Comunque vada.

di miss potter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Apologia ***
Capitolo 2: *** II. Voyage au bout de la nuit ***
Capitolo 3: *** III. Fêtes galantes ***
Capitolo 4: *** IV. La grasse matinée ***



Capitolo 1
*** I. Apologia ***


                   
                                                                                                                  


                                                                                                                  Parigi, 6 gennaio 1904









Se, spinti da una qualche rude forma di curiosità – o dalla semplice e sciagurata malizia di chi cerca l’espiazione ai propri peccati erigendosi a confessore altrui nell’affollatissimo tempio dell’ipocrisia – mi chiedeste chi è oggi John Hamish Watson, l'unica arma a mia discolpa sarebbe la vecchia foto in seppia che tengo piegata in due nel taschino della giacca, dalla parte del cuore: me stesso, a ventisei anni, in compagnia di una logora valigia di cartone e del mio completo e sorriso migliori, alla caliginosa stazione di Paddington. Essenzialmente, adoro quella foto allo stesso modo, con lo stesso riverberante affetto, con cui si venerano i ricordi d’infanzia, fumosi e passeggeri come quel treno che finalmente mi sarei deciso a prendere.
Per il resto, ciò che amo e che odio, persino i miei più intimi desideri, non so più dire se questi sentimenti siano davvero miei o di coloro a cui un giorno volevo così disperatamente rubare il corpo e l'anima.
Ripensandoci, ora che non ho più ventisei anni e che ho lasciato partire il mio ultimo treno, c'è ancora un sentimento che resta veramente mio, l'unico tra tutti quelli presi in prestito o di seconda mano, cristallino come poche cose lo sono state in quel mio misero frammento di vita: il senso di colpa. Ma no, non sono qui per redimermi e questa non è affatto un'apologia, dopotutto, poiché ogni cosa che ho fatta, e amata, e odiata, l'ho fatta e amata e odiata con tutto me stesso. Ed è per questo che confido in Voi, saggio Lettore, affinché possiate trovare abbastanza cuore per fermarvi un attimo, sentire la mia storia, ed altrettanto coraggio per passare oltre, dimenticare; e nell'Inferno, per essere all'altezza del calore che in questa vita mi ha bruciato.





















Author's Corner

*fa capolino da dietro un muro col suo miglior sorriso ebete stampato addosso*
Mi dovete perdonare. Possiate, saggi Lettori, trovare la bontà di farlo poichè non aggiorno da tre mesi.
Dovete credermi se vi dico che l'estate ha raso al suolo ogni forma d'ispirazione trasformando il mio senso creativo in una palla di fieno rotolante in un arido e polveroso deserto mentale.
"Deve essersi bevuta il cervello perchè a quanto pare non ricorda di aver lasciato a vegetare la sua seconda long per iniziarne una terza che probabilmente farà la stessa fine, archiviata come uno dei tanti casi apparentemente senza speranza della Scotland Yard della BBC", direte voi.
Abbiate fede, solo... questo. Ho contattato telepaticamente il mio personale consulente detective e in questo momento è sulle tracce della mia ispirazione, scomparsa da fin troppo tempo *s'asciuga gli occhi*.
Okay, cos'è questa cosa? Ebbene, ho deciso di cimentarmi in un crossover *cri cri cri*. E... amando con tutta me stessa il film "Moulin Rouge" ed essendo appena rientrata da un viaggio a Parigi, mi sono detta: "Perchè non riesumarsi col botto?", anche perchè avevo promesso a una persona, accanita mia follower (ciao Maya :P ) una nuova long, seria, molto mooolto long. 
Spero solo che il ricominciare con la vecchia routine, l'università e l'arrivo dell'autunno mi siano d'aiuto per portare sane e salve in porto le mie bimbe.
Just forgive me and enjoy.

Love,

miss potter



p.s. alcune parti di questa introduzione sono tratte dal magnifico film "Ritorno a Brideshead", visto ieri.
 

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Capitolo 2
*** II. Voyage au bout de la nuit ***




A Maya e Kastalia. I owe you a thousand apologies.

 




 










Parigi, anno 1899: l’estate dell’amore. Il mondo era stato travolto dalla rivoluzione bohémienne ed io ero giunto da Londra per prendervi parte.
Se ne lesse fino alla nausea di questi piccoli e ingenui Candides in viaggio, spesso giovani con antiche e stimabili radici ma dal fusto ancora così verde e debole che, per quanto se ne potesse dire e pensare, trovavano appena sostegno nei tanto indistinti quanto inebrianti ideali di Libertà, Bellezza, Verità e Amore.
I figli della Rivoluzione, ci chiamavano: annegati nell’inchiostro d’infima qualità dei giornali di propaganda razionalista e nella polvere dei tomi di sociologia altoborghese, scappavamo dalle responsabilità che la nostra reputazione reclamava a gran voce per noi stessi fin dalla culla per vivere la spensieratezza della gioventù in quella che poeti e filosofi dipingevano come l’eterna e luminosa metropoli, il nido fecondo dei piaceri innocenti e delle virtù liberali.
Oh, cos’era Parigi affacciata sul ventesimo secolo… Con i suoi lampioni a gas che, come stelle cadute dalle tasche della notte, brillavano vigili come guardiani silenti agli angoli delle ampie ed umide strade; e i caffè, con i loro tavolini sbilenchi dalle tovaglie macchiate di vino rosso e tabacco sotto portici pacchianamente dipinti ma sempre gremiti d’arte, letteratura, scienza e strada dal tramonto alla successiva alba; le prepotenti cattedrali e i ponti sinuosi, la saggia pietra che si tuffava tra le squame increspate del seducente aspide che è la Senna la sera, così pericolosa e bella la notte quanto di giorno, quando i raggi del sole giocavano a rincorrersi con le barchette dei monelli affidate alle avide spire della corrente; e che dire delle purpuree cascate di gerani alle finestre delle interminabili schiere di case color avorio dai tetti grigioblù? Quelle eleganti, dalle aguzze ringhiere nere che, ad ogni passo, a ogni svolta, mi riaccompagnavano col pensiero ben oltre i comignoli, più in là delle fumose periferie, delle verdeggianti colline e degli infiniti campi di fiori, scavalcando i rumorosi porti e quel tranquillo fazzoletto di mare, a casa mia.
Eravamo i fuggitivi di un’epoca grigia come le solenni aule scolastiche dove i nostri intelletti erano stati manipolati dall’obesa smania di cattedratici con cervelli grandi tanto quanto le loro pappagorge ingabbiando, insieme al sapere critico, le coscienze. Un’epoca dal ventre più freddo di quello delle nostre povere madri lacrimose e più sorda delle ispide orecchie dei nostri padri, costantemente imbronciati.
«Finirai per buttare la tua vita tra le braccia di una ballerina di Cancan!» mi rimproverava il mio da quando lo resi partecipe del fatto che, nei momenti di svago, avrei anche potuto pensare di accompagnare la professione medica a quella dello scrittore, oltre Manica.
Alla parola “scrittore” e “oltre Manica” era sempre un incredibile spasso a casa Watson: a mio padre si arricciavano i baffi di comune accordo con le labbra sottili – mia sfortunata eredità – rivelando così la sua giallognola e digrignante legione di denti consumati da anni di fumo e disapprovazione; gli occhi, simili a due tizzoni ardenti, fiammeggiavano e le guance, paffute e rosse, gli si gonfiavano come due melograni maturi.
Mi abbaiava dietro come un cane costretto alla catena, impossibilitato di fare alcunché se non ringhiare, torturarsi e torturare ad ogni buona occasione: a colazione, quando disquisivo con mia madre riguardo i sorprendenti resoconti dei viaggi degli intellettuali inglesi rientrati entusiasti da Parigi, o addirittura alle cinque, quando lodavo la pregevole manifattura del nostro servizio da tè di Sèvres.
Tuttavia, le violente imprecazioni e le lamentele, ormai all’ordine del giorno, si erano ben presto diluite in nient’altro che un tiepido latrato da vecchio segugio inacidito dall’artrite e dall’indifferenza altrui, andandosi col tempo sempre più infiacchendosi al ritmo delle sue ossa fino a scemare in nulla più che un borbottante uggiolio biascicato a denti stretti.
Le nostre conversazioni si ridussero in poco tempo ad obbligati monosillabi e rassegnati sospiri lasciandosi dietro nulla più che tanta amarezza e delusione da entrambe le parti, accusatori e accusati, né vincitori né vinti.
Fu un paio di giorni prima della mia partenza, quando mio padre smise di concedermi il saluto e mia madre del tutto lo sguardo – oh, lo sguardo di mio padre… No, quello mi avrebbe infestato gli incubi a vita – che seppi di averli perduti entrambi e per sempre, e con essi anche il fanciullo mite e devoto che aveva albergato in me, da qualche parte, per ventisei lunghi anni in silenzio.
D’altronde, varcato il confine, non sarei più stato un figlio della borghesia, malata nella morale e appesantita dalle sue fortune, ma anch’io un figlio della Rivoluzione, senza padre né madre né un passato cui render conto. Solo me stesso, le mie ombre e alcune pagine bianche da cui ripartire per cominciare quel nuovo capitolo della mia vita in quella stessa città che mi stava offrendo il suo abbraccio e che, un giorno, mi avrebbe soffocato.

Parigi è esattamente come te la raccontano nei libri, o almeno così parve a me non appena piedi e occhi sfiorarono il suolo della stazione di Montparnasse in un gelido e fosco pomeriggio d’autunno inoltrato.
Nonostante le cicatrici dell’incidente di cui avevo letto sui giornali quattro anni prima, essa sbocciò al mio sguardo come la più affascinante di tutte le stazioni d’Europa, l’unica a dire il vero in cui mi ero mai avventurato prima di allora oltre a Paddington, e sperai che ciò mi concedesse più onore di quanto in realtà sapevo di non meritare. Respirare l’aria caliginosa e umida di quel primo paragrafo della mia nuova vita fu come tornare in superficie dopo anni di muta apnea: non conoscevo nessuno, neanche me stesso, e pensai che non avrei potuto desiderare un inizio migliore di questo.
Rammento con la nitidezza dei ricordi di un bambino l’odore pungente del grasso delle macchine e quello ruvido della fuliggine nelle narici mischiato al costoso profumo delle ragazze dai graziosi cappellini alla ventitré accorse per concedere un ultimo bacio ai loro vagabondi. Se chiudo gli occhi, mi pare ancora di sentire l’eco lontana della scricchiolante e liberatoria sensazione delle suole a contatto con il marmo lucido della stazione insieme al brontolio delle mie poche cose nella valigia, sbatacchiata al ritmo di una felicità di cui, fino a quel momento, avevo letto solo nelle cronache di viaggio o nelle poesie.
Un mondo intero, nuovo e frizzante mi stava aprendo le sue porte, invitandomi a mettermi comodo insieme a tutti quei volti sconosciuti e ad aggiungere alla biblioteca di quella vertiginosa Babele di nomi e storie anche il mio nome, la mia storia. E la cosa più straordinaria di tutte era il squisito sapore della non curanza degli altri libri per quel nuovo acquisto dello scaffale, come se di posto ce ne fosse e ce ne sarebbe per sempre stato.
Era tutto molto diverso dall’Inghilterra e da Londra in particolare, ove qualunque cosa facessi e dicessi percepivo in ogni istante l’estremità della mia fedelissima spada di Damocle pungermi capo e cuore, una pedina costantemente sotto minaccia nella scacchiera sempre uguale di un’esistenza preconfezionata.
Dalla fretta di vedere, di conoscere, di imparare tutto e subito, avrei quasi lasciato il cappello sul treno se non fosse stato per un uomo, vestito di scuro e con una grossa sciarpa di lana tirata fin sotto due occhi di un penetrante azzurro e che, per proteggersi dai fumi della locomotiva e dalla corrente d’aria, si erano ridotti a due fessure d’acciaio fuso.
«Monsieur,» mi chiamò stringendo tra le dita inguantate il mio cappello, «est-ce que c’est à vous?(1)»
Solo quando mi allungò l’oggetto in questione compresi per associazione ciò che mi era stato chiesto.
«Merci bien(2)» risposi, non senza una punta d’imbarazzo per quel mio sciocco tentativo, che è un po’ comune a tutti i viaggiatori, di simulare un accento meno esotico possibile.
La cosa, evidentemente, mi riuscì piuttosto male a giudicare dal sorrisetto genuinamente divertito che ingrassò la sommità degli zigomi dello sconosciuto, facendoglieli spiccare ben oltre il bordo della sciarpa. Lo guardai voltarmi le spalle e dileguarsi nella nebbia con la stessa velocità con cui ne era sbucato, facendo ondeggiare i lembi del lungo cappotto da sparviero.
Sarà stata l’eccitazione del momento o tutto quel calore sprigionato dalle caldaie della locomotiva perché quasi dimenticai di essere ancora mezzo sbottonato e col capo scoperto a Parigi, a novembre, incantato come un bambino smarrito nel bel mezzo di un binario affollato di gente di corsa.
Mi ricomposi in fretta e, preso un bel respiro, mi avventurai un piede davanti all’altro nella ville lumière. Alle spalle mi fissavano l’Inghilterra, i miei genitori, il mare, il treno e, forse, da qualche angolo nascosto della stazione, anche l’uomo misterioso vestito di nero, e tutto ciò che avrebbero visto sarebbe stato finalmente il coraggio di un uomo e il suo futuro davanti a sé, un passo dopo l’altro, pagina dopo pagina.

Ero giovane ma non sprovveduto. Avevo una conoscenza, un vecchio compagno di corso il quale aveva meditato – e si era tormentato – in misura di gran lunga minore alla mia riguardo l’idea di venire a vivere a Parigi una volta ottenuta la laurea. Il suo nome era Mike Stanford, un giovanotto ben piantato dagli occhi allegri, piccoli e neri abbottonati al centro di un faccione tanto sincero che avrebbe ispirato bontà anche al meno ispirato degli esseri umani, qualità questa che all’università gli permise di stare sempre un gradino sopra di me nelle relazioni sociali. A parole riusciva a incantare professori e colleghi con un quarto di facilità di quanta ce ne avrei potuta mettere io in tutta una vita, il che si rifletteva irrimediabilmente anche nelle ben più ardue prove col gentil sesso, campo di battaglia questo di cui adorava citare le proprie innumerevoli conquiste ogni qualvolta se ne presentasse l’occasione.
Ne parlo al passato perché, ora come ora, di lui non so più niente, il che a Parigi equivale a dire che, se non chiede la carità per strada, probabilmente è morto. E comunque in giro non ce lo vedo, non più almeno, dunque posso con certezza accertarne il decesso per la semplice ragione secondo cui io, della strada e della sua gente, ne so abbastanza.
Sono un bugiardo. Uno sporco, cinico bugiardo. Dimenticate. Dimenticate ciò che queste povere dita da scribacchino e medico fallito mi hanno appena estorto, poiché esse sono i miei aguzzini, i miei torturatori, le infide ambasciatrici di un cuore spezzato che non ha più voce neanche per gemere.
Dimenticate, rideteci su, poiché un sorriso non richiede alcun suono. È già musica in sé.
Non si può sapere mai abbastanza della strada, è la strada che sa tutto di te. E di Mike non mi parla da tempo.
Tornando alla condizione antecedente alla nostra attuale realtà di spettri – chi non lo è, tra noi, sia benedetto per la sua sciocca ipocrisia – intercorse tra noi una fitta corrispondenza che ebbe come conseguenza, tra tutte quelle possibili ed improbabili, anche il mio trasferimento.
Il suo fu il primo sorriso amico che incontrai appena varcate le soglie di Montparnasse e – perdonate nuovamente il mio cinismo – probabilmente anche l’ultimo.
«Alla buon ora!» esclamò allargando le sue grandi braccia da orso nelle quali mi tuffai senza pensarci un secondo.
Era dimagrito.
«Temevo che al primo schizzo di fango sui calzoni avessi fatto retro front, bimbo.»
«Anche per me è bello rivederti, panzone.»
Ridemmo entrambi di gusto, stringendoci e battendoci a vicenda i palmi sulle spalle finché il freddo non ebbe la meglio sul calore sprigionato dai nostri giovani cuori e ci costrinse a fermare la prima carrozza disponibile.
Issata la valigia sul tettuccio, ci ficcammo dentro sfregandoci le mani inguantate e sorridendo come due scolari al loro ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie.
Il colpo di frusta del vetturino e i primi passi di trotto del suo cavallo risuonarono alle mie orecchie con la stessa soavità del primo tac di una macchina da scrivere, o di un primo bacio… Ma cosa ne potevo sapere io di baci? Dopotutto, non ero mai stato innamorato.
«Com’è stato il viaggio?» chiese il mio amico alitandosi sui palmi, brioso come poche volte l’avevo visto da quando lo conoscevo.
Nonostante un intero anno ci avesse tenuto separati, non era Mike il principale oggetto della mia attenzione: i palazzi eleganti color crema, gli alberi neri dalle lunghe dita rinsecchite e le ampie strade affollate di gente d’ogni genere sfilavano fuori dal finestrino della nostra vettura come tante minuscole marionette di quello spettacolo che è Parigi, ignare di essere le responsabili di quei sospiri che mi stavano rendendo quasi incapace di parlare. Una grande pace pareva volesse invadere ogni cellula del mio essere, contagiandomi di una bellezza così trasparente da far fatica a credere che qualcuno un giorno fosse riuscito a darle una forma.
«Lungo».
«E dimmi: quali notizie dalla diletta, decrepita Londra?»
«Cosa vuoi…»
Mike dovette scambiare la mia commozione per logoramento.
«Devi essere esausto. È meglio che te ne vada subito a casa, anche se non ti nascondo che avrei voluto farti conoscere qualche… autoctono» ammiccò e, aperto il finestrino, comunicò al conducente il nuovo indirizzo di cui compresi solo l’ultima parola: Pigalle.
«Santo Cielo, Mike, non cambi mai!»
«C’est Paris, mon ami(3)» bisbigliò, e smarrì lo sguardo assieme al mio su ciò che ci stava scorrendo di fianco come il più bello dei sogni ad occhi aperti.

