Salvami, e io ti salverò

di HisLovelyVoice
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Avevo solo nove anni! ***
Capitolo 3: *** Ti piace giocare a nascondino? ***
Capitolo 4: *** Non ne hai il diritto! ***
Capitolo 5: *** Il fuoco brucia ***
Capitolo 6: *** Speranza ***
Capitolo 7: *** Grazie ***
Capitolo 8: *** Non riesco a salvarti ***
Capitolo 9: *** L'errore più grande e più bello della mia vita ***
Capitolo 10: *** Se è un sogno, non svegliatemi ***
Capitolo 11: *** Una lettera idiota per mister puntualità ***
Capitolo 12: *** Si esce ***
Capitolo 13: *** Perché mi fa questo effetto? ***
Capitolo 14: *** Nessuno mi salverà ***
Capitolo 15: *** E mi sento meno solo ***
Capitolo 16: *** Promettimelo ***
Capitolo 17: *** Sarò libero ***
Capitolo 18: *** Un cambiamento inaspettato ***
Capitolo 19: *** Sogni e speranze ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prima parte
Salvami...

Prologo

- Ethan, parlaci della tua famiglia. -
Ero un bambino di soli sei anni quando mi venne fatta per la prima volta questa domanda. Me l’aveva posta la maestra uno dei primi giorni di scuola. Avrei tanto voluto dirle la verità. Oh, come lo avrei voluto. Ma non volevo essere picchiato. Se avessi detto le cose come stavano veramente mio padre mi avrebbe picchiato, di nuovo. E io non volevo. Mio padre mi aveva insegnato una tiritera da ripetere ogni qual volta qualcuno mi avesse chiesto della mia famiglia. E io ripetevo ciò che mi aveva insegnato. Le prime volte mi sembrava anche divertente, non capivo il vero senso di quelle parole. Solo più grande capii cosa ero costretto a dire. Quel giorno di prima elementare sorrisi alla maestra, mostrandole anche i pochi denti assenti nella mia bocca. Tutti credevano che erano i denti da latte che dovevano cadere. In realtà la maggior parte erano caduti a causa dei pugni di mio padre.
- In famiglia siamo quattro. - Dissi, mostrandole quattro dita, come mi aveva insegnato la mamma. - Siamo io, mamma, papà e mia sorellina di due anni. Mamma e papà mi vogliono molto bene e mi hanno regalato un cane. Si chiama Fido, anche lui fa parte della mia famiglia. - la maestra mi sorrise, pensando che la mia fosse una famiglia molto felice. Non immaginava che in realtà mio padre picchiava me e la mamma. Non immaginava che io, a soli sei anni, dovessi difendere la mia sorellina. Non immaginava che il cane era stato comprato per infliggermi alcune punizioni. No, non poteva immaginarlo.
- La tua famiglia è molto numerosa. Come si chiama la tua sorellina? - Chiese dolcemente. E io le sorrisi di nuovo, pensando a quanto fosse bella mia sorella anche se aveva solo due anni.
- Annabelle. È piccola così. - Dissi, mostrandole con le mani quanto fosse grande.
- Bene, Ethan, grazie per averci presentato la tua famiglia. Ora torna al tuo posto. - Mi disse la maestra. Trotterellai fino al mio banco felice, mentre la maestra chiamava una bambina per presentarci la sua famiglia.






Hei! :D
questa storia l'avevo già pubblicata, ma ho avuto dei problemi con alcuni capitoli già pubblicati, così ho pensato di eliminare la storia, modificare i capitoli e ripubblicarla c:
spero che non ci siano altri problemi :D
questo è il prologo, i prossimi capitoli saranno più lunghi, promesso <3
che ne pensate? sarei felice di sentire, o meglio, leggere le vostre opinioni
alla prossima! 
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 2
*** Avevo solo nove anni! ***


Avevo solo nove anni!
 
- Piangere è da femminucce. -
Quante volte abbiamo sentito qualcuno affermare una cosa del genere, quando un ragazzo scoppiava a piangere? Tante. Troppe. Eppure di solito non si andava oltre. Nessuno avrebbe mai picchiato un bambino solo perché stava piangendo. Nessuno, tranne mio padre.
Ero triste. Ero molto triste. Mio padre aveva picchiato di nuovo mia madre, e io non avevo potuto fare niente, poiché lei mi aveva chiesto di portare in camera mia Annabelle. Lo sapevo perché me lo chiedeva: aveva solo cinque anni, non poteva assistere a certe scene. Ma io volevo difendere mia mamma, non volevo che venisse picchiata da mio padre. Perché lei non aveva fatto niente di male, aveva solo preparato la cena. Era anche molto buona, ma papà l’aveva picchiata lo stesso.
- Non sai fare  niente! Nemmeno preparare una semplice cena! - Aveva urlato appena ebbe assaggiato un boccone di carne.
Ero chiuso in camera mia, abbracciato ad Annabelle. Tremava, tremava di paura. Se non potevo proteggere la mamma dovevo proteggere lei. La strinsi forte a me.
- Fratellone, io ho paura. - Ammise tra i singhiozzi, allontanandosi leggermente da me. Piangeva disperata, i suoi bellissimi occhi azzurri erano diventati rossi, per tutte le lacrime che stava versando. Le misi un boccolo ribelle dei suoi capelli neri dietro l’orecchio, come faceva sempre la mamma, e le sorrisi, provando a rassicurarla.
- Tranquilla, andrà tutto bene. - Le dissi. Lei mi sorrise e si riaccoccolò tra le mie piccole braccia. Mi comportavo da grande, anche se alla fine avevo solo nove anni. Dovevo essere per Annabelle un punto di riferimento, il fratello maggiore. Non potevo mostrarle tutta la mia paura, o sarebbe crollata definitivamente.
Sentimmo un tonfo provenire dal piano di sotto. Sobbalzammo, immaginando già cosa era successo. Poi, sentimmo dei passi sempre più veloci salire le scale.
- Veloce, mettiti sotto il letto! - Sussurrai ad Annabelle. Lei mi guardò impaurita, poi scosse la testa. La spinsi delicatamente in direzione del letto. - Ti prego, fallo per me. - La implorai. I passi erano sempre più pesanti e la paura stava crescendo vertiginosamente. La mia paura più grande era che mio padre potesse far del male a mia sorella. Non volevo che accadesse, non doveva accadere.
Annabelle allora mi diede un bacio sulla guancia e si tuffò sotto il letto appena in tempo.
Infatti in quel momento la porta si spalancò.
- Sei qui, allora, brutto mostriciattolo fifone! - Esclamò mio padre appena mi vide. Avevo paura, molta paura, come sempre, ma non potevo darlo a vedere. Altrimenti mi avrebbe picchiato più forte e poi se la sarebbe presa con Annabelle. E io non potevo permetterlo. Rimasi seduto a terra e aspettai che lui si avvicinasse, in silenzio. - Hai perso la lingua, per caso?! - Mi ringhiò contro. Scossi debolmente la testa.
- No. - sussurrai. Mio padre sorrise. Ma non era un sorriso dolce, come quelli della mamma. Era carico di cattiveria, di odio. Si avvicinò sempre di più, poi mi prese per il colletto della maglietta e mi sollevò da terra. Emisi un gemito, che provai a mascherare con un colpo leggero di tosse.
- Bene! Adesso ti faccio vedere io cosa succede a chi si nasconde! -Urlò. Sentii un odore strano provenire dalla sua bocca. Era aspro, ero sicuro di averlo già sentito, ma non mi ricordavo a cosa appartenesse.
Mi lasciò cadere a terra. L’impatto mi causò un dolore fortissimo al braccio sul quale ero atterrato. Le lacrime premevano per uscire, ma non potevo permetterglielo. Ma i colpi aumentarono, ed una lacrima scese sul mio volto. Provai ad alzare il braccio per asciugarla e sfregarmi gli occhi, ma un calcio in pieno stomaco me lo proibì. Mio padre si abbassò su di me e mi sferrò alcuni pugni in pieno viso.
- Non devi piangere, hai capito?! Piangere è da femminucce, idiota! - urlò nel mio orecchio. Per qualche istante pensai di aver perso l’udito, ma mi ricredetti quasi subito, appena sentii il rumore di un mio osso rompersi.
Il dolore che provavo lungo tutto il corpo man mano che i colpi aumentavano era veramente forte, ma niente era in confronto alla sofferenza che provavo nel sapere che mia sorella stava vedendo tutto. ‘Mi dispiace.’ Pensai, rivolgendomi a lei. ‘Non sono così forte.’ La vista si appannò, e solo in quel momento mi ricordai a cosa appartenesse quell’odore acre: all’alcol. Poi l’oscurità prese il sopravvento su tutto, compreso il dolore.

****

Quando mi svegliai provai un dolore fortissimo ovunque, soprattutto alla caviglia destra. Ero disteso su un letto. Non riuscivo ancora ad aprire gli occhi, ma sentivo che qualcuno era vicino a me. Provai a muovermi, ma una fitta allo stomaco me lo impedì. Emisi un gemito di dolore. Speravo solo che in quel momento mio padre non fosse nei paraggi, altrimenti sarei stato picchiato di nuovo.
- Shhh, è tutto finito, tesoro, è tutto finito. Ci sono qua io, ora. - La voce di mia madre mi tranquillizzò. Sorrisi debolmente, nel sapere che mio padre non c’era. Sapevo che era sbagliato essere felice di non avere il padre nei paraggi, ma dopo quello che stavo passando speravo sempre di non vederlo.
Piano piano riuscii ad aprire gli occhi. Subito, davanti a me, apparve il volto angelico di mia madre alla mia destra. Era preoccupata, lo si vedeva, ma sorrideva. Poi, notai sulla sua fronte della garza bianca.
- Mamma, cosa ti è successo? - Chiesi, indicandole debolmente la medicazione. Lei corrugò la fronte, poi portò la mano dove stavo indicando. Sentendo la garza sotto le sue dita si illuminò, capendo finalmente, o forse fingendo di capire solo in quel momento, a cosa mi riferissi.
- Intendi qui, dove c’è questa garza? - Annuii. - Non è niente, tesoro, tranquillo. Sono solo scivolata per le scale mentre venivo qui. -
- È stato papà, vero? - Chiesi, non credendo a ciò che mi aveva detto. Sospirò, chiudendo gli occhi. Avevo indovinato. Chissà cosa gli aveva lanciato questa volta. Qualche giorno prima le aveva lanciato un vaso, ancora prima un piatto di coccio.
- Si, è stato lui. Ma tranquillo, non mi fa male. Ora pensa a riposarti. - Mi diede un bacio sulla fronte ed uscì dalla mia cameretta.
Ero solo ora, solo con tutto il mio dolore. Guardai la caviglia destra, che mi stava facendo veramente molto male. Era fasciata da una garza bianca, come quella che mia madre aveva sulla fronte. Provai a muoverla, ma non ci riuscii. ‘Direi che è rotta.’ Sospirai. Ormai era la normalità per me essere picchiato, ma ogni volta sentivo che c’era qualcosa di sbagliato. Spesso i miei compagni di classe mi parlavano delle loro famiglie, e non era mai capitato che qualcuno avesse dei genitori che li picchiassero. Forse mentivano come me, ma nei loro occhi vedevo qualcosa che nei miei mancava: la felicità. Già, io non ero felice. A soli sei anni avevo dovuto prendere sulle mie spalle le responsabilità di un uomo adulto. Perché se la mamma veniva picchiata, chi difendeva Annabelle? Io. Solo io potevo farlo.
Solo qualche giorno prima avevo capito che ciò che avevo sempre detto a tutti riguardo alla mia famiglia era una balla colossale.  Mio padre non mi voleva bene. Non mi aveva comprato il cane per giocare. Lo aveva comprato per farmi passare tutta la notte nella sua cuccia, tra ringhia, morsi e graffi. E poi quando andavo a scuola dicevo che mentre giocavo con Fido a rincorrerci, mi aveva raggiunto e buttato, per sbaglio, tra dei rovi.
Iniziai a piangere. Ora che ero solo potevo farlo tranquillamente. Nessuno mi avrebbe visto. Mio padre non mi avrebbe visto. Avevo solo nove anni, diamine! Nessun bambino di quell’età merita di essere picchiato, soprattutto se senza motivo. Forse però un motivo c’era. Ma io continuavo a non trovarlo mai. La mamma mi diceva sempre che ero un bravo bambino. Anche le maestre me lo ripetevano. E allora, cosa facevo di sbagliato con mio padre? Volevo saperlo, per poter cercare di non essere picchiato. Forse non lo stavo rendendo orgoglioso di avermi come figlio. Forse dovevo cambiare qualcosa.
I miei pensieri vennero interrotti dall’aprirsi della porta. Asciugai in fretta le lacrime, e chiusi gli occhi.
- Fratellone, sei sveglio? - Aprii gli occhi e vidi Annabelle appesa alla maniglia della cameretta. Appena vide che ero sveglio mi sorrise e trotterellò fino al bordo del mio letto. - Ti fa male tutto? - Chiese preoccupata.
- Si, ma non ti preoccupare, passerà, come le altre volte. - Le risposi accarezzando i suoi morbidi capelli.
- Ma perché papà ti ha picchiato di nuovo? - Mi chiese innocentemente. Sospirai. Avrei tanto voluto che qualcuno rispondesse a questa domanda anche a me.
- Non lo so Annabelle, non lo so. - Ammisi.
- La maestra ci ha detto che se vieni punito è perché hai fatto qualcosa di brutto. - Sorrisi, nel ricordare la maestra Angie. Aveva insegnato anche a me quelle parole, ma ormai non ci credevo più. Se mio padre voleva picchiarmi, mi picchiava, finiva là la storia.
- Lo so, lo aveva detto anche a me. Ora però non mi va di parlarne, scusami. - La guardai. Aveva ancora tanta paura, i suoi occhi erano ancora rossi. - Papà è ancora a casa? - Chiesi, timoroso di ricevere una risposta affermativa. Ma fortunatamente Annabelle scosse la testa.
- È uscito quando ha finito di picchiarti. - Sussurrò abbassando lo sguardo. Le alzai il volto con due dita e la guardai negli occhi.
- Stai tranquilla, ora è tutto finito. - La rassicurai, anche se sapevo che quando mio padre fosse tornato, avrebbe potuto picchiare me  e la mamma di nuovo. Annabelle mi sorrise debolmente, poi mi diede un bacio sulla guancia.
- Grazie mille fratellone, per tutto. - Disse, per poi uscire e tornare probabilmente in camera sua.
Guardai l’orologio: erano le undici di sera. Solo in quel momento mi ricordai di dover finire i compiti per il giorno dopo. Provai a poggiare la caviglia destra a terra, ma non riusciva a sopportare il peso del mio corpo. Mi faceva malissimo, ma se non avessi fatto i compiti avrei potuto prendere una nota, e questo significava solo una cosa: botte più forti. Mi alzai saltellando sul piede sinistro. Presi i libri e i quaderni di matematica, storia e italiano, l’astuccio e il diario e posai tutto sulla scrivania sempre saltellando su un piede. Poi mi sedetti sulla sedia e iniziai con la mia materia preferita, matematica, a fare i compiti.
Terminai solo alle tre di notte, e mio padre, fortunatamente, non era ancora tornato. Rimisi tutto a posto, poi mi infilai il pigiama e mi allungai sotto le coperte. Speravo solo di addormentarmi il prima possibile e di risvegliarmi in un’altra casa con la mamma e Annabelle felici. Finalmente felici.







HEI :D
questo è il primo capitolo di questa storia.
inizio subito precisando che ci saranno altri 3 capitoli in cui si parlerà di alcune punizioni, più o meno violente, di Ethan.
la vera e propria storia romantica inizierà subito dopo. c:
cosa ne pensate di questo capitolo? 
sarei felicissima di saperlo <3
ringrazio coloro che hanno recensito il prologo, i lettori silenziosi e chi ha inserito la storia tra le preferite e seguite :D
grazie mille
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 3
*** Ti piace giocare a nascondino? ***


Ti piace giocare a nascondino?
 
- Ti piace giocare a nascondino? -
Bella domanda. Molti bambini della mia età me lo chiedevano. Ma cosa intendevano loro, per nascondino? Quel gioco molto divertente dove ci si deve nascondere e cercare di fare tana? Oppure intendevano nascondersi con la propria sorella più piccola da un padre particolarmente violento?
Nasconderci. Dovevamo nasconderci da nostro padre. Mia madre non c’era, era andata a fare la spesa e mio padre sarebbe ritornato a breve da un pub. E questo voleva dire solo una cosa: sarebbe tornato a casa ubriaco da far schifo. Il mio obbiettivo principale era quello di nascondere Annabelle. Di me, poco mi importava. Ormai avevo passato  ben sei anni della mia vita tra calci, pugni, fasce, cerotti e garze, tanto valeva aggiungerne un altro. Ma Annabelle non era mai stata picchiata, aveva ricevuto solo uno o due schiaffi, non volevo che quella diventasse la prima volta.
A dodici anni ancora venivo picchiato da mio padre. E non aveva diminuito con il tempo la potenza, no. Quella era solo aumentata, come la sua rabbia. Ero arrivato alla conclusione che mi odiava. Mi odiava veramente molto, considerando che tutte le sere venivo picchiato senza pietà.
Il rumore di una macchina lungo il nostro viale mi riportò alla realtà. Eravamo in camera di mia sorella. Guardai l’orologio: le sei del pomeriggio. Poi mi affacciai alla finestra e vidi mio padre scendere barcollando dall’automobile.
- Annabelle, entra dentro l’armadio, forza! - La incitai spingendola in quella direzione. Mio padre non l’avrebbe mai trovata, non entrava mai in camera sua, diceva che era troppo rosa. Speravo solo che non avesse cambiato idea quella sera.
Sobbalzammo nel sentire la porta di casa aprirsi.
- Stai attento fratellone. - Disse Annabelle, prima di darmi un bacio sulla guancia e entrare nell’armadio. Sapere che lei era al sicuro mi dava la forza di sopportare tutte le percosse che ricevevo. Uscii velocemente dalla sua stanza ed entrai nella mia. Mi sedetti a terra, come al solito e aspettai tremando che arrivasse.
- Ethan! Esci fuori brutto mostriciattolo! Non ho voglia di giocare a nascondino! - Le sue grida, che provenivano dal piano sottostante, mi fecero rabbrividire. Strascicava moltissimo le parole, era veramente ubriaco. Mi alzai in piedi lentamente, abbandonando lentamente il mio rifugio. - Allora?! Ti vuoi muovere?! Non ho tutto il giorno! - Velocizzai il passo, pregando che quella sera non mi picchiasse troppo violentemente. Arrivai in camera da pranzo a testa bassa. - Ce l’hai fatta! Lo sai che non devi osare farmi aspettare! - Annuii, continuando a tenere la testa basta. Sentivo il suo sguardo di fuoco sulla mia pelle, ma non osai alzare lo sguardo. - Bene Ethan, vieni qui. - Disse con un tono di voce più calmo. Sfortunatamente sapevo fin troppo bene cosa voleva dire. Mi misi difronte a lui, come mi aveva chiesto. Stavo per alzare lo sguardo, ma un calcio alle caviglie mi fece cadere a terra sul fianco destro. La fortuna ovviamente era dalla sua parte, infatti caddi proprio su un taglio ancora aperto del giorno prima, procuratomi con del filo spinato. Iniziai a ricevere calci ovunque lungo il mio corpo. Misi le mie mani davanti al viso per non essere colpito lì, ma così gli diedi la possibilità di colpirmi più pesantemente lungo il resto del corpo. - Così impari, brutto bastardo! - Urlò.Continuò a riempirmi di calci e pugni per molto. Poi successe ciò che ogni sera speravo non succedesse. Si allontanò e percepii di nuovo il suo sguardo di fuoco addosso. - Fido! - Chiamò gran voce. Rabbrividii nel sentire il suo nome. Il cane arrivò velocemente, abbaiando. Appena mi vide mi saltò addosso. Iniziò a graffiarmi con gli artigli il volto, ormai scoperto perché non riuscivo a tenere le mani su di esso. Poi mi morse la caviglia. Emisi un gemito di dolore. Non mi era mai successo, avevo voglia di urlare. Ma se lo avessi fatto, l’incubo di quella sera sarebbe continuato. - Ora può bastare, Fido! - lo richiamò, stranamente, mio padre. Volevo tirare un sospiro di sollievo, ma se lo avessi fatto avrei mostrato a mio padre di essere debole e sarei stato picchiato ancora. Fido mi abbaiò contro, poi uscì fuori, sotto la spinta dei calci di mio padre.
Sentii la testa bruciare. Mio padre mi fece alzare in piedi, tenendomi per i capelli. Il dolore alla caviglia era fortissimo, quasi non riuscivo a stare in piedi.
- Non osare più nasconderti o fare tardi quando ti chiamo, hai capito?! - Annuii, mentre lui mi lasciava i capelli e mi tirava un pugno sull’occhio. - Hai già preparato la cena? - Chiese duramente. Ma erano solo le sei e mezza, noi non mangiavamo prima delle sette e mia madre non era ancora tornata. Scossi allora la testa. - Cosa?! - Esclamò infuriato.
- Mi d-dispiace. - Balbettai. - Ma è ancora presto. - Lui mi guardò infuriato. Ecco, lo avevo fatto arrabbiare veramente. Ma soprattutto lo avevo deluso. Si, sentivo di averlo deluso.
- Come osi rispondermi?! - Ringhiò. Mi spinse e, per via della mia caviglia era malridotta, caddi a terra. Ricominciò a picchiarmi, ancora più forte di prima.
Poi fortunatamente sentii il rumore della porta di casa aprirsi. Ma a mio padre non importava, continuò a picchiarmi incurante di mia madre che stava venendo proprio in cucina.
- Ethan, Annabelle, sono a ca… Jone, no! Ti prego, fermati! - Esclamò mia madre quando mi vide a terra. Posò le borse della spesa per terra e si avvicinò.
- Stephanie, sei appena tornata e già rompi?! Lasciami in pace! - Ringhiò contro mia madre, senza smettere di picchiarmi. Ma lei non gli diede ascolto e si aggrappò al suo braccio. Mio padre smise di darmi calci per un attimo. Strattonò il braccio e diede uno schiaffo in pieno viso a mia madre.
- No! - Urlai. - Lasciala stare, ti prego! Colpisci me, non lei! - Continuai, quando ottenni di nuovo le attenzioni di mio padre. Lui ghignò. Sapevo che avevo firmato la mia condanna a morte, e lo sapeva bene anche lui.
- Che uomo coraggioso! - Mi canzonò. Deglutii a vuoto, prima di ricominciare a ricevere calci. Guardai mia madre. Mi fissava con occhi sbarrati e lucidi e scuoteva debolmente la testa. Mimai con le labbra un “stai tranquilla.” prima di venire circondato dall’oscurità.

****

Mi svegliai, come al solito nella mia stanza. Era buio, non riuscivo a vedere nulla. Probabilmente era tardi, ma cosa importava? Ero ridotto a brandelli, il dolore che provavo lungo il mio corpo era fortissimo. Ma il dolore più forte era al petto. Stavo malissimo, non mi ero mai sentito così tanto male. Perché a mio padre non importava nulla di me. Volevo solo avere un padre con cui giocare, divertirmi, un padre a cui poter chiedere un consiglio riguardo qualsiasi cosa. E invece avevo un padre che mi odiava e che temevo molto.
L’unica cosa che mi rincuorava un po’ era che mia madre e Annabelle stavano bene. O almeno credevo che stessero bene. Non lo sapevo. E se mio padre le avesse picchiate una volta che io ero svenuto? Decisi di voler andare a controllare. Provai ad alzarmi, ma non riuscii a poggiare la caviglia fasciata. Fido questa volta mi aveva morso proprio forte, sentivo come se una tenaglia mi stesse ancora tenendo la gamba.
Una domanda affiorò nella mia mente: cosa avrei detto il giorno dopo a scuola? Ero ridotto veramente male, e se potevo mascherare la caviglia dicendo la verità, tralasciando il perché mi avesse morso, i lividi come li giustificavo? Dicevo che ero caduto? Ormai non mi credeva nessuno. Non è affatto normale che un ragazzo cada tutte le sere.
Qualcuno bussò alla porta, e così facendo interruppe i miei pensieri.
- Avanti. - Dissi semplicemente a bassa voce. Entrò così Annabelle. Il suo nome le si addiceva proprio. Era bellissima, da quando era nata. I capelli ricci le scendevano delicati fino alle scapole, gli occhi color ghiaccio ti incantavano appena li incrociavi. Lei era, insieme a mia madre, la ragione per cui andavo avanti, per cui lottavo.
- Tutto bene fratellone? - Chiese preoccupata e arrabbiata allo stesso tempo. Non riusciva ad accettare che nostro padre mi picchiasse, tutte le volte voleva proteggermi, come io proteggevo lei. Le sorrisi.
- Si, tranquilla. - Si avvicinò al mio letto e si sedette accanto a me, stando attenta a non toccarmi, per paura di farmi male.
- Voglio andarmene da qui. - Mormorò, cercando di trattenere le lacrime. Mi lacerava il cuore vederla in quello stato. Sentire la sofferenza nella sua voce per me era terribile. E la cosa che mi faceva soffrire di più era che lei aveva sempre vissuto nella violenza. Non aveva avuto la fortuna di nascere quando ancora mio padre non ci picchiava. Era perfino nata dopo un atto di cruda brutalità. Rischiava di morire ancora prima di nascere. “Devi abortire! Non voglio un altro mostriciattolo tra i piedi!” Gridava mio padre a mia madre, per poi picchiarla selvaggiamente. Mia madre fortunatamente si oppose, e quando nacque fu una gioia per noi due, mio padre non la voleva nemmeno vedere. Alla fine si era rassegnato, ma provava un odio profondo nei suoi confronti. Questo era un altro motivo per cui facevo di tutto pur di nasconderla e proteggerla.
Alzai lentamente il braccio e le accarezzai i capelli.
- Un giorno ce ne andremo, tranquilla. - Le promisi. E ce ne saremmo andati veramente. Volevo iniziare una nuova vita lontano da mio padre. Volevo iniziare una nuova vita felice, senza terrore.






HEI! 
eccomi con questo nuovo capitolo c:
sto odiando con tutto il cuore Fido, ma vabbè, succede!
che ne pensate? sarei molto felice di leggere le vostre opinioni. :D
ringrazio coloro che hanno già recensito, chi ha inserito la storia tra le seguite/ricordate e anche i lettori silenziosi
alla prossima
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 4
*** Non ne hai il diritto! ***


Non ne hai il diritto!

