Will you come with me tonight? When you like and where you like

di rosie__posie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** PROLOGO ***
Capitolo 2: *** Un periodo di tempo imprecisato prima della nascita ***
Capitolo 3: *** UN ANNO PRIMA DELLA NASCITA ***
Capitolo 4: *** NESSUNA MONTAGNA È COSI' ALTA DA IMPEDIRMI DI VENIRE DA TE ***



Capitolo 1
*** PROLOGO ***


A SAranel, la mia angioletta <3
 

 
PROLOGO
 
 
 
Mrs. Hudson aveva un bel sorriso, sincero e rassicurante. E denti ben curati: perfetti, per nulla ingialliti dal tempo. I suoi occhi erano costantemente all'erta e vivaci, pronti a inglobare ogni cosa che notavano al loro passaggio (glielo aveva insegnato Siger e Mrs. Hudson ha sempre considerato prezioso ogni insegnamento del principato [1]). Amava portare i capelli lunghi e grigi, un tempo color del grano, raccolti in una morbida crocchia dietro la nuca.
 
Osservandola bene, non era un azzardo affermare che avesse l'aspetto della più amabile delle nonnine. Una nonnina straordinariamente in gamba per un'anima della sua veneranda età. Straordinariamente viva per una persona che, come lei, era morta già da centinaia e centinaia di anni.
 
Tutti la chiamavano semplicemente Mrs. H, lassù in Paradiso. I cherubini [2] più anziani sostenevano che nella sua primissima vita da mortale dovesse essere stata una matematica, una contabile o, in ogni caso, una figura abituata a maneggiare ogni giorno denaro, numeri e cifre, vista la sua straordinaria abilità di registrare e smistare il via-vai di anime che andavano e venivano in Paradiso.
 
I più giovani e insolenti serafini [3] (che Mrs. H. considerava alla stregua di adorati nipotini dispettosi) sostenevano, invece, che fosse semplicemente stata la proprietaria di un emporio in un qualche paesino di frontiera del Vecchio West. Deadwood, molto probabilmente. Sfortunatamente non vennero mai portati indizi a convalida di questa teoria, eccezion fatta per l'intima amicizia sviluppata nei confronti dell’anima di una certa pistolera Martha Canary, in arte Calamity Jane, successivamente reincarnata come figlia dei coniugi Turner, residenti a Baker Street, Londra.
 
Mrs. H amava tutte le sue anime. Le piccole, le grandi. Quelle che nascevano in Paradiso e quelle che vi sopraggiungevano dopo il trapasso. Sebbene lassù in Cielo i suoi compiti fossero tanti, ce n’era uno che Mrs. H prediligeva avanti a tutti: dare il benvenuto alle anime appena nate. Quando nasceva una nuova, piccola anima, Mrs. H era sempre lì ad accoglierla, proprio fuori dai Cancelli celesti, con il più caloroso degli abbracci e una calda copertina di luce bianca e bellissima che avvolgeva maternamente attorno al piccolo o alla piccola.
 
Quando, invece, era chiamata a espletare il più ingrato dei compiti, ovvero ricevere un'anima appena trapassata e darle il benvenuto al di qua del Tunnel celeste, Mrs. H era quasi sempre ansiosa. Tendeva a mangiucchiarsi le unghie, a scompigliarsi i capelli (infilando e sfilando ripetutamente le forcine)... Alcune volte, l'agitazione era così forte da dimenticarsi che non era buona norma, in Paradiso, mostrare la propria apertura alare a chi fosse appena uscito dal tunnel del trapasso.
 
"Mia carissima Mrs. H" l'aveva rimproverata amabilmente un giorno il suo superiore, il principato Siger. "Mostrare due ampie ali cariche di piume bianchissime a una povera donna che ha trovato la sua fine per mano di un cuscino di piume d’oca schiacciato con poco riguardo contro il suo viso fino a farle esalare l’ultimo respiro, non mi par proprio che rappresenti l'accoglienza più adeguata!"
 
Mrs. Hudson era arrossita e rimasta senza parole, in quell’occasione, cosa che si verificava alquanto raramente. L’anziana anima arrossiva e rimaneva incapace di pronunciare anche la più stupida delle cose in pochissime evenienze e riguardavano tutto il principato Siger della stirpe degli Holmes.
 
Questo piccolo incidente a parte, il principato Siger era sempre andato molto d'accordo con Mrs. H. Sicuramente molto più con lei che con la sua defunta moglie Violet, la quale, in compagnia di molti altri rappresentanti della famiglia Vernet, artisti francesi, era stata scacciata dal Paradiso ed esiliata nelle Tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti [4].
 
L'affetto che il principato nutriva nei confronti di Mrs. H era ricambiato sino all'ultima piuma. Nonostante la sua statura non propriamente slanciata e i suoi occhi perennemente tristi, la luce che emanava il principato Siger della stirpe degli Holmes era così pura e calda che, da sola, sarebbe stata capace di riscaldare l’intera Inghilterra sino alla fine dei suoi giorni.
 
Per dirla tutta, sussurrandola magari a fior di labbra e al riparo di una nuvoletta al di là dei Cancelli celesti, Mrs. H amava il principato Siger. Lo aveva sempre amato, di un amore sincero e pulito. Infinite volte di più di quanto abbia mai amato suo marito nella sua ultima vita terrena, Mr. Hudson, il quale faceva avanti e indietro tra Terra e Tenebre, sprecando ogni vita con trasgressioni in tutti e sette i peccati capitali.
 
Mrs. H avrebbe dato senza indugio la propria vita per il principato Siger, se non fosse stata già morta. Sicuramente, avrebbe dato per lui anche tutte le vite che avrebbe potuto ancora vivere.
 
I due si incontravano tutte le mattine all'ombra del Grande Albero, appena dopo l'aurora. Si guardavano sempre negli occhi come se si incontrassero ogni giorno per la prima volta. Amore, è questo: parlarsi con gli occhi.
 
"Le auguro il più radioso dei giorni, principato Siger" esordiva lei, ogni volta. "E io la più emozionante delle notti, Mrs. H" ribatteva lui, porgendole una rosa rossa raccolta fresca ogni giorno.
 
"Gradisce una tazza di the, mio caro?" cinguettava poi lei, portandosi la rosa al naso e inebriandosi di quel profumo celestiale. "Volentieri" rispondeva lui, porgendole il braccio.
 
Il loro piccolo rituale, ogni volta come se fosse la prima. Mrs. H era innamorata dell'amore. Credeva profondamente nell'amore e in tutto ciò che esso porta a compiere nel suo nome.
 
Conoscenza, dopo il buio.
 
Amicizia, dopo la conoscenza.
 
Lealtà, dopo la diffamazione.
 
Perdono, dopo la rabbia.
 
Completezza, dopo la solitudine.
 
Secondo Mrs. H, l'amore portava ad aprire il proprio cuore agli altri quando si pensava di non averne uno. Aiutava a rimettersi in piedi dopo una caduta. A camminare dalla parte degli angeli anche quando non lo si credeva possibile. [5]
 
Ad aspettare.
 
A chiedere perdono e a perdonare.
 
A ricominciare a essere una cosa unica, seppur resa diversa dalle avversità.
 
Era questo che Mrs. H predicava alle sue anime.
 
Le anime che il Paradiso accoglieva… Erano sempre tutte sotto la protezione delle sue amorevoli ali, in senso figurato e non. Ma ce ne erano alcune a cui dedicava il massimo delle sue attenzioni, di se stessa. Erano le piccole anime che nascevano in Paradiso e che ancora non erano scese sulla Terra. Quelle anime che avevano decine e decine di vite tutte misteriose, tutte da scoprire, davanti a loro.
 
Mrs. H le coccolava, si prendeva cura di loro, le aiutava a crescere. Preparava loro il the, le metteva al corrente delle imprese più onorevoli degli angeli in ciascuna schiera, a volte addirittura cantava per loro, accompagnata dalle splendide note suonate da Siger e dal suo violino.
 
Le Molly, i Michael, le Irene... O, ancora, i Victor, gli Henry, i Charles, i Gregory... Tante anime pure e lucenti che prima o poi scenderanno sulla Terra, incarnandosi nel corpicino di un maschietto o di una femminuccia. Mrs. H le amava tutte incommensurabilmente, ma ce n’erano due, in particolare, a cui il suo anziano cuore aveva giurato fedeltà eterna.
 
I due figli del principato Siger: il grande Mycroft e il piccolo Sherlock.
 
Erano venuti al mondo quando Violet era ancora un'anima pura alle cui ali era ancora concesso di rimanere nel regno della luce.
 
Mycroft era il maggiore, il più forte e il più pragmatico. Aveva un'intelligenza come pochi ed era particolarmente portato per gestire questioni che riguardavano eventi quali la politica, le guerre o il commercio. Pertanto, se il Cielo avesse deciso di non spedirlo più sulla Terra come semplice anima, Mycroft sembrava essere destinato a seguire le orme del padre: divenire principato, ovvero guardiano di nazioni e contee.
 
Già, perché Mycroft aveva già vissuto una vita terrena. Era stato, infatti, capitano di corvetta sotto bandiera inglese, durante la guerra combattuta per mari tra Inghilterra e Stati Uniti. Il suo nome era una leggenda tra gli uomini di mare e si narrava che la sua fama fosse arrivata sino a corte. Le sue gesta compiute contro navi corsare e pirata nei mari del sud gli avevano valso il soprannome di Ice Man.
 
In breve, la precedente vita di Mycroft era stata così movimentata che la prima cosa che aveva fatto, una volta rimesso piede in Paradiso, era stata quella di far domanda per essere assegnato a una scrivania comoda e tranquilla in un qualche ufficio governativo d'alto o basso livello (possibilmente alto) qualora fosse mai tornato sulla Terra.
 
Ma da allora non era più uscito dal Paradiso. Trascorreva gran parte delle sue giornate a leggere, imparare tutte le lingue conosciute e a studiare ogni forma di macchinario da guerra, qualora un domani il suo tanto promesso ruolo di guardiano di nazione richiedesse, ad esempio, di avere a che fare con interpreti stranieri rapiti [6] o piani di sottomarini rubati [7].
 
Al contrario del fratello maggiore, Sherlock non aveva mai messo piede sulla Terra. “Ci andrai presto, Sherly. Tu continua a studiare e vedrai che, in un battibaleno, arriverà presto il tuo momento” rispondeva ogni volta il principato alle pressanti richieste del figlio minore. Tuttavia, la sua costituzione alquanto cagionevole faceva segretamente dubitare a Siger che ciò potesse mai accadere. Non nel breve periodo, almeno. Ma non aveva cuore di spezzare le speranze del suo tanto amato secondogenito.
 
Mrs. H aveva assistito alla nascita dell'anima Sherlock e ancora la rammentava come il più magnifico degli eventi. Era un esserino scarno quanto un ragnetto, con la pelle color della porcellana più pregiata, gote morbide e rosee, con due occhi azzurrissimi e pieni di vita. La luce che emanava quel batuffolo di vita futura che Mrs. H stringeva amorevolmente tra le braccia era qualcosa che mai aveva visto in tutte le sue vite.
 
Una piccola fiammella di vita, ecco chi era Sherlock. Pareva così indifeso, così minuscolo, da far intendere che dovesse spegnersi da un momento all'altro. Come se fosse una metà che per sopravvivere, per essere completo, gli mancasse qualcosa.
 
O qualcuno.
 
L’anima Sherlock e la sua parte mancante. Contro il resto del mondo [8].
 
Contro le aspettative di tutti, Sherlock ce la fece. Aveva sorprendentemente tirato fuori gli artigli e aveva lottato. Aveva voluto crescere, rafforzarsi, vivere. Poiché non c’era nulla che Sherlock desiderasse di più oltre poter divenire umano, un giorno. Oltre ovviamente a possedere un bel paio di folte ali, proprio come quelle di suo padre.
 
Così, Sherlock aspettava, aspettava, aspettava. Attendeva pazientemente che arrivasse il suo momento e di sovente lo faceva seduto sotto le verdi fronde dell'albero arcobaleno, appena varcati i cancelli. Ma, con il passare del tempo, la pazienza iniziò a scarseggiare.
 
Trascorreva le giornate anche lui studiando il più possibile. Esattamente come Mycroft. Anzi, meglio di lui, poiché Sherlock desiderava fare meglio del fratello. Rivaleggiare era una buona cosa tra fratelli, Sherlock ne era convinto. Perché glielo aveva detto mamma Violet. E se lo diceva mamma Violet doveva essere vero per forza.
 
