Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta.

di _Krzyz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 - Sogni e Sangue ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 - Candida Neve Tinta di Rosso ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta.

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Prologo

 

No, questa storia non parla di elfi. O di principesse. O di draghi.
Questa storia parla di una ragazzina e dei suoi coltelli.
 
In questa storia non ci sono fate madrine, fidi scudieri o magici aiutanti.
In questa storia c’è morte, c’è solitudine, c’è apatia.
 
Questa storia non ha eroi, non ha vincitori, non ha premi.
Non c’è spazio per gli eroi qui dentro.
 
Questa storia non ha un lieto fine. O forse si, starà a noi decidere cos’è meglio.
 
Questa storia non comincia con “C’era una volta…”
Questa storia comincia con un padre ed una figlia che giocavano in un prato, tanto tempo fa.
 
-“Prendila, papà!”-
Una ragazzina rideva beatamente passando la palla all’uomo baffuto dall’altra parte del giardino, gli abiti tutti sporchi di erba. E usavano il loro tempo , passandosi quel tondo di cuoio dall’alba al tramonto, fino a quando una mamma adirata li chiamava per la cena. Tutte le sere il padre rimboccava le coperte alla ragazzina, raccontandole mille e una fiabe per accertarsi che facesse bei sogni.  Un bacio sul nasino lentigginoso della bambina e via, a fare il guardiano notturno del Palazzo di Giustizia.

E questa storia prosegue con un colpo.

Poi un altro. Poi un altro ancora. Tre colpi di pistola che uccisero il signor Ravenhill, mentre tornava a casa dal turno di notte, per qualche spicciolo e un trenino giocattolo che aveva comprato per la figlia. Un borseggiatore aveva deciso che quell’uomo, così buono e così pieno d’amore, sarebbe morto in questo modo. Tre spari nel petto. Venne lasciato a spirare,  il corpo steso sull’asfalto crepato dei quartieri più poveri del distretto 2. E una bambina e una madre che piangevano disperate. Sole, le aveva lasciate sole. Era andato al lavoro dicendo che le amava, come tutte le sere, ed era morto ripetendolo con maggior convinzione. Al funerale non c’era nessuno, tranne sua moglie e sua figlia. Quella piccola bambina sorridente, che fino all’altro ieri giocava sul prato ridente, ora piangeva in silenzio, le mani strette attorno al giocattolo che suo papà non fu mai in grado di consegnarle di persona. Non avrebbe conosciuto la risata per un bel pezzo, ma all’epoca non poteva saperlo. Pose due fiori sulla misera lapide di pietra bianca, perché altro non si potevano permettere, e tornò a casa a infilarsi sotto le coperte. Non sognò , nessuno le raccontava più le storie che la facevano sognare.

Poi in questa storia c’è un matrimonio.

Perché dopo tanto dolore sua madre aveva due alternative per mandare avanti la famiglia: trovarsi un lavoro oppure risposarsi. E scelse l’alternativa sbagliata.
Perché quell’uomo si era presentato bene. Era vedovo, era bello, era ricco. E cercava disperatamente una moglie. Eppure la bambina vedeva, puntando le sue iridi verde scuro sul completo elegante di quello che presto sarebbe diventato il suo patrigno, che nulla di buono avrebbe portato. E rimase seria quando, al matrimonio, tutti si complimentavano con i novelli sposi. No, non sarebbe mai stato suo padre. Suo padre giaceva sepolto tre metri sotto terra, e li sarebbe rimasto. Non sorrise neppure per le foto ricordo. A dire il vero, non sorrise più. Quell’uomo era un estraneo. Viveva in casa sua, baciava sua madre e le portava a casa dei giocattoli, ma lei non l’avrebbe mai percepito come un degno sostituto del padre.

E andando avanti nella nostra storia c’è una malattia.