 

- Sei proprio identico a tuo padre. Avete gli stessi occhi e gli stessi capelli. -
Era una cosa positiva essere uguale a mio padre? O era una cosa negativa? A dieci anni non lo sapevo. Pensavo fosse una cosa positiva, in fin dei conti mio padre era un bell’uomo. Capii di star commettendo un errore solo a sedici anni.
Ero a casa, stavo aiutando Annabelle a fare i compiti di matematica, quando sentimmo la porta di casa sbattere. Era tornato.
- Annabelle, corri, nasconditi da qualche parte. - La incitai, come sempre. Ma lei si impuntò, incrociando le braccia al petto.
- No, questa volta non me ne vado. - Disse decisa. Sospirai.
- Annabelle, non è un gioco, è la realtà. Se ti vede ti potrebbe ammazzare, okay? Veloce, vai a nasconderti. - Ma lei rimaneva piantata a terra, non aveva la minima intenzione di muoversi. - Per favore… -
- Dove siete, brutti marmocchi?! - Le grida di mio padre arrivarono fino al piano di sopra, facendoci rabbrividire. Mi alzai dalla sedia e presi di peso Annabelle. Lei iniziò a scalciare, ma, essendo io più forte di lei, riuscii a metterla dentro l’armadio.
- Resta qui. - Le diedi un bacio sulla guancia ed uscii dalla camera. Scesi velocemente giù, fino all’atrio, da mio padre. Quando mi vide, sorrise. O meglio, ghignò.
- Tua sorella? - Chiese.
- Non è in casa. - Mentii. Se l’avesse vista, avrebbe potuto veramente ucciderla.
- Capisco. - Disse tranquillamente. Deglutii a vuoto, la bocca era secca. Mio padre si mosse verso la cucina, facendomi cenno di seguirlo. Feci ciò che mi aveva chiesto, tenendomi sempre un paio di passi distante da lui. - Sai, oggi un mio collega mi ha detto che tu sei identico e me nell’aspetto. - Si voltò e mi fissò intensamente. Sobbalzò, forse se ne era finalmente reso conto dopo ben sedici anni. Assottigliò lo sguardo. - Ha proprio ragione. Abbiamo entrambi gli occhi verdi e i capelli neri.  - Costatò. Okay, questo discorso non mi piaceva per niente. Era troppo calmo, non era mio padre. - Ma tu, - Continuò. - tu non ne hai il diritto! - Urlò. - Tu sei solo un mostriciattolo, insulso, idiota, sei un fallimento e fai schifo! - Continuò. Poi tirò fuori da un cassetto un coltello affilato. Mi sorrise. - È ora di cambiare. - Disse, abbassando la voce.
Indietreggiai istintivamente appena lo vidi avvicinarsi. Iniziai a correre per casa, impaurito di ciò che avrebbe potuto farmi. Conoscendolo mi avrebbe potuto tagliare i capelli corti, rasarmi, graffiarmi il viso, accecarmi… Scossi la testa, cercando di non pensare all’ultima ipotesi. Rallentai la mia corsa, e questo gli permise di raggiungermi.
- Così osi scappare, eh?! - Mi prese per i capelli, tirandomeli e iniziando a tagliarli malamente. Ogni volta che provavo ad allontanarmi mi tirava un calcio, sempre più forte. In qualche modo riuscii a divincolarmi, entrai velocemente in camera mia e chiusi a chiave la porta.
Mio padre raggiunse la mia stanza e tirò giù la maniglia, imprecando quando notò che avevo chiuso a chiave.
- Apri questa maledetta porta, Ethan! Guarda che altrimenti la butto giù! - Continuava ad urlare mio padre battendo i pugni e il coltello sul legno. Ma non riuscivo a muovermi. Ero seduto a terra, con le gambe al petto e lo sguardo perso nel vuoto. Avevo paura. Avevo molta paura. Sarebbe finita veramente male, me lo sentivo. Continuavo a pensare a cosa fosse successo pochi minuti prima, non riuscendo a crederci. Ma era la verità, dovevo solamente accettarla. Mi toccai i capelli. O meglio, ciò che ne rimaneva. Da leggermente sotto l’orecchio, ora arrivavano sopra, in alcuni punti, fortunatamente in basso, erano completamente assenti. - Mi capisci quando parlo, brutto bastardo?! Muoviti ad aprirmi! - Continuò ad urlare per qualche istante, poi si ammutolì. Smise anche di colpire la porta. - Lo so che tua sorella è in casa. - Riprese. Mi irrigidii. Dal tono di voce, capii che stava sogghignando. - Vado da lei, se vuoi. - No, non Annabelle. Poteva anche uccidermi, ma non doveva permettersi di toccare Annabelle. Mi alzai in piedi e, tremando, andai fino alla porta. Feci scattare la serratura, poi mi allontanai leggermente. Lo guardai, mentre lui mi sorrideva. - Allora non sei sordo! - Disse, per poi colpirmi lo zigomo destro con il manico del coltello. Caddi a terra, mentre dalla guancia iniziava ad uscirmi del sangue.
Stava per colpirmi nuovamente, quando il telefono di casa squillò. ‘ti prego Annabelle, non andare a rispondere.’ Pregai. Mio padre imprecò, maledicendo chiunque fosse stato a chiamare. Poi mi guardò con disprezzo.
- Non provare a muoverti di qui! Capito pezzente?! - Annuii debolmente. Mi diede un calcio in pieno ventre, poi uscì dalla stanza. Solo in quel momento mi resi conto di aver trattenuto il respiro. Ripresi a respirare affannosamente. Mi portai la mano sulla guancia e tolsi il sangue che stava uscendo. Ero vivo. Vedevo ancora e non mi aveva tagliato tutti i capelli. Ringraziai chiunque avesse chiamato a casa. Rimasi a terra, fino a quando mio padre non tornò in camera mia. Mi prese per i capelli e mi sbatté la testa contro il muro più volte.
- Devo andare a lavoro. Ma stasera faremo i conti, capito?! - Annuii impaurito.
Mi diede un’ultima botta e poi mi lasciò malamente, facendomi cadere a terra. Appena sentii la porta di casa chiudersi, corsi in camera di mia sorella e la tirai fuori dall’armadio.
- Ethan! - Esclamò, abbracciandomi. La strinsi forte a me, non volevo più lasciarla. - Cosa ti ha fatto? - Chiese preoccupata accarezzandomi i punti in cui i capelli erano assenti. Le diedi un bacio.
- Nulla, Annabelle, nulla. L’importante è che tu stia bene. -
- Perché ti preoccupi tanto per me, e non per te? - Chiese. Sentii nella sua voce una nota arrabbiata. ‘Perché la mia vita ormai fa schifo. Perché non ha senso provare a lottare per essere libero. Perché non lo meriti.
 - Perché ti voglio bene. - Risposi semplicemente.

****

Erano le dieci di sera quando tornò mio padre da lavoro.
- Ethan, Annabelle, Stephanie, venite subito qui! - Urlò mio padre. Mi alzai dal letto e uscii dalla stanza, poi, quando arrivai in prossimità delle scale, aspettai che Annabelle mi raggiungesse e scendemmo insieme le scale. Nostra madre era già in cucina con nostro padre. Guardò Annabelle sprezzante. Poi spostò il suo sguardo su di me. Ghignò. - Bene, ho deciso che è arrivato il momento di trasferirci. - Il mondo mi crollò addosso. Cosa? Ci saremmo dovuti trasferire? Perché? Non gli bastavano le botte che mi dava? - Voi due. - Continuò, indicando mia madre ed Annabelle, che erano rimaste a bocca aperta. - Andate immediatamente sopra a preparare le valigie. Partiamo domattina presto. E tu. - Mi guardò. - Riceverai ciò che ti meriti. - Deglutii. Ma non gli era bastato quello che mi aveva fatto quel pomeriggio? La testa mi faceva ancora male, per colpa di tutte quelle testate che mi aveva fatto dare contro il muro.
Annabelle e mia madre salirono le scale molto lentamente. Sorrisi nella loro direzione debolmente, per rassicurarle, anche se mi uscì più una smorfia. Appena non furono più visibili, mio padre si avvicinò e mi buttò a terra. Iniziò a sferrarmi calci ovunque. Non gli importava dove colpiva, gli bastava solo colpirmi il più forte possibile.
- Sei solo un mostro! - Urlò. Chiusi gli occhi, mentre le sue parole rimbombavano nella mia testa. Mi ferirono molto. Non per le parole in generale. Ma perché lui, mio padre, me le aveva rivolte con tutto l’odio possibile. Un odio che un padre non dovrebbe avere nei confronti del figlio. Mi lasciai picchiare, senza emettere un gemito. L’unica cosa che volevo fare era piangere, non per il dolore lungo il corpo, ma per il dolore al cuore: mio padre mi odiava. Non mi avrebbe mai voluto bene.
Dopo un tempo che mi sembrò infinito, svenni.

****

- Ethan? Ethan svegliati, dobbiamo andare. - La voce di mia madre mi svegliò dal sonno. Allora non era stato tutto un sogno. Ci avevo sperato fino all’ultimo, ma a quanto pareva…
- Tra quanto partiremo? - Domandai con la voce impastata dal sonno.
- Tra poco. Hai giusto il tempo di prepararti. - Dopo che ebbe detto queste parole, uscì dalla mia stanca e mi lasciò da solo. Sbadigliai, poi molto lentamente mi alzai dal letto. Ero ancora completamente indolenzito, ma dovevo assolutamente sbrigarmi. Mi preparai velocemente, fortunatamente il giorno prima Annabelle aveva preparato la valigia anche per me. Avremmo lasciato molte cose in quella vecchia casa, che saremmo venuti a prendere in un futuro. O meglio, forse mio padre le sarebbe venuto a prendere.
Uscito di casa, misi tutte le valigie dentro la macchina.
Mio padre uscì poco dopo, ci ordinò di salire in macchina e così facemmo. Partimmo subito, e dissi per sempre addio alla mia amata città. Sarebbe cambiato qualcosa? Sicuramente no. Mio padre avrebbe continuato a picchiarmi e io avrei continuato a subire, rimanendo sempre in silenzio.
Ero destinato a soffrire, per sempre.







HEI!! c:
allora, cosa ne pensate del nostro piccolo Ethan, che ormai non è più tanto piccolo?
ha già sedici anni! :D
il prossimo capitolo sarà l'ultimo di questa serie, poi entrerà in scena una ragazza, promesso ;)
quel mostro avrebbe voluto accecarlo.... poveretto, perchè scrivo certe cose? :(
vabbè, lasciamo stare
ringrazio coloro che hanno inserito la storia tra le seguite e preferite, i lettori silenziosi e coloro che hanno recensito ♥
grazie veramente molto
alla prossima
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 5
*** Il fuoco brucia ***


Il fuoco brucia
 
- È bellissimo il caminetto di casa tua, lo sai? È anche molto romantico. -
Certo, è romantico e bello fino a quando lo guardi. Ma ti piace ancora se lo si usa per arroventare un ferro? E pensi che sia ancora romantico se quel ferro arroventato si preme sulla pelle nuda di un ragazzo?
Ero stanco. Ero stanco della vita che conducevo. Volevo andarmene via con mia madre e Annabelle, ma non potevo. Mio padre ci avrebbe trovati e uccisi. Avevo perso ogni contatto con coloro che appartenevano alla mia vecchia vita. Mi mancavano tutti. I primi giorni nella nuova casa li avevo passati piangendo ogni volta che mio padre non c'era. Appena tornava, mi asciugavo le lacrime e scendevo giù, pronto a subire la mia punizione. Era sempre così. Anche se non facevo niente mi picchiava, come per ripetermi quanto mi odiava. Ma non mi importava più. L'unico motivo per cui continuavo a resistere era per poter proteggere mia madre e Annabelle. Di me non mi importava niente. Non vivevo. Sopravvivevo. Ogni giorno trascinavo il mio corpo privato dell'anima avanti. Era passato già un anno, ma non mi ero ancora ambientato. A scuola non avevo legato con nessuno, tutti i ragazzi mi avevano etichettato come: il secchione con problemi di testa. Ma a me non importava. La mia priorità era portare a casa voti altissimi, pur di evitare di essere picchiato più del normale. Credevano tutti che lo facessi perchè amavo studiare. In realtà lo odiavo. Ma a loro cosa importava di sapere la verità? Niente. A loro bastava parlare senza conoscere nemmeno un briciolo della mia vita. Nessuno si era mai accorto delle mie cicatrici. Ero bravo a fingere, molto più di prima. Nessuno, nemmeno i professori chiedevano qualcosa. Coprivo sempre alla perfezione tutti i nuovi lividi, tagli, morsi. Sembravo un ragazzo come altri, a nessuno veniva in mente che stessi subendo tutte quelle violenze. I vicini di casa non si potevano insospettire, dato che ogni volta che venivo picchiato non emettevo un gemito. Ero abituato al dolore, ormai. O meglio, credevo di essere abituato al dolore...
Ero a casa a fare i compiti. Il giorno dopo avrei avuto il compito di fisica, così stavo ripassando come un matto. Dovevo assolutamente prendere il massimo, altrimenti sarebbe finita male. Ero solo a casa, mia madre e mia sorella erano andate a fare la spesa, mentre mio padre era andato come al solito al pub del quartiere. Sarebbe tornato ubriaco marcio, lo sapevo, ma non mi importava. L'importante era che mia sorella e mia madre rimanessero abbastanza al supermercato. Verso le cinque rincasò. Ero già pronto per scendete, ma stranamente non mi chiamò. Continuai a fare i compiti tranquillamente, fino le cinque e mezza.
- Ethan, scendi subito giù! - Urlò dal piano di sotto. Mi alzai velocemente e mi incamminai verso il salone. Mi avrebbe picchiato, ma stranamente non ero agitato. Facevo male, molto male.
- Eccomi. - Dissi a testa bassa quando arrivai in salone. Sentii mio padre ghignare.
- Perchè non guardi quello che sto facendo? - chiese tranquillo. Alzai lo sguardo su di lui. Era a terra in ginocchio, davanti al caminetto acceso. Teneva in mano un ferro, con il quale spostava i ciocchi di legno. Poi lo lasciò fermo su una fiamma molto alta. - togliti la maglietta. - ordinò. Deglutii. Avevo capito cosa voleva fare. Scappare sarebbe stato inutile, avrei solo peggiorato la mia situazione già precaria.
Così feci ciò che mi aveva appena ordinato. Poggiai la maglietta su un sedia e mi avvicinai a lui.
- Mettiti in ginocchio. - Disse con un tono deciso. Tremavo. Non riuscivo a muovermi. Ogni singolo muscolo del mio corpo era teso. Quella sera avrei sofferto molto, più del solito. Tolse dal fuoco quel ferro e si alzò in piedi. Lo teneva nella mano destra, mentre con la sinistra mi gettò a terra. - Ma sei sordo, per caso?! - Urlò infuriato. Stavo per rispondere, ma un dolore lancinante mi colpì la schiena. Urlai. Per la prima volta in vita mia non riuscii a trattenermi. La schiena bruciava follemente, l’Inferno non era nulla in confronto a quel dolore. Il mio corpo stava venendo lacerato fuori e dentro.
La mia anima era spezzata, il mio cuore sanguinava.
Mio padre mi diede un calcio in pieno ventre. 
- Non osare urlare, sa?! - Ringhiò, premendo nuovamente il ferro rovente sulla mia schiena già martoriata da lividi, graffi, morsi e tagli. Mi morsi la lingua, sperando che il sapore di ruggine del sangue mi evitasse di pensare a quel dolore. Ma fu totalmente inutile. Il dolore era sempre più forte e non voleva andare via. Mi sentivo morire. Forse sarebbe stato meno doloroso perdere la vita rispetto a quell'Inferno. Forse sarebbe veramente stato meglio morire. Ma poi, chi difendeva Annabelle e mia madre? Nessuno. Nessuno ci sarebbe riuscito. Nessuno avrebbe potuto farlo. Solo io. Dovevo prendermi quella responsabilità. Morire sarebbe stato fin troppo facile.
Strinsi le mani intorno allo schienale della sedia che avevo difronte, fino a far diventare le nocchie bianche. Mio padre teneva ancora il ferro premuto sulla mia schiena mentre rideva.
- Così impari, brutto bastardo! - Urlò. Chiusi gli occhi, mentre delle lacrime premevano per uscire. Così impari. Cosa dovevo imparare? Cosa avevo fatto quella volta? Niente, quella era la verità. Ma forse avevo fatto qualcosa che non dovevo fare. Vivevo. Respiravo. Quello era il mio errore. Quello era il mio sbaglio. Per lui sarei dovuto morire. Ma no, non avrei terminato la mia vita solo per fare ciò che voleva lui. Io dovevo vivere. Dovevo difendere mia madre e Annabelle. Con tutti questi pensieri nella mente, svenni.

****

Mi risvegliai allungato a terra. Era tutto buio, non riuscivo a vedere nulla. Inizialmente non sentii dolore, ma appena provai a muovermi un dolore lancinante mi colpì alla schiena. Mi morsi il labbro inferiore per evitare di urlare. Chissà cosa era successo mentre ero svenuto. Per un po' non lo avrei saputo, a meno che qualcuno non fosse venuto a spiegarmelo. Ma non sentivo rumori, probabilmente ero solo.
Già, solo. Ero sempre stato solo, le persone che mi erano accanto soffrivano tutte. Basta, nessuno avrebbe più dovuto soffrire a causa mia. Non mi sarei piu dovuto legare a nessuno. Nessuno sarebbe dovuto cadere nell'oblio che mi circondava. Nessuno lo meritava. Da ora in poi sarei stato solo io. Io e il mio dolore. Non avrebbe avuto senso far soffrire qualcun altro.
Passarono secondi, minuti, ore. Continuavo a stare a terra senza che nessuno venisse anche solo a vedere se fossi ancora vivo. Ero proprio solo. Allungai le braccia in avanti che si stavano intorpidendo. Non lo avessi mai fatto. Sentii la pelle sulla mia schiena tirare, fino ad aprirsi. Un liquido iniziò a bagnarmi la schiena e ben presto avrebbe macchiato il tappeto di rosso. Probabilmente quella bruciatura all'ospedale sarebbe stata valutata come ustione di terzo grado. Ma io non sarei mai andato all'ospedale. Cosa gli avrei detto? “Sapete, mio padre mi picchia ogni giorno, e oggi ha pensato bene di premere un ferro arroventato sulla mia pelle. Ma tranquilli, sto bene!” No, decisamente no. Mia madre aveva imparato a medicarmi, così si occupava sempre delle mie ferite. Non sapevo se sarebbe riuscita a fare qualcosa, ma ci speravo.
Piano piano mi riaddormentai, sperando di svegliarmi il prima possibile nel mio letto senza ferite, graffi e tagli sulla pelle e senza cicatrici nel cuore.

****

- Ethan? Ethan svegliati. - La dolce voce di Annabelle mi destò dal mio sonno. Aprii gli occhi, ma non vedevo molto, era buio pesto. Girai la testa verso destra e incrociai lo sguardo terrorizzato di mia sorella. Le sorrisi debolmente, per farle capire che stavo bene, quando in realtà stavo morendo dentro. - C-cosa è successo? - Domandò preoccupata.
- Nulla, tranquilla. -
- Tesoro, si è svegliato? - Chiese mia madre agitata da lontano. Probabilmente era in cucina.
- Si mamma. -
Sentii i passo veloci di mia madre farsi sempre più forti. Poi la vidi inginocchiarsi davanti a me. Aveva il volto sconvolto rigato da lacrime.
- No mamma, non piangere. - Cercai di consolarla. Mi accarezzò il volto delicatamente.
- Mi dispiace. Non doveva accadere, è tutta colpa mia... - Le presi la mano con cui si stava tirando i capelli e la strinsi a me. Le sorrisi, cercando di farle capire che non era affatto colpa sua.
- Cosa è successo? - Chiesi, timoroso però della risposta.
- Io e Annabelle siamo tornate verso le sei. Quando siamo entrate ti abbiamo visto a terra svenuto e abbiamo provato ad aiutarti. Ma Jone si è avvicinato e ci ha proibito di farlo. - Mormorò abbassando lo sguardo.
- Cosa vi ha fatto? - Chiesi preoccupato. Mia madre scosse la testa.
- Nulla, ci ha solo chiuso in camera di Annabelle. Per questo non ti abbiamo potuto aiutare. -
- Capisco. Ma che ore sono? -
- le cinque di mattina. Tuo padre ci ha appena aperto, dicendo che dobbiamo pulire tutto quanto qui. -
- Oh. - Fu l'unica cosa che riuscii a mormorare. Non si era preoccupato per me. Non si era pentito di quello che aveva fatto. Non gli dispiaceva. No, nulla di tutto questo. A lui importava solo far sparire le tracce. Questa era solo un'altra cicatrice da aggiungere a quelle del mio cuore.
- Dovresti provare ad alzarti. - Disse mia madre. - Lo so che ti fa male, ma ci devi provare. Se non ci riesci chiamiamo l'ambulanza e... -
- No! - Urlai. Non volevo andare all'ospedale. Non volevo che qualcuno sapesse di questa situazione. - Ti prego, non voglio. - Dissi abbassando un po' il tono di voce. Mia madre sospirò.
- Va bene. - Mormorò. - Vedi se riesci a metterti in piedi. - Presi un respiro profondo. Lasciai la mano di mia madre e posai i palmi aperti per terra. Feci leva proprio grazie alle mani e mi riuscii a mettere in ginocchio. Sentivo la pelle tirarmi, ma non quanto prima, molto meno. Ma faceva comunque male.
- Ce la fai? - Domandò preoccupata Annabelle. Annuii. Buttai velocemente fuori l'aria che avevo nei polmoni e pian piano riuscii a tirarmi su. Bruciava. Bruciava molto. Sentivo come se qualcuno si stesse appendendo alla mia pelle e la tirasse per staccarla dalle ossa. Ma dovevo sopportarlo.
- Okay, adesso vieni in cucina. - Mi disse mia madre. Piano piano riuscii ad arrivarci. Mi fece mettere davanti al lavello e pulì la scottatura. Poi prese un panno e lo intinse in una ciotola contenente un liquido bianco. Non capivo però cosa fosse. - È latte. - Spiegò mia madre, vedendo probabilmente la mia espressione. Prese il panno e lo posò delicatamente sulla scottatura. Il contatto con il latte freddo mi fece rabbrividire. Dopotutto la parte bruciata era ancora calda.
Rimasi per una decina di minuti con quel panno premuto sulla schiena. Poi mia madre lo tolse e mi sciacquò nuovamente con abbondante acqua. Mi mise della pomata, poi mi disse di andare in camera mia.
Mi allungai sul mio letto a pancia in giù, immobile. Dopo poco sentii la porta di casa sbattere: mio padre era uscito.
Iniziai a piangere. Mi ero ripromesso più volte di non farlo, ma era più forte di me. Non riuscivo a tenere tutto dentro, il dolore era troppo.
La mia vita era uno schifo. Nulla andava bene. Era tutto un completo disastro. Non sarei mai riuscito a rimettere insieme i cocci di quella vita distrutta. Non sarei mai riuscito a rimettere insieme i cocci di me.








HEI c:
e con questo capitolo si conclude il passato di Ethan c:
cosa ne pensate? poveretto, quel bastardo lo odio! ma se non ci fosse lui, non ci sarebbe nemmeno la storia, quindi dobbiamo abituraci alla sua presenza :(
ringrazio coloro che hanno inserito la storia tra le seguite e addirittura preferite, i lettori silenziosi e i recensori <3 grazie mille
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 6
*** Speranza ***


Speranza
 
- La speranza è l’ultima a morire. - Beh, se è così, allora io sono morto da quando ho nove anni, perché da quel momento la speranza che avevo è morta.
Due giorni. Due giorni e sarebbe stato il mio compleanno. Il mio diciottesimo compleanno. Finalmente sarei stato maggiorenne. Forse sarei riuscito a fare qualcosa.
Mi alzai dal letto, consapevole dell’assenza di mio padre in casa. Era in viaggio per lavoro e sarebbe tornato solo il giorno del mio compleanno, giusto per rovinarmi la “festa”. Tanto lo sapeva che non avrei festeggiato un bel niente. Non avevo amici…
Sospirai, ricacciando dentro le lacrime. No, non avrei pianto. Avevo già passato tutta l’adolescenza in lacrime per colpa sua, non avrei continuato. Volevo reagire, ma cosa potevo fare?
Andai in camera di  mia sorella. Ormai aveva quattordici anni, ma era ancora una bambina da difendere. Guardai il suo volto, rilassato dopo tanti anni, mentre mi sedevo vicino a lei. Dormiva ancora, sembrava un angelo. Le coperte bianche facevano risaltare i suoi capelli neri come la pece. Poi però il mio sguardo cadde un po’ più in basso dei capelli, sui suoi polsi. Sbarrai gli occhi nel vedere dei tagli rossi paralleli lungo metà avambraccio sinistro. Come era possibile? Perché? Dovevamo assolutamente parlare\.
- Annabelle, svegliati. - La chiamai, scuotendola leggermente dalle spalle. Lei mugugnò qualcosa, per poi rigirarsi dall’altra parte. - Annabelle, ti devo parlare. È importante.  -
- Cinque minuti… - Mormorò, con la voce impastata dal sonno.
- No, ora. - Mi imposi. Non potevo rinviare una cosa così importante. Annabelle sbuffò, poi si girò verso di me.
- Cosa c’è? - Chiese un po’ preoccupata, un po’ arrabbiata. La guardai seria.
- Da quanto va avanti questa storia? - Corrugò la fronte, non capendo a cosa mi riferissi. - Da quanto ti… - Tagli. Quella era la parola che dovevo pronunciare. Ma non volevo farlo. Perché dirlo ad alta voce avrebbe voluto dire che era la realtà.
- Mi cosa? Mi lavo? - Chiese, scoppiando a ridere.
Smise appena notò il mio sguardo serio. Presi un respiro profondo. O ora o mai più. Mi ripetevo.
- Da quanto ti tagli? - Annabelle aprì la bocca meravigliata e istintivamente nascose il polso sinistro sotto le coperte. - Non serve che ti nascondi, li ho già visti, tutti. -
- Ora non mi va di parlarne. - Mormorò. - Casomai ne parliamo dopo scuola e… -
- No! - Esclamai, facendola sobbalzare. - Io voglio sapere, adesso. - Aggiunsi, con un tono di voce più calmo. Sospirò, abbassando lo sguardo.
- Da un mese. - Ammise dopo alcuni minuti. Sbarrai gli occhi. Da un mese. Quelle parole iniziarono a rimbombare incessantemente nella mia testa.
- Perché? - Le chiesi titubante. Vidi i suoi occhi inumidirsi.
- Perché quando lo faccio mi sento meglio. Sento che tutto il dolore che provo io, te e la mamma se ne va. Quando il sangue esce ho la prova che sono viva, che sono una persona, non solo un involucro di pelle ed ossa che si trascina avanti giorno dopo giorno. Mi fa stare meglio. Mi fa stare dannatamente meglio. - Disse tutto d’un fiato, dopo pochi istanti di tentennamento.
Da un mese.
Mia sorella si tagliava.
Da un mese.
Io non me ne ero accorto.
Da un mese.
Lei aveva bisogno di aiuto.
Da un mese.
Non le avevo dato il sostegno necessario.
Da un mese.
Lei credeva che quel dolore potesse alleviare il peso di tutti i nostri problemi.
Da un mese.
Non avevo fatto nulla per evitare che tutto ciò accadesse.
Facevo schifo come fratello. Come avevo fatto a non accorgermi di nulla?
- Ti prego, non dirlo a mamma. - Mi implorò, riportandomi alla realtà. Cosa dovevo fare? Ascoltarla, o fare ciò che era giusto per lei? Ci pensai un po’ prima di rispondere. Tenevo la testa bassa, mentre sentivo il suo sguardo perforarmi la schiena. Presi un respiro profondo.
- Per ora non le dirò nulla. Ma tu devi smetterla. Non risolverai nulla in questo modo, capisci? - Annuì, anche se non era molto convinta. - Promettimelo. - Abbassò lo sguardo.
- Promesso. - Mormorò.
- Mi fai vedere il polso? - Chiesi. Lei alzò velocemente lo sguardo, fissandomi negli occhi, forse sperando che ci ripensassi. Ma non lo avrei mai fatto. Piano piano avvicinò il suo braccio a me. Le guardai ogni singolo taglio sfiorandoli. Ogni tanto rabbrividiva, facendomi capire che il taglio era molto recente, più di quanto credessi. Quando finii la guardai negli occhi.
- Mi dispiace. - Mormorò in lacrime.
- Vieni qui. - Le dissi. Non se lo fece ripetere due volte e si sedette in braccio a me. la strinsi forte al mio petto, mentre lei iniziava a piangere. Era ancora una bambina. La mia piccola sorellina da difendere. E lo avrei fatto, qualsiasi sarebbe stato il prezzo.

