Be my fairy tale

di Kiki87
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Premessa per la lettura: tra gli avvertimenti ho selezionato OOC, riferendomi alla caratterizzazione dei personaggi: non conoscendo nulla del passato di Hunter e avendolo visto così poco in azione, non si pone molto il problema; discorso diverso per Brittany la cui personalità nelle stagioni ha accentuato aspetti molto diversi (e a mio modesto parere spesso contraddittori). In alcuni  aneddoti vi ricorderà la ragazza di Glee, probabilmente, ma avrà un background completamente diverso e da lì la decisione di catalogarla come OOC.
Ringrazio di cuore la meravigliosa @therentgirl che mi ha dato un pretesto felicissimo per modificare questa introduzione, per la meravigliosa copertina che ha realizzato, ispirata a questa fanfiction. Se già è un’emozione vedere questo accostamento con la scelta di due fotografie perfette (nel caso di Brittany a coglierne l’essenza più innocente e infantile, nel caso di Hunter/Nolan usando una delle mie immagini preferite), il tutto diventa persino più meraviglioso  scorgendo la location ideale e una frase che è perfetto sunto di questa mia “favola”.
Sono ancora commossa e non smetterò facilmente di contemplare questa immagine *-*

 
 
  huntany
 
 
 
A chi crede nelle favole
e attende il suo “e vissero per sempre felici e contenti”.
A chi non si crede una Principessa,
perché scorga meglio il proprio riflesso.
A chi ancora cerca il suo Principe Azzurro,
perché talvolta è mascherato ma l'incanto
può sempre sprigionarsi.
 
 
“Le favole sono molto più di semplici racconti della buonanotte,”
continuò l'insegnante. “La soluzione a quasi tutti i problemi immaginabili,
può essere dedotta da una favola. Le favole sono lezioni di vita, camuffate da
personaggi e  situazioni pittoresche”.
(The Land Of Stories: The Wishing Spell” - Chris Colfer).[1]

 
 
 
Prologo.
New York.
 
La sua voce era una dolce rassicurazione: era il suono più piacevole che si potesse ascoltare prima di lasciarsi avvolgere dal torpore del sonno. Era come se tra loro vi fosse una magia: le parole recitate si traducevano in una piacevolissima ninna nanna parlata a cui era semplice abbandonarsi.
Chiudeva gli occhi e ogni singola volta, a poco a poco, i suoni sfumavano lentamente fino al nulla.
A volte si trovava nel castello di Biancaneve, a volte nella casetta dei nani in mezzo al bosco; a volte nella libreria preferita di Belle; nella cameretta in mansarda di Cenerentola o persino sulla Torre di Raperonzolo. Ognuna di loro era una principessa e sapeva che le avrebbero insegnato qualcosa, seppur ancora non fosse abbastanza grande da considerarsi una di loro.
Ma un giorno, le ripeteva la stessa melodica e soffusa voce, anche lei lo sarebbe stata e, finalmente, avrebbe compreso tutto.
“Anche io ho un Principe?” la vocina pigolante aveva interrotto la narrazione: il povero e vecchio padre di Belle stava vagando tra i boschi in una brutta notte di temporale, cercando un rifugio confortevole per la notte.
Suo padre, un vago sorriso sulle labbra e il viso inclinato di un lato, aveva socchiuso il libricino e l'aveva guardata: gli occhioni azzurri scintillavano alla ricerca di una risposta, le labbra schiuse ma l'espressione attenta a coglierne le parole per comprenderne completamente il significato.
Aveva sorriso, William, e Brittany comprese, apparentemente senza motivo, che quel particolare sorriso lo avrebbe ricordato per tutta la vita. Quasi come un dipinto da tenere sulla mensola del camino, l'angolo più luminoso della stanza nel quale rifugiarsi.
“Certo, ogni principessa ne ha uno. Deve solo crescere, moooolto lentamente, prima di incontrarlo” le aveva spiegato, parlando in un sussurro ed enfatizzando su come ciò non sarebbe avvenuto molto presto.
La risposta parve compiacerla ma il sonno sembrava completamente dimentico quella sera: al contrario, la conversazione sembrava aver catturato la sua attenzione, a dispetto della curiosità circa la sorte del povero padre di Belle, laddove la minaccia dei lupi rendeva la sua permanenza nel bosco ancora più pericolosa.
“E come si fa a sapere che lo hai trovato?” era stata la seconda domanda che aveva fatto impensierire suo padre.
Si era appoggiato maggiormente allo schienale della sua poltroncina e aveva scrutato la bambina, il viso inclinato di un lato mentre lo sguardo sembrava perso in un punto indefinito.
“Non esiste un solo modo: ognuno lo capisce quando è il momento giusto.” aveva esordito e aveva visto le sopracciglia bionde corrugarsi appena, la fronte incresparsi nel tentativo di seguirne il discorso. “Che sia il suo sorriso, o il suo sguardo o le farfalle nello stomaco” aveva allungato una mano verso il pancino della bambina, facendola ridere per il solletico.
Aveva sospirato l'uomo e si era di nuovo fatto serio. “Ma quando sarà il tuo momento, sarà impossibile non sentirlo qui dentro”. Le aveva indicato il cuore e la mano della bambina si era appoggiata contro quel battito regolare.
Non parve del tutto convinta. O almeno, sì, le sue erano belle parole ma c'erano ancora tante domande che le ronzavano nella mente.
“E dov'è adesso il mio principe?” domandò sospettosa. Aurora non era già destinata a Filippo, quando era ancora una neonata e lui aveva appena sette anni? Lei avrebbe compiuto sette anni la settimana dopo, dopotutto, o forse sette anni prima avevano già deciso per lei?
Suo padre aveva scosso il capo, il sorriso ancora sulle labbra. “Scommetto che lui sta già dormendo” l'aveva ammonita dolcemente, pizzicandole il naso. Aveva di nuovo aperto il libro ma l'aveva indotta a stendersi dopo aver posto le mani sulle sue spalle con una lieve e delicata pressione. “Sai chi è più importante del principe in persona?” le aveva chiesto e Brittany sgranò gli occhi.
“Chi?!” chiese evidentemente interessata.
“Il padre della principessa, ovviamente” era un sorriso più ironico quello che curvava le labbra di William e Brittany rise, complice di quell'esclamazione più scherzosa.
“Il re?”.
L'uomo annuì. “Il tuo re ti ordina di addormentarti  mentre riprende la lettura”.
La sua voce parve più distante rispetto all'inizio del racconto ma era proprio quell'intonazione soave e conosciuta che la fece rilassare e socchiuse lentamente gli occhi: cercò di immaginare le scene che lui raccontava, fino a quando la stanchezza non ebbe la meglio.
Non riusciva più a sentirne le parole, stava già fluttuando verso nuvole colorate e unicorni alati quando le labbra dell'uomo si posarono sulla sua fronte.
“Cerca un principe diverso da me”.
 

 
~
New York, dieci anni dopo.
 
 
Scosse il capo, le labbra serrate in una smorfia mentre carezzava la copertina del libro. Un libro mai concluso: ne conosceva la vicenda per sommi capi ma, anche molto tempo dopo quella notte, non aveva mai desiderato aprirne nuovamente le pagine. Si limitava a sfiorarne la copertina e, ogni tanto, lo schiudeva per soffermarsi sul frontespizio e leggerne la dedica impressa. L'inchiostro della penna stilografica sembrava sbiadirsi col tempo ma erano incise nella sua memoria. Ciononostante continuava a leggerle, quasi sperando che una volta o l'altra avrebbe compreso il loro arcano significato.
Sfiorava il punto in cui le sue grandi mani avevano impresso quelle lettere e quasi, socchiudendo gli occhi, riusciva a sentirne nuovamente l'eco della voce.
Ancora una volta, le dita tremanti, lasciò cadere lo sguardo sulla pagina.
 
Perché questo libro ti guidi alla ricerca del tuo principe. Un principe che questo re avrebbe voluto al tuo fianco. Perché ti ricordi che qualunque cosa accada, questo vecchio re non smetterà mai di amarti e tutto andrà bene. Te lo prometto.
Non smettere di leggere le nostre favole.
 
 
 “Britty Woman[2], ancora non hai finito con la valigia?”. La voce di sua madre, Shirley, la fece trasalire.
Si volse ad osservarla, Brittany: per quanto suo padre si fosse ostinato a chiamarla “principessa”, non era mai riuscita ad attribuirsi quel titolo. Non quando vi era un'unica figura fiabesca ai suoi occhi ed era proprio la donna che le stava di fronte: aveva sempre un'innata eleganza nelle movenze (sicuramente dovute al suo passato di ballerina) che ben si confaceva a quella dei lineamenti pregiati. Lo sguardo azzurro che brillava, spesso per grazia del sorriso più giocoso e dolce che le sfiorava le labbra. Il solo averla vicino lasciava scaturire il buon umore per quella sua esuberanza e allegria che sapeva conquistare l'attenzione e l'affetto di chiunque avesse attorno.
A volte immaginava quanto difficile dovesse esser stata la sua vita: la gravidanza imprevista quando era solo una liceale con il sogno di divenire una ballerina professionista, le nozze con un laureando in giurisprudenza e... tutto ciò che era seguito. Ma anche nei momenti più difficili, sembrava nascondere il suo dolore e mostrarle quel sorriso nel quale avrebbe sempre trovato conforto e fiducia.
Tenne il libro nascosto dietro la schiena e lo lasciò cadere nella scatola adagiata sul letto. Sorrise, il viso inclinato di un lato e uno sguardo appena più accattivante, come ogni qual volta che, da bambina, volesse sfuggire a qualche punizione, in seguito ad un guaio che spesso coinvolgeva un vaso di biscotti strategicamente appostato su uno scaffale alto della credenza.
“Ho quasi finito”.
La donna aveva annuito, lo sguardo aveva vagato sugli scatoloni nei quali avevano già impacchettato la maggior parte dei loro oggetti. Si era mossa in sua direzione e le aveva sfiorato la guancia con una carezza.
“So che sei preoccupata” aveva sussurrato e Brittany era trasalita seppur avrebbe dovuto sapere che fosse impossibile nasconderle la verità. “Ma non devi preoccuparti, Colorado Springs ti piacerà: avremo una nuova vita e Neal si prenderà cura di noi, lo sai, vero?” era parsa ansiosa di averne una risposta sincera e, ancora una volta, Brittany seppe che sua madre sarebbe stata disposta a sacrificare tutto. Un suo solo dubbio o timore e non avrebbe esitato a mettere da parte le sue esigenze o i suoi sentimenti e con lo stesso sorriso. Ma, altrettanto intensamente, sapeva di non poterglielo permettere. Non un'altra volta.
“Farei di tutto perché tu possa essere felice” aveva sussurrato in risposta, uno scintillio più dolce nello sguardo e Shirley l'aveva stretta tra le braccia.
Brittany aveva affondato il viso contro la sua spalla, lo sguardo velato nell'abbracciare le pareti di quella camera che l'avevano accompagnata fino a quel giorno.
Bastava crederlo, tutto sarebbe andato bene.
 
 
~
Colorado Springs.
 
Accarezzò la targhetta dorata, quasi faticasse a credere a ciò che stringeva tra la mani e ciò che significava trovarsi in quella stanza dalle ampie finestre che si affacciavano su campi d'addestramento. Era tutto silenzioso ma da lì a pochi giorni, l'Accademia sarebbe pullulata di studenti e la tromba avrebbe sancito i momenti peculiari della giornata.
Tutto sarebbe iniziato da lì e non soltanto la svolta nella sua carriera e la nomina di Preside. Uno sguardo all'orologio e un sorriso ne sfiorò le labbra prima di osservare l'anello e la promessa che esso racchiudeva in sé. Poche ore e pochi mesi e la sua vita sarebbe completamente cambiata.
Sospirò nel carezzare la cornice con la fotografia della fidanzata.
Si riscosse al sentire bussare alla porta.
“Avanti” sulla soglia vi erano un uomo e un ragazzo: entrambi alti e dal fisico possente, forgiato dall'allenamento quotidiano. Pur non indossando (ancora) la divisa, sembravano avere un particolare contegno nella postura dritta e vi era un'aria di riserbo sul volto del ragazzo i cui lineamenti apparivano rigidi. Un sorriso sfiorava, invece, le labbra dell'uomo, ammorbidendone i tratti. Avevano la stessa mascella pronunciata e lo sguardo di quella sfumatura chiara di verde.
Neal sorrise e si alzò dalla poltrona, facendo loro cenno di entrare e affrettandosi a circumnavigare la scrivania per stringere la mano dell'uomo e appoggiargli la mano sulla spalla.
Erano entrambi più alti di Neal: se con il giovane la differenza era di pochi centimetri, la figura dell'uomo sembrava dominare la stanza; probabilmente di primo acchito non si sarebbe creduto che Neal e Jonathan fossero coetanei. Se anche Neal avesse avuto lo stesso addestramento, era sempre stato più smilzo dell'altro uomo ma vi era anche un'evidente differenza di contegno. Con quel sorriso più gioviale e sbarazzino, infatti, Neal sembrava un eterno adolescente, pur avendo superato i quarant'anni. Il contrasto con l'aria compunta e seria del ragazzo che aveva di fronte era quasi stridente.
Dopo la stretta di mano, i due uomini si erano concessi un abbraccio più fraterno.
“Jonathan Clarington, è un piacere rivederti, finalmente”.
“Neal, finalmente hai accettato” ricalcò l'uomo con un sorriso: lo sguardo verde guizzò verso la targa sulla scrivania di mogano e Neal seguì il suo sguardo prima di annuire.
“Sì, è il momento di stabilizzarsi anche per me: Shirley e io ci sposeremo l'anno prossimo” lo informò e l'uomo sembrò colto da un lampo di sorpresa ma era evidente dal sorriso quanto quella notizia lo rendesse sinceramente felice.
“Congratulazioni, è una notizia meravigliosa: si trasferirà qui, quindi”.
Uno scintillio emozionato baluginò nello sguardo di Neal. “Sì, lei e sua figlia prenderanno il volo questo pomeriggio: non vedo l'ora di presentartele”.
Aveva continuato a sorridere Jonathan, il viso inclinato di un lato e le sopracciglia inarcate in un'espressione più complice e divertita. “Una figlia adolescente: non ti invidio per nulla”.
“Neppure dovresti: devo desumere che questo giovane uomo sia tuo figlio. Sembra passato un secolo dall'ultima volta che ci siamo visti” rispose Neal e, per la prima volta, si volsero entrambi ad osservare il ragazzo che era rimasto rispettosamente un passo indietro. Questi non esitò ad avvicinarsi: le sue labbra sembrarono curvarsi lievemente in una parvenza di sorriso ma i lineamenti sembravano ancora granitici. Quasi fossero stati scalfiti in quel cipiglio pensieroso.
Aveva sorriso Jonathan, una traccia di orgoglio mentre il giovane allungava la mano verso Neal.
“Signore” lo aveva apostrofato, il tono formale, le sopracciglia appena contratte ma Neal gli sorrise sbarazzino e ne strinse la spalla.
“Puoi chiamarmi Neal: l'anno scolastico non è ancora iniziato ma non dovrebbero esserci formalismi tra noi. Ero presente il giorno in cui sei nato”.
Nuovamente le sue labbra si erano increspate in quello che avrebbe dovuto somigliare ad un sorriso ma lo sguardo era distante, era parso persino irrigidirsi alla menzione di un ricordo così personale. L'attimo dopo annuì. “Sono venuto a ringraziarla per aver confermato il mio ruolo: non la deluderò” riconobbe nello sguardo verde la stessa determinazione che spesso aveva scalfito quello del padre e Neal annuì.
“Ne sono certo, sarai un ottimo Capitano, come lo era tuo padre d'altronde”.
Aveva annuito nuovamente il ragazzo, ma pareva ansioso di lasciare la stanza. “Con permesso, mi congedo, Signore”.
“Permesso accordato” rispose Neal, un vago divertimento nelle iridi. “Lieto di averti rivisto, Hunter” aggiunse ma il giovane aveva soltanto fatto un vago cenno ad entrambi e si era voltato: con ampie falcate aveva attraversato la stanza e, poco dopo, si era chiuso la porta alle spalle, lasciandoli soli.
“Devi esserne fiero” commentò Neal.
“Lo sono,” fu la spontanea risposta del padre. “ma sempre più spesso mi domando se non abbia proiettato su di lui le mie aspettative.” un lampo di sorpresa aveva attraversato lo sguardo di Neal e Jonathan stesso sembrò sorpreso di aver realmente pronunciato quelle parole. Scosse appena il capo e sorrise, quasi a sminuire l'importanza di quanto appena detto.
“Non fraintendermi: è un ottimo soldato e un ottimo figlio ma a volte temo ne abbia rimesso in spensieratezza. Più lo guardo e più mi sembra un uomo cresciuto fin troppo in fretta” la voce era parsa spegnersi sul finire del discorso e lui e Neal avevano sospirato. Seppur nessuno ne avesse fatto esplicita menzione, era evidente che il loro pensiero comune fosse volto ad una terza persona.
“Non dire così: sei stato un padre eccezionale e poi” aveva cercato di smussare i toni, il sorriso nuovamente giocoso. “conto su di te per i consigli da padre... patrigno, insomma” un vago cenno di imbarazzo nella specificazione e Jonathan aveva sorriso incuriosito.
“Come vanno le cose con la figlia acquisita?”.
Aveva sospirato, Neal. “Amo Shirley con tutto il mio cuore e Brittany è una ragazza molto dolce e molto legata a sua madre. Sa che non la ferirei mai ma è come se mi tenesse sempre a distanza: naturalmente non voglio forzarla e aspetterò i suoi tempi,” aveva precisato seppur un'ombra ne avesse oscurato lo sguardo. “ma credo che, malgrado tutto, continuerà a considerare William il suo unico e legittimo padre”.
Aveva annuito, Jonathan. “Devi solo aspettare che sia lei a fare il primo passo. E di questo William non si è più saputo nulla?”.
“No,” aveva scosso il capo, Neal e la mascella si era contratta. “mai una lettera o un tentativo di contattarle: se n'è semplicemente andato” era evidente il disprezzo nella sua voce ad alternarne i lineamenti e anche l'altro uomo aggrottò le sopracciglia.
“Che razza di uomo può agire in tal modo e reputarsi tale?”. Era stata l'aspra critica.
“Spero solo che, prima o poi, Brittany mi dia un'occasione” era stato il commento più sospirato di Neal.
 

 
~
 
Aveva contemplato le pareti della nuova camera con un sospiro: malgrado tutto il tempo impiegato  a svuotare gli scatoloni e decorarla perché fosse rassomigliante a quella di New York, non era certa che sarebbe stata la stessa cosa. Lo stesso ambiente personale nel quale sentirsi a casa.
Carezzò delicatamente il micio tigrato: Lord Tubbington si sfregò contro il suo mento ed emise un soffuso miagolio che la giovane interpretò come una sorta di consolazione. Ne baciò il musetto.
“Andrà tutto bene” gli disse, sfiorandone il capo tra le orecchie e continuando a stringerlo contro di sé, confortata dal suo calore e dalla sua presenza. “La mamma è  felice e lo saremo anche noi” sembrò voler convincere se stessa.
Depositò delicatamente il micio sul proprio letto e si alzò: Shirley e Neal l'attendevano in salotto. Lo sguardo si era concentrato sull'uomo che sedeva accanto alla mamma: un braccio avvolto intorno alle sue spalle e lo sguardo adorante nel rimirarla e quel sorriso speciale che lei esibiva soltanto per lui. Persino in una scena così quotidiana era evidente quanto fossero innamorati.
La prima impressione che aveva avuto di Neal era stata quella di un orso bruno da brava amante degli animali. O qualcosa di simile: era alto e, con la divisa, faceva davvero impressione ma aveva i capelli quasi sempre scombinati. La barba le pungeva la guancia quando cercava di baciarla ma aveva uno sguardo dolce e il sorriso da bambino. Ispirava un'innata simpatia ma spesso si sentiva a disagio quando erano soli e non sapeva come rompere il silenzio, se non con qualche chiacchierata superficiale e casuale.
“Britty Woman, Neal ha splendide notizie per te” aveva esordito la madre quando l'aveva scorta e Brittany si era seduta sul divano, in attesa.
Le aveva sorriso anche Neal, prima di volgersi alla donna. “Diglielo tu” sembrò esortarla ma ella scosse il capo, facendo mulinare i lunghi capelli biondi.
“No, è tuo dovere, Preside” gli ricordò, uno sguardo più allusivo e divertito e Neal tornò ad osservare la ragazza: improvvisamente non sembrava più molto sicuro mentre Brittany silenziava, educatamente in attesa di scoprire le cosiddette splendide notizie.
“D'accordo” era intervenuta la madre, allegramente. “Britty Woman, ricordi che Neal è diventato Preside di un'Accademia militare? Una delle più famose di Colorando Springs?[3]”.
Aveva annuito, Brittany: era quello, dopotutto, il motivo del loro trasferimento ma non riusciva a comprendere perché avrebbe dovuto sentirsi coinvolta, tanto meno che cosa vi potesse essere di meraviglioso per lei. A parte la felicità della madre, aggiunse tra sé, morsicandosi appena il labbro per un remoto senso di colpa.
“E visto che dovevamo cercare un college per te: che ne diresti di frequentare la sua Accademia?”.

 
To be Continued...
 
 
 
 
Credo sia doveroso ringraziare chiunque sia arrivato alla conclusione di questo prologo: ebbene sì, se ho già sperimentato una versione della coppia che si potesse svolgere nella versione ufficiale di Glee (e colgo l'occasione per ringraziare nuovamente chi ha letto e recensito la mia precedente one shot, “Addicted”); quest'estate ho cominciato a tessere le trame di un altro intrigo che avesse principale svolgimento a Colorado Springs.
Spero che questo prologo possa incuriosirvi abbastanza da continuare la lettura, ma ecco qualche anticipazione di quanto accadrà nel prossimo capitolo:
 
“Mi stavo nascondendo dal mio Capitano, è un tipo orribile!”
“Posso averla di un altro colore, per favore?” “Magari rosa e coi glitter?” “Rosa sarebbe bellissima ma senza glitter”. “Prendi la tua divisa e sparisci”.
“La nostalgia passerà prima o poi e se non passasse, dovrai fingere”.
 
Angolo dei presta-volto: sono solita, quando scrivo, immaginare le scene, ragion per cui mi sono facilitata nell'individuare dei volti a ricoprire i ruoli principali tra i personaggi inventati ed ecco le mie scelte, qualora vi aiutasse a visualizzare meglio gli eventi:
Gwyneth Paltrow come Shirley 
 
William Baldwin nella parte di William Pierce 
 
Jude Law nella parte di Neal Johnson. Ammetto che è stata la scelta più conflittuale, perché avevo immaginato molti altri volti ma alla fine, sia per fisicità che per simpatia, credo sia l’alternativa migliore e scusate se è poco :D Neal
 
Ed ecco la felice coppietta :D Neal & Shirley

E, infine, ma non per importanza (io già lo adoro *-*), Sasha Roiz nella parte di Jonathan Clarington
 
Grazie ancora a tutti dell'attenzione e vi auguro un buon weekend :)
Kiki87
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


[1]    Non ho (ancora) comprato la traduzione in italiano del libro di Chris, per cui è una traduzione personale e a senso di quelle righe; la traduzione può differire (sicuramente) da quella “originale” ma non mi sono discostata dal significato della frase :)
[2]    Se non si fosse capito, è un nomignolo scherzoso che si rifà a “Pritty Woman” ma usando Britty, come diminutivo del nome Brittany :D
[3]    In effetti la città è nota per le sue Accademie ed è l'unica notizia degna di interesse che Murphy ci ha fatto sapere circa il passato di Hunter. Ho cercato di documentarmi al riguardo ma non è stato molto semplice, ragion per cui ho preferito non citare nomi di Accademie e basarmi soprattutto sulla mia fantasia ed esigenze di copione, ogni volta che si alluderà all'Accademia stessa :D

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


“Ma qui ci si sente soli!” disse Alice con voce malinconica; e al pensiero della propria solitudine due lacrimoni le scesero per le guance.
“Oh non fare così!” esclamò la povera Regina, torcendosi le mani dalla disperazione. “Pensa che sei una bambina grande. Pensa a quanta strada hai fatto oggi. Pensa a che ore sono. Pensa a quello che vuoi ma non piangere! [...]”.
(“Alice nel paese delle meraviglie”, Lewis Carroll).


Capitolo 1


Quelle parole sembrarono riecheggiare nel silenzio del salotto e Brittany ebbe la sensazione di star vivendo in un sogno, qualcosa di surreale. Assurdo.
Soprattutto se si soffermava ad osservare le espressioni dei due adulti: il sorriso entusiasta di Neal, che sembrava persino più allegro del solito, e quello altrettanto emozionato ma fiducioso di sua madre, quasi quella proposta fosse stata la soluzione ideale ai suoi dubbi e tormenti. Una sicurezza che era proporzionale all'incredulità della giovane la cui mente sembrò spegnersi. Letteralmente.
“L'Accademia?” ripeté, la voce più tremula nel cercare un appiglio nei loro sguardi: poteva comprendere che Neal fosse più che felice, visto il suo passato in quella stessa istituzione; ma non come sua madre potesse ritenerlo adatto a lei e al tipo di vita che aveva avuto. Almeno fino a quando non era arrivato Neal.
Quasi avesse letto i suoi pensieri o ne avesse intuito i dubbi, Shirley le aveva sorriso ancora più incoraggiante, sporgendosi dal divano a cingerle la mano. “E' una magnifica idea: tu e Neal passerete molto più tempo insieme e potrete conoscervi meglio”.
“Ma io non voglio andare in guerra” era stato il pigolio che le era uscito dalle labbra e quasi sembrò ritirarsi nella poltroncina, mentre lentamente la tensione nella stanza sembrava dissiparsi. Se di primo acchito la coppia sembrò congelarsi sul posto, l'attimo dopo risero entrambi.
Shirley la esortò dolcemente ad alzarsi e a sedere tra loro: Neal fu lesto a spostarsi di lato. Per un attimo parve intenzionato ad appoggiare la mano sulla spalla della giovane, ma sembrò cambiare idea. Non mancò, tuttavia, di rassicurarla a sua volta.
“E' un college come gli altri, a parte i metodi e l'addestramento fisico. Ma abbiamo molte altre attività che ti saranno più familiari: un Glee Club, un club di scrittura creativa e molte altre cose che potrebbero piacerti. Naturalmente ci sono le materie più importanti, ma alcune potrebbero essere diverse dal tipico programma: storia per esempio”.
Oh, meglio così. Mai piaciuta la storia. Fu lo spontaneo pensiero della ragazza la cui ansia sembrava essersi notevolmente ridotta alla consapevolezza che non stavano per mandarla in qualche missione pericolosa e che, a parte l'allenamento quotidiano (addominali e corsa? Poteva anche farcela), ci sarebbe stata la possibilità di continuare a praticare la sua passione per il ballo.
Tuttavia, c'era ancora qualcosa che non la convinceva: incrociò le braccia al letto e raggrinzò leggermente il naso, guardando dall'uno all'altra. S’imbronciò appena, un cipiglio più infantile. “Ma credete che io mi comporti male?” aveva chiesto nuovamente con un pigolio. In fondo, non era la tipica minaccia delle madri esasperate nei confronti dei figli disobbedienti, quella di iscriverli in una scuola di quel genere?
Neal aveva sorriso di quel sorriso dolce e gentile e aveva allungato la mano a pizzicarle la punta del naso: c'era sempre qualcosa di complice in quel gesto e spesso Brittany si era domandata se non avesse dovuto abbracciarlo o ringraziarlo per essere sempre così disponibile e per rendere la mamma così felice. Eppure qualcosa le diceva che lui avrebbe capito cosa provava. E che quando sarebbe stato giusto, sarebbe riuscita ad abbracciarlo con la stessa spontaneità con cui ricercava spesso il calore del corpo di sua madre.
“Certo che no,” le rispose, prontamente, per poi inclinare il viso di un lato, parlando con voce più complice. “ma sarei immensamente onorato” e a dimostrarlo, si era portato la mano al petto “se tu provassi a frequentarla per un semestre. Se poi non ti piacerà, ovviamente non ti obbligheremo”.
Bastava osservarlo negli occhi per comprendere che lui sarebbe stato davvero entusiasta alla prospettiva della sua permanenza; ma altrettanto era credibile che non avrebbe mai fatto quella proposta con l'intento di metterla in una brutta situazione e che sarebbe stato comprensivo e gentile. Come sempre.
Ma restava il fatto che, aldilà di quei pensieri, una vocina nella sua testa era allarmata e continuava a dirle che avrebbe dovuto rifiutare subito. Prima di illuderli entrambi e prima di trovarsi a stringere una promessa che non era convinta di poter mantenere. Neppure per la mamma.
“Che ne dici, tesoro?” la incalzò quest'ultima.
Brittany la guardò per un lungo istante nel quale si soffermò sul sorriso che ne faceva brillare gli occhi. Si era domandata, ancora una volta, come avrebbe potuto esprimere il suo disagio o i suoi dubbi? Come avrebbe potuto negarle, per la prima volta, un favore che avrebbe potuto rendere la vita familiare ancora più piacevole per entrambi? Come avrebbe potuto essere così egoista, quando era evidente che entrambi prendessero decisioni e si consultassero anche e per amor suo. E se entrambi erano convinti che avrebbe potuto farcela...
Ciò che era indubbio era che sua madre non era mai stata così serena e non avrebbe permesso che quel sorriso sparisse.
Si decise ed annuì. “Sarà un piacere, Neal, grazie tante”.
Lasciò che la madre l'abbracciasse e che Neal, dopo aver allargato le braccia in (vana) attesa, le stringesse formalmente la mano. Neppure lo sentì fare un commento su un brindisi per festeggiare la splendida notizia e neppure sentì sua madre fare un commento più malizioso, appena Neal fu entrato in cucina, alludendo a “chissà quanti bei ragazzi in divisa: potrei spacciarmi per tua sorella maggiore una volta o l'altra”.
Continuò ad osservarli per tutta la serata, rise con loro ma, ancora una volta, si sentì semplice spettatrice della sua vita. Forse era questo che significava crescere e prendere decisioni non soltanto per la propria felicità.
Andrà tutto bene, ripeté tra sé quelle parole impresse da suo padre con l'inchiostro.
Rilasciò il respiro.