Pigalle, Place Pigalle, è l’ombelico di quel pot-pourri piccante e sconvolgente che è il quartiere di Montmartre, l’orfana dimenticata dalle mani sudice e il vestitino logoro che, appollaiata sul ramo più alto della città, ammicca e scopre la caviglia, una civetta che si prepara per la caccia affilando becco e artigli, eccitata dall’odore degli abitanti della notte senza chiedersi se sia moralmente giusto, o onesto, perché è insito nella sua natura di rapace trovare appagamento nell’opalescente oscurità della sua esistenza a metà.
La nostra corsa si arrestò ai confini del crepuscolo davanti a quella che in una delle sue lettere Mike, con fin troppa passione, mi aveva descritto come “un appartamentino centrale, vista incomparabile sulla ville lumière, zona giovane” et cetera che si rivelò poi essere qualcosa di poco meglio di una stamberga a due piani di cui mi sarebbe spettato il sottotetto, vista bordelli.
«Ho convinto la padrona a farti uno sconto» sussurrò Mike strizzandomi l’occhio.
Quando mi affacciai dal finestrino corrugai la fronte e gemetti alla vista di quell’ammasso di assi di legno e mattoni: era proprio brutta. D’altra parte, come base da cui partire, non potevo certo pretendere il Grand Hotel, di fronte al quale probabilmente avrei provato molto più imbarazzo di quanto me ne stava suscitando la mia effettiva sistemazione.
Mike pagò il cocchiere e mi aiutò con la valigia accompagnandomi fino al portone che, alto e lugubre, si stagliava su di noi come la porta dell’Inferno che, al posto di “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”, riportava una minuscola targa d’ottone ossidato su cui probabilmente una volta c’era inciso un nome.
«Coraggio, amico. Datti una pulita e fatti bello perché stasera ti porto fuori».
«Veramente, non credo sia possibil-»
«Baggianate! Sei a Parigi, tutto è possibile.»
Mi congedò rimontando in carrozza con un sorriso che gli andava da una basetta all’altra. Non l’avevo mai odiato così tanto.
«Alle otto, John!» furono le sue parole urlate nella nebbia prima che vi scomparisse dentro insieme a tutte le mie buone speranze, lasciandomi in compagnia della solitudine più nera.
Infreddolito, affamato, teso come una corda di violino e in tasca il denaro appena sufficiente per pagare la prima settimana di affitto, trovai coraggio per alzare un pugno tremante e bussare.
Dopo una manciata di interminabili secondi passati a dondolarmi nervosamente sul posto e a giocherellare con la maniglia della valigia tanto per mantenere attiva la circolazione, la porta si aprì in un cigolio tanto sinistro quanto l’occhietto grigio e indagatore che ne fece capolino come la testa di una larva dal buco di un frutto, facendomi accapponare la pelle.
«Oui?» gracchiò nella penombra la voce di quella che doveva essere la padrona di casa descrittami dal mio amico, sempre in quella stessa, sciagurata lettera, come la vecchina più dolce di tutta la Francia.
«Bonsoir, madame» azzardai quasi sottovoce, e pensai che mostrarle le poche banconote che mi portavo dietro avrebbe giocato a mio favore. «Je m’appelle Joh-(4)»
Il portone mi venne letteralmente e repentinamente chiuso sul naso lasciandomi vagamente annichilito, con le labbra paralizzate sull’ultima lettera del mio nome e i soldi stretti nel pugno, ma lo sferragliamento del chiavistello all’interno mi fece ben sperare contro l’idea di una notte all’addiaccio.
L’espressione che mi accolse non appena la vecchina riaprì la porta era del tutto mutata: le profonde ma morbide rughe sulla fronte e intorno a due occhi che, a pensarci meglio, non erano proprio grigi ma del colore del cielo in una bella giornata d’inverno, avevano modellato un sorriso deliziosamente guasto ma gentile che su di me agì come il migliore dei calmanti.
Era una donna di misera costituzione, semplice ma unica nel suo genere: i capelli argentei, legati a crocchia dietro una nuca piccola come quella di una scimmietta da compagnia, erano coperti da una cuffietta da notte dello stesso colore – un prugna intenso – dell’enorme vestaglia di lana grezza in cui era avvolta e che le nascondeva i piedi e mani.
Sibilò qualcosa in francese continuando a sorridermi mentre mi faceva segno di accomodarmi, per quanto comodo potesse definirsi l’ambiente: il buio e il silenzio regnavano sovrani insieme a un soffocante odore di chiuso, e se non fosse stato per lo scricchiolio delle assi di legno sotto i nostri piedi mi sarebbe parso di trovarmi in una tomba.
L’anziana accese una candela e me la porse indicandomi con una mano sepolta nella manica della vestaglia le scale. Mi resi conto piuttosto in ritardo del fatto che non si fosse neanche presentata, ma considerai anche che quelli non fossero propriamente né il momento né il luogo più adatti per dar peso a insulsi dettagli come le formalità.
«Ça va, monsieur?(5)» chiese la donna misteriosa allargando quel suo angosciante sorriso sdentato.
«Ça va.»
Non andava bene, proprio per niente, ma cercai di recuperare il coraggio, sepolto dentro di me da qualche parte, e con esso la mia dignità: pagai la signora congedandola con gentilezza e mi avventurai al lume di candela di quello che, più che un appartamento, somigliava a uno di quei castelli dell’orrore di cui si leggono nei libri scritti per spaventare i bambini troppo curiosi, con tanto di ragnatele penzolanti dalla tromba delle scale, la carta da parati strappata e tutto il resto.
Mi trascinai fino all’ultimo piano arrivandoci col fiatone e la cera bollente colata sulle dita, e a quel punto mi dovetti destreggiare brancolando nell’oscurità alla ricerca della mia stanza aguzzando lo sguardo per identificarla nel labirinto di una decina di porte chiuse.
All’improvviso, un tremendo boato fece tremare le pareti e tutte e duecento sei le mie ossa contemporaneamente, facendo seguire uno strillo e un’incontenibile valanga di imprecazioni sbraitate da un piano all’altro del pianerottolo che mi fecero gelare il sangue nelle vene.
Qualcuno doveva essere precipitato o aver fatto cadere qualcosa di pesante dalla tromba delle scale perché, insieme alla furia della padrona, si alzò un così smisurato polverone che mi fece seriamente temere per l’incolumità dell’edificio prima ancora che per quella dei suoi inquilini.
Per quanto allungassi la candela, non riuscii a intravedere che cosa stesse capitando dabbasso.
«Vous êtes des bêtes! Des canailles!» sbraitò la vecchia scatarrando ad ogni parola.
Seguirono dei passi pestati di qualcuno d’indefinito e, senza dubbio, alquanto seccato che si affrettava a salire facendosi strada nella polvere, che intanto aveva raggiunto anche il secondo piano. A definire “bizzarro” il tipo che ne riemerse, trottando come un capretto innervosito, si sarebbe rischiato di scadere nell’eufemismo.
Ora, io mi consideravo piuttosto basso per la media inglese dei giovanotti della mia età, ma alla personcina che mi si presentò davanti, con addosso gli accostamenti cromatici più improbabili e un lungo foulard a pois avvolto intorno alla testa a mo’ di turbante mediorientale, sarei dovuto apparire come un gigante.
«Salope…(6)» sibilò tra sé e sé costui passandomi di fianco quasi fossi stato invisibile.
Ero troppo sconvolto per rimanerne offeso.
«Excusez-moi, monsieur(7)» lo chiamai con una punta di diffidenza schiarendomi la voce.
Niente. Il nanetto brontolava sottovoce, meditabondo, prestandomi la stessa attenzione che evidentemente concedeva di norma al suo senso estetico nel vestire.
Avanzò ancora di un paio di quei suoi passi da formica e, all’ennesimo richiamo, si voltò.
«Qui êtes-vous?(8)» domandò corrugando la fronte e storcendo il minuscolo naso.
Quando ebbi l’occasione di guardarlo meglio in volto, mi accorsi che intorno agli occhi, scurissimi e leggermente lucidi, era disegnata una spessa linea di trucco nero che rendeva quello sguardo, se possibile, ancora più affilato e inquietante.
«Bonsoir. Je m’appelle-»
«Est-ce que vous êtes réel?(9)»
Allora non ricordai di aver mai visto un’espressione più smarrita di quella che siffatto omino portava dipinta addosso in una smorfia terribilmente malinconica, la stessa dei pagliacci del circo ritratti su tele ad olio e poi inchiodati ai muri delle camerette dei bambini. Ne avevo una simile, nella mia… Dovetti bagnare il letto per una settimana intera prima che i miei genitori si decidessero a farla portar via.
«Je m’appelle John» riprovai portandomi una mano al petto.
L’improvvisa risata che gli uscì esplosiva fuori dai polmoni mi fece saltare sul posto da quanto imprevista e fuori luogo mi parve al momento. Cominciò a ridere come una locomotiva – se le locomotive avessero la facoltà di ridere, almeno: a sbuffi e soffi – portandosi le mani avvolte in un paio di guanti senza dita davanti alla bocca, larga come quella di una rana e anch’essa truccata.
In un balzo mi oltrepassò tornando da dov’era comparso, e si precipitò giù dalle scale per metà sghignazzando e per metà esultando come uno scolaretto al parco giochi.
«Audrey! Audrey!» gridava battendo le mani, eccitatissimo.
Sentii un gran trambusto provenire dal primo piano ma questa volta, essendosi la polvere un po’ abbassata, riuscii a sporgermi dalla ringhiera e a distinguere la saltellante figura del nano che chiamava a gran voce una seconda persona decisamente più alta, Audrey, alla quale seguì poi una terza ed infine una quarta in una breve processione di maschere carnevalesche che parevano essere uscite dalla tana del Bianconiglio per contagiare il mondo della loro meraviglia.
Quasi tutti nello stesso istante, i quattro volti si spostarono dal compagno alla mia persona, prendendo a fissarmi silenti con una curiosità quasi invadente per poi tornare a far quadrato e a parlottare sommessamente tra loro.
Stavo considerando la più che ragionevole possibilità di ritirarmi per evitare così, nell’eventualità la padrona fosse salita, di ritrovarmi nel bel mezzo di quell’assurda bagarre e, di conseguenza, nei guai dopo neanche un quarto d’ora dal mio arrivo.
Tuttavia, prima che potessi muovere anche solo un muscolo, uno di loro alzò nuovamente il capo al mio indirizzo, congelandomi con lo sguardo.
« Vous êtes l’anglais, eh?(10)» esclamò scoprendo un incisivo d’oro che luccicò nella penombra come una lucciola al crepuscolo.
Non era francese: oltre alla marcatissima pronuncia della esse, i tratti del viso denotavano senza dubbio origini iberiche o italiane, per non parlare della stravaganza degli abiti. Dunque, non conoscendo né lo spagnolo né l’italiano, e cominciando a fremere di fronte alla prospettiva di intraprendere una conversazione in francese, azzardai qualche parola nella mia lingua.
«Precisamente» risposi, e mi morsi la lingua rimproverandomi per aver scelto proprio “precisamente” per esprimere un’affermazione e non un semplice “sì”. Non volevo rendermi detestabile fin dall’inizio!
«Mi chiamo John Watson, da Londra, e sono onorato di fare la vos… tanto piacere.»
Quasi fossero cerebralmente collegati, mi sorrisero tutti insieme con inaspettato calore e mi invitarono a unirmi a loro per bere qualcosa.
«Oh, mi piacerebbe ma sono davvero molto stanco e credo di aver bisogno di un bagno, ora come ora.»
Dall’occhiata che mi lanciarono in perfetta sincronia compresi che, in fin dei conti, non avrei avuto alternativa, anche perché dall’aspetto dell’appartamento dentro al quale venni letteralmente trascinato capii che il mio vestito sgualcito e l’intera giornata senza l’ombra del sapone non avrebbero dato più di tanto nell’occhio.
Il disordine, insieme a un costante e destabilizzante odore di vecchiume e sudore e a un singolare gusto in fatto di arredamento, regnava sovrano. La posizione dei mobili, come del resto di ogni singola cosa presente, non aveva semplicemente un senso: un paio di letti di ferro battuto, invasi da enormi cumuli di cianfrusaglie e vestiti d’ogni sorta e colore, se ne stavano segregati uno all’angolo opposto dell’altro di uno stanzone fiocamente illuminato che, prima di essere scambiato per un deposito di ogni genere di ciarpame, doveva essere stato alquanto ampio.
Al centro, era stato predisposto quello che, a un primo sguardo, mi parve una sottospecie di atelier-teatro-osteria con tanto di pianoforte e alberi di cartone colorato, un tavolaccio oblungo apparecchiato con un lenzuolo da letto che gli faceva da tovaglia, alcune candele di lunghezza e tinte diverse piantate su candelabri d’argento oscenamente fasulli e infine una sterminata legione di bicchieri, bicchierini, bottiglie e bottigliette quasi vuoti.
In mezzo, marciva un pietoso cesto di frutta smangiucchiata che in seguito intuii essere il modello che qualcuno stava abbozzando su una tela appoggiata ad uno zoppicante cavalletto poco distante.
Non osai chiedere di curiosare nelle altre stanze.
«Sedetevi!» cinguettò il nanetto nel suo caramelloso accento francese indicandomi una seggiola così sgangherata che, per salvaguardare l’incolumità del mio osso sacro, mi fece declinare l’invito.
Intanto l’iberico mi aveva letteralmente strappato di mano la valigia gettandola vicino a un mucchio di altre borse e abiti da rammendare.
«Fate attenzione con quella! C’è una Underwood dentro.»
Fino a quel momento non credevo possibile che un uomo potesse riprodurre così tanti tipi diversi di sguardo ma quando all’improvviso tutti smisero di fare quello che stavano facendo per guardarmi me ne stupii. Restituii a mia volta l’occhiata che, in quel momento, doveva essere molto simile a quella di un colono invitato a desinare nella capanna di un indigeno: sospettoso. Il loro, un ibrido tra la meraviglia e il sollievo.
«Vous… vous êtes écrivain?(11)» domandò timidamente il più smilzo dei quattro, un omino vestito di velluto da capo a piedi, così gracile e curvo che provavo timore solo a guardarlo per paura di incrinarlo.
«Éc… Écrivain?» chiesi a mia volta, poiché ignoravo il significato del termine.
«Scrittore. Scrittore!» esclamò raggiante l’iberico che, come se un’entità invisibile gli avesse spaccato una bottiglia in testa, barcollò per qualche secondo prima di schiantarsi di faccia al suolo dove cominciò a russare con tale passione da far quasi invidia a un verro.
Quell’improvviso silenzio, fino a quel momento rimasto sospeso a mezz’aria insieme ai nostri respiri, si infranse nuovamente deflagrando nel consueto fracasso di oggetti scalciati via e persone impegnate chi ad imprecare, chi a suonare, chi a dipingere e a cantare, ma nessuno a prestare soccorso al compagno.
Non sapendo se essere più infastidito o preoccupato, mi agitai come una stupida matricola alla sua prima autopsia e l’unica cosa che mi venne in mente di fare fu di girare di schiena l’iberico e sollevargli le gambe.
«Excusez-moi! Una mano! Potreste gentilmente darmi una…»
Lo stivaletto che di tacco mi arrivò direttamente in fronte fu la classica goccia che fece traboccare il vaso già precario che erano i miei nervi in quel momento.
Lasciai andare le caviglie del disgraziato che sbatterono al suolo con un tonfo sordo, afferrai a caso uno dei bicchierini sulla tavola, lo riempii fino all’orlo della prima bottiglia che mi capitò sotto mano e mandai giù, in un sol sorso.
Non posso dire con certezza se, quando rinvenni, fosse passata solo una decina di minuti, un’ora o una settimana. Sbattei un paio di volte le palpebre, la testa come immersa nel Flegetonte e intorno una danse macabre di arlecchini che discutevano a gran voce sul da farsi, facendo volare schiaffi e bestemmie.
«Est-ce qu’il est mort?»
«Sans doute!»
«Abrutis! Voilà qu’il revient(12)».
Non feci in tempo a rimettermi seduto che un bicchierino di quella stessa bevanda che mi aveva atterrato mi venne portato alle labbra: se giudicavo forte il Gin, dovetti subito ravvedermi.
«Bentornato tra noi, scrittore!» esclamò l’iberico sfoggiando un gran sorriso sornione.
Raccolsi tutte le mie forze per rimettermi in piedi, scosso da brevi ma potenti colpi di tosse e dal sapore acre che aveva fatto irruzione nella mia bocca squassandomi.
Quattro paia di occhi, uno più allucinato dell’altro, mi fissavano al di sopra di altrettanti sorrisi forse ancor più inquietanti.
«Co-come state?» chiesi al giovane moro ricordandomi tutt’a un tratto del suo spiacevole inconveniente.
«Come dovrei stare? Da Dio, como siempre!» rispose quello come niente fosse successo, e si versò un bicchierino imitato subitamente dai compagni.
«Ma voi… voi…»
«Non ricorda assolutamente nulla, monsieur» intervenne lo smilzo, quasi in un sussurro. «Ha quella cosa, sapete, del sonno. Non riesce a controllarlo! Può mettersi a dormire in qualsiasi momento e ovunque, così, all’improvviso!»
«Ronf ronf!» grugnì in un’onomatopea il nano unendo i palmi e portandosi entrambe le mani giunte su una guancia.
«Ed è per questo che siamo in terribile ritardo con la commedia!» starnazzò Audrey sventolando un plico di fogli scarabocchiati.
«Terribile ritardo, proprio così. À votre santé!(13)» sbraitò il moro sollevando il bicchierino e, senza avere neanche il tempo di svuotarne il contenuto, ricominciò a barcollare per poi rovinare di nuovo a terra, profondamente addormentato.
Avevo studiato qualcosa a riguardo.
«Narcolessia» fu la mia diagnosi, e mi stupii del flemma con cui mi era uscita.
Mi sarei abituato in fretta a quel tipo di mondo, all’indifferenza.
«Che ne sapete, voi?» borbottò Audrey, la cui faccia era deformata da un’eterna smorfia di disappunto.
«Già, che ne sapete?» incalzò il nano.
Lo smilzo, invece, rimase in silenzio a fissarmi nell’ombra, curvo e immobile come un gargoyle in attesa di un mio probabile passo falso.
«Sono un medico.»
Se possibile, questa notizia ebbe ancora più effetto sui miei nuovi, stranissimi amici più di quella riguardo il mio passatempo letterario: non seppi dire al momento se fossero più impressionati o scettici.
«Beh, che fate lì impalato! Aiutatelo» mi sollecitò Audrey, probabilmente più in apprensione per la sua messa in scena che per la salute del compare.
«Veramente non posso fare nulla» risposi imbarazzato, e mi sentii arrossire dalla punta delle orecchie fino alle dita dei piedi – il che non mi dispiacque neanche tanto, dato che in quella stanza si congelava. «È una malattia neurologica incurabile.»
Non mi stavo rendendo utile ad alcunché. Come scrittore non avrei potuto propormi per nulla che esulasse dagli sciocchi sproloqui poetici in cui mi avventuravo ogni tanto su temi di cui non conoscevo un accidenti, come attore per sostituire il narcolettico mi sarei reso quanto meno ridicolo e come medico… In quel momento mi tremavano troppo le mani e, invece di salvaguardare la salute di una persona, avrei quasi certamente finito per strangolarla.
Non trovai così altri argomenti con cui difendermi se non le care, vecchie frasi di circostanza che, almeno nel mio mondo, quello che mi ero lasciato alle spalle, salvavano sempre la reputazione dal dover giustificare l’assenza di una effettiva utilità sociale nella grandissima tragicomica che è la nostra vita su questa Terra.
«Siete attori, quindi.»
«Io no!» esclamò il nano scoprendosi il capo e facendosi un poco più avanti. «Io sono un pittore.»
Di bene in meglio, pensai, e mi morsi la lingua per non rischiare di farmi uscire un commento malevolo alla maniera borghese perbenista, involontario frammento del mio essere.
«Oh. E… cosa dipingete?»
«Puttane» se ne uscì lo smilzo, sempre più curvo: sembrava che parlasse a se stesso, o che stesse per esalare l’ultimo respiro. «Io sono un pianista.»
«Se tu sei un pianista, Erik, io sono Caravaggio!» abbaiò il nano cambiando repentinamente espressione non appena volse di nuovo lo sguardo verso di me. «Perdonate la maleducazione ma non abbiamo il piacere di ricevere ospiti così spesso. Il mio nome è Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa!»
Non riuscii a nascondere un mezzo sorriso quando quel lunatico concentrato di assurdità rivestito di pelle umana e stracci concluse la sua presentazione con un profondo inchino che, a causa della debolezza delle gambe e dell’ingente percentuale di alcool nel sangue, lo portò faccia a terra in un batter d’occhio.
«Ecco!» esplose Audrey «Un altro narcoplessico.»
«Narcolettico!» corressi io aiutando il mio piccolo amico a tirarsi su. «E non è narcolettico, è solo…»
«Ivre!» mi precedette Erik mettendosi seduto e cominciando a strimpellare qualcosa al piano.
«Argh! Ci rinuncio!» strillò il commediografo assumendo una preoccupante tonalità bluastra in viso e buttando all’aria tutti i suoi fogli, che ricaddero al suolo leggeri come foglie secche destinate a marcire.
«Ma che pretendete!» feci io prendendo coraggio.
Ne sapevo qualcosa sulle troppe aspettative che certa gente si fa di altra, e mi sentivo umiliato io stesso per quelli che, dopotutto, erano nient’altro che brav’uomini dalle tasche e la testa non troppo integre.
«Non sono professionisti. Sono più capaci in altre discipline, non potete costringerli a recitare.»
Henri mi guardò come se davanti gli fosse apparsa l’allegoria della Francia in persona che, a seno scoperto e il tricolore sguainato, guida la folla verso il proprio destino di libertà, uguaglianza e fratellanza.
L’unica risposta che ottenni fu una porta sbattuta e un solitario applauso dall’iberico, magicamente risorto.
«Era ora che se ne andasse, quel pallone gonfiato!» esclamò entusiasta allargando le braccia nude e muscolose.
Non tutti sembravano pensarla allo stesso modo.
«Bell’affare, ora» mormorò il musicista sfiorando malinconicamente i tasti ingialliti del suo strumento, ridotto al silenzio. «Come facciamo con la commedia?»
«Che se la ingoi!» insorse il pittore guardandomi con una riconoscenza e una dolcezza quasi commoventi. «Abbiamo guadagnato molto più di quel pomposo sputasentenze».
Avrei scoperto molto presto che grande amico avrebbe dato prova di essere quel pittore squattrinato, o almeno che avrebbe potuto essere se avesse messo le persone prima della bottiglia.
Arrossii leggermente spostando il peso da un piede all’altro.
«A ogni modo, temo di non poter esservi di così tanto aiuto…»
«Pas du tout! Ci siete già stato di grande aiuto. Saremo anche gente semplice ma sappiamo quello che vogliamo. E il teatro non fa per noi.»
«Proprio no» convenne Erik riprendendo a suonare.
«Io ballo il tango» intervenne il moro quasi dal nulla cominciando a piroettare qua e là al ritmo del piano e, intanto, a raccontare della sua vita passata: nato e cresciuto a Buenos Aires, aveva attraversato un oceano in compagnia solo della sua grande passione per la danza e…
«Pour les parisiennes!(14)» ridacchiò Henri invitandomi a raggiungerlo accanto all’unica finestra di tutta la stanza.
«Les parissiennes?» ripetei io, e presi posto accanto a lui.
Il pittore rise basso immergendo lo sguardo nella luminosa oscurità di fuori, gli occhi sognanti e appassionati di un innamorato.
«Ah, oui. Belles demoiselles et femmes formeuses.(15)»
Nonostante il vetro che, a quanto pareva, non doveva vedere l’ombra di una spugna dalla rivoluzione, riuscii comunque a scorgere le caleidoscopiche luci della sera che, come tante lucciole impazzite, annunciavano il principio dell’intermittente vita notturna a Montmartre.
Poco distante, al limitare della piazza, quattro grandi pale di mulino, illuminate da decine e decine di lampadine rosso fuoco, ruotavano pigre, e giurai che in quell’abulico vorticare si potessero delineare i tratti del Demonio. O, forse, era solo quell’ennesimo bicchierino pieno fino all’orlo di quello stesso liquore color verde smeraldo per il quale la mia lingua stava pian piano sviluppando il callo e il mio cervello una zona a sé da consacrargli al pari di un altare pagano al quale mi sarei recato ogni giorno dopo il mio battesimo.
«Molto diverso dalla vista della mia camera da letto a Londra» sussurrai strizzando le palpebre fino a sentirle dolere quando buttai giù, un sorriso euforico dipinto sulle labbra che mi pulsavano a ritmo con la testa.
«Bevi, mon ami» disse dolcemente Toulouse accarezzandomi i capelli. «A Parigi non c’è spazio per la nostalgia.»
Ad un tratto, qualcuno bussò alla porta, tre colpi ben assegnati che ci fecero sussultare come fossero stati tre colpi di pistola.
L’iberico andò ad aprire barcollante, sbuffando e brontolando tra sé e sé come una caffettiera.
«À la bonne heure(16)» salutò il ballerino in un singhiozzo, ma in quel tono non riconobbi un quarto dell’allegria riservata a me poco prima.
Si fece avanti un ragazzo che, ad un primo sguardo, avrebbe potuto tranquillamente adombrare tutti i migliori capi in vendita al mercato degli scapoli a Londra: doveva avere su per giù la mia età, un volto tra i più simmetricamente inquietanti che in vita mia ebbi mai occasione di contemplare, non una ruga, non una cicatrice, i capelli focati pettinati elegantemente all’indietro, avvolto in un raffinato completo di raso che, come dipinto dal più abile dei pittori, cadeva a pennello su un corpo nato dallo scalpello del più geniale degli scultori.
Si tolse i guanti di pelle nera gettandoli sul tavolo assieme al cilindro con la boriosa nonchalance di chi sa di potersi permettere tutto a parte l’essere ignorato.
Quando alzò gli occhi, due zaffiri della più pura e dura qualità, puntandoli su di me, ebbi un sussulto.
Ci pensò Toulouse a rompere il ghiaccio.
«John di Londra, Victor di Mosca...»
«San Pietroburgo.»
«… San Pietroburgo» tagliò corto il pittore agitando la bottiglia che teneva saldamente per il collo tra me e il nuovo arrivato, il quale mi si avvicinò senza proferire parola.
Mi sentivo tremendamente a disagio: quell’individuo doveva vivere a Parigi da molto, molto tempo perché, se Henri non avesse avuto la gentilezza di specificare, non avrei minimamente fatto caso alle vocali leggermente prolungate o alla lieve ruvidezza nella pronuncia delle consonanti in quella voce bassa ma decisa.
Egli sarebbe sempre rimasto un enorme enigma per me, oltre che una continua sorpresa, e non solo per il suo ragguardevole poliglottismo e indubbio gusto nel vestire.
«Bel cappello» disse solo in un perfetto inglese, indicandomi il capo con un rapido e posato spostamento degli occhi cerulei.
Mi portai una mano alla testa con più nonchalance possibile, sorridendo impacciato come uno scolaro al suo primo giorno di scuola davanti al maestro, e mi scoprii il capo allungando l’altra mano verso il russo. Tuttavia questi, invece che restituire la cortesia, protese la sua alla bottiglia, custodita gelosamente tra le braccia del nano che, controvoglia, gliela cedette con un grugnito.
«Vi ringrazio» tossicchiai piegando il braccio e portandomelo dietro la nuca. «Non… non vorrei risultare inopportuno ma credo di avervi già visto, da qualche parte».
Il ragazzo sorrise appena sulla bocca della bottiglia mentre beveva a canna, squadrandomi da sotto le sue lunghe ciglia color rame.
Seguii i movimenti ritmici del pomo d’Adamo che s’alzava e s’abbassava ad ogni sorso, e la robustezza del suo stomaco mi impressionò più della sua villania: un bicchiere di quella roba sarebbe stata in grado di stendere il più consumato tra gli ubriaconi e quell’individuo se la stava tracannando con lo stesso ardore che un assetato consacrerebbe a una brocca d’acqua cristallina.
Si staccò solo quando Toulouse protestò strappandogli la bottiglia di mano per portarsela alle labbra, famelico, con una brutalità che mi fece corrugare la fronte.
«Petit(17),» esalò Victor pulendosi quel suo sorriso sghembo tanto perfetto quanto irritante con una manica della lussuosa giacca «non si è mai troppo inopportuni, qui.»