Una malattia terribile, che ti parte dai piedi e ti arriva al cervello distruggendo tutto quello che incontra per strada. Una malattia che ti corrode l’anima come acido solforico e che lascia il tuo corpo vivo, ma vivo a metà. Così sua mamma viveva, inchiodata ad un letto, senza parlare o muoversi. E la bambina cresceva vedendo il suo patrigno portare a casa donne su donne e sperperando tutto ciò che avevano. Curava da sola quell’ombra che una volta la coccolava e le faceva le trecce alla domenica, senza versare una lacrima, senza emettere un singhiozzo. La portava di peso in bagno e la lavava per poi portarla in camera di nuovo e raccontargli una favola, proprio come suo padre faceva con lei. E l’uomo che aveva sposato neanche si curava più di sua moglie, aveva centinaia di giovani donne, una diversa ogni sera. Bottiglie di whisky si accumulavano sui tavoli così come i lividi si accumulavamo sul volto della bambina. Perché lui la picchiasse non ci è dato sapere, ma sta di fatto che lo faceva. Cominciò a sentirsi soffocare, in quella casa, la bambina dagli occhi verde scuro. E il tempo passava, lei cresceva, senza una persona che le volesse bene, senza qualcuno che l’aiutasse, senza lacrime e senza risate.

E poi in questa storia arrivò l’Accademia.

Perché non era più una bambina, lei. Era diventata una ragazza. Una ragazza apatica, spietata, bramosa di vendetta. Verso quell’uomo che aveva ucciso suo papà, verso il suo patrigno che la picchiava e la trattava come una pezza da piedi, verso la malattia che si stava divorando sua madre, verso il mondo che dava troppo ad alcuni e niente ad altri. E un pomeriggio, giocherellando in cucina, scoprì di poter amare. No, non una persona, bensì i coltelli, quelle piccole lame perfette e letali. Sfiorava con gli strofinacci le piccole armi, saggiandone il filo sul dorso della mano. Rivoletti di sangue si facevano strada sulla pelle pallida della ragazza. Avrebbe potuto uccidere migliaia e migliaia di persone con uno di quelli in mano. Lo scagliò violentemente fuori dalla finestra, ammirandolo mentre tagliava l’aria e si conficcava nel tronco di un albero poco distante. Un ghigno si formò sul viso lentigginoso della ragazzina.
Gli Hunger Games. Erano l’unico modo. Si sarebbe iscritta all’Accademia, si sarebbe allenata, si sarebbe offerta e avrebbe vinto. Doveva farlo, non aveva scelta, se voleva salvare sua madre, se voleva salvarsi. In Accademia c’erano centinaia di ragazzi che avrebbero potuto spezzarle le ossa semplicemente sfiorandola, abili con qualsiasi tipo di arma, forti, agili, terribili. Ma non abbastanza sadici. Non sadici quanto lei.
Tornava a casa a tarda sera, spossata, ma non meno determinata. Un set di coltelli nascosto nel fodero della giacca di seconda mano che aveva indosso e un paio tra le mani. Li scagliava ai topi che sbucavano dai tombini, alle falene che si agitavano attorno a qualche sparuto lume lungo la strada, ai pipistrelli che volavano troppo bassi. Nulla le sfuggiva, non mancava mai il bersaglio. E poi controllava sempre dove li aveva colpiti. In pieno petto, tutte le volte.
Crebbe scagliando i coltelli. Crebbe sola, senza amici, li considerava una distrazione. Crebbe senza sentimenti, per non apparire debole. Crebbe senza un padre o una madre. Crebbe con i coltelli in mano e la rabbia nel cuore.

E questa storia comincia da qui.
E la sua storia comincia da qui.
La storia di Clove Ravenhill, ragazza del distretto 2, e dei suoi coltelli.