~

Rimirò la struttura con occhi sgranati: quel luogo era assolutamente... spaventoso e il fatto che i nuvoloni scuri, all'orizzonte, promettessero pioggia o temporale, non migliorava l'atmosfera che si respirava al suo camminare verso la costruzione. L'edificio era imponente e di un colore così triste ed amorfo (niente a che vedere con le belle università che si vedevano nei telefilm, magari con dei parchi immensi in cui sedere a bere caffé o fare compiti all'aperto) che sembrava più simile ad una prigione. Non c'erano neppure quei tipici oggetti che rendevano una casa presentabile: pareti colorate, un giardino fiorito o un dondolo all'esterno su cui sedersi a rimirare le stelle. Era circondato da immensi campi – rabbrividì – d'addestramento predisposti per la corsa, percorsi più elaborati che comprendevano anche ostacoli e strane attrezzature di cui Brittany avrebbe voluto continuare ad ignorarne l'esistenza. In lontananza riuscì a scorgere un plotone di giovani, in orribili tute verdi con chiazze color marrone e gialle, che stavano intonando una strana canzone mentre correvano (no, non sembrava una delle filastrocche che conosceva a memoria); più lontano un altro gruppo era impegnato in uno di quei pericolosi percorsi, scalando alture o procedendo a carponi sotto del filo spinato.
Si morsicò il labbro, prima di scuotere il capo: ovviamente quelli erano esercizi destinati esclusivamente a coloro che volevano davvero entrare nell'esercito. E a quanto pareva, non erano neppure pochi.
Prese un profondo respiro e riprese il cammino, trascinando il trolley: la tintura rosa shocking dello stesso spiccava in modo quasi accecante rispetto ai colori tetri e smunti del paesaggio, così come la sua mise dai colori estivi. Mano a mano che si avvicinava all'edificio, ed ignorava gli sguardi che stava cominciando ad attirare tra i giovani che correvano lì intorno, cominciò ad insinuarsi il dubbio che vi fosse stato un qualche equivoco. Sì, insomma, aveva capito che si trattava pur sempre di una scuola che usava dei metodi più rigidi rispetto ai college tradizionali; ma non aveva ancora scorto alcuna ragazza. O forse vi era una caserma tutta al femminile con pareti rosa e un bel campo fiorito su cui fare esercizi di yoga o, meglio ancora, danza e pilates.
Forse avrebbe dovuto telefonare a Neal e chiedergli di scortarla personalmente al giusto indirizzo: stava estraendo il cellulare (se solo lo avesse trovato nella borsetta che le pendeva dalla spalla) per comporne il numero, quando sentì uno scalpiccio di passi in avvicinamento.
Il giovane che si stava avvicinando (anche lui con quella brutta tuta addosso), sembrava un gigante: era persino più alto di Neal, aveva i capelli scuri e scombinati, la fronte alta e imperlata di sudore, il viso arrossato per lo sforzo mentre si chinava sulle ginocchia, cercando di recuperare respiro. Malgrado la corporatura che avrebbe potuto impressionare, vi era qualcosa di simpatico nei lineamenti da bambinone e in quel sorriso con cui l'accolse, appena sollevò il capo e la scorse, dopo un momento di puro e semplice stordimento. Sembrava non aver mai visto una ragazza in carne ed ossa, il che sembrava rafforzare l'ipotesi che avesse sbagliato indirizzo.
Fu naturale sorridergli di rimando (magari avrebbe potuto chiedere aiuto a lui) e lui sembrò persino arrossire, dopo aver assunto, nuovamente, quella faccia d’incredula sorpresa e di compiacimento. Si strofinò goffamente la nuca e sembrò ringalluzzirsi nell'assumere una posa più impettita e decorosa.
“Mi sto nascondendo dal mio Capitano,” le disse in tono confidenziale, inclinando il viso di un lato e gettando un'occhiata alle proprie spalle, ad assicurarsi che il suddetto non fosse a portata d'orecchio ma abbassò comunque ulteriormente la voce. “è un tipo orribile” si lasciò cadere sull'erba per riallacciarsi gli stivali e la guardò dal basso con lo stesso sorriso beato. “Sei nuova, vero?”.
Brittany annuì, continuando a guardarsi attorno curiosamente. “Ma credo di aver sbagliato posto” ammise e non ebbe timore che quel ragazzone potesse schernirla al riguardo.
“Io spero proprio di no” sembrò gongolare tra sé e sé, lo stesso sorriso più puerile, prima di ergersi in piedi e Brittany fu impressionata dalla differenza d'altezza tra loro e ne osservò la mano che le veniva porta. “Ben arrivata, come ti chiami?” le chiese, la stessa espressione allegra.
“Brittany, Brittany Pierce” gli strinse la mano e il ragazzo sembrò particolarmente attento a non stringerla troppo per non procurarle dolore.
“E' un piacere, Brittany” sembrò sospirare al tocco della sua mano più esile, prima di schiarirsi la gola e, nuovamente, assumere quella postura più precisa. “Io sono Finn e-”.
L'acuto suono di un fischio li interruppe e il ragazzo soffiò un'imprecazione, ma Brittany non ebbe tempo di rimproverarlo al riguardo: ne seguì lo sguardo e scorse una terza figura che si stava inevitabilmente avvicinando. Camminava in rapide falcate che facevano intuire un atteggiamento autoritario e probabilmente anche notevolmente irritato.
Anch'egli indossava la divisa con gli stessi colori ma sulle spalle si notavano delle strisce con motivi stellati (questa sì che era una bella idea: decorare una divisa con delle stelle!1 Anche se la sarta avrebbe potuto scegliere un colore più vivace anziché il nero!) e un fischietto che pendeva dalla collana di cuoio. L'espressione sembrava, a dir poco, infuriata: le labbra erano serrate in una smorfia e le sopracciglia aggrottate mentre fissava Finn.
Quest'ultimo sembrò vacillare nervosamente: da che lo sconosciuto aveva fischiato, si era stretto nelle spalle, quasi temesse di essere accoltellato da un istante all'altro. Aveva chiuso gli occhi e stretto le palpebre. Curioso come, malgrado lo superasse in altezza di almeno dieci centimetri, e la sua mano fosse grande almeno quanto la sua faccia; il nuovo arrivato sembrasse incutergli puro e semplice terrore.
Brittany intuì istintivamente che non poteva essere lui il suo Capitano “orribile”: non per il suo aspetto (anzi, doveva ammettere che avrebbe potuto definirlo molto più che carino, se magari avesse abbandonato quella faccia arrabbiata e avesse provato a sorridere), anche se forse Finn alludeva a quell'espressione di chi sia sempre estremamente serio e... infuriato.
“S-Signore” balbettò goffamente il ragazzone e cercò di sorridergli ad una maniera accattivante. L'altro non ricambiò minimamente il gesto di cortesia.
“Ti avevo espressamente ordinato di fare cinquanta giri intorno al perimetro del campus” sembrava parlare a scatti, la voce imperiosa e piuttosto alta e distorta dalla rabbia: una vena pulsava minacciosa sul collo e, malgrado fosse più basso, sembrò quasi prolungarsi per urlare quelle parole in faccia al suo subordinato.
“I-Io avevo iniziato, Signore, ma” si guardò attorno disperatamente, cercando una scusa qualsiasi per potersi liberare dalla sua nefasta rabbia. “... ho incontrato Brittany!” esclamò, infine, un sorriso più gioviale nell'indicargli la ragazza che era rimasta ad osservarli evidentemente incuriosita da quel siparietto.
Lo sguardo verde che ancora stava incenerendo il suo sottoposto, il “Signore” lentamente volse il capo e sembrò solo allora concentrarsi realmente sulla giovane e laddove prima la sua espressione era tutt'altro che cordiale e pacifica; l'autentica sorpresa ne fece alterare i lineamenti in un frammento d’istante. O forse era stato il colore vivace delle vesti della giovane a procurare un impatto notevole con le sue retine.
Qualunque fosse il motivo dell'evidente cambiamento d’espressione, Brittany avvertì uno strano contorcimento all'altezza dello stomaco (quante caramelle aveva mangiato prima di entrare nell'auto di sua madre?) ma il ragazzo inarcò il sopracciglio e si volse nuovamente al suo sottoposto.
“Mi stava parlando di un Capitano” sorrise, Brittany in un evidente tentativo di scagionare Finn e dimostrare la severità con cui era trattato, così magari avrebbe smesso di urlargli addosso. “... ha detto che è orribile, tu lo conosci?” gli aveva chiesto allegramente, ma sembrarono entrambi congelarsi.
Il nuovo arrivato aveva sgranato gli occhi prima che, con straordinaria velocità, i suoi lineamenti si contraessero di nuovo, una sfumatura rossastra ne colorò il viso e strinse i pugni, contrasse la mascella e si girò di scatto verso il ragazzone che aveva ripreso a tremare visibilmente.
“E-Era solo una battuta, Signore: Brittany mi ha frainteso”.
Aveva stretto le braccia al petto, Brittany, l'espressione evidentemente risentita: non soltanto aveva cercato di procurargli una bella figura (insomma, il suo 'Signore' avrebbe dovuto essere fiero perché ovviamente non era lui la persona orribile di cui stava parlando prima; e magari anche sforzarsi d’essere più gentile) ma adesso sembrava persino dire che era lei a non aver capito la situazione.
“Allora perché non sto ridendo?”
“Non sembri farlo molto spesso” aveva soggiunto, Brittany, a mezza voce, ma il nuovo arrivato – seppur si fosse irrigidito ulteriormente - sembrò volerla ignorare. Ma si premunì di calpestare il piede di Finn che si era lasciato sfuggire una risatina fino a farlo ululare letteralmente di dolore. “Sei un incapace, Hudson,” sibilò contro il ragazzo, circumnavigandolo e fermandosi al suo fianco. Quest'ultimo, in un chiaro tentativo di migliorare la sua condizione, si era messo dritto, le braccia puntellate sui fianchi. “prendi i tuoi cento chili di stupidità e comincia a correre, fino a quando non ti scoppierà la milza o questa volta sarò io stesso a spararti a quelle scialuppe che definisci piedi, e ti assicuro che non sarà un incidente”.2
“Signorsì, Signore!” commentò, rivoli di sudore freddo a scivolare lungo la spina dorsale, premunendosi di non incrociarne lo sguardo.
“Non ti ho sentito!” infierì a voce persino più alta.
“SIGNORSI', SIGNORE!” gridò allora.
Ma era sordo per caso? Brittany gemette nel portarsi la mano all'orecchio.
“Inizia, MARSCH!” sibilò e Finn, un vago cenno del mento a Brittany, si volse, pronto a correre.
“Ciao Finn!” lo salutò allegramente lei, sollevando la mano: fu con un sorriso goffo che Finn riprese a correre ma, troppo intento a ricambiare lo sguardo della ragazza, non si accorse dell'ostacolo e vi inciampò, finendo steso sul prato a gambe all'aria.
Gemette, Brittany, e persino l'altro ragazzo sembrò indeciso se ignorarlo o se apparire altrettanto sconvolto e turbato.
“Sto bene!” li informò, Finn, che – intercettato lo sguardo dell'altro – riprese a correre e soltanto quando scomparve dalla loro vista, il ragazzo si volse nuovamente ad osservare Brittany. Inarcò le sopracciglia e la scrutò incuriosito ma con aria interrogativa mentre la giovane gli sorrideva nuovamente con simpatia, dondolandosi appena sui piedi calzati nelle scarpe con tacco (e sporche di fango per aver involontariamente immerso il piede nudo in una pozzanghera, appena scesa dall'auto).
Dopo qualche secondo di silenzio, il ragazzo sembrò aver esaurito la pazienza e rilasciò un sospiro quasi stanco ed esasperato. “Spiacente, non è giorno di visite”.
Brittany parve confusa, inarcò le sopracciglia e si volse quasi a sincerarsi che stesse parlando con qualcun altro per poi scostarsi i capelli sciolti dal viso e sorridergli nuovamente.
“Non sono in visita” spiegò con voce candida e il cipiglio corrugato dell'altro si estese. “Ho conosciuto Finn poco fa” si era stretta nelle spalle a spiegare l'equivoco ma il ragazzo parve ancora più interdetto, mentre ne studiava nuovamente l'abbigliamento per poi concentrarsi sulla valigia.
“Beh,” incrociò le braccia al petto e la fissò dall'alto a basso. “non so come tu abbia potuto entrare senza autorizzazione e non notare i cartelli ma-”.
“Sono venuta con la mia mamma” spiegò con altrettanta semplicità. “Mi hanno fatta passare: io sono iscritta qui” indicò la struttura ma, repentinamente, una smorfia le alterò i lineamenti. “O almeno credo: è questa, vero, l'Accademia di Neal Johnson?”.
Sembrò rimasto senza parole: aveva persino sciolto la postura più rigida, ma lo sguardo verde scrutò nuovamente la giovane come la vedesse per la prima volta. Si soffermò sul viso truccato, l'abito dai colori estivi, i piedi calzati nelle scarpe eleganti e il trolley di un colore altrettanto vivace.
“Oh, il mio patrigno, Neal, mi ha dato questo” si era illuminata prima di chinarsi verso il suo bagaglio: cominciò ad estrarre oggetti su oggetti (dal beauty case alle riviste di moda, al phon, al pigiama e altri indumenti) mentre il ragazzo sbatteva le palpebre e distoglieva lo sguardo. Evidentemente presa dalla ricerca, la ragazza non si fosse minimamente accorta di stargli offrendo una visuale più che confidenziale del suo fondoschiena.
Finalmente si drizzò a porgergli un foglio stropicciato che il ragazzo, l'ennesimo sguardo perplesso e inebetito, dispiegò. Brittany, nel frattempo, si sollevò sulle punte a contare le stelle disegnate sulle targhette. Chissà se avrebbe potuto farne applicare a sua volta, forse bisognava pagare una tassa aggiuntiva, perché non ci aveva pensato prima?
Il ragazzo, evidentemente esaurita la giornaliera quota di sopportazione e di comprensione delle stramberie cui era sottoposto quotidianamente, indugiò con lo sguardo sul modulo compilato e la firma di quello che, senza dubbio, era il Preside stesso.
Nel frattempo, con grande sorpresa e sgomento di Brittany, un gruppo di ragazze, impegnate nella corsa come i ragazzi, stavano passando loro vicino e ciò destò l'attenzione del suo interlocutore che levò lo sguardo dal foglio.
“Kitty!” alzò leggermente la voce per attirare l'attenzione di una di loro: colei che, a differenza del gruppo, si muoveva indietreggiando. Al richiamo del ragazzo, fischiò e tutto il gruppo si fermò in quello che sembrò un movimento unico e collettivo.
Si scostò dalle altre e prese a camminare in loro direzione: Brittany notò subito che anch'ella aveva sulle spalle le targhette con le stelle. Aveva i capelli biondi e legati in uno stretto chignon che non le donava particolarmente: aveva zigomi pronunciati e labbra molto carnose che piegò in un sorrisetto allusivo mentre si avvicinava al giovane.
“Sì, Hunter?” cinguettò in sua direzione, sbattendo le ciglia incredibilmente lunghe in sua direzione, ma il ragazzo si limitò a consegnarle il foglio, prima di indicarle Brittany con un cenno del mento.
“La tua nuova recluta” l'apostrofò.
Fu allora che Kitty si volse a fissarla e, a meno che l'immaginazione di Brittany non le stesse giocando un brutto scherzo, sembrò volerla uccidere con la sola intensità dello sguardo; le sue labbra si erano istintivamente serrate. Era inquietante il modo in cui il suo sorriso si era spento repentinamente nonché la rapidità con cui i suoi occhi guizzarono sulla sua figura, quasi ad individuarne i difetti, indugiando sul suo abbigliamento con la stessa espressione schifata che avrebbe probabilmente rivolto a qualcosa di ripugnante.
Brittany le sorrise di cuore e le porse la mano con un gesto fluido. “Io adoro 'Hello Kitty', sono sicura che saremo grandi amiche!” aveva commentato, immaginando che un complimento potesse scaldarle il cuore e magari riuscire a strapparle un'espressione meno severa.
Forse c'era qualcosa che non andava nell'aria di quel luogo: erano tutti così maledettamente musoni. E poi erano incredibilmente silenziosi: la stavano entrambi guardando come se fosse stata un unicorno o qualcosa di altrettanto incredibile.
Sbatté le palpebre, Kitty, prima di voltarsi bruscamente verso il ragazzo. “E' uno scherzo, vero?”.
Quest'ultimo scosse il capo per poi dire, a mo' di spiegazione, la voce più bassa. “E' la figlioccia di Johnson”.
Evidentemente questa non parve una rassicurazione, se possibile lo sguardo della ragazza s’indurì ulteriormente, ma evitò di incrociare lo sguardo della cosiddetta nuova recluta.
Brittany, confusa, abbassò la mano e si morsicò il labbro guardando dall'uno all'altra e attendendo che qualcuno finalmente le dicesse cosa dovesse fare.
“Una Barbie nel mio plotone? E come-”.
“Mi dispiace,” si era morsicata il labbro, Brittany ed entrambi si erano volti ad osservarne l'espressione mortificata mentre si stringeva le mani in grembo. “ho lasciato la mia a casa ma posso riportarle Lunedì, tornerò a casa nel weekend” la informò con lo stesso sorriso allegro e confidenziale.
“Non... può... essere... vero” sibilò, Kitty, masticando letteralmente quelle parole, ma il ragazzo le concesse un vago cenno del capo.
“Buona fortuna, io ho già Hudson di cui occuparmi” si era voltato, lo sguardo che saettava alla ricerca del suddetto ragazzo, prima di incamminarsi in tale direzione, senza altra formula di congedo.
“Hunter! Non puoi lasciarmi qui con lei!” protestò indignata la ragazza, le mani sui fianchi.
Brittany si affrettò a sollevarsi sulle punte per continuare ad osservarlo.
“E' stato un piacere, ciao!” lo salutò, alzando leggermente la voce per poi tornare ad osservare la ragazza con la stessa espressione solare. Kitty la fissò scornata, stritolando tra le dita il modulo della sua iscrizione, ma non disse nulla: parve riflettere silenziosamente ed altrettanto rapidamente, la fronte aggrottata.
“Benvenuta,” il modo in cui le sorrise, subito dopo, non sembrava essere affatto caloroso: era come se quel gesto non riuscisse a renderne lo sguardo più amichevole; al contrario le conferiva un aspetto persino più minaccioso. “inizieremo domani: intanto fatti dare qualcosa... da metterti addosso” aveva scrutato il suo abito con una smorfia.
Brittany non parve prendersela a male, ma era autentica sorpresa quella che le fece morsicare il labbro nell'osservare nuovamente il suo vestito. L'altra non disse altro: le restituì il foglio e tornò verso le altre ragazze. Un altro fischio e tutte ripreso a correre.
Scrollò le spalle, Brittany, e finalmente si avviò verso l'edificio continuando a rimuginare tra sé. Certo, erano davvero strani quei militari: nessuno le aveva stretto la mano e nessuno le aveva sorriso con autentica gioia (a parte Finn, prima di inciampare nell'ostacolo e sfracellarsi a terra). E cosa avevano i suoi vestiti che non andavano? Erano sicuramente la ragazza più elegante in quel momento e l'unica che si fosse truccata per farsi carina, tanto per dirne una.

La confusione non si attenuò, quando si ritrovò tra i corridoi, il modulo tra le mani e lo sguardo che scivolava tra gruppi di ragazzi e di ragazze. Sembravano tutti avere fretta ma, mentre passavano, le lanciavano sguardi (le ragazze apparivano poco contente come Hello Kitty; i ragazzi erano sorridenti come Finn o rigidi come Hunter) ma nessuno le chiese se avesse bisogno di aiuto, nessuno si fece avanti per accoglierla o darle il benvenuto.
Sospirò ma continuò a trascinare il trolley fino a quando non scorse Neal, impegnato in una conversazione con altri uomini, ma appena la scorse, fu rapido a congedarsi dai suoi interlocutori per avvicinarsi. Brittany rilasciò il respiro e, malgrado tutto, si sentì rincuorata dalla sua espressione felice e il modo in cui le stava sorridendo, affrettandosi a raggiungerla. Per un istante, fu come ritrovarsi tra le pareti della nuova casa: lei e Neal non avevano ancora imparato a conoscersi bene e questo rendeva la comunicazione meno agevole, ma non aveva mai dubbio che fosse sempre bendisposto nei suoi confronti, senza che facesse nulla di particolare per suscitargli simpatia.
“Sei arrivata” sembrava impacciato in quelle vesti e, ancora una volta, ebbe la sensazione che si stesse trattenendo dallo stringerla o dal baciarla ma, come nel salotto della loro nuova casa, le porse la mano. Forse era per questo che Neal non riusciva mai ad essere del tutto rilassato con lei? Era colpa di quel luogo che gli toglieva la tranquillità e lo rendeva così attento e così... poco spontaneo? Sarebbe successo anche a lei, standovi dentro a lungo? L'idea non le piaceva particolarmente a dirla tutta, ma forse era proprio quello lo scopo di Neal e della mamma (?).
Ne ricambiò il sorriso. “Ciao, Neal: non so cosa fare” aveva ammesso senza vergogna. L'uomo le aveva scosso il capo e le aveva appoggiato la mano sulla spalla e, malgrado tutto, si sentì subito più distesa.
“Ho già avvertito la segreteria: porterò io stesso il tuo modulo. Tu devi solo ritirare la tua divisa e raggiungere i dormitori, così potrai disporre tutte le tue cose”.
Aveva annuito, Brittany, prima di aggrottare la fronte. “A chi devo chiedere dove trovare il giardino per gli animali?”.
Sbatté le palpebre, Neal, evidentemente preso in contropiede. “Come?”.
“Lord Tubbington si è offeso, quando me ne sono andata senza di lui, ma mamma ha detto che dovevo parlarne a te” spiegò e Neal, dopo aver ricordato che tale nome fosse riferito al felino, sembrò assumere un'espressione colpevole. Aveva sospirato, cincischiando leggermente con le mani. “Brittany, purtroppo non è permesso tenere gli animali nelle camerate” aveva sussurrato con voce più dolce, nel tentativo di farle assimilare la notizia con il dovuto tatto. Le sorrise nuovamente, nel tentativo di incoraggiarla. “Ma potrai rivederlo nel weekend, no?”.
Raggrinzò il naso, Brittany, non aveva mai dormito senza il suo fedele micio da quando era solo una bambina: la sola idea di dover stare senza di lui per così tanto tempo, la gettò nell'angoscia e sentì il respiro farsi più pesante e il cuore fermarsi in petto. Doveva ricordarsi che lo stava facendo per la mamma, ma ciò non rendeva quegli imprevisti di più semplice sopportazione.
Da quel poco che aveva già visto, infatti, quell'Accademia non le piaceva. Per niente.
“Mi dispiace, Brittany” fu il sussurro di Neal che non aveva smesso di osservarla e sembrava crucciarsi all'idea di aver potuto compromettere la loro complicità per una di quelle disposizioni più rigide della vita del campus.
La giovane non ebbe il minimo dubbio che lo fosse realmente e si sforzò di sorridergli ulteriormente. “Va bene,” era parsa rassegnata. “allora vado a prendere la divisa” la stessa orribile che aveva visto indossare da chiunque avesse incontrato, quella che sembrava assorbire tutte le belle sensazioni e trasformare chi la indossava in una persona più seria e meno felice.
Una parte di sé si era domandata se non avesse dovuto provare a parlargli: probabilmente se avesse saputo quanto Lord Tubbington fosse importante per lei, se gli avesse raccontato di quel giorno...

Che cos'è, papà?” aveva chiesto, i capelli sciolti e il pigiamino mentre lo attendeva, seduta sul proprio letto, in attesa che aprisse il nuovo libro di favole che le aveva regalato.
Le sorrideva, William, persino più impaziente di lei e le porse il cesto con un sorriso. Lo aveva preso tra le mani paffute e ne aveva scostato il lenzuolo.
Allora lo aveva guardato per la prima volta: sembrava un batuffolo grigio, morbido e delicato con il suo collarino a forma di osso e l'iscrizione del suo nome. Questi la studiò altrettanto curiosamente, si sporse ad annusarla e Brittany lo aveva stretto tra le braccia con un sorriso entusiasta, dondolandolo e sorridendo nel sentirlo farle le fusa e sfregarsi sulla sua esile spalla.
E' bellissimo” aveva sussurrato, la voce soffocata contro il pelo dell'animaletto. “Tutto mio?”.
Tutto tuo.” le aveva sorriso suo padre, a mo' di promessa. “Lui ti proteggerà, quando io non sarò con te”.

Si riscosse, un vago sospiro nel ricordare il modo in cui Neal si fosse congedato con un’aria vagamente colpevole. Probabilmente un giorno glielo avrebbe spiegato, quando si fosse abituata a quel luogo... e quando l'altro volto sarebbe diventato meno nitido e avrebbe potuto aggrapparsi maggiormente al suo patrigno.
Entrò nel reparto sartoria e si affrettò ad avvicinarsi al balcone.
“Salve” salutò la donna che appariva notevolmente annoiata: stava masticando un chewing-gum e si puntellava con le mani sulla superficie, sollevando lo sguardo dal cruciverba con il quale era impegnata prima del suo ingresso.
“Taglia 303” sancì dopo averle gettato un'occhiata distratta e Brittany inarcò le sopracciglia: aveva dei poteri magici?
Appoggiò casacca, pantaloni, berretto e stivali sul balcone, dopo averne scovato il completo della sua misura in uno degli scaffali del capiente armadio alle sue spalle.
Brittany li osservò con una smorfia prima di sorriderle con fare accattivante. “Potrei averli di un altro colore, per favore?”.
La donna la fissò per qualche istante, probabilmente domandandosi se il suo era stato un patetico tentativo di fare dell'umorismo sulla sua mansione. Le sorrise, infine.
Allora era vero, pensò Brittany illuminandosi: bastava usare la “parola magica” (così l’aveva definita sua madre, quando aveva sette anni ed esigeva le fossero porti lecca lecca e dolciumi che lei, puntualmente, nascondeva negli scaffali più alti della credenza) per far rabbonire le persone musone.
“Magari rosa e coi glitter?” aveva lanciato un'occhiata beffarda al suo vestito e al trolley, prima di riprendere la sua penna e toglierne il coperchio con la bocca, facendolo cadere e rotolare sul balcone.
Brittany si ritrasse istintivamente con una smorfia, prima di pensarci sopra: era stata molto gentile e sperava di non offenderla. “Rosa sarebbe bellissima ma magari senza glitter”.
Era autentica stizza quella che baluginò nello sguardo della sarta che la fissò di traverso. “Prendi la tua divisa e sparisci” le intimò con tono più autoritario che fece trasalire la ragazza.
Si era accigliata, Brittany, un vago smuovere le labbra con atteggiamento di puerile offesa prima di prendere la divisa che le aveva assegnato e stringersela al petto.
Era giunta alla soglia dell'uscio e si era nuovamente voltata: il viso inclinato di un lato.
“E se la prendessi coi glitter?” aveva soggiunto con un sorriso più infantile.
“FUORI!” fece in tempo a scostarsi prima che la rivista d’enigmistica si sfracellasse contro la sua faccia e, senza più guardarsi alle spalle, si era affrettata a ripercorrere a ritroso il corridoio.
Accidenti, che permalosa.
Decisamente non era il momento giusto per chiederle di decorarle la divisa con qualche stella.

~

Dopo aver seguito le istruzioni fornitegli da un inserviente (ed essersi persa in quei corridoi che somigliavano spaventosamente ad un labirinto, tutti identici gli uni agli altri) era giunta alla sezione dei dormitori. Trattenne il respiro quando lesse sulla porta l'iscrizione della camerata corrispondente a quella della sua sezione (o almeno così diceva il modulo d’iscrizione): schiuse la porta e osservò con occhi sgranati la stanza.
Non somigliava assolutamente ad una camera d'albergo e neppure lontanamente alle sue due precedenti camere da letto: era un ambiente molto spazioso ma spoglio di decorazioni sulle pareti. In compenso vi era una dozzina di letti a castello e, in corrispondenza d’ogni coppia, armadi che non sembravano particolarmente capienti. Era un ambiente rustico e per nulla elegante.
Dov'era la sua scrivania? O lo specchio per truccarsi? Dov'erano i mobili e gli elettrodomestici? Dove avrebbe potuto attaccare la presa dello stereo o appendere i suoi poster o appoggiare i suoi libri?
La stanza era già occupata da una decina di ragazze e si volsero tutte in sua direzione: c'era uno strano silenzio, mentre la scrutavano con la stessa curiosa attenzione che le era stata riservata da quando aveva attraversato il campus. Prese un bel respiro ma entrò e continuò a guardarsi attorno, domandandosi dove avrebbe dovuto collocare le proprie cose.
Solo una ragazza si era avvicinata e Brittany la osservò: era alta quasi come lei, esile e delicata, aveva lunghi capelli castani, occhi blu ed un enorme sorriso che la fece istintivamente rilassare.
“Tu devi essere la ragazza nuova” anche la voce sembrava dolce.
“Eh?”.
“Mi chiamo Marley: piacere di conoscerti” le aveva porto la mano ed era stato un notevole miglioramento rispetto ai precedenti incontri, tanto che Brittany non aveva potuto fare a meno di sentirsi, finalmente, accolta.
“Brittany”.
Sembrava averla subito presa in simpatia, Marley, perché le indicò la coppia di letti più vicina alla porta. “Io di solito dormo sul letto superiore, ma se preferisci-” le stava spiegando.
“Deve esserci un errore,” la interruppe, Brittany, continuando a guardarsi attorno. “avevo chiesto una camera singola”.
Rise, Marley, che doveva aver preso quelle parole per una battuta di spirito. “Allora ti va bene stare nel letto di sotto?”.
Fece per risponderle ma si sentì sfiorare ad una spalla e si volse fino ad incrociare lo sguardo di una ragazza che la stava fissando con fare minaccioso. Era più bassa di lei ma molto più corpulenta e robusta: si era sistemata gli occhiali tondi che sembravano renderne gli occhi più piccoli o forse era il fatto li stesse stringendo nello scrutarla dall'alto al basso.
“E così tu sei la figliastra del Preside” evidentemente non aveva bisogno che Brittany lo confermasse perché continuò a parlare. “Se credi d’essere speciale per questo o meritare un trattamento di favore, levatelo dalla testa” le aveva sibilato contro l'orecchio e Brittany era indietreggiata confusamente.
“O-Ok” aveva balbettato e l'altra parve soddisfatta perché si voltò, dopo averle scoccato un'altra occhiata guardinga. Marley, cogliendo l'occhiata smarrita di Brittany, le aveva stretto il braccio.
“E questo, nel linguaggio di Lauren Zizes4, è un benvenuto” aveva sorriso Marley, rivolgendosi poi a Lauren. “Sono sicura che andremo tutte più che d'accordo: non spaventiamola il primo giorno”.
“Tanto ci penserà Kitty a farlo” intervenne un'altra ragazza, lo sguardo che appariva indubbiamente terrorizzato.
“La bastarda taglia-gole5,” commentò sprezzante Lauren, scrocchiando le nocche e facendo ridere qualcuna delle loro compagne di stanza, mentre Brittany ascoltava distrattamente quei commenti, cercando ancora di valutare, in una scala da uno a dieci, quanto fosse nei guai. Magari avrebbe dovuto ricorrere ad una scala più ampia.
“Se soltanto riuscisse a farsi portare a letto da Clarington, magari sarebbe più umana6” intervenne un'altra, il sorriso più malizioso sulle labbra, ma Lauren non parve particolarmente convinta.
“Scommetto che preferirebbe un incontro ravvicinato con Hudson nelle docce”.
Brittany, la mano a massaggiarsi i capelli una volta sedutasi su quello che sarebbe divenuto il suo letto, continuò ad osservare le compagne ed ascoltarne distrattamente i discorsi.
Dov'era finita?
Una domanda che continuò a porsi a lungo: quando indossò, per la prima volta, la divisa ed ebbe la sensazione che ogni felicità le fosse risucchiata dal corpo (che fosse un'invenzione da Dissennatore7?), quando in sala mensa dovette servirsi su un vassoio di plastica e con cibi che non conosceva e che le sembravano pappine per gatti.
Persino alla notizia che alle dieci di sera, le luci sarebbero state spente per il coprifuoco e che, da quel momento, nessuno potesse più uscire dalla propria camera senza incorrere in una grave punizione.

~
“Come stai, tesoro?” aveva chiesto sua madre quando, finalmente, era riuscita a contattarla per una telefonata. Aveva scoperto, con sgomento, che aveva soltanto mezzora di tempo prima di doversi ritirare nella propria camera. N’aveva approfittato per imboccare l'uscita che dava sul cortile: in lontananza si riusciva a scorgere il profilo della città, gli spazi verdi e le montagne sotto uno splendido cielo stellato. Un modo per prendere una boccata d'aria fino al giorno dopo e, al contempo, una soluzione per parlare tranquillamente.
Dopo quella lunga giornata nella quale aveva soltanto cominciato a memorizzare dei dettagli di quella che sarebbe stata la sua vita in quell'Accademia, sentirne la voce era stato qualcosa di davvero suggestivo. Sembrava appartenere ad un'altra realtà, quella cui Brittany sentiva di appartenere, quella che le era stata sottratta in poche ore.
Aveva dovuto reprimere il nodo in gola.
“Bene, va tutto bene” si era sentita dire e si era sforzata di concentrarsi sulle cose piacevoli per dare alla sua voce un'intonazione meno amara, per non far preoccupare sua madre. “Sono contenta di essere qui con Neal e c'è una ragazza in camera con me: è tanto carina e gentile”.
“Ne sono davvero contenta: sono davvero orgogliosa di te, lo sai?” aveva sussurrato con voce così dolce che Brittany aveva sentito gli occhi farsi più lucidi, ma le aveva chiesto di raccontarle della sua giornata. Aveva provato ad immaginarla in occupazioni così quotidiane come la colazione in caffetteria, un giro per i negozi, la lettura d’annunci per trovare un nuovo lavoro e l'ordinare le loro cose dagli scatoloni per arredare la nuova casa. Aveva sentito una forte ondata di tristezza ma aveva provato ad immaginarsi al suo fianco per lasciare che quel peso si allentasse dal cuore.
“Non vedo l'ora di abbracciarti, stellina, buona notte” le aveva sussurrato e Brittany aveva sentito un verso rauco sgorgarle dalle labbra.
“Anche io” aveva sussurrato. “Buonanotte” aveva sospeso la chiamata e aveva lasciato che la brezza serale le sfiorasse il viso, rilasciando lentamente il respiro e asciugandosi la guancia.
Sarebbe andato tutto bene, dovette ripetersi.
Si voltò per rientrare nell'edificio, ma si scontrò con la figura apparsa sulla soglia della portafinestra.
“Scusa” sussurrò prima di sollevare il capo e riconoscere Hunter.
Fu un lungo istante quello in cui il ragazzo sembrò scrutarne il viso arrossato: non disse nulla, le rivolse un cenno del capo e si appoggiò alla ringhiera per scrutare il cielo.
Ne aveva osservato le spalle e la schiena, Brittany, prima di appoggiare la mano sulla maniglia, pronta a fare il suo rientro.
“Cerca di non farti vedere da Kitty in questo stato, domani” erano state le sue parole che sembrarono disperdersi nell'aria fredda. Non la stava neppure guardando, tanto da dare l'illusione stesse parlando con se stesso.
Sgranò gli occhi, Brittany, prima che Hunter si voltasse verso di lei: il viso inclinato di un lato. Si era stretto nelle spalle al suo prolungato silenzio. “La nostalgia passerà prima o poi e se non dovesse farlo, dovrai fingere”.
Sembrava davvero sicuro di quelle parole, tanto che Brittany gli aveva istintivamente creduto, ma c'era qualcos'altro che le impediva di rientrare. Sembrava che lo stesse vedendo per la prima volta e con maggiore curiosità rispetto a quel pomeriggio.
“Sei triste anche tu?” era stata la spontanea domanda, sussurrata in tono sommesso, ma abbastanza netta da attirare nuovamente l'attenzione del giovane che parve irrigidirsi.
Inarcò le sopracciglia e strinse le labbra. “Vai a letto,” si era voltato nuovamente verso il paesaggio. “è quasi ora del coprifuoco”.
Brittany seppe di esser stata congedata ma non di meno, anche se non avrebbe potuto dire da cosa nascesse simile certezza, che i suoi sospetti dovevano essere fondati.


~

[…] Non seppe quanto tempo passò da che era entrata nella sontuosa e splendida camera: la sua stessa prigione. Probabilmente Belle aveva esaurito tutte le sue lacrime per quella notte. Non era stata soltanto la consapevolezza di un addio negato al padre che non avrebbe più rivisto; ma l'autorità dei gesti e delle parole del suo carceriere. Seppure il suo sguardo impenetrabile sembrasse volerle leggere l'anima, non sembrava essercene una dietro quegli occhi glaciali; doveva esser soffocata nella rabbia e nel rancore che ne avvelenava lo spirito e lo rendeva realmente Bestia.
Prigioniera in un luogo che non le apparteneva e consapevole, anche nel dolore della solitudine e dell'abbandono, di dover fare appello alla pallida speranza che un giorno non avrebbe più sofferto. Si sarebbe ricongiunta con l'amato padre e tutto sarebbe stato nuovamente al suo posto e lei nuovamente se stessa. Ma fino a quel momento, per quella notte almeno, Belle si sarebbe addormentata cullata dalle sue stesse lacrime. […]8


“Luci spente!” annunciò una voce esterna e Brittany sospirò: muovendo cautamente la mano al buio, attenta a non urtare la caraffa dell'acqua, appoggiò il libro sul comodino accanto al letto. Si rannicchiò in posizione fetale, cercando di abituarsi al buio della camera, rimpiangendo di non poter stringere il suo micio. Si concentrò sulle pagine appena sfogliate e, lentamente, come Belle, regolò il suo respiro, ricacciò la malinconia e si abbandonò al torpore.



To be continued...


Buon Venerdì e buon, almeno come lo definisco tra me e me, Huntany Day !
Come vedete stiamo già entrando nell'ordine degli eventi che si svolgeranno nei prossimi capitoli: sono più o meno apparsi tutti i personaggi principali, molti dei quali con connotati ben noti. Spero che vi piaccia questa loro nuova disposizione in questo contesto.
Ringrazio di cuore chiunque si sia preso la briga di sfogliare queste pagine, malgrado la coppia e gli avvertimenti certamente non diffusi, e in particolare le splendide fanciulle che mi hanno lasciato un commentino: Diana, la mia Sebastian e la mia Nolanator, spero di non avervi deluso :)
Prima dei saluti, uno scorcio al prossimo capitolo:

E' per stupide oche come te che l'esercito femminile è tanto pregiudicato”. “Pierce? Stai piangendo?”.
Devi essere molto simpatica a Kitty” “Tu credi? Pensavo mi odiasse!”.
Grazie per l'aiuto ma rientro da sola: la strada la ricordo”. “Non fare la bambina”. “Io non sono una bambina!”.