Traduzione (se dovessi aver tralasciato qualche parola sono disponibile a tradurla, eventualmente):
(1) Signore, è vostro?
(2) Grazie molte
(3) E' Parigi, amico mio
(4) Buona sera, signora. Mi chiamo Joh-
(5) Va bene, signore?
(6) Puttana
(7) Mi scusi, signore
(8) Chi siete?
(9) Siete reale?
(10) Siete l'inglese, eh?
(11) Siete... scrittore?
(12) "E' morto?"
       "Senza dubbio"
       "Idioti. Ecco che rinviene"
(13) Alla vostra!
(14) Per le parigine!
(15) Ah, si. Belle signorine e donne formose.
(16) Alla buon ora
(17) Piccolo



Note
Il titolo del capitolo è preso dal titolo omonimo di un romanzo di Céline.




Author's Corner
Non ho molto da dire, in realtà. O forse la realtà è che non ho scuse.
Non aggiorno questa long da quattro lunghi estenuanti mesi e ora che ho finito tutti gli esami insieme alle scuse ho partorito. Mi scuso infinitamente con chi mi segue per la scostanza, cercherò di rimediare come posso e sì, è una minaccia.
Spero che il primo capitolo piaccia e che lasci quel pizzico di curiosità in più che vi permetta di pazientare qualche settimana per il secondo, per il quale ho già pronta qualche bozza.
Un ringraziamento speciale alle due splendide followers a cui questo capitolo è dedicato. Come vedete non vi ho dimenticate.
Un abbraccio,
miss potter.