 
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IL KACTUS DI KRZYZ


Buongiorno! Ecco a voi la mia nuova fic, frutto di un incontro tra un sogno, una visita inaspettata e vari litri di thè inglese.
Volevo ringraziare mia sorella che, con la sua innocenza da tredicenne, mi ha detto senza peli sulla lingua che ne pensava e mi ha spronato a migliorarla.
Il cognome di Clove significa Collina del Corvo. Non son da dove sia saltato fuori ma mi ispirava :)
Sperando che questa fic possa piacere (anche giusto un pochettino) e di non venire brutalmente lapidata dal fandom, un abbraccio!
Saluti dal Kactus!
_Krzyz

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 - Sogni e Sangue ***


Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta
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Capitolo 1

Sogni e Sangue


 

Un coltello lacerò l’aria, andandosi a conficcare nel cuore del manichino posto ad una ventina di metri di distanza. Centro perfetto. Un sorrisetto sadico si aprì sulla faccia della ragazzina.
-“Niente male, Clove!”- La voce di Spartacus, l’allenatore, rimbombò nella sala. –“Continua così e tra un paio d’anni farai una strage agli Hunger Games!”-
Idiota, emerito idiota. Lei non avrebbe aspettato i due anni. Lei era già pronta. Tutti lo sapevano, sarebbe stata in grado di fare fuori chiunque avesse di fronte senza la minima esitazione. Piccola, veloce, spietata, letale. Avrebbe partecipato quest’anno, uccidendo gli altri volontari se necessario.

Il Corvo, la chiamavano in Accademia. Forse per via dei suoi capelli neri, forse per il suo cognome, forse perché quando c’era lei intorno succedeva sempre qualcosa di brutto, non si sa. E questo lei si sentiva, un corvo,  nero come il petrolio, nero come la morte, pronto a infierire brutalmente sulle sue stesse vittime, così da assicurare una dipartita estremamente dolorosa. Era incredibile la sete di sangue che quella pallida, minuta ragazzina poteva avere in corpo. Era entrata in quel posto per imparare ad ammazzare, e lo stava imparando egregiamente. Spartacus era estremamente orgoglioso di lei. Le altre ragazze erano solo ochette schizzinose, che entravano in Accademia per mettersi in mostra e guardare sbavando come dei bulldog gli allenamenti dei ragazzi più belli del distretto.
Clove non era come loro. A Clove non importava niente di nessuno, se non di lei stessa e dei suoi coltelli. Clove voleva uccidere, era nata per questo. Avrebbe potuto ammazzare  anche il Presidente, se avesse voluto. Gli altri allievi sapevano che c’era, sapevano che era brava, e tuttavia a nessuno di loro interessava conoscere, avvicinarsi, scoprire qualcosa di più sul Corvo. E a Clove andava bene così, i legami sono una distrazione, rendono vulnerabili le persone. Aveva un obbiettivo e nulla le avrebbe impedito di conseguire ciò che si era prefissata.

Tornava a casa a tarda sera, inseguendo i marciapiedi dissestati dei quartieri poveri, fino ad arrivare ad una minuscola villetta marcescente. Era bella, una volta. Il prato era curato, il portico era sempre pulito, le aiuole ricolme di fiori. Ora tutto era andato in rovina, l’erba era alta quasi mezzo metro, le assi di legno del porticato marcivano lentamente, dove una volta regnavano primule e rose ora c’erano solo ortiche e cardi. L’unica ragione per la quale si ostinava a tornare in quel luogo tutte le volte era sua madre. La sua mamma, bloccata nel letto, viva e morta allo stesso tempo. E varcava la soglia, e vedeva cocci di vetro e bottiglie rovesciate e quell’uomo, quel maledetto , circondato da donne. Saliva le scale mentre quel dannato la bombardava con tutto ciò che gli capitava a tiro, fosse stata una scarpa o una bottiglia di vetro. Ferite profonde a volte, tagli lievi altre, ematomi altre ancora. E arrivava in camera di sua mamma, il corpo disteso immobile sul letto, le pupille fisse smarrite in un luogo lontano. Le dava le medicine e le carezzava la fronte, fino a che le palpebre calavano sugli occhi vitrei. E tornava nella sua stanza e cadeva in un sonno nero come le piume del corvo che era.