****

Arrivato a scuola, mi soffermai qualche istante a guardare tutti quei ragazzi felici con i loro amici, intenti a parlare, a ridere e a scherzare. Quanto avrei voluto essere uno di loro...
Scossi la testa, destandomi da quei pensieri. Dovevo andare in classe. Appena entrato in aula mi venne in contro stranamente un compagno di classe, Matthew.
- Hei amico! - Mi salutò, battendo una mano sulla mia spalla. Mi morsi il labbro, cercando di non emettere nessun gemito. Faceva male quel contatto, ma avevo sopportato di peggio. Molto peggio.
- Ti serve qualcosa? - Chiesi, meravigliato delle sue attenzioni. Lui scrollò le spalle ridendo, per poi allontanarsi. Mi andai a sedere al mio posto, il primo banco, mentre le risate dietro di me aumentavano. Aprii lo zaino, cercando di ignorarli e presi il libro di storia per ripassare. Quel giorno sarei stato interrogato e, se non fossi riuscito a prendere dieci, non l'avrei scampata liscia. Mio padre mi avrebbe picchiato comunque, ma sicuramente di meno.
Quando entrò la professoressa ci alzammo in piedi, in forma di rispetto.
La lezione iniziò e venni chiamato per l’interrogazione. Fortunatamente presi nove, ma sapevo che a mio padre non sarebbe bastato.
- Posso andare al bagno? - Chiesi alla professoressa. Lei annuì. Andai verso la porta, mentre tutta la classe ricominciava a ridere.
- Ethan? - Mi chiamò la professoressa. Mi girai verso di lei.
- Si? - Mi fece cenno di avvicinarmi a lei. Poi mi prese per le spalle e mi fece girare. Sentii che mi stava toccando la schiena. Poi sentii il rumore dello scotch.
- Chi è stato? - Domandò alla classe arrabbiata. Mi girai e vidi che teneva in mano un foglio. C'era scritto: Sono un secchione e ho dei problemi, ad esempio sono gay. Sbarrai gli occhi. Stavo per andare in giro con quel foglio sulla schiena. Tutta la scuola avrebbe riso di me. E io che credevo che Matthew fosse cambiato. Credevo che gli importava un po' di me. Invece voleva solo umiliarmi. Di nuovo.
- Allora?! Chi è stato?! - Urlò la professoressa, ma non ricevette nessuna risposta. - Bene, vorrà dire che metterò una nota di classe. - Affermò decisa, mentre nella classe si spargevano le voci di chi si stava lamentando.
- Professoressa, non si preoccupi. Non è un problema. - Mormorai, ma lei non mi diede ascolto. Scrisse la nota, escludendomi, fortunatamente. Ma se la professoressa avesse deciso di parlare con mia madre o con mio padre? Se lo avesse fatto mio padre avrebbe scoperto che venivo preso in giro. Cosa mi avrebbe fatto? Rabbrividii, pensando all'ultima volta che mio padre aveva parlato con la professoressa di latino…
 
Ero stanco. Quella notte non avevo dormito, avevo passato tutta la notte in camera di mia sorella sveglio, per paura che mio padre potesse farle del male abusando di lei. Era diventata una bella ragazza, anche se aveva solo tredici anni. Assomigliava molto a mia madre, i lineamenti delicati erano gli stessi, come gli occhi, di quell’azzurro oceano meraviglioso. Avevo molto paura poiché quella sera mio padre a cena stava mangiando con gli occhi Annabelle. Sapevo cosa avrebbe potuto farle, così avevo pensato di rimanere con mia sorella che, accortasi degli sguardi di mio padre, aveva molta paura.
In classe non riuscivo a seguire la lezione. Il mal di testa aumentava ogni secondo di più, non dandomi pace.
- Ethan? Non credo sia il momento di dormire! - Esclamò una voce a me conosciuta: la mia professoressa. Aprii gli occhi, che non mi ero nemmeno reso conto di aver chiuso. Alzai lo sguardo e incrociai gli occhi nocciola della professoressa di latino.
- Mi scusi… - Mormorai imbarazzato abbassando il volto, mentre tutti i miei compagni di classe scoppiarono a ridere.
- Dovrò chiamare i tuoi genitori. - Disse decisa. Alzai di scatto lo sguardo. Andiamo, mi ero solo addormentato, non avevo disturbato nessuno. Era esagerato convocare i miei genitori.
- No, per favore, non li chiami. - La implorai, ma lei scosse la testa. - Potrebbe chiamare solo mia madre? - Chiesi allora speranzoso. Ma la professoressa scosse nuovamente la testa, tornando alla cattedra.
- Anche tuo padre deve sapere che dormi in classe. Non è nemmeno la prima volta. Certo, non ti eri mai addormentato, ma spesso pensi ad altro. Ti distrai molto facilmente, e non va affatto bene. - Affermò, mentre scriveva qualcosa sulla sua agenda insieme alla mia condanna a morte. ‘Grazie, grazie mille.’ Sapevo che sarebbe andata a finire male. Mio padre avrebbe usato quel pretesto per picchiarmi ancora più forte.
Ma lei che ne sapeva? Come poteva immaginare che durante la sua lezione pensavo a dove nascondere Annabelle, o a come nascondere i segni delle mie ferite? Non poteva. Non poteva assolutamente immaginarlo.
- Non è che per caso ha paura di suo padre? Piccolo, se gli toglie il telefono poi come fa a parlare con gli amici che non ha? - Sghignazzò qualcuno alle mie spalle. Scossi la testa, cercando di non pensare alle loro parole.
Avrei tanto voluto che mio padre mi togliesse il telefono al posto di una vita felice. Ma non era possibile fare uno scambio, sarebbe rimasto tutto così.
Durante la ricreazione la professoressa mi fece scendere in presidenza con lei. Lì chiamò mia madre, chiedendole anche di far venire mio padre. Sentii che mia madre stava cercando di dissuaderla dall’idea di farlo venire, ma la professoressa non sentiva ragioni. Aveva deciso così e così sarebbe stato. Quando riagganciò il telefono mi guardò.
- I tuoi genitori verranno a parlare con subito dopo scuola. - Annuii, anche se dentro stavo morendo. Sarebbe finita veramentemale.
Passai tutte le altre lezioni attento, per evitare di dover aggiungere qualche altro punto alla lista dei motivi per cui mio padre mi avrebbe picchiato. Quando suonò l’ultima ora iniziai a tremare. Andai dalla professoressa di latino, e insieme ci incamminammo verso l’ingresso della scuola. Lì c’erano i miei genitori. Vidi lo sguardo imbestialito di mio padre vicino a quello preoccupato di mia madre. Mi rincuorai, pensando che quel giorno non avrebbe fatto nulla a mia madre e ad Annabelle, ma avrebbe picchiato solo me.
La professoressa fece loro cenno di avvicinarsi. Quando mio padre mi fu accanto si avvicinò al mio orecchio.
- A casa facciamo i conti. - Mormorò, facendomi rabbrividire.
La professoressa fece entrare i miei genitori in una classe, mentre io rimasi fuori, seduto su una sedia. Aspettai per una mezz’oretta, torturandomi le mani. Quando uscirono dall’aula mi alzai in piedi. Mio padre mi fulminò con uno sguardo, mentre mia madre stringeva la mano alla professoressa.
- Arrivederci. - Disse quest’ultima. Poi mi guardò. - Ci vediamo domani. Vedi di dormire questa notte. - E così dicendo si allontanò, andando verso la sala professori.
Uscii fuori vicino a mia madre, mentre mio padre quasi correva verso la macchina. Aveva fretta di picchiarmi. Passammo il viaggio in silenzio. Tremavo. Nulla mi avrebbe salvato dalla punizione che mi aspettava. Mio padre sembrava stesse pensando a quale condanna infliggermi, considerando i ghigni che apparivano sul suo volto teso.
Appena parcheggiò davanti casa, scese dalla macchina e mi tirò fuori strattonandomi. Aprì la porta e mi buttò dentro. Mia madre chiuse la porta dietro di noi.
- Così osi addormentarti in classe, eh?! - Urlò buttandomi a terra. Iniziò a picchiarmi selvaggiamente come non aveva mai fatto. Ma smise quasi subito, per chiamare Fido. - Sembra che ciò che ti faccio non ti fa cambiare comportamento. Bene, allora cambio io! Fido! - Lo richiamò a gran voce. Ma  il cane non arrivava. Mi prese per i capelli e mi trascinò fino alla cucina. Lì vedemmo il cane dormire. Mio padre mi guardò, ghignando.
- Prendilo in braccio. - Mi ordinò. Feci come mi aveva chiesto, cercando di non svegliarlo, mentre lui riempiva una brocca d’acqua. - Vai in camera tua. - Mi disse quando la brocca fu piena. Feci come mi aveva ordinato. Una volta in camera mio padre buttò tutta l’acqua addosso a Fido, svegliandolo. - Così impari! - Esclamò, prima di uscire dalla mia camera chiudendo la porta a chiave.
Lasciai cadere a terra Fido, impaurito di quello che mi avrebbe potuto fare.
- Buono…buono… - Mormorai, quando iniziò a ringhiarmi contro. Mi saltò addosso, facendomi cadere e iniziò a mordermi e a graffiarmi i vestiti e la pelle nuda. Tutto il corpo bruciava e sanguinava. Mi morsi la lingua cercando di non urlare ad ogni morso. Se non mi fossi addormentato in classe, tutto quello non sarebbe successo. Ormai potevo solo sperare che mio padre venisse a richiamare Fido o che quest’ultimo si stancasse di ferirmi.
Non sapevo quanto tempo fosse passato. Secondi? Minuti? Ore? Difficile a dirsi. Sapevo solo che improvvisamente non sentii più il peso del cane sopra di me, ma solo due piccole braccia che mi stringevano tremando e il profumo dello shampoo alla pesca dei bambini…
 
Scossi la testa, riprendendomi da quei pensieri e andai velocemente al bagno. Dovevo riflettere su Annabelle. Come poteva rovinarsi la vita in quel modo? E io non avevo fatto nulla! In quel momento mi odiai. Non sarebbe mai dovuto succedere, e invece… Mi passai il volto tra le mani, per poi lavarmelo con dell’acqua fredda. Sarebbe andato tutto bene. Avremmo superato anche questo ostacolo. Con questi pensieri tornai in classe, pronto ad affrontare il resto della giornata.

****

A fine lezione andai, come al solito da ormai un anno, nella palestra della scuola. Appena entrai, la bidella mi diede le chiavi della palestra degli attrezzi. La ringraziai. Poi percorsi i lunghi corridoi della scuola, fino ad arrivare nel luogo desiderato. Aprii la porta e posai le chiavi su un tavolinetto. Mi diressi a passo spedito verso la porta infondo alla stanza. L’aprii e tirai fuori un sacco da boxe. Lo appesi ad una catena di ferro per poi allontanarmi. Controllai che fosse appeso bene e che non pendesse da un lato. Mi tolsi la maglietta che avevo. Poi ne presi dallo zaino a mezze maniche, tanto non sarebbe venuto nessuno a disturbarmi, e la infilai. Presi la mira e iniziai a colpire il sacco. Dritti, rovesci, ganci, tutto con la massima potenza. Ogni volta che lo colpivo mi sentivo più vivo.
Quando il sangue esce ho la prova che sono viva, che sono una persona, non solo un involucro di pelle ed ossa che si trascina avanti giorno dopo giorno.
Rabbrividii al pensiero di quelle parole. Dovetti chiudere gli occhi e fermare il sacco per riprendermi. Presi un respiro profondo, per poi ricominciare a colpire con una potenza dettata dalla sofferenza e dall’odio.
Odiavo mio padre. Non mi importava quello che faceva a me, ma per colpa sua Annabelle aveva iniziato a tagliarsi e…
- Allora non è vero che il cosiddetto “secchione con problemi di testa” si rifugia qua per fare matematica! - Esclamò una voce femminile interrompendo i miei pensieri. Sobbalzai spaventato. Nessuno era mai venuto a disturbarmi. Fermai il sacco e mi voltai. Vidi davanti alla porta una ragazza sorridente con le braccia incrociate al petto. Era minutina, aveva i capelli rossi e delle lentiggini graziose spuntavano sulle sue guance. Ma ciò che mi colpì particolarmente furono gli occhi azzurri, come il cielo. - Ci sei? - Mi chiese. Mi resi conto solo in quel momento che la stavo fissando.
- Si, si. - Risposi come un idiota. Lei mi sorrise e si avvicinò. In quell’istante mi ricordai che avevo una maglietta a mezze maniche. Mi allontanai velocemente e andai verso lo zaino, ma la ragazza mi prese per un polso, facendomi fermare.
- Cosa ti è successo? - Chiese preoccupata guardando tutte le ferite che avevo lungo le braccia. Per fortuna la schiena non era visibile, avevo una cicatrice di quando mio padre mi aveva bruciato.
- Nulla, incontri di boxe. - Dissi la prima cosa che mi venne in mente. Corrugò la fronte.
- Mmmm…e quando fai questi incontri vengono ammessi anche dei cani in campo? - Deglutii a vuoto. Beccato.
- No, è che ho un cane, si chiama Fido. Spesso quando giochiamo mi morde, ma a chi non succede? - Dissi, cercando di non insospettirla.
- A me. - Rispose tranquilla. - Guarda che l’ho capito che non ne vuoi parlare. - Aggiunse poi, lasciandomi a bocca aperta
- No, infatti. - Ammisi. - Come mai sei qui? - Chiesi particolarmente curioso e impaziente di cambiare argomento. Lei scrollò le spalle.
- Ho sentito dire da alcuni ragazzi che dopo le lezioni un “secchione con problemi di testa” veniva qua. Secondo loro era per studiare, ma per me non era così. Andiamo, esiste la biblioteca! Allora ho pensato di venire a vedere di persona. A quanto pare avevo ragione io. - Disse, sorridendo soddisfatta.
- Oh. E chi sarebbero questi ragazzi? - Ci pensò un po’ prima di rispondere.
- Mmmm…un po’ tutta la scuola. - Sbarrai gli occhi. Probabilmente la mia faccia era buffa, dato che lei scoppiò a ridere. - Sei famoso. Tutti ti considerano pazzo! - Esclamò quando si fu ripresa dall’attacco di ridarella.
- E perché? - Chiesi perplesso.
- Beh, perché passi tutto il giorno a studiare, non esci mai e non hai amici. - Wow, diretta la ragazza. Ma le sue parole stranamente non mi ferirono.
- E per questo sarei matto? - Annuì.
- La gente è strana. - Constatò infine. Alzai un sopracciglio.
- Allora lo siamo pure noi. -
- Certo. Tutti siamo strani, chi più, chi meno. Non credo però che tu sia matto. - Scossi la testa.
- Non lo credo nemmeno io. Ma la gente parla. -
- E tu lasciali parlare, no? - Annuii.
Era una strana situazione. Stavo parlando con una ragazza appena conosciuta di cui non sapevo nemmeno il nome dopo aver passato due anni da solo, senza nessuno. L’avevo appena conosciuta, ma sentivo di potermi fidare.
- Scusami, ma ora devo proprio andare. Comunque io mi chiamo Hope. - Disse porgendomi la mano. Sorrisi amaramente. Speranza. Avevo smesso di sperare all’età di nove anni…
Le presi la mano e la strinsi.
- Ethan. - Risposi semplicemente.
- Ci vediamo. -
- Si. -
E così se ne andò, veloce come era venuta. Sentivo una strana sensazione, mi sentivo più solo che mai. Sentivo il bisogno di rivederla, di conoscerla meglio. Ma sapevo che non era una cosa positiva. Lei non sarebbe mai dovuta entrare nella mia vita, o avrebbe sofferto inutilmente.









HEI!!!
finalmente entra in scena una ragazza c:
che ne pensate? era come la immaginavate?
il nostro Ethan, per la gioia di molti di voi, fa sport. certo, non va in palestra, ma si allena tutti i giorni c:
oggi non ho molto da dire.
ringrazio coloro che hanno inserito la storia tra le preferite e seguite, i lettori silenziosi e coloro che hanno recensito xxx
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 7
*** Grazie ***


Grazie
 
Il giorno dopo, appena arrivai a scuola, vidi all’ingresso Hope appoggiata al muretto. Al suo fianco c’era un ragazzo molto alto con i capelli rossi che le stava parlando. Hope annuiva, anche se in mano teneva un telefono e molto probabilmente non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando quel ragazzo. Pensai subito che, se io non ascoltavo mio padre, venivo picchiato. Sarebbe stato veramente bello poter fare come lei.
Ero così immerso nei miei pensieri che non mi resi conto di starla fissando intensamente. Ma lei, come il giorno prima, se ne era accorta. Mi sorrise e, dopo essersi congedata dal suo amico, si avvicinò a me. Mi riscossi e le sorrisi.
- Buongiorno! - Esclamò quando mi fu vicino.
- Ciao. -
- Per fortuna sei arrivato, non ce la facevo più a sopportare mio fratello! - Ammise scoppiando a ridere. Quindi quel ragazzo era suo fratello. Perché mi sentivo un po’ più leggero?
Scossi mentalmente la testa e le sorrisi.
- Entriamo? - Chiese poco dopo. Annuii.
- Che classe fai? - Le chiesi appena varcammo la soglia dell’istituto.
- Il terzo, te? -
- Il quarto. - Pensavo avesse la mia età, invece era più piccola.
- Anche quello scimmione di mio fratello fa il quarto. Si chiama Luke. - Mi disse. - E te? hai sorelle o fratelli? - Mi rabbuiai, pensando ad Annabelle e ai suoi polsi. Probabilmente Hope se ne rese conto, infatti mi disse: - Se è un argomento tabù per te, dimmelo, eviterò anche in futuro. - Scossi la testa.
- No, tranquilla, nessun problema. Ho una sorella di quattordici anni, si chiama Annabelle. Il problema è che sta passando un periodo un po’ complicato. - Ammisi.
- Adolescenza, vero? - Chiese, sicura di ciò che aveva detto. Magari fosse stata solo l’adolescenza…
Tutti dicevano che l’adolescenza fosse un periodo difficile. Per noi, tutta la vita fino a quel momento era stato un periodo difficile. Non faceva differenza se eravamo adolescenti o no, soffrivamo lo stesso.
- Già, adolescenza… - Mormorai, non molto convinto.
Probabilmente se ne accorse, ma non toccò più l’argomento.
- Allora, potresti dirmi oggi come ti sei procurato quelle ferite? - Chiese dopo poco. Scossi la testa. Se avesse saputo la verità, se ne sarebbe andata, e io avevo bisogno di lei, anche se la conoscevo da un solo giorno.
- No, mi dispiace. - Dissi abbassando lo sguardo.
- E di che? Tranquillo, nessun problema. Tanto io sono qui quando vuoi. - Le sorrisi.
- Grazie. - Mormorai mentre suonava la campanella. Pensai non mi avesse sentito, ma il suo sorriso mi fece capire che non era così. Si allontanò velocemente verso le scale. Poi, prima di salire, si girò verso di me.
- Ci vediamo a ricreazione? - Chiese speranzosa. Annuii. Il suo volto si illuminò con un meraviglioso sorriso. - A dopo, allora! - Esclamò facendomi sorridere.
- Si, a dopo. -
Rimasi qualche istante a guardarla, poi mi girai per andare in classe, al piano terra. Stavo per entrare in aula, quando mi sentii prendere dallo zaino e tirare indietro. Sbarrai gli occhi sorpreso. Pochi istanti dopo mi trovai davanti un armadio a quattro ante. Lo osservai attentamente, e mi resi conto che era lo stesso ragazzo che prima stava parlando con Hope. Constatai quindi che mi trovavo davanti al fratello, Luke. E in effetti si assomigliavano molto. I capelli erano dello stesso colore e i lineamenti non troppo marcati erano una caratteristica che li accomunava. Gli occhi invece erano diversi. Mentre Hope li aveva azzurro cielo, il fratello li aveva neri, come la pece.
- T-ti serve qualcosa? - Chiesi titubante.
- Si, che tu stia lontano da mia sorella! - Mi ringhiò contro, prendendomi per il collo della maglietta. - Tu sei solo un povero sfigato svitato, non hai nemmeno il diritto di guardarla, capito?! - Continuò alzando sempre più la voce. Annuii, leggermente spaventato.
Anche se venivo picchiato da mio padre e la paura che provavo quando succedeva era superiore a quella di quel momento, non potei evitare di tremare.
Mi sbatté contro il muro, procurandomi un dolore immane alla schiena. Lì, infatti, avevo un graffio abbastanza profondo procuratomi da Fido la sera precedente.
Luke e i suoi amici scoppiarono a ridere. Poi mi lasciarono lì, nel corridoio, da solo.
Come sempre, alla fine.
Mi alzai in piedi e mi ricomposi. Poi entrai in classe e mi sedetti al mio banco.
Non vedevo l’ora che quella giornata finisse. Non era nemmeno iniziata, ma già non ce la facevo più.

****

A ricreazione, quando vidi Hope, la evitai. Mi dispiaceva, mi ero già affezionata a lei, ma non volevo che il fratello ci vedesse.
- Ethan, aspetta! - Mi sentii chiamare quando stavo per entrare al bagno. Spesso mi capitava di andarci per rimanere solo. Mi voltai e vidi Hope, completamente rossa in volto e con il fiatone. Poggiò le mani sulle gambe, piegandosi leggermente in avanti per riprendere fiato.
Quando si fu ripresa mi guardò.
- Perché mi stai evitando? - Chiese, e notai un velo di tristezza nella sua voce. Mi sentii particolarmente in colpa. Come avevo potuto dirle che ci saremmo visti e poi ignorarla?
- S-scusami… - Mormorai imbarazzato.
- È successo qualcosa? - Domandò molto preoccupata. Scossi la testa abbassando lo sguardo. Cosa le dicevo? “Guarda, tuo fratello mi ha sbattuto contro il muro, dicendomi che non ti devo più parlare!”? No, non era una buona idea. - Guarda che me l’hanno detto. - Disse poco dopo. Alzai di scatto la testa e la guardai, aggrottando la fronte. A cosa si riferiva? - Mi hanno detto quello che è successo tra te e mio fratello. - Si sbrigò a spiegare quando notò la mia espressione.
- Oh. - Fu l’unica cosa che riuscii a dire.
- Devi lasciarlo stare, è solo un idiota! - Esclamò. - Ma ti ha fatto male? Perché se è così lo vado a picchiare. - Disse sicura di se, facendomi sorridere.
- No, tranquilla. - Ho subito di peggio, avrei voluto aggiungere, ma non era il caso. Probabilmente si rese conto di quelle parole non dette e abbassò lo sguardo.
- Mi dispiace. - Mormorò. Chissà cosa stava capendo…
- Tranquilla. - La rassicurai. Lei alzò lo sguardo e mi abbracciò. Rimasi sorpreso da questa sua reazione, ma poi mi lasciai andare, beandomi del suo profumo.
- Qualsiasi cosa io sono qui. - Disse, mentre posava la testa nell’incavo del mio collo, provocandomi dei brividi.
- Grazie. -
Rimanemmo per un po’ abbracciati, poi lei si allontanò.
- Tu non dovevi andare al bagno? - Chiese imbarazzata.
- Emmm… no, ci stavo andando per rimanere solo. - Ammisi, più imbarazzato di lei.
- Oh. Capisco. - Disse annuendo lentamente. - Oggi ti alleni? - Domandò poco dopo.
- Si, come tutti i giorni. - Dissi, facendola sorridere.
- Posso venire a vederti? - Chiese speranzosa. Mi grattai la testa. Non sapevo assolutamente cosa fare. Se veniva, avrebbe visto tutte le mie ferite? Se ne sarebbe andata? O sarebbe rimasta?
- Non so, fai come vuoi. - Dissi infine.
- Allora ci vediamo dopo scuola! - Esclamò. Sorrisi.
- Perfetto. -
Rimanemmo per un po’ a parlare, poi suonò la campanella e tornammo in classe.
Passai le ore rimanenti a pensare ad Hope. Era strano, ma mi ero affezionato veramente molto a quella ragazza. Ogni volta che la vedevo il mio cuore si alleggeriva e il mio volto si distendeva.
Era una ragazza a posto, tranquilla ma allo stesso tempo esuberante. Era particolare, ma proprio per quello ero attratto da lei.
Ecco, lo avevo ammesso.
Ero attratto da lei.

****

Quando le lezioni finirono, andai come al solito a prendere le chiavi. Poi andai verso la palestra attrezzi. Quando fui davanti alla porta, vidi che Hope era già arrivata. Aveva lo sguardo basso, e un paio di cuffiette nelle orecchie. Mi schiarii la voce, sperando che mi sentisse, ma lei continuò a sentire la musica. La chiamai, ma non mi rispondeva. Scossi la testa e mi avvicinai, scuotendola leggermente per la spalla. Sobbalzò appena la toccai. Si tolse una cuffietta, posando l’altra mano sul petto.
- Mio Dio, Ethan, mi hai spaventato! - Esclamò. Scoppiai a ridere. Poi infilai le chiavi nella serratura e aprii la porta.
Posai come al solito il mio zaino per terra, poi presi il sacco e lo appesi alla catena. Quando mi voltai per prendere la maglietta, non trovai lo zaino. Mi girai e vidi che lo aveva preso Hope.
- Tieni. - Disse, porgendomi la maglia.
- Grazie. - Stavo per sfilarmi la maglietta, quando mi ricordai delle ferite. - Emmm… non è che potresti girarti, o proprio uscire? - Chiesi molto imbarazzato. Scoppiò a ridere.
- Ti ricordo che ho un fratello, non mi scandalizzo mica! E poi devi toglierti solo la maglietta. -  Esclamò continuando a ridere. ‘Appunto, devo togliere la maglietta…’ Notò subito la mia espressione seria e smise di ridere. - Senti, - Cominciò seria avvicinandosi. - Ieri sono arrivata qui non appena hai aperto la porta. Ho visto la schiena, okay? Lo so che avresti preferito che non succedesse, e mi dispiace. Ma è successo. Ho visto quella cicatrice. Ho visto i lividi, i tagli, i graffi, i morsi. Tutto, spero. Non so come tu faccia a sopportare una cosa del genere. Ma li ho visti. E se non mi sono disgustata la prima che li ho guardati, non lo farò nemmeno ora. -
Rimasi a bocca aperta. Lei aveva visto tutto, aveva visto quell’orrore. Mi sentivo violato, aveva violato la mia intimità. Mi sentivo scavato nel profondo. Ora, di fronte a lei ero nudo. Con poche parole aveva fatto crollare quel muro di difesa formato da bugie e sorrisi finti che avevo creato in anni di sofferenza.
- Terra chiama Ethan, ci sei? - Disse passandomi una mano davanti al viso e riportandomi alla realtà.
- Si, si, ci sono. Grazie. - Dissi. Lei aggrottò la fronte.
- Per cosa? - Chiese confusa.
- Perché non te ne sei andata. -






HEI!!!!
ce l'ho fatta! yeaaaaa
dopo tanto tempo ho aggiornato di nuovo :D
che ne pensate?
a me, personalmente, non convince molto, però si sono scoperte alcune cosucce.
ed è entrato in scena Luke! preparatevi, perché lo vedrete abbastanza spesso c:
ringrazio i lettori silenziosi, coloro che hanno recensito e chi ha inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 8
*** Non riesco a salvarti ***


Non riesco a salvarti
 
Dopo essermi sfogato sotto lo sguardo affascinato di Hope, tornai a casa.
Mi sentivo leggero, mi sentivo pronto ad affrontare qualsiasi cosa.
Ma non era così.
Quando entrai dalla porta di casa, sentii qualcuno piangere. Ero preoccupatissimo: e se mio padre fosse tornato prima e avesse fatto del male ad Annabelle? Non me lo sarei perdonato.
Salii di corsa le scale e, seguendo il rumore dei singhiozzi, entrai al bagno.
Rimasi pietrificato. Seduta sulla vasca c’era Annabelle, con in mano una lametta.
- Annabelle! - Esclamai avvicinandomi a lei. Sobbalzò, probabilmente non mi aveva sentito.
- E-Ethan. - Mormorò tra i singhiozzi.
- Cosa stai facendo? - Le chiesi allontanando dal suo polso la lametta.
- Nulla. - Rispose lei tranquillamente. Chiusi gli occhi e presi un respiro profondo.
Poi la guardai.
- Farti del male non è nulla. - Dissi severo.
Annabelle abbassò lo sguardo, forse pentita. Intanto le presi il polso e notai che si era fatta solo un taglio, per fortuna. Posai la lametta sul lavandino, poi presi dell’acqua ossigenata e della garza. Le medicai il taglio, poi lo coprii con la garza.
- Perché lo hai rifatto? - Domandai preoccupato. Annabelle tirò su con il naso prima di parlare.
- In classe tutti mi prendono in giro. Mi dicono che sono brutta, grassa, antipatica, una secchiona. Credono anche che mi piaccia la scuola solo perché vado bene. Non perdono mai occasione per dire che sono la cocca dei professori. Mi buttano a terra dicendomi che sono inutile, servo solo a pulire il pavimento con i miei vestiti scadenti. Mi rubano la merenda. Mi escludono praticamente da tutto, dalla squadra di pallavolo alle feste. E sai una cosa? Penso proprio che facciano bene. Sono un mostro. - Disse tutto d’un fiato.
Ero allibito. Come potevano dire certe cose di mia sorella? Le presi il volto tra le mani per guardarla negli occhi, ma lei abbassò lo sguardo.
- Annabelle, guardami. - Le chiesi. Alzò lo sguardo. I suoi occhi erano rossi e pieni di lacrime. - Non è vero. Nulla di quello che ti dicono è vero. Tu sei una ragazza fantastica e non meriti tutto questo. Ti prego, smettila di farti del male. Lo so che è difficile, ma provaci. - La implorai.
- Non ci riesco. - Mormorò alzandosi in piedi e andandosene via, probabilmente nella sua camera.
Rimasi in bagno in ginocchio a pensare.
Ero un pessimo fratello. Non riuscivo a fare nulla, non riuscivo ad aiutarla. Lei aveva bisogno di me e l’unica cosa che riuscivo a fare era continuarle a ripetere che ciò che faceva era sbagliato. Non avevo fatto nulla per evitare che tutto ciò accadesse. Non avevo fatto nulla per evitarle tutto quel dolore.
Mi sentivo in colpa.
Mi sentivo dannatamente in colpa. Dovevo solo proteggere lei e mia madre, non era difficile. Eppure non c’ero riuscito. Avevo fallito nel mio unico compito.
Come era potuto succedere? Avevo sbagliato qualcosa? Forse stavo iniziando a pensare troppo a me stesso e poco a lei. La stavo trascurando. Lei non meritava tutto quel dolore. Non meritava nemmeno uno schiaffo di mio padre, figuriamoci quei tagli. Che poi non erano quelli i tagli più importanti. Quelli veri erano nel suo cuore. Il suo cuore continuava ad essere colpito da violenze fisiche e psicologiche, da insulti e umiliazioni. Il suo cuore, come il mio era distrutto, lacerato, squartato. Ci stavano privando lentamente della vita ma nessuno se ne accorgeva, nessuno faceva niente.
Lei meritava solo della felicità. Eppure non ero riuscito a fare nulla. Lei continuava a soffrire anche più di prima, e io intanto a scuola iniziavo a stare bene.
Ma cosa potevo fare? Come potevo aiutarla? Come potevo tirarla fuori da quel baratro immenso in cui era caduta?
‘Mi dispiace.’ Pensai rivolto a lei. ‘Non riesco a salvarti.’
 

