenderla…
Inevitabilmente i pensieri di Manfredi andarono all’unica volta che Carla era stata in quell’appartamento.
Era dicembre, il loro primo anno di università. Manfredi, Alessio ed Enrico, ben lontani dal pensare agli impegni universitari, avevano deciso di dare una festa prima che i due ragazzi tornassero ai rispettivi paesi per le vacanze natalizie, lasciando la casa al solo Manfredi. Avevano invitato praticamente chiunque conoscessero anche solo di vista e, inevitabilmente, l’invito era stato esteso anche alle tre bellissime inquiline del piano di sotto.  Alla fine erano venute in due – la bionda impettita e la mora dal sorriso timido – e se ne erano state per i fatti loro, senza riuscire a inserirsi in quella caciara che si era rivelata la festa. Manfredi non pensò subito che fossero snob, perché in fondo sapeva quanto potesse essere difficile socializzare in un ambiente del tutto estraneo e, dal momento che una delle due lo aveva molto colpito, si era ripromesso di avvicinarle per farle sentire a loro agio.
Non ne ebbe occasione.
Non seppe dire l’esatta dinamica, ma a un certo punto cominciarono a piovere da tutti i lati patatine e pop corn, finché qualcuno degli invitati non minacciò tutti con una bottiglia di spumante a buon mercato. Ci fu il fuggi fuggi generale e, nella calca, una ragazza cadde, sbattendo la faccia a terra.
Poi, grazie alle urla imbufalite dell’amica, tutti scoprirono il nome della malcapitata: Carla.
— Ma vi sembra il modo di comportarsi? L’avete fatta cadere! Ma che persone siete?
La ragazza, alzatasi senza troppi problemi, mise una mano sul braccio dell’amica: — Non mi sono fatta niente, Monica.
L’amica la guardò scocciata e subito strabuzzò gli occhi: — Sanguini! Fammi vedere!
La costrinse ad aprire la bocca e, dopo un’occhiata frettolosa, guardò i ragazzi intorno a loro: — Ci vogliono i punti.
Manfredi come sempre non riuscì a trattenersi: — Macché punti, è un  taglietto.
— Senti, mi puoi credere perché io faccio odontoiatria,— lo incalzò la ragazza, atteggiandosi.
— Ah, quindi dopo aver studiato chimica e fisica hai già le competenze di un dentista. Minchia, complimenti,— commentò a quel punto Enrico.
Monica stava per rispondere, ma venne interrotta da Carla: — Tesoro, mi andresti a prendere un bicchiere d’acqua così pulisco la bocca e ce ne andiamo da qui?
Mentre l’amica si allontanava, qualcuno diede un kleenex alla ragazza per  pulirsi le labbra. Nascosta dietro il fazzoletto, si rivolse a Manfredi ed Enrico: — Mi dispiace, è un po’ irruente ma a modo suo voleva difendermi.
— No, — la interruppe bruscamente Manfredi,— Voleva soltanto farci vergognare del nostro modo di divertirci. Tu sei stata solo la scusa.
— Effettivamente non è molto carino invitare qualcuno e poi buttargli addosso del cibo,— gli rispose lei spazientita.
Si guardarono male per qualche minuto, finché Manfredi non decise di voltare le spalle a quella stronza snob e di tornare al suo divertimento non molto carino.
***
Rimasero impalati sul pianerottolo per una manciata di secondi, ma a lui sembrò comunque un tempo interminabile. In quegli anni, l’aveva vista sempre uguale a se stessa: distaccata, tra il serio e l’infastidito per quel continuo via vai che era costretta a sopportare. Quel giorno, però, e per la prima volta da che Gabriele avesse memoria, Sveva lo accolse con quello che inequivocabilmente era sollievo. Era un particolare luccichio negli occhi celesti, una piega insolita delle labbra rosa, un guizzo delle sopracciglia delicate.
— Oh, sei tu…— commentò poi facendogli spazio per entrare.
— La tua infinita gentilezza non smette mai di commuovermi,— le disse mentre le dava un bacio sulla guancia, che la fece sbuffare infastidita.
— Carla non c’è.
— Come non c’è?— si lamentò,— Aveva detto che sarebbe stata…
— Per una volta potresti stare zitto?— lo interruppe brusca, mentre gli occhi andavano verso il corridoio, da cui adesso che ci faceva caso sembravano provenire delle voci.
— Uh, sei in compagnia? Chi è lo sfortunato stavolta?
— Facciamo così: va’ lì dentro e scoprilo da te. Io ho da fare.
Detto questo, la ragazza gli voltò le spalle e si andò a chiudere in camera. Fu solo quando arrivò nel soggiorno che Gabriele si spiegò il sollievo con cui Sveva aveva accolto il suo arrivo e soprattutto la fretta con cui si era rifugiata nella sua stanza. A dirla tutta, si convinse che anche Carla doveva essere nascosta da qualche parte.
— Voi che cazzo ci fate qui?
Guardando i due ospiti di Sveva, la mente di Gabriele andò a quel famoso febbraio del loro primo anno di università. Negli anni del liceo Gabriele e Carla erano sempre stati amici inseparabili, insostituibili alleati nelle manifestazioni e occupazioni studentesche. Da quando erano iniziate le lezioni, però, si vedevano molto meno, perché nonostante frequentassero entrambi Giurisprudenza per quel primo anno erano stati divisi in due cattedre diverse. Ad essere penalizzata era stata Carla, dato che Gabriele si era ritrovato con certe loro conoscenze del partito, mentre lei era completamente sola. Carla non lo diceva mai ad alta voce, ma per una ragazza come lei, abituata da sempre a essere circondata da amici, quella condizione era una vera maledizione. Purtroppo, Gabriele capì l’entità di quel malessere quando ormai era troppo tardi e le conseguenze si erano rivelate nella loro gravità.
Non aveva capito nemmeno quel famoso giorno in cui gli aveva presentato il coglione che adesso se ne stava comodamente seduto nel salotto di Carla e Sveva: la persona che più disprezzava al mondo.
Mentre se ne stava nell’atrio con i suoi colleghi, aveva scorto una persona familiare camminare nella sua direzione: — Ferrari,— l’aveva chiamata,— che ci fai qui fuori a quest’ora? Non avevi lezione di filosofia del diritto?
Carla l’aveva guardato un po’ spaesata, ma si era comunque fermata a salutarlo: — Mi ha chiamato Monica per prendere un caffè insieme.
— Scusa, ma quello di casa vostra non va bene?
Carla non era mai stata una secchiona, ma non era da lei perdere una lezione per un puro capriccio.
— No, ma… in effetti non siamo da sole, sai…— aveva spiegato in difficoltà.
Il grand’uomo aveva fatto la sua comparsa proprio in quel momento.
— Hei Carli, scusa il ritardo.
Bastarono cinque minuti di stentata conversazione, perché Gabriele collegasse alcune cose: Carla era tutta in tiro come mai era stata negli anni del liceo; quel tizio dall’aria allampanata aveva addosso due mesi di stipendio dell’operaio medio; Carla era paonazza al punto da essere imbarazzante; il tizio se la mangiava con gli occhi, visibilmente divertito; Carla era così intimidita da quel cretino che le si inceppavano le parole come mai le era accaduto prima.
Dopo qualche giorno, Carla gli raccontò che glielo aveva presentato Monica a una delle serate in cui andavano tutti i venerdì. Si chiamava Andrea, era figlio di un noto avvocato penalista e – come aveva precisato dopo appena due parole – abitava in un attico in pieno centro. Era semplicemente ricco e privilegiato. Una vera delusione che una ragazza come Carla desse importanza a cose del genere.
 