I due fratelli non piansero il giorno in cui Violet venne scacciata dai Cancelli del Paradiso ed esiliata nelle Tenebre. Non piansero perché, prima di dir loro addio, mamma si era inginocchiata accanto a loro, aveva donato un ultimo bacio a ciascuno e aveva sussurrato al loro orecchio cinque parole che avrebbero dovuto far loro da monito per il resto della loro esistenza. Terrena e ultraterrena.
 
 
 
 
 
Caring is not an advantage
 
 
 
 
 
Mrs. H era seriamente e silenziosamente preoccupata per la possibile e futura esistenza terrena della giovane anima di nome Sherlock.
 
Era preoccupata per la sua reticenza a legarsi con le altre anime del Paradiso, sia quelle appena nate che quelle di ritorno dalla loro esistenza terrena.
 
Era preoccupata perché la mente del più giovane dei figli di Siger era sempre in attività: non sostava mai a prendere un respiro, né a riflettere sui propri errori. Anzi, Sherlock si ostinava a credere che lui non ne fosse capace, di commetterne.
 
Come quella volta che aveva provato a spiccare il volo dalla terza nuvola a ovest dei Cancelli. Era convinto di riuscirci, essendo figlio di un principato. Spiccherò il volo e le ali mi cresceranno addosso come per magia si era detto un giorno. E così aveva fatto...
 
Era salito su quella nuvola, sotto gli occhi atterriti e sgomenti di Mrs. H. Si era guardato la punta dei piedi e poi su verso il cielo blu, aveva chiuso gli occhi, allargato le braccia e assaporato l'odore dell'adrenalina. Della vita che pompava nelle vene. E poi si era gettato.
 
Nel vuoto...
 
Convinto di risalire, portato su, sempre più su, da un paio di bellissime ali bianche...
 
Ma non era successo.
 
Quando Sherlock aveva riaperto gli occhi, una luce bianca e intensa lo aveva avvolto in un abbraccio quasi materno. "Sei proprio uno sciocco!" aveva sentenziato una voce al suo orecchio.
 
Ci aveva messo un po', Sherlock, a mettere a fuoco il tutto. A capire a chi appartenesse quella voce. Ma poi eccola lì, quella giovane e ribelle anima femmina, poco più che adolescente ma già fresca fresca di purgatorio, contro la quale suo fratello Mycroft lo aveva messo in guardia ben più d'una volta.
 
"Solo perché sei figlio di un principato, non significa che le ali ti possano spuntare così, da un secondo all'altro" aveva continuato lei, sottolineando il concetto con uno schiocco di dita.
 
"Finché non si sperimenta, non ci è dato conoscere!" aveva borbottato Sherlock di rimando, inarcando un sopracciglio mentre si tirava a sedere e le allungava una mano. "E adesso mi aiuti ad alzarmi, Irene?"
 
"Solo se stasera mi porti fuori a cena" aveva rilanciato lei, incrociando le braccia al petto. A quella proposta il cipiglio del giovane Sherlock era aumentato. "Non se ne parla neanche! I ristoranti che ti immagini sempre tu con i tuoi ricordi sono noiosi! C'è troppa musica e troppo cibo" aveva decretato lui, tirandosi in piedi da solo e sistemandosi i bermuda blu e il fiocco al collo della camicia, che la caduta aveva orrendamente stropicciato.
 
Mrs. H, che stava seguendo tutta la vicenda da dietro una nuvoletta poco lontana, a quel punto aveva scosso la testa, rassegnata. “Le persone, piccolo Sherlock. Le persone!” aveva sussurrato a se stessa.
 
"È quello che si fa nei ristoranti sulla Terra” stava intanto continuando la giovane anima Irene, “Si mangia e ci si diverte! Ti ci devi abituare!" "Io non mangerò quando sarò sulla Terra!" aveva ribattuto Sherlock, voltandole le spalle e incamminandosi da solo verso il sole che si stava pian piano preparandosi a tramontare. Irene scosse il capo. "Allora sarai destinato a rimanere sempre solo, Sherlock..." aveva mugugnato con tristezza, guardandolo allontanarsi. “La solitudine è ciò che mi protegge!” erano state le ultime parole di Sherlock, urlate a gran voce, prima di mettersi a correre e sparire via dalla vista dell’anima femmina.
 
Mrs. H rimase nascosta nel suo nascondiglio fino a quando anche l'anima Irene se ne era andata, scotendo la testa; poi era uscita fuori, sospirando, maledicendo tutto e tutti e, infine, inchinandosi e pregando il Grande Capo di scusarla per le sue imprecazioni.
 
"Irene ha ragione, ragazzo mio" aveva detto a se stessa, dirigendosi verso il suo ufficio (una nuvoletta rosa arredata ogni giorno con un ricordo diverso, quello che la stuzzicava di volta in volta di più: una deliziosa saletta privata di una tea room inglese, ad esempio, oppure il saloon di una cittadina americana di frontiera). "Se continuerai così, rimarrai solo per sempre. In questa vita e nell'altra.”
 
Il destino dette ragione a Mrs. H e Irene.
 
Fino a quando un bel giorno, per mano di un ben addestrato cecchino iracheno, il soldato John Watson non spirava e ascendeva al Paradiso.
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell'autrice:  eccomi a voi con una nuova long che vuole essere totalmente un esperimento! Il Paradiso descritto in questo mio verse riproduce a grandi linee quello descritto in uno dei miei due film preferiti preferitissimi di quando ero bambina, Accadde in Paradiso, basato sul concetto che, se due anime si innamorano in Paradiso, sono destinate a innamorarsi anche sulla Terra. La trama è dunque ispirata al 50% a questo film e al 50% a questo magnifico, splendido tumblr: http://lapuslazulli.tumblr.com/post/55022966527/cylin-aka-ankamo-missevalyn-my-dear
John si reincarnerà in più vite prima di riuscire finalmente a incontrare nuovamente Sherlock. Le cinque vite saranno Dr House, Elementary, Sherlock Holmes Gioco di ombre e altre due aggiunte di mia scelta. Queste "vite" potrebbero risultare un po' OOC per chi ha visto le suddette serie e il suddetto film, poiché saranno vissute dal punto di vista di John. Inoltre, saranno destinate a loro malgrado, ehm..., a finire precocemente, per consentire la reincarnazione.
Il titolo è una citazione de L’avventura della casa vuota: quando Holmes domanda speranzoso a Watson se desidera tornare a unirsi a lui dopo la sua finta morte, il dottore risponde “Quando vuole e dove vuole”. Magnifica frase, a mio avviso. Sfortunatamente, temo che non saremo altrettanto fortunate nella serie.
Bene, se vi siete lette tutto fin qui, avete tutto il mio amore! <3 E ora le note...
[1] sono gli angeli guardiani di nazioni e contee. [2] angeli della prima sfera. [3] altri angeli della prima sfera (potete trovare una spiegazione della gerarchia, o sfere, degli angeli qui: http://it.wikipedia.org/wiki/Gerarchia_degli_angeli. [4] Mt, 13,41-42. [5] citazioni varie dagli episodi di Sherlock. [6] [7] citazioni de L’avventura dell’interprete greco e I piani Bruce-Partington (ep. 1x03). [8] non fatemi piangere… citazione dal trailer della BBC.

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Capitolo 2
*** Un periodo di tempo imprecisato prima della nascita ***


UN PERIODO DI TEMPO IMPRECISATO PRIMA DELLA NASCITA
 
 
 
Mrs. H non avrebbe mai dimenticato il giorno in cui fu chiamata a dare per la prima volta il benvenuto a John Watson. La prima di molte...
Era corsa al Tunnel con trepidazione e il fiato corto, ripetendosi Non devi spaventarlo con le tue ali! Non devi spaventarlo con le tue ali! Probabilmente la sua agitazione era dovuta al fatto che sapeva che avrebbe dovuto accogliere un'anima deceduta precocemente. Un giovane uomo, il quale, nei suoi ventitré anni, era solo poco più d’un ragazzino nel momento in cui incontrò la morte. Ma forse, in cuor suo, qualcosa le sussurrava che sarebbe stato diverso.
 
Che John era diverso.
 
 
 
§§§
 
 
 
L’anziano angelo femmina incrociò le mani al petto, morsicandosi il labbro inferiore con nervosismo mentre osservava le due metà che costituivano il portone del Tunnel celeste aprirsi con lentezza estrema, rivelando pian piano un cono di luce che diveniva sempre più intensa.
 
Se ne stava lì, a chiedersi chi mai fosse stata in vita l’anima che si preparava ad accogliere. Un giovanotto spirato dopo una lunga malattia, una di quelle che non lasciano scampo? O che dire della vittima di un brutale omicidio, magari tra bande? Scosse con decisione il capo a quel pensiero: non stava bene sentire il sangue pompare poderosamente nelle vene a certi pensieri, lì in Paradiso.
 
E poi, ecco la sorpresa: erano due. Le anime di due poveri ragazzi, che serbavano come immagine eterea l’aspetto ultimo dei loro corpi al momento del trapasso. Mrs. H osservò di nuovo il foglio di carta bianca con l’effige dorata di due ali che teneva tra le mani: l’ordine di smistamento di quel giorno prevedeva un arrivo e uno soltanto. Sospirò di tristezza al pensiero di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Le sue ali (ben celate) provarono una morsa di amarezza nel vedere l’aria smarrita e terrorizzata dipinta sui volti dei due giovani. I figli di qualcuno, i promessi sposi di qualcun altro. Appallottolò l’ordine di smistamento e lo nascose in una delle tasche del suo abito color lavanda.
 
“Benvenuti, ragazzi miei!” esordì, esibendo il più caloroso dei suoi sorrisi mentre si avvicinava ai due nuovi arrivati, che ancora si guardavano in giro con il naso all’insù e gli occhi vuoti.
 
Indossavano entrambi la tuta mimetica; non sarebbe stato facile asserire che cosa le rendesse più sporche: se la polvere scura o il sangue rappreso. Avevano tutti e due i capelli biondi tagliati molto corti e gli occhi azzurri. Ciò che li distingueva erano proprio questi ultimi: uno dei due li aveva più blu, l’altro più acquamarina ed esibiva inoltre una vistosa cicatrice poco al di sopra dell’occhio destro.
 
“Dove siamo? Questo luogo non ha nulla a che vedere con Mossul...” [1] mormorò il soldato dagli occhi blu, cibandosi di tutto ciò che lo circondava con sguardo famelico e ansioso al contempo. “Non ne ho un cazzo di idea, Watson, ma qualunque cosa sia è mille volte meglio persino del Bagatelle!” [2] gridò il ragazzo con la cicatrice, mettendosi a fischiettare allegramente.
 
Mrs. H sorrise e, per un attimo, presa dalla tenerezza, rischiò di palesare le sue ali, ravvedendosi e nascondendole all’ultimo istante. “Siete in Paradiso, ragazzi!” comunicò loro, allargando ancor di più il suo sorriso tipico di nonnina.
 
Il giovane che rispondeva al nome di Watson si bloccò di colpo per lo sgomento, a metà strada tra l’uscita del Tunnel e i Cancelli celesti. “In... In Paradiso?” ripeté con un fil di voce. Mrs. H sospirò annuendo, mentre raccoglieva le mani in grembo, e non aggiunse altro.
 
“Ma questo vuol dire...” “Che siamo morti, sì, Watson! Ma ti posso assicurare che con il buco che ho lasciato nel petto di quel figlio di buona donna iracheno, anche lui presto verrà qui a tenerci compagnia” si rallegrò l’altro ragazzo. E, con un grande balzo, fu al di là dei Cancelli.
 
Ma poi accadde l’inimmaginabile. Si udì un sibilo assordante, che costrinse i due ragazzi a coprirsi le orecchie (non Mrs. Hudson, poiché l’angelo femmina sapeva fin troppo bene cosa stesse per accadere). D’improvviso si spalancò una botola sotto i piedi del biondino con la cicatrice, inghiottendolo con la velocità di un fulmine. In un attimo e con un urlo agghiacciante, il giovane scomparve nel buio, lasciando dietro di sé uno sbuffo di fumo grigio e una manciata di cenere.
 