Annabelle

Corsi in camera mia e mi chiusi la porta alle spalle. Mi buttai sul letto in lacrime, iniziando a prendere il cuscino a pugni.
Continuavo a deludere mio fratello, facendolo sentire inutilmente in colpa. Perché ero nata? Sarebbe stato meglio per tutto se non fosse mai successo. Magari se non fossi mai nata nostro padre, o meglio, suo padre non lo avrebbe mai picchiato. Adesso Ethan starebbe bene. Magari sarebbe andato a pescare con lui, oppure avrebbero messo la tenda in giardino fingendo di stare ad un campeggio. Chissà. Il punto era che io non sarei mai dovuta nascere.
I miei compagni di classe avevano ragione: portavo solo danni, ero una catastrofe. Ero un mostro che non sarebbe mai dovuto esistere.
Mi girai a pancia in su, portando le mani incrociate sul mio stomaco. Lo stesso stomaco che in quel momento brontolava. Ma non potevo mangiare. Se lo avessi fatto sarei ingrassata ancora di più, e già pesavo troppo: cinquanta chili per un metro e sessanta era veramente un peso inaccettabile.
Cosa avevamo fatto di male io, Ethan e la mamma per capitare in una situazione del genere? Me lo chiedevo ormai tutti i giorni, ma non trovavo mai una risposta. Io sicuramente lo meritavo, ma Ethan e la mamma no. Eppure erano loro quelli che soffrivano di più. Era tutti il contrario rispetto a ciò che sarebbe dovuto essere e ormai non ci capivo più nulla.
Mi alzai da letto e presi dalla scrivania il mio mp3. Mi faceva sempre bene ascoltare un po’ di musica, mi calmava. Così infilai le cuffiette e misi la riproduzione casuale. Chiusi gli occhi, dopo essermi allungata di nuovo, e piano piano mi addormentai, pregando qualcuno di svegliarmi da questo incubo che era la mia vita.
 

Ethan

Mi alzai da terra e andai in camera di Annabelle, volevo parlarle. Ma quando entrai, la trovai addormentata sul letto con un paio di cuffiette nelle orecchie.
Mi avvicinai alla sua scrivania per sedermi sulla sedia, ma la mia attenzione venne catturata da un quaderno nero. Sapevo che non avrei dovuto aprirlo, ma ero veramente curioso. Mi sedetti sulla sedia e iniziai a sfogliare le pagine di quel quaderno, lanciando ogni tanto uno sguardo verso Annabelle per assicurarmi che dormisse.
 
Correre. Voglio correre lontano dalla mia vita. Voglio nascondermi da essa e rimanere in attesa che tutto migliori.
 
Rimasi colpito da quelle parole. In fin dei conti era la stessa cosa che avrei voluto fare io…
 
Nessuno si accorge che sto male, che ho bisogno di qualcuno. Mi basterebbe  anche un solo abbraccio, ma di quelli sinceri. Un abbraccio che mi dica: tranquilla, ci sono io.
Ma non c'è nessuno qui con me.

 
Sono stanca di tutta questa tristezza, sono stanca di tutte queste lacrime.
 
Più leggevo più stavo male. Leggere tutta quella tristezza mi faceva stare male. Sapere che mia sorella aveva scritto quelle cose mi faceva stare male.
 
E io che pensavo che sarei stata bene...
 
E se qualcuno mi vedesse in lacrime, mi chiederebbe cosa è successo?
Fa troppo male pensare ad una risposta negativa...
 
Dicono che se il sangue circola nelle tue vene sei vivo.
Allora perché io mi sento morta?
Perché dentro mi sento marcia?
Il mio sangue scorre, scorre, scorre anche fuori dalle mie vene. Arriva a terra macchiando il pavimento e le mie emozioni. Il sangue le ovatta, non facendomi provare quasi nulla. I miei sorrisi tirati si trasformano in lacrime amare, che si mischiano con quel sangue impuro.
Perché sto così male?
Sono viva?
Perché?
Meriterei solo la morte…

 
Chiusi di scatto il quaderno. Non avrei mai dovuto leggerlo, ed ora sapere tutte quelle cose mi faceva sentire ancora più male. Avevo gli occhi pieni di lacrime. Come poteva pensare di meritare la morte?
Mi avvicinai al suo letto e le accarezzai con il dorso della mano la guancia destra.
- Starai bene. - Sussurrai. - Starai bene, te lo prometto. -
Poi mi allontanai e uscii dalla sua stanza per andare nella mia, più triste che mai.





HEI!!
finalmente ho aggiornato :D
scusate, ma non avevo idee .-.
cooomunque, che ne pensate?
la nostra piccola Annabelle continua a soffrire, secondo voi Ethan riuscirà a farla stare bene?
lo scoprirete solo nella prossima puntata! (?)
okay, meglio se me ne vado
ringrazio coloro che seguono questa storia e coloro che recensiscono c: veramente tante tante grazie
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx
PS: non avevo nulla da fare e ho iniziato a scrivere questa storia, se vi va, passate -------> http://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1919492&i=1
PPS: si, rompo ancora lol
però sono curiosa :D
secondo voi quanti anni ho?? no perchè alcuni di voi mi hanno detto alcune età un po'....mmmm...vabbè, età che non mi "appartengono" sono veramente troppo curiosa!! (ilaperla, abbassa la mano, tu lo sai :P)
beh, ora ho veramente finito
ciaaaaaaaaaao

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Capitolo 9
*** L'errore più grande e più bello della mia vita ***


L’errore più grande e più bello della mia vita
 
La sveglia quella mattina mi sembrò più rumorosa del solito, volevo solo dormire. Volevo non dovermi svegliare, perché farlo avrebbe voluto dire iniziare una nuova giornata, e quella era una giornata orribile: mio padre sarebbe tornato.
Quando riuscii ad aprire gli occhi, vidi attaccato all’armadio difronte al mio letto un foglio. C’era scritto: AUGURI FRATELLONE! ♥ FINALMENTE 18!
Sorrisi, quella era ovviamente opera di Annabelle. Mi alzai in piedi ed andai in camera sua, ma quando aprii la porta, trovai la stanza vuota.
Meravigliato scesi giù in cucina. Appena misi piede nella stanza, Annabelle mi saltò al collo.
- Auguri fratellone! - Urlò trapanandomi un timpano.
- Grazie Annabelle. - Dissi sorridendo. - Ma a cosa dobbiamo tutta questa felicità? - Chiesi meravigliato dal suo cambio di umore.
- Oggi è una bella giornata. - Disse semplicemente, sorridendo.
Mia madre si avvicinò a me e mi abbracciò.
- Auguri tesoro. -
- Grazie mamma. -
Mi sedetti a tavola e notai, con mia grande sorpresa che erano entrambe sorridenti. Non capitava mai, in casa mia regnava sempre la tristezza. Che mi fossi perso qualcosa? Era successo qualcosa durante la notte? O forse avevo sognato tutti questi anni di percosse e insulti?
- Scusate, posso sapere cosa è successo? - Chiesi veramente curioso.
- No! - Esclamò Annabelle ridendo. Okay, c'era veramente qualcosa che non andava.
- Mamma, almeno tu...? -
- No tesoro, è una sorpresa. - Disse lei interrompendomi. Sbuffai. Non sarei mai riuscito a capire il motivo di tutta quella felicità fino a quando non me lo avrebbero detto loro. E sembravano non volerlo fare.
Quando finii di fare colazione salii in camera mia e cercai qualcosa da mettermi. Non sprecai troppo tempo, presi la prima cosa che trovai nel cassetto e andai al bagno a farmi una doccia. Appena tolsi la maglietta, capii che non era stato un sogno lunghissimo, ma la pura e semplice realtà. Sarebbe stato troppo bello se fosse stato un lungo incubo…
Scossi la testa cercando di scacciare quei pensieri e mi misi sotto il getto d'acqua fredda.
Quando fui pronto, mi diressi velocemente verso scuola.
Un'altra schifosa giornata scolastica stava per iniziare, con l'unica differenza rispetto alle altre che ero maggiorenne. Iniziai a pensare a tutti i ragazzi che festeggiavano i loro diciotto anni in discoteca con gli amici e provai un senso di gelosia. Cosa avevo io di diverso dagli altri ragazzi per non meritare una festa? O degli amici? O un padre che mi volesse bene?
- Hei! - Esclamò una voce alle mie spalle, mentre due piccole mani si posavano sui miei occhi, facendomi sorridere.
- Buongiorno Hope. - Salutai girandomi. Lei mi sorrise calorosamente facendomi sciogliere. Era veramente bella.
- Come stai? - Mi chiese mentre ci incamminavamo  uno affianco all'altra verso l'ingresso.
- Tutto bene. - Dissi pensandolo veramente per la prima volta. - Te? -
- Alla grande. - Rispose lei sorridendo. Stavamo dentro scuola, quando sentii uno sguardo perforarmi la schiena, e credevo di sapere anche a chi appartenesse. Mi fermai e guardai Hope.
- Senti, non credo di stare proprio simpatico a tuo fratello. Forse è meglio se ci vediamo dopo. - Dissi, indicando con lo sguardo dietro di me. Hope guardò oltre la mia spalla e probabilmente vide il fratello. Infatti fece una linguaccia, poi mi abbracciò.
- Non me ne frega nulla. - Disse semplicemente rimanendo incollata a me. Inspirai a fondo il suo profumo dolce, senza riuscire ad allontanarmi da lei.
- Forse a te non importa, ma io non vorrei essere picchiato due volte in un giorno. - Mi lasciai sfuggire. Mi diedi immediatamente dell'idiota, mentre Hope si allontanava. Mi guardò con aria preoccupata.
- Chi è che ti picchia? - Chiese mordendosi il labbro inferiore. Scossi la testa provando ad allontanarmi, ma mi prese per un braccio. - Un tuo amico? Uno a cui hai fregato la ragazza? Un conoscente? Uno a cui devi dei soldi? Uno a cui stai antipatico? Il tuo spacciatore perché non lo hai pagato? Il calzolaio? Il panettiere? Chi? - Chiese con insistenza, facendomi sorridere.
- Il panettiere, eh? - Domandai ridendo sotto i baffi. Lei sbuffò.
- Sto dicendo le prime cose che mi vengono in mente, e dato che dopo scuola devo andare a prendere il pane volevo sapere se era lui. Ma dato che non è, potrai accompagnarmi. - Disse per poi trascinarmi su per le scale.
- Dove stiamo andando? - Chiesi preoccupato. Non potevo fare tardi in classe.
- Tranquillo mister puntualità, sono le otto, hai ancora un quarto d'ora. - Mi rassicurò. Ignorai il nomignolo, scuotendo la testa. Lei continuò a trascinarmi per i corridoi, mentre tutti i ragazzi ci guardavano ridendo. Beh, non capitava tutti i giorni di vedere un secchione muscoloso alto metro e novanta essere trascinato da una ragazza meravigliosa di appena un metro e sessanta. Al posto loro avrei fatto lo stesso.
Ero così immerso nei miei pensieri che non mi accorsi nemmeno di essere entrato in uno stanzino.
- Qui puoi dirmi tutto, non passa mai nessuno. - Mi disse lei.
- Certo, vorrei vedere qualcuno venire in questo stanzino buio, piccolo e puzzolente. - Dissi facendola ridere.
- Andiamo, fai il serio. - Mi chiese, mentre accendeva la luce.
Chiusi gli occhi, poggiandomi alla parete libera dietro di me.
- È così banale che non lo indovinerai mai. - Mormorai. Lei non disse nulla. Poco dopo sentii la sua mano sul mio petto.
- Chi può voler così male ad una persona come te? - Chiese, più a sé stessa che a me. Sospirai, mentre sentivo la sua mano andare su e giù sul mio petto. Mi accorsi di star trattenendo il fiato solo quando ripresi a respirare non appena tolse la mano. - Non lo so. - Ammise infine delusa.
Forse non avrei dovuto dirglielo. O forse si. Sta di fatto che in quel momento non ero lucido e feci l'errore più grande e più bello della mia vita.
- Mio padre. - Mormorai tenendo gli occhi chiusi per non vedere il suo volto. Sapevo cosa sarebbe successo: avrebbe pensato che se mio padre mi picchiava voleva dire che ero veramente una persona spregevole, che meritava di essere lasciata sola. Se ne sarebbe andata, facendomi stare male. Non ero ancora pronto a quel dolore, ma alla fine avevo fatto da solo dicendole tutto.
Ciò che invece fece mi lasciò spiazzato. Posò le sue mani sulle mie spalle. Mi accorsi che si era avvicinata solo quando sentii il suo respiro sulla mia pelle. Aprii gli occhi e vidi che si trovava a pochi centimetri di me. Mi sorrise, accarezzandomi il volto.
- Se pensi che io me ne vada, sbagli di grosso. - Mormorò.
In quel momento ero veramente fuso, perché mi avvicinai al suo volto per baciarla.
Mi resi conto all'ultimo di cosa stavo facendo e girai il volto, dandole un bacio all'angolo della bocca.
- Grazie. - Dissi semplicemente.
- Di nulla. -
Posai le mie mani sui suoi fianchi e la strinsi a me, affondando il volto tra i suoi morbidi capelli e godendomi nuovamente il suo profumo.
- Io rimarrò, sempre. - Disse decisa. La strinsi ancora di più a me, stando attento a non farle male. Poi mi allontanai e le sorrisi.
- Forse è meglio se andiamo. - Dissi. Hope sbuffò.
- Scusami, ma cosa succede se arrivi tardi in classe? - Chiese curiosa.
- Beh, potrei prendere una nota, e quindi darei a mio padre un motivo in più per picchiarmi. - Ammisi, facendole spalancare gli occhi.
- Allora è meglio se ti sbrighi. Sono le otto e tredici. - Disse lei seria. - Ci vediamo a ricreazione? -
- Si. - Risposi sorridendo.
- Non fare come l'altra volta, eh? - Mi rimproverò scherzosa.
- No, tranquilla. A dopo. - Dissi per poi scendere al piano inferiore velocemente.
Entrai in classe pochi secondi prima del professore di filosofia. Si aspettava una mattinata pesante, anche perché avremmo avuto subito dopo due ore di matematica e una di inglese.
Sospirai iniziando a tirare fuori il materiale e mi preparai per quella tortura.

****

Durante la ricreazione salii al piano di sopra per andare da Hope. Solo quando fui davanti allo stanzino dove mi aveva portato prima, mi ricordai che non sapevo quale classe frequentava. Sapevo solo che faceva il terzo, ma su quel piano c’erano almeno quattro terzi. E poi cosa mi assicurava che lei non stesse al piano ancora più su?
Fortunatamente la vidi nel corridoio. Mi diressi verso di lei e l’abbracciai da dietro, facendola sobbalzare.
Quando capì che ero io, si rilassò.
- Mi hai spaventato, lo sai? - Disse girandosi. Sorrideva radiosa e in quel momento riuscivo solo a pensare a quanto fosse bella.
- Sono desolato. - Dissi sorridendole. Poi mi abbassai e le diedi un bacio sulla guancia. - Potrò mai farmi perdonare, mia cara damigella? - Scherzai.
Lei si portò una mano al petto. - Oh, non saprei, mio cavaliere. Potrebbe accompagnarmi giù a prendere la merenda. - Propose speranzosa.
- Sarebbe fantastico. Gliela offrirò anche. - Dissi porgendole il braccio. Lei mi assecondò, allacciando il suo braccio molto magro al mio. Ci guardammo un istante, poi scoppiammo a ridere.
- Ma cosa stiamo facendo? - Chiese lei togliendo il braccio. Alzai le spalle.
- Sinceramente? Non ne ho idea. - Dissi. - Però la merenda te la offro lo stesso. -
Scendemmo giù e le presi la merenda, mentre io, come al solito, non mangiavo nulla.
- Vuoi? - Chiese porgendomi le sue schiacciatine. Scossi la testa.
- No, grazie comunque. -
- Sai, sembri veramente un cavaliere. - Disse lei, lasciandomi meravigliato.
- Perché? -
- Per il tuo modo di comportarti. Sei sempre gentile, mi tratti bene, mi fai sentire normale. - Ammise. Corrugai la fronte.
- Perché, non sei normale? - Domandai perplesso.
- Si, non intendevo dire che sono un alieno. - Disse ridendo. - Ma i ragazzi in questa scuola mi etichettano come la sorella del capitano della squadra di football. Io, sinceramente, odio essere identificata in questo modo. Diamine, ho un nome, sono una persona! - Esclamò stringendo a pugno la mano che non teneva le schiacciatine.
- Non sapevo che tuo fratello giocasse a football. Certo, ha la corporatura giusta, ma non ci avevo mai pensato. - Dissi guardandola. Lei si fermò.
- È per questo che mi piace stare con te. Molti ragazzi provano a mettersi con me solo perché così poi diventano amici di mio fratello. E di conseguenza diventano popolari. Le ragazze invece vogliono essere mie amiche così ci provano con lui. A volte vorrei essere figlia unica. - Sbuffò. Le accarezzai delicatamente il volto.
- Ti capisco, dopotutto, anche io sono stato etichettato come il secchione con problemi di testa. Sappi che per me, tu sei solo Hope. Sei una ragazza simpatica, solare, gentile con me e che mi fa stare bene, nonostante le sofferenze. - Dissi sincero sorridendole. Anche lei fece lo stesso.
- Sono felice di questo. E tu per me sei Ethan, il ragazzo più simpatico che conosca, che mi fa sorridere sempre e che ha solo bisogno di qualcuno che lo aiuti. E io voglio farlo. - Disse lei, e vidi nei suoi occhi sincerità. L’abbracciai.
- Per la ventesima volta, grazie. -






HEI!!! :D
io amo sempre di più Hope, non c'è niente da fare.
e finalmente Ethan le ha detto tutto! c:
beh, oddio, pi o meno. non ha ancora toccato il "caso Annabelle"
by the way, cosa ne pensate di Annabelle e della madre?
non pensate che ci sia qualcosa di strano?
beh, io non vi dico nulla :P se vi va, fatemi sapere cosa credete c:
comunque, ringrazio coloro che seguono la storia e coloro che recensiscono
alla prossima
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 10
*** Se è un sogno, non svegliatemi ***


Se è un sogno, non svegliatemi
 
All’uscita, Hope mi trascinò per andare dal famosissimo panettiere. Diceva che voleva passare un po’ di tempo con me per conoscermi meglio. Alla fine non sapevamo quasi nulla uno dell’altra.
Passammo davanti ad un panettiere, ma lei continuò ad andare avanti.
- Hope, guarda che abbiamo superato il fornaio. - Le feci notare.
- Lo so, ma io non vado da quello. Il pane che fa è sempre cattivo. Ce ne è uno più lontano. È lì che stiamo andando. - Disse lei sorridendo.
- Ma quanto è lontano? - Chiesi sperando di non dover camminare troppo.
- Emmm… credo disti un quarto d’ora da qui. -
Mi fermai di colpo. Non potevo accompagnarla.
- Mi dispiace, ma non posso venire. Davvero, vorrei tanto, ma mezz’ora è troppo. Mio padre… - Provai a dire, ma Hope mi fermò.
- Ti prego. Lo so di tuo padre, ma per favore, vieni con me. - Mi implorò.
Ci pensai un po’ prima di risponderle. Il mio cervello continuava a ripetermi che sarei dovuto tornare a casa, ma il mio cuore? Lui combatteva contro il cervello, dicendo che dovevo andare con Hope, che avevo bisogno di stare con lei per uscire per un po’ dalla mia vita.
- Aspetta, chiamo mia madre. - Dissi infine.
Composi il numero di casa e, dopo cinque squilli, qualcuno rispose.
- Pronto? - Sentire la voce allegra di Annabelle mi fece sorridere.
- Hei, Annabelle, sono Ethan. Per caso c’è la mamma? - Chiesi.
- Si, te la passo. - Rispose lei.
- Grazie. -
Attesi qualche istante prima di sentire mia madre.
- Pronto, Ethan? -
- Ciao mamma. Senti, lo so che dovrei tornare a casa, ma è un problema se torno una mezz’oretta dopo? Sto accompagnando una mia amica dal fornaio e… - Mia madre non mi diede il tempo di rispondere.
- Certo tesoro, vai pure. - Disse semplicemente.
- Ma papà? -
- Non ti preoccupare, vai e divertiti. Almeno oggi devi farlo. -
- Grazie mamma, grazie mille. - Dissi sorridendo.
- Di nulla. Salutami la tua amica. -
- Certo, ciao. - E così dicendo chiusi la chiamata.
Guardai Hope. Anche lei mi stava guardando sorridendo.
- Allora? - Chiese, anche se sicuramente aveva già capito la risposta.
- Vengo con te. - Dissi. Lei emise un gridolino di gioia e mi saltò al collo. Inspirai a fondo il suo profumo, così dolce e delicato. La strinsi forte a me, senza volerla più lasciare.
- Grazie. - Mormorò poggiandosi sul mio collo, facendomi rabbrividire.
- Di nulla. -
Rimanemmo per un po’ abbracciati, poi ricominciammo a camminare uno vicino all’altra.
- Allora, - iniziò a parlare lei, - noi due non ci conosciamo quasi per niente. Parlami un po’ di te. -
Infilai le mani nelle tasche dei pantaloni, pensando a cosa dire.
- Mah, non saprei. - Dissi. - Facciamo così: tu mi fai le domande e io ti rispondo. - Proposi.
- Perfetto. Allora, vediamo un po’… sport preferito? - chiese.
- Direi la boxe, però mi piace molto anche il nuoto. Tu? -
- Adoro la ginnastica artistica. - Rispose.
- Beh, la tua statura è perfetta. - Costatai. Hope si fermò e mi guardò, incrociando le braccia al petto e alzando un sopracciglio.
- Mi stai dando della bassa? - Chiese. Io alzai le mani, come per difendermi.
- No, ma che dici! Cosa te lo fa pensare? - Domandai io ridendo.
- Ti conviene iniziare a correre. - Disse semplicemente. Non me lo feci ripetere due volte.
Iniziai a correre lungo il marciapiede, stando attento a non urtare la gente, mentre sentivo alle mie spalle i passi veloci di Hope. Per la prima volta scappavo senza aver paura. Di solito quando lo facevo era per allontanarmi da mio padre, ma quella volta no.
- Ti prendo, sa’? - Esclamò Hope alle mie spalle. In quel momento volevo solo fermarmi e aspettarla, prenderla in braccio e non doverla lasciare mai più.
- Non ci riuscirai, sei troppo lenta! - Urlai, mentre molta gente ci guarda divertita.
- Ora mi dai anche della lenta, eh? - Disse lei, e sentii i suoi passi più veloci.
Stavamo correndo su una strada dritta, così decisi di prenderla alla sprovvista, e girai in una traversa.
Continuammo a correre per un po’, fino a quando non sentii la sua voce.
- Aspetta… ti prego… non… non ce la faccio… - Disse con il fiatone. Rallentai fino a fermarmi completamente. Mi girai e vidi che aveva poggiato le mani sulle gambe, piegandosi in avanti.
Feci una piccola corsetta e mi avvicinai a lei.
- Tutto bene? - Le chiesi preoccupato. Lei alzò il viso e mi sorrise. Poi mi saltò addosso.
- Preso! - Esclamò. - Ah-ah, ti ho fregato! - Disse canzonandomi. Rimasi a bocca aperta. Mi aveva imbrogliato. Ma in quel momento non mi importava. La strinsi ancora più a me, sollevandola da terra. Lei allacciò le sue gambe al mio busto, posando il viso nell’incavo del mio collo.
- Ti voglio bene. - Mormorai.
- Anche io. -
Rimanemmo per molto tempo abbracciati, non volevo più lasciarla. Fu lei ad allontanarsi e a scendere.
- Sai, sei molto comodo. - Costatò ridendo. Scossi la testa e riprendemmo a camminare. Arrivammo in poco tempo dal panettiere. Non c’era un anima viva, solo il fornaio.
- Salve. - Ci salutò cordiale il signore dietro il bancone.
- Salve. Avevo ordinato a nome Robinson della pizza bianca e rossa. - Disse Hope sorridente.
- Oh, si. Vado a prenderla. -
- Grazie. -
Il signore scomparve dietro una tenda e rimanemmo io e Hope.
- Come mai della pizza? - Chiesi curioso.
- È per la festa di oggi di mio cugino. Fa sei anni. - Disse semplicemente. Quanto avrei voluto dirle: sai, oggi è il mio compleanno, faccio diciotto anni. Ti andrebbe di venire alla mia festa? C’era solo qualche problema: uno, lei non sarebbe potuta venire, sia perché aveva quella festa, sia per mio padre. Due, non c’era nessuna festa.
- Oh, bene. Fagli gli auguri anche da parte mia. - Risposi sorridendo.
In quell’istante tornò il panettiere. Diede a Hope un cartone di pizza.
- Aspetta, dallo a me. - Dissi prendendoglielo.
- Grazie. - Disse, pagando poi al signore. - Ecco a lei. -
- Grazie e arrivederci. - Ci salutò sorridendo.
- Arrivederci. - Dicemmo in coro io e lei.  Poi uscimmo fuori e ci incamminammo verso casa.
- Dove devo portare questo cartone? - Chiesi.
- Mmmm… davvero mi accompagneresti? -
- Certo. - Risposi sicuro di me.
- Okay. Allora basta che mi segui, andiamo direttamente alla sala. - Annuii.
Continuammo a parlare del più e del meno, fino a quando non arrivammo davanti casa mia. Hope tirò fuori dalla borsa il telefono e inviò un messaggio.
- Cosa ci facciamo qui? - Chiesi sorpreso. Ma non feci in tempo a ricevere una risposta che la porta di casa si aprì.
- Sorpresa! - Esclamarono in coro Hope, Annabelle e mia madre. Poi mi presero per un braccio e mi trascinarono dentro casa. Rimasi a bocca aperta. In giro c’erano dei festoni con scritto Auguri Ethan!, 18 anni!, e cose simili, sul tavolo della cucina c’erano delle cose da mangiare e due pacchi regalo.
Non sapevo che dire. Mia madre mi prese la pizza e la posò sul tavolo.
- Avete fatto questo per me? - Chiesi meravigliato. Erano dodici anni che non festeggiavo il mio compleanno.
- Devi ringraziare Hope. - Disse mia madre, mentre Annabelle annuiva. Guardai Hope. Era diventata rossa.
- No, macchè! Io ero solo venuta a salutarti ieri, però dormivi, allora mi sono fermata a parlare con tua madre e ho scoperto che era il tuo compleanno. Tutto qui. Ho ordinato la pizza, si, ma il grosso lo hanno fatto loro. - Disse, imbarazzata.
Abbracciai Annabelle e mia madre ringraziandole, poi mi avvicinai ad Hope e la strinsi forte a me.
- Non hai idea di quanto io sia in debito con te. - Mormorai.
- Mi basta passare del tempo con te. - Rispose.
Quando ci allontanammo, mi venne un dubbio.
- Ma papà? - Chiesi spaventato. Mia madre mi sorrise.
- Non c’è da preoccuparsi, ci ha chiamato ieri e ci ha detto che dovrà trattenersi ancora un po’ in Spagna a lavorare. Una settimana circa. - Rispose sorridendo. Sbarrai gli occhi. Non ci credevo.
- Se è un sogno, vi prego, non svegliatemi. - Mormorai felice. Sarei stato un’altra settimana senza essere picchiato. Guardai Hope. Anche lei era felice. - Tu sapevi tutto, vero? - Chiesi. Lei alzò le mani.
- Colpevole. Secondo te altrimenti ti avrei trascinato dal panettiere? - Scossi la testa abbracciandola di nuovo.
Poi Annabelle si avvicinò con in mano un pacco.
- Tieni. - Disse semplicemente.
- Grazie. -
Mi sedetti su una sedia e iniziai a scartare il regalo. Dentro la scatola c’era una maglietta bianca della NYC con disegnata la statua della libertà.
- È bellissima. - Dissi posandola sul mio petto. - Grazie. -
- Ora tocca a me. - Disse Hope porgendomi un pacchetto piccolo.
- Ma non dovevi, hai già fatto molto e… - Provai a dire, ma lei mi interruppe.
- Hei, mica si compiono diciotto anni tutti i giorni. -
Aprii il regalo e trovai una busta con su scritto Per Ethan
- Ecco, lo so che non è molto, però ho avuto un giorno solo per organizzarmi. Per favore leggila quando sei solo. - Disse lei.
- Grazie. -
- E di che? È solo una lettera. - Disse diventando nuovamente rossa.
- Per me è comunque molto importante. - Risposi.
Passammo tutta la giornata insieme, mangiando e scherzando. Per la prima volta mi sentii un normale ragazzo. Ed era tutto merito di mia madre, Annabelle, ma soprattutto Hope.
Quando se ne fu andata, salii in camera mia e mi chiusi dentro, per leggere quella lettera.