Un sogno. Il solito, ormai, da quasi dieci anni. Non sapeva se fosse realmente solo frutto della sua immaginazione, sembrava più  un ricordo sfocato, confuso, senza colore. 
E nel sogno c’era freddo, un gelo che appesantiva le ossa e congelava le membra.
 E lacrime, tante gocce salate che scivolavano ustionanti sulla pelle.
E dolore nel petto, nell’anima, nella testa.
 E un marciapiede crepato illuminato da un lampione che emanava una luce fioca e asettica.
E una mano di bambino, che le porgeva un fazzoletto di stoffa azzurro, unico colore in un sogno bianco come la neve e nero come la morte, e che poi andava via.
E una frase, che risuonava nell’aria, come una melodia dimenticata suonata da un clavicembalo stonato. Due parole.
-“Sii Forte.”

Tutte le notti la stessa storia, senza che cambiasse d’una virgola, sempre lo stesso sogno. Non era vero e non era falso. Se ne stava sospeso in un limbo color seppia, cercando qualcosa.
Clove non sapeva cosa potesse voler dire quel fazzoletto azzurro. Forse avrebbe dovuto chiedere aiuto, forse avrebbe dovuto capire chi era il bambino di cui non riusciva a focalizzare il volto, forse avrebbe dovuto smetterla di pensare a quel sogno e darsi un po’ di contegno.

Alla mattina si avviava verso l’Accademia, assonnata e infreddolita. Non mangiava nulla per colazione, perché nulla c’era da mangiare. Il verme lasciava la casa come un letamaio, svuotata e disastrata,  dopo aver finito di giocare con le sue ‘amichette’, e di sicuro quel poco cibo che c’era lo aveva offerto a loro. Lo stomaco brontolava e ribolliva come la rabbia nel corpo della ragazza.
E poi solo i suoi coltelli e i manichini, per tutto il giorno. Non mancava il bersaglio, nemmeno una volta. Spartacus non aveva più nulla da insegnare a quella ragazzina ossuta e terribile. Stava la tutto il giorno, a fissare il Corvo che eseguiva il suo bizzarro, letale rituale. Una macabra danza di piccole, sottili lame scagliate al cuore di immobili corpi imbottiti. Nulla poteva fare, se non osservare la ragazza e dirle che migliorava sempre di più.
Una mattina Spartacus si avvicinò alla sua allieva e le disse ciò che la ragazza aspettava da anni.
-“Da domanii passi agli intensivi.”-
Intensivi. Un sorrisetto si aprì sul volto pallido di Clove. Intensivi voleva dire tante cose. Voleva dire che finalmente avevano riconosciuto il suo valore. Voleva dire che sarebbe stata preparata ancora meglio. Voleva dire allenarsi con gli allievi più bravi in assoluto. Voleva dire sangue.
Perché agli intensivi non affrontavi corpi imbottiti e stupidi sacchi ripieni di ovatta. Ti battevi con persone in carne ed ossa. E un taglio non si limitava a far uscire quel poco cotone dal torso dei manichini. Sgorgava a fiotti, il liquido rosso, e faceva strillare anche il migliore tra loro. E tornavi a casa con i lividi, le braccia graffiate e i cerotti sulla faccia.