 

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Capitolo 3
*** III. Fêtes galantes ***





Per come se ne potesse pensare e per quanto se ne riuscisse a raccontare, Victor avrebbe per sempre avuto quella tanto inspiegabile quanto invidiabile capacità di piacere agli altri tanto quanto – se non in misura maggiore – piacesse in realtà a se stesso.
A dispetto delle apparenze, infatti, non dimostrò mai di essere un gran compagno di conversazione: parlava raramente di sé e, quando proprio non ne poteva fare a meno, la sua laconicità lo rendeva in effetti la peggiore delle compagnie che si potesse mai desiderare. I suoi interlocutori, per qualche manciata di secondi, si riducevano a comiche statue di sale col fiato sospeso nell’attesa che una frase venisse portata a termine o un concetto alla luce.
Non fraintendetemi, non mi voglio contraddire, ma credo di non aver mai incontrato, nel suo silenzioso egocentrismo, un uomo più colto e raffinato come Victor Trevor.
Come ho già anticipato, non era esattamente uno di quei barbosi gentiluomini che vivono e muoiono per la caduca fama di una sera sorseggiando liquori pregiati in vestaglia di taffetà seduti in poltrona quando non si pavoneggiano ai ricevimenti.
Nonostante la gran classe in fatto di moda e di comportamento, Victor non era un borghese. Semplicemente si notava, e senza che si sforzasse per farlo. Bastava che aprisse bocca e il mondo intero – quell’abbondante e al tempo stesso misera parte che conta, almeno – cadeva ai suoi piedi. Le sue competenze spaziavano dal campo letterario alle recenti scoperte scientifiche, dalla geopolitica alla botanica più sopraffina, dal teatro italiano alla musica tedesca, ed era indubbiamente affascinante starlo ad ascoltare mentre commentava l’ultima opera filosofica o dimostrava un’apparentemente complicata teoria matematica.
Per questo motivo, nei suoi confronti, mi sentivo costantemente immerso in un deprimente senso di inferiorità sia nel campo culturale sia, e soprattutto, in quello fisico, il che mi portò troppo spesso ad abbassare gli occhi quando invece avrei dovuto tenerli ben aperti.
Ovviamente non intendo spendere una pagina intera a disquisire di quanto molto o poco apprezzabile fosse Victor – chi sono dopotutto io per potermi permettere di giudicare? – dunque mi limiterò a fornire alcuni suoi dati biografici pervenutimi da racconti di terzi che per me ebbero sempre l’agrodolce sapore delle leggende metropolitane.
Di madre russa e padre inglese, nacque e crebbe nella remota ed umida Pietroburgo, temprato dal gelo degli infiniti inverni, dal frigido calore delle brevi estati e dal denso fumo delle periferie in una città scostante e crudele come una matrigna, prossima ma terribilmente distante.
All’età di sedici anni, dopo la morte del padre in un attentato del movimento terrorista Terra e Libertà, si trasferì a Mosca con la madre e la sorella dove iniziò, senza poterli concludere, gli studi di letteratura pagati con quasi tutta l’eredità del padre.
Alla morte dello zar Alessandro e l’incoronazione di Nicola, nel 1894, si dice che con i pochi soldi rimasti loro la famiglia riuscì ad espatriare e a raggiungere Berlino dove trovò lavoro come bibliotecario, imparò il tedesco e la madre morì di tisi.
Lavorò come uno schiavo, giorno e notte, catalogando e copiando, archiviando e recensendo libri per pagare gli studi alla sorella e concedersi una vita dignitosa ma, soprattutto, per non permettere all’indigenza di fargli appassire la più grande tra le sue innumerevoli doti: l’intelligenza.
S’appassionò della filosofia tedesca, della poesia italiana e della prosa francese, tre discipline che al pari di tre muse ispiratrici lo spinsero a costruirsi un’immensa cultura, mattone dopo mattone, e che più avanti lo portò ad interessarsi anche di materie scientifiche, quali fisica e biologia.
La sorella, mi pare di ricordare, riuscì a sposarsi. Alcuni dicono con un diplomatico, altri con un maestro elementare, altri ancora giurano di averla vista battere per le strade di Firenze. Ma Victor… No, lui non avrebbe mai potuto finire in miseria, a lavorare in qualche polveroso buco magari, sommerso da carte e debiti, morendo nel silenzio come un topo avvelenato dai rimorsi. Era troppo sveglio per invecchiare nell’anonimato di una città che gli ricordava troppo Pietroburgo: lo spaventava la burocrazia e il gelo, soprattutto quello ben più duro da sciogliere albergante nel cuore della gente, ed ecco forse il motivo che lo spinse, un paio d’anni prima della rivoluzione bohémienne, di spendere finalmente il denaro messo da parte e ripartire alla volta del cuore pulsante dell’Europa moderna e cosiddetta “civilizzata”: Parigi.
A questo punto della storia, o il ballerino argentino doveva essere svenuto o Toulouse aver vomitato perché la narrazione si era brutalmente conclusa lasciandomi col bicchiere e il fiato sospesi, cosa che non sembrò dispiacere affatto al diretto interessato.
Seduto a gambe accavallate nella penombra, per tutto il tempo non aveva fatto altro che alternare un sospiro a un mezzo sorriso, scuotendo il capo di tanto in tanto con lo sguardo di ghiaccio cristallizzato su un punto indefinito della stanza.
Non seppi mai la seconda ma fondamentale parte di quel libro abbandonato alla polvere e all’oblio, uno di quelli che di uguali se ne vede tanti, troppi, dalla copertina lucida ed elegante ma dalle pagine consunte, alcune strappate, altre totalmente bianche e altre ancora scritte così fittamente e con un inchiostro così nero e pesante da essere illeggibili.
Quella sera, se ne stette lì, immobile come una pietra, gli occhi traslucidi e distanti fissi sulla finestra, una sigaretta spenta tra le dita di una mano e un bicchiere nell’altra mentre ci ascoltava parlare di niente aspettando che il crepuscolo calasse e che lasciasse spazio al drappo nero della notte.
Venni distratto da quell’ovattata contemplazione dall’improvviso ricordo del mio appuntamento.
«Santo Cielo!» esclamai balzando in piedi. «Che ore sono?»
«Sette e cinquantaquattro» rispose Victor, lesto e conciso.
«Come fai ad esserne così sicuro?» singhiozzò Toulouse squadrandolo. «Non hai neanche guardato l’orologio.»
«Non ce l’ho, infatti.»
«E dunque come fai a sapere che sono le sette e cinquantaquattro?» incalzò Erik.
«Cinquantaquattro e trentatre secondi, ora.»
«Victor!» urlò l’argentino.
«Non t’agitare, Pablo, che poi il neo dottore si sente a disagio.»
Ora, come diavolo facesse a sapere che ero medico proprio non lo seppi dire, ma di una cosa ero certo: non serviva che il narcolettico svenisse di nuovo per sentirmi fuori posto.
«Vo-voi come lo sapete?» balbettai aggrottando la fronte.
Mi guardò, apatico e freddo come un pesce.
«Che sono le otto meno cinque o che siete medico?»
«Entrambe le cose, suppongo.»
«Per quanto riguarda la prima,» sospirò annoiato indicando con un rapido gesto del mento la finestra «le pale del mulino. Per la seconda, la tasca del vostro cappotto.»
«Le pale… La tasca…»
Questa volta il sospirò fu più pesante.
«D’inverno le pale del mulino s’illuminano sempre verso le sei e mezza e questa sera, tornato dalla mia consueta passeggiata, le lampadine si sono accese nel momento esatto in cui ho varcato la porta di casa. Ora di salire le scale, farmi un bagno, vestirmi e fumare una sigaretta è passata poco meno di un’ora, dunque sono pressappoco le sette e venti. La vecchia ha sbraitato in seguito all’ennesima volta che quel maledetto orologio a cucù invece di suonare cade rovinosamente dalla tromba delle scale e Toulouse cerca di prenderlo al volo, fallendo miseramente. Dunque boato, vecchia che strilla, Toulouse che impreca: sono le sette e mezza spaccate.»
«Non succede ogni sera» cercò di rassicurarmi il piccolo pittore battendomi una manina sul braccio.
«Solo quelle che prevedono l’arrivo di un nuovo inquilino, quando cioè si cerca di rendere leggermente più decoroso e funzionale questo posto. Per concludere, la storia della mia vita raccontata dai signori qui presenti impiega sempre una ventina di minuti per essere inventata, eccezion fatta per alcune variabili come le dovute formalità. La nostra presentazione, dottore, quattro minuti circa. Sì, li ho contati e, vi prego, non travisate le mie buone intenzioni ma ho sempre avuto in odio i convenevoli. Sette e cinquantaquattro.»
Quell’irrefrenabile flusso di parole si spense come un sigaro lasciato ad annegare in un bicchiere e, tempo di riprendere fiato, Victor Trevor aveva cominciato a fissarmi da dietro il vetro del suo, sorseggiando come se niente fosse il suo drink.
«Chiudi la bocca, John» disse Erik. «Non vorrai per caso apparire come una puttana bell’e pronta a-»
«Per quanto riguarda la seconda faccenda, quella riguardante la sua qualifica,» riprese subitamente Victor «la padrona di casa mi ha comunicato che il nuovo inquilino, medico londinese, era arrivato. Non è stato difficile.»
«E il mio cappotto che ruolo avrebbe in tutto ciò?»
«In stazione oggi pomeriggio, quando avete preso i guanti dalla tasca, vi è caduta questa» disse e si alzò, traendo qualcosa fuori dal taschino del gilet e allungandomela: era una delle foglie d’alloro della mia corona che tenevo come ricordo dal giorno della laurea.
«Ecco dove vi avevo già visto» risposi in un sorriso, questa volta ricambiato, stringendo la foglia tra le dita. «Grazie nuovamente.»
«Non è ancora secca», continuò «dunque dovete esservi laureato da poco.»
Detto questo, incrociò le mani dietro la schiena e stette a guardarmi dall’altro in basso, quasi s’aspettasse qualcosa di più, qualcosa di meglio di un semplice ringraziamento.
«Come fate?» chiesi dunque.
«Prego?»
«Come… riuscite a leggere le persone come fossero libri aperti?»
Mi guardò, io guardai lui, e giurai che, in quel frammento di tempo in cui i nostri sguardi s’incontrarono, in fondo a quegli occhi così profondi e malinconici, potei scorgere l’ombra di un pensiero scomodo.
«Le persone sono libri aperti, John – posso chiamarvi John, vero? – alcune ancora da scrivere, altre buone solo da leggiucchiare in una notte, quando si vuole trovare un’alternativa al sonno, altre ancora da dimenticare nello scaffale più alto della più remota biblioteca. Ma alcune… Alcune meritano davvero di essere sfogliate, pagina dopo pagina. E la cosa più frustrante di tutte sapete qual è? È la consapevolezza che per quanto le si abbia studiate, riga dopo riga, nota dopo nota, si arriva alla fine chiedendosi se quella sia davvero la fine, sospesi nella speranza che ci si trovi solamente alla conclusione dell’ennesimo capitolo al quale seguiranno tanti altri pronti a spiegare ciò che non abbiamo compreso. Spesso invece finisce e basta, senza tante spiegazioni né note, e ti ritrovi tra le mani niente più che un ammasso di carta stampata che ti ha detto tutto come niente lasciandoti con più domande che risposte, e gli occhi che bruciano.»
Quel pensiero, galleggiante nelle enormi pupille, doveva starci davvero scomodo là dentro, perché ne uscì un po’ da un angolo di un occhio, ma allora non ci feci più di tanto caso.
Ora che ci ripenso, non credo di aver mai visto un uomo più fragile di quello che mi stava dinnanzi quella sera, apparentemente tutto d’un pezzo ma con così tante crepe che mi viene ancora da maledire colui il quale un giorno lo ruppe definitivamente. Se ne fossi capace, almeno, di odiare costui più di quanto non odi me stesso per essermi lasciato rompere anch’io.

L’odore intenso della colonia francese di Mike si avvertì fino al piano di sopra quando il cucù – mi chiedo ancora come – riuscì a gracchiare le otto spaccate dal suo mucchietto di legno e molle prima di spegnersi definitivamente in un cigolio di ingranaggi arrugginiti.
Io portavo addosso ancora i vestiti della mattina, impregnati dall’olezzo del treno mescolatosi ora di sera con l’aroma intenso del tabacco, dell’assenzio e della naftalina.
«Giusto Cielo» esclamò il mio amico lisciandosi il risvolto in velours della giacca «non ti avevo detto di farti bello?»
«Ma io sono già bello!» risposi – lo ammetto, già leggermente alticcio – facendo una piroetta sul posto.
Mi venne il singhiozzo e non fui in grado di rispondere al fiume di domande che mi riversò addosso, tutte più o meno inerenti agli inquilini, alla loro integrità mentale e, soprattutto, alla mia.
«Sto bene, Mike. Davvero» tagliai corto, ma il sorriso sornione che dovevo aver stampato in faccia in quel momento non sembrò convincerlo del tutto. Tuttavia, riuscii a persuaderlo a salire e venire a conoscere i miei nuovi compagni.
Restò particolarmente colpito da Victor il quale, ovviamente, ricambiò appena il saluto e lo sguardo.
«E i signori che programmi hanno per stasera?» chiese Mike, di natura essenzialmente affabile.
«Personalmente» si fece avanti Toulouse «pensavo di restare in casa a rimuginare su quanto miserabile sia la mia vita, magari in compagnia di un paio di amabili lorettes(1) e qualche bottiglia di vino. Tuttavia, non vedendo all’orizzonte né le une ne le altre, immagino che sarebbe carino se andassimo tutti a farci un bel sonnellino.»
«Un sonnellino? Ma la notte è giovane!» protestò il ballerino, ed accennò qualche passo di tango.
«Io non più» ribatté il nano con un grugnito.
«C’è un concerto al Moulin Rouge.»
Ci voltammo tutti verso l’angolo più buio della stanza, silenziosi e tesi come statue: Victor tirò un ultima boccata dalla sigaretta prima di spegnerla sul fondo del suo bicchiere e poggiarlo sul tavolino. Lo circondò una nuvola di fumo densa e acre, avvolgendolo in un’aura infernale dalla quale emergeva solo uno sguardo mesto e semitrasparente di un’anima in pena che si rifletteva costantemente sui vetri opachi di quell’unica finestra sulla strada.
Non compresi inizialmente la gravità che opprimeva l’atmosfera come l’afa di un umido e tedioso pomeriggio d’estate, e non potei fare altro se non alternare lo sguardo tra tutti i presenti.
«Non si dicono le bugie, Vic» mormorò a un certo punto Toulouse.
Il trucco gli si era leggermente sbavato intorno agli occhi ed ora sembrava che indossasse un’inquietante maschera teatrale, pallido e immobile come un cadavere.
«Pardon?» chiese il russo, brusco.
«Non doveva essere domani?» sussurrò il pianista con la voce tremula.
«Io avevo capito mercoledì» aggiunse Pablo.
Victor s’adombrò.
«È stasera, vi dico» tagliò corto e s’accese un’altra sigaretta, aspirando profondamente. Poi spostò gli occhi su di me, addolcendosi. «Vi piace Mendelssohn, dottore?»
Mi sentii gelare il sangue nelle vene: mio padre era un grande stimatore della musica classica, soprattutto italiana, ma io non avevo mai sviluppato l’orecchio per certe cose. Le reputavo troppo impegnative, troppo intime, troppo… Semplicemente troppo, per me.
Mi trovai così costretto a mentire.
«Molto.»
E lui mi sorrise, mesto.
«Neanche a me» sospirò. «Tuttavia, ritengo valga la pena fare un’eccezione stasera. Solo per stasera.»
Sobbalzammo tutti quanti quando Erik premette con forza sul DO del suo pianoforte, gemendo. Era più che altro un piagnucolio, il suo, che durò tanto quanto la nota accompagnandola fino alla sua fine come un lamento funebre.
«Non va bene, Vic, non va bene» mugolò l’omuncolo, lo sguardo smarrito sulla tastiera. «Sei andato alla stazione, non è così?»
«Faresti meglio a frenare la lingua, musicante.»
«Sei andato alla stazione e hai riportato a Parigi la sua musica.»
Il ragazzo rise basso, ma non c’era alcuna allegria in lui. In effetti, sembrava che la felicità stessa l’avesse per un attimo sfiorato prima di mollargli uno schiaffo e passare oltre, lasciandolo carponi al suolo col cuore spezzato.
«Sei ubriaco.»
«E tu sei un folle. Folle d’amore per uno spartito che detesti, e stai continuando a farti del male.»
Victor tirò forte dalla sigaretta chiudendo gli occhi, ed esalò la sua risposta insieme all’ennesima nuvola cinerina che si disperse nell’aria insieme a tutte quelle domande che avrei voluto porgli e che non ebbi mai il coraggio di fargli.
«Non si può mai pagare troppo cara una qualsiasi sensazione(2). E questa sera mi ispira Mendelssohn.»
Il pianista abbassò la copertura della tastiera e la sua espressione smunta si sciolse in un pallido sorriso addolorato.
«Ti ispira sempre, Mendelssohn» concluse.
«Curioso!» trillò Mike. «Quel tipo di musica non si addice propriamente al luogo, non so se mi spiego…»
Victor fulminò il mio amico con lo sguardo e mi tremarono i polsi per lui; ma, alla fin fine, Mike dovette capire l’antifona perché il suo atteggiamento verso quel particolare programma serale cambiò radicalmente.
«A pensarci bene» continuò schiarendosi la voce «potrebbe rivelarsi interessante. Non trovi, John?»
Mi stropicciai le dita, intrecciate dietro la schiena, e mi umettai le labbra – vizio che si presenta ogni qualvolta che mi trovo in una situazione come quella di allora – oppresso dall’imbarazzo e dalla perplessità. Ma, dopotutto, perché non avrebbe dovuto fare per me, questo Mendelssohn?
«Perché no?»
Perché no.