HEI!!! :D
lo so che molti di voi speravano che il padre di Ethan fosse morto, ma ainoi (?) è ancora vivo
cosa ne pensate di questa festa organizzata su due piedi? 
e del regalo di Hope?
cosa vi aspettate?
non vi dico nulla :P
ringrazio coloro che hanno recensito, i lettori sileniziosi e coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate. c:
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx
PS: ho deciso di aggiornare una volta a settimana, ci riprovo lol
aggiornerò il giovedì :)

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Capitolo 11
*** Una lettera idiota per mister puntualità ***


Una lettera idiota per mister puntualità
 
Caro mister puntualità (si, ormai ci trovo gusto a chiamarti così),
questa è la quarta volta che ricomincio questa lettera, spero solo sia la volta buona.
Premetto che sarà un po’ idiota, con contenuti particolarmente dementi. Se non ti va di leggere questa roba, potresti passare direttamente al punto importante, te lo segno con un asterisco.
Finalmente diciotto anni! Che dire, ieri sono venuta a casa tua e tua madre mi ha detto che oggi saresti diventato maggiorenne. Non puoi capire la mia faccia appena l’ho saputo! (Ora non aspettarti che te la descriva, tanto come ho già detto non puoi capire.)
Mmmmm… forse è meglio tornare seri. Tanto lo so che non ci riuscirò.
Appena l’ho saputo, mi è venuto in mente di organizzare qualcosa insieme a tua madre e a Annabelle (A proposito, tua sorella è adorabile).
Mi sono messa a fare quei manifesti allungata sul pavimento di casa mia, dando di matto ogni volta che la colla mi finiva sulle dita e incollavo tutti i fogli tra di loro. Ho sporcato tantissimo e mia madre si è messa ad urlare “guarda che poi pulisci te, non sono la serva di nessuno!” (Tanto alla fine ha fatto tutto lei, come al solito.)
Comunque, fare quei festoni è stato più lungo e doloroso di un parto, non ti aspettare che ricapiti una cosa del genere.
Sono tornata di corsa a casa tua, sperando che tu dormissi ancora. E la fortuna, stranamente, girava dalla mia parte.
Posso dire che sembravi un cucciolo quando dormivi? Va bene, lo dico, sembravi proprio un cucciolo (Si, sono entrata in camera tua, chiedo umilmente perdono.) Io e tua madre abbiamo iniziato a cercare un posto dove nascondere quei manifesti, correndo per tutta casa cercando di non svegliarti, ma non lo trovavamo. Alla fine abbiamo buttato tutto sotto il suo letto. (Anche tua madre è molto simpatica, spero solo non mi abbia preso per una matta.)
Alle dieci di sera ero a casa, e mi sono resa conto che non ti avevo fatto il regalo. Mi sono disperata. Ho iniziato ad andare in giro per casa ripetendo “e ora come faccio?!” fino a quando mia madre non si è spaventata, credeva fossi impazzita. E forse lo ero davvero. Le ho spiegato la situazione e lei mi ha proposto di dormirci su. Certo, perché secondo lei il regalo si sarebbe materializzato davanti a me. O forse credeva che lo avrei sognato. Stupide credenze del cavolo.
Non ne ho idea, sta di fatto che sono andata veramente a dormire. Ed ora sono qui in classe a scriverti questa lettera. Tanto c’è la professoressa di matematica, e sono sicura che non si accorgerà di nulla. Se mi mette una nota però, sappi che mi avrai sulla coscienza.
Dopo questa premessa, per di più idiota, passiamo alla parte importante, il motivo reale di questa lettera.
*Io e te ci conosciamo da quando? Tre giorni? Eppure mi sono legata più a te che a persone che conosco da una vita. Sai perché? Perché come ti ho già detto ieri tu mi vuoi bene veramente. (Almeno credo.) Mi capisci, mi sopporti, passi il tuo tempo con me. Mi consideri per quella che sono e non per quella che appaio.
Volevo dirti che ti voglio veramente tanto bene, che mi piace molto passare del tempo con te.
Sappi che per qualsiasi cosa io sarò sempre qui. Voglio aiutarti, non mi piace quello che stai passando. Ti prometto che in qualche modo ne uscirai, ne sono più che sicura. Ricorda: bisogna sempre sperare, prendi esempio dal mio nome!
Uffa, la premessa è venuta più lunga della lettera. Quasi quasi accartoccio anche questa e ne inizio un’altra.
La mia vicina di banco continua a rompere per sapere chi sei, ma io mi ostino a non volerle dire il tuo nome. Tu, poi, sei mister puntualità, non ti posso chiamare Ethan con il tuo nome, sarebbe un affronto.
No, mi sta finendo la penna, non ci credo!
Adesso la devo cambiare.
Per fortuna mia la vicina di banco che rompe molto aveva una penna nera, altrimenti avrei dovuto scriverti con la blu o con la rossa! Mmmm… avrei potuto scrivere ogni parola, o peggio, ogni lettera, con un colore diverso…
Sai, nella mia vita sono stata delusa tante, tantissime volte. Lo so che oggi è il tuo compleanno e che io dovrei fare un regalo a te, ma ti prego, esaudisci una mia piccola preghiera: non te ne andare. Per favore. Se vuoi te lo chiedo in ginocchio. Lo so che ci conosciamo da poco, ma tengo troppo a te per vederti andare via dalla mia vita.
Okay, sono uscita fuori tema. La mia professoressa di italiano mi avrebbe messo tre, giusto perché siamo sotto natale e quindi è più buona, come dice lei. (Certo, sotto natale… non so se si può dire il tredici aprile… ma lei lo dice sempre, quindi…!)
Forse è meglio che vada. Si, è assolutamente meglio.
Ti faccio ancora tanti auguri, spero che tu abbia passato un buon compleanno.
Tanto ci vediamo domani, no? Spero proprio di si.
Ti lascio conquesta mia poesia questo mio componimento queste ultime righe, sperando che ti facciano riflettere.
 

Speranza.
Cos’è la speranza?
La speranza è voglia di vivere.
La speranza è non mollare mai.
La speranza è uno spiraglio di luce nell’oscurità.
La speranza è  un arcobaleno dopo la pioggia.

Ora pensi che il dolore si sia insinuato sotto la tua pelle,
pensi che faccia parte di te, che non ci sia rimedio.
Ma tu continua a sperare.

 
La speranza ti darà la forza di andare avanti.
La speranza sarà ciò che ti rimarrà nella sofferenza.
La speranza ti darà un po’ di sollievo.

 
La speranza farà nascere un sorriso sul tuo volto stanco,
farà gioire il tuo cuore ormai lacerato,
farà apparire i tuoi cieli sereni,
farà breccia nel tuo cuore,
abbattendo quei muri di difesa che hai eretto per proteggerti.

 
E ti salverà.
La speranza ti salverà da questa vita.

 
Ti voglio bene.
Hope. (nome e colori associati in modo puramente casuale.)






HEI!! :D
si, lo so, ho detto una cosa ma ne faccio un'altra
che ci posso fare? sono fatta così!
ho pensato, dato che dal 23 luglio non ci sarò per parecchio tempo, di aggiornare due volte a settimana
quindi aggiornerò il lunedì e il giovedì
vediamo se così ci riesco!
passiamo al capitolo va'!
cosa ne pensate?
è idiota lo so, però la parte finale è importante c:
so che fa schifo e che è di passaggio, spero potrete perdonarmi c:
ringrazio coloro che hanno recensito, i lettori silenziosi e coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate c:
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 12
*** Si esce ***


Si esce
 
Ti voglio bene.
Hope. (nome e colori associati in modo puramente casuale.)

 
Rilessi la lettera un altro paio di volte, sorridendo. Nessuno mi aveva mai detto parole simili. Nessuno aveva mai scritto una poesia per me.
Speranza.Forse aveva ragione lei, dovevo ricominciare a sperare. Dovevo cercare di nuovo quella voglia di andare avanti non solo per proteggere gli altri, ma anche per me stesso, per la mia vita, per un futuro senza violenza.
Forse un giorno davvero sarei stato libero. Libero di non condividere un'idea con mio padre. Libero di tornare a casa tardi senza il terrore che mio padre picchiasse Annabelle o mia madre e poi me per punizione. Libero di prendere un'insufficienza. Libero di vivere felice, senza tutta quella sofferenza.
Non sapevo perché, ma iniziai a sostituire la parola speranza con Hope. Il significato apparente era lo stesso, ma il significato reale era un altro, più profondo.
Sorrisi, pensando a quella strana ragazza. Era particolare e, anche se all’apparenza poteva sembrare una ragazza eccentrica, non lo era per niente. Era sempre pronta ad aiutare gli altri mettendo da parte se stessa, gioiosa come pochi.
In quel momento ero felice come non mai. E inoltre mi ero fatto anche un po' di risate, soprattutto quando avevo letto dei manifesti. Me la immaginavo allungata per terra disperata e sommersa da fogli di carta colorata.
Mi alzai in piedi e misi la lettera nella tasca davanti dello zaino, lì nessuno sarebbe mai andato a guardare. Mi allungai di nuovo sul letto e lentamente mi addormentai, con un sorriso sulle labbra.
Il giorno dopo mi svegliai rilassato. Ero felice di andare a scuola, non vedevo l’ora di vedere Hope.
Quando andai al bagno mi guardai allo specchio, e vidi un Ethan rinato. I capelli corti neri erano scompigliati, ma c’erano tutti. Non era più capitato che mio padre provasse a tagliarmeli. Gli occhi verdi non erano molto grandi, e anche se erano stati tristi e spenti per molto tempo, in quel momento erano felici. Sulla guancia destra, oltre alla forma del cuscino, c’era anche una cicatrice, il “ricordo” di un taglio abbastanza profondo di Fido. Ma solo quella traccia era rimasta. Per il resto sembravo un ragazzo normale e ne ero felice.
Quel giorno andai a scuola sorridente. Appena arrivai davanti all'ingresso, vidi Hope di spalle che parlava con un ragazzo. Sembrava annoiata e disperata, come se stesse aspettando qualcuno che la salvasse. All'inizio ero un po' incerto se andare da lei o no, poi però mi feci coraggio e mi avvicinai. Quel ragazzo mi guardò attento, e probabilmente Hope si rese conto che c'era qualcuno che si stava avvicinando, infatti si voltò. Appena mi vide mi sorrise, si congedò dall’amico e mi si avvicinò. L'abbracciai.
- Grazie. - Mormorai riferendomi alla lettera.
- Di nulla, è ciò che penso davvero. - Rispose lei. Quando ci allontanammo le diedi un semplice bacio sulla guancia e ci incamminammo verso l'ingresso uno vicino l'altra.
- Quindi li hai fatti tu quei manifesti, eh? - Dissi ridendo. Lei scosse la testa alzando gli occhi al cielo.
- Lascia stare, va'! Sono diventata matta. -
Stavo per parlare, quando qualcuno mi prese per lo zaino e mi sbattè contro il muro.
- Allora non sono stato chiaro! - Urlò Luke, prendendomi per il colletto della maglia.
- Luke, fermati! - Lo implorò Hope, ma lui la ignorò.
- Devi stare lontano da mia sorella! - Continuò, dandomi poi un pugno in pieno stomaco. Mi piegai leggermente in avanti, ma non emisi nemmeno un gemito.
- Se tua sorella vuole stare con me, perché non dovrei passare il mio tempo con lei? - Domandai calmo, anche se non mi aspettavo una risposta. Luke mi diede un altro pugno sul viso, ma nemmeno questo mi fece più di tanto male.
- Ma che hai al posto della pelle?! - Esclamò, prima di sbattermi di nuovo contro la parete e lasciandomi andare subito dopo.
Si avvicinò alla sorella, che lo guardava arrabbiata.
- Andiamo Hope. - Disse, ma lei scosse la testa.
- Sei un idiota. - Mormorò prima di avvicinarsi a me. - Tutto bene? - Chiese preoccupata. Annuii, massaggiandomi la guancia colpita.
- Lo sai, no? - Mormorai.
- Andrà tutto bene. - Mi rassicurò lei accarezzandomi il braccio. Alzai lo sguardo su Luke. Mi stava incenerendo.
- Hope, perché continui a stare con questo sfigato? - Chiese sprezzante.
Il rumore che la mano di Hope provocò quando colpì la guancia del fratello mi fece sorridere leggermente.
- Non è uno sfigato. - Sibilò, mentre il fratello si massaggiava la zona lesa.
Hope si riavvicinò a me sorridendo soddisfatta e mi fece cenno di andare. Quando fummo abbastanza lontani sospirò.
- Tu non hai idea da quanto tempo volevo farlo. - Disse ridendo. La sua risata mi contagiò, rendendomi ancora più felice.
- Mi accompagneresti a prendere la merenda? Oggi non ho fatto colazione e avrei un po' di fame. - Disse passando una mano sullo stomaco.
- Dimmi cosa vuoi e te la compro io. - Dissi sorridendole.
- No, no, anche l'altra volta hai pagato per me, non voglio indebitarmi. - Si affrettò a dire scuotendo la testa.
- Tranquilla, sono più che felice di pagare la tua merenda. - La rassicurai. -Allora, cosa vuoi? - Chiesi nuovamente. Lei era un po' titubante, ma alla fine cedette.
- Le schiacciatine. - Disse. Annuii e ci incamminammo verso le macchinette. Per il momento erano vuote, così mi sbrigai a prenderle due pacchetti della merenda.
- Perché due? - Chiese perplessa.
- Uno per ora e uno per la ricreazione. Così dopo non devi fare la fila. - Le spiegai. Lei mi sorrise e mi diede un bacio sulla guancia.
- Grazie. -
Rimanemmo insieme fino a quando non suonò la campanella, poi ci incamminammo ciascuno nella propria classe.
In prima ora venni interrogato a latino, e andò bene. Infatti riuscii a prendere nove. Il mio pensiero però andò immediatamente a mio padre. A lui non sarebbe bastato… ma quando ricordai che era partito mi rilassai. Avrei potuto anche non dirglielo.
Le lezioni successive passarono in fretta, tra una disequazione di matematica e un esperimento  chimico.
Quando suonò la campanella della ricreazione dovetti aspettare che la professoressa finisse di spiegare la composizione di uno strano miscuglio prima di poter tornare in classe dal laboratorio.
Misi lo zaino in spalla senza infilare tutto il materiale dentro, portandolo a mano. Salii di corsa e quando arrivai vicino alla mia classe, vidi Hope poggiata al muro vicino alla mia classe.
- Sei in ritardo. - Mi rimproverò scherzando prima di mordere una schiacciatina. Entrai in classe, seguito da lei.
- Scusami, ma non volevo che la professoressa di chimica mi gettasse addosso il suo esperimento. Poteva essere radioattivo. - Dissi ridendo.
- Va bene, allora sei perdonato. -
Posai sul mio banco il materiale e lo zaino sulla sedia.
- Sei solo al banco? - Chiese un po’ rattristita vedendo il banco singolo.
- Si, ma non è così male. - Dissi cercando di convincere sia me stesso sia lei.
- Se lo dici tu… - Commentò abbassando lo sguardo. - Dai, scendiamo! - Disse poco dopo rianimandosi.
- Certo, così tuo fratello finisce di picchiarmi. Se non c’è uno, c’è un altro… - Mormorai.
Hope mi posò una mano sulla spalla.
- Stai tranquillo, Luke non ti farà nulla. Non credo vorrà ricevere un altro schiaffo. - Mi rassicurò sorridendo. Le sorrisi a mia volta.
- Va bene. - Dissi più sicuro.
Uscimmo dalla mia classe sotto lo sguardo meravigliato di tutti i miei compagni. Beh, in effetti non gli era mai capitato di vedermi con qualche amico.
Scendemmo in cortile e ci sedemmo su una panchina un po’ isolata.
- Allora, - Iniziò lei, - cosa hai intenzione di fare ora che ci siete solo tu, tua madre e Annabelle? - Domandò curiosa. Scrollai le spalle.
- Non so, credo che usciremo un po’. Tu cosa mi consiglieresti? - Chiesi. Non avevo nessuna idea. Hope ci pensò un po’ su in silenzio, poi si illuminò.
- Potreste andare al parco! - Esclamò sorridendo. Corrugai la fronte.
 - Ormai Annabelle è grande, non credo si divertirebbe. - Dissi.
- Oh, hai ragione. - Concordò annuendo. - Allora che ne pensi di andare al mare? - Riprovò senza perdersi d’animo.
- Ma è aprile e… - Non mi diede il tempo di farmi finire.
- Non dovete mica fare il bagno! - Disse ridendo. - Comunque, se il mare non va bene potreste andare semplicemente a prendere un gelato. -
- Mi piace come idea, però voglio che venga anche tu. - Dissi. Lei sbarrò gli occhi, per poi scuotere la testa.
- No, no! ora che lui non c’è avete il diritto di passare un po’ di tempo da soli. - Si affrettò a dire.
- Ma io voglio che tu venga. - Dissi posando una mano sulla sua. - Riesci sempre a farmi stare bene. Voglio passare un po’ del mio tempo con te anche fuori scuola. - Mi sorrise.
- D’accordo. -

****

All’uscita tornai a casa con Hope. Appena varcai la porta di casa, trovai mia madre e mia sorella in cucina mentre parlavano.
- Ciao fratellone! - Esclamò Annabelle appena mi vide venendomi in contro e abbracciandomi. In quel momento si rese conto che c’era anche Hope, la quale era rimasta dietro di me e la salutò.
Lei sorrise imbarazzata. - Scusate il disturbo. - Mormorò.
- Tranquilla cara, non disturbi. - La rassicurò mia madre avvicinandocisi.
- Avete mangiato? - Chiesi. Mia madre scosse la testa. - Bene, allora andiamo tutti insieme a mangiare in pizzeria e poi andiamo a prendere un gelato. - Dissi sorridendo.
- Si! - Esclamò Annabelle. - Vado a cambiarmi. - E così dicendo si fiondò in camera sua. Mia madre mi sorrise e andò anche lei in camera sua, dopo averci detto che doveva darsi una sistemata.
Così rimanemmo io e Hope da soli. Ci sedemmo sul divano uno vicino all’altra senza dire una parola.
- La mangi la pizza, vero? - Chiesi dopo poco. Lei annuì semplicemente. - Che è successo? - Domandai preoccupato, ma lei scosse la testa.
- Nulla, tranquillo. - Disse semplicemente.
- Hope, mi stai facendo preoccupare. - Dissi serio.
- È una sciocchezza, non ti preoccupare. - Continuò.
- E se io volessi sapere questa sciocchezza? - Domandai. Lei sospirò.
- Ho osservato Annabelle. È piccola, ha sofferto moltissimo, ma trova comunque la forza di andare avanti e di sorridere. Ti vuole veramente molto bene, siete così uniti. Stavo pensando che non ho mai avuto un rapporto del genere con mio fratello. L’ho sempre odiato, non ricordo di averlo mai abbracciato come voi due. - Disse.
Rimanemmo per un po’ in silenzio, non sapevo proprio cosa dire.
- Ma almeno ci sei tu con me, giusto? - Disse poco dopo inclinando la testa di lato. Le sorrisi e l’abbracciai.
- Certo. -






HEI!!!
mamma mia, mi sento potente, ho aggiornato quando avevo programmato :D
vabbè, lasciamo stare...
allora allora allora, cosa pensate di questo capitolo?
a me, personalmente è piaciuto molto scrivere la parte in cui Hope si arrabbia con Luke ;)
beh, ringrazio i lettori, coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate e coloro che recensiscono, rendendomi sempre felicissima
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 13
*** Perché mi fa questo effetto? ***


Perché mi fa questo effetto?
 