Clove tornò a casa felice quel giorno. Avevano riconosciuto cos’era capace di fare, il Corvo si stava affilando gli artigli. Ma quando varcò la soglia  tutto l’entusiasmo che aveva in corpo sparì come una bolla di sapone scoppiata troppo presto. Il suo patrigno era davanti a lei, ubriaco fradicio, con una botiglia in mano.
E un colpo arrivò sulla testa della ragazzina.
E un altro, e un altro, e ancora uno.
Senza emettere un fiato, senza lacrime, il Corvo lasciò che il fondo di vetro infierisse sulla sua carne, frantumandosi ad ogni colpo. Non ce la faceva più. Lottare, lottare, lottare fuori per poi temere qualsiasi cosa dentro. Un cucciolo impaurito nascosto in un’armatura di piombo, questo era Clove. Dopo attimi che parvero interminabili il suo patrigno si allontanò sbuffando come una locomotiva. La ragazzina salì le scale barcollando, incerta sulle gambe tremanti. Il sangue le colava dalla testa e dal labbro spaccato, riempiendole la bocca di un sapore ferreo e terribilmente dolce. Aveva alcune schegge piantate sulle braccia, ma al momento non ci pensava.
Perché? Perché doveva subire tutto quello? Lei era forte, lei era una roccia, lei era acciaio.
O forse no.

Forse era solo una bambina che era dovuta crescere troppo in fretta. Una bambina che amava uccidere perché non sapeva fare altro. Una bambina che viveva in un castello in cui la mamma era una dama di vetro e suo marito un drago feroce e pazzo. E lei non era che la principessa di ruggine di un regno sotto assedio.
Di nuovo diede le medicine alla sua mamma, un tempo una donna vigorosa dai capelli scuri e le mani grandi, ora ridotta ad anima a metà tra la terra e gli inferi.
Si addormentò con il sangue che macchiava il cuscino, quella notte. E di nuovo lo stesso sogno. E solo per un istante Clove sorrise, pensando a quando si era sbucciata un ginocchio da bambina e suo papà le aveva attaccato un cerotto coi fiorellini disegnati. Il Corvo in quel momento avrebbe voluto qualcuno che le mettesse i cerotti sulle ferite alla testa e che le curasse quel labbro spaccato.

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IL KACTUS DI KRZYZ

Ritardo, signori, è una parola che pronuncerò molto spesso d'ora in avanti. La scuola sta per ricominciare e la povera Krzyz si è trovata in ritardo con un saccopieno di roba da finire per la settimana prossima (e nessuna voglia di farla). Gli aggiornamenti proseguiranno a rilento, vi chiedo anticipatamente perdono per ciò.  
Don't worry, nel prossimo capitolo ci saranno più dialoghi e decisamente meno sitauazioni da fazzoletti! :)

Spero che vi sia piaciuto.
Mi raccomando, ditemi che ne pensate! Lasciate una recensioncina piccina piccina, anche per dirmi che sta roba fa schifo (accetto tutte le critiche, purchè giustificate in maniera coerente!).
Saluti dal Kactus! :D
La vostra _Krzyz, che si è ricordata ieri delle 254 pagine di storia dell'Arte da studiare.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 - Candida Neve Tinta di Rosso ***


Di Piume di Corvo e Lanterne di Carta

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Candida Neve Tinta di Rosso

 

E questa storia continua con gli intensivi.

Sessioni particolari, terribili, lunghissime, nelle quali dei ragazzi ,ormai candidati volontari per la Mietitura, si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera allenandosi come se non ci fosse altro nella loro vita, se non il manichino che gli si parava davanti e la loro arma.
Il Corvo bramava gli intensivi da quando aveva messo piede in Accademia. Lottare con avversari del suo livello, sentire finalmente il sangue pulsare nelle tempie e scorrere silenzioso lungo le lame che fendevano il corpo di altre persone. Lei era pronta, lo era sempre stata.
-“Sei troppo piccola.”
-“Sei troppo fragile.”
-“Ti schiacceranno come una mosca.”
Ora nessuno osava più dirlo. Era la Regina dei Coltelli, non c’era bersaglio che non venisse centrato nel suo mondo. Esatto il suo mondo. Un mondo di ghiaccio, ruggine e brandelli di anime, sospeso in precario equilibrio su un filo. Un mondo che nessuno avrebbe dovuto conoscere, che nessuno avrebbe dovuto vedere. Un mondo nascosto nel buio, schiacciato nella sua gabbia toracica.