“Sebastiaaaaaaan!” urlò il ragazzo dagli occhi blu grandi e sinceri. In un attimo, cercò di buttarsi in salvataggio del commilitone allungando una mano laddove il terreno era franato inghiottendolo, ma arrivò troppo tardi: la botola si era già richiusa, portando con sé ogni ricordo del giovane che rispondeva al nome di Sebastian.
 
Watson, allora, si inginocchiò in quel punto, accarezzando con mani tremanti il suolo ora tornato bianco e soffice. “Seb, amico mio...” bisbigliò, mentre lacrime silenziose rigavano la sua guancia e finivano a solleticare il dorso delle mani. Poi, dita rugose ma gentili si insinuarono tra le sue, esortandolo con dolcezza ad alzarsi.
 
“Vieni, John, non c’è più nulla che tu possa fare per lui...” sussurrò Mrs. H rimettendolo in piedi. Il ragazzo annuì, incapace di fronteggiare lo sguardo di colei che ai suoi occhi appariva semplicemente una donna. Tuttavia, fu altrettanto incapace di lasciare andare la sua mano ferma e rincuorante.
 
“Che cosa gli è capitato? Dov’è finito?” domandò il giovane soldato, guardando stoicamente ancora il punto dove un attimo prima si trovava Sebastian. “Oh, si trova nelle Tenebre, adesso!” cinguettò Mrs. H, come se fosse la più naturale delle affermazioni. “Nelle Tenebre?” “Oh, hanno tanti di quei nomi! Forse tu le conosci come Inferi...”
 
John deglutì a vuoto. Due volte. “Riceverà... Riceverà la dannazione eterna? Verrà torturato sino alla fine dei tempi?” Mrs. H soppesò le domande, prima di rispondere. “Ebbene, non è detto che vada proprio così. Dipende…” “Da che cosa?”, insistette il giovane, ancora visibilmente sotto shock. “Da quanto andrà d’accordo con Jim, suppongo... E ora vieni, caro, andiamo a fare due chiacchiere nel mio ufficio!”
 
E quando John Watson, membro dell’Esercito di Sua Maestà e deceduto a Mossul alla giovane età di ventitré anni, mise piede al di là dei Cancelli celesti, un campanello trillò per tre volte, annunciando lietamente il suo ingresso in Paradiso.
 
 
 
§§§
 
 
 
“Gradisci per caso una tazza di the?” disse Mrs. H, sedendosi nella sua grande poltrona di vimini e azionando il ventilatore a pale appeso sul soffitto con un semplice schiocco di dita.
 
John si guardò attorno. Si era immaginato diverse volte il Paradiso e ne aveva visto diverse interpretazioni in numerosi film, ma non si ricordava nessuna che lo dipingesse come avente veri e propri uffici. Né tanto meno che questi avessero l’aspetto di un vecchio bar a L’Avana.
 
“Oh, sì grazie, signora. Grazie... Sono inglese, o, meglio, ero. Una bella tazza di the è sempre ben gradita. Ma, mi scusi, sono ali vere quelle ?” disse John, tutto d’un fiato. L’anziano angelo femmina borbottò qualcosa (che a John parve simile a un Se lo venisse a sapere Siger…) e subito si preoccupò di nasconderle.
 
“Preferisci forse una tranquilla saletta da the inglese?” Il ragazzo non rispose e Mrs. H decise di interpretare quel silenzio come un sì. “Oh, ovvio che lo preferisci! Che sciocca... Vuoi sentirti a casa!” Un ennesimo schiocco di dita e lo scenario attorno a John mutò. I lunghi banconi di legno ruotarono su se stessi sino a scomparire, così come i ventilatori a pale; al loro posto si sostituì la deliziosa atmosfera tranquilla e riservata delle sale da the inglesi di fine Ottocento, con decorazioni, stampe e mobili risalenti a quel periodo, che scesero dal cielo come per magia. Un lieve crap spinse John a trasalire e voltarsi: dietro di lui c’era un grande camino con un bel fuoco che scoppiettava allegramente.
 
“Potete rendere reale tutto ciò che immaginate?” chiese John con un fil di voce mentre si accomodava, ritrovandosi tra le mani una tazza di the fumante dall’aroma invitante e tipicamente invernale. “Oh, sì, caro! Tutto quello che immagini esiste. E tutto quello che è in Paradiso prima o poi ritorna sulla terra: non si perde niente, capisci? [3] Tutto grazie ai ricordi maturati sulla Terra. E, ovviamente, più volte sei stato sulla Terra, più ricordi utili hai!” spiegò Mrs. H, senza mai smettere di sorridere.
 
John sgranò tanto d’occhi, le labbra che sfioravano appena la tazza. “Si può tornare indietro?” domandò, la speranza tradita dal tono di voce.”Oh sì, le anime sono qualcosa di troppo prezioso per sprecarle! Ma non è per tutti uguale. Alcuni si fermano solo un giorno, altri anni. Altri non tornano più... Ogni storia è diversa, caro!”
 
John annuì, decidendosi finalmente di bere un sorso. Ma non sentì nulla sulla lingua: aggrottò la fronte e provò a rovesciare la tazza, ma il liquido ambrato rimase lì, incollato alle pareti. “Non riesco a berlo” si lamentò.
 
“Accidenti, mi dimentico sempre...” borbottò l’anziana, scuotendo la testa. Poi si chinò verso John, imponendo entrambe le mani all’altezza delle tempie. “Devo prima attivare la modalità riciclo-ricordi, altrimenti non puoi fare proprio nulla, ragazzo mio!”
 
John percepì una leggera scossa e strizzò gli occhi. “Ecco fatto, ora puoi bere senza problemi!” cinguettò l’angelo, tornando a rilassarsi nella sua poltrona. Il giovane s’azzardò a un secondo tentativo e questa volta riuscì a percepire la carezza calda della bevanda scorrergli lungo la gola e il sapore lievemente affumicato che gli stuzzicava il palato. Sorrise rasserenato tra sé e sé: si sentiva come se avesse appena compiuto il passo più importante della sua intera esistenza. “Devo avvisare mia madre? Che sto bene, intendo” bisbigliò poi, tra un sorso e l’altro. “Sarà preoccupata...”
 
Le labbra dell’anziano angelo si addolcirono in un sorriso triste. “A voi anime semplici non è concesso interagire con gli umani, mio caro, salvo in casi rarissimi per i quali è richiesta l’autorizzazione del Grande Capo in persona e di tutti i cori degli angeli.” Il viso del giovane si rabbuiò. “Ma forse, se chiudi gli occhi e pensi intensamente al viso di tua madre, allora potresti riuscire a mandarle delle vibrazioni positive e, se sei davvero fortunato, farle sentire che stai bene!” disse poi Mrs. H, facendo scivolare dolcemente una mano sul polso di John e stringendolo con dolcezza.
 
“Prenditi tutto il tempo che credi, ragazzo mio. Scegli un angolo di Paradiso e fallo tuo. Arredalo con i tuoi ricordi più belli e, se credi, anche con quelli meno piacevoli, poiché hanno contribuito anch’essi alla tua esistenza. Puoi fare tutto ciò che ti piaceva fare sulla Terra e anche molto di più!”
 
“Una volta mi piaceva scrivere...” iniziò John, i begl’occhi azzurri che si accendevano al ricordo. “Scrivere storie, intendo. Ma mi sono arruolato subito dopo l’università, così non ho mai avuto modo di pensare seriamente alla scrittura” concluse, con una scrollata di spalle densa di rammarico.
 
“Dunque, quale miglior ragione per non provarci ora, con l’eternità a tua disposizione?” cinguettò giuliva Mrs. H. Tuttavia, l’uso della parola eternità non sortì l’effetto desiderato: un’ombra di terrore puro scese negli occhi del giovane. “E ricorda che tutto ciò che imparerai e farai qui potrebbe poi tornarti utile un domani, qualora tornassi sulla Terra. Puoi anche provare a sperimentare qualcosa che non hai mai provato prima. Ma non tentare subito di volare o potresti farti davvero male!” lo redarguì Mrs. H, oscillando un dito così minacciosamente da spingere John a ritrarsi, spalmando la schiena contro lo schienale della poltrona. “Esattamente come è accaduto al piccolo Sherlock, povera anima...”
 
“Sherlock?” Un nome davvero buffo, pensò John. Forse una tipologia di angeli a lui sconosciuta, visto che sino a quel momento tutte le sue conoscenze in merito a Inferno e Paradiso si erano rivelate errate.
 
“Sherlock, sì…” Mrs. H sospirò più volte, i lineamenti addolciti già solamente da quel nome. “La giovane anima figlia del principato Siger. Beh, non è più tanto piccolo, in realtà; credo che dalle vostre parti lo definireste un teenager. E per essere del tutto onesta non credo nemmeno che si sia fatto poi un gran male, visto che è atterrato su una delle nuvole più soffici... Ma il suo orgoglio deve aver subito un bel contraccolpo, però!”
 
Poi Mrs. H si chinò in avanti, abbassando il tono della voce come se stesse per rivelare un importante segreto. “Suo padre è un angelo e penso che Sherlock credesse che, provando a buttarsi nel vuoto, le ali sarebbero cresciute subito anche a lui. Ma ovviamente così non è stato...”
 
Gettarsi nel vuoto per imparare a volare: John la vedeva un po’ come una metafora in cui racchiudere tutto il senso della vita. “È una cosa molto dolce e coraggiosa” si sorprese a dire. L’anziano angelo femmina sbatté più volte le palpebre in segno di sorpresa. “Che Lucifero Jim mi porti! È la prima volta che sento associare l’aggettivo dolce a Sherlock!” borbottò, non senza un sorriso.
 
“Cercare di imitare il proprio padre, prendere esempio da lui. Buttarsi... La trovo una cosa molto dolce. E coraggiosa” spiegò John con decisione. “Povero Sherlock...” continuò Mrs. H senza quasi porre attenzione alle parole del giovane, “lui non è ancora stato sulla Terra, non è ancora nato. Quindi non ha ricordi. Passa le giornate a studiare e a fare esperimenti per prepararsi al meglio per quando verrà il suo momento...”
 
C’erano dunque anime, pensò John, che non avevano mai messo il naso fuori dal Paradiso, se così si poteva dire, e anime come lui che invece lo stavano conoscendo solo dopo la morte. Sembrava tutto così assurdo, ma questa cosa lo elettrizzava. Quasi quasi poteva dire di sentire l’adrenalina scorrergli nel sangue e quest’ultimo pompargli al massimo dentro il suo corpo. Proprio come il primo giorno nell’esercito.
 
“Bene, credo ti abbia annoiato già fin troppo, per oggi!” disse l’angelo femmina alzandosi in piedi e riportandolo così alla realtà. “Io mi chiamo Mrs. Hudson, ma tutti qui mi chiamano Mrs. H, oppure Martha. Come preferisci. Quando desideri parlarmi, è sufficiente che chiudi gli occhi, pensi a me molto intensamente e pronunci il mio nome. Come per incanto, verrai trasportato subito qui!” spiegò, allargando le braccia. “Oh, come… come il teletrasporto?” domandò John, a metà strada tra sentirsi smarrito e un po’ stupido. La vecchina lo guardò senza comprendere. “Teletrasporto?” “Già, come in Star Trek.” L’angelo femmina continuava a fissarlo senza capire e John fece un cenno stanco con la mano, come per scacciare il tutto. “Non importa…”
 
“Se in quel momento sono occupata, verrai messo in sala d’attesa e sarò da te il prima possibile...” concluse Mrs. H, suggellando il concetto strizzando l’occhio. “Hai qualche altra domanda, mio caro?” “Ecco, io... Non so...” tentennò John. “Allora io ti lascerei andare. Sentiti libero di darti un’occhiata in giro, poi ci incontreremo uno dei prossimi giorni e mi dirai come è andata!” e, con uno schiocco di dita, gli oggetti che componevano l’ufficio di Mrs. H sparirono l’uno dopo l’altro.
 
Il ragazzo balzò prontamente in piedi, ora che la comoda poltrona sotto il suo sedere non c’era più. “Come faccio a sapere quando è passato un giorno?” domandò. “Oh, qui il sole sorge e tramonta esattamente come sulla Terra. Ovviamente non si tratta di un vero sole ma della luce degli angeli. Ed è molto più bella! A presto, John Watson, è stato un vero piacere!”
 
E, così dicendo, l’angelo femmina sparì, con tutta la sofficità della sua apertura alare.
 