***
La mezzora più lunga della sua vita. Un’autentica agonia! Carla e Manfredi se ne erano stati seduti in cucina, cercando di fare una conversazione che non sfociasse in una lite. Purtroppo, si erano rivelati davvero pochi gli argomenti che non li facevano scattare uno contro l’altra: né  politica né esami né tempo libero. Se ricordava bene, stavano per litigare pure quando lei si era lamentata del gran caldo di quella giornata.
A un certo punto, gli aveva chiesto se poteva fare una telefonata e non aveva resistito alla tentazione di tirare un sospiro di sollievo quando all’altro capo Sveva le aveva detto che Monica e Andrea se ne erano andati da una manciata di minuti.
Lo aveva ringraziato per l’ospitalità prima di lanciarsi contro il portone e scendere di corsa le scale, come a voler mettere quanta più distanza possibile tra lei e il gelo che le trasmetteva Manfredi.
Era stato Gabriele ad aprire la porta di casa: alto come pochi suoi conoscenti, ben piazzato di spalle e dalla carnagione scura per gli anni passati a giocare a rugby all’aria aperta, riccioli biondi e occhi azzurri da bambino dispettoso, Gabriele riusciva sempre ad apparire ancora più bello grazie a quel modo di fare così spontaneo e poco studiato. Carla non poteva fare a meno di chiedersi come mai non si fosse mai invaghita di quello che fin da bambini era stato il suo migliore amico.
— Hai deciso di estirpare la libido maschile dal mondo?
— Eh?— domandò senza capire.
— Dove sei andata vestita in quel modo?— spiegò, mentre sghignazzando la faceva entrare in casa.
— Taci, per favore…— lo pregò mentre per l’ennesima volta guardava desolata il suo abbigliamento a dir poco ridicolo.
— Dov’è Sveva?
— A fare quello che le riesce meglio…
— Cioè?
— Appena sono arrivata si è chiusa in camera e mi ha lasciato solo con quei due,— le raccontò sbuffando, — Almeno lei non si fa cacciare da casa sua da due idioti…
Era troppo sperare che Gabriele non le facesse la ramanzina che le propinava ogni volta che la vedeva cambiare strada per non incontrare Andrea in facoltà.
— Non posso farci nulla…
— Beh, adesso devi imparare a farci qualcosa.
— Che vuoi dire?
— Hanno deciso di farlo… Hanno deciso di creare il CSA anche qui da noi. E sai chi è il presidente di Azione Universitaria…
Carla fece no con la testa, incredula. Non voleva incontrare Andrea, era riuscita ad evitarlo per almeno un anno e avrebbe potuto continuare a farlo per altro tempo ancora. Non voleva averci a che fare, provare di nuovo quel profondo senso di umiliazione che aveva provato tanto tempo fa, a causa di Monica, a causa di Andrea. Ma soprattutto a causa sua.
— Non lo farò mai.