La pizzeria dove avevo proposto di andare non era lontano da casa, così decidemmo di andarci a piedi, godendoci la giornata luminosa che avevamo a disposizione. Non c’ero mai stato, ma i miei compagni di classe facevano lì le loro feste e commentavano sempre dicendo che il cibo era fantastico. Mia madre ed Annabelle passeggiavano davanti a me e Hope, parlottando di vestiti, trucchi e altra roba da ragazze.
- Se vuoi unirti a loro… - Dissi rivolgendomi alla ragazza che mi camminava affianco indicando le due davanti. Hope scosse la testa.
- No, preferisco rimanere qui, con te. - Disse e percepii una punta di nervosismo nella sua voce. Lisciò le pieghe inesistenti della sua maglietta tenendo lo sguardo basso.
Con te. Quelle due parole iniziarono a vorticarmi in testa, rendendomi felice. Lei voleva stare con me. Certo, non conosceva bene Annabelle, e sicuramente non aveva nulla di cui parlare con mia madre, ma quelle parole mi scaldarono il cuore, riuscendo a far sciogliere in parte il ghiaccio della sofferenza che aveva congelato il mio organo vitale. Lo stesso organo che sembrava prendere vita ogni volta che stavo vicino ad Hope.
- Attenta. - Dissi improvvisamente prendendola delicatamente per un braccio e impedendole così di andare a sbattere contro un palo. Lei arrossì visibilmente imbarazzata.
- Grazie. - Mormorò alzando lo sguardo sulla strada per impedirsi di andare davvero addosso a qualcosa. Sorrisi, e in quel momento mi chiesi se esistesse una ragazza più bella di lei. Ne dubitavo fortemente, era impossibile essere più bella. I capelli rossi ondeggiavano sulle sue spalle ad ogni passo, coprendole in parte il volto. Il sole creava strani giochi di luce, rendendoli in alcuni punti più rossi e in altri più marroni. Lei forse notò che la stavo osservando, perché girò il suo volto e posò lo sguardo su di me, agganciandolo ai miei occhi. E in quel momento mi persi in quei due pozzi, azzurri come il cielo, profondi come il mare. Mi sembrava di poterci navigare dentro, affogando tra le venature più scure e riemergendo tra quelle più chiare. Le sorrisi, e lei abbassò lo sguardo nuovamente imbarazzata, facendo muovere qualcosa dentro di me.
Ricominciai a guardare avanti a me e lei fece lo stesso, ma solo dopo avermi guardato qualche secondo in più. Dimenticandomi di tutto il resto avvicinai la mia mano alla sua e la strinsi. Lei inizialmente rimase immobile, non sapendo forse cosa fare. Mi diedi mentalmente dell’idiota. Eravamo solo due amici, non aveva senso quello che avevo appena fatto. Feci per allontanare la mano, ma lei mi strinse a sua volta, e sul suo volto spuntò un timido sorriso.
- Siamo arrivati. - Annunciò mia madre girandosi verso di noi. Nessuno dei due accennò ad allontanarsi dall’altro, nemmeno quando mia madre osservò l’intreccio delle nostre dita, come se avessimo paura di poter perdere l’altro. O almeno, per me era così. Lei era diventata la mia ancora, il mio porto in mezzo al mare in tempesta, la mia luce infondo alla galleria, la mia speranza nel dolore.
Quando entrammo in pizzeria non potei fare a meno di notare lo scarso entusiasmo dei camerieri.
- Salve, desidera? - Chiese una ragazza avvicinandocisi con un sorriso tiratissimo sulle labbra. Avrà avuto una ventina d’anni, non di più. Portava i capelli neri legati in una coda di cavallo alta, gli occhi marroni erano circondati da un pesante strato di trucco. Quando mi notò mi sorrise maliziosamente, osservandomi da capo a piedi, indugiando un po’ troppo quando guardò in basso. Mia madre intanto cercava di attirare la sua attenzione, con scarsi risultati. Hope strinse ancora più forte la mia mano, per poi passare quella libera sul mio petto. La guardai perplesso, ma le non mi diede alcuna spiegazione, si limitò a far scorrere il dito sul mio petto, provocandomi dei brividi e a far passare la mia mano intorno alla sua vita.
- Un tavolo per quattro. - Dissi cercando di non far trasparire il tremolio nella mia voce. La ragazza fulminò Hope, per poi riguardarmi sorridendo.
- Dentro o fuori? -
- Dentro. -
La cameriera annuì facendo sbattere le sue ciglia finte e si allontanò tra i tavoli. Hope tolse la sua mano dal mio petto, consentendomi di respirare di nuovo regolarmente, e io tolsi svogliatamente la mia mano dal suo fianco, prendendo la sua.
- Ecco qui. - Disse la cameriera mostrandoci un tavolo in un angolo. La ringraziammo e ci sedemmo, io e Hope da una parte, mia madre e Annabelle dall’altra.
- Quella cameriera mi sta antipatica. - Sbottò improvvisamente Hope, facendomi ridere. Lei lasciò la mia mano per darmi un leggero pugno sulla spalla. - Che ti ridi? - Chiese innervosita. Quando rimise giù la mano gliel’afferrai nuovamente, bisognoso di quel contatto e posai le nostra mani sulla mia gamba. Anche mia madre e Annabelle risero un po’, e sentii il mio cuore più leggero.
- Niente, solo che sei adorabile quando sei gelosa. - Dissi senza nemmeno rendermene conto. Lei gonfiò le guance infastidita.
- Non sono gelosa. - Borbottò. - Perché dovrei esserlo? -
Scrollai le spalle. - Non so, dimmelo tu. -
Lei scosse la testa girando il viso e guardando mia sorella. - Allora, - Cominciò ignorandomi, - come è andata a scuola? -
Annabelle portò immediatamente le braccia sotto il tavolo, gesto che passò inosservato agli occhi di mia madre e a quelli di Hope, ma non hai miei.
- Tutto bene, - Mentì sorridendo, - oggi poi non abbiamo fatto nulla. -
Hope le sorrise, ma mi resi conto che anche lei si era accorta che qualcosa non andava nella risposta che aveva appena dato mia sorella.
Parlammo per un po’, fino a quando la cameriera non tornò per prendere le ordinazioni.
- Una pizza con le patate, una capricciosa e due margherite. Da bere invece solo dell’acqua. - Dissi, mentre la ragazza appuntava tutto su un blocco. Quando riprese i menù, si abbassò abbastanza da potermi far vedere tutto il suo decolté.  Distolsi lo sguardo disgustato posandolo su Hope. Lei mi sorrise accarezzandomi la gamba con il pollice. In quel momento più di ogni cosa al mondo avevo voglia di baciarla. Volevo sentire il sapore delle sue labbra, passandole le mani intorno alla vita e stringerla a me.
Abbassai lo sguardo per impedirmi di farlo e guardai le nostre dita intrecciate. Sembravano fatte a posta per poter stare unite.
- Scusate, - Disse improvvisamente mia madre alzandosi in piedi con Annabelle, - torniamo subito. - E così dicendo si allontanarono, probabilmente verso il bagno.
Rimanemmo per un po’ in silenzio, poi Hope si appoggiò alla mia spalla sospirando.
- Ero seria quando ho detto che la cameriera mi stava antipatica. - Mormorò.
- Ti credo. - Dissi dandole un bacio sulla testa.
- A me sembra tu mi stia prendendo in giro. - Commentò.
Scossi la testa. - No, tranquilla. -
Poco dopo le arrivò un messaggio. Quando lo ebbe letto si rimise dritta lasciandomi anche la mano. Sembrava pensierosa e triste.
- Cosa c’è? - Chiesi preoccupato.
- Nulla. - Sussurrò abbassando lo sguardo.
- Non ti credo. - Dissi facendole alzare il volto con una mano. Lei continuava a tenere lo sguardo basso. - Cosa è successo? - Chiesi nuovamente. Lei sospirò.
- Mia nonna verrà a trovarci questa sera e rimarrà a dormire da noi. - Disse.
Sbattei più volte le palpebre, non capendo perché fosse triste. - Non sei contenta? -
- No. Quando viene deve per forza giudicare tutto. La casa, il giardino, i vestiti, i mobili. E poi ogni volta distrugge una parte di me. Le sue parole mi feriscono, sempre. - Disse con gli occhi lucidi.
- Hei, stai tranquilla. Se ti dice qualcosa di brutto, chiamami e sfogati con me, okay? - Sussurrai asciugandole una lacrima che le stava bagnando il volto.
- Ma te hai già i tuoi problemi, non voglio disturbarti. -
- Non disturbi mai. -
Lei mi guardò e mi sorrise. - Grazie. -
In quel momento tornarono mia madre ed Annabelle. Hope si allontanò un po’ da me e mi riprese la mano sotto il tavolo, facendo dei cerchi sul mio dorso.
Il pranzo passò tranquillamente e, quando arrivò il momento di pagare, pagai anche per Hope, sopportando le sue proteste.
Lei poi dovette tornare a casa per, come aveva detto lei, prepararsi psicologicamente.
Tornato a casa andai in camera mia.
Hope già mi mancava, avrei voluto passare tutto il giorno con lei.
Ma cosa mi stava succedendo? Perché mi faceva quell’effetto? Perché avevo in continuazione voglia di baciarla? Perché pensavo sempre a lei?
Si sarebbe fatta del male, me lo sentivo. Non potevo permetterlo. Ma stare senza di lei mi era diventato impossibile. 




HEI!! :D
qui abbiamo un Ethan cuccioloso :3
che ne pensate? spero vi sia piaciuto!
dato che qualcuno me lo aveva chiesto questo è il mio profilo di facebook https://www.facebook.com/profile.php?id=100006354060600
ringrazio coloro che hanno inserito la storia tra le seguite/preferite/ricordate, coloro che leggono silenziosamente e coloro che recensiscono
alla prossima!
un bacio
Giulia xxx
PS: scusate, ma questa frase ci vuole, anche se in questo capitolo non centra: noi, sadiche torturatrici di poveri fanciulli indifesi conquisteremo il mondo!! -cit Agapanto Blu (passate dalle sue storie, visto che ci siete, sono bellissime!)

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Capitolo 14
*** Nessuno mi salverà ***


Nessuno mi salverà
 
La settimana passò velocemente, troppo velocemente. Era arrivato lunedì e il pomeriggio sarebbe tornato mio padre.
Ormai l’allegria che aleggiava in casa quei giorni era completamente scomparsa, lasciando il posto al terrore.
Camminavo verso scuola come un automa, non riuscivo a fare altro che pensare a quello che sarebbe potuto succedere quel pomeriggio. Speravo che mio padre fosse cambiato, almeno un po’, ma sapevo che era impossibile. Una persona può cambiare in un paio di settimane un atteggiamento che ha da più di dieci anni? La risposta era semplice: no, è impossibile.
Se avesse fatto del male a Annabelle? La sua situazione era già precaria, forse non avrebbe retto il colpo…
Sospirai. Dovevo calmarmi, agitarmi avrebbe potuto solo peggiorare la situazione. Eppure non riuscivo a non pensare a ciò che mio padre avrebbe potuto farci. Forse sarebbe tornato così stanco che ci avrebbe risparmiati per quella sera. Ma poi? Il giorno dopo che sarebbe successo? Continuavo a sperare che se la prendesse solo con me, che non sfiorasse nemmeno mia sorella e mia madre. Non potevo permetterlo, loro erano tutto ciò che avevo, non meritavano di soffrire ancora di più.
Forse in quel periodo avrei dovuto lasciare un po’ da parte Hope per pensare a salvare la mia vita e la mia famiglia. Speravo solo che mi capisse. Non volevo farla soffrire, ma la mia famiglia rischiava veramente molto.
- Ethan, ci sei?
Mi riscossi nel sentire la voce di Hope. Girai lo sguardo in direzione della voce e la vidi affianco a me, con le mani strette al petto.
- Oh, ciao. - Mormorai. Non l’avevo sentita arrivare.
Lei mi sorrise dolcemente. - Qualcosa non va? - Chiese preoccupata.
Chiusi gli occhi e sospirai. - È lunedì. - Spiegai. Lei probabilmente si rese conto solo in quel momento di che giorno fosse. Posò una mano sul mio braccio, per rassicurarmi.
- Starete bene, ne sono sicura. - Mi rassicurò. Annuii, anche se io non ne ero affatto convinto. Dopo tutto quello che era successo in quegli anni era la prima cosa in cui speravo ma l’ultima che credevo realizzabile.

****

La giornata passò velocemente, e presto dovetti tornare a casa. Non ce l'avrei fatta, quel giorno sarei crollato, me lo sentivo. Mi avviai verso casa senza allenarmi, dovevo tornare il prima possibile. Percorsi la strada senza nemmeno guardarla, impegnato com'ero a pensare a ciò che sarebbe successo. Quando aprii la porta di casa notai che era chiusa a chiave. Dove erano mia madre ed Annabelle? Iniziai a guardare per tutta casa, nella speranza di trovare almeno un bigliettino dove mi avvertivano che erano uscite. Lo trovai attaccato con una calamita nera al frigorifero.
Questa mattina Annabelle non si è sentita bene, siamo andate dal medico. Torneremo tardi, di solito c'è molta fila. Mi dispiace. Mamma.
Sospirai sollevato. Almeno loro due non ci sarebbero state. Aprii il frigo e rimasi qualche istante a fissare il vuoto. Non c'era assolutamente nulla, solo un po' di pancetta che tirai fuori. Vicino al frigo c'era una credenza. L'aprii e trovai un po' di spaghetti. Mi sarei accontentato. Stavo mettendo su l'acqua, quando mi arrivò un messaggio. Posai la pentola sul lavello, presi il telefono dalla tasca dei jeans e aprii il messaggio.
 
Hei Ethan, tutto a posto a casa?
 
Sorrisi pensando che Hope fosse davvero una ragazza d'oro. Digitai velocemente una risposta.
 
Si, tranquilla. Ancora non è tornato.
 
Me la immaginai fare un sospiro di sollievo, sorridendo subito dopo.
 
Meglio così. Magari non tornasse proprio...
 

Come al solito non si faceva alcun problema a dire la sua. Decisi di chiamarla.
Rispose dopo un paio di squilli.
- Hei! - Esclamò. Sorrisi nel sentire la sua dolce voce.
- Ciao. - Dissi incassando il telefono tra la spalla e l'orecchio destro.
- Come va? - Mi chiese. Presi una pentola e la misi sopra un fornello, riempiendola d'olio e pancetta.
- Ancora tutto bene. - Dissi prendendo anche la pentola con l'acqua e mettendola sopra un altro fornello.
- Te l'ho già detto, se vuoi vengo a casa tua. - Disse per la centesima volta. Era tutto il giorno che cercava di convincermi.
- No, non serve. Annabelle e mia madre non sono in casa. - La rassicurai.
- Ma tu sei ancora lì! - Esclamò. Accesi il fornello per l'acqua.
- Io non sono un problema. - Protestai. - Non mi importa più. Mi farà del male? Pazienza. -
- Non dire così. - Mormorò rattristita.
- Mi dispiace, ma ormai la penso in questo modo. -
- Io non voglio che ti faccia del male. -
Chiusi gli occhi e sospirai. - Non lo vorrei nemmeno io. -
- Fammi venire. - Riprovò rianimandosi.
- No, è fuori discussione. - Dissi nuovamente.
- Sei antipatico. - Borbottò.
Sorrisi. - E tu sei fantastica. -
Ero sicuro che fosse arrossita. Stavo per aggiungere qualcosa, quando sentii il rumore di un clacson. Presi il telefono in mano, portandolo all'altro orecchio.
- Dove sei? - Domandai curioso.
- A casa. - Rispose sbrigativa.
- Ma ho sentito un clacson. - Le feci notare.
- Oh, beh, sono vicino alla finestra. -
Mi incamminai verso la porta d'ingresso. - Mmmm... Di casa tua o di casa mia? - Dissi aprendo la porta. Trovai Hope vicino al vialetto di casa. Scossi la testa, mentre entrambi attaccavamo il telefono.
- Non mi avresti mai fatto venire. -  Si giustificò prima che potessi dire qualcosa. Sospirai.
- Vieni, forza. - Dissi facendole cenno di avvicinarsi. Lei si avvicinò e si buttò tra le mie braccia. La strinsi forte a me, felice di averla al mio fianco, ma anche preoccupato.
Entrammo dentro casa e finii di preparare il pranzo.
- Mi dispiace, ma non c'è molto. - Dissi imbarazzato.
Lei mi sorrise. - Tranquillo, nessun problema. -
- Appena arriva mio padre, anzi, prima, te ne vai. - Dissi deciso.
Lei corrugò la fronte, scuotendo la testa. - No, rimango qui. Non voglio che ti succeda qualcosa. -
- E io non voglio che succeda a te qualcosa. - Ribattei. - Tornerai a casa, non accetto repliche. -
Sbuffò. - D'accordo. - Mormorò mettendo la pasta nei piatti. Ci sedemmo uno di fronte all'altro e iniziammo a mangiare.
- Come fai a sapere a che ora tornerà tuo padre? - Domandò Hope posando la forchetta sul piatto. Ingoiai la pasta che avevo in bocca.
- Non lo so. - Risposi semplicemente, iniziando ad arrotolare altri spaghetti.
- E allora quando me ne vado? -
Scrollai le spalle. - Quando sentiamo il rumore della macchina. Abbiamo una porta che dà sul retro, passerai da lì. - Spiegai portando alla bocca la forchetta piena. Hope ricominciò a mangiare, anche se lo fece più lentamente rispetto a me. Quando ebbe finito misi tutto in lavastoviglie e pulii i fornelli.
- Potresti fare il donno delle pulizie, lo sai? -
Inarcai un sopracciglio. - Il donno? -
- Preferisci essere chiamato l'uomo delle pulizie? - Mi domandò. Annuii. - Allora potresti fare l'uomo delle pulizie. -
- Grazie, ma non è il mio sogno. - Risposi semplicemente avviandomi verso la mia camera seguito da Hope. Ci sedemmo sul letto uno vicino all'altro senza dire una parola. Mi allungai, tenendo le gambe fuori dal letto e posai la mia mano su quella di Hope. Lei si girò e mi sorrise allungandosi a sua volta.
- Vorrei rimanere così per sempre. - Ammisi. Lei mi strinse la mano.
- Piacerebbe molto anche a me. - Mormorò.
Ricominciai a pensare a mio padre, a ciò che mi aveva fatto in quegli anni e a ciò che avrebbe ancora potuto farmi.
- Distraimi. - Dissi poco dopo. - Per favore. -
Hope si girò verso di me e posò una mano sul mio petto.
- Come? - Domandò, iniziando a fare dei cerchi con l’indice.
Deglutii a vuoto. - In qualunque modo. - Mormorai.
- Mmmm... Allora, di cosa posso parlare...? Ah, si! Sto leggendo un libro. - Disse sorridente continuando a fare dei disegni sul mio petto.
- Come si chiama? - Domandai.
- Le pagine della nostra vita. È molto bello, sai? Devo ammettere di aver pianto mentre lo leggevo. - Disse.
- Chi è l'autore? - Chiesi cercando di mantenere stabile il tono di voce.
- Nicholas Sparks, è bravissimo, il mio autore preferito. -
Mi parlò per quasi mezzora di questo libro, e riuscì a distrarmi alla perfezione. Mi sembrava addirittura di essere un ragazzo normale…
Poi però sentimmo il rumore di una macchina. Iniziai a tremare, ma cercai di non darlo a vedere. Ci alzammo entrambi in piedi.
- Devi andare. - Le dissi avviandomi verso la porta sul retro. Arrivai lì davanti mi saltò al collo.
- Starai bene? - Domandò e mi resi conto che aveva iniziato a piangere.
- Solo se mi fai un sorriso e non ti preoccupi per me. - Risposi allontanandola e asciugandole le lacrime. Cercò di sorridermi in quel momento mi sentii il ragazzo più fortunato del mondo. Sentii la porta di casa aprirsi. - Ora vai. - La spronai spaventato.
Mi diede un bacio sulla guancia. - Stai attento. - Mormorò prima di allontanarsi velocemente.
- È questo il modo di salutarmi dopo due settimane che sono stato assente? - Tuonò mio padre. Chiusi la porta di scatto e andai velocemente da lui. Quando mi vide ghignò. - Oh, ecco un marmocchio. Le altre? - Domandò apparentemente tranquillo.
- Sono uscite. Annabelle non si è sentita bene e sono andate dal medico. - Mormorai.
Se possibile, il suo ghigno diventò ancora più spaventoso. - Bene. Prendi questa roba e portamela in camera mia. - Ordinò. Non me lo feci ripetere due volte. Presi la valigia, il cappotto e la borsa del computer e portai tutto in camera il più velocemente possibile. Quando scesi giù, lui si era seduto sul divano e aveva acceso la tv.
- Portami una birra. -
Deglutii. - Non c'è. - Mormorai. Girò di scatto il volto verso di me.
- Cosa?! - Esclamò alzandosi in piedi. - Voi sapevate che oggi sarei tornato e non mi avete preso la birra?! - Si avvicinò a me e mi diede un calcio alla caviglia. Caddi a terra, ormai non più abituato a essere picchiato. Anche se sembra poco, dopo due settimane passate serenamente, ricominciare a subire delle violenze è più traumatico di quanto si possa pensare. - E fammi indovinare, non c'è nemmeno da mangiare, giusto?! -
- No. - Riuscii a mormorare.
Mio padre aumentò l'intensità dei calci, provocandomi un dolore fortissimo.
Cosa mi aspettavo? Speravo davvero fosse cambiato? Pensavo davvero che con un po' di allenamento sarei riuscito a sopportare meglio tutto quel dolore? La verità è che ero fragile, più di quanto potesse sembrare.
Continuò a riempirmi di calci senza preoccuparsi di dove colpiva.
Viso.
Braccia.
Gambe.
Petto.
Cuore.
Soprattutto il cuore.
Ormai quell’organo aveva subito così tante violenze che non mi sarei meravigliato se avesse smesso di battere improvvisamente.
Sentivo come se stesse per esplodere. Il battito rimbombava nel petto, nelle orecchie, nella testa. Percepivo solo quello, ma poco dopo sentii il rumore di alcuni cocci che cadevano a terra. Cos’era? Il mio cuore? Forse. Non lo sentivo più battere come prima, aveva rallentato la sua corsa. Forse avrebbe smesso di battere definitivamente. Chissà.
Mentre pensavo a tutto questo e subivo quelle violenze in silenzio, realizzai che nessuno mi avrebbe salvato.
Nemmeno la speranza.
Nemmeno Hope.




HEI! 
in questo capitolo non ho molto da dire, non sto molto bene. ainoi (?) è tornato il padre...
beh, ringrazio chi segue la storia, chi la legge e chi la commenta
siete tutti quanti fantastici, dal primo all'ultimo <3
alla prossima! xxx

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Capitolo 15
*** E mi sento meno solo ***


E mi sento meno solo
 
Solo.
Triste.
Indifeso.
Vuoto.
Era così che mi sentivo. Quei quattro aggettivi continuavano a rimbombare nella mia testa, impedendomi almeno un po’ di pensare al dolore che provavo lungo tutto il corpo. Non doveva andare così. Non doveva picchiarmi solo perché non avevamo della birra. Avrei capito se ci fosse stato un motivo più… reale. Quello invece era solo un pretesto. Uno stupido pretesto per farmi del male, di nuovo. Continuavo a chiedermi il perché, senza trovare una risposta sensata.
Solo.
Hope se ne era andata da molto e non le avevo ancora scritto. Non ero nemmeno sicuro di volerlo fare. Mio padre era uscito per andare in un pub dopo aver detto che almeno lì avrebbe potuto bere qualcosa che non fosse acqua sporca. Mia madre ed Annabelle non si erano ancora fatte sentire. Ero solo, allungato sul letto della mia camera, a pensare. Ero solo con le mie paure, il mio dolore, la mia debolezza, il mio corpo ancora una volta lacerato, anche nel profondo.
Triste.
Mio padre mi odiava. Mi odiava davvero molto. Avrebbe sicuramente preferito avere un altro figlio, io non gli andavo bene. Pensarci mi faceva sentire un completo disastro. Ma soprattutto mi faceva sentire triste. Volevo solo essere accettato da mio padre, non credevo di chiedere molto. Ma a quanto pareva, sembrava stessi chiedendo un pezzo di cielo.
Indifeso.
Non ero riuscito a difendere me stesso da mio padre. Anche se cercavo di non esserlo, di fronte a lui ero fragile, vulnerabile. Non riuscivo a ribellarmi, e pensare che forse non ci sarei mai riuscito mi fece sentire particolarmente indifeso.
Vuoto.
Dentro di me il vuoto che si era creato era immenso. Mi girai su un fianco e portai le gambe al petto, come per colmare quella carenza di affetto di cui avevo bisogno. Il mio cuore non era più dentro il mio petto. Era caduto a terra, frantumandosi in mille pezzi e non sarei mai riuscito a ricomporlo.
Presi a fatica il cellulare dal comodino vicino al letto e scrissi un messaggio.
 
Potresti venire da me?
 
La risposta di Hope non si fece attendere.
 
Dieci minuti e sono a casa tua.
 
Sorrisi. Ero in debito con quella ragazza.
Qualche minuto dopo chiamai mia madre chiedendole come stava Annabelle. Mi disse che il medico l’avrebbe visitata dopo un paio di persone. Le chiesi allora di chiamarmi quando avessero fatto.
Poi provai ad alzarmi dal letto. Ci riuscii solo lentamente.  Le gambe mi dolevano molto, erano ricoperte di nuovi grandi lividi. La stessa cosa valeva per le braccia, ma soprattutto per il busto. Sentivo il bisogno di vomitare per tutti i calci che mi avevano messo lo stomaco in subbuglio. Andai al bagno, tenendomi poggiato al muro e, una volta vicino al water rimisi probabilmente il pranzo.
Quando mi sentii meglio mi sciacquai la bocca con acqua e collutorio al lavandino, evitando di guardarmi allo specchio. Non volevo vedere il mio volto.
Scesi lentamente le scale e arrivai in camera da pranzo senza cadere, anche se la gambe vacillavano pericolosamente. Pochi istanti dopo suonarono al citofono. Sempre con estrema lentezza e fatica mi avvicinai alla porta e l’aprii. Mi ritrovai davanti Hope con il volto ricoperto da lacrime e le mani unite in grembo.
- Ciao. - La salutai, abbozzando un sorriso. - Vieni. -
Mi scansai e la feci passare. Lei entrò titubante, e quando ebbi chiuso la porta mi guardò preoccupata.
- Cosa è successo? - Domandò con voce tremante, mentre alcune lacrime continuavano a rigarle il volto.
Sospirai. - Mio padre mi ha picchiato. Ma adesso non ne voglio parlare. Voglio solo stare un po’ con te. - Mormorai. Mi avvicinai a lei e le asciugai il volto. - Non piangere, ti prego. - La implorai.
- Mi avevi detto che saresti stato bene. - Mormorò.
- E infatti sto bene, soprattutto ora che sei vicino a me. - Le dissi. Lei sorrise lievemente, facendo impazzire ciò che restava del mio cuore. Zoppicando, mi avviai verso il divano seguito da lei.
Hope iniziò a torturarsi le mani guardando in basso. - Dov’è? - Chiese poco dopo. Reclinai la testa all’indietro.
- In un pub, ad ubriacarsi. - Ammisi. Hope mise un po’ titubante una mano sul mio ginocchio. Posai lo sguardo su di lei.
- Vorrei poter dire qualcosa di sensato, ma non mi viene in mente nulla che vada bene. - Sussurrò, tenendo lo sguardo basso.
- A me basta che tu sia qui. - Dissi. Alzò il volto e mi sorrise. Poi però cambiò espressione, corrugando la fronte. - Che c’è? - Chiesi. Lei si alzò in piedi.
- Dove tenete i tovaglioli? -  Domandò.
La guardai perplesso. - Dentro il cassetto vicino al frigorifero. Ma perché? - Hope non mi rispose, sentii solo poco dopo il rumore di un cassetto che veniva aperto e quello dell’acqua che usciva dal rubinetto. Poi tornò vicino a me con un tovagliolo bagnato.
- Hai del… sangue qui. - Disse posando il fazzoletto sopra il sopracciglio destro. Faceva male, e probabilmente avevo fatto una smorfia orribile, considerando che Hope si era messa a ridere.
Pulì la ferita, mentre io osservavo il suo volto. Aveva i capelli che le andavano leggermente davanti al viso, sfiorando il mio, le labbra socchiuse e la fronte lievemente aggrottata. Bella, ovviamente. Mi morsi il labbro inferiore, cercando di frenare l’impulso di baciarla.
- Ecco fatto. - Disse quando ebbe finito di pulire il sangue. - Credo dovresti disinfettare il taglio. - Aggiunse poco dopo.
- No, non serve. - Borbottai distogliendo lo sguardo dalle sue labbra. - Grazie. -
Sorrise. - Di nulla. - Le presi il tovagliolo dalle mani e lo posai sul tavolino di fronte al divano. Stava per aggiungere qualcosa, quando squillò il telefono di casa.
- Scusa un attimo. - Mi alzai in piedi e lentamente mi avvicinai al telefono.
- Pronto? -
- Ciao Ethan! - Era Annabelle.
- Hei Annabelle, come stai? - Domandai ritornando sul divano.
- Bene, non ti preoccupare. - Rispose.
- Ma cosa è successo? -
- Nulla, stavo in cucina e improvvisamente sono svenuta. Mamma mi ha portato subito qui dal dottore che ci ha detto che era solo un calo di zuccheri. - Spiegò.
- Devi mangiare di più. - La rimproverai, felice però che non fosse nulla di grave.
- Lo so… - Mormorò. - Comunque, mamma mi ha detto di dirti che stiamo tornando a casa, staremo lì tra mezzora. - Disse poco dopo rianimandosi.
- Va bene. A tra poco. - La salutai.
- Ciao. -
Chiusi la chiamata e posai il telefono sul tavolinetto.
- Era Annabelle. - Spiegai a Hope.
- Oh, come sta? - Si informò. Le spiegai brevemente cosa era successo, sorvolando sul fatto che molto probabilmente era svenuta anche per via dei tagli.
- Cosa hai intenzione di fare con tuo padre? - Mi domandò poco dopo.
Sospirai. - Sinceramente? Non ne ho idea. Vorrei che cambiasse, vorrei che mi volesse bene, ma dopo oggi so per certo che non cambierà mai. - Ammisi. - Per adesso spero che non faccia del male a Annabelle e a mia madre. Non lo potrei sopportare. -
- Io invece spero che non faccia del male nemmeno a te. Nessuno di voi lo merita, e tu hai già subito troppo. - Affermò prendendomi una mano. Intrecciai le nostre dita, godendomi quel contatto che tanto amavo.
- Non so. - Mormorai.
- Cosa? - Chiese perplessa.
- Se io non lo merito. - Hope spalancò gli occhi.
- Certo che non lo meriti! - Esclamò. - Ethan, non è normale quello che state passando, e non lo è nemmeno il fatto che tu dica che lo meriti. - Disse decisa.
Le sorrisi e l'abbracciai, stando attento ai lividi. Lei era un po' titubante, ma quando si rese conto che poteva abbracciarmi, mi strinse leggermente a sua volta. Immersi il mio volto tra i suoi capelli, sentendo il suo dolce profumo entrarmi nelle narici. Lei posò il suo viso nell'incavo del mio collo, e il suo respiro mi provocava dei brividi.
Quando mi allontanai da lei le sorrisi e ripresi la sua mano, posandola sulla mia gamba. Lei iniziò a fare dei cerchi sul dorso della mia mano, guardando un punto indefinito davanti a lei. Dalla sua espressione capii che stava pensando. Chissà a cosa...
Il rumore della porta che si aprì improvvisamente mi fece irrigidire. E se fosse stato mio padre? Non ci avevo assolutamente pensato. Anche Hope si era raddrizzata sullo schienale, ma sentire la voce di Annabelle ci fece rilassare.
- Ethan! - Esclamò appena mi vide. Si avvicinò di corsa e, appena vide Hope, le sorrise. Poi però ritornò a guardare me. - Stai bene? - Chiese preoccupata. Annuii.
- Si, tranquilla. - Le risposi sorridendo.
- Papà? - Disse titubante.
- Oh, è uscito. - Mormorai.
Mia madre intanto si era avvicinata e, dopo aver salutato Hope mi guardò agitata. - Sei sicuro di stare bene? -
- Si, mamma, non ti preoccupare. - Dissi tranquillo.
- Ti serve qualcosa? Del ghiaccio, una pomata, delle bende…? - Iniziò a chiedere, ma la fermai con un gesto della mano.
- Mamma, sto bene. Non ti preoccupare. - La rassicurai. Lei annuì, anche se non era molto convinta.
- Io devo andare. - Disse Hope, lasciandomi la mano e alzandosi in piedi. Ti prego, non te ne andare, resta con me, volevo dirle, ma mi limitai ad annuire e ad alzarmi lentamente in piedi.
L’accompagnai fino alla porta.
- Grazie ancora per essere venuta. - Dissi.
Lei mi sorrise. - L’ho fatto con molto piacere. -
Mi avvicinai e le diedi un bacio sulla guancia, un po’ più vicino all’angolo della bocca rispetto al solito.
- A domani. - Mormorai.
- A domani. - E così dicendo si allontanò lungo la strada. Rimasi a guardarla con un sorriso sulle labbra fino a quando non fu più visibile. Poi rientrai dentro casa, sentendomi un po’ meno solo.