Rimasto solo, il giovane soldato si guardò intorno, mille volte più smarrito di prima. I suoi occhi non notarono nulla all’infuori di uno spazio sconfinato, una luce bianchissima e un numero pressoché infinito di nuvole di tutte le dimensioni e di tutti i colori pastello.
 
“Bene, John Watson. Ora sei morto, ti trovi in Paradiso e davanti a te hai ben più di soli tre miseri continenti...” bisbigliò a se stesso. Si voltò a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra. Ogni punto, ogni scorcio di vista sembrava essere esattamente identico al precedente. Come in un labirinto.
 
Peggio di un labirinto…
 
“Va bene, capiamoci, Watson. Sei un soldato, non puoi lasciarti sconfiggere dalla morte!” ordinò a se stesso. “Ora vediamo un po’ come funziona questa storia dell’immaginazione...”
 
Allora John chiuse gli occhi e serrò le mani a pugno, ma nulla accadde. Li riaprì e, borbottando qualcosa di incomprensibile anche a se stesso, si scompigliò i capelli con entrambe le mani. “Va bene, riproviamoci. Non l’avrete vinta voi!”
 
Il giovane strinse ancor di più le palpebre, arrivando addirittura a vedere piccoli lampi di luce davanti agli occhi, e questa volta qualcosa accadde: si trovò davanti a un piccolo parco giochi, fatto solo di un paio di altalene e di uno scivolo. Lo riconobbe subito: era il parco giochi del quartiere in cui abitava quando era piccolo, poco lontano da casa sua.
 
Sorrise, John, gli occhi sempre intensamente serrati. Quanti ricordi affioravano pian piano alla mente... I primi amici, le prime ginocchia sbucciate, i primi baci umidi...
 
D’improvviso, un forte senso di vertigine portò John a sbilanciarsi in avanti, ritrovandosi a posare di scatto una mano e un ginocchio al suolo per non cadere. Si guardò le punte degli stivali e poi di nuovo attorno a sé: il ricordo era scomparso. C’erano di nuovo solo nuvole a perdita d’occhio.
 
“D’accordo, la prossima volta andrà meglio...” borbottò, cercando di tirarsi in piedi. Ma poi un grido giunse al suo orecchio: “Viaaaaaaa di lì!” Il ragazzo guardò a destra e a manca senza riuscire a capire da dove provenisse quella voce e quando ci riuscì era troppo tardi. Sentì qualcosa di pesante cadergli rovinosamente addosso con la stessa potenza di un uragano: un intreccio di braccia, lunghe gambe, una cascata di capelli e... un aquilone. In un attimo, si ritrovò sdraiato a terra, di schiena, immerso in una nuvola di fumo azzurro alla stregua del migliore dei cartoni animati da manuale.
 
Tossì un paio di volte e si stropicciò gli occhi brucianti e, quando il fumo si dissolse, notò che ciò che lo aveva appena investito era una persona. Una persona che adesso era sdraiata sopra di lui. “Ehi, che modi! Dovresti guardare dove vai, la prossima volta...” si lagnò John, ma poi si ricordò che si era rivolto così rudemente a un’altra anima – con tutta probabilità a qualcuno morto come lui – e se ne dispiacque.
 
“Non per sottolineare l’ovvio, ma sei tu quello ad aver intralciato il mio cammino” borbottò l’altro, cercando a tentoni l’aquilone poiché, nell’impatto, la cascata di riccioli lunghi e scuri si era riversata sulla fronte, finendo per coprirgli gli occhi.
 
“Aspetta, ti do una mano...” disse poi il biondo, scostando una ciocca di capelli dal viso dell’altro. E lì si bloccò. Stupito.
 
Ammaliato.
 
Era appena più d’un ragazzino colui che lo aveva atterrato con la stessa furia che avrebbe avuto un pilone [4] in una squadra di rugby. Un ragazzino che indossava pantaloni corti al ginocchio e una deliziosa camicia blu alla marinara. Ma furono gli occhi ciò che lo incantarono. Ebbene sì, incantarono.
 
Due occhi grandi, ammalianti, d’una sfumatura indefinita che correva dal grigio medio all’azzurro più chiaro, quasi di ghiaccio. Erano occhi pieni di vita, quelli, come non ne aveva mai visti. Brillavano, come due stelle nella notte. O come due piccoli, grandi soli attorno ai quali ruota ogni cosa. Sul volto di quel ragazzino era dipinto un broncio delizioso. La fronte aggrottata, un sopracciglio appena inarcato all’insù e l’arco di Cupido del labbro superiore atteggiato a una deliziosa espressione di disappunto.
 
John aveva tra le mani un’anima. Non poteva di certo dirne di averne viste altre da quando aveva messo piede in Paradiso, fatta ovviamente eccezione per l’angelo femmina che lo aveva accolto dopo il trapasso; tuttavia, se gli fosse consentito giurare, non avrebbe avuto dubbi: quella era la creatura più bella e, soprattutto, interessante su cui il suo sguardo si fosse mai posato.
 
In quella vita e nella precedente.
 
Sarebbe rimasto volentieri a contemplarla per l’eternità, visto che probabilmente sarebbe stata tutta a sua disposizione. Se solo glielo avesse concesso. Se solo...
 
“Allora, che ne diresti di spostarti e lasciarmi passare?” sentenziò la bocca di quella giovane anima, mentre aggrottava ancor di più la fronte. “Oh, sì, sì. Certo...” farfugliò John, riscosso dai suoi pensieri. Poi si guardò indeciso a destra, quindi a sinistra. Nuvole. Nuvole ovunque.
 
“Uff, spostati e basta!” lo incalzò ancora il ragazzino. Senza ribattere, John scivolò verso destra e si tirò in piedi, facendo di nuovo leva su mano e ginocchio. L’altro fece altrettanto, scivolando dalla parte opposta.
 
Poi John notò l’aquilone, dimenticato poco più in là, e si chinò a raccoglierlo. Lo contemplò per un attimo, pensando in realtà a tutt’altro, prima di lisciare le ali spiegazzate. Era un’ape. Un aquilone a forma di ape. Curioso, pensò il ragazzo biondo.
 
“Vuoi darmelo o pensi di tenertelo per te?” La voce petulante ma profonda della giovane anima lo fece nuovamente trasalire. “Ma certo, tieni...” John arrossì sulla punta delle orecchie mentre porgeva l’aquilone al legittimo proprietario, che ne attendeva la restituzione con il braccio allungato e un piede in fermento. Le dita lunghe e aggraziate del ragazzino sfiorarono quelle più corte e paffute del soldato mentre si riprendevano ciò che apparteneva loro. Fu un tocco lieve, ma John lo sentì come reale. E, per la prima volta da quando era morto, si sentì di nuovo vivo.
 
“Tu sei... Sei morto anche tu” mormorò poi. L’altro gli scoccò il più torvo degli sguardi. “Che cosa vorresti dire?” chiese. “Beh, siamo in Paradiso...” rispose John, iniziando a sentirsi a disagio con se stesso e tutto quanto. “È da sciocchi supporre che io sia morto solamente perché mi trovo qui. Bisogna disporre di tutti i fatti prima di formulare una teoria!” spiegò la giovane anima con una punta di fierezza negli occhi mentre raddrizzava il corpo esile. John arrossì ancora di più.
 
“Perdonami, sono... Arrivato da poco” addusse il biondo come scusa. “Lo vedo!” ribatté il ragazzino, con il piede sempre più pronto per scattare. John lo osservò in preda allo stupore: avrebbe voluto chiedergli come aveva fatto a dedurlo, ma si trattenne. Lungi da lui lo spauracchio d’apparire nuovamente scortese o inadeguato.
 
Ma il moro parve intuire molto facilmente ciò che gli stesse passando per la mente in quell’istante e parlò di conseguenza. “Quella che hai ancora indosso è inequivocabilmente la tua ultima immagine da vivo, quella completa di ombra” John dette un rapido sguardo a terra: ed eccola là, la sua vecchia ombra, che ancora seguiva fedelmente ogni suo movimento. Poi spostò lo sguardo verso i piedi del ragazzino che aveva di fronte: non c’era ombra alcuna. Non seppe se sentirsi rassicurato o totalmente inquietato dalla cosa. “Chiaro segno che non sei ancora pronto per trapassare del tutto e lasciarti alle spalle la tua vita terrena” continuò l’altro, con naturalezza e tracotanza assieme.
 
Il ragazzo biondo decise per la prima soluzione: i suoi occhi si illuminarono e sgranarono al contempo. “Oh, sapete addirittura leggere nel pensiero, voialtri!” bisbigliò ammirato. Ma di tutta risposta le labbra della giovane anima si piegarono all’ingiù in una smorfia di disgusto. “Non essere ridicolo. La lettura del pensiero esiste solo per chi crede nella stregoneria e altre baggianate simili. Questa è pura e semplice deduzione! Ma soprattutto io non sono voialtri!” borbottò, esibendo nuovamente quel broncio che il soldato biondo non esitava a definire delizioso.
 
“E ora devo assolutamente andare a testare la statica dell’aquilone su cime di altezza superiore a tremila metri!” sentenziò il ragazzino senza dargli la possibilità di scusarsi, mentre sgusciava finalmente via in quarta. Lo stupore sul viso di John si accese ancor di più. “Ci sono addirittura massicci montuosi qui in Paradiso?” chiese, alzando la voce e alzandosi sulle punte dei piedi.
 
La giovane anima si voltò verso di lui, senza tuttavia rallentare il passo. “Tutto ciò che immagini esiste! E tutto ciò che si trova in Paradiso prima o poi ritorna sulla Terra!” gridò, prima di sparire dietro una nuvoletta di una deliziosa sfumatura acquamarina.
 
“Aspetta! Non conosco nemmeno il tuo...” urlò John, ma il ragazzino non poteva più sentirlo. “...nome” concluse, quando attorno a lui era di nuovo calato un silenzio piatto e surreale. Il soldato sospirò e tornò a guardarsi intorno. Sospirò una seconda volta. Di nuovo solo nuvole, nuvole e ancora nuvole. A perdita d’occhio.
 
L’uragano con i riccioli color dell’ebano e gli occhi più belli d’una pietra preziosa che lo aveva investito solo pochi minuti prima non aveva lasciato strascichi alle sue spalle. Eppure John si ritrovò a sperare sorprendentemente – e ardentemente – che piombasse nuovamente a scombussolare la sua nuova... non-esistenza.
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  grazie a tutte voi, care lettrici, che continuate a seguirmi <3 E’ davvero un esperimento, questo, e spero di non deludervi!
[1] essendo questa l’esistenza di John precedente alla sua vita con Sherlock, ho pensato di sostituire l’Afghanistan con l’Iraq. [2] club che Moran amava frequentare e nominato in L’avventura della casa vuota. [3] frase che Kelly McGillis dice a Timothy Hutton nel film Accadde in Paradiso. [4] un ruolo nel gioco del rugby.

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Capitolo 3
*** UN ANNO PRIMA DELLA NASCITA ***


UN ANNO PRIMA DELLA NASCITA
 
 
 
John non avrebbe saputo dire se da quando era asceso in Paradiso fossero trascorsi mesi o, addirittura, anni. Ciò che, tuttavia, avrebbe potuto affermare con certezza era che la sua nuova non-esistenza non aveva subito radicali modifiche dal primo giorno.
 
Trascorreva gran parte del tempo sulla nuvola che era divenuta la sua dimora, in cima alla quale aveva immaginato la sua casa. Ovvero la tenda sotto la quale aveva dormito durante le ultime notti prima della sua morte.
 
Quando non se ne stava seduto a gambe incrociate davanti alla tenda, si avventurava in qualche passeggiata, che solitamente non durava mai molto poiché temeva che, se si fosse allontanato troppo, avrebbe smarrito la via di ritorno in tutto quel candido bianco accecante.
 
Un giorno, l’unico in cui s’era azzardato a camminare per ben venti minuti, si era trovato di fronte a qualcosa di sorprendente. Le soffici nuvole avevano lasciato il posto a una piccola piazzetta, al centro della quale si ergeva un bel pozzo antico, fatto di mattoni.
 
John si era guardato attorno, non senza una buona dose di sorpresa, fino a quando a un angolo della piazzetta non era apparso un bistrot [1]. Un ristorantino come quelli che colorano di sovente i paesini nella costa della Francia meridionale.
 