Incuriosito? Non mi resta che augurarvi buon weekend :)
A presto,
Kiki87.


1 Ovviamente si tratta dei gradi che rispecchiando i ruoli e l'ordine gerarchico tra gli elementi dell'esercito ma, non che non ci abbia provato, ho rinunciato a farne una ricerca approfondita, preferendo un'informazione generica al riguardo, spero non me ne vogliate ;)
2 Qui mi sono rifatta all'episodio famoso della 4x04 e il racconto di Finn su come si sia accidentalmente sparato ad un piede. Ma ci pensate se fosse stato davvero nella stessa Accademia di Hunter? :D
3 Taglia americana che dovrebbe corrispondere alla nostra taglia “44”. La 42 mi sembrava personalmente non sufficiente, tenendo conto che Heather Morris sia piuttosto alta.
4 Per chi non lo ricordasse, Lauren era il personaggio (spassosissimo) apparso nella seconda stagione di Glee, dopo la dipartita di Kurt per la Dalton; interpretato da Ashley Fink.
5 Epiteto coniato dal genio di Gregory House per apostrofare Amber Volakis.
6 [Si schiarisce la voce] Ok, credo di dovervi una confessione imbarazzante: di primo acchito detestavo sia Kitty che Hunter e, prima che Nolan mi soggiogasse, li avevo persino inquadrati come una coppia ben assortita. Bene, piccola ed inutile curiosità, scusate l'interruzione ;)
7 Allusione ai demoni nella saga di Harry Potter che si nutrono delle emozioni delle loro vittime, risucchiandone letteralmente lo spirito vitale.
8 La mia idea originale era accompagnare la narrazione con passaggi tratti da un libro con la favola di “La bella e la bestia". Non trovandone di idonei, ho deciso di provvedervi io stessa, così da adattarli al contesto :)

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Ce la farò,
sopravvivrò.
Quando il mondo crollerà,
quando cadrò a terra e toccherò il suolo.
Mi guarderò attorno,
non provare a fermarmi.
Non piangerò.
(Alice, dalla colonna sonora
Alice in Wonderland”-
Avril Lavigne)




Capitolo 2.

Non sapeva esattamente dove si trovava ma quella sensazione di timore le stringeva il cuore: ne sentiva i battiti rimbombare nei timpani e l'istinto di lasciarsi tutto alle spalle e fuggire.
Udì in lontananza un tuono squarciare il silenzio e la pioggia continuava ad abbattersi con inaudita violenza: sentiva freddo fin dentro le ossa e un tremore diffuso nel tentativo di stringersi le esili braccia al corpo. Osservò il lungo abito sporco: un'angoscia senza paragoni a vederne il tessuto, di un delicato azzurro, imbrattato dal fango.
Il castello sembrava ancora addormentato ma non riusciva a distogliere lo sguardo: aveva la consapevolezza innata che un paio di occhi, nell'oscurità, la stavano seguendo. Sapeva che avrebbe dovuto trarsi al sicuro, che se non fosse stata abbastanza rapida, sarebbe stata raggiunta.
Gli occhi sgranati per il terrore e le labbra schiuse nel tentativo di ritrovare respiro, sollevò il lembo della lunga gonna e corse, superò la fontana e corse nel dedalo delle siepi, fino a quando non imboccò il sentiero che la condusse nel vicolo cieco.
Tutte le luci sembrarono smorzarsi, era completamente fradicia e non vi era possibilità di scavalcare la parete di mattoni. Provò a tastarla con il respiro affannato.
Si voltò. Nessuno in vista, un silenzio assordante, infranto solo dal suo battito convulso e la certezza che qualcosa stava per accadere... e non avrebbe potuto impedirlo.

“Brittany, Brittany: svegliati presto!”, la voce di Marley sembrava lontana, come filtrata da una radio mal sintonizzata. Ma trasparivano il timore e l'ansia mentre la biondina continuava a dormire: le palpebre ben serrate ma aveva stretto convulsamente il cuscino, le sopracciglia aggrottate per il sogno che la stava angustiando.
“Ti prego!”, la ragazza la stava scuotendo energicamente. “Kitty sta arrivando!”, gemette prima che il suono della tromba risuonasse per la seconda volta in tutta l'Accademia a siglare un momento ben preciso della giornata.
Il controllo mattutino: tutte le reclute dovevano disporsi in riga, in attesa del Capitano della sezione che si sarebbe avveduto che tutto fosse perfettamente in ordine nella camerata, prima dell'inizio dell'addestramento.
E così fu anche quella mattina: Kitty e la sua sottoposta, una giovane dai capelli scuri, il viso tondo e i lineamenti asiatici, fecero il suo imperioso ingresso.
Marley si affrettò a prendere posizione, le mani strette lungo i fianchi, ma continuò ad occhieggiare l'amica con la coda dell'occhio, sperando in qualche risveglio miracoloso, prima che fosse troppo tardi.
Kitty lasciò vagare lo sguardo sulla stanza, soffermandosi sulle reclute: sembrò fare un calcolo mentale perché, ad un certo punto, parve accigliata. Gli occhi guizzarono verso il letto sul quale la Brittany era ancora stesa: non sembrava essersi mossa all'ennesimo squillo di tromba. Al contrario, aveva affondato il capo sotto il cuscino, ancora rannicchiata nel calore delle coperte.
Un'espressione incredula prima che, altrettanto repentinamente, un sorriso affiorasse sulle labbra carnose. Fece cenno alla sua sottoposta di controllare gli altri letti. Si fermò di fronte a Marley che, gli occhi sgranati nel vuoto, sembrava sudare per la tensione.
“La nostra Barbie ancora dorme?”, cinguettò ma la castana non osò risponderle. Così nessuna delle altre, soltanto Lauren gettò un'occhiata a Brittany e sollevò gli occhi al cielo.
“Svegliala”, berciò Kitty in direzione di Marley.
“Signorsì, Signora!”, rispose prontamente e si avvicinò al letto della ragazza e, come fatto prima dell'arrivo del Capitano, riprese a scuoterla con maggiore intensità. Brittany emise soltanto un mugugno lamentoso ma non diede cenno di svegliarsi.
“Tic-toc, tic-toc”, cantilenò, Kitty, appoggiata indolentemente alla sponda del letto a castello, prima di fissare Marley con espressione di palese disgusto. “Buttala giù dal letto”, le ordinò con la stesso tono annoiato.
“M-Ma”, la brunetta si morse il labbro, evidentemente mortificata: indubbiamente il conflitto tra il seguire l'ordine del suo Capitano e compiere un gesto di quell'entità.
Sollevò gli occhi al cielo, Kitty, che le passò accanto e la scansò. “Inutile come sempre: mi domando cosa ti trattenga dal tentare un plausibile suicidio. Sicuramente l'idea di farmi felice”, sibilò in sua direzione con gelida malevolenza. “Tornatene in riga: ci penso io”.
Si avvicinò al letto, pose le mani al di sotto del materasso e, un movimento energico e risoluto, lo rovesciò, facendo così cadere la ragazza addormentata sul pavimento. Prese la tinozza dell'acqua appoggiata sul comodino e gliene versò addosso il contenuto.
Brittany ansimò e si drizzò bruscamente, tremava e gli occhi erano sgranati in una mera espressione di spavento e di sorpresa: lo sguardo azzurro, nel silenzio sovrano della stanza, guizzò alla camerata, le sue compagne e si soffermò su Kitty che torreggiava su di lei, le mani sui fianchi.
“Perché sono bagnata? Credevo di star sognando”, domandò, la voce ancora rauca per il brusco risveglio e il tono evidentemente confuso da tutta quella situazione.
Kitty sorrise e si mise a coccoloni: la guardò con il viso inclinato di un lato e un sorrisetto allusivo e divertito. “Sai che ore sono, Barbie?”, le soffiò minacciosamente all'orecchio.
Scosse il capo, Brittany, evidentemente ancora cercando di comprendere cosa stesse accadendo.
“Sono le 5.10”, la informò Kitty, la voce ancora serafica e l'altra sgranò gli occhi interdetta, guardandola come se avesse appena pronunciato qualcosa di incredibile.
“Ma a quest'ora si dorme”, disse con tono ovvio che fece sorridere ulteriormente Kitty, lo sguardo che baluginava malignamente.
“No”, rispose in un sussurro dolciastro, lo sguardo ancora freddo. “A quest'ora dovresti già essere vestita, allineata alle tue compagne”, le indicò con un cenno del mento. “e pronta alla corsa prima della colazione”.
“Oh”, Brittany si morse il labbro e parve soltanto in quel momento comprendere cosa stesse accadendo. “Mi dispiace, io-”.
Kitty la interruppe, sollevando la mano. “No, devi rispondere 'Signorsì, Signora'. Avanti, dillo”.
“Signorsì-”.
“Più forte!”, la fulminò con lo sguardo. “Non riesco a sentirti!”, le aveva urlato contro l'orecchio e Brittany non ebbe tempo di chiedersi se, come Hunter, avesse qualche problema di udito perché si massaggiò il timpano, prima di ripetere la formula a voce più alta.
“Hai dieci minuti”, concluse Kitty, sollevandosi dal pavimento. “Vestiti ed esci fuori o verrò a prenderti io e ti assicuro che non sarà affatto gradevole”, fece un brusco cenno alla sua vice che si affrettò ad affiancarla ma, prima di imboccare l'uscita, si volse nuovamente verso di lei.
“E asciugati: se bagnerai il pavimento, te lo farò pulire con la lingua. E voi, fuori!”.
Osservò tutte le sue compagne – Marley le aveva mimato un “a dopo!” - camminare ordinatamente verso l'uscita e Brittany sospirò. Si scostò i capelli dal viso e si sollevò, dopo aver starnutito.
Decisamente non era stato un buon inizio mattinata: Hello Kitty poteva dire ciò che voleva ma a suo parere, e anche quello del tempo là fuori, era ancora notte. E tempo di dormire.

“Sei in ritardo rispetto al ritardo!”, le abbaiò contro il Capitano: aveva lasciato le altre reclute sotto la direzione di Tina Cohen Chang e si era avvicinata, con passi rapidi, a Brittany che era rimasta immobile, assumendo la posizione che le era stata insegnata.
“Mi dispiace: non riuscivo ad allacciare gli stivali e-”.
“Oh, povera Barbie, forse ancora non ti sei ambientata? Ma non preoccuparti”, si era portata una mano al petto, Kitty, imitando un'espressione di dispiacere, misto ad una dolce premura. “Ti aiuterò io in questo”, nuovamente sorrise ma era come se i lineamenti anziché ammorbidirsi e divenire più dolci, si affilassero. C'era una luce sinistra nel suo sguardo.
“S-Sei molto gentile”, sussurrò Brittany, evidentemente stupita da quel cambiamento di espressione e di tono ma Kitty assunse nuovamente il suo sguardo gelido e colmo di disprezzo.
“Venti giri di campo!”, il tono lapidario nell'impartire il suo ordine e Brittany boccheggiò.
“Venti?”, non seppe cosa fosse più sconcertante: il modo in cui nuovamente sembrava aver assunto la parte da cattiva o il fatto che credesse che venti giri di campo potessero aiutarla ad abituarsi a quel luogo.
“Trenta, allora”. Sorrise, il viso inclinato di un lato. “Hai altro da dire?”.
Scosse repentinamente il capo, Brittany: adesso che aveva capito il gioco, non si sarebbe più fatta trarre in inganno.
Non parve soddisfatta, Kitty, perché la circumnavigò: si fermò al suo fianco e si sporse al suo orecchio, in un atteggiamento evidentemente intimidatorio. “Adesso dovresti dire 'Signorsì, signora'. Mani lungo i fianchi e ripeti forte, avanti”.
Si era morsa il labbro, Brittany, ma aveva obbedito.
“Comincia”, parve annoiata la sua superiore ma, l'attimo dopo, le artigliò il polso.
“Aspetta”, la fece voltare e lo sguardo schifato corse ai braccialetti che erano sfuggiti dalla manica della divisa (aveva dovuto raggomitolarle, in quanto troppo lunghe). Colorati, con piastrine a forma di fiorellini e di cuoricini che Kitty osservò come si fosse trattato dell'animale più ripugnante esistente in natura.
“Ne vuoi uno?”, chiese Brittany, nervosamente. “Ne ho tanti”.
“Levali subito”, sibilò Kitty, lasciandole bruscamente il braccio e, con un sospiro e un'espressione offesa, Brittany li sfilò.
Kitty gliele prese prepotentemente e, sotto il suo sguardo incredulo e mortificato, li gettò a terra prima di fissarne i capelli che le ricadevano sulle spalle.
“Se ti rivedrò coi capelli sciolti, te li taglierò io stessa: legali subito!”.
Si era tolta il berretto, Brittany, e l'altra ragazza – spostatasi rapidamente alle sue spalle – li raccolse con tale forza da procurarle dolore, prima di modellarli in una stretta crocchia che fermò con uno dei suoi braccialetti.
“E' per stupide oche come te che l'esercito femminile è tanto pregiudicato”, le aveva soffiato rabbiosamente nell'orecchio e nuovamente le fu davanti con la stessa espressione implacabile e colma di puro e semplice sprezzo. “E ora corri: voglio vederti stramazzare a terra ed imparare cosa sia la fatica”.
Aveva annuito, Brittany, le labbra tremanti e il prurito al bordo degli occhi: era dai tempi della scuola, quando le bambine più grandi la punzecchiavano e facevano gruppo, lasciandola in disparte, che non si sentiva così sola e incompresa.
“Pierce, stai piangendo?”, le aveva chiesto, Kitty, l'espressione incredula ma Brittany si era affrettata a scuotere il capo per rimuovere quei ricordi meno lieti.
“N-No”, aveva sussurrato, la voce rotta.
“No, Signora!”, la pungolò Kitty che la spinse malamente in avanti. “CORRI! Cinquanta giri di campo: non mangerai fino a quando non avrai completato, sarò la tua ombra, MUOVITI!”.


Quando ebbe finito, trovò Marley ad attenderla in camerata: erano soltanto loro due e Brittany, la mano appoggiata al fianco dolorante almeno quanto la milza (o era il fegato?), camminò lentamente, il respiro ancora ansante. Aveva il volto arrossato, il berretto che scivolava dal capo e i capelli che ricadevano scomposti sulle spalle e che avrebbe dovuto nuovamente acconciare, prima di uscire dalla stanza.
“Bevi un po' d'acqua”.
Brittany si lasciò cadere sul proprio letto, facendo dei profondi respiri e sollevando il capo. Aveva allungato la mano verso il bicchiere, le tremavano leggermente le dita ma bevve tutto di un fiato mentre Marley la osservava evidentemente preoccupata.
“Kitty è tremenda: ha fatto così, anzi, fa così anche con me. Non che le altre siano più fortunate ma credo abbia un debole per noi”, cercò di improvvisare un sorriso divertito ma si sedette al suo fianco e le strinse la spalla. “I primi tempi sono difficili per tutti ma ti abituerai”.
Non riusciva a parlare, Brittany. Le sorrise a mo' di ringraziamento ed annuì ma quell'angoscia che aveva provato durante il sogno: quella sensazione di occlusione, nonché il terrore di ritrovarsi nuovamente in trappola, le toglievano quasi il respiro.
Aveva cercato di ripetersi per tutta la mattinata quelle parole rassicuranti, quella certezza che avrebbe soltanto dovuto avere pazienza perché tutto si sarebbe sistemato. Anche quando era caduta e, ogni singola volta, Kitty le aveva urlato contro, minacciandola di prolungare ulteriormente la sua punizione e di lasciarla per l'intera giornata senza cibo.
“Andiamo alla mensa”, la voce dolce e ovattata di Marley la strappò a quei pensieri. “ Poi avremo lezione insieme”, le aveva porto la mano in un gesto così semplice e spontaneo che Brittany aveva sentito un dolce calore sfiorarle il cuore. Si era allungata a cingerla e si era rimessa in piedi.
C'era di buono che la madre di Marley, che lavorava come cuoca nelle cucine dell'Accademia, sembrava averla presa in simpatia (sicuramente la figlia le aveva parlato del suo arrivo) perché le diede una porzione aggiuntiva della razione, nonché un dolcetto che le aveva suggerito di nascondere. Aveva un sorriso meraviglioso che, per un attimo, aveva annullato tutte le difficoltà e la tristezza di quella mattina, per far sentire nuovamente Brittany a casa. In un posto sicuro, nel quale non dovesse temere nulla, men che meno di non poter essere se stessa.

~

Quando giunse nell'aula di storia, il suo umore era migliorato, nonostante la materia fosse particolarmente noiosa ai suoi occhi. Ma si era drizzata in piedi, imitando gli altri studenti, quando l'insegnante era entrato nell'aula.
Anch'egli indossava la divisa e aveva diverse piastrine affisse sulla stessa (aveva imparato che non erano spille decorative ma corrispondevano a diversi gradi nell'esercito, anche se non riusciva bene a distinguerli), era un uomo molto alto (probabilmente quanto Finn), aveva un'espressione apparentemente severa sul viso ma non mancò di lasciar guizzare lo sguardo verde sui suoi studenti, facendo qualche sporadico sorriso a qualcuno di loro che già conosceva.
Aveva una voce profonda e vi era qualcosa nel suo apparire così composto e serio che l'aveva indotta ad osservarlo con maggiore attenzione mentre si presentava per i nuovi arrivati, come lei.
Mister Clarington, ripeté tra sé e sé: dove aveva già sentito quel cognome?
Sembrava un uomo intimidatorio, tanto che aveva risposto con voce flebile all'appello ma questi aveva sollevato lo sguardo dal suo registro e le aveva rivolto un breve ma sincero sorriso che ne aveva fatto baluginare gli occhi, nel darle il benvenuto. Aveva ringraziato con un breve accenno di rossore sulle guance e seppe che, istintivamente, quell'uomo le sarebbe stato simpatico, per quanto vederlo in piedi ed in divisa, potesse farle impressione. Non che Neal non le avesse suscitato una stessa suggestione ma il suo patrigno aveva sempre quel sorriso più fanciullesco e sbarazzino che la divisa non era (ancora) riuscita ad adombrare; il signor Clarington sembrava sempre molto controllato e posato. A lui la divisa, decisamente, non faceva un bell'effetto.
Come scoprì fin troppo presto, Neal aveva avuto ragione nell'affermare che materie che già aveva studiato in precedenza, avrebbero avuto un diverso approccio. Non si trattava semplicemente di studiare le battaglie che si erano susseguite nel corso delle epoche storiche ma di soffermarsi, con particolare enfasi, sulle strategie militari che erano state adottate.
La voce del Signor Clarington sembrava divenire fin troppo soporifera e, dopo l'attività fisica di quella mattinata, il sonno cominciò a premerle sulle palpebre con inaudita seduzione. Più volte Marley dovette scuoterla perché non sprofondasse in un sonno profondo.
Si strofinò una mano sugli occhi quando uscì dall'aula ma li spalancò l'attimo dopo nel riconoscere la sagoma del Capitano della sezione maschile che stava camminando in sua direzione. Quest'ultimo, inappuntabile nella sua divisa, indugiò a sua volta nel suo sguardo – si era bloccata nel mezzo del corridoio, Marley ancora la suo fianco – prima di rivolgerle un cenno del mento. Le passò accanto per entrare nell'aula ma Brittany, un impulso innato quanto spontaneo, si volse in sua direzione.
“Grazie”, sussurrò con voce tremante, le guance appena rosate. “... per ieri”.
Il ragazzo, che si era bloccato ad un passo dalla porta, si voltò in sua direzione: parve confuso almeno quanto Marley che guardava dall'uno all'altra, prima di rivolgere al suo superiore il saluto militare. Si riscosse, Hunter, e rivolse un cenno pigro a Marley.
“Riposo”, le aveva detto e Brittany si accigliò appena.
Quindi poteva andare a dormire?
Glielo avrebbe anche chiesto, per sicurezza, se lo sguardo di smeraldo non fosse saettato in sua direzione.
“Non so di cosa tu stia parlando”, la guardò così intensamente che Brittany provò un'improvvisa contrazione all'altezza dello stomaco. Sembrava che volesse entrarle nella testa o suggerirle qualcosa, visto come inclinò il viso di un lato e la guardò attentamente.
Sbatté le palpebre, Brittany, evidentemente confusa. Che si fosse dimenticato che si erano visti appena la sera prima e lui era stato così gentile da preoccuparsi per il suo stato d'animo?
“N-Non ricordi?”, gli chiese confusa. “Mi hai detto che-”.
“Com'è andata la lezione?”, la interruppe e Marley sembrò ancora più disorientata da quella sorta di interessamento. Brittany sbatté appena le palpebre prima di stringersi nelle spalle e sorridere affabile.
“Benissimo: si dorme perfettamente a quest'ora”, rispose in tono naturale.
Sembrò spiazzato, Hunter, perché inarcò le sopracciglia e sembrò persino irrigidirsi: Marley era trasalita al suo fianco e, cercando di non farsi scorgere, era scivolata alle spalle del ragazzo e aveva cominciato a sbracciarsi in strani gesti che Brittany non riuscì a decifrare.
“Non ti piace la storia?”, le chiese il giovane, l'attimo dopo, il viso inclinato di un lato e le sopracciglia inarcate in quella che sembrava un'espressione davvero curiosa. Aveva arricciato l'angolo delle labbra, parve vagamente divertito dalle sue parole.
I gesti di Marley divennero più frenetici e Brittany si domandò se la poveretta non fosse stata vittima di un'infezione di pidocchi. Oddio, forse avrebbe dovuto evitare di usare il cuscino della sua branda.
“Per nulla”, rispose in tono limpido. “il professore è gentile ma...”, aveva abbassato la voce in tono più complice e Hunter si era prestato, l'angolo delle labbra sollevato.
“Ma?”.
Aveva arricciato il naso, Brittany. “Quando comincia a parlare di strategie, è peggio di un sonnifero”, dichiarò in tono ovvio che fece annuire gravemente il ragazzo di fronte a sé.
Sembrò in procinto di voler dire qualcosa, Hunter, ma la sagoma dell'insegnante apparve sulla soglia della sua aula: aveva inarcato le sopracciglia a scorgere le giovani ancora in prossimità dell'aula prima di rivolgersi al ragazzo.
“Hunter, ti stavo aspettando”.
“Arrivo, papà”, calcò dolcemente l'ultima parola ma lo sguardo verde era tutto per la biondina che sgranò gli occhi e impallidì: li osservò per un istante facendo saettare le iridi dall'uno all'altro.
La somiglianza nei modi e nel barlume smeraldino erano così evidenti che si sentì incredibilmente mortificata. E sciocca. Aveva boccheggiato, Brittany, il rossore ad affiorarle in viso: fece per dire qualcosa ma Hunter la precedette. La torreggiò, inclinando appena il viso di un lato, inarcò rapidamente le sopracciglia in un'espressione sorniona. “Come un sonnifero?”, le chiese in un bisbiglio.
“I-Io, mi dispiace, non volevo”, lo stava letteralmente seguendo ma questi si strinse nelle spalle: varcò la soglia dell'uscio e si volse.
“Va' ad addestrarti, Pierce”, le chiuse la porta in faccia e Brittany indietreggiò, il viso ancora arrossato e lo sguardo sconvolto.
“Ho cercato di avvisarti”, piagnucolò Marley ma Brittany neppure quasi la udì mentre si mordeva il labbro.
“Lui è stato gentile con me e adesso mi odierà per sempre. E penserà che io sia cattiva”, era parsa ancora più puerile e tremante alla prospettiva ma Marley, che ancora cercava di comprendere da cosa nascesse quella loro particolare interazione, si strinse nelle spalle.
“Dubito che al Capitano Clarington piaccia qualcuno qui dentro”, le aveva detto a mo' di consolazione prima di fissare l'orologio preoccupata. “Andiamo, prima che Kitty ci metta a pulire i bagni degli uomini”.
Rimase ad osservare la porta chiusa, Brittany: il ragazzo non aveva voluto essere ringraziato e forse neppure voleva si sapesse che si sentiva solo. O che così si era sentito, quando era arrivato all'Accademia, anche se sembrava perfettamente padrone di sé.
Davvero non gli piaceva nessuno? O forse era lui a non piacere e per quel motivo era solo e triste?
Sfiorò appena la superficie della porta e restò a contemplarla, fino a quando Marley non la prese con decisione per il braccio, portandola via.

~

Come aveva annunciato Marley, dopo pranzo Kitty le attendeva nel campo d’addestramento. Brittany guardò con orrore quello che somigliava ad una lunga e complessa corsa ad ostacoli: file di copertoni di gomma da superare, muovendo un passo alla volta con le gambe divaricate; un tratto di fango sotto un tunnel ricoperto da un ramato di ferro sotto il quale bisognava strisciare e, dopo vari altri ostacoli, una pedana dalla forma a trapezio sulla quale bisognava arrampicarsi per poi discendere dall’altro lato, aiutandosi con la corda.
Sbatté le palpebre: Neal non aveva fatto alcuna menzione a qualcosa di così orribile.
“Bene, signorine”, e da come lo diceva non era certamente un vezzeggiativo, soprattutto se quelle parole erano accompagnate da uno sguardo così torvo.
Brittany si affrettò ad imitare la postura che avevano assunto le sua compagne mentre il Capitano le passava in rassegna, fermandosi di fronte ad ognuna di loro per quelli che parvero secondi infiniti.
“Ormai dovreste conoscere il percorso a memoria e ho già esaurito la pazienza questa mattina”, lo sguardo malevolo occhieggiò laddove Brittany e Marley la guardavano timorose.
“Chiunque sbagli, si farà cinquanta giri di campo supplementari a fine addestramento”. Si era fermata di fronte a Brittany e sembrò coglierne l’espressione preoccupata. Evidentemente era persino piacevole vederla in quell’espressione perché le sorrise. Ma, ancora una volta, se possibile, quel sorriso la rendeva persino più minacciosa.
“Non preoccuparti, Barbie: tu andrai per ultima, naturalmente”.
Benché sorpresa da quella che sembrava una premura del tutto spontanea, Brittany le sorrise raggiante. Sbuffò, Kitty, lo sguardo volto al cielo.
“Dovresti rispondere”.
“Grazie?”, domandò impulsivamente e sentì Marley gemere al suo fianco mentre Lauren soffocava una risata di scherno.
Una lieve pressione di Kitty e Brittany cadde a terra: il Capitano premette lo stivale contro la sua schiena, premendola maggiormente al terreno e facendola respirare ansante.
“Non mi piacciono gli spiritosi e neppure i menomati: fammi dieci flessioni, subito!”.
Stava comprimendola con lo stivale con sempre più forza e Brittany annaspò ma si sollevò con il busto ed iniziò il piegamento. Sentì Kitty esercitare più pressione, facendola nuovamente cadere a terra e interrompendo il conteggio. Si volse verso Tina, facendole un cenno imperioso verso Brittany.
“Fagliele finire e fagliene fare altre dieci!”.
Almeno la sua sottoposta non sembrava severa e contava per lei: aveva il fiato corto e il viso arrossato, sentiva un fastidioso formicolio alle braccia, quando ebbe terminato.
Quando si rimise in piedi, osservò le altre ragazze alle prese con il diabolico percorso: in poche (e per fortuna tra queste vi era Marley che, dopo il primo anno di vessazioni, sembrava aver raggiunto maggiore sicurezza di sé) riuscirono a compierlo senza incidenti. In quel caso, Kitty si limitava ad un brusco cenno del capo e le esortava ad andare in palestra. Marley le rivolse un saluto e le mimò un “in bocca al lupo!”, ma non poté evitare di sentirsi abbandonata.
Sospirò ma, voltando il capo verso l’edificio, notò in lontananza un plotone di ragazzi: fu facile scorgere la figura mastodontica di Finn e riconoscere quella di Hunter che stava di fronte a tutti mentre illustrava un percorso simile al loro ma con maggiore combinazione di ostacoli e una struttura più alta sulla quale arrampicarsi.
Finn stava facendo flessioni ma gli sorrise quando alzò lo sguardo in loro direzione: a quel punto, evidentemente sorpreso di rivederla, cadde goffamente a terra e Brittany si lasciò sfuggire un verso di divertimento.
Trasalì quando scorse Kitty al suo fianco: si muoveva con una fluidità incredibile ed era incredibilmente silenziosa. “Bene, bene, Barbie: se sei così impegnata a flirtare con un crostaceo, immagino che non ti dispiacerà metterti in mostra”.
“Posso andare a salutarlo?”, le aveva chiesto confusa.
“CORRI!”, le diede uno spintone e Brittany, per la prima volta, dovette affrontare il temibile momento.
Se era relativamente facile correre e saltare gli ostacoli (“Solleva quella gambe da fenicottero!”, l’aveva ammonita Kitty che la seguiva, passo dopo passo), un po’ meno lo era superare la distesa di copertoni. Cadde varie volte e Kitty le impose di ricominciare da capo, elevando di volta in volta il numero di flessioni cui si sarebbe sottoposta alla fine del percorso stesso. Tuttavia, la biondina sembrò concentrarsi soltanto su di lei, affidando a Tina il resto del plotone.
Giunse alla parte più disgustosa e dolorosa: strisciare sul fango ed evitare di impigliarsi nel fil di ferro, aggrovigliato su se stesso.
“Veloce, fai presa sui gomiti! Rotolati o trascinati, devi arrivare alla fine!”.
Quando ne uscì, si accorse di aver perso il berretto: era scarmigliata, aveva tracce di fango sul viso, sotto le unghie, sulle braccia (si era sollevata le maniche della casacca) e la sua divisa era in pessime condizioni, senza contare che non emanava esattamente un buon profumo.
“Sei talmente patetica che voglio porre fine a questo scempio prima di rigettare il pranzo: scavalca l'altura, fai le tue flessioni e poi infilati sotto la doccia”, aveva arricciato il naso, l'espressione di disgusto più accentuata che mai. “Puzzi da morire”.
Si morse il labbro, Brittany: forse era quello il momento di dirle che soffriva di vertigini?
Qualcosa le suggeriva che Kitty si sarebbe arrabbiata (ulteriormente) e l'avrebbe torturata fino a quando non avesse avuto abbastanza pietà per mandarla sotto la doccia. Strinse i denti ma, malgrado la rincorsa e la fune, non fu facile provare a scalare l'altura: il fango sulle mani rendeva la presa meno stabile e così anche gli scarponi non riuscivano a farla attecchire coi piedi, così da potersi sollevare. Con estrema fatica, il viso pallido e il respiro ansante (e le urla di Kitty ad assordarla) giunse sulla sommità dell'altura, una sorta di base rettangolare sulla quale restò a cavalcioni, nel tentativo di prendere fiato. E, soprattutto, di non guardare in basso. Stava tremando alla consapevolezza di essere sospesa a tre metri dal terreno.
“Se hai finito di cavalcare, scendi prima che ti spari e ti faccia cadere io”. Non era una minaccia da prendere a cuor leggero, malgrado non vi fosse un fucile in dotazione (ma era certa che avesse una mira da cecchino).
Fu istintivo, e un madornale errore, guardare verso Kitty: gli occhi azzurri si spalancarono alla vista del terreno che sembrava volerla inghiottire. Le girò la testa e si aggrappò con dita tremanti alla struttura stessa, gli occhi chiusi spasmodicamente e il respiro ancora agitato.
“Scendi, SUBITO!”.
“N-Non posso”, pigolò con voce strozzata.
Cosa hai detto, Pierce?”, sembrava incredula ma prossima all'ennesima lavata di capo per quel giorno.
“Soffro di vertigini”, rivelò con lo stesso tono pigolante e angosciato.
“Oh, questo cambia tutto, perdonami”, Kitty si era portata teatralmente una mano al petto e Brittany aveva sollevato speranzosa il capo: capace persino di sconfiggere la sua ritrosia, all'idea che avrebbe fatto qualcosa in merito. In un anelito più infantile, le porse il braccio.
“Puoi aiutarmi?”.
Kitty ne scacciò la mano con una smorfia e gli occhi iniettati di sangue. “Che cosa faresti se dovessi soccorrere una delle tue compagne e dovessi scalare quell'altura per raggiungerla? La lasceresti stramazzare per una tua inettitudine?!”.
“No”, borbottò, Brittany, quasi offesa della domanda. “Chiamerei aiuto”.
A quel punto Kitty sembrò vicina al punto di ebollizione: stava stringendo spasmodicamente il pugno e Brittany fu certa che, se l'avesse avuta tra le mani, avrebbe potuto disfarle i connotati. Sembrò impiegare un lungo istante per riprendere controllo di sé e sibilare un: “Scendi, subito”.
Brittany sospirò e provò ad assumere la posizione più corretta: mosse lateralmente una gamba per puntellarsi, stringendo spasmodicamente la fune ma, alla vista del terreno, tremò nuovamente e chiuse gli occhi.
“Molto bene”. Kitty lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Vorrà dire che scenderai da sola o creperai là sopra: per me non fa differenza”, si volse verso il plotone: sembrò che nessuna delle sue compagne avesse qualcosa da dire o tanto meno vi fosse qualcuno divertito. “Se qualcuna di voi osa avvicinarsi o aiutarla, se la vedrà direttamente con me: sono stata chiara?”.
Sguardi preoccupati, qualcuno di pietà e di empatia ma nessuno rispose. Kitty parve soddisfatta e, incredula, Brittany le guardò lasciare il campo, dopo che si furono disposte in una fila ordinata.
Era completamente sola. Spaventata, affamata e sporca.

Non seppe quanto tempo fosse passato: stava canticchiando qualche filastrocca nel tentativo di stemperare la tensione e nell'attesa che Kitty cambiasse idea o, almeno, mandasse Tina a recuperarla. O che qualcuno avesse il buon senso di avvisare Neal di ciò che stava accadendole. Se soltanto avesse avuto il suo cellulare con sé.
Poteva andare peggio di così? Si domandò.
Udì un tuono in lontananza e, l'attimo dopo, gocce di pioggia, sempre più intense le punteggiarono il viso come proiettili ghiacciati. Cercò di sollevarsi ma la vista del vuoto sotto di sé la paralizzò nuovamente e, ben presto, ai suoi disagi, si aggiunse il freddo e i tremori conseguenti.
Sgranò gli occhi quando scorse un gruppo di ragazzi che, incuranti del temporale, stavano disponendosi nel campo vicino e, tra questi, vi era proprio lui.
“FINN!”, lo chiamò con voce rauca ma il vento e il rombo dei tuoni resero quel tentativo vano. Provò più volte ma lo scroscio era sempre più violento e neppure mulinare le braccia sembrò essere d'aiuto: chi si sarebbe aspettato che vi fosse qualcuno intrappolato in una simile situazione?