HEI!!
dai, sono ancora in tempo! è ancora giovedì, non sono ancora in ritardo! ;)
allora allora allora, qui abbiamo un Ethan con un comportamento un po' diverso dal solito.
mmm... forse si sta innamorando :P
voi direte: ma dai?! solo lui non se ne è accorto!
e infatti è così :P
okay, meglio che vada, altrimenti do di matto ;)
allora, ringrazio coloro che seguono la storia, i lettori silenziosi e coloro che recensiscono :*
vi lascio nuovamente il mio profilo di facebook, creato solo per efp https://www.facebook.com/hope.efp.9

un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 16
*** Promettimelo ***


Promettimelo
 
Passò un mese da quando mio padre era tornato. Fortunatamente non toccò Annabelle o mia madre, ma continuò a picchiare me quasi ogni giorno. Fido finalmente era morto, e mio padre non aveva comprato nessun altro cane. L’unico problema fu che mi incolpò della sua morte, picchiandomi maggiormente.
Io e Hope eravamo diventati ormai inseparabili. Grazie a lei riuscivo ad andare avanti nonostante il dolore. Con lei era tutto più facile, riuscivo a sorridere anche quando la tristezza voleva prendere il sopravvento. Iniziai lentamente a rendermi conto che la sua presenza nella mia vita era fondamentale e che, giorno dopo giorno, me ne stavo innamorando. Per questo mi odiavo. Se mio padre le avesse fatto del male? Non me lo sarei mai perdonato. Già rimanendo amici rischiava molto. Lei però non si faceva mai scoraggiare, continuando a starmi vicino.
Luke ormai non mi dava più fastidio, anche se quando mi vedeva mi lanciava occhiate di fuoco, sia che stessi con Hope, sia che fossi solo. Ma non era un problema, fino a quando stavo a scuola nulla era un problema. Era quando tornavo a casa che tutto si complicava. Non era facile lottare contro una sorella autolesionista che si ostinava a non voler mangiare. In più cercavamo in tutti i modi di nascondere la situazione a nostra madre, che ogni giorno si insospettiva sempre di più. Mio padre era sempre più ubriaco che sobrio, e scaricava su di me la sua frustrazione.
Ma andava bene. L’importante era che fossi ancora vivo.
Quel giorno arrivai a scuola con un livido sulla guancia destra. Me lo aveva procurato mio padre facendomi sbattere contro il pomello di una porta. Se qualcuno mi avesse chiesto cosa fosse successo, gli avrei risposto di aver ricevuto un pugno in un incontro di boxe. Semplice, ma efficacie.
Quando arrivai davanti alla porta d’ingresso però rimasi pietrificato. Sbattei più volte le palpebre, ma l’immagine davanti a me rimaneva sempre la stessa. Il mio cuore smise di pompare sangue per un istante, per poi ricevere una pugnalata. Non ci credevo, non volevo crederci. Eppure Hope era lì, e anche quel ragazzo che la teneva per i fianchi. Non era la mia immaginazione. Lei avvicinò più volte il suo volto a quello di lui, e ogni volta per me era una nuova coltellata al petto.
Fu più doloroso di tutto ciò che avevo subìto in tutti quegli anni. Fece più male di tutti i calci, i pugni, i graffi e i morsi.
Ma alla fine, cosa mi aspettavo? Noi due eravamo solo due amici, nulla di più. Ero io quello innamorato di lei, ero io quello che soffriva, lei viveva solo la sua vita.
Mi riscossi dai miei pensieri ed entrai velocemente dentro l’edificio scolastico, sperando di togliere dalla mia mente la loro immagine. Andai velocemente in classe e mi sedetti sul mio banco, posando la testa sul legno duro.
Volevo dormire. Volevo dormire e svegliarmi da quell’incubo. Perché anche quando ero un po’ più felice, doveva succedere qualcosa che rovinava tutto? Davvero non meritavo nemmeno un briciolo di felicità?
- Ethan, che è successo? - La dolce voce di Hope mi fece alzare il volto. Aveva le guance rosse e i capelli leggermente spettinati. Sembrava avesse corso. Ma era comunque bellissima. Era la ragazza più bella che avessi mai visto. E pensarla vicino a quel ragazzo fece veramente male.
Appena vide il mio volto sbarrò gli occhi e si avvicinò a me. Accarezzò delicatamente il livido e, con voce tremante, chiese: - Cos’è successo?
Scossi la testa. - Nulla che ti possa interessare. - Borbottai posando nuovamente la testa sul banco. - Tranquilla, non serve che ti preoccupi per me. Torna pure dal tuo… ragazzo. - Aggiunsi dopo un po’, riluttante nel pronunciare l’ultima parola. Hope rimase un po’ in silenzio prima di dire di nuovo qualcosa.
- Ethan, guardami, ti prego. - Mi implorò posando una mano sulla mia spalla.
Scossi nuovamente la testa. - Sono stanco. - di soffrire, avrei voluto aggiungere.
Hope sospirò. - Non sono fidanzata, okay? - Disse. Ma come potevo crederle? L’avevo vista con quel ragazzo.
- Hai baciato un ragazzo. - Le feci notare. - Non credo che uno baci una persona tanto per.
Mi aspettavo tutto da lei, tranne che scoppiasse a ridere.
- Cosa c’è da ridere? - Domandai alterato alzando la testa.
- Tu credi che io stia con Marcus! - Esclamò ridendo.
Quindi quel ragazzo si chiamava Marcus. Bene, ora avevo più possibilità di trovarlo e farlo fuori.
- Se due persone si baciano, stanno insieme, a mio parere.
- Tu pensi che io abbia baciato Marcus! - Disse.
Inarcai un sopracciglio. - Perché, non lo hai fatto? - Chiesi.
Lei scosse la testa. - L’ho baciato, si, ma sulla guancia. E poi Marcus è gay. - Disse. Spalancai la bocca, mettendomi a sedere dritto.
- Lui… tu… voi… - Balbettai incredulo.
- I pronomi sono in un altro ordine, ma va bene lo stesso. - Ammiccò sedendosi in braccio a me e incrociando le braccia dietro il mio collo. Le sorrisi sollevato. - Eri geloso. - Mormorò.
Annuii. - Si, e anche molto. - Ammisi. Lei mi sorrise, e io non capii più nulla. Avvicinai il mio volto al suo e premetti le mie labbra contro le sue. Posai le mie mani sui suoi fianchi, mentre lei si avvicinava ancora di più. Schiuse le labbra, permettendo alla mia lingua di incontrare la sua, e mise le sue mani tra i miei capelli.
Quando ci staccammo eravamo entrambi a corto di fiato.
Feci combaciare le nostre fronti. - Non sai da quanto volevo farlo. - Mormorai. Lei mi accarezzò il volto.
- Avresti potuto farlo anche prima. - Disse dolcemente. La baciai di nuovo, assaporando le sue morbide labbra.
Pochi istanti dopo però suonò la campanella. Hope fece per allontanarsi, ma la trattenni per la vita.
- Devo tornare in classe. - Sussurrò. Sbuffai. Aveva pienamente ragione. Le diedi un bacio sulla guancia e la lasciai.
- Ci vediamo a ricreazione. - Dissi felice. Lei si alzò in piedi e annuì sorridendo.
- A dopo. - Mi salutò e se ne andò via.
‘Marcus,’ pensai, ‘ti devo un favore.’

****

Non seguii per nulla le lezioni quel giorno. Continuavo a pensare ad Hope, alle sue labbra sulle mie, al calore del suo corpo. Avrei voluto baciarla ancora e ancora e ancora, senza averne mai abbastanza. Volevo abbracciarla e immergere il mio volto tra i suoi ricci, inspirando il loro buon profumo. Volevo perdermi nei suoi occhi per poter essere salvato dal suo sorriso. Se mi concentravo abbastanza, riuscivo a sentire il tono dolce della sua voce e la sua ristata cristallina. Avrei fatto di tutto pur di farla ridere ancora.
Continuavo a rigirarmi una penna blu tra le mani, senza prestare attenzione a ciò che stava spiegando la professoressa. Guardavo il libro e ogni tanto annuivo, per far sembrare che seguivo, ma un realtà la mia mente era altrove. Si trovava in un posto migliore con Hope, e avrei voluto non dover mai lasciare quel paradiso.
Appena suonò la campanella della ricreazione, scattai in piedi e mi precipitai fuori dalla mia classe. In quel momento mi sentivo solo un comune adolescente innamorato, senza problemi o preoccupazioni. Salii le scale di corsa e, quando mi trovai sul pianerottolo per salire l’ultima rampa, vidi in cima ai gradini Hope. Si precipitò giù e, quando si trovò al penultimo gradino, mi saltò in braccio. La strinsi forte a me, mentre lei posava il volto nell’incavo del mio collo. Solo qualche istante dopo la misi giù, senza però allontanarmi da lei.
- Ti amo. - Mormorò provocandomi dei brividi.
Sorrisi. - Ti amo anch’io. Ma n
on sarà facile. - Dissi.
Lei per tutta risposta mi strinse ancora di più. - Non importa. Io voglio stare con te.
In quel momento non c'era nessuno intorno a noi. C’eravamo solo io e lei e la certezza che, qualsiasi cosa fosse successa, sarebbe rimasta con me.Quando ci allontanammo depositai un leggero bacio sulle sue labbra, poi la presi per mano e ci incamminammo verso il cortile esterno.
C’erano molti ragazzi e noi, come al solito, ci sedemmo su una panchina un po’ più appartata.
Hope mi accarezzò il livido. - Cosa è successo? - Chiese di nuovo preoccupata. 
- Oh, nulla, ho solo preso in pieno il pomello di una porta. - Dissi.
Lei alzò un sopracciglio. - Hai preso, o ti ci hanno fatto sbattere?
Sospirai. - La seconda opzione.
- Io sono qui, non me ne vado. - Mi rassicurò lei abbracciandomi. La strinsi tra le mie braccia chiudendo gli occhi, riuscendo a non pensare a nulla se non a lei.
Mi baciò delicatamente il livido, per poi creare una scia di baci fino ad arrivare alle labbra.
 - Ma tu vuoi proprio prenderle, eh?!
Mi allontanai immediatamente da Hope sentendo la voce di Luke. Non feci in tempo a girarmi che mi ritrovai scaraventato a terra.
La vista mi si appannò un istante, e quando riuscii a vedere di nuovo lucidamente mi ritrovai con Luke sopra di me, con un pugno in aria.
- No, fermo! - Esclamò Hope spaventata.
- Avanti, picchiami. Forza, fallo anche tu. Non sei il primo e non sarai nemmeno l’ultimo. - Mormorai chiudendo gli occhi per prepararmi al colpo. Ma questo non arrivò, non sentii nulla. Non provai dolore, mi sentii solo più leggero. Aprii un occhio e vidi che Luke si era alzato.
Hope gli si era avvicinato e gli stava dando dei pugni sul petto. - Sei un idiota, un idiota! - Ripeteva. Luke era impassibile e mi fissava… spaventato? Forse.
Mi misi a sedere e, lentamente mi alzai in piedi. Hope mi venne vicino, saltandomi al collo. - Scusalo, ti prego. Stai bene? - Domandò preoccupata.
- Si, tranquilla. - Mormorai.
- Cosa volevi dire con “fallo anche tu”? - Chiese Luke. Hope si staccò da me e mi prese per mano.
- Nulla. - Dissi. Non volevo assolutamente urlare ai quattro venti che venivo picchiato da mio padre.
Luke scosse la testa. - Non ti credo. Lo hai detto, quindi c’è qualcuno che ti picchia. - Dichiarò.
- Mettiamola in un altro modo, allora: non sono affari tuoi. - Risposi e, dopo aver lasciato la mano di Hope, mi allontanai zoppicando leggermente.
Perché era tutto così maledettamente complicato? Perché nulla andava per il verso giusto?
Senza che me ne accorgessi, una lacrima iniziò a rigarmi il volto.
Non ero forte. No, non lo ero per niente.

- Ethan, aspetta!
Mi voltai nel sentire quella dolce voce e vidi Hope con le guance gonfie e rosse. Mi si avvicinò correndo, facendosi largo tra i ragazzi. 
Mi asciugai in fretta la lacrima con il dorso della mano e l’aspettai.
- Non va. - Mormorai quando mi fu vicina. Lei inclinò la testa di lato, non capendo. - Noi. Non andiamo bene.
Lei scosse la testa, avvicinandosi a me. Aveva gli occhi lucidi. - No, tu non lo stai dicendo veramente. - Disse.
- Guarda cosa è successo! Io non vado bene a tuo fratello, tu sicuramente non andrai bene a mio padre. Dovunque andrò, verrò picchiato. Capisci che non ce la faccio? - Esclamai disperato allargando le braccia.
Lei continuò ad avvicinarsi fino a quando non fu a pochi centimetri da me.
- Ti prometto che Luke non ti picchierà più. Non oserà nemmeno sfiorarti. Tuo padre non verrà a sapere nulla. Se vuoi non verrò più a casa tua, ma ti prego, rimani con me. - Mi implorò. Allungò una mano verso il mio viso e asciugò la lacrima che stava correndo libera sul mio volto con il pollice. Abbozzò un sorriso, per rassicurarmi, e ci riuscì.
Posai una mano sulla sua vita e abbassai il mio volto, per far combaciare le nostre fronti. - Non promettermi che tuo fratello non mi picchierà. Promettimi che non te ne andrai. Promettimi che, qualsiasi cosa succederà, rimarrai con me. Promettimi che mi amerai sempre come io amo te. - Mormorai. - Promettimelo.
- Te lo prometto.








HEI!! :D
ormai pubblico sempre tardi, perdonatemi, ma oggi pomeriggio sono uscita.
certa gente gira qui per Roma...
comunque, lasciamo stare me, passiamo al capitolo.
siete felici? stanno insieme :D
sono dolciosi, lo so u.u
io però sono triste. questo è l'ultimo capitolo che posso pubblicare...
ci rivedremo con il prossimo solo a Settembre.
quindi fatevi bastare questo :P
per chi se lo stesse chiedendo, lunedì non potrò pubblicere perchè passerò tutto il giorno a sclerare (martedì parto per Londra, capitemi)
ringrazio tutti coloro che seguono la storia, recensiscono o leggono e basta.
per favore non mi abbandonate in questo mese. :3
beh, ci sentiamo!
un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 17
*** Sarò libero ***


Sarò libero                                          
 
Quel giorno percorsi la strada per tornare a casa con un sorriso enorme stampato sulle labbra. Le stesse labbra che la mattina avevano assaporato per la prima volta quelle di Hope. Le stesse labbra che si curvavano all'insù ogni volta che vedevano quella ragazza.
Aperta la porta d'ingresso però rimasi sconvolto. Il pavimento era ricoperto da bottiglie di birra, e questo voleva dire solo una cosa: mio padre era tornato prima rispetto al solito. Le seguii e notai che arrivavano fino al divano del salotto. La televisione era accesa e trasmetteva una partita di rugby. Allungato sul divano c'era mio padre con in mano una bottiglia mezza vuota.
- Sei tornato. - Biascicò girandosi. I suoi occhi erano rossi, segno delle troppe birre bevute, e, anche se ero molto distante, riuscii a sentire l'odore pungente dell'alcol. Ridusse gli occhi a due fessure e mi fissò. - Dove sei stato? - Chiese. Sembrava quasi un padre normale, solo molto ubriaco, che si preoccupa per il figlio.
Appunto.
Quasi.
- A scuola. - Mormorai.
- Vai a preparare da mangiare. Tua madre e tua sorella non ci sono. - Mi ordinò prima di rigirarsi per continuare a guardare la partita. Annuii, anche se sapevo che non mi avrebbe visto e, dopo aver posato lo zaino in camera, andai in cucina. Non c'era nessun biglietto in cui mia madre spiegava il perché della sua assenza, ed ero sicuro che mio padre non lo sapesse. Perciò mi limitai a fare varie ipotesi mentre tiravo fuori dal frigo della carne e del sugo. Riempii una pentola per l'acqua e misi in un pentolino il sugo. Accesi il gas e mi misi ad apparecchiare la tavola per quattro. Ogni tanto controllavo il sugo, per paura che si attaccasse: non volevo mio padre mi picchiasse anche per quello. Quando bollì l'acqua, presi da uno sportello la pasta, la versai nella pentola e mi sedetti su una sedia, aspettando che si cuocesse. Alle due presi il telefono dalla tasca dei pantaloni e guardai lo schermo. Pochi secondi dopo arrivò il messaggio che stavo aspettando. Ormai Hope me lo inviava tutti i giorni, il pomeriggio alle due e la sera alle dieci.
 
Tutto bene?
 
Scrissi velocemente la risposta.
 
È tornato prima.
 
Misi nuovamente il telefono in tasca e mi alzai in piedi per controllare la pasta. Era cotta. Anche il sugo lo era, così spensi i fornelli e versai la pasta nel pentolino. Mescolai il tutto e lo divisi nei quattro piatti. Li misi a tavola mentre mi arrivava un altro messaggio.
 
Ti prego, stai attento. Qualsiasi cosa succeda, prova a reagire.
 
Sorrisi. Quanto amavo quella ragazza. Misi il telefono via dopo averle scritto un "Ci proverò" e andai in salone.
- Il pranzo è pronto. - Mormorai così piano che dubitai mio padre mi avesse sentito. Invece lui si alzò barcollando e mi si avvicinò. La puzza d'alcol era nauseabonda.
- Tua madre e tua sorella? - Chiese appoggiandosi al muro per non cadere.
- Non lo so.
- Chiamale. - Borbottò andando lentamente in cucina. Stando attento a non inciampare nelle bottiglie sparse sul pavimento, presi il telefono di casa e composi il numero di mia madre.
- Pronto? - Rispose dopo quattro squilli.
- Mamma, sono Ethan. Dove siete te e Annabelle? - Chiesi preoccupato.
- Oh, ciao tesoro. Tranquillo, io ed Annabelle siamo quasi a casa, questione di pochi minuti. - Mi rassicurò.
- Va bene. Noi iniziamo a mangiare. - Dissi cercando di rimanere davvero tranquillo.
- È a casa? - Chiese spaventata.
- Si.
- È ubriaco?
- Molto. - Ammisi.
- Ci sbrighiamo. A tra poco. - Disse prima di riattaccare senza darmi il tempo di rispondere. Posai nuovamente il telefono sul tavolinetto e andai in cucina. Mio padre si era seduto al suo solito posto e aveva in mano una forchetta piena di pasta. Mi avvicinai ai fornelli, posai sul gas una padella e, dopo aver scartato la confezione di carne, la misi a cuocere. Mio padre intanto aveva finito di mangiare, allora gli presi il piatto e lo posai nel lavello. Girai la carne, poi riempii riluttante il bicchiere di mio padre di birra. Lui la bevve velocemente, per poi passarsi una mano sulle labbra per asciugarle.
- Sai, - Iniziò a parlare, - ho pensato di comprare un altro cane. L'assenza di Fido si sente molto. Che ne pensi? - Mi domandò.
Deglutii a vuoto, terrorizzato. Speravo di salvarmi, e invece no, anche quel giorno sarei stato picchiato, non c'erano possibilità di scamparla.
Se avessi risposto che mi piaceva l'idea di avere un altro cane, mi avrebbe picchiato dicendomi che non potevo sempre concordare con lui. Se gli avessi detto di non volerlo, mi avrebbe picchiato perché lo stavo contraddicendo. Se avessi lasciato a lui il compito di scegliere, mi avrebbe picchiato lo stesso, perché mi avrebbe reputato un idiota che non riesce a prendere una decisione. Ogni risposta avrebbe portato nella stessa tragica direzione.
Le mani mi tremavano, e iniziai a sudare freddo.
Decisi di perdere un po' di tempo e mi misi a cercare un piatto. Quando lo trovai ci versai le fettine di carne e le portai a tavola. Ne misi una nel piatto di mio padre, poi mi sedetti al mio posto ed iniziai a mangiare la pasta.
- Allora? - Mi incitò lui puntandomi contro la forchetta. Cercai con cura le parole adatte da dirgli, ma non le trovai.
- Non so, penso potresti prendere un cane, ma di un'altra razza. - Azzardai. Mio padre lasciò le posate e mi fissò assottigliando lo sguardo.
- Non ti piaceva proprio Fido, eh?! Lo hai anche ucciso! - Esclamò battendo i pugni sul tavolo e alzandosi in piedi. Lasciai a mia volta la forchetta mentre mio padre mi prendeva per i capelli per farmi alzare. Mi scaraventò a terra e iniziò a picchiarmi.
Mi riempì di calci, ripetendomi di essere un idiota, ma nella mia mente sentivo solo le parole del messaggio di Hope.
Qualsiasi cosa succeda, prova a reagire.
Cosa potevo fare?
Il rumore della porta che si apriva fermò mio padre per un istante, ma non per sempre. Ricominciò infatti quasi subito a riempirmi di calci.
- Siamo tornate! - Esclamò mia madre. Quando entrò in cucina e mi vide a terra, sbarrò gli occhi. - Jone, fermo! - Urlò avvicinandosi. Mio padre non l'ascoltò, anzi, si girò e le diede un pugno in pieno viso. Mia madre cadde a terra e, per il colpo, svenne.
- Fermati. - Mormorai con molta difficoltà.
Mi sembrava tanto di essere tornato all'età di dodici anni, l'unica differenza era che ora avevo un motivo in più per ribellarmi: Hope. Mio padre non mi diede retta e continuò a picchiarmi, ma io lentamente riuscii a mettermi in ginocchio, con i palmi delle mani piantati a terra. - Fermati. - Ripetei con voce più ferma. In qualche modo mi tirai su gradualmente, mentre ricevevo sempre meno colpi. - Non hai il diritto di picchiarmi così. - Affermai. Mio padre mi guardò meravigliato, non era mai successo che provassi a ribellarmi, ma prima che potessi fare qualsiasi cosa, mi colpì con un pugno allo stomaco. La vista mi si appannò mentre cadevo nuovamente a terra sulle ginocchia. Mi piegai in due dal dolore, mentre ricominciavo a ricevere altri colpi.
- Idiota! - Urlò mio padre. - Sei solo un idiota! Cosa credevi di fare, eh?! Non ci provare mai più!
Il dolore allo stomaco era fortissimo, faticavo a respirare. Davanti a me vedevo il volto di Hope che mi diceva di resistere, ma non ci riuscivo.
Iniziai a vedere sempre più scuro, fino a quando non venni inghiottito dall'oscurità.

****

Mi svegliai stranamente allungato nel letto della mia camera. Era da tanto tempo che non mi ci portavano, ero diventato troppo pesante. Ero solo, come al solito, ma poco dopo entrò mia sorella.
- Ciao. - Mormorò avvicinandosi al letto.
Abbozzai un sorriso. - Ciao.
Incrociò dietro di se le mani e iniziò a dondolarsi avanti e indietro sui piedi.
- Come stai? - Chiese in un sussurro.
- Potrebbe andare peggio. - Ammisi.
- Scusa. - Disse tenendo lo sguardo basso.
Piegai la testa di lato. - Per cosa? - Domandai perplesso.
- È colpa mia se siamo tornate tardi. Se non avessi chiesto a mamma di fermarci a comprare una maglietta, non saresti stato picchiato da papà. M-Mi dispiace. - Disse con voce tremante. Sbarrai gli occhi. No, non poteva pensarlo davvero.
- Non provare a dire che è colpa tua, perché non lo è. Non lo è assolutamente. - La rassicurai, ma non sembrava per nulla convinta. - Sicuramente sarebbe successo comunque, dato che ha tirato fuori l’argomento “Fido”. - Aggiunsi.
Poi allungai il braccio verso di lei e le feci cenno di avvicinarsi. - Forza, abbraccia il tuo fratellone. - Dissi. Lei non se lo fece ripetere due volte e si avvicinò ancora di più a me, allacciando le sue braccia dietro il mio collo.
- Ti voglio bene. - Mormorò.
- Te ne voglio anch'io.
Le accarezzai con le mani la schiena, continuando a ripeterle che non era colpa sua e che doveva stare tranquilla.
- S-sto riuscendo a smettere. - Disse poco dopo. - Lentamente, ma ci sto riuscendo.
Sorrisi, capendo immediatamente che stava riuscendo a diminuire i tagli che si procurava.
- Sono fiero di te. - Dissi stringendola leggermente più forte, e lo pensavo davvero.
Quando si allontanò si sedette vicino a me.
- Papà è andato al pub. - Mi informò.
Chiusi gli occhi, distrutto. - Sai che novità. - Mormorai scuotendo la testa. Sicuramente non gli erano bastate le birre che aveva bevuto a casa, doveva bere qualcos'altro per potermi picchiare meglio la sera, dato che avevo provato a ribellarmi. Mi passai una mano sul volto, stanco di quella situazione.
Poco dopo Annabelle mi disse che doveva andare a studiare, perché il giorno dopo avrebbe avuto un compito in classe. Le diedi un bacio sulla guancia, e subito dopo lei uscì.
Dopo di lei entrò l'ultima persona che credevo possibile, anche se ci speravo: Hope. Mi sorrise timidamente e si avvicinò in silenzio al mio letto. Le feci cenno di sedersi al mio fianco e lei fece come le avevo detto. Solo quando mi fu vicina notai che aveva gli occhi rossi e lucidi.
- Sto bene. - Mormorai accarezzandole il braccio. Lei mi abbracciò di slancio, iniziando a singhiozzare.
Le accarezzai dolcemente i capelli per calmarla. - Shhh, va tutto bene. - La rassicurai.
- S-scusami. - Balbettò. - Dovrei essere forte per te, e invece m-mi metto a piangere. Sono un’idiota.
Si allontanò subito da me, anche se avrei voluto rimanere abbracciato a lei.
Le accarezzai il volto, asciugandole le lacrime. - Non c'è nessun problema. - Le dissi. - E non sei affatto un’idiota.
Mi misi a sedere con un po' di difficoltà, posando la testa sulla testiera del letto. Mi spostai un po' di lato e la feci sedere al mio fianco, con le gambe distese sul letto. Le circondai la vita con un braccio attirandola a me, e poi immersi il volto tra i suoi capelli, sentendomi subito meglio.
- Ci ho provato. - Mormorai. - Davvero, ci ho provato, ma non è servito a nulla.
Hope posò una mano sulla mia gamba. - Sono comunque fiera di te. - Disse. Mi allontanai di poco da lei e sfiorai le sue labbra con le mie. Lo feci più volte, fino a quando lei, esasperata, non mi prese il volto tra le mani e premette le sue labbra sulle le mie, facendomi sorridere. Schiuse subito le labbra, permettendo alla mia lingua di giocare con la sua, mentre mi accarezzava il volto con i pollici.
Quando ci allontanammo, feci combaciare le nostre fronti, posando le mie mani ai lati del suo collo. La guardai negli occhi, annegando in quel mare profondo.
- È solo grazie a te se spero ancora in una vita migliore. Sei tu la mia speranza. - Mormorai. Lei mi sorrise e delicatamente posò di nuovo le sue labbra sulle mie.
Dopo poco si alzò in piedi. La guardai perplesso, non capendo cosa volesse fare. Lei si avvicinò tranquillamente alla mia scrivania e prese una scatola bianca da una busta. Sapevo fin troppo bene cos'era.
- Tua sorella mi ha detto che non l'hai ancora presa. - Disse semplicemente avvicinandosi di nuovo al letto.
- Non la voglio. - Borbottai.
Hope puntò le mani sui fianchi. - Non fare il bambino, la medicina la devi prendere.
Sbuffai. - Da' qua. - Dissi allungando svogliatamente la mano. Hope premette un vuoto e fece cadere la pillola sulla mia mano. La ingoiai velocemente senz'acqua. Era grande, e per poco non mi strozzai, ma mia madre, che prima di sposare mio padre era stata un medico, diceva che era perfetta per far passare più velocemente i lividi.
- Che schifo. - Bofonchiai.
- È cattiva? - Domandò Hope.
Scossi la testa. - No. Cioè, si, è cattiva, ma io mi riferivo alla mia vita qui in casa. - Ammisi abbassando lo sguardo.
Hope non disse nulla, fortunatamente, e si sedette di nuovo vicino a me. La sua vicinanza mi faceva stare bene, era tutto ciò di cui avevo veramente bisogno in quel momento.
- Ho parlato con Luke. - Mi informò poco dopo. La ringraziai mentalmente per aver cambiato argomento, non ce l'avrei fatta a continuare. - Ha detto che non ti darà più fastidio. E se lo farà di nuovo, sono autorizzata a strozzarlo. Non c'è problema, quindi. - Concluse.
Le sorrisi riconoscente. - Grazie.
Lei scrollò le spalle. - Non ho fatto nulla di che. - Minimizzò.
Scossi la testa. - Non è vero, mi stai salvando, di nuovo. Sono veramente in debito con te. - Dissi prendendole la mano.
Lei mi sorrise intrecciando le dita e stringendo la presa. - Tu mi compri ogni giorno la merenda, quindi siamo pari.
Abbozzai un sorriso, per poi darle un bacio sulla guancia.
- Sono davvero felice di averti incontrata. - Dissi.
- Anch'io lo sono. - Mormorò posando delicatamente la testa sulla mia spalla. - Anch'io.
Rimanemmo circa mezzora insieme, poi lei dovette tornare a casa, così rimasi nuovamente da solo.
Anche se quel giorno era stato veramente duro, in quel momento stavo maledettamente bene. Non mi ero mai sentito così in vita mia. Non mi ero mai sentito così vivo, avevo voglia di uscire di casa e urlare al mondo intero che ero veramente felice.
'Forse un giorno questa orribile situazione finirà e starò sempre bene come ora. Forse un giorno sarò finalmente libero.'