Note:
E finalmente - dopo eoni dal primo capitolo - eccoci al secondo. Mi dispiace averci messo tutto questo tempo, ma a mia discolpa posso dire che non sono stati mesi facili: ho iniziato la pratica forense con tutti gli impegni e la stanchezza che ne derivano e ho preso parte a un progettino molto ambizioso con altre due autrici di EFP nonché membri adorati della mia famiglia virtuale: Emily Alexandre e Lyra Winter. Il progetto in questione ha un nome - Persefone - e si tratta di una storia a sei mani e come tale piuttosto esigente. Se foste interessate, eccovi la trama e il link :


1920. 1969. 2013. New York.

Il jazz e i sogni folli degli anni Venti, l'epoca dei sopravvissuti, di chi ha perso i propri cari in guerra ma ha alzato la testa ed è andato avanti, mentre l'odore del tabacco copre quello della morte e l'immortalità è a portata di mano. 
La musica e gli ideali di Woodstock, ultimo sogno di una gioventù ribelle, che sta per risvegliarsi sull'orlo di un baratro. 
E, infine, il presente dove ogni cosa si ripete sfuggendo a ogni logica razionale, caotica, veloce, inarrestabile. Un viaggio ai confini di un mondo ormai sepolto, per scoprire che non tutto è come appare, per imparare ad essere liberi.
Una stessa città e tre ragazze.
Maia, Mer e Tai vivono i loro ventiquattro anni in tre momenti del tutto diversi, eppure c'è qualcosa a tenerle unite: una potente famiglia, una collana dai diamanti rossi, una vita già stabilita e la confortante presenza di un grande amore.
Finché, un giorno, non arriva lui...

Persefone

In ogni caso, prometto di essere più costante nell'aggiornare questa storia che avete accolto così calorosamente nonostante fosse ancora al primo capitolo. Ringrazio chi l'ha inserita tra le preferite/seguite/ricordate e chi ha avuto la pazienza di lasciare qualche parolina di "benvenuto" ai miei nuovi personaggi.
Alla prossima,
Agnes

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