Il tempo di capire dove fosse la mia stanza, di sistemare le mie cose e di rendermi quanto meno presentabile – anche se avevo quasi da subito cominciato ad intuire che non sarebbe stato proprio un locale d’alta classe quello in cui avremmo passato la serata – ci ritrovammo tutti quanti in piazza Pigalle, una allegra e giovane comitiva che non passò di certo inosservata.
A Victor bastò qualche parola scambiata coi sorveglianti affinché, in un batter d’occhio, ci ritrovassimo tutti nell’anticamera di un mondo che fuori da Parigi non credo si possa trovare. O forse mi trovavo semplicemente catapultato in un sogno, lo stesso che accompagnò Dante nel suo cammino verso la perdizione nel mezzo del cammino della sua vita. Solo che la mia, al contrario, non era che all’inizio, proprio sul ciglio di quel mio personale Inferno oltre il quale, a differenza del poeta, non avrei trovato né un Virgilio che mi ci guidasse, né un Purgatorio, né tantomeno un Paradiso dove riposare. Solo anime condannate alle quali si sarebbe aggiunta la mia, fine della storia.
Lasciai ogni speranza quando entrai sorpassando il manifesto ancora caldo di stampa e la colla lucida che vi colava dai bordi. Vi era rappresentata la stella che avrebbe illuminato per una notte la nostra sera: una ballerina, giovanissima e dai folti capelli rossi, sorridente e circondata da lugubri sagome scure con le fauci spalancate e gli artigli protesi verso i vaporosi pizzi della sua gonna, nera anch’essa e sollevata a scoprire i bianchi polpacci sottili.
«Satine» mi suggerì Toulouse prendendomi a gomitate un fianco. «La più richiesta.»
Arrossii di colpo come un bambino colto con le dita nel barattolo di marmellata.
«Credo di non avere abbastanza denaro neanche per regalarle un mazzo di rose» mormorai imbarazzato.
La compagnia esplose in una sonora risata che finì per contagiare anche me: sapevo di essere completamente fuori posto ma l’assenzio mischiato alle fragranze che addolcivano l’atmosfera calda del locale sembravano infondermi uno strano coraggio.
Solo Victor, terribilmente serioso, si limitò a reagire con un pacato sorriso distratto. Gli dovevo ispirare un’immensa pena.
«Temo che a queste… signorine l’ultima cosa che interessi siano i fiori, amico mio» disse quest’ultimo scostando il pesante drappo vermiglio che ancora ci separava dall’interno di quello che, tolta la musica assordante, l’oceano di persone in frac e il turbinio di colori e profumi, si rivelò essere nient’altro che un teatro caduto in miseria.
Al centro dell’imperiosa sala da ballo troneggiava un palco con tanto di sipario di velluto rosso dove, saltellando e volteggiando, si esibiva qualche decina di ragazzine, decisamente poco vestite, per le centinaia di tronfi gentiluomini che applaudivano a ritmo di una musica sfrenata, chi seduto ai tavolini tutt’intorno, chi in piedi sotto le gonne delle ballerine.
Dovetti lasciarmi prendere sottobraccio per essere condotto incolume a un tavolo in fondo alla sala, leggermente più appartato rispetto agli altri e circondato per due lati da pareti rivestite di specchi.
L’atmosfera era ubriacante: essendo quasi impossibile capirsi a parole per il volume della musica, le urla delle ragazze e degli spettatori insieme ai battiti delle mani e dei tacchi sul legno del pavimento consunto, si comunicava a gesti e a labiale.
Toulouse, il più entusiasta di tutti, mi indicò il palco scandendomi il nome di tutte le ballerine e facendomi intendere di conoscerle approfonditamente tutte. Erik, ovviamente, lo contraddisse mimando il gesto di un pennello e di una donna in posa facendo così confessare al compare che la maggior parte delle dame erano state nient’altro che modelle per il talentuoso ma poco avvenente pittore.
Pablo si buttò subitamente nella mischia e, nonostante la mia preoccupazione per quel suo disturbo del sonno, mi rassicurò. E difatti non se ne ebbe più notizia per come minimo due ore almeno fin quando non venni a sapere che si era addormentato dietro le quinte, ma almeno in buona compagnia.
Victor, invece, si era semplicemente eclissato lasciandomi in compagnia di Mike, completamente a suo agio, e alla mercé dei due artisti, a loro volta in balia dell’alcol e dell’esuberanza di un paio di danzatrici che si erano staccate dal gruppo per prendersi cura di loro. Non passò molto tempo prima che se ne aggiungessero altre, chiamate probabilmente per tenere compagnia all’imbarazzato e imbarazzante pezzo di legno che era il sottoscritto, attaccato alla bottiglia per evitare di pensare troppo a quanta ragione avesse avuto mio padre.
La serata passò lenta, tremendamente lenta, e sono davvero poche le cose che di quegli allucinanti momenti ricordo. Una di queste, oltre al bacio appiccicaticcio che mi stampò sulle labbra una delle donnacce ingaggiate da Toulouse, fu quell’ovattato istante di silenzio che fece da preludio ad una delle melodie più sublimi che in tutta la mia vita avrei mai avuto il privilegio di ascoltare.
Fu solo allora, quando riaprii gli occhi risvegliandomi dall’intorpidimento, che mi resi conto che le ballerine, come fate di un incubo, erano svanite nell’ombra ma che, soprattutto, era tornato Victor. Si era seduto davanti a me, teneva il mento appoggiato su una mano chiusa e pugno, gli occhi chiusi e le orecchie tese, totalmente succubi delle note di una musica così diversa da quella suonata per tutto il tempo da farmi pensare che fosse nient’altro che il frutto della mia immaginazione. Ruvida ed insieme appassionata, dolce ed allo stesso tempo aspra come un agrume maturo, ne venni rapito anch’io, all’istante.
Un paio di mani, bianche ed eleganti come ali di cigno, volavano leggere ma precise sulle corde di un malinconico violino dal quale scaturivano note che non avevo mai udito prima. In realtà, se ci avessi pensato bene, quella sinfonia non mi sarebbe suonata affatto nuova. Tante volte l’avevo sentita, da altri strumenti, da altre mani, ma non da quello strumento, non da quelle mani… Ma pensare al momento non rientrava esattamente tra le mie priorità. Mi sentivo schiavo di quella melodia in ogni mia cellula, in ogni mio respiro pesante e al tempo stesso leggero bloccato in gola.
Incapace di avere altre attenzioni se non per gli aggraziati movimenti di quelle braccia e di quelle dita affusolate che sembravano anticipare le note e danzarci assieme prima di liberarle affidandole all’aria, ad altri cuori oltre a quello del violinista, mi commossi. Sì, mi ritrovai a lacrimare come una sciocca ragazzina alla sua prima delusione d’amore, frustrato dal fatto che quella musica che desideravo imprigionare da qualche parte dentro di me mi stesse sfuggendo. Nota dopo nota correva via, via da me, fino a che a un certo punto si dissolse, lasciando spazio a nient’altro che silenzio e buio.
Non ebbi neanche la forza di unirmi al fragoroso applauso che seguì l’esibizione, e non ero solo in quel mio corroborante stato di paralisi.
Victor riaprì gli occhi e seppi che aveva pianto con me, nel profondo, perché erano lucidi e gonfi, adoranti nel loro essere in quel momento distanti da tutto e tutti, leali servi di un altro paio di occhi che stavano ricambiando empatici tutto quel sentimento e dinnanzi al quale mi sentivo annichilito.
Quanto può amare un uomo? Quanto dolore è disposto a sopportare? A quanta meraviglia è capace di sopravvivere senza impazzire?
Sopraffatto da mille domande e ancor più sensazioni, osservai la longilinea figura del musicista scendere dal palco, farsi strada tra folla giubilante e raggiungere il nostro tavolo. Visto da vicino appariva ancora più giovane di quanto la maestria della sua performance avesse suggerito: incuteva quasi un timore referenziale così composto e dritto in quel suo completo nero, in perfetta sintonia coi capelli corvini e la sua aria tenebrosa e saccente.
La luce sempre più soffusa dell’ambiente mi permise di apprezzare solo in parte i tratti di un viso tagliente ma aggraziato, tipico della gente giovane ma che ha già così tanto da raccontare quanto, probabilmente, da nascondere.
Le labbra – non trovo aggettivi adatti per descriverle oltre che alla forza per ricordarle – si schiusero appena per sussurrare qualcosa e distendersi poi in uno dei sorrisi più particolari che la vita mi concesse mai la fortuna di contemplare. Gli si formavano sempre delle curiose fossette agli angoli della bocca quando sorrideva così, quando sapeva di essere guardato e la superbia sbocciava in lasciva timidezza, colorandogli le guance.
Ugualmente, il collo gli si screziava leggermente più in alto del pomo d’Adamo, e forse per questo motivo abbassava sempre il capo nel tentativo di nascondere quella reazione involontaria del proprio corpo agli sguardi che – non so quanto involontariamente – attirava a sé come il fiore più profumato del giardino con le api.
E gli occhi, infine. Non mi è possibile rendere a parole cosa non fossero quegli occhi perché, credetemi, vi ci trovai dentro di tutto quando, per un istante di accecante cobalto, mi degnarono di una loro rude carezza. La luce ambrata del maestoso lampadario soprastante sembrò confluire tutta in essi ottenebrando l’azzurro che cangiò in un verde per il quale – ne eravamo certi entrambi – Toulouse avrebbe dato una mano.
Effettivamente, sarebbe stato bello potergli rubare anche quella parte di sé, riprodurla su una tela da conservare e da far ammirare al mondo, perché bastò un battito di quelle lunghe ciglia affinché la tonalità mutasse in una ancora più affascinante, instancabile sfumatura.
Il ragazzo posò il violino sul tavolo e prese posto accanto a Victor, il quale schioccò le dita e fece portare un’altra bottiglia di vino. Champagne, questa volta.
«Si festeggia qualcosa?» mi affrettai a chiedere, leggermente a disagio di fronte a quei fiumi d’alcol che qualcuno avrebbe pur dovuto pagare.
«Qualcuno, direi. N’est-ce pas(3), cheri?» biascicò Victor, in un avanzato stato di ubriachezza, accarezzando con la punta del pollice un angolo delle labbra del giovane.
Occultando un bellissimo sorriso sghembo, quest’ultimo rispose scuotendo il capo e dovette aiutare Victor nel maneggiare la bottiglia perché ne stava versando metà sulla tovaglia.
Sollevammo i calici e brindammo alla salute di un certo Shinòk, termine russo che più tardi Toulouse mi concesse la grazia di tradurmi facendomi interrogare sul perché una persona dovrebbe chiamarsi “cucciolo”.
L’interessato non protestò; si limitò solo ad alzare gli occhi al cielo e a sospirare, assaggiando il vino imperturbabile anche quando Victor gli posò un braccio sulle spalle attirandolo a sé.
«Per essere precisi, si intende “cucciolo di cane”. O di lupo» singhiozzò, il viso livido a pochi centimetri dal sorriso abbozzato dell’altro. «Suona così tanto come il tuo nome» continuò, e si fece ancora più vicino. «Mais tu parais un loup, plutôt. Un loup très, très méchant.(4)»
Sprofondai nell’angoscia più profonda quando i due uomini avvicinarono le rispettive labbra e le unirono cominciando ad assaporarsi, lentamente e a fondo, in un gesto che ai miei occhi risultò ancora più osceno di un effettivo atto sessuale.
Il Lettore, ancor prima di perdonami, dovrà sforzarsi di tenere a mente da dove quell’ipocrita ragazzino che ero proveniva, di immaginare i guai in cui sarebbe incorso e, se resta spazio, anche di provare un po’ di sana compassione. Perché io compatisco me stesso, adesso che un ragazzino ignorante e fragile non lo sono più, per quella strana e incandescente forza magnetica che mi aveva impedito di alzarmi e andare via, o anche solo di guardare altrove.
Se inizialmente pensavo che fosse Victor a condurre la danza, quel gioco di lingue che si rincorrevano e di sguardi colati l’uno nell’altro, più avanti venni smentito dai voluttuosi movimenti del misterioso violinista: si ritraeva, apparentemente timido, per poi riprendersi con voracità tutto lo spazio concesso all’avversario, mettendo così a tacere qualsiasi possibile desiderio di prevaricazione.
Mi bagnai la bocca, maledettamente secca, versandomi un altro bicchiere, ma non feci che peggiorare le cose. Ricordo con inconsueta lucidità la leggiadra pesantezza provocatami dalla mia prima ubriacatura: la testa ed ogni singolo nervo indolenziti, il senso di nausea e un costante sibilo nelle orecchie, le sagome dei miei compagni di sventure come ombre in agguato nella coda dell’occhio. Mike si era addormentato col mento affondato nel petto, Erik parlottava da solo sbavando con la testa sulle gambe di Toulouse il quale intanto si era fatto portare un narghilè e ci si era attaccato come un neonato al capezzolo della madre…
Ero rimasto solo, solo coi miei pensieri e una musica sempre più lontana di sottofondo ad accompagnarmi nell’incoscienza mentre, da dietro due palpebre sempre più pesanti, seguivo i movimenti della coppia dinnanzi a me. Quelli di Victor e di una sua mano sotto il tavolo, lenti e sincopati, mentre sussurrava qualcosa all’orecchio del ragazzo; e questi, con gli occhi chiusi e il labbro inferiore tra i denti, che ascoltava e rispondeva col corpo a quelle attenzioni.
Scivolai rapidamente nel sonno, negli occhi l’immagine offuscata di quella testa mora che scompariva sotto la tovaglia, del rozzo sorriso di Victor – così diverso – e delle sue dita, affondate in quei capelli corvini, che l’accompagnavano nel baratro.