~

“Ricordami perché siamo qui, Hudson, sotto la pioggia”.
La voce di Hunter sembrava un sospiro quasi stanco e rassegnato e il ragazzo, al suo fianco, stava letteralmente sudando freddo: lo sguardo volto in un punto indeterminato di fronte a sé.
Finn increspò la fronte, nel tentativo di ricordare le esatte parole che gli erano state abbaiate contro. “Perché sono un incapace, inetto, un crostaceo non sviluppato, privo della coordinazione mano-occhio e peso cento chili di stupidità repressa”, stava letteralmente contando gli epiteti sulle dita della mano, lo sguardo concentrato ma parve aver ricordato tutto. “Signore”, aggiunse.
“Precisamente”, commentò, Hunter, le mani dietro la schiena nello scrutarlo prima di scuotere leggermente il capo. “Stenditi: cinquanta flessioni e poi sparisci dalla mia vista”.
“Signorsì, Signore!”.
Levò gli occhi al cielo, Hunter, fece cenno al suo sottoposto, di contare e di controllarne la corretta esecuzione e lasciò vagare lo sguardo sull'immensità dei campi.
Talvolta era qualcosa che soggiogava la vista per la sua immensità e l'odore della pioggia sembrava rendere tutto ancora più naturale: come recuperare il contatto con la natura e riuscire a sondare dentro sé stessi. Riuscire a trovare quell'innesto di energia e di forza interiore, quella che neppure era data a conoscersi. Era qualcosa di affascinante il modo in cui il corpo umano potesse adattarsi alle situazioni e compiere movimenti che divenivano armonici, naturali. Ed era tutto perfettamente sotto il suo controllo, tutto andava esattamente come...
Sbatté le palpebre a più riprese: lo sguardo si era fatto più attento. Probabilmente si era soltanto trattato di uno strano scherzo della luce di un fulmine ma aveva avuto l'impressione di aver scorto un... qualcosa. Senza pensare, le sopracciglia corrugate, avanzò verso quella direzione: valicando il campo cui di solito Kitty faceva addestrare il suo plotone.
Non aveva sbagliato: effettivamente qualcosa si era mosso ma non avrebbe mai immaginato che, avvicinandosi, avrebbe potuto riconoscere una sagoma umana.
Si fermò al centro del campo, incredulo: la giovane, scorgendolo, si era drizzata. Malgrado fosse fradicia, sporca e stremata, il suo sorriso sembrò abbagliarlo almeno quanto la luce del fulmine, tanto era stato repentino e sincero.
Era ancora sconvolto nell'osservarla e si fermò ai piedi dell'altura, gli occhi sgranati. “Pierce”, la chiamò con voce strozzata. “Cosa diavolo-?”.
“Non riesco a scendere!”, gemette la giovane che, malgrado l'evidente sollievo, sembrava più tremane e spaurita che mai: una bambina abbandonata a sé stessa e timorosa. E le macchie sul viso del fango rappreso e i capelli sciolti e spettinati, sembravano accentuare quella somiglianza.
Ricordò vagamente che il plotone di Kitty si era addestrato lì quello stesso pomeriggio.
“Mi stai dicendo che è da – fece un rapido calcolo mentale – tre ore che sei là sopra?!”, continuava a scrutarla, come se si fosse trattata di una rara specie animale.
Parve indifferente, Brittany, alla rivelazione: evidentemente non erano quei dettagli a premerle in quel momento. “Non lo so, non ho l'orologio”, spiegò, alzando la voce per cercare di sovrastare lo scroscio dell'acqua. “Puoi aiutarmi, ti prego!”, sembrò supplicarlo, allungando il braccio in sua direzione.
Era ancora più interdetto, Hunter, ma prese una rapida risoluzione: con un movimento agile si arpionò alla fune e, apparentemente senza alcun disagio suscitato dalla pioggia che avrebbe potuto farlo scivolare lungo la superficie, in pochi movimenti la raggiunse sulla sommità dell'altura.
“Devi essere simpatica a Kitty”, commentò in tono incredulo, osservandola con occhio clinico, constatando se la permanenza prolungata, le avesse causato qualche danno collaterale.
“Tu credi? Pensavo che mi odiasse”.
Che avesse un calo di zuccheri? Hunter pensò fosse meglio non chiederselo e scosse il capo prima di assumere un'espressione più decisa. “Devi soltanto tenerti alla fune e lasciarti scivolare: ti controllerò io da quassù”.
Le porse la corda ma Brittany scosse il capo, decisa. “No, no! Vai prima tu, ti prego!”.
Il tono era stato così pigolante e supplichevole, così timoroso di un rifiuto che Hunter si domandò come Kitty avesse potuto prendere un simile e irragionevole provvedimento su di lei. Sospirò ma annuì. In normali circostanze (se fosse stata un ragazzo, magari) le avrebbe allungato uno spintone o urlato contro, ma era evidente che non si trattava di un capriccio o sarebbe già scesa da tre ore.
“D'accordo, ascoltami: non devi guardare in basso, lascia scivolare le gambe e calati molto lentamente”, la istruì con tono più paziente mentre le mostrava lui stesso ciò che le aveva descritto.
Parve ancora dubbiosa. “Ma-”.
“Dovrai farlo prima o poi”, aveva sospirato stancamente. “E se non sarà con me, sarà con Kitty stessa: scegli tu”.
Sospirò Brittany ma comprese ed annuì: con suo sommo terrore, Hunter era già sceso e giunto a terra ma le fece cenno di afferrare la corda ed imitarne i movimenti. Si muoveva lentamente, in modo timoroso ed incerto e lo sguardo del ragazzo la seguiva senza battere ciglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se avesse superato quel primo e disastroso impatto.
“Lentamente, bene: sei quasi a metà”, le disse in tono rassicurante.
“Davvero?!”. C'era un entusiasmo infantile nel suo tono e, con disappunto di Hunter, si era voltata per constatare lei stessa quella verità, prima che avesse modo di impedirglielo.
La ragazza sbiancò letteralmente, la mano stretta spasmodicamente alla fune, aveva boccheggiato e tutto accadde in una rapida frequenza che non riuscì a controllare e tanto meno evitare. Si era sbilanciata troppo e aveva cercato di aggrapparsi nuovamente alla fune ma, complice la pioggia che ne rendeva la presa scivolosa, perse l'appoggio e cadde. Era stato un movimento istintivo quello di Hunter: le si era avvicinato per impedirle la caduta ma la giovane gli piombò addosso con lo stesso impatto violento di una cannonata.
Doveva aver battuto la nuca perché sentì la testa pulsare dolorosamente, nonché una certa confusione di pensieri, ma quando schiuse gli occhi, una sola immagine gli apparve nitida.
Limpidi occhi azzurri, innocenti e sgranati: il viso su cui il fango cominciava a colare come mascara, le labbra schiuse e l'espressione, seppur sorpresa e imbarazzata, era anche intrisa di letizia e di serenità. E constatando che gli stava ancora addosso, probabilmente non era una situazione... consona.
“Grazie, grazie: mi hai salvata!”, temette per un istante che stesse per abbracciarlo o ardire una qualche confidenza (come se stargli addosso così placidamente non fosse già indice di una prossimità decisamente fuori luogo) ma si limitò a passarsi una mano sul viso.
Emise uno sbuffo e si sollevò con il busto, facendo presa sulle mani sul terreno prima di inclinare il viso di un lato.
“Tecnicamente ho salvato l'altura che tu tenevi in ostaggio”.
Non era certo che quella osservazione polemica le facesse alcuna differenza e cercò di ignorare quella sensazione spiacevole di calore che affluiva al viso, malgrado fosse fradicio. Cercò di ignorare il modo in cui quel contatto aveva innestato un piacevole tepore, nonché la fragranza fin troppo dolciastra del suo profumo di fragola che riusciva a percepire malgrado l'odore ferroso della pioggia.
Inarcò le sopracciglia, in attesa che si scostasse: riusciva a sentire il suo corpo tremare e si disse che un tipino così delicato non fosse assolutamente idoneo a quel tipo di vita e dubitava che l'addestramento fisico fosse sufficiente se non fosse maturata psicologicamente.
“Sei stato gentile”, aveva sussurrato, probabilmente a mo' di giustificazione per quel ringraziamento tanto sentito ed entusiastico ma si era scostata e si era rimessa in piedi. Aveva sorriso con espressione trionfante al rivedersi appoggiata al terreno, prima di affrettarsi a porgergli la mano.
La ignorò e si rimise in piedi: sbuffò nell'osservare le macchie di fango sulla propria divisa.
“Mi dispiace”, doveva averne compreso la stizza e, morsicandosi il labbro, aveva cercato goffamente di rimuovergliele lei stessa: per quanto avesse potuto apprezzarne l'intenzione (ma lo stava davvero ancora toccando? Si era domandato, con espressione incredula), finì soltanto per sporcarlo ulteriormente.
“N-Non serve, ferma!”, le aveva preso la mano per istinto, con l'evidente intento di bloccarne l'iniziativa ma non seppe spiegarsi cosa fosse accaduto. Aveva sentito quelle dita fredde ed esili tremare nella sua stretta. Aveva sollevato il mento, la Pierce, e aveva gli occhi sgranati e gli parve di scorgere, laddove il viso non era coperto di fango almeno, un improvviso ed evidente rossore sulle guance.
Scostò bruscamente la mano e si schiarì la gola, calcando il berretto sul proprio capo e sistemandone la visiera.
“Dovresti rientrare”, avrebbe dovuto urlarle contro come avrebbe fatto con Coglion-Hudson ma non pareva legittimo, non quando appariva così vulnerabile.
“Sì”, annuì la giovane ma Hunter aveva sospirato.
“Vengo con te: voglio parlare con Kitty”.

~
Camminavano da una manciata di minuti ma il ragazzo non sembrava avere nulla da dire e Brittany lo guardò a disagio. Forse era ancora offeso per quanto successo quella mattina? O forse non le aveva ancora perdonato l'avergli sporcato la divisa (e l'essergli caduta addosso. Si era fatto male?).
“Scusa per stamani”, si arrischiò a dire pur di interrompere quel silenzio imbarazzante.
Il ragazzo sembrò confuso ed inarcò le sopracciglia con aria interrogativa, al che Brittany si affrettò a spiegarsi meglio. “Per quello che ho detto sul tuo papà: non volevo essere cattiva. Lui mi piace”. Aveva precisato, lasciando intendere che non era colpa di Mr Clarington, se insegnava una materia barbosa.
Scrollò le spalle, Hunter, e parve vagamente divertito. “Lo so che può risultare noioso quando spiega”, la scrutò a sua volta, un'espressione più critica ma incuriosita. “Ma almeno non mi costringe a stare qui: è una mia scelta”.
Brittany sentì uno strano singulto in petto ma si era accigliata. “Anche io l'ho scelto”.
Parve ancora più sorpreso, Hunter: aveva inarcato maggiormente le sopracciglia in un'espressione che Brittany aveva imparato a riconoscere fin troppo bene. Dopotutto, la guardava quasi sempre così. Ma non desistette dal volersi spiegare meglio. “Ho promesso di fare una prova, restando qui”.
Il cipiglio sul volto del Capitano si attenuò ma continuò ad osservarla critico. “Ammirevole”, aveva commentato in tono spiccio. “Ma credo sia ovvio che si tratti solo di uno spreco di tempo”.
Era trasalita, Brittany, e si era fermata bruscamente, incurante che l'altro stesse continuando ad avanzare verso l'edificio. “Credi che non sia adatta a questo posto?”.
Hunter, che si volse quando si accorse che non gli camminava al fianco, si avvide che sembrava volere una risposta sincera. “Credi di esserlo, onestamente?”, lo sguardo verde indugiò sulla divisa che, per il primo giorno, sembrava irrimediabilmente sgualcita e che avrebbe dovuto sostituire anche solo per presentarsi al rancio.
Si soffermò sul viso sporco e Brittany arrossì ricordando che Kitty aveva alluso al fatto che puzzasse. Ciononostante il fastidio cresceva e le stringeva lo stomaco. Non era decisamente lo stesso strano mal di pancia che aveva sentito quando l'aveva guardata dritta negli occhi o ne aveva stretto la mano.
Scosse il capo ma arricciò il naso. “Grazie per l'aiuto ma rientro da sola: la strada la ricordo”, si era sentita dire in tono educato ma che lasciava trapelare un'inedita volontà di tenerlo a distanza, nonché un formalismo che stonava con l'espressione di puerile fastidio che era tanto palese.
Lo sentì prenderle il braccio e lo guardò con occhi sbarrati: attese che mollasse la presa e strinse il pugno lungo il fianco.
“Non fare la bambina”, le disse in tono sospirato ma con quell'espressione composta ed insofferente.
“Io non sono una bambina!”, si era sentita strillare e la sua voce parve echeggiare nei campi distesi di fronte a loro.
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, il viso inclinato di un lato e un sorrisetto divertito. Se almeno poteva esserlo, visto quanto sembrava sempre serio e composto. Di certo non sembrava essersela presa per il suo tono poco conciliante. “Disse, pestando i piedi”, sussurrò Hunter che gettò uno sguardo ai suoi anfibi.
“Io non-”, era arrossita e aveva osservato i propri piedi prima di scuotere il capo. “Buonanotte!” lo aveva salutato, infine, in tono rigido e formale prima di voltarsi con l'intento di ignorarlo.
Era rimasto a lungo immobile, Hunter, prima di scuotere il capo bruscamente e rientrare nell'edificio con passo imperioso.

Quaranta minuti dopo, anche dopo la lunga doccia rilassante e benefica, si sentiva ancora agitata: era probabilmente la prima volta che le parole altrui le suscitavano quel fastidio e quell'offesa. Impiegò molto tempo a pulirsi il viso su cui le macchie di fango sembravano essersi seccate, quasi a divenire permanenti. Molto altro a cercare di districare i capelli piedi dai nodi.
Era avvolta nell'asciugamano e stava ancora muovendo il pettine (tra un gemito e l'altro) quando, dallo specchio, scorse l'ingresso di Kitty: era furiosa e sembrava più decisa che mai mentre le si parava alle spalle. Prima che comprendesse cosa stava per accadere, Kitty l'afferrò per i capelli, costringendola a piegarsi in ginocchio. Un verso strozzato di dolore, gli occhi colmi di paura e di confusione.
“Un'altra parola con Hunter e giuro che ti affogo, mi hai capito bene, ochetta?”.
“Io non-”.
“Non provare a tornare a piangere da lui o dal tuo patrigno: qui siamo soltanto io e te. E ti giuro che questa me la pagherai cara”.
Tremava, Brittany, ma evidentemente quello era stato solo un avviso: l'aveva fatta cadere con uno strattone sul pavimento e soltanto quando Kitty si fu allontanata, dopo aver sbattuto la porta con violenza, si sollevò con il busto. Lentamente si appoggiò alla panchina dello spogliatoio: si strinse le ginocchia al petto e un roco singhiozzo le scivolò dalle labbra.
Sentì le lacrime che aveva trattenuto per tutto il giorno, scivolare copiose e non cercò neppure di fermarle: ripercorse quella terribile giornata e la consapevolezza che quelle successive non sarebbero state migliori, la fece tremare ulteriormente.
Kitty era persino convinta che aveva chiesto aiuto al ragazzo e sapeva che sarebbe stata persino più crudele e avrebbe dovuto affrontarla. Da sola. E voleva ignorare il pensiero che le parole di Hunter fossero più che veritiere e che avrebbe dovuto discutere con Neal e sua madre e arrecare loro, inevitabilmente, una delusione.
Continuò a dar sfogo a quelle paure, i singhiozzi più forti ma incurante del freddo e della fame, fino a quando non udì dei passi in avvicinamento. Si affrettò a tamponarsi goffamente il viso con le mani ma sospirò di sollievo quando riconobbe la sagoma di Marley.
“Ti ho cercata ovunque”, le disse in un sussurro delicato per poi accorgersi del suo evidente stato d'animo. “Cosa è successo?”. Le si era seduta accanto e l'aveva stretta in un caldo abbraccio, accarezzandole delicatamente la schiena e i capelli.
“Sfogati quanto vuoi”, le aveva detto e Brittany sentì qualcosa rompersi dentro di sé: era esattamente ciò che le diceva sua madre quando, da bambina, tornava da scuola raccontando dell'angheria delle bambine più prepotenti.
Non seppe quanto tempo fosse passato: si abbandonò a quel dolce calore e, lentamente, il suo corpo si distese e restò semplicemente con il viso appoggiato sulla spalla della ragazza, inspirandone il profumo fruttato. Quando si fu finalmente calmata, si scostò con un sorriso riconoscente.
“Non dire a nessuno che piangevo, per favore”, le aveva chiesto in tono angosciato e Marley le aveva stretto la mano rassicurante.
“Sei al sicuro con me”.
Aveva sospirato Brittany che si era abbandonata alla parete alle sue spalle. “Ha ragione lui, dovrei andarmene da qui, ma ho fatto una promessa”. Sembrava sconsolata su quella questione.
“Lui chi?”, le chiese Marley confusa.
Le raccontò di come era scesa dall'altura e di come Hunter era parso contrariato e desideroso di parlare con Kitty. Ma non avrebbe mai immaginato che le avrebbe rivolto un rimprovero o qualcosa di simile e che questo, inevitabilmente, l'avrebbe inviperita ulteriormente.
“Devi stare attenta: Kitty vuole Hunter da sempre e il fatto che lui non la consideri, non le giova all'umore”, era parsa pensierosa. “Ma è la prima volta che interviene per difendere una di noi”, la stava ora scrutando come a cercare di comprendere in che modo avesse fatto presa su di lui.
“Ma lui mi disprezza”. A differenza di quel mattino non c'era timore di non piacergli, quanto una polemica constatazione, legata a quell'ultima conversazione tutt'altro che piacevole.
“Io non credo e non lo crede neppure Kitty e questo è un bel problema”.
“Ma io non ho fatto niente”, aveva pigolato nuovamente, Brittany, stanca di quelle implicazioni. “Cerco solo di essere gentile con tutti”.
“Lo so”, le aveva sorriso dolcemente Marley. “Ma non tutti sono così”.
“Tu lo sei”, aveva ribattuto Brittany il cui viso, finalmente, si schiarì in un autentico sorriso. “E' bello averti qua”.
“Anche per me”, le aveva sorriso Marley che l'aveva stretta in un altro abbraccio.
Sospirò, Brittany. La vita in Accademia prometteva di essere persino più dura di quanto si sarebbe immaginata ma, malgrado tutto, vi era qualcuno che sembrava davvero credere in lei.

To Be Continued...


Capitolo più corposo ma era necessaria una piccola introduzione sull'aspetto più “tecnico” della mia interpretazione della vita militare. Prometto che nei prossimi capitoli ci si soffermerà di più sugli aspetti relazionali ma credo che questo già abbia fornito qualche spunto di riflessione sulle psicologie dei personaggi e sul tipo di relazione che si creerà tra loro :)
Ringrazio, come sempre, coloro che leggono e seguono questa fanfiction, in particolare le splendide fanciulle che allietano questo appuntamento con le loro recensioni e riflessioni che apprezzo più di ogni altra cosa :D

Una piccola anteprima del prossimo capitolo:
E' molto sexy. E così è quello il Capitano”. “Dei ragazzi”. “Potresti infiltrarti”. “Mamma!”.
Come sei formale, Hunter, sono sicuro che che non le dispiaccia esser chiamata per nome”.
Da quando l'essere una famiglia è definito da una scelta scolastica?” “E tu, allora? Non lo hai fatto per tuo padre?”. “E' il mio posto”. ”Eppure non sembri felice”.

Grazie dell'attenzione e buon week end a tutti! :)
Kiki87











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Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


3
Dimitri: Senti, credo che siamo partiti con il piede sbagliato...
Anastasia: Bè, sì, lo credo anch'io...
Dimitri: Va bene.
Anastasia: Ma gradirei le tue scuse...
Dimitri: Le mie scuse? No, chi ha parlato di scuse; stavo solo dicendo...
Anastasia: Ti prego, non dire altro, Dimitri; finiresti solo per farmi arrabbiare.
Dimitri: Bene, starò zitto se starai zitta anche tu..
Anastasia: D'accordo, starò zitta.
Dimitri: Bene.
Anastasia: Bene.
Dimitri/Anastasia: Bene!
(Dialogo tratto dal film animazione “Anastasia”)


Capitolo 3.


Il weekend non le era mai apparso così seducente e così lontano, dopo quella prima settimana trascorsa in Accademia, tra le grinfie di Kitty. Ma era grata della presenza di Marley e anche di qualche sporadico incontro con Finn, sempre stremato dal carico d’allenamenti extra a cui Hunter Clarington lo sottoponeva. E non solo: il modo in cui gli urlava contro quando arrabbiato, le parole poco carine che gli rivolgeva, rendevano tutto, se possibile, ancora più spiacevole ai suoi occhi.
Brittany e il Capitano non avevano più scambiato parola, ma ogni volta che ne sentiva la voce o ne scorgeva il profilo in refettorio (la sua figura sembrava sempre spiccare, malgrado fossero circondati da persone vestite allo stesso orribile modo) o Finn ne parlava, non poteva fare a meno di sentire quel moto di fastidio e di risentimento. Sentimenti che, nonostante i tormenti di Kitty, la spronavano a non arrendersi. Doveva solo ricordare la persona per cui stava resistendo: sua madre aveva già dovuto rinunciare alla sua passione per la danza quando, poco più che diciottenne, aveva scoperto di aspettare un bambino. Non le avrebbe rovinato il sogno che stava vivendo con Neal.
Lui stesso era sempre gentile e non mancava di chiederle della vita in Accademia: in quei momenti ricordava le minacce di Kitty e (anche per rivalsa personale, nonché la volontà di imparare a cavarsela da sola) si limitava a sorridere e rispondere con un automatico: “Va tutto bene, grazie”.

Era scesa dall'auto di Neal con rinnovata energia: la sola vista della villetta le aveva fatto stringere il cuore. Era una deliziosa casa in stile vittoriano con ampie finestre ad arco, le pareti di un delicato color crema e un portico sotto il quale vi era un dondolo che consentiva di sedersi la sera e rimirare il meraviglioso cielo stellato. Stava ancora percorrendo il vialetto, quando la porta si schiuse e sua madre l'accolse tra le braccia: non avrebbe saputo dire chi delle due avesse raggiunto l'altra ma neppure sarebbe stato rilevante. Ciò che contava, in quel momento, era percepirne realmente la presenza: il suo profumo, il calore di quel contatto e le sue labbra a sfiorarle la fronte e le sue carezze tra i capelli. Erano momenti nei quali le sembrava di tornare bambina e non esisteva nessun altro che lei e il loro mondo. Momenti per cui valeva la pena allontanarsi da casa per una settimana, sapendo chi l'avrebbe attesa al suo ritorno.
Fu il pomeriggio più spensierato e tranquillo da che erano arrivate a Colorado Spings e Neal aveva ben pensato di lasciare che trascorressero del tempo tra loro. Brittany ancora una volta fu colpita dalla sua dolcezza e disponibilità ma era anche vero che, a differenza della ragazza, Neal non aveva alcun obbligo di pernottare nell'edificio.
Rimasta con la madre, gustandosi una cioccolata calda in centro, le raccontò della routine d'addestramento e Shirley ne rimase evidentemente sorpresa, ma non mancò di fare altri commenti al riguardo. Riusciva perfettamente ad immaginarla mentre, nei momenti di noia, trafugava una piantina dell'edificio e la studiava minuziosamente per farle domande al riguardo.
“E hai già visto la sala da ballo?”, le chiese infatti.
Brittany aveva sospirato e scosso il capo. “Kitty non mi ha dato tregua: devo allenarmi duramente fino a quando non riuscirò a fare il percorso rapidamente e senza errori”.
Omise la parte in cui avrebbe dovuto raccontarle delle successive esperienze con l'altura: ogni volta cercava di sconfiggere la sua fobia per l'altezza. Se la salita era divenuta più agevole, la discesa non lo era altrettanto. O vi era Kitty a sbraitarle addosso, oppure il ricordo dell'intervento di Hunter e non era raro che quel momento di distrazione le fosse fatale.
Sua madre le sorrise con aria comprensiva. “Sono sicura che avrai tutto il tempo”.
Si accigliò appena Brittany: non era soltanto il tempo ad esserle poco favorevole. Spesso, a fine giornata, erano le energie che tendevano a mancarle: si lasciava cadere sul letto e sprofondava nel sonno piuttosto rapidamente, malgrado avesse riportato anche lividi ed ammaccature che neppure i parquet di danza le avevano mai inflitto.
“Neal mi ha detto che si terrà un ballo per festeggiare l'anniversario dell'Accademia”, le disse con sguardo illuminato e Brittany ebbe la sensazione che sua madre stesse smaniando di toccare quell'argomento.
Fece una vaga smorfia, tuttavia: non era la prima volta che ne sentiva parlare, in effetti, ma ciò non ne aveva innestato una particolare attenzione.
Tutt'altra cosa per Marley che sembrava più che fremente alla prospettiva e spesso lo sguardo si volgeva ad un tavolo dove erano seduti ragazzi in uniforme. Chi guardasse con precisione, Brittany ancora non lo aveva capito, ma avrebbe atteso che fosse l'altra a farne parola.
Annuì con una vaga scrollata di spalle, molto più concentrata sul semifreddo alla fragola che stava infilzando con la forchetta. Ma sperare che ciò avrebbe placato la curiosità della madre, sarebbe stata una vana ed irrealistica aspettativa.
“E c'è qualcuno di speciale da cui aspetti l'invito?”, la incalzò, infatti, con tono che voleva apparire pacato e casuale ma che nascondeva una reale e fremente curiosità. Non occorreva conoscerla in modo approfondito per cogliere, dal luccichio dello sguardo e dal sorriso allusivo e complice, che fosse molto più interessata a quell'aneddoto, rispetto alla routine di una caserma.
Ciononostante, ancora una volta, Brittany parve cadere dalle nuvole: sbatté le palpebre prima di scuotere il capo e stringersi nelle spalle. “Non so se ho voglia di andarci”. E poiché il ballo si sarebbe tenuto di Venerdì sera, avrebbe preferito di gran lunga partire il pomeriggio per trascorrere il weekend a casa.
“Ma Neal ci rimarrà malissimo!”, protestò Shirley il cui tono divenne più supplichevole nel cingerle nuovamente la mano. “E poi avremo un'occasione d'oro per fare shopping”.
Finse di rifletterci sopra, Brittany, un sorriso che già prepotentemente voleva arricciarle le labbra: avrebbe potuto anche pazientare di qualche ora se significava tornare a fare spese come negli 'shopping day' che organizzavano durante i weekend newyorkesi.
“E poi potremmo andare al cinema e cenare fuori”, propose a sua volta ma Shirley assunse un'espressione dispiaciuta.
“Stasera temo di no, stellina: Neal ha invitato un amico a cena e non vede l'ora di farmelo conoscere”.
Parve spiazzata Brittany ma, dopotutto, Neal aveva concesso loro un intero pomeriggio e non poteva certo negargli quell'occasione cui pareva tenere particolarmente. Annuì per poi farsi pensierosa. “Dovrò restare anche io?”.
“Ovviamente”, rispose lesta Shirley che rubò, con un abile colpo di forchetta, un poco del suo semifreddo. “Non vorrai lasciarmi sola con dei militari?!”, le chiese in tono ironico.
“Va bene”, assentì e Shirley sorrise nuovamente soddisfatta.
“Oggi ti troveremo un vestito da favola e domani sera avremo una serata tra donne!”, annunciò e Brittany si lasciò coinvolgere dal suo entusiasmo, come sempre.
“Promesso?”.
“Col mignolino!”. Shirley rise, porgendole il mignolo che Brittany strinse: una piccola abitudine che avevano preso da quando era solo una bambina e la mamma le prometteva un'ora in più di cartoni, in cambio di una porzione di verdure.

Il pomeriggio era stato meraviglioso: avevano girato nel centro della città fino a scovare boutique d'abiti dal marchio prestigioso. Anche se non avrebbe partecipato al ballo, sua madre aveva desiderato ardentemente rinnovare il guardaroba, persino alludendo alla cena di quella sera stessa. Mentre la osservava nel lungo abito scuro, Brittany richiamò alla mente le immagini dei libri delle favole, quando la splendida principessa trovava l'abito perfetto, quello con il quale sarebbe stata in grado di conquistare il suo principe.
“Sei bellissima”, aveva sussurrato con reverenza mista ad ammirazione e la madre le aveva sorriso.
“Lo so”, aveva commentato giocosamente, ammiccando e guardandola dal riflesso dello specchio, prima di avvicinarsi e baciarne la fronte.
“Ma adesso è il momento di pensare al tuo abito per il ballo”. Le aveva pizzicato il naso e, dopo essersi nuovamente cambiata, era letteralmente schizzata nella zona degli abiti da prom che aveva già occhieggiato appena erano entrate.
Brittany la seguì senza particolare trepidazione. “Mi annoierò tutta la sera”, si lagnò, infatti, ma Shirley, già una mezza dozzina d’abiti appoggiati sul braccio piegato, scosse il capo.
“Non dire sciocchezze”, si era concessa di guardarla e lo sguardo era divenuto più provocatorio e malizioso. “Tutti quei bei ragazzi palestrati che si tireranno a lucido per contendersi le ragazze e le guarderanno come non n’avessero mai vista una, dopo che per una settimana si sono rotolate nel fango, senza neppure farsi la ceretta o sfoltirsi le sopracciglia. Ah, quasi ti invidio!”. Sospirò, immaginando evidentemente la scena con incredibile dovizia di dettagli.
“Io non sono brava in queste cose”. Aveva ribattuto, Brittany, le braccia incrociate al petto e si era appoggiata allo scaffale, apparentemente indifferente alle selezioni accurate della madre.
“I bei ragazzi o i balli di sala?”, le aveva chiesto, il viso inclinato di un lato e l'espressione curiosa ma Brittany era arrossita alla menzione dei ragazzi, soprattutto se ciò significava implicare una tipica interazione da ballo o da occasione vagamente... romantica.
“Tutti e due”.
Shirley si era fermata: la mano sul fianco e l'altra che tratteneva una quantità impressionante di abiti senza neppure stropicciarli. Sembrò scrutarla dall'alto al basso, l'aria più sospettosa. “Ma ce ne sarà uno che ti piace”.
Brittany aveva sbattuto le palpebre per poi farsi pensierosa. “Finn è molto dolce e simpatico”, si sentì dire con tono composto e un sorriso di simpatia al pensiero del ragazzone che probabilmente era la persona più empatica in fatto di punizioni ed esercizi extra.
Parve poco convinta, Shirley: evidentemente nel suo sguardo o nel suo tono non c'era nulla che lasciasse presagire qualcosa di particolare. “E qualcuno di... misterioso o affascinante? O magari misterioso ed affascinante!”.
Si accigliò, Brittany: non aveva guardato molto gli altri ragazzi a dirla tutta. Neppure aveva mai scambiato parola con qualcuno che non fosse Finn. Sapeva che c'era quel tale coi capelli alla Justin Bieber che si litigava Marley con un altro che le sembrava troppo musone1.
Finn aveva sempre quel sorriso da gigante buono, anche se il suo Capitano lo trattava sempre male. Il pensiero si soffermò su quel volto e il momento in cui ne aveva scrutato lo sguardo verde, così tanto da destarle quella fitta allo stomaco. Non c'erano dubbi che Kitty se lo sarebbe tenuto ben stretto quella sera. Lui pareva carino, almeno fino a quando non si comportava in modo scontroso e maleducato.
“Quel ragazzo!”, l'additò la madre con aria trionfante e Brittany quasi trasalì: neppure si era accorta di essersi evidentemente isolata e che la donna la stava ancora scrutando.
“Cosa?”.
“Quello a cui stavi pensando dieci secondi fa, allora? Voglio sapere tutto”, adesso pareva avere un'espressione più battagliera Shirley, quasi offesa perché non ne aveva fatta menzione fino a quel momento.
“Non c'è nulla da dire”, si affrettò a rispondere Brittany che, per qualche motivo, arrossì. “E poi è già impegnato e poi... lui non mi piace!”, terminò la frase con voce quasi strozzata, ma le guance che ardevano maggiormente.
“E' uno scorfano?”, adesso Shirley aveva un'espressione quasi schifata.
“Cos'è uno scorfano?”, le chiese Brittany confusa.
Fece un vago gesto Shirley, quasi ad ignorare la domanda superflua. “E' brutto?”, le chiese a bruciapelo.
“Ha un brutto carattere”, specificò Brittany e Shirley sorrise evidentemente compiaciuta, al che si affrettò ad aggiungere: “Non mi piace, non parliamone più!”.
Arricciò il naso, Shirley, ma si strinse nelle spalle. “D'accordo, d'accordo”, concesse con tono neutrale, prima che lo sguardo azzurro si posasse su un abito e sembrò restare letteralmente folgorata, tanto da lasciar cadere il carico che si era posta sul braccio.
“Guarda quel vestito: devi assolutamente provarlo!”.