HEI!!
non uccidetemi, per favore.
Non sono riuscita a scrivere un capitolo decente in un mese, ed è pure breve.
Mi faccio schifo da sola....
Comunque, sono tornata ed ora ricomincerò a pubblicare con i ritmi prima :)
Grazie a tutti coloro che continuano a seguirmi, che hanno recensito il capitolo precedente e chi legge e basta. <3
Alla prossima!
Un bacio
Giulia xxx

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Capitolo 18
*** Un cambiamento inaspettato ***


Un cambiamento inaspettato
 
Il giorno dopo andai tranquillamente a scuola, senza zoppicare e senza lividi visibili. Fortunatamente la sera prima mio padre non mi aveva picchiato, era andato direttamente in camera barcollando fortemente.
Arrivato davanti scuola vidi subito Hope. Era appoggiata al muro della scuola con una cuffietta nell'orecchio sinistro e molti ragazzi intorno. Dentro di me ebbi immediatamente un fremito di gelosia, così, a passo svelto, mi avvicinai al gruppo. Non appena Hope mi vide sorrise e, dopo essersi tolta la cuffietta, mi saltò al collo. La strinsi a me per la vita, immergendo il mio volto tra i suoi morbidi capelli. Quando ci allontanammo di poco, le diedi un leggero bacio a fior di labbra, facendola sorridere. Tutti i ragazzi intorno mi guardarono storto, ma a me poco importava. In quel momento c'eravamo solo io e Hope, tutto il resto non contava.
- Ciao bellissima. - Mormorai allentando la stretta con cui la tenevo. Mi venne naturale chiamarla così, non sapevo nemmeno io il perché. O forse sì. Forse perché lo era veramente, non avevo mai visto una ragazza bella come lei. Forse perché il suo fascino continuava a stregarmi giorno dopo giorno.
- Buongiorno. - Disse Hope sorridendo mentre le prendevo la mano e ci incamminavamo dentro l'edificio scolastico.
- Come va? - Le chiesi.
- Io tutto bene, come al solito, ma tu? - Domandò preoccupata.
Scrollai le spalle, stringendole di più la mano. - Si va avanti. - Dissi semplicemente. Lei si fermò, facendo bloccare anche me, e mi abbracciò nuovamente di slancio.
- Denuncialo. - Mormorò posando il volto nell'incavo del mio collo. - Ti prego, non ce la faccio più a vederti così.
Sospirai. - Non è facile. - Dissi.
- Scappate. - Riprovò.
Scossi leggermente la testa. - Ci troverebbe. - Sussurrai con gli occhi lucidi. - Ti prego, possiamo cambiare argomento? A-almeno a scuola ho bisogno di distrarmi.
Lei si allontanò leggermente e mi accarezzò il volto. - Va bene, va bene. Scusami. - Disse.
- Non hai nulla di cui scusarti. - La rassicurai. Lei mi diede un leggero bacio e asciugò velocemente la lacrima che aveva iniziato a bagnarmi il volto. Poi si staccò da me, prendendomi nuovamente la mano.
- Cosa fai oggi? - Chiese, e la ringraziai sorridendole per aver cambiato davvero argomento.
- Oh, nulla di che, rimarrò a casa. - Risposi. - Tu invece?
- In teoria dovrei rimanere a casa a studiare, in pratica verrò da te. - Disse mentre si fermava davanti alla macchinetta dove eravamo arrivati.
- Sei sicura? - Domandai preoccupato. - E se mio padre torna prima anche oggi?
- Non tornerà prima, ne sono sicurissima. - Rispose mentre io infilavo i soldi nella macchinetta. Schiacciai il tasto sette e guardai il pacchetto di schiacciatine scendere. Poi lo presi e lo porsi ad Hope.
- Non so. E se ti succede qualcosa? Non potrei sopportarlo. - Mormorai.
- Non mi succederà nulla, vedrai. E anche se non mi vuoi verrò. Entrerò di nascosto dalla porta sul retro, oppure dalla finestra del bagno, non so, un modo lo trovo. - Dichiarò.
Sorrisi. - Io ti vorrò, sempre.
- Questo vuol dire che posso entrare dalla porta principale?
Annuii. - Certo.
Il suo volto si aprì in un sorriso luminoso, facendo aumentare vertiginosamente i battiti del mio cuore. - Perfetto! - Esclamò. - Oh, comunque grazie. - Disse subito dopo indicando le schiacciatine e mettendole nella tasca dello zaino.
Scrollai le spalle. - Grazie a te. - Risposi mentre la campanella iniziava a suonare. Sbuffammo entrambi contemporaneamente, scoppiando subito dopo a ridere.
- A dopo. - Disse Hope. Si avvicinò a me e, dopo un bacio veloce, iniziò ad incamminarsi verso le scale, ma io la presi per la vita facendole emettere un gridolino per lo spavento, e l'attirai a me.
- Non puoi ancora andare. - Dissi posando il volto sulla sua spalla.
- Così non fai tardi, mister puntualità? - Mi canzonò ridendo.
Le diedi un bacio sul collo. - Non è importante, sei tu tutto quello che ora conta veramente. - Mormorai facendola girare. Premetti subito le mie labbra sulle sue, portando le mie mani intorno al suo viso. Lei posò le sue mani sul mio petto, accarezzandolo lentamente con i pollici.
L’amavo. Dio, se l’amavo, e quel contatto con le sue labbra tiepide non faceva altro che ricordarmi che anche lei mi amava nonostante tutto. Sentivo che non se ne sarebbe mai andata, ma che sarebbe rimasta sempre con me.
Quando mi allontanai le sorrisi ammiccando. - Ora puoi andare.
Anche lei sorrise. - Ci vediamo a ricreazione. - Disse prima di allontanarsi.
La guardai fino a quando non scomparì per le scale, poi mi incamminai a mia volta verso la mia classe con un sorriso enorme sulle labbra e una gioia indescrivibile nel cuore.
****
A ricreazione uscii immediatamente dalla mia classe e mi avviai verso le scale per andare da Hope.
- Ethan, aspetta! - Mi sentii chiamare. Meravigliato nel sentire la voce di Luke mi voltai e lo guardai con la fronte aggrottata avvicinarsi a me.
- Che c’è? - Chiesi perplesso.
Lui mi guardò per pochi istanti, poi abbassò lo sguardo. Sembrava quasi imbarazzato.
- Io… io volevo chiederti scusa. - Mormorò. - Mi sono comportato come un idiota, non meritavi di essere trattato così male.
Sbarrai gli occhi stupefatto. Luke era venuto davvero di sua spontanea volontà a chiedermi scusa? Avevo dei seri dubbi, considerando ciò che era successo in passato.
- Senti, se Hope ti ha detto di venire a chiedermi scusa è meglio che tu te ne torni in classe. Non mi servono a nulla le tue scuse non sincere. - Dissi, ma lui scosse immediatamente la testa, rialzando lo sguardo.
- Hope non mi ha detto nulla, solo che devo smettere di darti fastidio perché… in realtà non mi ha detto il perché. - Affermò, ma non mi convinceva ancora. Stavo per ribattere, ma mi interruppe. - Tu la rendi felice, sai? La rendi davvero felice. Lo riesci a fare meglio di me. Io voglio solo il suo bene, davvero, eppure sembra che qualsiasi cosa faccia non vada bene. Se tu riesci a renderla felice vuol dire che per lei sei importante, e facendoti del male ho ferito sia te, sia lei. Non posso farlo ancora. - Mormorò. - Mi dispiace davvero molto.
Rimasi colpito da quelle parole, in quel momento sembrava davvero sincero. Luke era estremamente diverso da come me lo immaginavo. Pensavo fosse solo un ragazzo montato, ma in realtà era un semplice fratello geloso.
- Hope mi ha detto che tu sei nella squadra di football. - Dissi ricordando le sue parole.
- Sì. - Confermò, rimanendo perplesso per quell’apparente cambio di discorso. - Sono il capitano.
- Sai che lei ne soffre? - Domandai.
Lui corrugò la fronte. - Perché?
- Molti ragazzi ci provano con lei solo perché così forse riescono ad entrare nella tua squadra. - Spiegai. - E le ragazze vogliono essere sue amiche solo perché così possono provarci con te.
Luke sbarrò gli occhi, posando una mano sulla sua guancia. - Non ci credo. - Mormorò.
Scrollai le spalle. - È la verità.
Lui si diede alcuni schiaffi sulla guancia, dandosi dell’idiota. - Come ho fatto a non accorgermene? - Chiese più a se stesso che a me. - Sono proprio uno stupido, non è vero?
- Un po’. - Ammisi.
Lui sospirò. - Faccio schifo come fratello.
- Prova a parlarle, vedrai che risolverete tutto. Ora scusami, ma mi sta aspettando.
- Certo, certo, vai pure. Grazie. - Disse sorridendomi per la prima volta.
- Di nulla.
Iniziai ad allontanarmi per andare dalla mia ragazza, poi però mi fermai e lo guardai. - Abbraccia tua sorella ogni tanto, ne ha bisogno. - Dissi semplicemente per poi incamminarmi nuovamente verso le scale senza dargli la possibilità di replicare.
Seduta sul primo gradino della rampa c’era stranamente Hope. Aveva i gomiti puntati sulle gambe e il volto posato sulle mani, con lo sguardo perso nel vuoto. Solo quando mi avvicinai si rese conto della mia presenza e, sorridendo, si alzò in piedi. Le diedi un leggero bacio a fior di labbra, prendendole le mani.
- Come mai ci hai messo tanto? - Chiese.
Le sorrisi. - Ho incontrato Luke. - Risposi tranquillo.
Sbarrò gli occhi. - Ti ha fatto del male? - Domandò terrorizzata.
Scossi la testa. - In realtà mi ha chiesto scusa. - Ammisi iniziando ad andare verso il cortile tenendola sempre per mano.
- Oh, per fortuna! È così stupido che avrebbe potuto farti qualsiasi cosa.
- Ti vuole bene.
- Certo, per questo ti ha picchiato! - Esclamò. - Se mi avesse davvero voluto bene non ti avrebbe nemmeno sfiorato.
Mi fermai immediatamente, facendo fermare anche lei, e le presi il volto tra le mani. Notare che i suoi occhi erano diventati lucidi fu per me una pugnalata al cuore. - Si è dato dell’idiota per non essersi accorto che alcuni ragazzi ti stanno intorno per arrivare a lui. Gli dispiaceva davvero molto, pensa di essere un fratello orribile. Lui non ti odia affatto, ti vuole davvero bene. - Affermai. Poi feci combaciare le nostre fronti. - Non voglio più vederti con le lacrime agli occhi, okay? Non voglio più vederti piangere o sofferente, soprattutto a causa mia. Voglio vederti sorridere, perché quando lo fai mi sento vivo. Voglio sentirti ridere, perché facendolo illumini il mio mondo. Ma soprattutto voglio te, voglio amarti. Tu sei la mia vita, il mio cuore, la mia speranza. Sei il mio tutto.
Sorrise debolmente. - Oh, Ethan, ti amo tanto anch’io. - Mormorò prima di baciarmi. Chiusi gli occhi, assaporando le sue morbide labbra e pensando a quanto fossi fortunato ad averla mia. Lei era mia. Mia e basta. Pensavo che nessuno me l’avrebbe mai portata via. Le nostre dita sembravano essere fatte a posta per essere intrecciate, il mio petto si incastrava alla perfezione con il suo gracile corpo quando la stringevo a me, le nostre labbra erano come due tasselli di un puzzle che unite completavano il nostro cuore. Ma forse tutto questo lo pensavo solo io. Il destino aveva ben altri piani per noi due. Forse non eravamo davvero destinati a stare insieme.




HEI!!!
Non mi odiate perchè il capitolo è breve e per come finisce, io vi voglio bene, davvero.
Cosa pensate intenda il nostro Ethan (ed io) per "Il destino aveva ben altri piani per noi due"?
Io non dico nulla, la mia bocca è cucita. :P
Ringrazio chi segue questa storia, vi adoro tutti quanti, dal primo all'ultimo.
Un grazie speciale oggi va a Ilaperla, che continua a sopportare tutte le mie insicurezze. :3 Ti voglio bene. <3
Io vado.
Alla prossima!
Un bacio 
Giulia xxx

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Capitolo 19
*** Sogni e speranze ***


Sogni e speranze
 
A pranzo Hope venne da me come le avevo promesso la mattina. Mia madre ne fu molto felice, continuava a ripetere che Hope era per me una benedizione. E aveva ragione, lo era davvero.
Dopo aver mangiato andammo in camera mia e ci allungammo sul letto, tenendoci per mano. Feci dei cerchi sul dorso della sua mano con il mio pollice, sentendomi, nonostante tutto, il ragazzo più fortunato del mondo. Avevo lei, cosa potevo chiedere di più?
- Sai, ci ho pensato tutta questa mattina. - disse sollevandosi su un gomito. Feci la stessa cosa anch'io guardandola. Dio, quant'era bella in quel momento, con i capelli che le ricadevano delicatamente sulle spalle. Stava dicendo qualcosa, ma non riuscivo a concentrarmi su nulla se non sul suo volto. Avvicinai una mano al suo viso e spostai una ciocca di capelli dietro l'orecchio, potendo così guardare meglio i suoi occhi. Lei sbuffò subito dopo. - Non mi stai ascoltando. - si lamentò riducendo gli occhi a due fessure.
Ritirai immediatamente la mano e le sorrisi. - Perdonami, mi ero incantato. Stavi dicendo?
- Stavo dicendo che adesso, invece di rimanere qui in casa potresti venire da me. - propose. - Non sei mai venuto, e vorrei presentarti i miei genitori.
Rimasi spiazzato dalla sua proposta, ad essere sincero non ci avevo mai pensato. Aprii la bocca per dire qualcosa, ma non ne uscì nemmeno un suono.
- Non ti va? - chiese lei.
Scossi immediatamente la testa. - Sì che mi va, solo che non mi aspettavo che me lo che me lo chiedessi oggi. Certe cose vanno dette con un po' di anticipo. - risposi sincero, ma lei non mi credette.
- Non ti va.
Si riallungò sul letto incrociando le braccia al petto e guardando dall'altra parte.
Posai una mano sulla sua. - Hope, guardami. - lei lentamente spostò su di me il suo sguardo. - Sarei onorato di conoscere la tua famiglia, davvero, ma preferirei un altro giorno. Ho bisogno di prepararmi psicologicamente.
- Oh, andiamo! Addirittura? - disse meravigliata.
Annuii. - Sei la mia prima ragazza, e poi non ho mai conosciuto nemmeno i genitori dei miei amici. - ammisi.
Lei annuì comprensiva e il suo sguardo si intenerì. - Va bene. Allora facciamo che quando ti senti pronto me lo dici.
- Perfetto.
Mi allungai di nuovo a mia volta e lei si accoccolò al mio petto. - Vorrei rimanere così per sempre. - sospirò. Passai un braccio intorno alle sue spalle attirandola ancora di più a me e le diedi un bacio tra i capelli.
- Anch'io. - mormorai. - Anch'io.
Chiusi gli occhi ed iniziai ad immaginare. Immaginai una vita lontano da lì con Hope. Immaginai mia madre e Annabelle sorridenti in cucina intente a preparare da mangiare anche per me e Hope appena tornati da una passeggiata in montagna. Immaginai lunghe giornate passate uno vicino all'altra, con solo i nostri respiri sincronizzati a riempire il silenzio.
Sospirai. Chissà quando saremmo riusciti a stare davvero così insieme.
Girai il volto e notai che mi stava osservando.
- Cosa c'è? - chiesi sorridendo.
Scrollò le spalle. - Sei perfetto. - mormorò dandomi poi un leggero bacio.
Scossi la testa. - Non è vero. Ho tanti di quei difetti...
- E allora? Tutti ne abbiamo. Per me tu sei perfetto così come sei. - disse sorridendo, e notai che era leggermente arrossita.
- Sei bellissima quando arrossisci. - dissi sfregando il mio naso contro il suo. - Anzi, sei bellissima sempre.
Arrossì ancora di più a quel complimento, facendo aumentare i battiti del mio cuore ancora e ancora.
- Ti va di andare in un posto? - chiesi poco dopo. - Voglio farti vedere una cosa.
- Dove?
- È una sorpresa.
- Amo le sospese.
- Lo so.
- Perfetto.
Mi alzai dal letto seguito da lei e, mano nella mano, scendemmo giù.
- Mamma, noi usciamo! - urlai per farmi sentire.
- Va bene, fate attenzione! - si raccomandò dalla cucina.
Sorrisi, salutai Annabelle che sul divano stava guardando la tivù e uscimmo.
- Non mi dai nemmeno un indizio? - chiese curiosa.
Scossi la testa. - Spero solo ti piaccia.
Ci incamminammo così verso il posto per me più importante della città.
Tenevo sempre la mano di Hope, e lei faceva dei cerchi con il pollice sul mio dorso. Ogni tanto mi indicava qualcosa, come una strada, una casa, o anche una semplice panchina, raccontandomi alcuni aneddoti divertenti della sua vita, molti dei quali non aveva mai raccontato a nessuno. L'ascoltavo ammaliato, la sua voce era così dolce da farmi perdere la testa. Volevo ricordarmi tutto di quello che mi diceva, volevo ricordarmeli e poter pensare che solo io li conoscevo, sentendomi ancora più fortunato.
Quando vidi il vicolo che dovevamo imboccare mi stava raccontando di quando, passeggiando con un paio di cuffiette e tenendo lo sguardo basso era andata a sbattere contro un palo. Scoppiai a ridere, non riuscendo a trattenermi.
- Ti fa tanto ridere, eh? - disse ridendo a sua volta. Annuii con le lacrime agli occhi. - Sono solo un po’ sbadata.
- Sei la sbadata più bella del mondo. - dissi baciandola. - Vieni. - aggiunsi poi incamminandomi verso la stradina continuando a ridere.
- Sicuro che sia la strada giusta? - chiese spaventata. Dovevo ammettere che non era la strada più rassicurante del mondo, ma era l'unica che potevamo usare per raggiungere il luogo desiderato.
- Stai tranquilla, non è lunga. - la rassicurai. Infatti, dopo nemmeno un paio di minuti eravamo fuori. Le mormorai all'orecchio di chiudere gli occhi e di non sbirciare, e lei lo fece.
La portai così molto lentamente in un luogo che per me significava molto.
- Apri gli occhi.
Quando tolse le mani la sua espressione era perplessa. Sicuramente non si aspettava di trovarsi dentro un parco abbandonato con solo un altalena nella struttura che ne poteva ospitare due, per di più cigolante, uno scivolo con alcuni gradini rotti e una sorta di capanna degli indiani.
- Ethan, cosa...? - provò a chiedere, ma la interruppi.
- Vieni. - Le ripresi la mano e andai verso la capanna di legno. Mi sedetti dentro e le feci cenno di fare lo stesso. Quando fu dentro mi allungai e anche lei lo fece, ma era un po' titubante.
- Questo parco, quando ero piccolo, era sempre pieno di bambini. Sai, mio padre era ancora buono con me, e mi ci portava ogni volta che ne aveva tempo. Ci allungavamo qui dentro, a volte in silenzio, a volte parlando di quello che avevo fatto a scuola. Era così buono con me! Rideva, mi abbracciava, mi voleva bene. A volte mi capita di tornare qui e di allungarmi qua sotto, sperando di vederlo arrivare come se il tempo si fosse solo fermato per un po', come se potessi tornare a dodici anni fa. So che è stupido e infantile, ma è tutto ciò che mi rimane di lui. - mormorai con la voce sempre più rotta. I miei occhi erano diventati lucidi, e sapevo che presto sarei crollato. - Non l'ho mai detto a nessuno, ma volevo tu lo sapessi. Questo è il mio più grande sogno, vederlo cambiare.
- Oh, Ethan. - sospirò Hope abbracciandomi. - Mi dispiace così tanto, vorrei poter fare davvero qualcosa.
- Fai già tanto rimanendo con me. - mormorai, mentre ormai le lacrime avevano cominciato a scendere. Non ce la facevo ad essere forte. Continuavo a ripetermi che dovevo esserlo, ma non mi era possibile.
Hope si allontanò leggermente e con i polpastrelli asciugò le mie lacrime. Poi baciò delicatamente i punti dove aveva passato le dita, fino ad arrivare alle mie labbra.
- Andrà tutto bene. - mormorò. - Te lo prometto. Tuo padre tornerà quello di prima.
Scossi la testa. - Non promettermelo se non puoi esserne sicura.
- Ma io ne sono sicura. - disse decisa.
- Come fai ad esserlo? Io non lo sono più di nulla ormai! - esclamai.
- Credo nei miracoli. E so che uno accadrà.
- È già avvenuto quando ti ho incontrato. Non penso ce ne sarà un altro. - mormorai chiudendo gli occhi.
-  Allora ci crederò anche per te. - rispose semplicemente allungandosi di nuovo.
Mi prese la mano e  io la strinsi forte, ringraziandola.
Passammo il resto del pomeriggio sotto la capanna. Lì mi sentivo al sicuro, pensavo che tutto si sarebbe davvero risolto presto. Forse Hope aveva ragione. Forse un giorno mio padre sarebbe cambiato. Forse mi avrebbe di nuovo voluto bene. Forse sarebbe stato fiero di me per qualche motivo. Mi sarebbe tanto piaciuto sentirmi dire quelle cose, più di ogni altra cosa al mondo. Ne avevo bisogno. Non mi bastava sentirmelo dire da mia madre, o da Annabelle, o da Hope. Avevo davvero bisogno di lui, nonostante tutto quello che mi aveva fatto passare. A volte dicevo di odiarlo con tutto me stesso, ma una piccola parte di mi gli voleva ancora bene. Lo stesso bene che un giorno speravo potesse darmi di nuovo.
- Ti accompagno a casa. - mi offrii quando fu ora di andare alzandomi in piedi. Volevo stare ancora con lei.
- Okay.
Ci incamminammo così verso casa sua, sempre mano nella mano.
- Allora, qual è il tuo sogno più grande? - chiesi per interrompere il silenzio, anche se non era uno di quelli pesanti. - Tu sai il mio, e volevo sapere il tuo.
Hope ci pensò un po’ prima di rispondere. - Vorrei andare in Germania. - mi rivelò sorridendo.
- Davvero?
Annuì. - Mi piacerebbe tanto visitare Berlino. Sarebbe fantastico visitarla d’inverno con la neve, non potrei chiedere di meglio. Ma anche d’estate dev’essere un bello spettacolo.
- Se ne avrò la possibilità ci andremo insieme un giorno. - le promisi. - Anche se probabilmente ci sarai già andata.
- Mi piacerebbe tanto. - disse stringendomi la mano. - Forse i miei genitori mi regaleranno il viaggio per il compleanno.
Solo in quel momento realizzai che ai suoi diciassette anni mancavano solo sette giorni e io non le avevo ancora regalato nulla. Cosa si regalava ad una ragazza? Non mi ero mai trovato in una situazione del genere, era per me una cosa completamente nuova.
- Sarebbe fantastico. - dissi mentre il mio cervello si metteva in moto pensando a cosa poterle regalare.
- Già, davvero fantastico.

****
 
Arrivato anch’io a casa mi precipitai da mia madre. Si trovava in cucina intenta a tagliare delle zucchine.
- Mamma, cosa si regala ad una ragazza? - domandai sedendomi vicino a lei.
Lei smise di tagliare le verdure e mi guardò. - A una ragazza o alla tua ragazza?
Sorrisi. - Alla mia ragazza.
- Per il compleanno? - si informò riprendendo ad usare il coltello.
Annuii. - Non so assolutamente cosa regalarle.
Aspettò un po’ prima di rispondere, finendo così di tagliare le zucchine. Poi si alzò in piedi e le mise in una padella sul fuoco. Accese il gas e si voltò.
- Domani è giornata di spesa. Vieni con me e Annabelle, così ne approfittiamo per cercare il regalo per Hope. - disse infine.
Sorrisi. - Grazie mille. - dissi abbracciandola. Certo, l’idea di andare a fare la spesa non mi entusiasmava, ma fare il regalo ad Hope si. Volevo trovarle qualcosa di veramente bello, che potesse portare sempre con se. Qualcosa che le potesse ricordare ogni giorno quanto l'amavo.



HEI!!
perdonate questo ritardo, sono davvero desolata...
allora, questo capitolo può sembrare inutile ma non lo è affatto.
ricordatevi bene quello che Ethan vorrebbe da parte di suo padre, il fatto che tra un po' è il compleanno di Hope e la Germania.
non ho nient'altro da dire, spero solo che il capitolo vi sia piaciuto
ringrazio tutti i lettori, coloro che recensiscono e coloro che hanno inserito la storia tra le preferite/seguite/ricordate
ancora scusa per il ritardo
alla prossma.
un bacio
Giulia xxx

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