Mi risvegliai pregando Dio, per la prima volta in vita mia con sviscerata sincerità, supplicandolo tra un gemito e l’altro che fosse stato niente più che uno spaventoso incubo, frutto di una serata al pub più movimentata del solito.
Così, sicuro che non appena avessi riaperto gli occhi mi sarei ritrovato nel mio letto borghese, nella mia stanza borghese, nella mia stramaledetta casa e città borghesi, non feci più di tanto caso alla figura che, inginocchiata accanto a me ed avvolta solamente da un lenzuolo di cotone, mi fissava curiosa.
In quel tiepido momento di transizione tra il sonno e la veglia, con un occhio mezzo aperto e un delizioso profumo di dolci nelle narici, fui tentato di girarmi dall’altra parte al fine di scacciare dalla mia vista, a quanto pare ancora annebbiata, quella piacevole allucinazione.
«Bonjour
Ad un tratto, una familiare sensazione si riappropriò del mio libero arbitrio impedendomi di fare alcunché se non stare fermo ed aprire bene gli occhi: a nulla servì strofinarli, sbattere le palpebre più e più volte, e neanche prendermi a pizzicotti perché quell’angelo venuto dal cielo solo per darmi il buongiorno non sembrava avere alcuna intenzione di abbandonare quella nostra personale nuvola terrestre.
Fu così che, in quel preciso istante, non trovai altra soluzione se non quella di mettermi a gridare.
Da un’altra stanza, probabilmente la cucina, provenne il metallico rumore di pentolame rovesciato e di piatti rotti che, aggiunto alle grida mie e di altre persone, sfociò in un tale baccano che sarebbe stato perfino capace di svegliare Pablo da una delle sue crisi.
Terrorizzato, mi tirai le coperte fin sotto il naso e piegai le ginocchia al petto chiudendomi a riccio per proteggermi da eventuali aggressioni.
A differenza della persona accucciata accanto a me, che non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, Toulouse in grembiule e guanti da forno si precipitò in camera da letto armato di mestolo, la faccia sporca di cioccolata e i capelli infarinati. Un vassoio di biscotti era rovesciato ai suoi piedi.
«Qu’est-ce qui se passe?!(5)» ansimò sconvolto alternando lo sguardo tra il sottoscritto e il ragazzo vicino a me.
«J’ai rien fait(6)» rispose pacatamente questi senza scollarmi gli occhi celesti di dosso.
«Sherlock!»
Con le bretelle lungo i fianchi e la camicia sbottonata, Victor ci raggiunse boccheggiando e, non appena ebbe appurato che fosse tutto nella norma, sbuffò spazientito.
«Toulouse, prepara la colazione. John, niente panico. Sherlock, vestiti» esclamò, il viso cereo e gli occhi gonfi, per poi aiutare il pittore a riprendersi e a ripulire.
«Si può sapere che diavolo succede?!» riuscii a trovare il coraggio di chiedere cercando, per quanto mi fosse possibile, di ignorare la candida civetta che mi osservava ad occhi sbarrati a pochi centimetri dalla mia faccia.
«E si può sapere per quale motivo avete urlato?» ribatté Victor frustandomi con lo sguardo.
Presi un bel respiro e, controllato che avessi qualcosa addosso, mi misi seduto scoprendomi il viso.
«Chiedo scusa. Posso sapere almeno dove mi trovo e perché questo… gentiluomo è nudo nel mio letto?»
«Potrei chiedervi quasi la stessa cosa» disse in un mezzo sorriso il sopracitato soggetto, inclinando leggermente il capo.
Lo guardai e la prima cosa che mi venne in mente dopo “i tuoi occhi mi tolgono il fiato” fu che stavo cominciando ad averne abbastanza dei casi umani.
«Come dite?»
«Perché questo… gentiluomo» mi fece il verso, assottigliando lo sguardo «è vestito, nel mio letto.»
E il terzo pensiero che a quel punto mi venne in mente fu “Leonardo avrebbe dato non una, ma entrambe le mani per questo sorriso”. Non glielo dissi mai.
Mi guardai semplicemente intorno e, effettivamente, quella non era affatto la mia camera da letto.
«Ieri sera… insomma, eravate un po’ uno straccio» spiegò Victor non trovando altre parole per delineare la situazione. «Così, non sapendo dove tenevate la chiave della vostra stanza, vi abbiamo dovuto portare di peso a casa e ho pensato di mettervi a dormire sul nostro divano…»
«Almeno finché non avete rigettato un paio di colazioni e pranzi tutti assieme sui cuscini e a quel punto vi abbiamo dovuto spostare qui» aggiunse Sherlock tutto d’un fiato.
Mi salì un martellante mal di testa insieme a una buona quantità di sangue che sentii irrorarmi le guance per l’imbarazzo di essermi reso ridicolo già dal primo giorno nella nuova casa.
Mi passai una mano tra i capelli e cercai di riguadagnare un po’ di contegno.
«Dio, sono… terribilmente dispiaciuto. Dove avete dormito voi, dunque?»
Il ragazzo moro corrugò la fronte.
«Dormito?»
«Tolouse ci ha ospitati!» si affrettò a rispondere Victor, incurante della faccia perplessa dell’artista. Era davvero un pessimo attore.
«Sì! Toulouse l’ha fatto!» rispose quest’ultimo guadagnandosi un’occhiata divertita da parte di Sherlock.
«Oh, mio Dio» sospirai prendendomi la testa tra le mani. «Oh. Mio. Dio. Non so davvero cosa dire. Non ho mai bevuto così tanto e… È tutto molto sfocato, io… Come posso farmi perdonare per il disturbo?»
«Nessun disturbo, davvero» concluse il russo in un sorriso tirato. «Anzi, se volete farci compagnia per la colazione sarebbe davvero un buon modo per ripartire col piede giusto.»
Sherlock trattenne a stento una risata e si voltò verso Victor, col quale scambiò un’eloquente occhiata.
«Da quando sei così premuroso?» disse quindi.
«Sherlock, s’il te plaît, non di prima mattina.»
«Ho fatto le brioches!» esclamò il pittore di punto in bianco.
«Al cioccolato, magari» borbottò Sherlock alzandosi dal letto e avvolgendosi alla bell’e meglio nel lenzuolo.
«Oui.»
«Allora non le voglio.»
«Hai detto la stessa cosa la settimana scorsa con quelle alla crema» disse Toulouse, offeso.
«E infatti hai quasi ucciso l’argentino.»
«Pablo è narcolittico!»
«Narcolettico» dissi tra me e me.
«Ora basta!» intervenne Victor, l’esasperazione in persona. «John, le volete o no le brioches?»
«Sì, grazie.»
E, detto questo, io seduto sul letto, Toulouse a gambe incrociate per terra, Victor sull’unica sedia presente in tutto l’appartamento e Sherlock infagottato a fare l’eco alla caffettiera sul divano sfoderato consumammo la nostra colazione in silenzio, almeno fino a un certo punto.
«Gli altri?» domandai gustando la brioche più buona di sempre.
«Il vostro amico è andato via un paio di ore fa – è rimasto a vegliarvi per quasi tutta la notte –  mentre Erik e Pablo sono rimasti al Moulin Rouge. Affari.»
«Affari?»
«La commedia» intervenne Toulouse. «Avremmo dovuto metterla in scena la settimana prossima, ma dopo il forfait di Audrey…»
«Che cosa vuoi dire con “dopo il forfait di Audrey”?» esclamò ad un tratto Sherlock dal divano.
«Che non se ne fa più nulla, ecco cosa» rispose seccato il pittore.
«Voi artisti…» ringhiò il ragazzo alzandosi e tornando nella stanza pestando i piedi. «Un branco di incompetenti buoni a nulla, ecco cosa siete!»
Toulouse smise di masticare e lo sguardo che rivolse a Sherlock mi fece correre un brivido gelato lungo la schiena.
«Cheri…» lo avvertì Victor.
«Ci serviva quella commedia, dannazione!» irruppe alzando un braccio da sotto il lenzuolo. «Siamo indietro con l’affitto di tre settimane, ci sfamiamo di… brioches e alcol e tutto quello che riescono a fare è mandare all’aria mesi di lavoro! Cos’è, Toulouse, il prossimo fallimento sarà scoprire che neanche a scarabocchiare banali sgualdrine sei più capace?»
In un attimo il pittore fu in piedi e, se non fosse stato per il limite delle gambe, avrebbe sicuramente raggiunto Sherlock. Si stava già protendendo verso di lui, i denti scoperti per la rabbia.
«Potrei cominciare a dipingere te, allora. Pagherebbero meglio» grugnì, ma Victor lo agguantò per un braccio prima che potesse accadere il peggio.
«Toulouse» disse, fermo. «Il bambino non ha dormito abbastanza, stanotte. E i bambini che non dormono abbastanza, si sa, sono irascibili.»
A nulla servì l’occhiata decisamente eloquente dell’uomo al più giovane, il quale rispose con una smorfia di sufficienza, provocatoria e arrogante, voltandogli le spalle.
«Qualcuno deve pur mandarla avanti, la baracca.»
 «Hardie conasse(7)» sputò Toulouse divincolandosi dalla presa di Victor, il quale lo rispedì in cucina con un pugno sul braccio.
«Non tutte le colazioni qui sono così» mi sorrise malinconico, e si accese una sigaretta scuotendo il capo. «Sherlock è più intrattabile del solito ultimamente ma, come avrete potuto constatare dall’accento, siete compatrioti. Sono certo che saprete tenerlo a bada.»
Mi parve invecchiato di una decina d’anni dalla sera precedente.
Non seppi che dire. Non conoscevo nemmeno la ragione di quel diverbio, di tutta quella tensione e del bruciante rancore sprigionato da quegli occhi di giada, tanto incantevoli quanto temibili. Volevo solo tornarmene a casa e dimenticarmi di tutta quella faccenda, di tutte quelle facce arrabbiate e della miseria che ci avvolgeva tutti come un sudario; ma casa era lontana, o quantomeno alla porta accanto, e di quella mi sarei dovuto accontentare.
«Ne sono certo» mi uscì solamente. «Ho approfittato fin troppo a lungo della vostra disponibilità. Vi sono riconoscente per l’accoglienza… E ringraziate Toulouse per le brioches. Erano davvero deliziose.»
Detto questo, senza proferire altro, mi alzai, raccolsi i miei effetti personali sparsi un po’ ovunque, e mi diressi fuori da quel disordine umano con tutta l’intenzione di non metterci più piede.
Non feci a tempo a lasciare il salotto che dovetti già trasgredire quella promessa.
«Ve ne andate di già?» mormorò una voce da un angolo in penombra vicino alla porta, roca ma al contempo carezzevole come l’oceano dopo la tempesta. Ed essa, per me, avrebbe per sempre avuto anche il colore dell’oceano, la sua consistenza: cristallina, spumeggiante, violenta, infinitamente intima in cui, incantato,  mi sarei trovato più volte a naufragare.
Restai per qualche istante a guardarlo avanzare lento verso di me, una crisalide avvolta nella sua membrana di cotone che si trasforma in una creatura di sogno, gli occhi brillanti e la pelle liscia delle spalle appena scoperte. Quella visione mi teneva sotto ipnosi, come Ulisse con le sirene, legato col corpo alla maniglia e a quella voce con tutto il resto dell’anima, il cuore impazzito nel petto.
«Io…» balbettai, un ignorante popolano di fronte ad una scultura di insopportabile bellezza, e mi morsi l’interno delle guance per l’ambiguità di quei miei pensieri, per quanto stava cominciando a piacermi tutto ciò.
«Spero di non avervi fatto troppa paura» disse lui, la personificazione della calma mentre ricambiava lo sguardo fissandomi intensamente.
«No, io… Cioè, voi… Voglio dire…»
«Mi rincuorate» affermò venendomi incontro, sia verbalmente che fisicamente. «In realtà va sempre così, qui, dunque non sentitevi troppo speciale. A dire il vero, oggi è andata piuttosto bene. Toulouse non mi ha lanciato addosso nessun piatto.»
Mi portai le mani dietro la schiena, genuinamente interessato a prolungare quella conversazione così bizzarra.
«Perché, di solito succede? Che vi si lancino stoviglie addosso?» risi stando al gioco.
Lui mi sorrise di rimando, complice.
«Oh, sì. Ma c’è di peggio» mormorò, gli occhi di un particolare verde smeraldo tuffati nei miei.
Se non mi fossi ritrovato già troppo inebetito dalla magia che sprigionavano, probabilmente mi sarei sentito a disagio di fronte a tanta irriverenza. Non avevo mai sostenuto uno sguardo così a lungo, ed arrivai a chiedermi se tutto ciò fosse legale.
Il ragazzo, dopo un’ignota quantità di secondi – o minuti? – di silenzio, increspò le labbra nella smorfia imbarazzata di chi non sa più cosa dire ma desidera con tutto se stesso di non lasciar morire la conversazione in sciocchi convenevoli.
Mi ritrovai così a fargli da specchio, a mordicchiarmi il labbro e a guardarmi le punte dei piedi, le orecchie incandescenti e il respiro corto.
«Io…» azzardai, gli occhi bassi e la testa stupendamente leggera. «Io non vi ho ancora fatto i complimenti per l’esibizione di ieri sera.»
Lo sentii ridere a bassa voce e la mia natura di schiavo mi portò, in un gesto involontario come il battere di un cuore, a riallacciare lo sguardo a quello del mio padrone. E quello che trovai quando rialzai il capo mi tolse per un istante il respiro: gli occhi tenuti bassi, nascosti da un ventaglio di lunghe ciglia nere, le labbra non più contratte ma gonfie di soddisfazione, e le guance, imporporate di virginale imbarazzo, mi spinsero di nuovo molto vicino alla commozione.
«Siete imperdonabile, monsieur» esalò sorridendomi con gli occhi, e non potei fare altro se non ricambiare.
Al momento, tutte le parole sembravano essere defluite da me, sostituite da un’appagante sensazione di calore al centro del petto. Così, fu lui che questa volta fece la prima mossa.
«Vi piace Parigi?» domandò stringendosi nel lenzuolo.
Sì, era la cosa più bella, sensuale ed eccitante che avessi mai visto. L’adoravo, Parigi.
«A dire il vero,» trovai la forza di dire «essendo arrivato solo ieri pomeriggio non ho ancora avuto occasione di vederla adeguatamente.»
«Oh, allora dovete assolutamente rimediare» bisbigliò facendosi ancora più vicino, come se mi stesse confessando un segreto. «Victor mi ha detto che siete medico.»
«Sì. Cioè…»
«Uno bravo. Molto bravo.»
Ora, io non so cosa quel russo gli avesse riferito sul mio conto, esattamente. Non avevo mai lavorato per nessuno, non potevo vantare alcun tipo di esperienza, figuriamoci un prestigio professionale. Ero un semplice dottorino con ancora qualche brufolo in faccia ma già tanta, tanta passione per ciò che avevo studiato e altrettanta voglia di mettere subito tutto in pratica.
«A quanto pare» dissi gonfiando il petto.
«Non così bravo quanto nel raccontare le bugie, temo.»
Lo sguardo che mi rivolse mi scoccò un brivido che mi attraversò tutta la schiena: avrei goduto di quella sensazione unica più di una volta dopo quel giorno. Mi sgonfiai di tutta la superbia ispiratami da quel breve momento di gloria in un batter d’occhio e mi sentii avvampare in volto.
«Co-come?»
«Andiamo, anche un bambino lo noterebbe!» esclamò.
«Noterebbe cosa?»
«Oh, Cielo. Eccone un altro…» sospirò lui alzando gli occhi al soffitto, melodrammatico. «Sapete, è grazie a gente come voi che ogni giorno cervelli superiori con problemi di autostima sono persuasi a non farsi semplicemente schizzare su una parete. Siete maledettamente confortanti.»
Se mi sentivo già decisamente spaesato, ora cominciavo persino a dubitare del mio quoziente intellettivo.
«Io e il mio cervello inferiore porgiamo le nostre più sentite scuse, ma continuiamo a non capire.»
A quel punto, preso un profondo respiro, Sherlock affilò lo sguardo e diede inizio al suo sproloquio in un tono piatto, senza quasi mai riprendere fiato.
«Nonostante il rapporto tra me e il signor Trevor si protragga da molto più tempo di quanto quest’ultimo vorrebbe, si ostina a sottovalutare le mie capacità deduttive, traendone tuttavia il massimo vantaggio per se stesso ogni qualvolta sente il bisogno fisiologico di darsi delle arie. È evidente che non potete essere un medico affermato: a parte la giovane età, la vostra reputazione non si è spinta oltre i confini di Londra, azzarderei nemmeno oltre i confini della London University dove avete conseguito la laurea qualche mese fa. Il vostro ex compagno di studi Milford porta ancora lo stemma sulla sua borsa.»
«Mike.»
«Lui. L’accento, ovviamente, dice molto delle vostre origini anche se ammetto di aver incontrato qualche difficoltà all’inizio a classificarvi geograficamente. Tradite una lieve inflessione settentrionale, ogni tanto. Uno dei vostri genitori è scozzese, probabilmente, ma c’è di più. Per esserne stato così influenzato dovete aver di certo passato qualche estate in quei luoghi, magari da parenti. Dunque, siete di famiglia facoltosa, abbastanza da potersi permettere lunghe vacanze fuori Londra e un figlio all’università. L’unico dettaglio a mia disposizione per confermare la vostra città di provenienza me l’hanno fornito i vostri pantaloni. Taglio particolare, inconfondibile – di Cooney e f.lli ad Hampstead, azzarderei – ma rammendati in più punti. Ultimamente le disponibilità si sono ridotte per la vostra famiglia, ma come mai? Vostro padre apparterà sicuramente a quella intoccabile casta di banchieri che infestano la City mentre vostra madre si occupa di una casa troppo grande e della salvaguardia di una reputazione sempre troppo precaria. Ma voi vi siete laureato col massimo dei voti, siete intraprendente, avete sacrificato molto per mettere da parte abbastanza denaro per venire fin qui… Quale macchia potrebbe mai guastare la facciata immacolata della vostra famiglia? Un parente scomodo, un altro figlio meno virtuoso, forse alcolista. Ieri sera sembravate preoccupato quando è arrivato da bere. Conoscete benissimo il valore del vino ma lo sopportate a malapena, tanto da ubriacarvi con pochi bicchieri. Ma vivendo a Londra non credo alla storiella dello studente modello aspirante bohemien astemio. Avete provato l’assenzio prima di uscire, non è così? Avete scaricato la frustrazione del trovarvi da solo nella grande città in qualcosa che vi è sempre stato vicino ma che non avete mai osato provare perché avete avuto davanti agli occhi le conseguenze del troppo bere per tutta la vita. Vostro fratello, non può essere diversamente.»
Basandosi su poche ore di conoscenza reciproca, in una manciata di secondi era riuscito a dedurre non solo la città dove abitavo e le mie origini ma anche la dipendenza alcolica di Harriet, mia sorella, la quale ci aveva sommerso di debiti fino a quando mio padre non aveva preso la decisione di spedirla in un collegio nel sud dell’Inghilterra per farle respirare un po’ d’aria buona. Già Victor aveva dato prova di eccellenti doti d’osservazione il giorno prima, ma i suoi semplici sillogismi non erano nulla in confronto a quella rivelazione.
Fu come trovarsi di fronte ad un amico d’infanzia o a un fratello che ti conosce dalla culla e ti legge dentro in qualsiasi situazione, con la facilità di bere un bicchier d’acqua. Qualunque persona si sarebbe sentita offesa, invasa nei propri spazi personali dopo quell’uscita, ma ero troppo scosso per poter concepire altri sentimenti se non incredulità e una buona dose di meraviglia.
«Straordinario» dissi solo, in un filo di voce.
Il ragazzo tentennò per un attimo, squadrandomi con la fronte aggrottata.
«Pardon?»
«No, dico… Quello che avete appena fatto. È stato semplicemente… fantastico. Ora sì che mi fate paura.»
Arrossì violentemente alle mie parole, e per la spontaneità con cui le pronunciai. Avevo già avuto modo di osservare quanto fosse sensibile alla lode riguardo alla sua arte al pari di qualsiasi ragazza con la propria bellezza(8), e in quel momento seppi che non mi sarei mai stancato di contemplare quella sua particolare nudità.
Quando parve riacquistare un po’ di compostezza, si schiarì la gola e dovette sistemarsi un lembo del lenzuolo che gli era scivolato lungo un bicipite attirando la mia attenzione.
«Che programmi avete per oggi?» mi chiese dunque.
«Cercarmi un lavoro, tanto per cominciare.»
«Noioso. Vediamoci a Place de Clichy tra un’ora esatta.»
E, in una mezza piroetta, si voltò per poi trottare in una stanza nella quale non mi permisi di entrare più per lo sconcerto derivatomi da quell’invito che per comune educazione.
«Cosa c’è tra un’ora esatta?» domandai alzando la voce, inquieto.
«Molto più che un tedioso lavoro, dottore. Un’opportunità!» rispose lui.
Sessanta minuti dopo, mi feci trovare sotto la statua di Place de Clichy, le mani gelate dentro le tasche del cappotto e lo sguardo incollato, come un insetto a una lanterna, alla figura longilinea del mio nuovo compagno d’avventure.
Indossava un cappotto molto simile a quello di Victor quando lo vidi per la prima volta in stazione, color carbone, elegante e con un grande bavero che Sherlock teneva spesso sollevato nascondendoci il volto, reso così molto più duro e tenebroso di quanto già fosse di suo.
«Suggerisco di approfittare delle circostanze per presentarci come si conviene a due gentiluomini» principiò. «Immagino che questa mattina il risveglio non sia stato tra i migliori della vostra vita.»
«Se avessi voluto svegliarmi nella monotonia di sempre, Sherlock, non avrei attraversato un mare e tutte le gradazioni d’ira della faccia di mio padre per essere qui.»
La luce calda e frizzante di quel mio primo mattino nella capitale del francese si riflesse negli occhi di sole del ragazzo dinnanzi a me facendoli luccicare come due pietre preziose.
«Trovo semplicemente magnifico il fatto che si possano saltare le formalità e andare subito al punto, John. In effetti su di voi so già molte cose» disse dunque, brioso.
«Ho notato.»
«Non siate in imbarazzo per quella piccola bugia. Io ne dico sempre.»
«Vostra madre non sarebbe orgogliosa di voi se vi sentisse parlare così.»
Esitò per un istante, le labbra socchiuse, prima di continuare.
«Non sarebbe orgogliosa in ogni caso. E comunque è da una settimana e mezza che la padrona di casa ci parla di voi, delle vostre qualità e del vostro buon nome. Il vostro migliore amico se l’è lavorata piuttosto bene.»
«Mike? Oh, dovevo immaginarlo. Abbiamo studiato insieme, condiviso molti momenti felici, ma non è il mio migliore amico.»
«Ad ogni modo, le siete piaciuto da subito. È una donna rude, e anche un po’ matta, ma i suoi occhi stanchi sanno vedere la bellezza dove c’è, e in voi deve averne vista tanta.»
«Ma davvero?» sussurrai, indeciso su chi ringraziare per quel complimento.
Mi fece l’occhiolino, girò su se stesso e si incamminò verso una destinazione a me ancora sconosciuta, le mani affondate nelle tasche del cappotto e il passo svelto, elegante, felino. Sembrava uno di quegli eroi da romanzo d’avventura, carismatici e misteriosi, che sanno destare nel lettore un appagante desiderio di libertà. Fu così che, senza ulteriori indugi, mi resi conto che mi ero messo a seguirlo, il cuore gonfio d’aspettativa, e che stavo sorridendo come un scemo.