Era la mattina della sua prima sessione. Nonostante il cielo fosse limpido, era freddo, molto freddo, e un venticello gelido penetrava nella carne facendo vibrare la colonna vertebrale della ragazza. Era uscita volutamente di casa un paio d’ore prima dell’inizio degli allenamenti, e ora il Corvo se ne stava appollaiato sul tetto dell’Accademia, avvolto in un cappotto nero sgualcito, con una sciarpa infeltrita e un cappello di lana a proteggerle il viso. Scrutava il mondo di sotto, in silenzio. Vedeva il distretto svegliarsi, gli uomini d’affari che correvano come formiche spaventate verso la stazione, per prendere il treno, le luci delle case accendersi, i balconi aprirsi. Il suo fiato formava nuvolette arzigogolate nella gelida alba invernale. Sfiorava i suoi coltelli, attendendo un animaletto di passaggio. E appena avvistava la preda scagliava le armi, uccidendo sul colpo ogni passerotto, scoiattolo o fringuello che aveva avuto la sfortuna di trovarsi nelle vicinanze della ragazza quel giorno.
Passò il tempo bersagliando gli animaletti, beandosi di quando li vedeva cadere morti in mezzo alla neve, osservando la candida coltre diventare rossa pian piano. Non appena si stufò di trucidare le povere creaturine balzò giù dal tetto atterrando morbidamente sulla soffice distesa ghiacciata. Si avvicinò ai corpicini senza vita ed estrasse , uno ad uno, i coltelli dalle gabbie toraciche delle povere vittime e osservò il filo della lama, tinto di rosso. Quel rosso così tetro, così intenso, che sapeva di morte e di vita, di ruggine e di carne, che gocciolava dall’arma sul palmo della sua mano.

Uno scampanellio la risvegliò dalla specie di trance in cui era precipitata, segnalandole l’inizio delle sessioni.
Clove entrò e si mise a correre verso la sala degli intensivi, tagliando le curve e rischiando più volte di inciampare a causa dei suoi piedi freddi e indolenziti. Si tolse il cappotto velocemente, senza fermarsi, e piombò affannata nella palestra.
-“ Era ora!”- esclamò burbero un uomo che avrebbe potuto essere il fratello gemello di Spartacus, se non fosse stato per una quindicina di centimetri in più e qualcosa come 20 chili di muscoli, che il suo precedente allenatore non aveva. La ragazza cercò di darsi una rassettata, avanzando verso una fila composta da sette ragazzi.
-“ Ragazzina imbecille, qui non siamo alle sessioni regolari! Qui siamo agli intensivi e si esige massima puntualità, altrimenti punizione! Siccome è il tuo primo giorno stavolta passa, ma la prossima non sarò altrettanto clemente, sono stato chiaro?!”- le sputò in faccia l’allenatore. Fu un miracolo se in quel momento a Clove non partì l’embolo.  Sospirò e rispose sicura: -“Sissignore.”
L’allenatore ghignò sbuffando, soddisfatto. –“Molto bene! Ragazzi, questa ragazza è il cadetto Clove Ravenhill e da oggi si allenerà con noi!”-. Sette paia d’occhi la fissarono con aria di superiorità.
Ma che cazzo hanno da fissare?! Se volessi potrei farli fuori tutti con una sola manciata di coltelli!
-“Il mio nome è Radius e sono il tuo allenatore. In queste sessioni si lavora a coppie, come immagino che ti sarà già stato detto.”-
Certo che le era già stato detto, non desiderava null’altro che quello. Un avversario del suo livello con cui confrontarsi, con cui migliorarsi , con cui combattere fino a sentire le ossa piegarsi sotto il peso della fatica. Voleva un manichino umano per esercitarsi. Il Corvo ghignò mentre scrutava i suoi compagni. A fianco a lei c’era una formosa ragazza bionda, che probabilmente non sarebbe stata in grado di uccidere nemmeno un passerotto senza ali. Vicino a lei c’era un ragazzotto altissimo dal fisico asciutto e dallo sguardo sicuro. Dopo lo spilungone c’era un’altra ragazza, dai capelli ricci. Oltre lei non vedeva più nessuno.
-“A proposito, Ravenhill, che hai fatto al volto?”-
Clove si tastò la faccia, sfiorando con le dita i lividi sugli zigomi, andando a cercare lo spacco sul labbro inferiore.
Merda.
-“Mi sono fatta male mentre mi allenavo, signore”- disse il Corvo a muso duro. Radius scoppiò in una sonora risata. –“Ahahaha, e contro chi stavi lottando? Contro un cinghiale?”-. I suoi compagni soffocarono un risolino divertito. La ragazza aveva i nervi a fior di pelle, strinse il pugno attorno ai coltelli ferendosi la mano. Il sangue della giovane si fuse con quello degli animaletti che aveva trucidato quella mattina, gocciolando sul pavimento con un ticchettio appena percettibile.
-“Bene, allora, in queste sessione siete tre ragazze e cinque ragazzi, le altre due cadette lavorano già in coppia insieme, quindi dobbiamo testare il tuo livello e poi assegnarti un compagno adatto. Cominciamo, cadetto Kingsley!”-
Lo spilungone fece un passo avanti. –“Ravenhill, ora affronterai Kingsley per un confronto, per testare le tue capacità. Il mio collega Spartacus mi ha parlato molto bene di te, spero tanto che non si sia sbagliato. Tutti gli altri, alle postazioni, cominciate a scaldarvi! Voi due venite con me!”-