Quando uscì dal camerino e si fermò di fronte allo specchio, la madre trattenne il fiato. Ma Brittany stessa, seppur non si fosse mai sentita una principessa; non poté fare a meno di rimirarsi con gli occhi sgranati e le guance rosate.
Accarezzò il corpetto del vestito, le mani scivolarono lungo la gonna dello stesso, quasi non riuscisse ad adattare l'immagine riflessa con quella reale che aveva imparato a conoscere giorno dopo giorno. E che l'Accademia sembrava snaturare, togliendole quanto la rendeva più femminile.
L'abito che indossava era semplicemente perfetto. Non riusciva a trovare altre parole per descriverlo e, ciononostante, non riusciva ad accostarlo a ciò che la sua vita era stata fino a quel momento.
“Non è per me, vero?”, chiese esitante, morsicandosi il labbro. “Lo sapevo, dovrei-”, aveva fatto per sollevare il lembo della gonna e rientrare ma la madre le aveva appoggiato le mani sulle spalle e l'aveva indotta a specchiarsi. Con gesti delicati ma decisi, Shirley le modellò i capelli con qualche forcina per farne una pettinatura improvvisata ma più elegante.
“Sembri una principessa”.
Sentì il respiro mancarle: da quanto tempo qualcuno non la definiva così? E mentre si osservava, per la prima volta, provò a dirsi la stessa cosa.
Sono una principessa.
“Sarai meravigliosa ma soltanto se non avrai paura”, le aveva accarezzato delicatamente la guancia e Brittany si era specchiata nel suo sguardo dallo scintillio più dolce e materno. “Tira fuori la principessa che è in te. Lei attende da molto tempo”.
Aveva scrutato un'altra volta il suo riflesso, si era dondolata leggermente prima di compiere una breve piroetta, un sorriso più luminoso a farne risplendere lo sguardo azzurro.
Annuì, infine, e sorrise alla madre. Forse quella sera non sarebbe poi stata così male.2

~
Era valsa la pena affrontare quella terribile settimana e quelle ore trascorsero in modo così piacevole, che sembrò dimenticare che da lì a poche ore sarebbe tornata in Accademia. Aveva respinto il pensiero con veemenza e aveva cercato di serbare ogni singolo istante trascorso con sua madre e in quella casa.
Si contemplò allo specchietto della toeletta: dopo giorni in uniforme – e persino sporca di fango o bagnata per la pioggia – poter nuovamente indossare un vestito o sentirsi femminile nell'applicare un velo di trucco, costituiva un vero e proprio toccasana. Frugò tra i cassetti del suo piccolo portagioielli a forma di scrigno fino a scegliere un paio di pendenti che, una vaga smorfia quando l'ago le pizzicò l'orecchio, riuscì ad appendere ai lobi, prima di volgersi verso la porta aperta che dava sul corridoio.
“Mamma, vieni a pettinarmi i capelli?”, la chiamò a voce alta, cercando di sovrastare il trambusto che proveniva dalla camera matrimoniale. Sua madre aveva accolto l'occasione di una serata diversa per poter, a sua volta, dare sfoggio della sua femminilità, nonché concedersi lo sfizio di indossare l'abito comprato quello stesso pomeriggio.
Giunse pochi istanti dopo: semplicemente incantevole nella veste che ne metteva in risalto l'elegante silhouette e nei capelli trattenuti in una coda alta, un filo di trucco ad impreziosirne i lineamenti, senza tuttavia appesantirli ma risaltandone la dolcezza. Prese la spazzola e si accomodò sul letto, alle spalle della figlia e prese a strofinare i capelli sciolti con le setole.
“Mhm, sono pieni di nodi”, osservò e ciò era desumibile anche dalle smorfie puerili che apparvero sul volto di Brittany nei momenti in cui indugiava sulla stessa ciocca, nel tentativo di districarla. “Il fango non è un buono shampoo”, dichiarò in tono leggero e complice.
“Mi mancava”, sussurrò Brittany con tono addolcito al pensiero di quella loro routine che era rimasta tale, fin da quando era solo una bambina e si mettevano in pigiama (spesso coordinato) e, dopo il bagno caldo e quei trattamenti di bellezza, si concedevano la visione di un film con Colin Firth o Hugh Grant.
“Anche a me: la casa è così vuota senza di te”, era stato il commento altrettanto intenerito e nostalgico. Le appoggiò le mani sulle spalle e la indusse a voltarsi, così da guardarla in viso. “Lo sai che sarai sempre la persona più importante per me e che non farei mai nulla che possa ferirti?”.
Aveva annuito la ragazza, un sorriso più dolce nell'osservarla, il viso inclinato di un lato. “Lo so”. Aveva confermato, pur domandandosi perché in quel momento le stesse ribadendo quelle parole: se qualcosa l'avesse indotta a farlo oppure qualche diceria sulla sua prima settimana all'Accademia che era giunta fino a Neal e, quindi, a lei?
“Non dimenticarlo mai”, era sembrata una sorta di supplica ma, prima che Brittany potesse interrogarla al riguardo, si riscossero al sentire un lieve colpo di clacson e il rombo del motore di un'auto in avvicinamento.
Si guardarono l'un l'altra prima che, uno scatto felino e la medesima curiosità, si appiattissero ai due lati della finestra della camera: fu Shirley la prima a sporgersi ad osservare l'alta figura che stava uscendo dal SUV. Brittany si sporse a sua volta e le mancò il fiato quando riconobbe quella corporatura.
Sembrò impallidire. “E'...è lui il nostro ospite?”.
“Loro”, la corresse Shirley e, anche senza guardare, Brittany seppe che il suo peggior dubbio era stato confermato. Ma fu comunque con sguardo vitreo che ascoltò la spiegazione della madre che, troppo intenta a curiosare da quell'altezza, non sembrò accorgersi della sua espressione.
“I Clarington: Jonathan sarà il testimone di Neal”, sembrò avvedersi del silenzio perché si volse alla figlia. “E' un tuo insegnante?”.
Ma non era lui che Brittany stava ancora scrutando: gli occhi sgranati e le labbra schiuse. E dovette ricorrere a tutto il suo autocontrollo per non mordicchiarsi il labbro, rischiando così di sbavare il trucco.
“E' un professore così severo?”, insistette Shirley, ma Brittany si era scostata dalla finestra e aveva scosso il capo. Aveva stretto le braccia al petto in un atteggiamento istintivamente difensivo.
“No, non è lui il problema”, borbottò in tono più risentito e Shirley seguì il suo sguardo fino a quando non scorse finalmente il ragazzo.
Un repentino sorriso malizioso le increspò le labbra e sembrò completamente dimentica del fastidio appena manifestato dalla figlia. Al contrario, si puntellò le mani sui fianchi e lo rimirò con il viso inclinato di un lato. “Se è questo il prototipo di soldato, arruolami subito!”.
“Mamma!”, aveva protestato debolmente, Brittany, le guance arrossate. “E poi... poi non è così... bello”, aveva soggiunto. Ma neppure lei pareva credervi realmente. Non che questo cambiasse il suo giudizio sul suo brutto carattere e quel modo di fare che non le piaceva. Semplice ma chiaro.
La guardò con espressione scettica, Shirley ma ammiccò. “E' molto sexy”, rimarcò. Un verso indignato in risposta, da parte della figlia. “E così quello è il Capitano”.
“Dei ragazzi”, specificò Brittany.
“Potresti infiltrarti”.
“Mamma!”, ma non sembrò udirla, Shirley.
“E' quello che farei io”, sembrò soppesarlo con sguardo più critico. “Certo, sembra un po' musone ma scommetto che tra quelle braccia-”.
“Oh, basta!”, Brittany si era portata le mani alle orecchie e Shirley aveva riso, prima di sollevare le mani.
Ma sembrò non resistere all'ulteriore tentazione. “Quindi è lui il tuo uomo misterioso e affascinante”, ribadì le parole di quel pomeriggio.
“Ti ho detto che non mi piace”, protestò Brittany, lasciandosi cadere con uno sbuffo sul pouf di fronte al tavolino da trucco.
“Curioso, perché più lo dici e meno mi convinci”, fu la replica leggera di sua madre che si chinò ad osservarsi allo specchio per controllare gli ultimi dettagli.
Brittany la fissò dal riflesso: le labbra schiuse in un'espressione di indignato stupore ma, prima che potesse ribattere, si riscossero ad uno schiarimento di voce. Si volsero ad osservare Neal, la mano chiusa a pugno che era appoggiato allo stipite della porta aperta. Sorrise ad entrambe.
“Mi spiace interrompere, signore”, esordì in tono leggero, lo sguardo vivace che le scrutò entrambe con evidente adorazione ed orgoglio. “Ma sarebbe carino se la mia fidanzata fosse presente, quando le presenterò il mio testimone”.
“Arrivo”, replicò allegramente, Shirley, che volse un ultimo sguardo ammiccante alla figlia. “Non vedo l'ora”, aggiunse in tono più malizioso.
Brittany sbuffò e affondò il viso tra le mani in un'espressione di stoica sconfitta e di frustrazione, scostandosi con malagrazia i capelli dal viso, prima di voltarsi verso Lord Tubbington, indolentemente steso sul suo letto.
“Deve essere un incubo”, borbottò in sua direzione e il micione la osservò pigramente, socchiudendo appena gli occhi ai grattini sotto il mento. “Non dovrebbe uscire con Kitty nei weekend?”, chiese in tono evidentemente risentito mentre, dal piano di sotto, sentiva il suono attutito dei primi saluti.
Lord Tubbington miagolò in risposta.
“Potrei restare chiusa qui”, e l'idea già sembrava illuminarle lo sguardo. “In fondo potrebbero pensare che non sono in casa, devo solo avvisare la mamma e-”.
“Britty Woman?”.
La voce di sua madre, straordinariamente alta e flautata, a mo' di cantilena, si udì dal piano di sotto e Brittany s’irrigidì impercettibilmente, gli occhi sgranati nel vuoto.
“Ti stiamo aspettando!”, aveva aggiunto e mai come allora Brittany avrebbe desiderato il dono dell'invisibilità.


~

Era sceso dall'auto del padre, Hunter, e aveva contemplato la villa illuminata dai lampioni la cui luce fluorescente e quella lattiginosa della luna si posava delicatamente sul vasto giardino. Aveva un'espressione accigliata: in verità si stava ancora domandando per quale motivo avesse accettato di partecipare: l'invito del padrone di casa era stato gentile, ma non era la mera educazione a rendere quella prospettiva più esaltante. Non che avesse in programma qualcosa di più emozionante: fuggire dall'Accademia, lo avrebbe allontanato per almeno quarantotto ore da quella faccia beota e dai movimenti scoordinati di Finn Hudson. Altrettanto era stato sconcertante trovarsi di fronte Kitty, la quale aveva alluso al fatto che dovesse invitarla a cena, a mo' di scuse per essersi intromesso nella sua personale conduzione dell'addestramento delle sue reclute. Ma sapeva che con quella formula, stava riferendosi solo ed esclusivamente alla cosiddetta Barbie che aveva odiato dal primo istante. Checché la giovane – fastidiosamente appiccicosa nello sbattere le palpebre un numero spropositato di volte; dando luce ad un lato più sfacciato e femmineo, rispetto a quello tirannico e più professionale – vi avesse voluto speculare, aveva soltanto adempiuto ad un proprio dovere e senso di responsabilità. A prescindere da chi fossero il Capitano e la recluta coinvolte.
Non si era scomposto, quando era apparsa delusa al vederlo caricare il suo semplice bagaglio nel SUV del padre: si era mossa sinuosamente per poi sussurrargli all'orecchio un “Al ballo sarai tutto mio: lo sappiamo entrambi”. Si era stretto nelle spalle: checché ad un suo coetaneo tali moine potessero risultare invitanti, si scopriva sempre più indifferente. In vero c'era ben poco che sembrava scuoterlo.
Si riscosse allo scorgere il padre al suo fianco e risalirono il vialetto, fino all'uscio d’ingresso.
“Spero tu non avessi altri impegni per stasera, ma sono sicuro che Kitty non avrà problemi a rimandare”, sentì la voce del padre rammentargli.
Sbatté le palpebre, Hunter, evidentemente confuso ma Jonathan sorrise appena, un'increspatura quasi curiosa. “Sembrate andare d'accordo ed è del tuo stesso ambiente, un Capitano severo ed efficiente e-”.
Si strinse nelle spalle, Hunter, senza scomporsi. “Mi ha proposto di andare insieme al ballo dell'anniversario della fondazione”, ma dal tono non traspirava alcuna aspettativa. Sembrava essere un dato di fatto: un altro compito che dovesse assolvere per adempiere ad una lista di doveri che competevano al suo ruolo.
Sospirò, Jonathan, nell'osservarlo. “Cerca di nascondere l'entusiasmo: potrei preoccuparmi”.
“Sto bene”, Hunter scosse appena il capo, prima di indicargli la porta. “Suona il campanello”, lo incoraggiò ed affondò le mani nelle tasche dei pantaloni.
Il padre, seppur dubbioso della veridicità di quelle parole, allungò il braccio ma lo scrutò con espressione corrucciata. Sembrò in procinto di aggiungere qualcosa, ma la porta si schiuse e Neal sorrise ad entrambi.
Con il consueto calore, li esortò ad entrare. Al suo sorriso poteva fare concorrenza soltanto quello della sua biondissima fidanzata, constatò Hunter. Suo padre si era sporto per un saluto più confidenziale e la donna, senza remore, si era allungata a baciarne la guancia come se lo conoscesse da tutta una vita. Quando si volse a lui, tuttavia, Hunter allungò la mano che ella strinse, ma ebbe la sensazione che i suoi grandi e vivaci occhi azzurri lo stesso letteralmente “scannerizzando”. Ma senza espressione guardinga o preoccupata, al contrario: era più che entusiasta. Quasi fuori luogo, a dirla tutta.
Fu allora che Neal si volse interrogativo ad osservare la compagna.
“E Brittany?”.
“Sta finendo di imbellettarsi e tornare donna dopo una settimana da soldato”, commentò allegramente, strappando un guizzo divertito nei due adulti, prima di richiamarla a voce alta.
Hunter aggrottò le sopracciglia al sentirne il nomignolo: davvero la stava associando ad una prostituta, protagonista di una commediola insulsamente romantica con Julia Roberts e Richard Gere?
Evidentemente dovevano attendere la sua discesa per potersi accomodare e privare dei cappotti, considerò con un vago sospiro e un sollevare gli occhi al cielo, prima che lo sguardo saettasse alla rampa di scale, quando scorse un movimento.
E la rivide. Ma, al contempo, era qualcosa di nuovo: ricordava la ragazza con un vestito estivo dal colore acceso almeno quanto quello del trolley. Quell'alone più puerile sembrava parte di lei, persino in quell'abito da sera, malgrado movenze più femminili.
Non vi era traccia di quella tipica goffaggine con la divisa che sembrava soffocarne il corpo esile e strapparne l'allegria (nonché la coordinazione mano occhio e l'equilibrio), o di quelle macchie di fango e quel rossore che riusciva ad intravedersi laddove la pelle era ancora candida. O quella scintilla di disappunto e di risentimento nello sguardo che la faceva irrigidire.
Era come vederla per la prima volta in una parvenza disinvolta nell'abitino rosso, i capelli che scivolavano morbidi e fluenti – e lunghi, non vi aveva fatto caso finora – sulle spalle. Il viso era ulteriormente colorato dal trucco, ma non vi era quell'aria maliziosa di Kitty, ma soltanto una nuova grazia e sicurezza.
Rivolse un cordiale saluto al padre, chiamandolo “Professore”. Fu il suo turno di salutarla, le mani affondante nelle tasche dei jeans, il viso inclinato di un lato.
“Pierce”.
La ragazza gli restituì lo sguardo ma gli rivolse un cenno del capo: si era stretta le braccia al petto, quasi in atteggiamento ostile. Quasi si ricordasse soltanto in quel momento che si trovava ad avere a che fare con lui e che, evidentemente, nulla era cambiato dalla loro ultima interazione.
“Come sei formale, Hunter, sono sicuro che non le dispiaccia essere chiamata per nome”, aveva sorriso Neal e soltanto allora il ragazzo tornò ad osservare i padroni di casa. Ma cercò di ignorare l'insistenza di un paio d’occhi azzurri e quell'aria più maliziosa, persino quando fu proprio la stessa Shirley a prendere parola.
“O Britty Woman”, si era chinata all'orecchio della figlia. “Rovinerai l'abito”, l'aveva blandita ed ella era arrossita ulteriormente, ma aveva lasciato ricadere le braccia lungo i fianchi. Appariva ancora impettita. Sembrava sentirsi intrappolata, nello stesso modo in cui lui stava vivendo la prospettiva di quella serata.
Shirley si volse nuovamente ai due adulti. “Accomodiamoci per l'aperitivo, che ne dite? Prego, Jonathan”, ne aveva preso il braccio con una confidenza che parve divertire l'uomo che la conduceva bonariamente, Neal alle loro spalle.
Hunter, che aveva seguito la scena con lo sguardo, sbatté le palpebre prima di tornare ad osservare la ragazza. Le fece cenno con il braccio perché potesse passare per prima e la giovane sussurrò un educato “grazie”, ma neppure lo guardò. Si affrettò a seguire gli adulti, non volendo evidentemente intrattenersi in sua compagnia.
E per qualche motivo, Hunter ne sorrise divertito mentre ne studiava le movenze fluide, nonostante calzasse scarpe dal tacco alto: sembrava che in quelle vesti o nel contatto con le persone care, avesse recuperato il suo portamento.
Un guizzo divertito e la superò facilmente. Si era chinato al suo orecchio, quando le era passato accanto. Aveva avuto un sussulto, Brittany, ma lo aveva guardato confusa. E poi insospettita.
“Hai la lampo abbassata”, le aveva fatto presente ma non aveva atteso di vederla trasalire e arrossire, cercando di rimediare goffamente a quell'inconveniente.
Si era diretto verso il salotto ma, doveva ammetterlo a se stesso, continuava ad essere curiosamente soddisfacente spiazzarla a quel modo.

~

Non aveva parlato molto: sua madre sembrava raggiante ed era entrata rapidamente in confidenza con Mr Clarington. Non che ciò la sorprendesse: la madre non aveva la benché minima difficoltà a rompere il ghiaccio con quel suo naturale brio e lo scintillio azzurro dello sguardo. Aveva persino arrischiato qualche battuta, cercando di coinvolgere Hunter, ma questi sembrava taciturno come sempre: soltanto un solco tra le sopracciglia sembrava rivelarne l'attenzione rivolta alla donna.
Neppure in quei momenti Brittany aveva sollevato lo sguardo dal suo piatto: era ancora imbarazzata dalla sua ultima gaffe. E – cosa persino più umiliante – dal commento della madre (mentre erano in cucina e le sollevava la cerniera) sull'avere sprecato un'occasione accattivante: chiedere al ragazzo stesso di sollevarle la zip.
Si era riscossa e aveva cercato di concentrarsi sulla conversazione in corso: Mr Clarington aveva chiesto a Neal come lui e Shirley si fossero incontrati. Era un aneddoto che Brittany già conosceva, ma c'era qualcosa di particolare nel sentirlo raccontare da lui: aveva alluso al matrimonio della sorella che lo aveva letteralmente obbligato a prendere lezioni di danza, vista la sua totale inettitudine in quell'ambito. Il caso volle che scegliesse proprio la palestra nella quale Shirley impartiva lezioni serali. Neal non aveva mancato di raccontare le sue prime goffe performance.
“Non lo avevo capito di primo acchito ma quando l'ho vista ballare per la prima volta, è stato tutto evidente e cristallino. Il suo portamento, la sua eleganza, il sorriso che le sfiorava il viso: era come se in quel momento non esistesse altro e fosse completamente se stessa. E' stato come scrutare in quegli occhi e comprendere che la mia vita era cambiata. E che non le avrei permesso di congedarmi, fin quando non lo avesse saputo, anche a costo di essere cacciato o scambiato per uno squilibrato”, aveva raccontato Neal che, malgrado il sorriso sbarazzino, era parso ancora visibilmente emozionato.
Non avrebbe saputo identificarne precisamente il motivo, Brittany, ma qualcosa di quelle parole s’incuneò nella sua mente: era l'armonia che univa quella nuova coppia, spiegata anche in un racconto così semplice. La realizzazione di quanto profondi fossero i sentimenti di Neal. Di come sua madre fosse riuscita a mostrare la sua vere essenza, oltre quella scorza più giocosa e sbarazzina, in quel lato più dolce ed incantevole.
Da amante della danza, era inevitabilmente rapita all'idea che proprio in quel contesto, Neal avesse compreso di esserne innamorato. Aveva sospirato letteralmente, attirando l'attenzione del ragazzo che le sedeva di fronte, ma si era affrettata a distogliere lo sguardo.
Rise lei stessa quando la madre raccontò della sua risposta all'invito a cena. “Cominciavo a sospettare che venissi davvero per imparare a ballare”.
Stava sorseggiando la sua acqua, quando Jonathan Clarington si era voltato ad osservarla.
“Allora, Brittany, come è stata la tua prima settimana? So che Kitty ti dedica molto tempo: è severa ma un eccellente soldato”.
Se essere un soldato vuol dire fare la strega cattiva; pensò tra sé, ma gli rivolse un sorriso e si passò una mano tra i capelli.
“Kitty è molto... attenta a me”, non aveva trovato un aggettivo adatto a descriverla e sapeva che, anche volendo, non avrebbe potuto raccontare delle minacce subite. “Sto facendo del mio meglio”, aveva aggiunto, ma aveva assolutamente evitato di incontrare lo sguardo del ragazzo.
“E come sono i professori?”, aveva chiesto Neal, facendo saettare lo sguardo verso l'amico, dandogli una stretta sulla spalla. “Critica pure: per questa sera Jonathan ti concederà l'immunità”, aveva commentato allegramente.
Non aveva idea di cosa fosse l'immunità, ma non era sicuramente il caso di raccontare delle “storiche” dormite durante le sue ore di lezione.
Ma, con sua grande sorpresa, Hunter prese parola e fu lui stesso rivolgersi al padre. “Mi stava giusto raccontando della tua prima lezione di storia a cui ha assistito: ne era molto soddisfatta”, dichiarò con tono saccente che fece sorridere il padre con aria lusingata.
Shirley rise divertita.“Britty Woman detesta la storia!”, aveva ribattuto, guardandola con lo scintillio malizioso nello sguardo, immaginando che l'entusiasmo fosse rivolto a ben altro soggetto.
“Mamma!”, aveva protestato, le guance arrossate. Era già abbastanza frustrante avere a che fare con Hunter Clarington che stava evidentemente facendo del suo meglio per metterla in imbarazzo. Tra l'altro era davvero molto meschino da parte sua, approfittare di una confidenza che Brittany gli aveva fatto a cuor leggero. Soprattutto considerando che si fosse scusata più di una volta. Perché sembrava davvero divertirsi a prenderla in giro?
Si strinse nelle spalle, Shirley. “Magari in Accademia c'è un fascino del tutto particolare”, malgrado il tono cospiratorio, la sua voce era stata abbastanza limpida da attirare l'attenzione generale e Neal quasi si strozzò con il suo bicchiere di vino. Jonathan sorrise appena nello sporgersi a dargli qualche pacca sulla schiena.
“Prego? Oddio, stiamo parlando di ragazzi? No, non sono pronto”. Aveva levato le mani e Brittany sarebbe voluta scomparire per non dover continuare a sostenere quella conversazione.
“Parla per te”, aveva ridacchiato Shirley. “Io ho già le mie quotazioni”. Aveva lanciato un'occhiata davvero poco implicita ad Hunter il cui bicchiere rimase sospeso in aria: per un istante parve incapace di proferire parola. Il solco tra le sopracciglia si approfondì e poi posò bicchiere, fissandola tra l'inebetito e l'incredulo. Ed evidentemente senza più alcun bisogno di bere.
Brittany si drizzò bruscamente dalla sedia, alludendo al bagno. Fu immensamente grata a Jonathan Clarington che, con grande garbo, sviò la conversazione, chiedendo a Shirley dei suoi progetti per la sua nuova vita a Colorado Springs.


Aveva sperato che, una volta riuniti in salotto per il caffé (era un buon segno: entro poco sarebbe tutto finito, no?), sarebbe stato tutto più semplice. Si era appoggiata sul bracciolo della poltroncina sulla quale sua madre era comodamente affondata: Neal sedeva sulla poltroncina davanti alla sua e i Clarington sul divano. Era indubbiamente Neal il più soddisfatto della riuscita di quella cena. Da parte sua, Brittany, avrebbe voluto trovare un espediente per sottrarsi alla compagnia ma nel modo meno esplicito possibile o almeno avere un potere magico per poter accelerare lo scorrere del tempo e saltare direttamente alla parte dei congedi o, meglio ancora, il momento in cui Hunter sarebbe uscito dalla sua casa.
Continuava a ridere e sorridere ad intervalli regolari mentre pizzicavano qualcosa dal vassoio con salatini e altri pasticcini messi a disposizione dalla madre ma il momento tanto atteso, seppur si stesse avvicinando, sembrava tardare. Fin troppo per i gusti di Brittany.
Fu quando la madre le si rivolse che si riscosse, un battito di palpebre al sentirla appoggiare la mano sul suo ginocchio.
“Perché non porti Hunter a fare una passeggiata in giardino? Sono sicura che vi sarete già annoiati abbastanza”.
Cominciava a chiedersi come sua madre riuscisse a procurale così tante occasioni di disagio e sfoggiando così sfacciatamente quegli sguardi innocenti. Si era stretta nelle spalle, ignorando il ragazzo seduto sul divano. “Certo che no, mammina”, calcò il nomignolo. “Mi piace stare qui e sono sicura che-”.
“Visto che me lo chiede così gentilmente, non mi dispiacerebbe sgranchirmi le gambe”, era stata la risposta pacata di Hunter che, sotto lo sguardo curioso del padre, si era drizzato in piedi e si era avvicinato alla poltroncina, dopo aver volto un sorriso alla donna. Un gesto del braccio con il quale invitò Brittany a precederlo. Quest'ultima lo guardò dal basso all'alto: gli occhi sgranati e le labbra schiuse mentre sua madre le dava una lieve spintarella perché si alzasse.
Incrociò le braccia al petto, gli occhi stretti in due fessure e la voglia di allungare la scarpa con il tacco per dargli un calcio nello stinco.
Chi si credeva di essere, Hunter Clarington per decidere per entrambi? Soltanto perché era l'ospite, non significava che lei doveva accontentare i suoi capricci. E poi non era stata lei ad invitarlo! Sarebbe dovuto uscire con sua madre visto come le aveva sorriso, togliendosi quell'espressione musona, una volta tanto.
“Un soldato gentiluomo”, lo lodò la madre, levando il calice verso di lui. “Combinazione irresistibile, non trovi-”.
Si era drizzata bruscamente, Brittany e (dopo aver cercato di guardarsi la schiena per assicurarsi che la zip fosse ancora sollevata) si era rivolta al ragazzo con un cenno. “Andiamo”.
Profittò del fatto che Hunter le avesse aperto la porta per volgere uno sguardo risentito alla madre che aveva trillato un sonoro: “Buona passeggiata!”.
Sbuffò un'altra volta, Brittany, la postura più rigida ed uscì senza attendere il ragazzo: in fondo volevano entrambi una scusa per allontanarsi. Il fatto che fosse stato accondiscendente con la madre, non significava che dovessero farsi compagnia.
Ma si accorse fin troppo presto che il ragazzo la stava davvero seguendo ma se non poteva certamente correre coi tacchi, cercò di non rallentare il passo. Ciononostante Hunter ci mise fin troppo poco a raggiungerla e ad adeguarsi al suo ritmo.
Sospirò Brittany ma lasciò vagare lo sguardo sull'ampio giardino: uno degli aspetti più piacevoli di quella città era che, rispetto a New York, sembrava vivere in comunione con la natura a giudicare dal paesaggio collinare e dalle catene montuose che si scorgevano in lontananza.
Camminò tra le siepi e le aiuole dei fiori e inspirò l'aria notturna: era davvero una bella serata, fresca e limpida. Le stelle che punteggiavano il cielo e si vedeva la luna piena. Contemplò il tutto e sembrò per un istante dimenticare il fastidio e il disagio.
Lo guardò con la coda dell'occhio ma non pareva provare il suo stesso sollievo. Appariva... tediato e pensieroso. O almeno era la sua solita espressione quando non sbraitava contro le sue reclute – Finn, Finn e ancora Finn – quindi poteva dirsi tranquillo (?) per i suoi standard.
Dovette essersi accorto del suo sguardo o probabilmente stava concedendole di partecipare ai suoi pensieri, perché l'attimo dopo la sua voce ruppe il silenzio e Brittany s’irrigidì d’istinto.
“Non mi sorprende che Neal sia così entusiasta, ma che tua madre non capisca che sei fuori posto, questo sì, a dire il vero”.
Brittany lo fissò incredula e sbatté le palpebre. Dunque era quello il motivo per cui aveva acconsentito ad una passeggiata? Probabilmente anche l'unico divertimento che aveva tratto dalla serata: poter constatare, ancora una volta, che aveva ragione. Persino alludendo a sua madre.
“Io non sono fuori posto”, si sforzò di mantenersi calma e pacata. Non voleva dargli la soddisfazione di vederla nuovamente arrabbiata. “Mi sto abituando e comunque non capisco perché-”.
“Dico solo che il tuo sacrificio, per quanto nobile, è inutile: persino Neal dovrà aprire gli occhi. Loro saranno felici a prescindere, che tu stia in Accademia o no”. Non sembrava volerla deridere e neppure giudicare. Ma era un'osservazione limpida, quasi volesse realmente... consigliarla. Come quella prima sera quando le era apparso gentile, seppur sempre nel suo modo tanto pacato.
Ma non riusciva a provare la stessa gratitudine di quel momento, Brittany: il fatto che lui sembrasse capire meglio di chiunque altro, al contrario, la innervosiva. Sembrava essere quella vocina in fondo alla sua mente che voleva spronarla a dire la verità quando, di fatto, giorno dopo giorno respingeva quell'impulso.
E poi, a prescindere da quanto potesse avere ragione, era una propria decisione che non avrebbe dovuto giudicare. Checché ne pensasse, non era una bambina.
“Non è inutile: saremo una famiglia”, rimarcò e riprese a camminare a passo più rapido.
“Da quando l'essere una famiglia è definito da una scelta scolastica?”, la guardava apertamente, Hunter, che si allineò subito al suo nuovo passo.
“E tu, allora?”, si era fermata e si era voltata a guardarlo. “Non lo hai fatto per tuo padre?”
Si accigliò Hunter ma scosse il capo. “E' il mio posto”. Sembrava pensarlo seriamente.
“Eppure non sembri felice”, era stata una constatazione che aveva sorpreso persino Brittany nell'esplicarla: aveva riposto quello stesso pensiero che aveva formulato quella notte eppure vi era un'istintiva sicurezza. Che non aveva mai sentito così intensa nel pensare a qualcuno. Soprattutto qualcuno di cui aveva una così superficiale conoscenza.
“Anche se ti piace comandare tutti a bacchetta”, aggiunse quasi a correggere il tono della conversazione.
Se aveva ignorato volutamente quel riferimento alla sua felicità, parve realmente spiazzato dall'ultima osservazione. Sbatté le palpebre, prima di affondare le mani nelle tasche dei pantaloni. “Sono il Capitano”, lo disse a mo' di spiegazione.
“Puoi essere gentile”, ribatté, Brittany, il tono limpido.
“E tu dovresti cambiare scuola”, ribatté con lo stesso tono fintamente casuale.


“Mhm, bisogna raffreddare gli animi”, constatò Shirley, osservando i loro gesti e le posture dalla finestra del salotto. Si avvicinò cautamente all'ingresso: in alto, affisso al muro vi era il quadro elettrico e l'azionamento degli irrigatori.
Un sorriso vispo le affiorò alle labbra nell'azionare la leva, giusto in tempo prima di sentire i passi di Neal. Rapida, riuscì a schizzare in cucina come un felino.
“Questo caffé?”, le chiese con espressione allegra.
“Arriva subito”, aveva ammiccato nel prendere il vassoio, gettando un'ultima occhiata al giardino: entro pochi secondi il getto si sarebbe azionato.
Un vero peccato non poter assistere alla scena.


“Perché ti interessa, scusa?”, il tono risentito e polemico: il broncio più infantile ma l'aria stizzita.
Aveva sorriso, Hunter, evidentemente soddisfatto nello scrutarne il cipiglio. Strinse le spalle e in tono pacato, rispose: “Curiosità”.
“Beh, sei fin troppo curioso e-”, non finì la frase e trasalì quando un getto d'acqua fredda, alle sue spalle, la colpì in pieno. Incredula, fissò gli irrigatori che, automaticamente, si erano sollevati e stavano facendo sprigionare quei zampilli d'acqua che avrebbero dovuto annaffiare le piante.
Sentì il ragazzo soffocare un'imprecazione ma prima che potesse sgridarlo, l'aveva afferrata per il braccio e si era ritrovata a correre con lui tra le siepi, cercando di fuggire agli schizzi.
“Dov'è il comando degli irrigatori?”, le aveva chiesto, trattenendone ancora il braccio.
“Non lo so!”, gemette la ragazza, cercando di nascondersi dietro la sua schiena, prima che un nuovo zampillo affiorasse di fronte a lei, spruzzandola nuovamente.
“Come fai a non saperlo?! E' casa tua!”, era la prima volta che lo vedeva perdere quell'espressione sempre pacata e composta, ad eccezione di quella sfuriata a Finn, il giorno in cui era arrivata in Accademia.
Si era svincolata dal suo braccio, Brittany, ormai completamente fradicia ma i piedi puntati al terreno e lo sguardo torvo. “Perché ero in quella STUPIDA Accademia!”, gli rispose ma l'altro non parve udirla. Si erano fermati quando Hunter aveva individuato il comando dell'impianto.
Lo stava studiando con sguardo concentrato, mentre Brittany restava alle sue spalle, aspettando che riuscisse a fermare il getto.
Si era voltato in sua direzione e Brittany aveva esalato incredula mentre il getto d'acqua continuava a erompere violentemente, ma Hunter non si scompose. Apparentemente incurante del grande alone sulla sua t-shirt che stava dilagando, delle gocce d'acqua che cadevano lungo il volto, colandogli lungo i lineamenti fino allo scollo, lo sguardo verde la scrutò intensamente.
Non riusciva a comprendere a cosa stesse pensando, ma la faceva sentire decisamente a disagio: una contrazione all'altezza dello stomaco. Sbatté le palpebre ma trasalì ad un nuovo getto d'acqua che ne colpì la schiena.
“SPEGNILO!”, gemette.
Un sorriso s’increspò sulle labbra del giovane. “Allora lo ammetti che odi l'Accademia”.
Sgranò gli occhi, Brittany e per un attimo valutò l'idea di schiaffeggiarlo. Strinse i pugni lungo i fianchi e sbuffò. “E va bene!”, digrignò i denti all'ennesimo schizzo d'acqua, il viso inclinato di un lato. “Soddisfatto, adesso?”.
“Estasiato”, sorrise affabile, chinandosi verso la manopola e, dopo pochi istanti, mise fine all'annaffiatura.


Non seppe cosa fosse. Il fatto che da arrabbiata sembrasse una bambina. O il fatto che malgrado fosse fradicia, avesse ancora abbastanza stizza da non abbandonare quel precedente risentimento.
O forse era il riverbero della luna sui suoi capelli bagnati, il viso arrossato e il modo in cui si stringesse le braccia al petto per un reale tremore che la faceva apparire persino più esile e bisognosa di una protezione.
Non era (soltanto) un divertimento malsano alle sue spalle o il volerla torturare per stabilire chi avesse ragione e chi no. C'era quel qualcosa che lo induceva a continuare ad osservarla.
Si passò una mano tra i capelli e contemplò i propri abiti fradici, sapeva che se non si fosse asciugato presto, avrebbe rischiato di prendere freddo. Eppure si sentiva... leggero. Ed era qualcosa di così insolito che non riusciva a spiegarlo ma neppure ad ignorarlo.