John non sapeva granché della Francia meridionale. A parte la sua amata Inghilterra e l’Iraq, non aveva messo il naso in nessun altro Paese, ma il caro nonno Watson l’aveva riempito, quando ancora portava i calzoni corti, di storie sulla Seconda Grande Guerra. Degli anni trascorsi in Francia e in Italia, con un fucile in spalla e gli scarponi fatti di cartone nei piedi [2].
 
Ecco, quello che John aveva di fronte pareva proprio aver preso vita da uno dei ricordi di suo nonno. Quasi quasi avrebbe addirittura potuto giurare di sentire La Marseillaise canticchiata da qualche parte poco lontano.
 
Forse era soltanto la sua immaginazione. Magari aveva finalmente imparato a far buon uso dei suoi ricordi, come aveva cercato d’insegnargli la cara Mrs. H.
 
Ma poi la porta del bistrot si aprì e, pian piano, ne uscirono diverse persone (o anime, per meglio dire) del tutto sconosciute al biondo capitano. Alcune erano giovani, altre anziane. C’erano delle coppie, che si guardavano negli occhi. E questi occhi sussurravano d’amore come nella più bella delle favole. Ma c’erano anche anime solitarie, che alla compagnia altrui preferivano quella di un quotidiano o di un buon sigaro.
 
John rimase a osservarle tutte stupito, mentre si attardavano a scambiarsi qualche parola prima di separarsi in direzioni diverse. Ma poi qualcosa accadde, che lo fece trasalire.
 
“John? John, sei tu, caro?” disse un’anima passandogli accanto. Era una vecchina ordinata e pulita, dai capelli color argento raccolti in uno chignon e agghindata in un bell’abito a fiori di seta. Aveva un’aria vagamente familiare agli occhi di John, cosa che non si poteva dire dell’uomo che passeggiava accanto a lei e che le reggeva amichevolmente il braccio.
 
La osservò per qualche attimo, poi un barlume di consapevolezza balenò nei suoi occhi. “Nonna. Nonna Watson...” biascicò alla fine, con un fil di voce.
 
“Mio caro! Quando sei arrivato? Non mi è stato detto nulla!” ribatté la vecchina, con l’anziano viso addolcito in un sorriso che conferiva una certa giovinezza ai suoi lineamenti. Ma John non rispose.
 
Non lo fece perché semplicemente era terrorizzato. Un conto era incontrare l’anima di persone decedute a lui sconosciute. Tutto un altro paio di maniche era interfacciarsi con qualcuno che lui conosceva. Qualcuno di cui era consapevole fosse realmente morto. Poiché si trattava della conferma che anche lui lo era.
 
Allora John fece l’unica cosa che era in grado di compiere, in quel momento; l’unica cosa che, da vivo, il soldato che era in lui non avrebbe mai fatto: darsi alla fuga. Senza proferir parola, strizzò gli occhi, lasciandosi avvolgere dal pensiero dell’unico luogo, in quel Paradiso, che gli ispirasse un qualche senso di protezione: l’ufficio di Mrs. Hudson.
 
Quando li riaprì, ogni cosa davanti ai suoi occhi era impegnata a vorticare rovinosamente su se stessa. Provò una fitta allo stomaco e un forte senso di vertigine. Trattenne a fatica un conato di vomito e, mentre abbassava nuovamente le palpebre, si accasciò a terra.
 
“Trasporto brusco?” Una voce femminile simile al ronzio emesso da una radio fuori frequenza gli penetrò nella testa. A fatica, aprì nuovamente le palpebre e cercò di mettere a fuoco il più possibile.
 
Era sprofondato in una poltrona di pelle. Morbida, accogliente. Una di tante tutte uguali in quella che aveva l’aria di una sala d’aspetto. Sopra la sua testa, un ventilatore a pale cercava pigramente di smuovere un po’ d’aria nella stanza, senza tuttavia fare un buon lavoro.
 
Poco più in là si trovavano una scrivania e una modesta schiera di schedari che a John parevano usciti dal più tipico dei telefilm anni Ottanta. Accanto a lui, invece, se ne stava una ragazza che lo stava osservando con aria preoccupata.
 
“Prova a pensare a uno dei tuoi ricordi preferiti. Potrebbe farti sentire meglio!” Questa volta la voce della ragazza (capelli corti, biondi e un trucco sobrio) risuonò meno stridente di prima. Era quasi piacevole.
 
“Mi sento meglio, adesso...” iniziò John, cercando di tirarsi in piedi. Ma la testa girava ancora, al punto che mise un piede in fallo e la biondina dovette sorreggerlo al volo per un braccio in modo da impedirgli di cadere di nuovo a terra.
 
“Se ti fa piacere, potremmo prendere un the assieme...” azzardò la giovane.
 
“No davvero, sto bene adesso” si scusò John mentre si accomodava nuovamente sulla poltrona, palesando un sorriso imposto dall’educazione. Non voleva perder tempo con quella donna, per quanto carina fosse: la sua unica urgenza era quella di parlare con Mrs. Hudson. Con qualcuno che lo capisse.
 
“Sono venuto per Mrs. H. È in ufficio?” domandò poi andando finalmente al sodo, mentre si guardava intorno. “Oh, sono desolata!” esclamò la biondina, con aria dispiaciuta. “È scesa sulla Terra giusto giusto stamattina all’alba” gli comunicò, sedendosi sul bracciolo destro di quella stessa poltrona e accavallando le gambe.
 
Gli occhi di John fecero del loro meglio, ma proprio gli fu impossibile non scivolare sulla coscia lunga e sinuosa messa in mostra dalla minigonna attillata. La ammirò. La contemplò. E si sentì un perfetto imbecille.
 
“Dunque Mrs. H... Mrs. H è diventata la nuova bambina di qualcuno...” balbettò, continuando a umettarsi le labbra con la lingua, divenute improvvisamente aride.
 
“Oh, no!” cinguettò giuliva la ragazza. “È solo giù a fare un giretto di controllo!” spiegò, inclinando il capo da un lato. La rivelazione fu così una sorpresa da riuscire a convincere gli occhi di John a staccarsi da quella gamba per tornare sulla sua proprietaria. “Un giretto di controllo?” ripeté.
 
“Già!” La ragazza strinse con decisione al petto la cartelletta che teneva tra le mani, dandosi un’importanza che non aveva. “Ogni tanto scende giù a controllare che vada tutto bene. Che le nuove anime siano state bene accolte, che gli angeli guardiani facciano il loro dovere e non mostrino le loro ali a sproposito... Cose così, insomma!”
 
John annuì e sorrise, fingendo di capire di che cosa stesse parlando la biondina. “E quanto pensi che dureranno questi controlli?” La ragazza si fece pensierosa, guardò per un attimo verso il soffitto, poi schioccò la lingua. “Tre o quattro giorni, credo. Può anche essere di meno... Questa volta è scesa con Gabriel!”
 
John evitò di chiedere se Gabriel fosse in realtà il famoso arcangelo, poiché già solamente il pensiero fu sufficiente a fargli tornare le vertigini. Non era d’aiuto nemmeno l’idea di dover trascorrere tre o quattro giorni senza poter confidare il suo disagio a qualcuno, in verità.
 
“Se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, puoi chiedere a me!” aggiunse lei, sbattendo maliziosamente le ciglia. Alle parole qualunque cosa lo sguardo di John si era precipitato come un razzo laddove si trovava poco prima, mentre la mente si preoccupò di chiedersi se mai esistesse il sesso, in Paradiso.
 
“Credo..” Deglutì. “Credo che...” Deglutì nuovamente. “Che aspetterò Mrs. Hudson” concluse finalmente, gli occhi costantemente incollati all’orlo della gonna.
 
La ragazza sospirò. “Concluderà il suo giro di controllo a Londra, come fa sempre! Come la invidio...” un altro sospiro. “Londra...” mormorò poi John a se stesso.
 
La sua città. Gli mancava terribilmente. Il sol pensiero lo riscosse dall’incantesimo che quel paio di gambe aveva lanciato al suo indirizzo.
 
“Tu sei mai stata sulla Terra?” chiese poi John facendosi serio e tornando a guardare la ragazza negli occhi. “Oh sì!” Le labbra di lei si atteggiarono a un sorriso radioso, ma che si spense immediatamente. “Ma anni, anni e ancora anni or sono. Ero a Londra nella più gloriosa delle epoche...” Il suo sguardo si perse via, in ricordi che avevano ancora il potere di scaldare quell’anima come se risalissero a poche ore prima. “L’epoca vittoriana...”
 
John si sentì attratto da quel pensiero e si avvicinò di più a lei, sfiorandole il braccio nel mentre. Senza malizia, tuttavia. “Davvero? E chi eri, se posso chiedere?”
 
“Facevo la governante. Era un lavoro interessante, viaggiavo spesso. Ho sempre viaggiato, anche da bambina. Con mio padre. Una volta aveva addirittura trovato un tesoro!” [3]
 
Alla parola tesoro, la ragazza strinse il braccio di John, in un guizzo d’entusiasmo che contagiò l’altro. “Wow...” fu il di lui commento, mentre si sistemava meglio sulla poltrona, incantato da quel racconto che prometteva d’essere davvero avventuroso.
 
“Mio marito era medico di professione, un ex soldato. Un tipo coraggioso. Ma non era quasi mai a casa. Anche lui viaggiava spesso. Sempre in giro con il suo migliore amico, a rischiare la pelle in un modo o nell’altro...” continuò la ragazza, sempre più coinvolta nel racconto della sua vita precedente. “Persino durante la luna di miele, ci credi? Se ne è fuggito a Parigi – a Parigi! – con il suo amico, parcheggiandomi a casa di quello svitato del fratello. Dietro a quel tizio lì, che si credeva il Napoleone del crimine…” concluse la ragazza, con un gesto stanco e annoiato della mano. “Lasciare una donna bella come te... Io non credo che ne sarei mai capace!” esclamò John con trasporto. La biondina gli sorrise, le gote lievemente imporporate di malizia.
 
“E poi? Cos’è accaduto?” Lei corrugò la fronte. “E poi... Sono morta. Ma non ricordo proprio come o quando...” “Oh, mi spiace...” “Anche a me...”
 
Poi la giovane notò che la sua mano era ancora stretta al braccio di John. “Se vuoi, puoi venire con me!” gli propose. Lui la guardò senza comprendere. “Che cosa vorresti dire? Venire con te dove?” “Rivivere alcuni dei miei ricordi, assieme. Se ci teniamo per mano e io penso intensamente a un ricordo, potrai viverlo anche tu, come se fosse anche tuo!”
 
La proposta della sconosciuta era seducente. Estremamente seducente. John guardò la mano sul suo braccio e poi lei direttamente negli occhi. Dischiuse le labbra per comunicarle la sua decisione quando un boato violento riecheggiò nella stanza, facendo tremare le pareti come se fossero state di cartapesta. I due si voltarono all’unisono verso la porta, che si era spalancata lasciando entrare un fiume di pioggia e foglie.
 
Un attimo dopo, da quella stessa porta fece capolino un uomo più largo che alto, che indossava un impermeabile grigio e teneva tra le mani un ombrello nero, bucato in più punti.
 
“Quando si dice tuoni e fulmini! Che tempaccio c’è sulla Terra, oggi!” disse l’uomo, aprendo e richiudendo più volte l’ombrello per far scivolare via tutta la pioggia. Si guardò un po’ in giro accigliato, notando l’assenza del portaombrelli. “Mrs. H, Mrs. H! Ma come fai quando piove?” chiese a se stesso. Allora strizzò gli occhi e, come per incanto, un portaombrelli in ottone apparve accanto all’attaccapanni di fronte alla porta. “Ecco, così va meglio!” gongolò l’uomo, liberandosi dell’oggetto fradicio.
 
Poi posò gli occhi prima sulla ragazza, quindi su John, squadrandolo in un attimo da capo a piedi come la più avanzata delle macchine per imaging radiologico. “Sta disturbando forse il nostro ospite, signorina Morstan?”
 
A quel richiamo ufficiale, le gote della giovane che rispondeva al nome di Morstan si tinsero di un’accesa sfumatura di viola. “No, Mr. H!” “Lo sa, vero, che non sta bene importunare le anime non ancora completamente integrate, signorina Morstan?” “Certo, Mr. H! Gli stavo solo tenendo compagnia in attesa che lei arrivasse” farfugliò, scivolando via dalla poltrona con aria colpevole.
 