L’allenatore scortò la coppia di ragazzi in una pedana col fondo leggermente imbottito. Corpo a corpo. Clove venne posta di fronte all’altissimo ragazzo, ad un paio di metri di distanza.
-“Ok, le regole sono semplici. Uno: il primo che viene messo al tappeto ha perso. Due: non si possono provocare ferite o contusioni gravi, dato che è solo un test d’ingresso. Tre: in base al risultato verificherò con chi è meglio mettere in coppia il cadetto Ravenhill, mentre Kingsley si limiterà a cambiare compagno.”-
Il ragazzotto fissava il Corvo con aria di superiorità. L’unico desiderio della ragazza in quel momento era quello di levare quello stupido sorriso dalla faccia dello spilungone. Ridusse gli occhi a due fessure.
-“Iniziamo!”-
La ragazza fece uno scatto in avanti, facendo presa sul collo di Kingsley e stendendolo in neanche 10 secondi, puntandogli un coltello alla gola. Leggeva negli occhi dell’avversario la paura. Clove sorrise vedendo il ragazzotto che prima si pregustava la vittoria steso al tappeto con una lama fredda premuta contro la sua pelle, pronta a recidergli la giugulare.
Radius era stupito. –“Ok , stop. Molto bene Ravenhill, non mi aspettavo una tale abilità da parte di una ragazzina così…piccola.”-. Esatto,
Clove era piccola. Tutti gli altri ragazzi avevano minimo sedici-diciassette anni, lei ne avrebbe compiuti quindici solo fra un paio di mesi.
Il Corvo si scostò dalla sua preda, ora visibilmente scossa, che si rimise in piedi a fatica.
-“Vai via Kingsley, sono deluso! Grant! Vieni qua!”-
Inutile dire che questo scontro fu l’esatta replica di quello precedente.
Anche il terzo incontro, con un tale di nome Hurley, non fu particolarmente degno di nota.
E menomale che questi qua erano il meglio del meglio!