“Grazie”, sussurrò appena, stringendosi le braccia al corpo.
Aveva inarcato le sopracciglia, realizzando che la stava ancora osservando: non capiva né come né perché ma aveva la sensazione che cercasse qualcosa.
Lei stessa lo studiò stranita: in quel momento non riusciva realmente a ricordare perché fosse tanto arrabbiata con lui. Probabilmente era divenuta una disposizione d'animo quasi istintiva.
C'era il suo sguardo, il suo viso illuminato dalla luna che rendeva i lineamenti meno rigidi. Erano entrambi zuppi, ma non davano segno di volersi allontanare dal giardino.
“Dovremmo rientrare”, si sentì dire, ma fu come se quelle parole provenissero da un'altra realtà. Sbatté le palpebre.
Si strinse nelle spalle, Hunter. Probabilmente aveva solo immaginato tutto. “A meno che tu non voglia fare un'altra passeggiata, ma dubito che le tue scarpe la gradirebbero”.
Aveva abbassato lo sguardo Brittany ed aveva emesso un gemito a vedere le macchie di terra: perché doveva sempre accorgersi dei suoi errori?
Scrollò le spalle e le tolse: malgrado tutto provò sollievo al sentire il contatto tra la pianta del piede e l'erba umida.
“Non è una mossa molto intelligente”, la stava scrutando con le sopracciglia inarcate.
“Non è un tuo problema”, aveva ribattuto con un sorriso fintamente cortese nel voltarsi e parve sollevata che tornassero ad una pseudo discussione come quelle precedenti.
Si sentì cingere il braccio e trasalì.
Quando si voltò ad osservarlo, notò che Hunter pareva esasperato.
“Perché sei sempre così-?”.
“Una bambina?”, chiese sferzante.
“Permalosa: volevo dire permalosa”. Sembrava volerlo davvero precisare.
“Perché devi sempre dirmi dove sbaglio?”, rimarcò.
Sbuffò, Hunter, e scosse il capo, levando le mani. “Farò finta di nulla”.
“Te ne sarei molto grata”, gli sorrise serafica.
“Bene”, sancì il giovane, apparentemente indifferente.
“Bene!”, rimarcò lei e lui soffocò una risata.
“Benissimo”.
Sbuffò, Brittany, e lui sorrise: per qualche strano, assurdo e incomprensibile motivo, sembrava davvero... naturale. Era fradicio, avevano appena bisticciato e avevano trascorso una serata ora evitandosi ed ora imponendo l'un l'altro il proprio punto di vista.
E adesso sorrideva, come se fosse realmente sereno. E non era un ghigno e neppure un gesto canzonatorio o ironico. Era autentico e persino il suo viso sembrava... diverso. Lo sguardo più vivace e il suo volto completamente sfigurato e così quei lineamenti che sembravano sempre contratti per le espressioni di disappunto o di stoica insofferenza.
E Brittany non comprese perché le fossero mancate le parole e provasse quell'improvvisa aritmia o non riuscisse a distogliere lo sguardo.
“Eccoli qua: i due fuggiaschi”, aveva commentato allegramente Neal.
Lui e Jonathan parvero restare totalmente basiti, quando si avvidero delle loro condizioni. L'unica che sorrideva era Shirley, le mani a puntellarsi i fianchi.
“A quanto pare hanno avuto una serata caliente ma, per dovere di cronaca, abbiamo una comoda vasca da bagno al piano di sopra”.
Sembrarono fin troppo empatici, Brittany e Hunter, nello scambiarsi uno sguardo, un vago cenno di rossore sul volto mentre Jonathan si avvicinava al figlio.
“Sono sicuro che avrai una spiegazione più che pittoresca ma l'ascolterò in auto.
Shirley, Neal, è stato un piacere”.
“Oh, il piacere è stato tutto nostro”, trillò allegramente Shirley.
Neal si affrettò a togliere la giacca e posarla sulle spalle di Brittany che emise uno starnuto ma lo osservò grata. Il suo sguardo incrociò un solo istante quello di Hunter che, un brusco cenno del capo, entrò nell'auto.
Shirley le cinse le spalle e la condusse verso l'ingresso, sussurrandole un: “Poi mi racconti tutto!”.
Gemette, Brittany. Avrebbe dovuto immaginare che non si era affatto trattato di un incidente.


To be continued...

1 Nel linguaggio di Brittany, si tratta rispettivamente di Ryder e di Jake :D
2 Se vi ho incuriosito sulla vaga descrizione dell'abito, devo pregarvi di avere pazienza:arriverà il momento in cui sarà approfondita :)

Posso ben dire che questo sia stato uno dei capitoli più divertenti da immaginare, soprattutto per la descrizione di un personaggio tanto vitale e brioso quale Shirley :)
Ma diamo un'occhiata al prossimo capitolo:

Ho del grasso in faccia?” “Ti sta benissimo!” “Dovrò fare una doccia o Kitty-”. “Vieni al ballo con me!”.
Gran bel passo di tip tap. Certo, l'atterraggio sul tuo piede è stato superbo”.
E' questo che pensi, allora?”. “E' quello che fai vedere”. “Liberissima di crederci: è un tuo problema”.


Come sempre, ringrazio di cuore chi mi sta seguendo, in particolar modo le mie fedeli recensitrici che rendono ogni pubblicazione ancora più entusiasmante. Vi mando tanti cuoricini (ma non li disegno perché l'editor di EFP mi odia :D) su unicorni galoppanti.
Non mi resta che augurarvi buon weekend e una buona settimana.
A presto,
Kiki87




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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


capitolo 4
Lumière: A cena, la inviti a cena.
La Bestia: Lei questa sera cenerà con me! E non si tratta di un invito!
[La Bestia sbatte la porta]
(Dal film Walt Disney “La Bella e la Bestia”)


Capitolo 4.

Fu con un sospiro che entrò nel dormitorio dell'Accademia: decisamente, dopo quel piacevolissimo weekend (escludendo la cena a sorpresa), tornare in quella camerata era persino più deprimente. Si muoveva furtivamente, Brittany, guardandosi ansiosamente attorno prima di accorgersi che all'interno non vi era nessuna delle sue compagne, ad eccezione di Marley. Nonostante il suo stato d'animo, era davvero piacevolissimo quel ritrovarsi. Si liberò del grande involucro di cellofan che racchiudeva l'abito per il ballo e lo ripose sull'anta dell'armadio che condivideva con la ragazza (sua madre si era raccomandata di prestare attenzione perché non si stropicciasse). Con persino più delicatezza ed attenzione, appoggiò anche una sacca sportiva – un'altra occhiata furtiva verso l'ingresso della camera - e si sedette finalmente sul materasso, subito seguita dall'amica. Alla convenevole domanda “come è andato il weekend?”, si era ritrovata a raccontarle del piacevolissimo shopping con la madre.
“Posso sbirciare?”, non aveva atteso risposta, Marley, che aveva osservato l'abito con un'esclamazione di sorpresa e d’ammirazione, prima di voltarsi con un sorriso. “E' davvero splendido: sembrerai davvero una principessa, non vedo l'ora che tu lo indossi!”. Si era nuovamente seduta e la guardava allegramente. “Sai già con chi andrai al ballo, a proposito?”.
Si era stretta nelle spalle, Brittany con un cenno di diniego.
“Sei appena arrivata e non conosci molte persone”, convenne l'altra in tono gentile ed incoraggiante. “Ma aspetta che ti vedano con quell'abito, sarai sicuramente tra le più corteggiate”, e dal dolce sorriso, non vi erano dubbi circa la sincerità di quel pensiero.
“Vedremo”, rispose vagamente Brittany che non aveva intenzione ad impelagarsi in una discussione di quel calibro. Cercò di scacciare un viso ben noto dai suoi pensieri, complici le insinuazioni maliziose della madre, nonché il messaggino (che le aveva mandato poco prima), nel quale le intimava di avvisarla d’ogni eventuale invito.
“E, tu, invece, Marley? Con chi andrai al ballo? Justin Bieber o Puckermusone?”.
Marley, che si era voltata verso di lei bruscamente alla domanda, assunse un colorito rossastro sulle gote e, seppur sorrise nervosamente di quei nomignoli, si morsicò il labbro con aria dubbiosa. “Io... non lo so, non pensare male di me, ti prego”.
Brittany era parsa confusa, ma le aveva stretto la mano con dolcezza. “Perché dovrei? Sei la persona più dolce e gentile che ho incontrato, da quando sono arrivata qua”.
Sorrise, Marley, ma sospirò. “Sai, quando sono arrivata qua in Accademia, mi sono infatuata di Jake: è il classico 'cattivo ragazzo' che ha la fama di essere un donnaiolo – usciva con Kitty l'anno scorso, a proposito – è sicuro di sé, a volte arrogante, ma io credo ci sia qualcosa di più. Credo stia solo cercando di imitare suo fratello maggiore, Puck”.
Brittany aveva aggrottato le sopracciglia, pensando al ragazzo con la famosa cresta, nonché il migliore amico di Finn. Ogni volta che la vedeva, dava di gomito al ragazzone per poi dire qualcosa tipo “Pupa ad ore due, fratello: io distraggo Capitan Shampoo al Viagra1. Rendimi fiero di te, tigre!”.
“Lui e Puck sono davvero fratelli?”, le aveva chiesto, sbattendo le palpebre a più riprese. Jake, a dirla tutta, non brillava troppo di simpatia ai suoi occhi: lo vedeva spesso ridere e scherzare anche con altre ragazze, facendo rattristare Marley. Aveva pensato che si fosse convinto d’essere fratello di Puck o lo definisse tale solo per rendersi più accattivante.
Rise, Marley ma scosse appena il capo.
“Scusa, stavi dicendo?”, si era morsicata il labbro, Brittany, e Marley aveva ripreso.
“Poi ho conosciuto Ryder”, il viso aveva assunto un'espressione più sognante: gli occhi sembrarono brillare e un nuovo e delicato rossore le sfiorò le guance.
Brittany, seppur non fosse esperta di balli da sala o di ragazzi, immaginò di aver compreso più di quanto lei stessa potesse affermare.
“Lui è un vero amico: incredibilmente dolce, gentile e mi fa sentire la persona più speciale del mondo, senza chiedere nulla in cambio. E io non vorrei mai ferirlo, ma... non so cosa fare”.
Brittany si morsicò il labbro: era la prima volta che qualcuno sembrava chiederle un parere e in tono così concitato e bisognoso. Non poteva che fare affidamento sul proprio giudizio e sperare di non deludere l'amica che meritava un parere onesto e sensibile. Lo sguardo si era fatto più pensieroso e aveva incrociato le braccia al petto. “Quindi è come se dovessi scegliere tra il Pirata e il Principe Azzurro”.
Marley che parve colpita da quella metafora, la scrutò con il viso inclinato di un lato, l'espressione dolorosamente mortificata. “Credi che si possano amare due persone contemporaneamente?”.
Scosse il capo, Brittany, e parve più sicura che mai nelle parole seguenti: non avrebbe saputo spiegare che cosa ne motivasse il parlare, ma sembrava una verità insita in sé. “No, perché due persone non possono essere uguali”, rispose semplicemente per poi cingerle le spalle con fare protettivo. “All'inizio hai pensato che Jake fosse il tuo Principe, ma se il vostro fosse stato vero amore, tu adesso saresti felice, aspetteresti il ballo e non vedresti l'ora di essere con lui.
Visto che una Principessa può avere un solo Principe e tu sei spaventata perché non vuoi far soffrire Ryder, allora forse hai sempre avuto davanti il tuo vero
“E non l'ho mai capito”, aveva assunto un'espressione ancora più mortificata, ma Brittany aveva continuato a sorriderle.
“Io credo che lo sapessi, ma a volte preferiamo restare sulle nostre opinioni: in fondo anche Adam2, la Bestia, era un Principe in origine e poi è tornato ad esserlo”.
La sua voce si era ridotta ad un sussurro: lo sguardo sembrò perso in un punto indefinito ed arrossì. C'era qualcosa in quel ragionamento che aveva condiviso, in modo spontaneo, che sembrava suggerirle che Marley non era stata l'unica a formulare un giudizio affrettato.
“Credo che tu abbia ragione, Brittany: non so come ringraziarti”. Le sorrise, Marley, una nuova risoluzione nello sguardo.
Aveva sbattuto le palpebre, ma si era lasciata cingere. “Spero troverai il tuo Principe”, le aveva sussurrato Marley con tono più dolce.
Prima che potesse pronunciare risposta, un suono soffuso proveniente dal suo borsone, attirò l'attenzione di entrambe.
Marley sgranò gli occhi quando Brittany ne fece scorrere la zip e la testa di un gatto tigrato fece la sua comparsa: un miagolio e, dopo che Brittany lo ebbe sollevato, Lord Tubbington scivolò fuori. Si piegò sulle zampe anteriori con un movimento pigro ed indolente, gli occhi che vagavano tra le pareti, le vibrisse in movimento ma, dopo qualche passo, si rannicchiò pigramente contro il cuscino della padrona. O probabilmente era crollato per il troppo moto, difficile a dirsi.
“Brittany”, Marley parve impallidire: si affrettò a chiudere la porta della camera, prima di volgersi a lei. “Non puoi tenerlo qui! Se Kitty lo scoprisse-”.
“Ti prego, Marley: Lord Tubbington era tanto triste a casa e a mamma non piacciono i gatti”, la stava supplicando con voce pigolante. “Ti prometto che ne parlerò a Neal e sono sicura che riuscirò a convincerlo prima o poi”.
Sembrò vacillare, Marley, ma si morse il labbro. “E come farai durante le ispezioni?”.
Non sembrava particolarmente preoccupata Brittany che le sorrise, evidentemente già pensando di star accattivandosi la sua complicità. “Non preoccuparti: dorme quasi tutto il giorno, basterà nasconderlo sotto il letto per qualche minuto. Promettimi che non lo dirai a Kitty, ti prego”.
Sospirò l'altra ragazza che sembrava molto combattuta e poco ottimista ma le sorrise. “Certo che non lo farò”.
Prese in braccio Lord Tubbington, Brittany e la cinse con il braccio libero. “Grazie, Marley, sei un'amica”. Sollevò il mento del micio che schiuse pigramente gli occhi, l'aria annoiata e un lieve sbadiglio. “Benvenuto all'Accademia, Lord Tubbington”.
~

Alzarsi alle cinque era divenuto meno traumatico e, a poco a poco, anche la corsa mattutina s’integrò nella sua routine. Riusciva a resistere più a lungo, anche se così dava pretesto a Kitty di farla correre per più tempo. In realtà, il Capitano sembrava cercare ogni possibile appiglio per metterla in difficoltà o somministrarle gli oneri più snobbati dalle altre reclute come l'aiuto in cucina (una fortuna che fosse amica della madre di Marley) o la lucidatura degli stivali della sezione maschile. Non si sorprendeva di trovare spesso anche Finn rilegato allo stesso incarico.
Era proprio lui, molto “cavallerescamente”, a sputare sugli stivali che poi lei doveva sfregare con un panno e del grasso come le aveva mostrato.
Quel giorno sembrava persino più sorridente del solito, mentre l'attendeva: era reduce da un weekend particolarmente positivo, Finn, come in ogni occasione in cui poteva sottrarsi alle grinfie di Hunter, quando si allontanava dall'Accademia.
Aveva già finito la sua parte di lavoro ma, per qualche motivo, seppur si fosse già rimesso in piedi, non sembrava avere particolarmente fretta di allontanarsi dal bungalow adibito come spogliatoio. Al momento vi erano soltanto loro due, poiché i compagni di Finn erano impegnati in altri percorsi o esercizi, sotto la guida dello scrupoloso Capitano che Brittany aveva avuto la fortuna di non incrociare dopo quella disastrosa cena.
Notando l'insistente sguardo di Finn, Brittany s’interruppe e, con la mano libera, cercò di scostare un ciuffo di capelli che le era scivolato sul viso per riporlo sotto il berretto. “Ho del grasso in faccia?”, gli chiese quindi.
Il ragazzone le sorrise con quel fare più puerile e spensierato, le mani strette in grembo e si strinse nelle spalle, quasi volesse scomparire dalla stanza. Inclinò il viso di un lato. “Ti sta benissimo!”, le rivelò con aria quasi timida.
Brittany gemette e si portò una mano sul viso, finendo soltanto per estendere ulteriormente la macchia. Fissò la propria mano sporca ed emise un verso di disgusto alla fragranza tutt'altro che piacevole.
“Dovrò farmi una doccia o Kitty-”.
“Vieni al ballo con me!”, aveva esclamato, Finn, la stessa postura rigida - le braccia lungo i fianchi e lo sguardo sgranato nel vuoto - che assumeva quando Hunter gli urlava contro. Sbatté le palpebre e si grattò la nuca, guardandola dall'alto al basso. “Tu mi piaci: sei gentile, dolce, molto carina e...”, aveva aggiunto con il sorriso nuovamente accattivante.
Ma Brittany non lo stava più ascoltando: c'erano stati diversi balli al suo liceo (e altrettante giornate di shopping con sua madre) ma era in assoluto la prima volta che qualcuno la invitava. O, per dirla tutta, che qualcuno le chiedeva di uscire o le diceva di trovarla graziosa.
Era arrossita, ma più osservava il volto speranzoso e dolce di Finn e più si domandava se tutto stesse accadendo nel modo giusto. Era sudata, spettinata e sporca di grasso: non proprio una circostanza nella quale si potesse effettivamente sentire carina. Oltretutto, non avrebbe dovuto sentire un forte batticuore o essere spaventata ma impaziente all'idea? Non avrebbe dovuto prevedere che le cose tra lei e Finn avrebbero potuto evolversi in quel modo?
Il sorriso di Finn si spense lentamente, al prolungato silenzio, e parve così spaesato e a disagio che Brittany sentì un nodo in gola, seppur lui cercasse ancora di sorriderle con fare rassicurante. “N-Non importa: non preoccuparti, era così per dire e poi io-”.
“Certo, verrò al ballo con te”, rispose.
Un repentino sorriso luminoso che ne fece scintillare anche gli occhi, affiorò sul viso di Finn che sembrò trattenersi a stento dal saltellare sul posto o correre a cercare Puck per annunciargli la meravigliosa notizia.
“Siamo amici, vero?”, soggiunse Brittany.
“Certo, certo!”, sembrava sovreccitato Finn. “Ti prometto che ti divertirai e-”, si era fermato davanti a lei e qualcosa nel suo sguardo sembrò mutare. Perse completamente quell'anelito più puerile e pasticcione: sembrava molto più sicuro e determinato di sé.
Brittany si sentì stranamente a disagio e confusa, soprattutto per come aveva interrotto la frase. “E..?”, sembrò incoraggiarlo.
Finn si era chinato e Brittany era indietreggiata d'istinto: gli occhi sgranati, le labbra schiuse e lo sguardo incredulo. Nello stesso istante, la porta fu spalancata ed entrambi trasalirono e si volsero nella stessa direzione.
Lo sguardo di Hunter Clarington, come sempre impettito, saettò dall'uno all'altra prima che incrociasse le braccia al petto, evidentemente chiedendosi cosa stesse accadendo. Si rabbuiò e Finn sembrò sgonfiarsi letteralmente a quello sguardo glaciale.
“Hudson, sono consapevole che la coordinazione mano-occhio è una dote innata soltanto nel 99,99% delle mie reclute”, il tono era annoiato e lo sguardo sembrava trapassarlo da parte a parte, tanto che il ragazzo si mise nuovamente in posizione. “Ma quanto credi ti sia necessario per lucidare dieci paia di stivali, senza che lo sforzo ti procuri un'ischemia cerebrale?”.
Era arrossito, Finn, ma si era affrettato a rispondere. “Ho finito, Signore!”.
Lo sguardo verde lo perforò con ancora più insistenza per poi lampeggiare nuovamente verso la ragazza che si era istintivamente irrigidita, le braccia strette al corpo sulla difensiva. “Allora, cosa diavolo staresti aspettando?”:
Gocce di sudore freddo scivolarono sulle tempie di Finn. “Signore, io, io-”. Balbettò, lo sguardo che vagava tutto attorno alla ricerca di una scusa plausibile.
“Tu, cosa, Hudson?”, aveva sibilato, avvicinandosi al giovane che, per qualche strano effetto ottico, sembrava quasi rimpicciolirsi di fronte al suo superiore, malgrado lo torreggiasse.
“Stava aiutando me”, si sentì dire, Brittany che parve ritrovare la parola. Era come se l'ingresso di Hunter fosse riuscito a ricondurla bruscamente alla realtà, dopo quel lungo istante nel quale l'iniziativa di Finn l'aveva disorientata e quasi intimidita.
Inarcò appena le sopracciglia, Hunter, che scosse appena il capo, ma la fissò. “Hai del grasso sulla faccia”, le fece presente.
“Lo so”, commentò per risposta con aria indifferente. Era la prima volta che si ritrovavano faccia a faccia dopo quella cena. C'era stato persino un istante, nel suo giardino, in cui aveva provato un disorientamento persino più intenso di quello che le aveva innescato Finn. Mentre il suo amico sembrava aver agito ad una maniera che non riusciva ancora a spiegarsi; per un solo istante aveva avuto l'impressione di scorgere qualcosa di più del Capitano. E che fosse persino giusto abbandonarsi a quell'attimo di contemplazione, chiedendosi genuinamente che cosa sarebbe accaduto se non fossero stati interrotti.
La scrutò ancora curiosamente, Hunter, ma infine si volse al suo sottoposto che aveva guardato dall'uno all'altra, con la stessa espressione confusa. Si irrigidì subito, Finn, quando lo sguardo verde lo fulminò sul posto. “Muoviti, cinquanta giri di campo per la tua lentezza da bradipo morto”, gli aveva indicato l'uscita del bungalow con aria annoiata.
“Ma non è stata colpa sua”, protestò la ragazza.
Hunter, che stava per precedere Finn, si volse nuovamente. Le labbra erano serrate in una smorfia. “Ma non rientra nelle mie giurisdizioni punire te”.
“Ma nelle mie, sì”, osservò Kitty con un sorriso viscido. Era sulla soglia dell'uscio: le braccia incrociate al petto e l'aria soddisfatta mentre entrava con aria trionfale. “Che cosa ha fatto? A parte lucidare gli scarponi con la sua faccia da Barbie?”, chiese a Hunter, dopo aver rivolto uno sguardo di puro disprezzo alla sua recluta.
Sembrò un lungo istante quello in cui Hunter scrutò Brittany, che si era imposta di non reagire alla provocazione per non peggiorare ulteriormente le cose (memore dell'ultima volta in cui Hunter ne aveva preso le difese), al di sopra della spalla di Kitty. Brittany avrebbe voluto sottrarsi a quell'esamina, ma non riuscì a distogliere il proprio sguardo: avrebbe voluto capire che cosa Hunter sembrasse cercare nel suo volto o che cosa si celasse in quello del ragazzo stesso. Sembrava, tuttavia, un mistero irrisolto così come il perché e il come riuscisse a procurarle quella fastidiosa fitta allo stomaco, quando non diceva una sola parola, ma la fissava in quel modo.
Dopo quello che parve un silenzio infinito, Hunter tornò a scrutare Kitty e scosse il capo.
“Nulla”, rispose in tono spiccio per poi rivolgersi alla sua recluta. “Andiamo, Coglion Hudson”, gli diede uno spintone che quasi lo fece cozzare contro la trave del soffitto.
Kitty non parve affatto soddisfatta, quando si furono allontanati e rimasero sole. “Finisci di pulire, poi ti occuperai dei bagni e visto che ti piacciono tanto i soldati, pulirai quelli maschili. Di tutto l'edificio”, le sorrise velenosamente, probabilmente attendendo una qualsivoglia reazione che le desse adito ad una punizione persino più esemplare. Recuperò uno stivale dal pavimento e lo premette addosso alla biondina che si lasciò sfuggire un gemito.
“Mi hai sentita?”, le sibilò all'orecchio.
“Signorsì, Signora!”, rispose Brittany più per abitudine che per altro e rilasciò un sospiro di sollievo, quando finalmente Kitty tornò sui suoi passi. Ma, prima di varcare la soglia dell'uscio, lei si volse nuovamente in sua direzione.
“Sono sicura che tu e Coglion Hudson sarete una coppia perfetta in pista”, e Brittany si accigliò a quella sospettosa dichiarazione. “Quasi quanto lo saremo io ed Hunter”, aveva aggiunto con tono ancora più allusivo e un sorriso repentino ad incresparle le labbra carnose. Quel sorriso che Brittany conosceva troppo bene e che, abbinato a quello sguardo gelido, non n’addolciva affatto i lineamenti, ma la rendeva persino più... inquietante.
Nonostante non comprendesse il motivo di quella specificazione, si sentì chiedere un incredulo e interdetto: “Ti ha invitata?”.
Aveva sgranato gli occhi, Kitty, evidentemente non aspettandosi quella domanda, formulata in modo tanto diretto.
“Voglio dire, Signora”, si era morsicata il labbro, Brittany, certa che quell'impudenza le sarebbe costata una punizione persino peggiore. Senza contare che lei stessa non avrebbe saputo spiegarsi quell'insana curiosità.
Ancora più sorprendentemente, Kitty parve compiaciuta: la mano appoggiata sul fianco in una posa ben più languida del portamento tipico di una donna in uniforme. Aveva sorriso nuovamente, di quel sorriso malizioso e consapevole. “Non ce n'è bisogno”, dichiarò in tono eloquente che, se possibile, lasciò Brittany persino più interdetta.
Neppure la sentì abbaiarle contro qualche altra minaccia: la seguì con lo sguardo, continuando a riflettere non soltanto sulla dichiarazione, ma sull'evidente certezza di cui era intrisa. Che Kitty fosse riuscita a trovare quel qualcosa nello sguardo di Hunter Clarington? Era lei a renderlo meno rigido e più spontaneo? Era lei ad innescare un sorriso simile a quello che aveva scorto nel suo giardino, quando era fradicio per l'incidente con gli irrigatori? Anche Kitty sentiva il mal di pancia per colpa del suo sguardo o era qualcosa che accadeva soltanto a lei?
Scosse il capo e si sedette nuovamente sulla panchina, uno stivale in una mano e il panno unto di gesso nell'altra.
Avrebbe dovuto partecipare al ballo, nonostante tutto, per l'impegno preso con Finn ma era certa che il ragazzo sarebbe stato un cavaliere molto gentile e si sarebbero potuti divertire insieme.
Non poteva desiderare una compagnia migliore, in fondo, no?
Un cavaliere un po' pasticcione ma dolce poteva essere un Principe camuffato?

~


Non era la prima volta che si osservava allo specchio con quell'abito, ma nuovamente stentò a riconoscersi. Sentiva l'emozione stringerle la gola mentre lasciava scorrere le dita, in una carezza delicata, lungo il tessuto per poi sfiorare i lembi del tulle che dava corpo e spessore alla gonna, con un sorriso che ne faceva scintillare gli occhi di una nuance simile. Raddrizzò le spalle e prese un bel respiro, cercò di ricordare le parole di sua madre: il miglior consiglio e promemoria che potesse serbare in quell'occasione.
Tira fuori la principessa che è in te. Lei attende da molto tempo”.
Rimirò un'altra volta il vestito e sorrise tra sé con aria più decisa e convinta: non sapeva che cosa l'avrebbe attesa quella serata, se sarebbe stato più o meno divertente e/o coinvolgente. Ma, mentre Finn l'attendeva, adorabile quanto soffocato in quello smoking scuro che sembrava renderlo persino più monumentale e rendeva il contrasto con il sorriso goffo persino più dolce; per un attimo si sentì esattamente come le sue prime maestre di vita. Una Principessa che faceva finalmente il suo ingresso e il cui vestito sembrava risplendere di luce propria, divenendo esso stesso protagonista della scena, come probabilmente sua madre si era augurata.
Un corpetto candido, dalla scollatura rotonda che le lasciava nude le spalle esili e il cui unico ornamento sul décolleté era una collana di perle, abbinata ai pendenti che scivolavano dai lobi. Sul tessuto era inciso un ricorrente ricamo di rose che stilizzavano ulteriormente il bustino che ne sottolineava la vita esile.
Un'ampia gonna azzurra con riflessi candidi per lo stesso motivo di rose che, dal corpetto, si allungavano alla parte superiore dell'abito, per poi disperdersi e luccicare per gli strass applicati e dispersi nella lunghezza stessa. Il sotto-strato di tulle dava un ampio volume e Brittany si era lasciata incantare dal fruscio che poteva sentire ad ogni singolo movimento.Seppur avesse dichiarato di non essere affatto avvezza ai balli di sala, in quel momento non avrebbe desiderato altro che vivere interamente una scena da favola.

Finn sembrò incantato ed incapace di trovare le parole mentre Brittany, i capelli trattenuti ai lati da un nastro azzurro e poi liberi in boccoli a discendere lungo le spalle nude, gli porgeva la mano che egli strinse. Rilasciò il fiato e un sorriso gli increspò le labbra. “Sei bellissima”, aveva sussurrato e Brittany gli aveva sorriso di rimando, lasciando che le insinuasse un bouquet da polso che aveva osservato con sguardo scintillante.
“E' bellissimo, ti ringrazio”, aveva commentato e sollevato nuovamente lo sguardo su di lui. “Stai molto bene”, aveva osservato lo smoking scuro e aveva allungato la mano verso la cravatta leggermente storta. Aveva sentito il battito di Finn divenire più intenso e aveva abbassato la mano automaticamente.
Il ragazzo le aveva porto il braccio che Brittany aveva stretto ma, nel momento in cui varcarono insieme la soglia della palestra adibita come una sala da festa elegante e romantica, non poté trattenere quel singulto d’emozione alla vista di quello che sarebbe stato il suo primo ballo ufficiale, almeno come dama. Strinse istintivamente più forte il braccio del suo cavaliere, quasi necessitando di un incoraggiamento, mentre lasciava vagare lo sguardo su volti noti ma che sembravano risplendere con abiti sontuosi e un'atmosfera così soffusa. Avrebbe continuato ad osservare la scena, ma si riscosse quando Finn sembrò trovare una nuova risoluzione nell'indicarle la pista da ballo con un cenno del mento. “Ti va di ballare?”.
Sembrava la tipica situazione fiabesca, la domanda che aveva sognato di udire fin da quando era solo una bambina e sognava di indossare un abito come quello presente.
C'era quel qualcosa, tuttavia, che le impediva di essere completamente soddisfatta. Ma nel guardare lo sguardo speranzoso di Finn, non poté non sentirsi in colpa e gli sorrise dolcemente. “Molto volentieri”.
Se soltanto la dolcezza e le premure di Finn avessero eguagliato il suo senso del ritmo, Brittany non avrebbe avuto dubbi di essere stata accompagnata dal migliore ballerino della sala.
Abbandonarsi al ritmo della musica era come ritrovare una parte di sé che sembrava smarrita e tenuta strettamente sotto controllo. Era nuovamente libera ed era una sensazione che non vedeva l'ora di provare nuovamente: le ore trascorse nella palestra della madre, di fronte a quello specchio ad esercitarsi su diverse coreografie e generi di ballo, erano tra i ricordi più felici della vita a New York e quelli che più gli strappavano un sospiro nostalgico.
Si riscosse, e in modo doloroso, quando Finn, nell'impeto di quell'improvvisato passo di danza, le calpestò il piede. Gemette, la ragazza, interrompendo il suo ballo.
Il ragazzone si portò le mani alle labbra e si bloccò, l'espressione chiaramente sconvolta e timorosa.
“Oddio! Scusa, sono un disastro”, aveva commentato mortificato. “Tu sei così brava e dovresti poter ballare con qualcuno che sia alla tua altezza e io dovrei sedermi e non fare altri danni-”, era persino più adorabile, quando perdeva la propria sicurezza.
Ne aveva stretto nuovamente la mano. “Non preoccuparti. Che ne diresti se ci sedessimo qualche minuto e parlassimo un po'?” gli aveva proposto, indicando i tavoli rotondi, disseminati nella stanza e il ragazzo parve notevolmente sollevato. Non sembrava arrabbiata e neppure intenzionata a scaricarlo dopo quel disastroso esordio.
Le sorrise nuovamente con la consueta gentilezza. “Vado a prenderti qualcosa da bere”.
Annuì, Brittany, e si allontanò dalla pista, osservando l'orlo dell'abito che sfiorava il pavimento: aveva una vaga smorfia sul viso per il dolore e fu un sollievo potersi nuovamente sedere, ma lasciò correre lo sguardo sulle coppie che si accalcavano sulla pista da ballo. Sorrise e agitò la mano in direzione di Marley la cui guancia era premuta contro il petto di Ryder. Quest'ultimo la stringeva con espressione così devota, ma con tale tenerezza che Brittany non poté che compiacersi per la sua amica e la scelta più giusta per il suo cuore.3
Stava ancora facendo vagare lo sguardo, cercando altri visi familiari per contemplarne il cambiamento, ma quasi trasalì quando la sedia davanti alla sua fu scostata da Hunter Clarington.
Anch'egli indossava uno smoking scuro, perfettamente contrastante con la camicia candida e la cravatta di seta. A differenza di Finn, sembrava che quelle vesti non lo stessero affatto costringendo: al contrario, ne mettevano in risalto la figura longilinea, le spalle ampie e la vita stretta. Gli conferivano un'eleganza che, ad essere onesti, incarnava perfettamente anche nei movimenti armonici con cui si apprestava all'addestramento. Ma c'era quell'alone più sofisticato che era innegabile, seppur Brittany fosse troppo impegnata a fissarlo con aria incredula per quella iniziativa.
Si accomodò con nonchalance, Hunter, un bicchiere di champagne tra le dita.
Sospirò, Brittany, ma volse caparbiamente gli occhi alla sala: ne sentiva lo sguardo addosso, ma nessuno dei due sembrava intenzionato a rivolgere un saluto all'altro.
“Gran bel passo di tip tap”, fu il commento pacato ma svogliato e Brittany fu strappata dalla sua silenziosa contemplazione, gli occhi sgranati e un accenno di rossore sulle gote. “Certo, l'atterraggio sul tuo piede è stato superbo”.
Le labbra di Hunter si erano increspate in un'espressione vagamente divertita e Brittany s’irrigidì com’era fin troppo solita nelle interazioni con lui: incrociò le braccia al petto e gli rivolse uno sguardo infastidito. Per quale motivo non raggiungeva Kitty, specie considerando che tra loro il vincolo non richiedesse neppure un invito, come aveva specificato in modo fin troppo chiaro la ragazza stessa?
Quest'ultima, doveva ammettere Brittany con un certo dispiacere, era incredibilmente graziosa quella sera: indossava un abito lillà con una fusciacca di un azzurro scintillante per i glitter, ma erano il sorriso più civettuolo sul viso, i capelli lunghi e ondulati che le sfioravano le spalle e il trucco a renderla molto più femminile e delicata. L'abito risaltava, inoltre, una silhouette più minuta e aggraziata di quanto la divisa lasciava immaginare.
“Finn è un ottimo cavaliere”, gli fece presente, il tono più severo, ma ne evitò ancora lo sguardo.
Si era portato il calice alle labbra, Hunter, e l'aveva osservata con le sopracciglia inarcate prima di posare il bicchiere, il viso inclinato di un lato e le labbra ancora increspate dal sorriso. “Il che equivale a dire che sia un pessimo ballerino, oltre al peggior soldato che io abbia mai avuto la sfortuna di avere nel mio plotone”.
Si era voltata nuovamente in sua direzione, soltanto per rivolgergli una smorfia severa e corrucciata, prima di inclinare il viso di un lato e accennare un sorriso tutt'altro che complice. “Perché non vediamo come balla un Capitano?”.
Non aveva fatto in tempo a rispondere, Hunter, lo stesso sorriso divertito sulle labbra, perché Kitty gli appoggiò la mano sulla spalla e sbatté gli occhi le cui ciglia erano state ispessite notevolmente dal rimmel, rendendo quel gesto persino più languido del naturale. Una sola occhiata sprezzante verso Brittany, seppur avesse indugiato sul suo abito, evidentemente impressionata per un misero istante. Dopodiché la ignorò allegramente.
“Balliamo?”, si rivolse al ragazzo, sussurrandogli all'orecchio ma con voce abbastanza squillante perché Brittany la sentisse (un vago alzare gli occhi al cielo, da parte di quest'ultima, per poi tornare ad osservare la pista, a dimostrazione di totale indifferenza). “Me lo avevi promesso”, aveva picchiettato sulla sua spalla.
'Me lo avevi promesso', mimò Brittany con una vaga smorfia, gli occhi nuovamente volti al soffitto, ma lo sguardo del ragazzo lampeggiò in sua direzione. Kitty attendeva con postura più rigida, rafforzando la pressione della mano sulla sua spalla.
“Sarà un piacere”, aveva risposto Hunter, infine, ma era ancora Brittany quella che stava scrutando con un sorriso più saputo e divertito. Porse il braccio alla sua dama e la condusse verso la sua pista. Brittany incrociò le braccia al petto, decidendosi che per quella sera era già stanca di guardare gli altri ballare.