“Non ha nulla di più urgente da fare, Mary?” insistette ancora il nuovo arrivato, togliendosi il soprabito bagnato e facendolo volare (letteralmente) sull’attaccapanni.
 
“Signorsì!” rispose lei, mettendosi sull’attenti e sparendo dietro la scrivania. L’uomo passò accanto a John, aprì la porta dello studio di Mrs. Hudson e vi sparì dentro, con un “Vieni, ragazzo, ti ascolto!”
 
Il giovane si alzò in piedi, confuso e indeciso sul da farsi. Guardò la signorina Mary Morstan, nella speranza che gli potesse dare qualche suggerimento utile. “È il principato Siger! Della stirpe degli Holmes!” bisbigliò, scandendo bene sia principato che Holmes. John lo osservò come per dire E dunque?
 
“Una delle figure più alte in carica, qui dentro” disse ancora lei. “Ragazzo?” gridò Siger dall’ufficio. Allora Mary fece a John un segno con la mano, a indicargli di sbrigarsi, e il ragazzo alla fine obbedì.
 
Mary Morstan lo osservò sparire nell’ufficio di Mrs. Hudson e, mentre la porta si richiudeva per magia dietro alle sue spalle, mormorò a se stessa: “Ricorda tutto ciò che puoi sulla mia vita precedente, John Watson, poiché ti sarà utile quando la tua anima tornerà sulla Terra…”
 
John si guardò attorno spaesato quando mise piede dentro l'ufficio di Mrs. H, ora di tal Mr. Siger Holmes: niente più buio bar di L'Havana, niente più accogliente tea room inglese. Attorno a lui c'era un salotto, di modeste dimensioni ma a cui non mancava nulla: i suoi occhi notarono due poltrone (diverse tra loro), un divano di pelle, un camino (acceso e scoppiettante), una scrivania (sotto due finestre ampie e luminose), un bello e grande specchio (nel quale John ebbe timore a specchiarsi) e una libreria carica di libri d'ogni genere (su una mensola, il ragazzo notò anche un teschio, ma evitò di far domande).
 
"Accomodati pure dove preferisci, ragazzo!" disse il principato Siger, soffiandosi sulle mani e strofinandole tra loro alla ricerca di un po' di calore.
 
"Io... Dove siamo? Se mi è permesso..." domandò poi John, muovendo un paio di passi verso le finestre. "Oh, a Londra!" Una sola parola e il soldato si bloccò dov'era. Avrebbe giurato di aver sentito il suo cuore sussultare e il suo sangue pompare al massimo nelle vene. Un solo nome e a John Watson parve d'essere tornato vivo. "Londra..." mormorò, affacciandosi speranzoso a una delle finestre.
 
Ed eccoli laggiù, i marciapiedi innevati. Eccolo lì, un taxi nero che sfilava nella strada. Eccoli là, i passanti perennemente di corsa. Il cuore del ragazzo galoppava e faceva le capriole al centro del petto. John schiacciò ancor di più il naso contro il vetro, ansioso di divorare con gli occhi ogni angolo di ciò che riuscivano a scorgere.
 
E laggiù cos'altro c'era? La fermata della tube. Baker Street, gli parve di leggere. “È davvero Londra, questa?” mormorò a fior di labbra. “Oh, no, ragazzo! È solo una proiezione dei miei ricordi!”
 
Una grigia tristezza indurì i lineamenti di John. "Ti manca, non è vero?" la voce rassicurante del principato gli giunse a un orecchio. "Più di qualsiasi altra cosa..." rispose, lo sguardo ancora incollato sulla strada. A malincuore, si staccò dalla finestra e raggiunse Siger, che si era accomodato sulla poltrona di pelle nera. John prese posto nell'altra.
 
"Non l'hai ancora superato, vero?" proseguì il principato, con un sorriso. John notò che nella mano destra dell'angelo era apparso un bicchiere di cristallo. Al suo interno, due dita di ciò che gli parve brandy.
 
Il soldato scosse la testa, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo. "Già, la tua divisa ancora sporca di sangue lo urla a chiare lettere..." bisbigliò Siger, dando fondo al suo brandy in un sol sorso. John ebbe l'impressione che anche lui portasse un grosso peso sulle spalle. O sulle ali...
 
"Mi abituerò mai?" chiese John, il respiro che moriva nell'aria, in attesa di una risposta. "Alcuni si abituano in meno di un'ora. Per altri, beh... Sono necessari anni" Uno schiocco di dita e il bicchiere si riempì. "Vuoi favorire?" John rifiutò educatamente. "Mi piaci, ragazzo" commentò Siger, prima di avvicinare le labbra al bicchiere.
 
"Ho incontrato... Ho incontrato mia nonna oggi. È morta." Una pausa. "Beh, ovvio che lo era..." aggiunse, sentendosi alquanto stupido. Siger annuì, incitandolo a proseguire. "Sono scappato. Mi sono sentito sopraffatto e sono scappato via, finendo qui." John tacque, nella speranza che il principato dicesse qualcosa al suo posto.
 
Siger terminò il suo secondo bicchiere di brandy e, con uno schiocco di dita, il bicchiere sparì esattamente com'era apparso. Poi si chinò in avanti, chiuse gli occhi e appoggiò la mano destra, a palmo aperto, proprio nel centro del petto di John. Il ragazzo sussultò: la testa prese a girare, le gambe a farsi molli, così tanto da rallegrarsi d'esser seduto, poiché altrimenti sarebbe finito a terra. Di nuovo.
 
Per un attimo, gli parve di riuscire a sentire il suo cuore battere, amplificato nell’aria, come se fosse seduto su una terza sedia accanto a loro. Percepì una sensazione di tepore che si espanse rapidamente in tutto il corpo. E, soprattutto, si sentì in pace. Con se stesso, con il cecchino iracheno che aveva posto fine alla sua vita, con sua nonna, con suo padre nel cui nome s’era arruolato.
 
Quando Siger ritrasse la mano, il ragazzo temette che la piacevole sensazione che aveva provato scomparisse da un secondo con l'altro, ma non fu così. Si sentiva ancora bene.
 
"Il tuo cuore è puro, John Watson. Non devi temere nulla. E nulla deve temere te" disse Siger, aprendo gli occhi. John si sentì trasalire, quando si trovò di fronte a quegli occhi. Così belli, così puri. Gli parve d'averli già visti, d'averli già ammirati.
 
"Prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno, John. Anche se questo dovesse dire diventare un po' egoista. Non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso" continuò il principato, sfregandosi ancora le mani e alzandosi in piedi. "Dovresti sceglierti un hobby. Chissà, la pesca, il bridge, la scrittura... Basta che non provi a volare... Le ali non crescono da un giorno con l'altro. Devi compiere un'azione meritevole, come mettere la tua vita in gioco per salvare quella di qualcun altro... Altrimenti rischi di ritrovarti spiaccicato a terra, come è capitato al mio piccolo Sherlock!" sentenziò il principato, parlando tutto d'un fiato.
 
"Oh, certo... Mi aveva già redarguito Mrs. Hudson appena giunto qui" commentò John, alzandosi in piedi. "Povero ragazzo..." continuò Siger accorato, "ha così voglia di scendere sulla Terra, ma non lo reputo ancora pronto." Il principato fece schioccare le dita e, accanto a lui, apparve uno schedario non troppo in buono stato. "Da qualche mese invece è fissato con gli aquiloni..." borbottò, mentre iniziava a scartabellare.
 
Un barlume di consapevolezza passò attraverso gli occhi del ragazzo. "Gli occhi! I vostri occhi, sono uguali!" esclamò. Siger si voltò a osservarlo, incuriosito. "Credo di aver incontrato suo figlio Sherlock” spiegò, lievemente imbarazzato. “Aveva in mano un buffo aquilone a forma di ape. Mi ha detto che andava a testare qualcosa su una montagna..."
 
"Per la barba di giosafatte!" esclamò il principato, accalorandosi. "Hai parlato con Sherlock? Proprio mio figlio?" Siger era così stupito che, per reazione, di colpo mostrò a John le ali in tutta la loro magnificenza.
 
L'apertura alare del principato Holmes era così maestosa che il giovane soldato indietreggiò di qualche passo, intimorito. "Oh, scusa, ragazzo!" farfugliò l’angelo, nascondendo immediatamente le bianche piume.
 
“Sai, ragazzo, mio figlio non parla mai con nessuno. Parla a malapena in generale...” La voce del principato si affievolì sino a divenire appena più di un sussurro, mentre abbandonava lo schedario e tornava a sedersi. Se già solo pochi minuti prima il giovane John appariva una creatura deliziosa ai suoi occhi, dopo quella rivelazione lo era diventato ancor di più. “Devi essere un’anima davvero interessante se mio figlio ha voluto parlarti” disse poi, lo sguardo pieno di ammirazione.
 
John arrossì. “Beh, in realtà si è trattata di una circostanza fortuita. Ci siamo... scontrati. Lui ha intercettato il mio cammino!” spiegò. Siger rise divertito. “Sono certo che, se lo domandassimo a lui, Sherlock direbbe che eri tu ad aver intralciato il suo!” Il giovane sorrise, sentendosi un po’ meno imbarazzato. “Abbiamo solo parlato per qualche minuto. Di aquiloni. E del fatto che fossi appena... morto.”
 
Gli occhi del biondo si tuffarono a contemplare la punta dei suoi scarponi militari, pregni di nostalgia. “Credimi, ragazzo mio, è già stato molto. E te ne sono grato!” “Ma non ho fatto nulla di che, davvero” ribatté John, tornando a guardare il principato in volto. “Oh, lo è stato! Lo è stato...” Poi Siger si ammutolì, mettendosi a riflettere. Per un attimo, le sue grandi ali fecero di nuovo capolino sulla sua schiena, in segno della sua eccitazione, ma l’angelo si preoccupò di tornare immediatamente a celarle.
 
“Dimmi, John. Ti andrebbe di provare a fare amicizia con mio figlio?” domandò, la speranza insita in ogni lettera. Il ragazzo dischiuse le labbra senza tuttavia dir nulla, soppesando la proposta. “Avere qualcuno di speciale con cui parlare potrebbe finalmente aiutarlo a prepararlo per quando verrà al mondo” continuò Siger. “Ma io non sono così speciale!” Di nuovo quel sorriso che illuminava tutta la stanza. “Se Sherlock ti ha concesso se stesso per qualche minuto, significa che ti considera così, ragazzo mio!” []
 
Allora John annuì, distogliendo lo sguardo mentre rifletteva ancora sul compito ricevuto. “Non è detto che vorrà ancora parlare con me, però...” “Qualunque cosa andrà bene. In un solo minuto, in una sola frase detta tra due anime, in un sol sguardo scambiato da due persone può essere racchiusa una vita intera” spiegò Siger con tutta la dolcezza tipica di un padre. E di un profondo conoscitore dell’animo umano.
 
“Va bene, lo farò. Parlerò di nuovo con Sherlock” proferì il giovane, questa volta con più decisione. Il principato si alzò in piedi: era evidente che non stava più nella pelle. “Cosa devo fare, ora?” “Adesso chiudi gli occhi e concentrati sul suo ricordo” spiegò Siger, imponendo le mani sulle sue tempie. “Rilassati e pensa a lui molto intensamente” continuò, massaggiandole molto lentamente. “Stai pensando a lui?” Un mhm di piacere e conferma sgattaiolò dalle sottili labbra di John. “Bene...” Il ragazzo si morsicò con insistenza il labbro inferiore: sentiva che era pronto a partire, a essere proiettato fuori di lì.
 
“E ora John Watson può riunirsi a Sherlock Holmes...”
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  perdonate il ritardo con cui aggiorno, ma vi confesso che sono un po’ dubbiosa nei confronti di questa storia; è davvero complicata e richiede moltissime energie da parte mia. Mi auguro continuerete ad apprezzarla ugualmente!
 
[1] il bistrot vuole omaggiare sia Il ristorante al termine dell’Universo di Douglas Adams, sia il film Una buona annata con Russell Crowe. [2] dai racconti di mio nonno sulla campagna di Russia: i nostri soldati portavano davvero scarpe fatte di cartone. [3] la mia Mary sarà un miscuglio tra quella di Doyle e quella di Ritchie.
 