 
 
 
 

Note e traduzioni

1) In dialetto parigino del XIX secolo, le lorettes erano delle ragazze carine e mondane, di pessima reputazione.
2) Aforisma di Oscar Wilde.
3)
Non è così (traduzione)
4) Ma tu sembri più un lupo. Un lupo molto, molto cattivo (traduzione)
5) Cosa succede?! (traduzione)
6)
Non ho fatto niente (traduzione)
7) Puttana insolente (traduzione)
8) citazione da "Uno Studio in Rosso". Sir Arthur Conan Doyle non avrebbe potuto metterla giù meglio.

Il titolo del capitolo è preso dall'omonima raccolta di poesia di Paul Verlaine.



Author's Corner

*corre con un orologio da taschino in mano come il Bianconiglio*
SONO IN RITARDO, I KNOW. Ma ora che mi sono rifatta viva chissà dopo quanto tempo aggiornerò .___.
Questo capitolo mi ha impegnato molto tempo, sia per pensarlo (cosa che tipo facevo di notte con la musica nelle orecchie quando in realtà dovevo dormire, ma shh) che per buttarlo effettivamente giù. Quindi, spero che la faticaccia e l'attesa di chi mi segue *vi abbraccia tutti* siano valse a qualcosa.
Non ho potuto aspettare oltre per introdurre il personaggio di Sherlock e so che può apparire un pò... insolito, ma vi chiedo di fidarvi di me e dei miei soliti colpi di testa. Spero che andando avanti con la long vi risulterà sempre più interessante.
John è già cotto come una torta di mele e pinoli, ma viene da una cazzarola di famiglia perbenista della middle class londinese. Feel him.
Per quanto riguarda Victor, ohbbeh. Ci sto provando, davvero. Ma per me rimarrà sempre sospeso tra la dolcezza più pucciosa e la cattiveria più perversa. Perdonatelo. Perdonatemi. 
Ringrazio tutti coloro che hanno lasciato un proprio commento al primo capitolo, non mi aspettavo di leggere le recensioni di autori che per me  stanno tipo sull'Olimpo del fandom <3 Grazie davvero, siete la mia forza.

miss potter x

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Capitolo 4
*** IV. La grasse matinée ***






Era come un profumo, il suo. Non un profumo da donna, zuccherato o floreale, e nemmeno un profumo forte, fastidioso, artificiale. Non era un odore indistinto, facilmente confondibile con tanti altri che la città emana, ma una fragranza ben precisa che, tuttavia, non aveva a che fare solamente con l’olfatto.
Era anche un sapore, il suo. Quello del fumo, dell’alcol e del sale, che ti gratta la lingua per poi scivolarti giù in gola e scavarti nello stomaco; era un suono, quello liscio e scuro della sua voce marina che mi trovavo sempre a sentire ma non ad ascoltare davvero; era una carezza d’acciaio e uno sguardo di velluto insieme, che non sono mai stato capace a discernere.

Sherlock Holmes incarnava in sé tutti e cinque i sensi, e solitamente te li faceva esplodere addosso con un sorriso sornione stampato in quella faccia da ragazzino arrogante che sa di potersi permettere di soddisfare ogni capriccio, ogni sfizio, anche quello di vederti supplicare. Era una forza che ti raccoglieva da terra riportandoti al mondo per poi allontanandotene di nuovo e non restituendoti più, nemmeno a te stesso. Ed io mi stavo perdendo.

«Se non sono troppo indiscreto, posso chiedervi dove siamo diretti?» ansimai correndogli dietro.

Non rallentò il passo né tantomeno rispose. Semplicemente s’infilò in una via laterale che, più che una vera e propria strada, si presentava come una sottospecie di vicolo ammuffito pullulante di ratti, ubriachi e prostitute che già di mattina presto infestavano l’aria col puzzo dei loro umori e delle loro bestemmie.

Era la prima volta che mi confrontavo con quella porzione della città, di norma ben nascosta, che nei secoli si era adattata al buio e al silenzio anche in pieno giorno. E fu la prima volta che, dopo anni di cecità, mi resi conto di quanta miseria affligge questa nostra epoca che ci allarghiamo a chiamare “modernità”. Ce ne vantiamo definendola come il migliore dei mondi possibili in cui ci si accontenta di vivere per pigrizia o per paura, e non ci si rende conto che in realtà non è niente di più, niente di meglio che una stentata sopravvivenza.

Reso muto dal terrore, un piede davanti all’altro riuscii più o meno a stare al passo seguendo Sherlock in quel buco infernale stretto tra due palazzi così alti da oscurare il sole. Cercai, per quanto possibile, di ignorare i tentativi di approccio dei malviventi e la vista delle gonne sollevate delle donne: alcune mi parvero così giovani che non ebbi neanche il coraggio di guardarle dritto negli occhi.

«Coraggio, John» mi incitò il ragazzo, la personificazione della tranquillità. «Non hanno denti abbastanza forti per mordere.»

Risposi a quella battuta davvero poco felice con un sorriso tirato che tuttavia durò poco, sostituito da un’espressione agghiacciata: ero inciampato su qualcosa, abbandonato al centro del vicolo come un avanzo lasciato a marcire… Un polpaccio, fine come un ramo d’albero e del colore della pelle di uno spazzacamino. Mi voltai e quel che vidi mi fece semplicemente accapponare la pelle e seccare la lingua in bocca: insaccata a terra con il capo reclinato su una spalla, giaceva una madre, le vesti stracciate, il viso esangue roso dalla fame, il seno raggrinzito scoperto ed un fagottino stretto ad esso, talmente piccolo da farmi pensare che lì dentro non ci fosse nient’altro che qualche tozzo di pane tenuto al caldo.

Questa volta non potei fare a meno che fermarmi ed indugiare per qualche lunga, tremenda manciata di secondi su quello sguardo spento, perso, e su quelle povere membra accartocciate su cui sembrava che gravassero tutte le mancanze degli uomini.

La donna non sembrò neanche accorgersi della mia presenza al contrario di due brutti ceffi che mi si avvicinarono con tutte le peggiori intenzioni immaginabili, uno dei due sguainando un coltellino.

«Tu t’es perdu, petit?(1)» sibilò continuando ad avvicinarsi; il compare alle sue spalle ghignò divertito.

Il respiro mi si solidificò nei polmoni: il cuore in gola e le spalle schiacciate contro il muro umido, non riuscii a dire e fare altro se non pregare che la morte arrivasse veloce e quanto più indolore possibile.

Presi un respiro profondo, chiusi gli occhi e li tenni ben stretti, pronto a sentire il freddo della lama passarmi la gola da parte a parte, il sangue caldo scorrere lungo la giugulare, i sensi venir meno e l’oscurità inghiottirmi per sempre… Almeno fin quando non avvertii un forte spostamento d’aria e una schiena che mi si appoggiò al petto facendomi da scudo contro le mie stesse paure.

E poi la voce parlò.

«Laissez tomber, messieurs» disse, piatta. «Les touristes ne savent pas refréner la curiosité.(2)»

Sherlock mi si era parato davanti ponendo il proprio corpo tra me e i manigoldi, distraendoli così dalle loro malvagie intenzioni.

L’uomo che mi aveva minacciato poco prima sputò a terra e, rantolando, fece un passo in avanti. Portò il coltello a pochi centimetri dal volto del mio compagno, lo sguardo grigio e sottile quanto quella lama.

«T’es pas même d’ici (3)» gracchiò il criminale appoggiandogliela di punta prima sul mento e facendogliela poi scorrere lungo tutta la mandibola.

«Géniale déduction (4)» rispose Sherlock in un azzardato tono di scherno.

L’uomo premette ancora più forte l’arma contro la carotide del ragazzo ed ebbi un sussulto. Percepivo il suo respiro imporsi di rallentare, il calore della sua schiena trasferirsi al mio petto insieme a  tutta la sua spavalda sicurezza.

«Que faites-vous ici? C’est notre territoire (5)» sputò l’altro uomo digrignando i denti.

«Affaires(6)» rispose senza pensarci un attimo il mio temerario complice.

«Affaires?»

«Mon argent» mormorò Sherlock abbassando la voce. «Votre maître a une dette avec moi. (7)»

L’uomo col coltello all’improvviso sembrò agitarsi.

«Qui êtes-vous, monsieur? (8)» chiese a denti stretti, una grossa vena che gli attraversava la fronte, madida e bassa, pompava furiosa.

«Sherlock Holmes.»

Tutt’a un tratto, il delinquente strabuzzò gli occhi sbiancando come un lenzuolo, vistosamente sconvolto. A quel nome sembrò perdere d’un colpo ogni aggressività e da lupo cacciatore ammansirsi nel più indifeso degli agnelli.

Con uno scatto del braccio si allontanò da noi permettendo a Sherlock di muoversi e a me di riprendere a respirare, anche se con qualche difficoltà. Non mi ero mai trovato in una situazione simile: l’idea più ovvia di darmela a gambe non sembrava però avermi sfiorato neanche l’anticamera del cervello perché non era vera e propria paura quella che provavo, ma pura e cruda adrenalina.

Diedi uno sguardo a Sherlock: le tempie pallide imperlate di sudore, i capelli scompigliati, gli occhi fieri e sicuri, la lunga schiena dritta e i pugni chiusi, il respiro controllato… Un predatore tra i predatori la cui vista mi faceva ogni volta tremare le ginocchia e distogliere gli occhi da quanto era insopportabilmente eccitante osservarlo nel suo territorio di caccia.

I due uomini si eclissarono come due scarafaggi alla luce del sole lasciandoci continuare per la nostra strada.

Non dissi niente a Sherlock riguardo quell’incontro spiacevole, e non dissi niente neanche quando mi invitò ad aspettarlo fuori da una porticina di legno marcio che oltrepassò con la nonchalance di sempre, riassettandosi il cappotto e sistemandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

Ricomparve dopo un lasso di tempo che mi parve non passare mai, un sorriso soddisfatto dipinto in faccia e una grande busta gonfia sottobraccio.
Rispose con uno sguardo divertito all’occhiataccia che gli lanciai.

«Che avete?» chiese con un tono di voce innocente quanto quello di un monello colto con le mani nel barattolo di biscotti. «Sembra che abbiate visto un fantasma.»

“No, sono solo scampato da un accoltellamento in piena regola in un lurido vicolo nel quartiere più malfamato di Parigi… Ma per il resto tutto a posto, grazie” avrei tanto voluto rispondergli.

«Cos’è quello?» chiesi invece indicando con rapido gesto del mento la busta che si affrettò a nascondere in una tasca interna del cappotto.

«Non qui, dottore. Andiamo.»

Non feci a tempo a replicare che già era partito quasi di corsa, lesto come una lepre, lasciandomi nuovamente di sasso.

Gli corsi dietro maledicendolo sottovoce. Quando uscimmo dal vicolo, tirai un sospiro di sollievo sia perché eravamo di nuovo in una strada trafficata, sia perché si era finalmente degnato di aspettarmi.

«Ma dove andiamo?» boccheggiai quando lo raggiunsi allargando le braccia.

«A fare colazione!»

«Colazione? Abbiamo già fatto colazione.»

«Voi avete fatto colazione. Io non mangio da ieri pomeriggio.»

Lo guardai storto, lui ricambiò.

«Potevate mangiare le brioches di Toulouse. Era davvero deliziose» esclamai, esasperato.

«Perché non il veleno per topi, allora! Più veloce anche se più doloroso come sistema per andarsene, ecco perché medio col tabacco. E poi non sareste così lento stamattina se non vi foste ingozzato di croissants, prima.»

E, detto questo, si accese una sigaretta indossando una delle smorfie più presuntuose che gli vidi mai addosso e che, come ogni abito, gli sarebbero sempre calzate a pennello.