L’allenatore cominciava a chiedersi da dove quella ragazzina col viso coperto di lividi trovasse tutta quella forza e quella sete di sangue.
-“Bene! Shifter, avvicinati!”-
Il ragazzo in questione si presentava decisamente meglio degli altri due. Aveva i capelli corti e castani e gli occhi color nero pece. Aveva spalle possenti ed un collo taurino. Ma il Corvo non si sarebbe fermato, lei doveva arrivare agli Hunger Games e doveva vincerli. Doveva farlo per sua mamma, per il suo defunto papà, per trascinarsi via dalla miseria in cui vivevano. L’avversario fece scrocchiare le nocche delle mani mentre squadrava la ragazzina. Attraverso la tuta Clove poteva percepire i muscoli guizzanti del ragazzo.
-“Andate.”-
Inutile dire che Shifter era forte come un toro, ma agile come una lumaca paralitica. Appena il ragazzo sferrò un pugno non fu difficile per la ragazza schivarlo, così come il calcio successivo. Clove con un agile salto scavalcò il ragazzo, andando a colpire la parte alta della schiena. L’avversario si voltò di scatto afferrando Clove per un braccio e sbattendola contro il suo ginocchio. La ragazza si divincolò in fretta e sferrò un colpo al fegato di Shifter, stendendolo subito dopo con la stessa identica presa con cui aveva messo al tappeto gli altri tre. Solo che stavolta, se Radius non l’avesse fermata, il coltello della ragazza avrebbe tagliato la gola all’avversario.
-“Basta così! Ravenhill, non ho parole. Evidentemente il mio collega non si sbagliava. Ok, sono costretto a farlo, spero solo che per te non sia troppo difficile!”-. Clove si tirò su sistemandosi la divisa e pulendo il coltello sulla coscia.
-“Vieni qui, Saber!”-
Un ragazzo si avvicinò dal fondo della palestra. I capelli corti e biondi ondeggiavano leggermente ad ogni passo. In una mano reggeva una spada.

Clove aveva sentito parlare di lui. In Accademia girava voce che fosse il migliore, la crème de la crème di tutti gli allievi. Spartacus le aveva detto che se voleva contare davvero qualcosa avrebbe dovuto come minimo tentare di eguagliare il suo livello. Tutte le ochette del suo precedente corso sbavavano dietro a quel ragazzo come dei cani affamati davanti ad una bistecca. Era costantemente circondato da ragazzine urlanti che si sbranavano a vicenda per potergli parlare. A lei non era mai interessato, si poneva solo come un ostacolo per il raggiungimento del suo obbiettivo. Confrontarsi con lui per dimostrare che lei non era solo una ragazzina dal viso pallido e dal naso lentigginoso, questo però l’aveva sempre desiderato. E ora lo stava per fare, doveva batterlo, doveva vincere.
Si posizionò davanti a lei, sorridendo beffardo.
Aspetta un po’ , caro mio, e ti leverò quel sorrisetto dalle labbra, anche a costo di strappartele via con il coltello.
Clove piantò le iridi verde scuro negli occhi color ghiaccio di lui . Sentiva le tempie che pulsavano e tutto il suo corpicino magro era teso in un unico fascio di nervi.
-“Iniziate!”-

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IL KACTUS DI KRZYZ
Mio dio. Un mese. Un maledetto mese che non aggiornavo D:
Chiedo umilmente perdono per questo, mi ero completamente dimenticata dell'esistenza di questa fic e meriterei quattro vergate da parte di tutti voi per il tremendo ritardo!
Allora, spero che questo capitoletto vi sia piaciuto! Mi farebbe piacere sapere che ne pensate °u°
I cognomi? Quelli li ho scelti a caso, a perte quello di Cato (Saber significa sciabola)! :D
Grazie mille a Julia Duchannes, che ha recensito i primi 2 capitoli, alla preferita e alle 3 seguite!
Un abbraccio!
Saluti dal Kactus!
_Krzyz

 

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