 

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Capitolo 4
*** NESSUNA MONTAGNA È COSI' ALTA DA IMPEDIRMI DI VENIRE DA TE ***


Angolo dell’autrice:  consiglio di leggere questo capitolo ascoltando a tutto volume la splendida Ain’t no mountain high enough di Marvin Gaye sulle cui note danzeranno Sherlock e John…
 

 
 
NESSUNA MONTAGNA È COSI' ALTA DA IMPEDIRMI DI VENIRE DA TE
 
 
Un cavallo imbizzarrito che galoppa a briglie sciolte. Il Concorde che, con i freni in avaria, travolge ogni cosa al suo passaggio sino a uscire fuori pista. Un siluro sparato alla massima potenza contro il suo bersaglio. E vertigini. Tante, tantissime vertigini.
 
Fu così che si sentì John Watson quando il principato Siger lo sparò a tutta velocità verso il suo nuovo bersaglio. Atterrò con così tanta furia che i piedi non gli stettero dietro: inciampò e ruzzolò contro qualcosa di freddo e duro.
 
"Dannazione" imprecò. Aveva ormai perso il conto di quante volte aveva rischiato di cadere, quel giorno. Si aggrappò con forza alla cosa contro cui era andato a sbattere, tirandosi su piano. Era un tavolo. Si guardò intorno, chiedendosi se il signor Holmes lo avesse spedito davvero nella giusta destinazione. E il suo giudizio fu: impossibile da determinare.
 
Il luogo in cui si trovava era qualcosa che stava all'incrocio tra la Bat-caverna e il retrobottega di un rigattiere.
 
La luce era scarsa. Il soffitto era basso. Le pareti erano grezze, non intonacate. Dappertutto regnava il caos più totale. Ovunque voltasse il capo, John notava di tutto e di più: becher pieni di liquidi strani e colorati, libri dei più svariati argomenti (come una monografia sulla flora tipica delle Bermuda o un saggio di dubbia utilità su come uccidere il proprio consorte in 41 modi diversi e farla franca), una mazza da baseball e persino alcuni piattini da coltura sui quali troneggiavano dei poveri rospi senza vita e che emettevano un odore nauseabondo.
 
Dopo una seconda occhiata, il ragazzo si rese conto che il tavolo era in realtà una scrivania: riconobbe una tastiera per computer (del computer invece nessuna traccia), un barattolo di vetro simile a quelli per caramelle che si trovavano nelle botteghe d'un tempo (che al posto delle caramelle ospitava invece un numero impressionante di api vive impegnate pigramente a ronzare) e persino un violino un po’ ammaccato completo di mentoniera.
 
Infine, sotto una pila di quadernoni ancora inutilizzati, John intravide un familiare pezzettino di carta nera. Allungò tentennante una mano per scostare i quaderni ed eccolo lì: l'aquilone a forma di ape.
 
"A quanto pare, sei davvero finito nel posto giusto, John Watson" disse a se stesso con un fil di voce. Il luogo giusto, forse, ma del suo proprietario non v'era traccia evidente. Sospirò. Un attimo dopo, i suoi occhi scorsero una sedia appoggiata malamente a una parete. Sulla seduta era appoggiata un teiera sbeccata e impolverata. La prese e l'accomodò in qualche modo sulla scrivania, quindi si sedette mantenendo una postura alquanto rigida.
 
Iniziò nuovamente a tamburellarsi entrambe le ginocchia con le dita. A destinazione ci era arrivato, in qualche modo. Adesso, che cosa avrebbe dovuto fare? Che cosa prevedeva la sua missione?
 
"Afghanistan o Iraq?" echeggiò una voce nell’aria.
 
John fece un balzo sulla sedia. "Chi sei? Dove sei?" Uno sbuffo. "Quassù! Alza gli occhi: le stanze hanno anche un'altezza!"
 
Il soldato ubbidì e finalmente lo vide. Se ne stava appollaiato su una trave di legno, aggrappato per i piedi e a testa in giù. I riccioli scuri ricadevano scomposti in avanti. Una mano scostò il ciuffo ribelle in modo da riuscire a vedere meglio il suo interlocutore. In quella posa, Sherlock Holmes ricordava un piccolo pipistrello.
 
"Allora, Afghanistan o Iraq?" ripeté la giovane anima con aria annoiata, prima di spiccare il volo. Atterrò davanti a John in equilibrio perfetto, come il più abile dei giocolieri.
 
Il giovane dai capelli biondi bofonchiò un incerto Iraq, mentre si spalmava contro lo schienale della sedia, lievemente scosso.
 
"Da quant'è che sei qui?" continuò Sherlock, iniziando a scartabellare tra gli oggetti gettati alla rinfusa sulla scrivania. “In Paradiso, intendo.” "Io... Non lo so esattamente" rispose l'altro, decidendosi finalmente di alzarsi. "Da quando ci siamo visti la prima volta, più o meno." "Allora sono tre settimane, un giorno e tredici ore" disse il ragazzino, pescando un orologio da taschino con gli ingranaggi a vista dalla tasca posteriore dei pantaloni.
 
“Come mai sei venuto a cercarmi?" continuò poi, annusando la rana dentro il piattino di coltura e annuendo soddisfatto. "Chi ti dice che sia venuto a cercarti?" rilanciò John, fingendo un'aria disinteressata. Il sopracciglio inarcato dell'altro suggeriva che non credeva nemmeno a una sillaba di quanto appena udito. "Vuoi dirmi che ti sei imbattuto per caso in questo posto che si trova a ventuno leghe celesti sotto i Cancelli e a duecento gradi a ovest del Tunnel?” "Ecco... No" ammise il soldato, sprofondando nell'imbarazzo.
 
"Dunque hai detto una bugia" gli fece notare la giovane anima con supponenza. Il viso di John si rabbuiò. "Oh, no... Vuol dire che adesso finirò negli Inferi?" bisbigliò allarmato. I suoi occhi scivolarono in preda al terrore verso i suoi piedi, dove temette che da un secondo con l'altro dovesse aprirsi una voragine che lo avrebbe trascinato nelle Tenebre, esattamente com'era accaduto a Sebastian. Le labbra di Sherlock si incresparono in un ghigno. "Non finisci negli Inferi per una bugia!"
 
John soffiò sollevato alla notizia. "Meno male, per un attimo ho creduto... Ho creduto..." Scosse la testa, le parole che gli mancavano come l'aria. "Ho visto un amico, un compagno, cadere negli Inferi" aggiunse con un sorriso triste dipinto sul viso. "E io mia madre" ribatté l’altro, senza tuttavia alcuna nota di emozione nella voce. "Oh... Ne sono desolato" disse John. Provò l'impulso di aggiungere altro o fare altro, magari sfiorargli il braccio in segno di solidarietà, ma, notando l'impassibilità del suo interlocutore nello sguardo e nelle parole, desistette immediatamente.
 
"Perché dovresti esserlo? Non la conoscevi nemmeno." Il soldato osservò confuso il ragazzino. "Sul serio: perché dovresti essere dispiaciuto per una persona che non conosci?" insistette Sherlock; lo stava osservando davvero senza capire. Nemmeno John capiva, in verità. "Non la conoscevo, infatti. Ma conosco te." Una pausa imbarazzata. "Beh, poco, ma ti conosco... E mi dispiace."
 
"Non credo tu debba dispiacertene: c'è gente che va all'Inferno e gente che va in Paradiso. Punto" sentenziò la giovane anima, continuando a frugare tra le sue cose: un attrezzo per cuocere un uovo al microonde, il mulinello di una canna da pesca...
 
John si sentì punto sul vivo: era stato gentile con lui, ma adesso aveva solo voglia di mandarlo a quel paese. "Va bene, fai come se non avessi detto nulla" borbottò, voltandosi e facendo per andarsene. Poi si bloccò, non sapendo bene come poter uscire di lì, e d'improvviso si ricordò dell'incarico ricevuto dal principato. Sbuffò.
 
"Adesso vuoi dirmi la verità? Circa il motivo che ti ha condotto qui?" chiese il ragazzino. Il soldato si voltò piano: sorrise quando vide che teneva un rampone da montagna in una mano e un orsacchiotto nell'altra. "Mi ha mandato tuo padre. Ha pensato che potessi gradire un po' di compagnia."
 
Sherlock roteò gli occhi, irritato. "Si sbaglia. Quello che potrei gradire davvero è nascere!" gridò, allargando le braccia e inclinando il capo all'indietro. "Ma lui, no! Pensa che non sono pronto!" continuò a bofonchiare, mettendo giù l'orsetto e tirando fuori da un cesto un cappello da pirata. John si avvicinò lentamente, non senza il timore che la giovane anima, nella sua rabbia, potesse prendere qualcosa da quel cesto e tirarla al suo indirizzo.
 
"È logico, Sherlock: è tuo padre. Tutti i padri fanno così" spiegò il soldato, con dolcezza. Il ragazzino smise di colpo di rovistare e lo guardò con sorpresa. "Davvero?" John si morsicò con disagio le labbra. "Quelli sulla Terra, sì. Per un papà, rimani per sempre qualcuno da proteggere. Persino da adulto..." Il figlio del principato Siger lo guardò con occhi dilatati dall'interesse. "Se poi sei una femmina, allora rimarrai non pronta sino alla morte!" scherzò il biondo, ma quando vide un'ombra di disapprovazione oscurare gli occhi chiari di Sherlock, s'affrettò a cambiare registro. "Ovvio, tu non sei una femmina! Era solo un esempio..."
 
"Forse dovrei compilare un nuovo modulo di richiesta di nascita e presentarlo a un altro principato..." mormorò la giovane anima; poi tirò fuori dal cesto una maschera quadrata gialla da apicoltore e la contemplò con aria soddisfatta. Dopodiché, portò lo sguardo su John e tornò a essere serio in viso. "Sto andando a fare un esperimento. Verrai con me questa sera?"
 
Al soldato biondo inspiegabilmente mancò per un attimo il respiro. "Quando vuoi e dove vuoi" rispose, con un fremito d'eccitazione nella voce. "Prendi questo, allora!" ribatté Sherlock, lanciandogli il casco che l'altro prese al volo. "E cambiati vestito: direi che sia il caso di gettare quella tuta mimetica nel dimenticatoio!"
 
Allora John chiuse gli occhi e pensò con molta intensità al suo vecchio armadio e ai suoi vecchi vestiti. Jeans, camice, comodi maglioni, felpe… Ce n'erano di cose tra cui scegliere, ma chissà quali sarebbero state più adatte per il Paradiso.
 
"Jeans e camicia vanno decisamente bene" udì all'improvviso. Quando il biondo riaprì gli occhi, notò che indossava un paio di blue jeans (i suoi preferiti), una camicia a scacchi rossa e un paio di scarponcini beige. S'era cambiato d'abito e nemmeno se n'era reso conto. Ma aveva ricevuto l'approvazione del figlio del principato, perciò andava bene.
 
"Oh, okay..." farfugliò, scandagliandosi da capo a piedi. "Bene, ora possiamo andare!" e in un attimo sentì la mano di Sherlock sulla sua che lo trascinava via.
 
 
 
§§§
 
 
 
La giovane anima Sherlock aveva trascorso intere mezz'ore a mettere nero su bianco gli appunti che aveva memorizzato durante quell'intero pomeriggio trascorso a osservare il comportamento delle api.
 
A volte, le sue lunghe dita da violinista correvano rapide ed eleganti sulle pagine color avorio di quel taccuino dalla sobria copertina nera in pelle.
 
Altre, quando forse i concetti da trascrivere erano troppo complessi, strizzava gli occhi, riviveva il ricordo e, come per  incanto, le sue parole apparivano scritte sulla carta.
 
John lo osservava con stupore e ammirazione, seduto accanto a lui. Non gli era importato troppo, in tutta onestà, del loro piccolo esperimento di quel pomeriggio. Era rimasto lì, steso a pancia in giù accanto a Sherlock su quella piccola nuvoletta azzurra, a imparare termini per lui totalmente privi di significato come arnia, favo, cella e a osservare quei piccoli esserini al lavoro, soltanto perché c'era Sherlock.
 
Soltanto perché gliel'aveva chiesto Sherlock.
 
Soltanto perché era rimasto affascinato da Sherlock...
 
Lo ammaliava il modo in cui i suoi occhi guizzavano rapidi da un'estremità all'altra dell'alveare; da quello in cui il suo naso, a un millimetro dal suolo, annusava e scandagliava con un talento da far invidia al più abile dei segugi; soprattutto, dal modo in cui le sue belle labbra si increspavano lievemente all'insù quando veniva a capo di qualcosa.
 