Parlare con un bambino di cinque anni o con muro mi avrebbe dato molta più soddisfazione, pensai.

«Non me ne offrite una?» chiesi dunque, stando al suo gioco.

Mi fissò da sopra la fiamma dell’accendino, la fronte corrugata. Tirò una prima boccata e me la soffiò lentamente sul viso.

«Voi non fumate» mormorò sorridendo di sbieco divertito ai miei colpi di tosse.

Mi sentivo gli occhi bruciare, sia per il fumo sia, ancor peggio, per l’imbarazzo di dover far fronte alla pretesa di fingermi un uomo vissuto.
«C’è sempre una prima volta» lo punzecchiai schiarendomi la voce.

Cercai di tenere le palpebre ben aperte e di difendermi da quello sguardo indagatore che mi faceva sentire come un animale impagliato sotto teca ogni secondo passato in sua compagnia, inerme oggetto della sua osservazione.

Non era però disagio quel che sentivo dentro, piuttosto bramosia di sfida, di sostenere sempre e comunque l’occhiata del mio esaminatore sfoderando lo sguardo più rapace che mi riusciva. Se qualcuno ci avesse collegato a un circuito elettrico, in quel momento, saremmo probabilmente riusciti ad accendere una lampadina.

«Venite» disse ad un tratto, visibilmente intrigato. «Vi offro un caffè.»

Ed io, a quanto pare, avevo acceso la sua.

Cercai di trarre più beneficio possibile dal tepore profumato di cannella e fiori che caratterizzava l’interno del caffè dove ci fermammo, un posticino davvero adorabile in stile provenzale con dei grandi mazzi di lavanda appesi alle pareti lasciati ad essiccare.

Non c’è un locale nella frizzante e disincantata Parigi di questa nostra bell’epoca, dalla taverna più spartana al ristorante più raffinato, che non regali questa sensazione. Assieme al caffè, ti scivola piacevolmente nello stomaco riscaldandoti l’anima nel profondo ed infondendoti l’energia giusta per cominciare al meglio la giornata.

Ci sedemmo a un tavolino deliziosamente apparecchiato, la tovaglia lillà e un grande menu torreggiante al centro che, per forza dell’abitudine, cominciai pigramente a sfogliare. Fu solo quando diedi un’occhiata ai prezzi che mi ricordai della mia condizione, in tasca il denaro appena sufficiente per una tazza di tè.

Stavo già riponendo il menu al suo posto, afflitto, quando Sherlock mi persuase dal farlo con la sola forza dello sguardo e di un sorriso appagato.

«Non avevate già fatto colazione?» mi chiese, la voce screziata da una particolare nota di dolcezza che scavalcò solo per un attimo l’ironia.

Feci spallucce ed incrociai le dita sul tavolo.

«Infatti» dichiarai. «E poi non m’ispira nulla di ciò che la casa offre.»

Sherlock rise di gusto a quella mia affermazione che suonò terribilmente ipocrita anche alle mie orecchie, detta da me poi, che avrei assaggiato di tutto.

«Siete un recidivo, allora!» esclamò. «Quando capirete che con me le bugie non funzionano? Prendete quello che volete. Offro io.»

Avrei dovuto sentirmi a disagio di fronte a tutta quella gentilezza. Insomma, un uomo maturo che si fa offrire una seconda colazione da un altro, apparentemente non altrettanto maturo, che conosce da neanche un giorno… Forse ero semplicemente nato per sentirmi a mio agio nel confronto con Sherlock Holmes, e probabilmente anche ad essere l’unica persona che gli avrebbe mai saputo tener testa nonostante la mia imbarazzante ingenuità e il suo pessimo carattere.

«Non vi sfugge nulla» gli sorrisi, e mi riappropriai del menu.

Mentre scorrevo con gli occhi le invitanti pietanze e per tutto il tempo che mi necessitò per decidermi, percepii il magnetico peso di quegli occhi analitici gravarmi addosso come la spada di Damocle, e dovetti mordermi l’interno delle guance per non lasciarmi scappare un sorriso.

«Siete inquietante» gli dissi a un certo punto, gli occhi incollati sulla lista dei dessert e gli zigomi doloranti.

«E voi spaventosamente lento» rispose lui sbuffando.

Sollevai il capo e non riuscii a trattenermi oltre: alla vista di quel broncio impaziente tipico dei bambini annoiati costretti dai genitori a stare seduti composti a tavola, le braccia conserte strette al petto e le labbra storte, esplosi in una sonora risata che riecheggiò per tutto il locale.

«Sì, ne sono già stato messo al corrente» dissi scuotendo il capo.

«Cosa ci troverete mai di così complicato nello scegliere un dolce, dico io. Uno vale l’altro!»

Colto di sorpresa, lo schiaffeggiai con un’occhiataccia.

«State scherzando, spero!» esclamai, oltraggiato. «Un dolce è un’esperienza mistica, uno dei pochi piaceri che la vita offre! È… come una donna.»

Dovetti averlo colpito davvero forte perché, a quelle mie parole, sembrò pietrificarsi sul posto, il fiato sospeso e negli occhi un’ombra di puro e semplice panico.

«Una donna» mi fece eco, la voce tanto bassa da sembrare lontana miglia e miglia.

«Esatto, una donna. Sembra facile trovare quella giusta nell’infinita gamma di gusti disponibili, ma non lo è. Affatto. Alcune sono troppo elaborate, altre troppo costose, altre ancora troppo pesanti, con troppo zucchero. Ma poi… Poi finisci per trovarla, quella giusta, che è semplicemente perfetta perché non riesci a guardare altre torte se non lei e a desiderarla, una fetta dopo l’altra, fino a star male. Semplicemente perché per te non sarà mai troppo, anzi, non sarà mai abbastanza. Semplicemente perché, se hai lei, adorerai ogni singola indigestione. Per tutta la vita.»

Quell’abbozzata ombra di panico nel suo sguardo era ora mutata in una nuvola scura di autentica angoscia e, a giudicare dal tempo che trascorse trattenendo il respiro e dal colore della sua faccia, ebbi seriamente il timore che potesse svenire da un momento all’altro.

Boccheggiò per un po’ come un pesce strappato al suo ambiente naturale prima di riuscire ad articolare una frase dal senso compiuto.

«Mi chiedo quale diavolo di tossina neuroattiva debba aver messo Toulouse tra gli ingredienti di quelle sue brioches» mormorò infine, nervoso.

Non seppi se mettermi a ridere o a piangere: mi pareva di aver fatto un bel discorso, spiegando con una metafora alimentare cosa fosse per me l’amore e, sinceramente, non mi sarei mai aspettato una reazione del genere. Nonostante la passione che metteva nel suonare il violino e nell’insultare la gente, quel ragazzo dimostrava la profondità emotiva di un sasso.

«Sapete cosa vi dico?» dissi quindi, abbandonando definitivamente il menu. «Prendo solo un caffè. Bello amaro, come voi.»

«Suggerisco di lasciar perdere le similitudini, per oggi, e di cambiare decisamente argomento.»

Con un elegante gesto della mano, chiamò il cameriere che si esibì in un profondo inchino prima di prendere le ordinazioni e ricomparendo qualche istante dopo con due caffè, amarissimi, e su un piattino due dolcetti ripieni di forma circolare, uno marrone scuro e l’altro bianco.

Mi portai alle labbra il mio caffè e trattenni a stento una smorfia disgustata: ero abituato a berlo con almeno due cucchiaini di zucchero e la mia smania di provocare Sherlock Holmes mi aveva sconfitto, di nuovo.

Sbattendo le lunghe ciglia più del necessario, l’ignobile mi fissava sinceramente divertito da sopra la sua tazzina.

«Assaggiate un macaron,» sussurrò indicandomi con un gesto del mento i dolcetti sul piattino. «Andrà meglio.»

Colsi al volo il suggerimento e agguantai il dolcetto bianco mettendomelo subito in bocca: la prima cosa a cui pensai fu che, in tutta la mia vita, non avevo mai assaggiato nulla di più gustoso e al tempo stesso delicato, una goduria per il palato in un così piccolo oggetto.

Sherlock sorrise compiaciuto, prese il dolcetto rimasto e lo divise a metà coi denti; lo masticò lentamente senza interrompere per un secondo il contatto visivo con me.
Seguii i movimenti lenti dell’elegante curva della mandibola, quelli morbidi delle labbra piene e di quell’unica, infame briciola di cioccolato fondente rimasta attaccato alla parte centrale del labbro superiore, quella più carnosa, sotto il ripido arco di Cupido.

Quando ingoiò la prima metà e si portò alla bocca la seconda, prima di masticarla ne percorse in punta di lingua la parte interna, più cremosa; la pasta di cioccolato gli sporcò i polpastrelli che, una volta fatta sparire anche la seconda metà del dolcetto, ripulì succhiandoseli diligentemente.

Il mio macaron, ridotto a una poltiglia umida e squisita, in quel momento stanziava immobile tra la mia lingua e il palato e la sua deglutizione mi risultò più difficile del solito.

«Bellissimo…» sussurrai, per quanto la mia mandibola a penzoloni mi concesse.

Aggrottò le sopracciglia estraendo il pollice dalle labbra con uno schiocco umido.

«Pardon? (9)»

E allora ci mancò poco che mi soffocassi, ucciso da un innocuo dolcetto francese.

«Intendevo… buonissimo» mi corressi sentendo le guance andare a fuoco ed ogni singolo neurone accartocciarsi su se stesso facendomi girare la testa.
Finimmo i nostri caffè in religioso silenzio e, pagato il conto, lasciammo il locale. Quella sensazione di calore, penetratami nelle ossa insieme all’aroma del cioccolato e di quel caffè amaro e dolcissimo allo stesso tempo, mi inseguì fino in strada, stordendomi.

«Allora piacciono anche a voi i dolci» azzardai dopo non so quanto tempo passato senza scambiare una parola, e affondai le mani bollenti nelle tasche.

Sherlock sospirò sistemandosi il bavero del cappotto fin sopra gli zigomi: guardava dritto e freddo davanti a sé, una persona completamente diversa da quella deliziosamente arrogante e spigliata del caffè, quella dai polpastrelli sporchi di cioccolata e gli occhi brillanti, eccitata ed eccitante.

«Pensavo che fossimo d’accordo nel cambiare argomento di conversazione» disse acido affrettando nuovamente il passo.

«Era solo una mia curiosità.»

«Vi ucciderà un giorno, quella vostra curiosità.»

Dovette essersi innervosito parecchio perché cominciò a frugare in ogni tasca imprecando sottovoce, almeno finché non ne estrasse un accendino e un pacchetto di sigarette. Se ne accese una con le dita che gli tremavano e solo quando riuscì ad inalarne il contenuto sembrò acquietarsi, almeno apparentemente.

«Che mi dite di quelle, piuttosto?» replicai.

Rallentò bruscamente fino a fermarsi, praticamente in mezzo alla strada, e mi infilzò con quei suoi occhi di ghiaccio da parte a parte, le labbra contratte e la sigaretta stretta tra pollice e indice, alla russa. Per un istante temetti che me la volesse spegnere addosso.

«Vi piace l’idea di farmi da madre, John?» mi chiese, la voce simile a un ringhio di una bestia ferita stuzzicata fin troppo a lungo.

Il cuore cominciò a battermi all’impazzata.

«Io non…»

«Perché se così fosse debbo avvertirvi: c’è già troppa gente che si è arrogata il diritto di farlo, tutti tranne coloro che per natura avrebbero dovuto. Quindi, mettetevi in fila.»

Detto questo, riprese a marciare, un soldato protetto dal suo migliore scudo di impassibilità, pesantemente scalfito ma ancora robusto.

«Chiedo perdono se vi ho offeso in qualche modo!» dissi correndogli dietro. «Non era mia intenzione.»

Quel broncio animalesco e il brusio dei suoi denti digrignati scomparvero come si erano presentati, improvvisamente, venendo sostituiti da una risata che al momento giudicai quantomeno grottesca. Il mio professore di neurologia l’avrebbe definito uno schizofrenico e forse, a quel punto, avrei anche potuto dargli ragione.

«Che ho detto adesso?» chiesi tenendomi a qualche metro di distanza, la fronte aggrottata e i pensieri aggrovigliati.

Prima di rispondermi, prese un’altra profonda boccata dalla sigaretta, le labbra strette intorno al filtro e arricciate in un sorriso genuino.

«Siete adorabile.»

Avessi conosciuto Sherlock Holmes come lo conosco ad oggi, in quel contesto un’affermazione del genere mi avrebbe procurato uno shock non da poco, facendomi preoccupare seriamente per la sua salute mentale o quantomeno per lo stato del mio udito.



Rimasi con la bocca spalancata fino a che ci ritrovammo di nuovo sotto al portone di casa: tanto fu strana quella conversazione che non mi ero nemmeno reso conto di essere tornati a Place Pigalle.

«Prima vi complimentate per l’esibizione di ieri sera…» spiegò con la sigaretta in bocca cominciando a litigare con un mazzo di chiavi. «… poi definite addirittura “fantastico” un metodo per il quale altri hanno trovato aggettivi decisamente meno nobili, ed infine vi scusate per esservi preoccupato per la mia salute. Adorabile.»
Dopo un’ultima tirata, gettò la sigaretta a terra e mi invitò a precederlo. Della padrona di casa non c’era traccia e, involontariamente, tirai un sospiro di sollievo, felice di non dover incrociare quegli occhietti da gufo già di prima mattina.

Mi sentii libero di parlare liberamente.

«Non mi sembra di aver fatto nulla di così speciale o degno di nota» dissi incamminandomi su per le scale.

«In realtà, eccezion fatta per il violino, per le altre due cose siete il primo» replicò ampliando il sorriso. «Dunque non vedo il motivo per cui non definirvi adorabile. Consideratevi fortunato perché non l’ho mai detto a nessuno e non ho intenzione di ricordarvelo, in futuro.»

Risi di gusto davanti a quel cinismo che gli donava sempre meno ogni minuto in cui la nostra conoscenza reciproca si approfondiva.

«Mi impegnerò affinché possiate sciogliere il vostro voto, allora» gli dissi bonariamente dondolandomi davanti la porta del suo appartamento.

«Non sono facilmente corruttibile» ribatté strizzandomi l’occhio.

Aprì la porta ed entrò in casa lasciandola spalancata. Io rimasi sulla soglia, le braccia lungo i fianchi, il respiro sospeso.

Era stata una mattinata… interessante, pensai. Ed ancor più interessante sarebbe stato prolungarla, poter condividere ancora qualche ora in compagnia di quell’affascinante persona.

«Entrate, John, e chiudetevi la porta alle spalle, se non vi dispiace. Fa corrente.»





 

 

Note di traduzione
(1) Ti sei perso, piccino?
(2) Lasciate perdere. I turisti non sanno frenare la curiosità.
(3) Nemmeno tu sei di qui.
(4) Geniale deduzione.
(5) Che fate qui? È il nostro territorio.
(6) Affari.
(7) I miei soldi. Il vostro capo ha un debito con me.
(8) Chi siete, signore?
(9) Chiedo scusa?

 

 

Author's Corner

Non ho scuse.

L'unica cosa che ho rispettato sono i tre mesi (?) di completa assenza da EFP e me ne rammarico. Sono successe un sacco di cose, sapete... nella vita reale. Ma ho cercato di andare avanti col quarto capitolo della mia seconda long in sospeso e... Boh. Spero che non sia troppo male.
Devo fare una confessione. Tra le millanta cose successemi in questi mesi, ce n'è una, in particolare, che mi sento di condividere: la Viclock mi ha investita come un camion a 200 km/h e io ho adorato esserne investita *^* Ciò non vuol dire che mi sia convertita alla Viclock lasciando completamente da parte la Johnlock (che continuerà ad essere la mia tomba, ahimé) ma che, semplicemente, le mie prospettive si sono allargate.
Dunque, ora che ho concluso la sessione d'esami, posso dedicarmi maggiormente alle centinaia di cose che ho in sospeso, come le mie long, e pure a qualche fanfiction Viclock tanto per contagiare il mondo di bellezza *^*
Vi ringrazio in anticipo per la pazienza e se vorrete farmi sapere cosa ne pensate a riguardo (del capitolo, della Viclock, di quanto ignobile sia come autrice che fa aspettare secoli neanche fosse Gatiss o Moffat in persona...).
Un bacione,

miss potter (che è ancora qua... eh, già.)

 

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