“Ecco i nostri bicchieri”, era finalmente tornato Finn che le aveva sorriso: evidentemente non aveva notato che la stessa sedia, un attimo prima, era stata occupata dal suo Capitano. Non che questo avrebbe fatto differenza, probabilmente, visto il puro terrore che provava nei suoi confronti.
Gli aveva sorriso, Brittany, che aveva preso il calice tra le dita. “Grazie, Finn”.
La melodia era divenuta più soffusa e una dolce voce femminile si era sostituita al brano registrato, quando una minuta figura era salita sul palco. Un ragazza che Brittany non credeva di aver mai visto con i lunghi capelli scuri, un elegante abito di una bella sfumatura di rosa e una voce che riuscì ad incantare la platea, Brittany compresa, complice il brano romantico.
“Canta come un angelo”, aveva sussurrato, infatti, in tono ammirato e si era voltata verso Finn il cui sguardo era altrettanto catturato da quell'immagine. Ma sembrò irrigidirsi e si strinse nelle spalle.
Non era una grande intenditrice, Brittany, ma avrebbe giurato che stesse cantando con il cuore e quelle parole fossero davvero dedicate a qualcuno, la cui mancanza o la cui sola idea d’assenza, sembrava spezzarle il cuore.
Fu un errore soffermarsi nuovamente sulla pista perché incrociò lo sguardo di Hunter Clarigton: quest'ultimo le sorrise ancora divertito da sopra la spalla di Kitty e Brittany dovette voltarsi bruscamente. Cercò di ignorare il rossore sulle guance: non era decisamente piacevole essere scoperti in quell'atteggiamento che poteva persino dare adito a stupidi equivoci.
Finn aveva ancora tra le mani il suo drink, non aveva risposto alla lode di Brittany alla cantante ma sembrava incapace di concentrarsi nuovamente sulla sua dama. Almeno fino a quando Brittany non gli appoggiò la mano sul braccio e allora trasalì.
“Stai bene?”, gli chiese preoccupata e il ragazzo sbatté le palpebre ma le sorrise.
“Sì, scusami, io-”.
Ma Brittany non lo stava più ascoltando: tornò ad osservare la cantante i cui occhi tristi sembravano davvero rivolti in loro direzione e non poté non sentire un moto di dispiacere nel comprendere il suo stato d'animo. Si volse nuovamente all'amico.
“Sta cantando per te, vero?”, gli aveva chiesto con un sorriso addolcito. “Voi stavate insieme?”, gli chiese curiosamente.
Finn sembrò sorpreso dalla domanda diretta: era arrossito, ma si era stretto nelle spalle. “Si chiama Rachel”, le spiegò. “E' un'amica di mio fratello, Kurt, ma tra noi è finita”, sembrò ansioso di specificarlo, probabilmente temendo che la sua accompagnatrice potesse risentirsi, ma Brittany gli aveva nuovamente sorriso.
“Io non credo”, lo contraddì, prima di stringergli la mano con maggiore risoluzione. “Va' da lei: è la tua principessa e lo sai anche tu”, gli aveva suggerito, lo sguardo limpido e l'aria più che risoluta e sicura di sé.
“Brittany”, Finn aveva scosso il capo e sembrava realmente confuso. “Io... tu mi piaci”, ma lo sguardo era nuovamente stato richiamato dalla voce della ragazza, persino più delicata nel vezzeggiare il ritornello della canzone.
“Anche tu: sei il miglior amico che potessi trovare, ma sei anche il suo principe”, aveva soggiunto con voce più allusiva.
Un lungo istante di riflessione quello che adombrò lo sguardo di Finn ma, infine, annuì. Si era rimesso in piedi, dopo aver appoggiato il calice neppure toccato sul tavolo, ma si era chinato a baciarle la guancia con un sussurrato “Grazie”.
Gli aveva sorriso di rimando, Brittany, nello stringergli la mano e augurargli buona fortuna. Lo seguì con lo sguardo, mentre si faceva largo tra le coppie danzanti per raggiungere il podio. Un breve sospiro le sfuggì, come ogni volta che contemplava quella magia unica e suggestiva quale l'amore che univa due persone nonostante le difficoltà, le divergenze di carattere. Con una sorta di sortilegio che ingentiliva anche la persona più orgogliosa.
Bevve dal proprio bicchiere, quasi a lenire quella sorta d’aridità all'altezza della gola nel domandarsi se un giorno sarebbe stato anche il suo momento. Fino ad allora, sarebbe rimasta la principessa ignota dal bell'abito.
Alla fine della canzone, Rachel aveva sorriso a Finn che le aveva porto il braccio con nuova grazia ed eleganza e improvvisamente, anche agli occhi di Brittany, non sembrava più il gigante buono quanto goffo ma un principe in tutto e per tutto. La moretta aveva occhieggiato verso Brittany evidentemente confusa, ma la ragazza aveva sorriso ad entrambi e finalmente la coppia prese posto tra le altre per il loro ballo.

Si rimise in piedi, Brittany: il ballo era finito prima del previsto, ma era felice che Finn avesse ritrovato la sua metà. Occhieggiò verso la portafinestra che dava sul cortile esterno: avrebbe potuto prendere una boccata d'aria e rientrare nel dormitorio attraverso l'uscio che dava sul campo d'addestramento. Avrebbe potuto godersi ancora qualche istante del suo bell'abito, magari inventare qualche racconto da fornire alla madre (era un sollievo che non fosse presente o non sarebbe stato tanto semplice potersela svignare in quel modo) sul resoconto della serata e poi sarebbe rientrata per assicurarsi che Lord Tubbington stesse bene.
Volse le spalle alla pista da ballo ma proprio quando stava per varcare la soglia dell'uscita, si sentì artigliare il polso: un tocco fermo per quanto delicato ma trasalì quando, voltandosi per lo slancio della pressione, incontrò lo sguardo di Hunter Clarington che la trattenne a sé.
Aveva sgranato gli occhi, il mento sollevato e le labbra schiuse, ma il ragazzo la stava scrutando senza alcun sorrisetto canzonatorio o irritante. Al contrario, sembrava stesse lui stesso contemplandola in quel momento, senza voler affatto lasciarla andare.
“Balliamo”.
Non sembrava una richiesta, realizzò Brittany, che si era istintivamente irrigidita anche per l'imbarazzo, ma un ordine: ma era la prima volta che lo sguardo verde baluginava di una luce che non le parve di aver mai scorto in quelle iridi. Sentì il suo stomaco annodarsi, ma il ragazzo non sembrò affatto esitare: non fece neppure in tempo a chiedergli perché si fosse allontanato dalla sua dama. Tuttavia, quando si volse per condurla nuovamente alla pista, si accigliò.
Puntò i piedi sul pavimento, opponendo una breve resistenza: il ragazzo la fissò da sopra la propria spalla, le sopracciglia inarcate in un atteggiamento interrogativo. Sbuffò, Brittany, che cercò di scostarsi.
“Non voglio ballare con te!”, protestò, la voce indignata. E poi non glielo aveva neppure chiesto: lo aveva preteso soltanto perché era un Capitano e lei una recluta, quando pochi giorni prima aveva anche ribadito che era solo Kitty ad avere autorità su di lei.
Non parve scomporsi, Hunter e neppure offendersi: nuovamente lo sguardo baluginò con quel sorrisetto impertinente e divertito. “Ma io non te lo sto chiedendo”, lo specificò esplicitamente.
Lo fissò incredula, Brittany, sbatté le palpebre interdetta, ma il ragazzo riprese a condurla verso la pista. Qualcuno aveva inserito un disco registrato e fu una nuova melodia quella che risuonò.4
Una voce maschile ma delicata e Brittany si sorprese di come quella melodia sembrasse rimandare ad un libro di favole: avrebbe potuto probabilmente accompagnare il momento in cui si sarebbe effettivamente sentita principessa. Con Hunter Clarington.
Il pensiero la rendeva ancora più rigida e lo guardò mentre, senza alcuna esitazione, una volta condotta al centro della pista, le cingeva la vita con un braccio e ne prendeva la mano libera, intrecciandola alla propria. Osservò le loro mani strette, sentì il calore della mano più grande e, suo malgrado, ne intrecciò lo sguardo e realizzò, con un brivido lungo la spina dorsale, che era proprio così che doveva avvenire una simile iniziativa. Con la sua sicurezza e, al contempo, la delicatezza con cui la tratteneva, quasi si stesse premunendo di non procurarle dolore.
Realizzò ancora una volta quanto si sentisse esile al confronto ma quanto, incredibilmente, riuscisse a condurla senza alcuna esitazione e con una scioltezza davvero sorprendente per qualcuno che sembrava sempre così rigido e controllato. Soprattutto il modo in cui il suo corpo, a dispetto della sua mente, si fosse perfettamente rilassato e lasciato andare, seguendo le sue circonferenze, come se non avessero mai fatto altro fino a quel momento. Gli sguardi erano intrecciati in una sorta di comunicazione che non sembrava necessitare di parole. O che andasse persino in direzione opposta rispetto al contesto che li vedeva perfettamente abbinati.
Perché avesse scelto proprio lei, Brittany non riusciva a capirlo, ma dubitava che lo stesso Hunter glielo avrebbe mai lasciato intendere. Avrebbe voluto sottrarsi a quegli occhi che sembravano realmente contemplarla e ben oltre il suo portamento o l'abito di quella sera.
Non riusciva a spiegarsi perché le fosse così difficile. Forse era colpa della pressione decisa della sua mano sulla vita, del modo in cui quel tocco gentile le faceva scorrere quei brividi, tanto da non riuscire a capire se fosse intirizzita o, al contrario, se quell'imbarazzo stesse divampando in una fiammata di calore.
Avrebbe tanto voluto comprendere a cosa stesse pensando in quel momento, mentre la conduceva in perfette circonferenze, senza mai calpestarle il piede o sgualcirle la gonna vaporosa, per quanto potesse sembrare d’intralcio con il suo diametro.
Principe”.

Una vecchia favola mi ha insegnato,5
che il cuore semplice riacquisterà valore.
Un rospo sarà il nostro re,
e brutti orchi saranno i nostri eroi.



Sembrava lui stesso fin troppo pensieroso a giudicare da come la stava guardando e rimasero in silenzio per qualche istante: aveva scorto Kitty, accanto al tavolo delle bibite, con espressione furiosa. Non poté che chiedersi se avessero avuto una discussione e Hunter si fosse allontanato da lei. Non osava immaginare quali sarebbero state le ripercussioni durante gli allenamenti quotidiani.
“Siamo partiti con il piede sbagliato”, sussurrò il giovane e Brittany si riscosse. La stava ancora osservando, il viso lievemente inclinato di un lato. Aveva sentito il suo respiro caldo sul volto, a farla ulteriormente rabbrividire, seppur si sentisse salda nel suo abbraccio.
Era stato così vicino per tutto il tempo? Il pensiero la fece arrossire ma, a quelle parole, parve confusa: non stava concentrandosi effettivamente sul ritmo: si era lasciata condurre e le era parso un ballerino tutt’altro che goffo o impreparato.


Tutte le promesse sono state infrante,
dai da mangiare alla tua gente e lascia il tuo trono.
E cedi il tuo intero regno.


“Sei tu che conduci”, ribatté, quasi a mo’ di difesa, soprattutto con l’intenzione di riprendere il controllo della situazione e non sentirsi ulteriormente intimidita.
Il ragazzo parve spiazzato e sbatté le palpebre. L’attimo dopo un verso d’ilarità ne sgorgò dalle labbra. Brittany realizzò, un nuovo contorcimento nello stomaco, che era la prima volta che lo sentiva davvero ridere. Non per umiliare, non per intimidire un suo inferiore.
Si fece nuovamente serio e sentì la pressione sulla sua mano farsi più salda, strappandole un ulteriore brivido perché sembrò quasi volerla trattenere. “Parlavo del nostro rapporto”, precisò e Brittany parve persino più interdetta: era normale invitare (?) una ragazza a ballare per poi constatare l’ovvietà del non riuscire ad andare d’accordo con lei?
Aveva sospirato. “Beh, sei tu che ti comporti in modo cattivo”, ribatté in tono eloquente quanto puerile. “Ma potrei perdonarti, se mi chiedessi scusa”.
Parve irrigidirsi il ragazzo e la pressione sulla sua vita, per la prima volta, vacillò seppure l’attimo dopo la cinse con la stessa risoluzione. “Io non devo scusarmi con te”, rispose in tono composto ma evidentemente interdetto dalla sua risoluzione su quel punto.
Brittany arricciò il naso. “Allora non ti perdonerò”, ribatté in tono ovvio.
“Sono un tuo superiore”, ribadì il ragazzo che, per qualche motivo, la stava stringendo più forte, facendola trasalire per il contatto più serrato. “Devi portarmi rispetto”.
Sbuffò, Brittany. “Non siamo in addestramento e lo hai detto tu stesso che è Kitty che si occupa di me”, aveva precisato per poi aggrottare le sopracciglia. “E comunque trattate entrambi male i vostri soldati soltanto per divertimento”.
Curioso come fossero vicini fisicamente ma altrettanto distanti emotivamente e sembrasse sempre esservi un ostacolo alla reciproca comprensione e tolleranza.
Si era fermato bruscamente, Hunter, seppur non avesse accennato a lasciarla andare. “Io non mi diverto”, specificò, apparentemente indifferente al giudizio su Kitty, parve davvero stizzito da quell’accusa nei propri confronti. “E’ mio dovere prepararli”, aveva ripreso a condurla, ma nessuno dei due parve seguire realmente il ritmo della canzone o carpire il significato stesso del brano. Neppure sembrarono sforzarsi di ritrovare la concentrazione come le altre coppie.
“Non c’è bisogno d’essere meschino per farlo”, aveva ribadito la ragazza, altrettanto caparbiamente. Stava cercando di ignorare la sensazione dilagante di quello sfarfallio nello stomaco, o di come il suo sguardo verde riuscisse a farla sentire piccola e indifesa. Era la sua stessa rabbia e il risentimento covato a lungo, ad implodere malgrado tutto.
Serrò le labbra, Hunter, e il suo sguardo sembrò adombrarsi, ma non si scompose seppur, per la prima volta, la pressione sulla sua vita, si attenuò. “E’ questo che pensi, allora?”, non sembrava arrabbiato, era un’altra emozione che Brittany non sapeva decifrare, probabilmente era qualcosa di simile alla… delusione. Ma si sentì persino peggio.


Tu eri il nostro bambino d’oro,
ma i gentili e i miti
erediteranno la tua terra.



“E’ quello che fai vedere”, si sentì dire ma la sua voce parve più flebile, quasi intaccata dal pensiero che il suo giudizio potesse avere davvero effetto su di lui.
Sembrò senza parole, Hunter, continuò a scrutare in quei limpidi occhi azzurri che sapevano sempre porlo di fronte a qualche realtà che non sembrava riflettere la propria. “Liberissima di crederci: è un tuo problema”, sembrava adesso indifferente.
“Sei tu che rischi di restare solo”, non lo aveva detto con cattiveria, ma sentì chiaramente qualcosa rompersi in sé. Non era a cuor leggero che pronunciava quelle parole e seppur volesse cercare in lui la conferma che non fosse solo un Capitano arrogante e prepotente. Si sentiva lei stessa delusa dalle loro tipiche interazioni.
Sorrideva, Hunter, ma pareva tutt’altro che divertito: sembrò voler dire qualcosa, ma si riscossero entrambi quando apparve Neal tra loro. Indossava l'alta uniforme e sorrideva ad entrambi con sguardo complice: osservò con ammirazione la ragazza per poi rivolgersi a Hunter.
“Spero non ti dispiaccia, Hunter”, aveva porto la mano a Brittany.


Mentre la tua corona da principe si rompe e cade,
il tuo castello è desolato e freddo.
Sei così lontano dalla persona che eri.
Lasciati andare, lasciati andare,
perché ora tutti lo sappiamo.


Non aveva distolto lo sguardo da lei, Hunter, ma aveva abbassato le braccia lungo i fianchi. “Affatto”, era stata la replica asciutta e, dopo essersi congedato dall’uomo, si era allontanato, lasciando Brittany con un grave sospiro ad uscirle dalle labbra.
Si sentì improvvisamente svuotata, lo stomaco ancora annodato da una nuova e sgradevole sensazione e neppure il dolce abbraccio di Neal sembrò restituirle quel brivido o quel calore sentiti poco prima.

Presto qualcuno farà un incantesimo su di te.
Profumo, stregoneria, qualsiasi trucco e
tu giacerai in un sonno profondo.


“Eravate carini insieme”, le sorrise Neal, notando il suo sguardo distratto e Brittany sbatté le palpebre. “Devo preoccuparmi?”, seppur volesse apparire bonario e sbarazzino come suo solito, sembrava esserci una reale apprensione in quella domanda e Brittany sbatté le palpebre.
“Certo che no”, aveva sentito le guance imporporarsi, ma era Hunter che stava scrutando mentre, superando le coppie e ignorando Kitty che lo stava richiamando, usciva dalla portafinestra che Brittany stessa avrebbe voluto varcare poco prima.
Sospirò, la ragazza, ma si concentrò nuovamente sul patrigno e gli sorrise. “E poi tu sei molto più simpatico”, gli disse in tono più complice ma l’uomo, seppur le sorrise, scosse appena il capo.
“Non essere troppo dura con lui: so che sembra arrogante, ma è troppo chiuso in se stesso”, aveva commentato e sembrava davvero credere fermamente in quelle parole, probabilmente avendone una certezza che Brittany non poteva permettersi. “E’ dovuto crescere troppo presto, sai”, le aveva detto, abbassando la voce, ma la curiosità della giovane parve persino acuirsi.
“E’ troppo alto?”, chiese ancora più confusa.
“No”, a differenza delle altre volte, Neal non parve divertito per le sue risposte impulsive e fuori contesto: tanto che lei temette di aver detto qualcosa di davvero inappropriato. Era serio, Neal, come non mai mentre parlava in un sussurro. “E’ cresciuto solo con suo padre e ha passato tutta la sua vita qui, si può dire che sia stata l’Accademia la sua casa. Era solo un bambino, quando è morta sua madre”.
Un senso di gelo attanagliò il cuore di Brittany che si sentì persino incapace di respirare per un lungo istante: era stato fin troppo semplice e superficiale attribuire quella sua apparente prepotenza ad una personalità poco raccomandabile. Ma lei, più di tutti, avrebbe dovuto comprendere che nel suo sguardo si celasse una tristezza che lei stessa aveva conosciuto. Ma in due modi completamente diversi perché certamente né Hunter né la signora Clarington avrebbero mai chiesto di essere separati in quel modo. Cresciuto in quel contesto e con una particolare disciplina, doveva essere più che naturale per lui agire in modo severo, spesso ritenuto persino spietato o… meschino, come lo aveva definito lei stessa poco prima.
Impallidì, Brittany, e desiderò poter girare le lancette dell’orologio, desiderò non agire più in modo tanto infantile o risentito per quello che, probabilmente, era stato soltanto un consiglio che lui stesso non aveva potuto seguire, quando era solo un bambino.
“Gli farebbe bene avere un’amica allegra come te”, aveva sussurrato nuovamente Neal, il viso inclinato di un lato e un sorriso più dolce. “Puoi provare a dargli un’occasione?”.
Sospirò, Brittany, il senso di colpa sempre più intenso, unito al dispiacere. Sì, lo avrebbe sicuramente fatto ma, a quel punto, sarebbe stata la volontà di Hunter di concederle un perdono, ad essere determinante. Aveva avuto ragione, il ragazzo: a differenza sua, era riuscito a scorgere più di quanto mostrasse e se anche quel luogo non fosse il più adatto, probabilmente le avrebbe permesso di crescere.
Annuì e sorrise al patrigno. “Se Hunter me lo permetterà”.
“Ne sono sicuro”.
Avrebbe voluto essere altrettanto ottimistica ma, per tutto il loro ballo, rifletté sulla cosa più giusta da farsi.


~

Uscì in giardino e si guardò attorno: improvvisamente anche la gioia e la soddisfazione di un abito così principesco sembrava essere secondaria. Più che una principessa, quella sera aveva agito come una strega, ragionò tra sé, morsicandosi il labbro e cercando di individuarne la figura con aria preoccupata. Avrebbe tanto voluto potergli parlare prima del coprifuoco: non aveva idea di dove si trovassero i dormitori maschili e dubitava che sarebbe stato disposto ad infrangere le regole proprio per lei. Fu con un misto di sollievo e curiosità che lo scorse laddove si erano incontrati la sua prima sera all'Accademia: stava rimirando nuovamente il paesaggio, appoggiato alla balaustra del portico. Kitty era al suo fianco e parlava in tono agitato ed evidentemente arrabbiato.
Si morsicò il labbro, Brittany, temendo che potesse scorgerla e si appiattì contro la parete dell’edificio. Avrebbe dovuto attendere che Kitty avesse finito: non osava immaginare come avrebbe reagito a coglierla sul fatto in quel momento. Sbirciò in loro direzione e si soffermò su Hunter: si era slacciato la cravatta e aveva persino ripiegato i risvolti della giacca e della camicia con una trasandatezza che Brittany non gli avrebbe mai associato. Si era chinato verso Kitty, ma non sembrava né preoccupato né arrabbiato. Ma neppure felice come sarebbe dovuto essere, se si fosse trattato di un momento privato, tanto che Brittany era arrossita ed era parsa a disagio all’idea di interrompere una conversazione tra innamorati.
Cercò di concentrarsi sul cielo stellato, le braccia dietro la schiena: le parve di sentire uno scalpiccio di passi e la porta che dava sul cortile esterno fu sbattutaEbbe la tentazione di voltarsi nuovamente per accertarsi di ciò che stava accadendo: lo fece solo dopo qualche istante, quando scorse Hunter, girato di spalle, ancora appoggiato alla balaustra. Evidentemente Kitty era rientrata furiosamente, ma lui non sembrava avere intenzione di seguirla.
Il suo senso di colpa sembrò persino farsi più scalpitante all'idea che il cattivo umore di Hunter, influenzato da lei, avesse intaccato anche la sua relazione con Kitty.
“Puoi venire fuori”, lo sentì dire. Il tono composto e calmo ma Brittany trasalì e arrossì furiosamente: si morsicò il labbro, ma prese finalmente risoluzione a staccarsi dalla parete e avvicinarsi, lasciandosi scorgere nuovamente. Non si era neppure voltato, Hunter, ma salì i gradini che la separavano dal portico, le mani strette nervosamente in grembo e lo sguardo azzurro che lo scrutava di sottecchi.
“Non stavo spiando!”, esclamò goffamente, le mani sollevate e le guance imporporate. Solo allora Hunter si volse ad osservarla: le sopracciglia inarcate. “Cioè, volevo solo aspettare che lei andasse via”, aveva specificato, Brittany, quasi la silenziosa postura dell’altro denotasse poca convinzione. “Ok, un pochino”, concesse infine e Hunter roteò appena gli occhi, con aria impaziente.
“Che c’è, Pierce?”, le chiese, infine, in tono spiccio e Brittany si morse il labbro nuovamente. Avrebbe tanto voluto poter sentirsi sicura di sé e sapere che ciò che stava per dire non era puerile o fuori luogo. Le parole di Neal ancora le risuonavano nella mente e l’idea di averlo intristito, le procurava una contrazione dolorosa all’altezza del petto. Sospirò e cercò di raccogliere il proprio coraggio, mentre il silenzio indugiava tra loro prepotentemente.
“Io…”, il ragazzo si era staccato dalla balaustra, si era avvicinato e Brittany sentì la sua determinazione vacillare pericolosamente.
“Per favore, Pierce, non ho voglia di-”.
Era stato un gesto spontaneo e la mano della ragazza si era stretta al braccio la cui mano era conficcata svogliatamente nella tasca del pantalone. Sembrò trattenerlo, il mento sollevato e lo sguardo azzurro colmo di dispiacere e di reale pentimento.
La scrutò ancora più curiosamente, Hunter, la cui frase si perse nel silenzio ma attese.
Brittany seppe per istinto che, se anche lo avesse lasciato, non si sarebbe allontanato. Non fin quando almeno fosse riuscita a parlargli, pentendosi ancora una volta della sua poca dimestichezza nel trovare le giuste parole.
“Avevi ragione”, aveva sussurrato la ragazza, morsicandosi il labbro. “Questo posto non è adatto a me e sono stata un po’-”.
“Puerile?”, le chiese il ragazzo che parve ritrovare quel sorriso appena più divertito, il viso inclinato di un lato nello scrutarla dall’alto al basso.
Sospirò, Brittany: non le stava rendendo affatto tutto più semplice, ma non distolse lo sguardo e non si accigliò. Annuì, guardandolo ancora dritto negli occhi che non parvero baluginare in modo canzonatorio e neppure severo: probabilmente era la prima volta che potevano avere un reale dialogo e giungere ad un punto di reciproca comprensione. Senza pregiudizi e senza ostilità.
“Sì”, aveva ammesso e quel nodo che sentiva in gola sembrò lentamente affievolirsi. “Ma non voglio andarmene, non subito, anche se può sembrarti sciocco o inutile. Lo so che mia madre e Neal saranno felici comunque, ma forse lo sto facendo anche per me”.
L’aveva scrutata pensieroso, Hunter, il viso inclinato di un lato. “Ne sei davvero convinta?”, le aveva chiesto e sembrava aver perso quel guizzo di puro divertimento. Appariva realmente interessato ad una sua risposta. “Non credo di averti mai vista veramente felice qui dentro”.
Sentì uno strano brivido scivolarle lungo la spina dorsale, Brittany: non seppe esattamente cosa fosse. Se la realizzazione che lui l’avesse scrutata così a lungo e intensamente da poter formulare un giudizio che pareva tutt’altro che improvvisato, o il fatto che quelle parole rispecchiassero fin troppo la sua realtà e che nessun altro sembrava scorgere.
“Potrei esserlo”, aveva sussurrato, la voce più flebile nel continuare a sondare in quegli occhi verdi: si sorprese di non aver mai realizzato quanto fossero intensi. O quanto, in una reale conversazione, anziché agitarla e renderla furiosa, riuscissero persino a placarla. La sua natura così mite e composta poteva bilanciarsi alla sua più impulsiva e diretta. “… se sapessi che puoi cercare di capirmi e che mi dispiace per quello che ti ho detto prima”.
Dovette distogliere lo sguardo, la voce parve più flebile e il respiro più rado, ma sapeva che non sarebbe riuscita a trovare riposo, non finché non si fosse assicurata che lui non era più in collera. O ferito.
Sentiva il suo sguardo su di sé ma, infine, il ragazzo le sollevò lievemente il mento e Brittany trattenne il fiato. Indugiò in quella silenziosa contemplazione ma, dopo un lungo istante, annuì. La trattenne ancora un istante con quella lieve pressione.
“Se è questo che vuoi: conoscere meglio te stessa e metterti alla prova, non potrei mai giudicarlo sciocco o inutile”, aveva scostato la mano, il viso inclinato maggiormente di un lato. Lentamente le labbra si modellarono in un sorriso che fece istintivamente rilassare anche Brittany.
“Scuse accettate”.
“Bene”, sorrise la ragazza che rilasciò il respiro. Solo in quel momento sembrò accorgersi di starlo ancora trattenendo: scostò la mano dal suo braccio.
Un gesto che parve divertire il ragazzo. “Bene”, replicò a sua volta, una rapida inarcata di sopracciglia con la quale parve sfidarla a stizzirsi nuovamente.
Parve intuirlo, Brittany, perché arricciò appena il naso. “Bene”, rimarcò ulteriormente prima di scuotere il capo e schiarirsi la gola. “Capitano, Clarington, con il suo permesso, prendo congedo e le auguro buonanotte”, aveva assunto un tono ironicamente formale.
Vi era un sorriso ad incresparle le labbra nel voltarsi e lasciar ondeggiare la vaporosa gonna che il ragazzo osservò. Parve quasi ipnotizzato da quella piroetta e dal modo in cui i suoi capelli avevano schermato l’aria.
Si era chinato sulla sua nuca. “Buonanotte”, le aveva sussurrato, un reale sorriso nella voce, ma Brittany era rabbrividita al sentire il suo respiro caldo. Fu lieta che non potesse scorgere il rossore sul suo viso.
“Oh, Pierce”, si era voltata, la mano adagiata alla portafinestra, ma il ragazzo stava di nuovo appoggiato alla balaustra, l’aria indolente nell’osservarla di sottecchi. “Credo che da stasera riterrò sciocco costringerti ad indossare una divisa”.
Aveva boccheggiato la ragazza, gli occhi sgranati e le guance rosate ma il ragazzo si era nuovamente voltato verso il cielo e la conversazione poteva ritenersi conclusa.
Brittany era rientrata con la testa tra le nuvole, quasi ondeggiando con le mani dietro la schiena nel percorrere quei familiari corridoi ma sentendosi sospesa in tutt’altra dimensione.
Si adagiò alla porta della propria camera, dopo averla chiusa, un sospiro a sgorgarle dalle labbra. Miagolò in sua direzione, Lord Tubbington. Brittany piroettò su se stessa prima di stendersi, sommergendo il felino sotto il tulle della gonna.
Allungò la mano verso il comodino e trasse il libro tra le mani: lo sguardo indugiò sulle righe che aveva letto quel pomeriggio, prima di iniziare i preparativi della serata.
rumorosamente.

[…] Erano le parole che Belle probabilmente avrebbe voluto lasciar sgorgare molto prima, a giudicare dal modo in cui, finalmente, il maleficio sembrasse essersi affievolito. Ben lungi dal cogliere nuovamente i lineamenti più rigidi della Bestia, a testimonianza di un cuore che aveva ritenuto anch’esso prigioniero e inciso nella pietra; una nuova dolcezza ne aveva fatto risplendere lo sguardo. Ed era la dolce consapevolezza che, nei loro cuori, entrambi avevano anelato a quella reciproca comprensione e ad un nuovo inizio che rendesse tutto molto più etereo; le pagine di una favola che Belle ancora non aveva sfogliato, ma che avrebbe vissuto da quel momento in poi. […]

Mentre la tua corona da principe si rompe e cade,
il tuo castello è desolato e freddo.
Sei così lontano dalla persona che eri,
lasciati andare, lasciati andare,
perché ora tutti lo sappiamo.
(The Frog Prince – Keane).


To be continued...


1 Forse non dovrei scrivere commenti o potrebbe uscirne uno un po' #porNolan(o). Diciamo che personalmente apprezzo molto il taglio di capelli di Nolan, quando sono sollevati, ma riconosco che possano essere un bersaglio semplice per Puck. Bene, continuiamo :)
2 Se non erro, e in tal caso chiedo venia, i fratelli Grimm non avevano mai specificato il nome della Bestia, ma nella versione disneyiana, il nome è per l'appunto Adam. Magari già lo sapevate, io personalmente l'ho scoperto molto di recente :D
3 Chiedo scusa in presenza di eventuali fan Jarley ma se riuscite a tollerare una crackship quale l'Huntany, dubito che questa risulti più “scandalosa” ;)
4 La canzone di cui inserirò qualche verso è “The Frog Prince” dei Keane. Pur non essendo il brano più romantico, l’ho sempre trovato molto suggestivo e il testo credo si adatti perfettamente alla continua metafora tra mondo reale e fiabesco della fanfiction.
5 Per ascoltare il brano e vederne il testo originale, cliccare qui: The Frog Prince - Album Version and lyrics
Se apprezzate il gruppo o siete particolarmente curiosi, vi consiglio anche questa performance dal vivo nella quale la voce di Tom e l'orchestra rendono il brano anche più suggestivo rispetto alla traccia del cd :) The Frog Prince (Live Version)


Personalmente uno dei miei capitoli preferiti almeno per il momento: spero che sia stato lo stesso anche per voi :)
In fondo, nessuna fanfiction che voglia fare paralleli al mondo delle fiabe, può mancare di un ballo, no? :)
Prima che mi dimentichi, non so per quale arcano motivo sia scomparsa la nota relativa all'abito di Brittany e non vorrei litigare ulteriormente con il programma per la formazione dell'html.  Spero la mia descrizione sia stata sufficiente ad aiutarvi ad immaginarlo, altrimenti, ecco la versione "ufficiale": abito di Brittany.
E ora, guardando al futuro, qualche spoiler del prossimo capitolo:

Vorrei che noi tre diventassimo una famiglia a tutti gli effetti”.
Sono di buon umore, Pierce, se mi dirai cosa nascondi, punirò solo te e non l'intera camerata”.
Hai pianto”. “Sto bene”. “No, affatto”.
 