John subiva lo stesso fascino anche ora che l'anima Sherlock non lo degnava d'uno sguardo, anche ora che pareva immerso in un mondo a mille anni luce da lui e dal Paradiso: il mondo della deduzione.
 
Volse lo sguardo verso l'alto, verso il soffitto di quella che aveva segretamente ribattezzato "Sherlock-caverna": ora aveva un aspetto totalmente diverso; era soffice e dai profili dorati, che parevano quasi note musicali dipinte su un pentagramma color della notte.
 
Rimase lì a contemplarlo per un tempo indefinito, chiedendosi se non fosse stata la mente dell'anima Sherlock, uno dei suoi ricordi (o, meglio, uno dei ricordi altrui che lui aveva cercato di far propri) a produrre quella magnifica volta.
 
Se lo stava ancora domando quando udì un Toc sordo e qualcosa lo urtò. Fu una frazione di secondo e poi John si rese conto di cosa fosse accaduto: Sherlock era caduto addormentato.
 
Era caduto addormentato contro la sua spalla.
 
Le labbra del soldato si addolcirono in un sorriso e i suoi occhi scivolarono morbidi sul viso del giovane. Le ciglia lunghe e nere che ondeggiavano appena al movimento delle pupille sognanti, le gote tinte d’una lieve sfumatura di carminio, le labbra dischiuse come un fiore appena sbocciato e i riccioli disordinati e ancora sudati gli scaldavano il cuore, regalandogli una ventata di dolcezza a lui finora sconosciuta.
 
Sherlock sosteneva con fierezza d'avere "ben" diciassette anni, quattro mesi e diciotto giorni, eppure la creatura che riposava beata accanto a lui raccontava un'altra storia: quella di un bimbo appena nato.
 
E quella del migliore dei compagni di scuola. O del più fedele degli amici nella prima età adulta. Oppure, ancora, del più innamorato degli amanti. O, infine, dell'ultimo compagno nella vecchiaia.
 
L'anima Sherlock era un concentrato di vita e, paradossalmente, non era ancora nata.
 
John si sorprese a deglutire e il suo corpo a tremare appena quando la sua mente formulò il più sconsiderato dei pensieri: si domandò come sarebbe stato accarezzarlo. Scosse la testa, come se solo l'aver formulato quel pensiero lo rendesse in qualche modo impuro. Ma poi il respiro caldo di Sherlock gli accarezzò il collo e John si ritrovò a osare di più: si chiese come sarebbe stato baciarlo.
 
Un bacio piccolo, a stampo. Fraterno. Su quella fronte ampia e spaziosa. Accostare le labbra a quella pelle, soltanto per un attimo. Soltanto per capire di che consistenza fosse la fronte di un'anima.
 
Un secondo, un secondo soltanto.
 
Con labbra tremanti, John si chinò e permise loro di sfiorare con riverenza la fronte dell'anima Sherlock. Era fresca, vellutata. Simile a quella degli umani e molto, molto di più. Ci stavano bene le sue labbra, là sopra. Nemmeno fossero state plasmate apposta...
 
Fu davvero soltanto un secondo e poi di nuovo John raddrizzò la schiena. Sorrise, mentre i suoi occhi si cibavano di nuovo di quella dolce vista.
 
Forse, dopotutto, avrebbe potuto concedersi un altro secondo. E un altro bacio...
 
La fronte appariva più fresca sotto il secondo bacio. E al terzo ricordava il solletico che ti fa provare il vento sulla pelle. Un quarto bacio tentò John, ma il soldato ebbe timore che la sua sconsideratezza potesse disturbare il sonno della giovane anima e dunque vi rinunciò.
 
Resistette solamente pochi minuti, trascorsi i quali si disse che "magari un quarto bacio sarebbe stato troppo, ma una carezza forse no". Allora alzò la mancina per posarla su quella testolina adagiata contro la propria spalla, bloccandosi tuttavia a metà strada. Sospirò, prese coraggio e, con tutta la delicatezza di cui fu capace, la posò con leggiadria su quella chioma scura. Sorrise a se stesso prima di accarezzarla dolcemente. Ci stava proprio bene, la sua mano, in quel groviglio di riccioli.
 
 
 
§§§
 
 
 
Sherlock si svegliò balzando in piedi ed emettendo uno strano verso che a John ricordò molto quello dei suoi commilitoni che riprendevano a respirare dopo la somministrazione d’una scarica elettrica e la cosa lo destabilizzò così tanto da versare fuori dalla tazza parte del the che stava preparando.
 
"Dannazione, mi sono addormentato!" borbottò la giovane anima, scuotendo la testa e guardandosi attorno con aria accigliata. "Va... va tutto bene, Sherlock?" domandò John, la teiera a mezz'aria e l'aria ancora preoccupata. "No, non va affatto bene. Ho perso tempo a dormire..." Poi i suoi occhi notarono la matita e il suo taccuino d'appunti riposti ordinatamente sulla scrivania e un'ombra di sollievo s’adagiò sul suo viso.
 
"Non capisco perché lo hai messo qui" continuò a lagnarsi, scorrendo rapidamente le pagine del quadernino. "Oh, non volevo si sciupasse!" rispose John con un bel sorriso, aperto e sincero, mentre finiva di sistemare le tazze e i piattini. "Ho preparato il the, se hai voglia di un sorso!" aggiunse, il sorriso che si faceva via via più radioso.
 
"Lo vedo" fu il commento poco gentile dell'altro, mentre arricciava le labbra. "Solo non ne capisco il motivo..." Non lo capiva e apparentemente non apprezzava la cosa, tuttavia si avvicinò al tavolino e alle due sedie che erano apparsi dal nulla nella sua caverna. Appoggiò con fare sospettoso entrambe le mani a una di esse.
 
"Beh, tu mi hai reso partecipe di una cosa che piace a te. Ora vorrei fare altrettanto con una cosa che piace a me..." spiegò John, tuffando lo sguardo nelle tazze per evitare di incontrare gli occhi di Sherlock. Lo sentì farfugliare qualcosa di incomprensibile, poi con la coda dell'occhio lo vide accomodarsi. "Grazie" mormorò il soldato. "Non ti emozionare troppo: l'ho fatto solo perché potrebbe rivelarsi un interessante esperimento" ribatté l'altro, inarcando un sopracciglio. John si mise a ridere e, nonostante tutti gli sforzi per rimanere serio, anche Sherlock gli andò dietro.
 
"Ebbene, non mi versi il mio the?" lo incitò la giovane anima. Il biondo borbottò qualcosa di simile a Non sono la tua cameriera, ma nonostante questo non solo riempì la tazza di Sherlock ma fece addirittura apparire dei biscottini al limone. "Stai diventando bravo..." si lasciò scappare il figlio del principato.
 
E John arrossì.
 
 
 
§§§
 
 
 
"Suoni il violino..."
 
"E tu constati l'ovvio!"
 
Erano sdraiati a pancia in su, entrambi con le mani intrecciate dietro la nuca. La volta della caverna si era trasformata in un delizioso bersò di magnolie in fiore.
 
"Mi suoneresti qualcosa?"
 
"Che cosa ti piacerebbe?" Sherlock parlava tenendo gli occhi chiusi, il corpo immobile e muovendo appena le labbra. "Mi piacerebbe quello che piace a te..."
 
In un attimo, l'aria si riempì d’una musica alle sue orecchie sconosciute. Le prime note furono così stridenti che John strizzò gli occhi e si morsicò un labbro come reazione, ma in un attimo il rumore si trasformò in melodia, una dolce armonia che riusciva a entrargli dentro, facendogli provare brividi insoliti e sconosciuti. Una sonata di cui ignorava il nome e l'autore, eppure in grado come ben poche cose di smuoverlo ed emozionarlo.
 
Poi John si tirò a sedere di colpo, fissando l'amico con aria sgomenta. "Ma tu non stai suonando!" balbettò. "E tu stai di nuovo constatando..." "No, sul serio, Sherlock. Tu non stai suonando!" La giovane anima aprì un occhio e fissò il biondo, prima di richiuderlo un secondo dopo. "Lo puoi fare con il pensiero, qui in Paradiso" spiegò. Allora il soldato si voltò verso la scrivania e lo vide: al centro della caverna se ne stavano il violino e l'archetto di Sherlock, flottando e danzando nell'aria come per magia. Fu una scena bellissima, pressoché indescrivibile, in grado tuttavia di strappare una lacrima agli occhi di John.
 
"Meraviglioso..." sussurrò, in completa ammirazione. Il ragazzino si strinse nelle spalle. "Sono convinto che ci puoi riuscire anche tu" disse, sminuendo la cosa. "Oh, io non so suonare strumenti!" "Ma ci sarà pure un brano, una canzone di quando eri sulla Terra che non hai dimenticato." Il soldato ci rifletté su per qualche attimo. "Credo... credo di sì."
 
E, come per incanto, violino e archetto si adagiarono sulla scrivania, sparendo inghiottite dalla loro custodia che si richiuse con un acuto clank. Al loro posto, comparve un jukebox degno dei più famosi telefilm americani ambientati negli anni Cinquanta. La macchina si accese, illuminandosi di tutti i colori dell'arcobaleno. Giallo, verde e l’azzurro più brillanti… Il meccanismo a margherita selezionò automaticamente un disco (l'unico disponibile, in verità) spostandolo nel piatto del giradischi. E le voci suadenti di Marvin Gaye e Tammi Terrell li avvolsero con calore.
 
"Ci sono riuscito..." mormorò incredulo il biondo. "Ovvio che sì, mi pareva d'avertelo detto" fu il commento indolente del moro. "Ma allora la telepatia esiste!" John si sentì così elettrizzato da non sapere più in che cosa credere. "Non essere sciocco! È solo controllo mnemonico a distanza!" tagliò corto la giovane anima.
 
"Chiamalo come ti pare, ma è una cosa straordinaria!" Per quanto si sforzasse, John non riusciva a staccare lo sguardo dal jukebox. "Una delle mie canzoni preferite..." "Ti dirò che l'avevo dedotto!" lo canzonò Sherlock. "Quante volte ho ballato sulle sue note! Quanto mi piaceva..." La voce del soldato si affievolì in ricordi che parevano distanti anni luce. "Se solo potessi ballarla ancora..."
 
"E chi te lo vieta?" domandò l'altro sardonico. "Vedi qualcuno con cui potrei farlo?" Di tutta risposta, Sherlock guardò John e gli tese con naturalezza una mano. "Sì, io!" Il viso del biondo sbiancò. "Che cosa stai facendo?" "Ti sto invitando a ballare, ma se persisti a costringermi a sottolineare l'ovvio potrei ritirare la mia offerta" bofonchiò la giovane anima.
 
"Ma tu sei un maschio! Due maschi non ballano!" protestò il soldato a pieni polmoni. "John, se non ti sbrighi, la canzone finirà presto" disse Sherlock, ondeggiando la mano e incurante delle proteste dell'amico.
 
Il biondo tentò di nuovo di porre resistenza, ma poi ripensò alla sua mano, che solo poco prima aveva accarezzato quei morbidi capelli, alla sua bocca, che aveva accarezzato quella pelle invitante e allora farfugliò un convinto "Ma chi se ne frega!" e accettò la mano che Sherlock gli offriva.
 
 
 
Ohhh
Ain't no mountain high
Ain't no vally low
Ain't no river wide enough, baby

If you need me, call me
No matter where you are
No matter how far
Just call out my name
I'll be there in a hurry
You don't have to worry

 

Remember the day
I set you free
I told you
You could always count on me darlin'
And from that day on I made a vow
I'll be there when you want me
Some way, soooooome how

 
Ohhh
Ain't no mountain high
Ain't no vally low
Ain't no river wide enough, baby


 
Era caldo il corpo di Sherlock mentre John lo stringeva a sé.
 
Erano goffi i suoi piedi mentre cercavano di seguire i propri.
 
Erano divertenti i suoi commenti circa il testo della canzone ("Davvero qualcuno potrebbe mai fare un giuramento del genere? Promettere a un'altra persona che per lei ci sarà sempre?" "Sì, Sherlock, succede. Si chiama amore!").
 
Era deliziosa l'espressione sul suo viso che pareva dire a John che, se anche non fosse mai nato, non avrebbe più avuto così tanta importanza, se avessero potuto trascorrere il resto della loro esistenza danzando l’uno nelle braccia dell’altro.

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