Come sempre, ringrazio le mie “unicorn girls” che mi deliziano sempre dei loro commenti ed impressioni e rendono questo momento ancora più sentito. Un abbraccione stritolante a tutte! :*
Grazie anche a chi legge, sempre disponibile in caso di chiarimenti o semplicemente un confronto.

Buon weekend a tutti e anche buon Novembre :)
Kiki87




















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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


capitolo 5
"Che bellissima fioritura abbiamo quest'anno. Ma guarda: quello è in ritardo.
Scommetto che quando sboccerà, diventerà il fiore più bello di tutti".
[Dialogo tra Fa Zhou e Mulan, dal cartone di Walt Disney, “Mulan”]


Capitolo 5.


La settimana non era cominciata nel migliore dei modi: se già normalmente Kitty era severa e particolarmente dura nei suoi confronti, il ballo non le aveva giovato l'umore e tanto meno aveva migliorato il loro già teso rapporto. Al contrario, avrebbe potuto giurare che il suo odio avesse raggiunto un livello del tutto nuovo. Poco contava che avesse ormai acquisito abbastanza dimestichezza dal riuscire a compiere un percorso senza particolari intoppi e che stesse anche imparando ad eludere la sua paura del vuoto; Kitty si ingegnava sempre nel trovare nuovi stratagemmi con i quali metterla in difficoltà o assegnarle giri di campo supplementari, persino quando riusciva a scampare una punizione (anche il non finire il rancio era divenuto “una mancanza di rispetto per la divisa”). Se la vita in Accademia comportava un regime impegnativo, le angherie di Kitty non facevano che rendere tutto persino più gravoso, ma cercava di trarne ulteriore stimolo per migliorarsi, temprare il corpo e la mente e non ascoltare il suggerimento di Lauren circa la possibilità di “infilarle la testa nel tritarifiuti”, oppure “investirla con un carro armato una dozzina di volte ed assicurarsi sia morta”. Un altro motivo d’intensa frustrazione era il non essere ancora riuscita a varcare la soglia dell'aula di danza. E non soltanto perché non aveva ancora ben compreso dove fosse collocata (quei corridoi erano davvero troppo uguali gli uni agli altri, peggio del labirinto in cui si era imbattuta la sventurata Alice); ma spesso e volentieri, stringendo Lord Tubbington sotto le coperte, immaginava il momento in cui avrebbe potuto, finalmente, inserire una sua playlist nello stereo e poter ideare una nuova coreografia.

Aveva perso la nozione del tempo, Brittany, ma una fitta pioggerellina le faceva compagnia. Sentiva in lontananza la voce di Kitty, mentre si rivolgeva al suo plotone, intervallato ogni tanto da un fischio acuto. Di tanto in tanto, aveva lasciato vagare lo sguardo sulle compagne che si stavano cimentando in nuovo percorso. Aveva completato i suoi giri di campo, le mani sui fianchi e le guance arrossate, i ciuffi scompigliati che le sfuggivano dal berretto, mentre cercava di riprendere fiato. Si lasciò letteralmente cadere sulla distesa d'erba, gli occhi chiusi e respirò a pieni polmoni, cercando di ignorare l'indolenzimento delle gambe, la fitta acuta all'altezza della milza e persino il dolore lombare.
Sospirò e sorrise appena: sapeva che Kitty non le avrebbe fatte rientrare fino al suono della tromba e sperò che avvenisse il più tardi possibile. Persino le gocce d'acqua che le sfioravano il viso sembravano essere rigeneranti. Si lasciò sfuggire uno sbadiglio: la notte precedente aveva dovuto soccorrere Lord Tubbington che aveva cercato di uscire dalla camerata ed era apparso visibilmente agitato di fronte a quei vasti corridoi. Aveva scoperto che l'Accademia di notte era persino più inquietante, come il castello della Bestia, quando l'incantesimo ancora non era stato spezzato; aveva avuto persino lo stesso puerile timore di qualcuno che la scrutasse nel buio con la stessa rabbia.
Si scostò i capelli dal viso ed emise un vago mugugno.
“So che le camerate non sono esattamente delle suite d'albergo a cinque stelle, ma almeno non perdono acqua dal soffitto”, il tono era interdetto, ma sembrava esserci il sorriso nella voce, quasi stesse trovando quel suo gesto vagamente divertente.
Aveva schiuso gli occhi automaticamente, un lieve sobbalzo e un verso di sorpresa: in piedi, le braccia incrociate al petto, e perfettamente a suo agio sotto la pioggia, Hunter Clarington la stava fissando. Aveva il viso inclinato di un lato, l'angolo delle labbra sollevato verso l'alto e il sopracciglio inarcato: probabilmente aveva l'impressione che la ragazza avrebbe ardito ad una curiosa giustificazione che sembrava impaziente di ascoltare.
Malgrado la pioggia e l'essere ormai fradicia, aveva sentito un'ondata di calore attraversarle il corpo: aveva sgranato gli occhi, le labbra schiuse e aveva drizzato bruscamente la schiena. Il berretto le cadde dal capo e i capelli scivolarono in una cascata scarmigliata lungo la schiena. Non diede adito a volersi sollevare, ma inclinò il viso di un lato, le braccia a puntellarsi sull'erba. Si era morsicata il labbro in un'espressione di infantile preoccupazione. “Non dirlo a Kitty, ti prego”, pigolò.
Cercò goffamente di legare nuovamente i capelli: per qualche motivo, soprattutto alla luce del congedo della notte del ballo, si sentiva particolarmente a disagio a lasciarsi scorgere in quelle vesti così poco aggraziate. Non aveva detto lui stesso che avrebbe preferito non vederla conciata a quella maniera? Si sorprese, un vago rossore sulle guance, a riflettere su quel dettaglio, quando evidentemente la curiosità del ragazzo era indirizzata a ben altro.
Scosse appena il capo, Hunter, che gettò un'occhiata al campo in lontananza da cui le sagome delle compagne somigliavano a tante matite colorate di quell'unico e monotono colore. Tornò ad osservarla, l'espressione vagamente incuriosita. “E' per questo che sei qui? Un'altra punizione?”, le chiese soltanto.
Annuì, Brittany, e si alzò, cercò di indossare il berretto per poi inserirvi i ciuffi che sfuggivano dalla crocchia. “Stai punendo anche tu Fin- qualcuno?”, non avrebbe voluto nuovamente indispettirlo o offenderlo ma si era guardata curiosamente attorno, quasi aspettandosi di vedere il suo amico fare la sua comparsa, impegnato lui stesso in qualche esercizio di riscaldamento.
Schioccò la lingua contro il palato, Hunter, scuotendo il capo. “La tua fiducia nei miei confronti è davvero commovente”, aveva commentato soltanto. “Puoi aspettare nel bungalow il suono della tromba”, aveva indicato il caseificio con un cenno del mento. “Sto andando a controllare che il tuo amico abbia lucidato tutto come gli ho ordinato”. Le fece cenno di seguirlo e la ragazza obbedì, controllando ancora una volta che Kitty non stesse guardando in loro direzione: a volte aveva l'impressione che avesse una sorta di magico radar con cui individuava chiunque stesse per fare qualcosa che le fosse poco gradito. O forse lo aveva per scorgere Hunter. O magari per entrambe le cose, ragione che rendeva quell'improvvisata decisione persino più rischiosa.
Ne osservò le scapole e le rapide falcate e lo seguì: sarebbe rimasta all'asciutto fino allo squillo di tromba e poi si sarebbe nuovamente unita alle altre.
Continuava ad osservare la schiena del ragazzo: dopo quella sera del ballo, aveva avuto l'impressione di aver cominciato finalmente a conoscerlo meglio. Che magari da quel momento lui stesso sarebbe apparso diverso: non il Capitano severo ma il ragazzo che le aveva augurato la buonanotte e le aveva fatto quel complimento, quello che sembrava averla capita e che non l'avrebbe più giudicata soltanto una bambina. Non aveva ancora del tutto appianato la sua teoria circa il modo in cui le divise toglievano l'allegria e la spensieratezza ma rimuginò ancora qualche istante.
“Continui a sorridere poco”, aveva commentato a voce alta, quella che era sembrata la conclusione di un ragionamento più approfondito. Vi era una traccia di delusione e di preoccupazione nella sua voce.
Fu forse ciò a rendere la reazione del ragazzo così sorpresa. Si fermò bruscamente e Brittany, non essendosene accorta, cozzò contro la sua schiena. Gemette goffamente nel portarsi la mano sul naso e strofinarlo, le guance appena rosate perché, malgrado la pioggia, aveva nuovamente sentito il suo profumo (lo stesso che aveva inspirato durante il loro ballo e che aveva sentito persino nella sua camera, sotto il calore delle lenzuola).
Hunter si volse in sua direzione: la stava scrutando con la fronte leggermente contrattata, gli occhi sgranati e le labbra schiuse. Le serrò e scosse appena il capo. “Io sorrido”, aveva ribattuto come se fosse stata una cosa ovvia.
Aveva scosso il capo anche Brittany che stava anche dondolando le braccia quasi a dare risalto alle sue parole. “Non parlo del sorriso che fai per prendere in giro Finn, ma di un vero sorriso”, lo sottolineò con voce limpida, scrutandolo con il viso inclinato di un lato e lo sguardo azzurro acceso d’attenzione.
“Un vero sorriso”, ripeté Hunter, il tono pregno di quello che sembrava sconcerto, perplessità ma persino una punta di divertimento, a giudicare da come piegava il capo, quasi ad ascoltarla meglio.
Anche Brittany si fece pensierosa, le mani puntellate sui fianchi e le sopracciglia corrugate mentre cercava di formulare un ulteriore suggerimento, per poi illuminarsi con un sorriso giocoso. “Il modo in cui sorridi a Kitty, ad esempio”.
In realtà, alla menzione della ragazza, Hunter parve persino più spiazzato: sbatté le palpebre. “Perché Kitty?”, le chiese sconcertato.
La ragazza lo guardò ancora più incerta a quella domanda che sembrava di ovvia risposta, ma si strinse nelle spalle. “Lei sorride sempre, quando ci sei tu”, spiegò con la medesima semplicità.
“Senti, senti”, aveva incrociato nuovamente le braccia, Hunter, che sembrava totalmente dimentico dell'obiettivo per cui doveva condurla nel casolare. Abbastanza intrigato almeno dal restare entrambi sotto la pioggia. “Un vero sorriso, a tuo parere?”, le aveva chiesto.
Brittany sbatté le palpebre, una vaga smorfia. “In realtà sbatte un po' troppo gli occhi: forse dovrebbe stare attenta ai moscerini, se deve sempre fare così”, ne aveva imitato il gesto, chiudendo e riaprendo gli occhi rapidamente.
Sentì un lieve verso gutturale da parte dell'altro e, l'attimo dopo, il viso di Hunter sembrò letteralmente illuminarsi, malgrado la pioggia che ne stava bagnando il volto. Brittany stessa sembrò non sentire più i brividi di freddo o il bisogno di stringersi le braccia al corpo e mettersi al riparo. Era come se tutto attorno a lei fosse sbiadito a parte il volto del ragazzo. I suoi occhi verdi sembravano baluginare ed era come se nuovamente scorgesse un riflesso del suo vero carattere, dietro quell'apparenza composta e rigida.
Rimase quasi senza fiato, Brittany, che, dopo quel primo istante di contemplazione, sorrise a sua volta, dondolandosi con il busto con aria soddisfatta. “Sì, un sorriso come questo”, aveva specificato e si era sorpresa per come la voce le era sgorgata in un sussurro più flebile. Si schiarì la gola, guardandosi attorno. “Hai visto Kitty?”.
Hunter, il sorriso ancora sulle labbra nell'osservarla, aveva scosso lentamente il capo. “No”, fu la pacata risposta e se non lo avesse visto muovere le labbra, Brittany avrebbe potuto pensare che quella semplice parola fosse stata trasportata dal vento.
“Stai pensando a lei, allora”, per qualche motivo non le era riuscito sostenere nuovamente lo sguardo, seppur la risposta le sembrasse palese. Seppure, per qualche motivo, nuovamente, il suo stomaco sembrò contrarsi dolorosamente. “Va bene comunque e-”, poteva dirgli che aveva un bellissimo sorriso?
“No”, aveva risposto nuovamente Hunter che non aveva mai distolto lo sguardo dal suo volto e Brittany nuovamente si ritrovò senza fiato. Era come se quella replica concisa racchiudesse un significato ben più ampio e ben più importante. Non avrebbe, tuttavia, saputo dire cosa e neppure perché non riuscisse a trovare qualcosa da dirgli. Continuava ad osservarne il volto ed era un conforto che Hunter stesso non sembrasse avere fretta: era come studiarsi da capo e con la sensazione che qualcosa fosse sospeso tra loro.
Il fischio acuto squarciò il silenzio con inaudita violenza e Brittany gemette. Kitty stava camminando rapidamente in loro direzione mentre Tina stava conducendo le sue compagne dentro l'edificio.
“Ciao Hunter”, si rivolse al ragazzo senza sbattimenti di palpebre, un vago sorriso ma che sembrava nascondere un risentimento ancora non del tutto chiarito. Sorriso che, tuttavia, si congelò nello scrutare la ragazza che sembrò fulminare con lo sguardo.
Brittany si morsicò il labbro, ma rimase in attesa della strigliata che sarebbe giunta inevitabilmente.
“Hai finito i tuoi giri di campo?”, le abbaiò contro, il Capitano, con tono inflessibile.
Annuì ma sentiva ancora lo sguardo di Hunter su di sé.
“Non ti ho sentita!”, le aveva urlato contro Kitty, facendola sussultare.
Arrossì all'idea che il ragazzo stesse assistendo alla scena, ma si affrettò ad assumere la giusta postura. “Signorsì, Signora!”.
Kitty parve persino più risentita dalla risposta, a giudicare da come la fissò torva. “Allora perché non sei tornata al campo d'addestramento subito?”. In realtà, dal modo in cui faceva saettare lo sguardo da lei al ragazzo, sembrava volerle chiedere altro. Non sarebbe stato molto educato farle presente, davanti a Hunter stesso, che non stava cercando di rubarle il fidanzato. Arrossì per aver formulato quel pensiero, ma cercò di concentrarsi sullo sguardo della ragazza e deglutì a fatica: non era affatto abile a mentire e non aveva minimamente avuto tempo di pensare ad una giustificazione plausibile.
“Temo sia stata colpa mia, Capitano Wilde: l'ho trattenuta troppo a lungo”, aveva risposto prontamente Hunter e Kitty lo osservò con un vago cenno d'assenso, non prima di aver nuovamente fulminato la sua sottoposta con lo sguardo.
“Pausa finita, andiamo”.
Si affrettò a seguirla, Brittany, ma non poté fare a meno di voltarsi in direzione del ragazzo per mimargli un “grazie!”. Neppure si rese conto che Kitty la stava letteralmente strattonando in avanti: Hunter le aveva rivolto un vago cenno di risposta.
Neppure il mal di stomaco sembrava avere importanza, almeno fino a quando, rimaste sole, Kitty non le assestò una spinta che la fece cadere in una pozzanghera. Trasalì per la sorpresa e gemette quando Kitty la tirò per i capelli.
“E' l'ultima volta che ti avverto: smettila di fargli gli occhi dolci: credi di convincermi con la tua faccina da Barbie svampita?”. Si era messa in ginocchio di fronte a lei e la scrutava con sguardo glaciale. “Sai quanto tempo mi è occorso per farmi prendere sul serio e dimostrare di non essere una donnicciola? Non distruggerai tutto e non ti prenderai quello che è mio, sono stata chiara?”.
“M-Ma io non ho fatto niente”, gemette la ragazza, atterrita.
“E' tutto quello che sai dire!”, le inveì contro Kitty, dopo averla schiaffeggiata. “Non illuderti, Hunter e Neal hanno soltanto pena di te: quando capiranno come sei davvero, nessuno di loro ti degnerà più di considerazione”.
Aveva sentito il cuore in gola e gli occhi lucidi ma Kitty le aveva sorriso maligna, evidentemente soddisfatta di averle cancellato la serenità. Si rimise in piedi e la scrutò dall'alto al basso. “Sei proprio una bambina”, sembrava sprezzante. “E ora alzati!”.
Senza pronunciare motto, la guancia pulsante, si era rimessa in piedi e seguì Kitty verso l'edificio, timorosa che, in assenza di altri testimoni, potesse nuovamente infierire su di lei. Il cuore bloccato in gola e brividi freddi lungo la spina dorsale. Quando, rientrate dalla porta dello spogliatoio, scorsero Tina, Brittany rilasciò il respiro. Stava camminando in loro direzione e fu, infatti, a Kitty che si rivolse.
“Signora, chiedo permesso di riferire un messaggio”.
“Accordato”, concesse Kitty, con aria annoiata, senza neppure guardarla.
“Il Preside Johnson vuole vederla”.
“Digli che andrò da lui-”.
“Non lei, Signora. La recluta Pierce”. Specificò Tina.
“Digli che andrà da lui quando io lo deciderò”.
“Devo incontrarlo subito: ho ricevuto l'ordine di accompagnarla io stessa”.
“Benissimo”, Kitty era parsa più inviperita che mai ma continuava a sorridere minacciosamente. “Portagli i miei saluti, Barbie”, le sibilò all'orecchio e Brittany ricordò con orrore le parole che le aveva rivolto con riferimento esplicito ad Hunter e al suo patrigno. “E se gli dici qualcosa”, continuò in un sussurro persino più flebile. “sai già che te la farò pagare”.
Aveva annuito, le lacrime sull'orlo delle palpebre, ma aveva rilasciato il respiro e si era affrettata a seguire Tina che, dopo che ebbero messo una certa distanza dal Capitano, aveva assunto un'espressione meno formale. La stava scrutando attentamente. “Stai bene?”.
“Sì, grazie”, cercò di sorriderle, Brittany, mentre saliva con lei le scale. Sembrava passata un'eternità da quel dialogo con Hunter ma era consapevole che non potevano che essere pochi istanti ma che sembravano far parte di una realtà diversa. Che probabilmente non le sarebbe più stata concessa, non fino a quando Kitty non lo avesse voluto almeno.

~

Non era mai entrata nell'ufficio di Neal così, dopo aver congedato e ringraziato Tina, aveva provato a scorgerne l'interno attraverso la fessura della porta lasciata semiaperta. Neal era di fronte alla finestra, le dava le spalle, le mani strette dietro la schiena e sembrava contemplare il paesaggio di cui doveva godere da quell'altezza. Non aveva la benché minima idea del motivo per cui l'aveva convocata, ma doveva essere qualcosa di davvero urgente, se non poteva attendere che si riunissero tutti per la cena. Ipotesi spaventose che coinvolgevano la madre, cominciarono a ronzarle in mente e fu quindi lesta a bussare alla porta.
Evidentemente completamente estraniato nei suoi pensieri, Neal non l'aveva sentita ma, dopo un attimo di esitazione, Brittany varcò comunque la soglia della stanza. Lasciò vagare lo sguardo sulla stanza: l'arredamento era molto sobrio e rimandava alla rusticità degli interni che giù conosceva. Notò l'ampia scrivania sulla quale erano disposti, con metodico ordine, carta da lettera, fascicoli rilegati, una busta chiusa e una penna stilografica abbandonata su un'agenda con gli occhiali da lettura del suo patrigno.
Vi erano anche delle cornici appese sulla parete dietro la scrivania e tra fotografie di plotoni – immaginava ce ne fosse una anche dei tempi di Neal all'accademia, a giudicare dalla targhetta che ne riportava la data – ne spiccava una di sua madre che sembrava straordinariamente fuori posto, sia per il sorriso impresso nell'istantanea sia per i colori vivaci.
Si riscosse, le mani strette in grembo. “Ciao Neal”, lo salutò, scrutandone ancora le scapole.
Le parve che fosse persino trasalito, malgrado avesse parlato in un sussurro appena percepibile. Si era voltato e, dopo un solo istante in cui ne aveva scrutato la divisa fradicia e sporca, le rivolse quel suo sorriso spensierato che ne faceva scintillare lo sguardo e lampeggiare il candore dei denti. Aveva dei fogli tra le mani e una biro sull'orecchio che Brittany osservò curiosamente, ma Neal si affrettò a riporli sulla scrivania. “Stavo provando ad abbozzare le promesse di matrimonio: so che c'è ancora molto tempo, ma sono un disastro nei discorsi: era Jonathan quello intellettuale tra noi”, spiegò in tono complice prima di riporre i fogli dentro il cassetto della scrivania.
Il matrimonio. Il pensiero le procurò un contorcimento all'altezza dello stomaco: per quanto la data si stesse inevitabilmente avvicinando, e Brittany in cuor suo sapesse che Neal era l'uomo perfetto per la madre; la sola menzione era ancora capace di procurarle quella strana sensazione di disagio. Aveva il timore inespresso che una parte di sé non sarebbe mai riuscita a concepire l'idea che la sua vita sarebbe cambiata in modo così radicale. Sembrava esser accaduto tutto con una rapidità da farla sentire incapace di adeguarsi. E sapeva altrettanto intensamente che non avrebbe mai potuto incolpare Neal di ciò ma che era un problema che doveva risolvere. E da sola. Il tutto era estremamente confuso ma non mancava un cocente senso di colpa, soprattutto nello scorgere l'evidente emozione che era balenata sul viso dell'uomo.
“Volevi vedermi?”.
Neal sembrò tornare in sé ed annuì, indicandole la poltrona. “Siediti: non abbiamo ancora fatto una chiacchierata, da quando sei arrivata qui”.
Brittany si morsicò il labbro, osservando la sedia foderata di fronte alla scrivania e la propria tenuta tutt'altro che linda e si diede della sciocca per non aver minimamente pensato al rendersi presentabile prima di palesarsi. L'uomo sembrò intuire il suo pensiero perché si grattò la nuca prima di prendere il giornale appostato ad un angolo della scrivania e toglierne dei fogli che adagiò sul sedile. “Signorina”, le spostò la sedia, imitando il vezzo di un cameriere e Brittany sorrise nell'accomodarsi. Un'altra caratteristica che le rendeva impossibile provare rancore nei confronti di Neal: era probabilmente l'unica persona al mondo, esclusa la madre, a non farla mai sentire goffa ma cercando sempre di compensare le sue risposte dirette, ridendo come se si fossero trattate di argute e graffianti battute o, come in quel caso, era sempre più che spontaneo nel metterla a suo agio. Il suo sguardo bonario, tuttavia, indugiò sul suo volto.
“Ti sei fatta male?”, le chiese e Brittany si toccò istintivamente la guancia che Kitty aveva schiaffeggiato ma, con un gesto delicato, Neal le scostò qualche ciuffo dalla fronte. “E' un graffio: ti fa male? Dovrei avere del disinfettante da qualche parte”, e già stava circumnavigando la scrivania per cercare tra i cassetti, ma Bittany scosse il caso.
“Non preoccuparti: Mrs Rose mi disinfetta sempre, quando vado da lei”. C'era stata così tanta dolcezza nella voce dell'uomo e tanto calore nel suo sguardo che Brittany aveva sentito quella fitta all'altezza del petto persino acuirsi. Cercò di controllare la commozione, quel calore che era innescato dalla consapevolezza che qualcuno potesse prendersi così a cuore della sua salute e senza che neppure lei si fosse realmente sforzata di conquistarsi il suo affetto. Era tutto spontaneo e naturale per Neal e ciò rendeva le sue remore persino più colpevoli.
Una volta tranquillizzato, Neal si sedette sulla poltrona, le braccia protese in avanti e le mani congiunte: una posa da Preside, in fin dei conti. “Come ti trovi qui all'Accademia?”.
Brittany deglutì: sapeva che quella domanda sarebbe giunta, ma non era mai stata particolarmente abile nell'improvvisare un discorso, tanto meno a mentire. Cercò di scacciare dalla mente le immagini e i ricordi sgradevoli e concentrarsi sulle cose positive: il sorriso e l'amicizia di Marley, le pietanze squisite che Mrs Marley le elargiva lontano dall'occhio di Kitty, o il sorriso di Hunter. Sentì un nuovo calore affiorarle al volto ma si affrettò a sorridergli.
“Mi sto abituando: sta diventando più facile alzarsi quando fa buio o fare la corsa prima di colazione o scendere da un'altura”, spiegò e il sorriso dell'uomo si estese ulteriormente.
Un nuovo guizzo gli sfiorò lo sguardo e si sporse verso di lei, quasi ansiosamente. “Non ho dimenticato che ti piace ballare: in realtà sto pensando ad un progetto ma, per il momento, è top secret. Prima dovrò parlarne in consiglio e con i Capitani”.
Brittany cercò di non pensare al ragazzo in questione, ma assunse un'espressione di reale curiosità, tuttavia Neal sembrava aver acquisito abbastanza sicurezza per intavolare la vera conversazione. “Ma c'è un'altra cosa di cui vorrei parlarti”, annunciò, infatti, e Brittany si mise più composta.
Neal sembrò impiegare qualche istante per trovare le parole: lo sguardo saettò curiosamente alla busta appoggiata sul ripiano, prima di incontrare nuovamente lo sguardo della ragazza. “Sai che amo tua madre più di me stesso”, esordì e la voce, dal timbro naturalmente giocoso e vibrante, sembrò più flebile, accorata. Quasi una carezza immateriale.
Annuì, Brittany, senza la benché minima esitazione e Neal ne trasse vantaggio per sporgersi ulteriormente in sua direzione. “Vorrei che noi tre diventassimo una famiglia a tutti gli effetti”, disse con intensità.
Lasciò che quelle parole facessero breccia nella mente della ragazza, continuando ad osservarla attentamente.
Brittany lo aveva guardato confusamente e Neal, dopo quel breve silenzio carico di tensione, si mise in piedi, prese la busta e si appoggiò alla scrivania. Le sorrise, il viso inclinato di un lato e lo sguardo baluginante di reale affetto. “Vorrei adottarti, Brittany e, soprattutto, vorrei considerarmi tuo padre a tutti gli effetti”.
Occorsero diversi istanti perché Brittany si riprendesse: aveva sgranato gli occhi e sembrò mancarle il respiro. Il suo cuore non aveva smesso di scalpitare furiosamente e una sensazione di calore e, al contempo, di gelo le scivolò lungo la spina dorsale. La sua mente era un dedalo indistinto di pensieri, d’immagini, di ricordi passati e frammentati, confusi e sfocati che si infrangevano sullo sfondo di quelli recenti che vedevano Neal accanto alla madre e quella vita preannunciata che era più vicina che mai alla sua concretizzazione.
Sembrava più che mai teso, Neal, ma le sorrise e si limitò a porgerle la busta che Brittany prese quasi per riflesso. “Non voglio che tu ti senta assolutamente sotto pressione: si tratta di una formalità, a dire il vero, perché comunque io vorrei davvero considerarti mia figlia e-”, sembrò attendere che la ragazza dicesse qualcosa. Nuovamente scosse il capo ma continuò a sorriderle. “Pensaci, per favore, attenderò tutto il tempo necessario naturalmente”.
Aveva annuito, inebetita, ma non riusciva più a guardarlo senza che a quel volto, dapprima così rassicurante e così piacevole, se ne sovrapponesse un altro: una voce e un abbraccio che le era mancato ogni giorno, da dieci anni. Quasi una parte di sé le fosse stata sottratta e senza che potesse fare nulla per reagire.
Avrebbe voluto poter dire qualcosa a Neal: ringraziarlo per essere un uomo così incredibilmente dolce, per essersi innamorato di sua madre ed essere disposto ad amarla: non soltanto come un bonus del suo legame con Shirley. Avrebbe voluto mostrarsi mortificata alla sola idea che il proprio silenzio potesse ferirlo, per quanto fosse certa non glielo avrebbe mai fatto pesare.
Continuò ad osservarlo, ma le sue labbra non emisero suono e fu con un gran peso nel cuore che uscì dalla camera, gli occhi lucidi e il cuore serrato in una morsa.

~

“Credevo che Neal ti piacesse”, non vi era accusa nel timbro della voce ma un reale tentativo di comprenderne lo stato d'animo.
Lei e Marley erano sedute sul suo letto: accarezzava Lord Tubbington, Brittany, con movimenti automatici ma lo sguardo ancora perso nel vuoto e quella sensazione di costrizione all'altezza del petto.

Papà?”, la voce era spaventata e rauca, le guance rosate erano bagnate dalle lacrime mentre entrava nella cucina di cui aveva intravisto il fascio di luce dalle scale del piano superiore.
William sembrava esser trasalito, aveva depositato il bicchiere, gli occhiali sul naso e aveva deposto la penna per poi scostarsi dal tavolo e alzarsi.
Brittany”, l'aveva chiamata in tono evidentemente sorpreso. “Cosa succede?”.
La bambina non aveva articolato suono: si era affrettata a coprire le distanze per cingerne la gamba, in attesa che l'uomo la sollevasse tra le braccia. Affondò il viso contro la sua spalla e strizzò le palpebre, il corpicino esile che tremava per i singhiozzi.
L'uomo le aveva carezzato la schiena con dolcezza, si era seduto di fronte al camino e l'aveva cullata, fino a quando non si era calmata.
Si era sfregata gli occhi, infine, Brittany e si era morsa il labbro: “Ho sognato che mi ero persa nel bosco, come Biancaneve, e c'erano... c'erano tanti occhi a guardarmi e-”, non aveva finito la frase, di nuovo sopraffatta dalle lacrime, ma il padre le aveva asciugato il volto e ne aveva baciato la fronte.
Ma tu non ti perderai come Biancaneve e, se anche dovesse accadere, non devi avere paura”.
No?”. Sembrava disperare di potervi credere.
No, perché sai cosa hai tu e che la povera Biancaneve non aveva quando si è persa?”.
I capelli biondi?”. Chiese istintivamente.
Aveva riso suo padre ma aveva scosso il capo. “Un papà che sarebbe venuto a salvarla”, e la strinse con maggiore intensità e Brittany si accoccolò con un sorriso contro il suo petto, inspirandone il profumo e stringendosi alla camicia.
Le sfuggì un lieve sbadiglio. “E verrai sempre a salvarmi?”. Sembrava una domanda di fondamentale importanza e la risposta persino vitale. L'attese con il cuore trepidante, il respiro trattenuto.
Sempre, sempre: non ti sentirai mai persa finché sarò con te”.
E' una promessa”.
Parola di re, principessa”.

Si era riscossa, Brittany, e aveva osservato l'amica, morsicandosi il labbro. Parve persino più mortificata all'idea che la propria reazione potesse innescare un simile e lecito dubbio.
“Lui mi piace molto e-”.
“Sta arrivando Kitty!”, era stata Lauren a parlare e l'intera camerata fu attraversata da un'ondata di panico primo che ognuna corresse alla propria postazione per controllare che tutto fosse in perfetto ordine per l'ispezione a sorpresa. Brittany e Marley si scambiarono uno sguardo di puro terrore: non c'era tempo per portare Lord Tubbington dalla Signore Rose o farlo uscire di soppiatto.
“Lord Tubbington”, Brittany gli parlò in tono ansioso, mettendosi in ginocchio sul pavimento per poi sistemarlo sotto il suo letto. “Devi stare zitto, mi raccomando”, cercò di istruirlo, ma il felino non sembrava particolarmente entusiasta di quella collocazione temporanea. Cercò di drizzarsi ma la padrona gli sfiorò il capo in una carezza. “Soltanto due minuti, Tubby, fallo per me”.
Si mise in riga, accanto a Marley, e Kitty e Tina entrarono nella stanza: lo sguardo severo del Capitano saettò tutto attorno. Non sembrava particolarmente compiaciuta: evidentemente aveva sperato di coglierle di sorpresa ma, senza dire una parola, cominciò la sua accurata rassegna. Rapide occhiate ai loro lati con qualche ammonimento sul letto non ben ripiegato o un capo d'abbigliamento lasciato maldestramente a terra. Talvolta apriva qualche armadio a casaccio, rovistando tra i capi personali delle reclute o, in alcuni casi, persino perlustrando tra i cassetti come a cercare qualcosa di losco.
Brittany trattenne il respiro, quando Kitty si fermò di fronte a lei: aveva il sospetto che, come un segugio, riuscisse a fiutare la sua paura o sentisse il suo cuore che stava scalpitando furiosamente. Un angolo delle labbra del Capitano si arricciò verso l'alto e si volse ad osservarla con quell'espressione compiaciuta. “Sei nervosa, Barbie?”.
“N-No”.
Sbuffò, Kitty, gli occhi levati al cielo prima di urtarla sull'incavo posteriore del ginocchio, facendola cadere sul pavimento. “Non ti ho sentita”, precisò in tono annoiato.
“No, Signora!”, ripeté Brittany a voce più alta. Era riuscita, con rapido riflesso, a sostenersi con le braccia al pavimento.
Tutto parve fermarsi: Brittany sentì un impercettibile miagolio alle sue spalle e pregò che Lord Tubbington non cercasse di avvicinarsi a lei in quel momento. Sentì brividi freddi scivolarle lungo la spina dorsale. Cercò di mascherare il suono con un colpo di tosse artefatto, ma Kitty ebbe un lampo di vittoria nello sguardo. La guardò dall'alto al basso.
“Sono di buon umore, Pierce, se mi dirai cosa nascondi, punirò solo te e non l'intera camerata”.
Un lieve brusio di risposta le fece comprendere che tutti erano in attesa della sua prossima mossa: riusciva quasi a percepire l'intensità di molti sguardi addosso e la consapevolezza di essere in trappola, le paralizzò il respiro.
“Allora?”, la incalzò Kitty dopo un interminabile istante di gelido silenzio.
Un altro miagolio, di confusione e di richiamo, ben più udibile del precedente e Kitty occhieggiò verso il letto: il sorriso sul suo volto parve persino illuminarle gli occhi gelidi. Si rivolse a Tina e, con un gesto imperioso del braccio, le fece cenno di avvicinarsi al letto. Da parte sua, rimase nella sua posizione, contemplando le espressioni sul volto della sua recluta.
“No, ti prego!”, supplicò Brittany, cogliendo il movimento di Tina che si fermò. “Punisci me e lascia stare le altre”.
Una risata sprezzante quella di Kitty. “Adesso ti senti un'eroina?”, la schernì, chinandosi in sua direzione. “E' troppo tardi”. Un altro cenno imperioso e Tina sollevò il copriletto, rivelando il felino che aveva emesso un altro stridulo miagolio. Si appoggiò al pavimento e allungò il braccio, la moretta: con non pochi tentativi cercò di prenderlo, malgrado Lord Tubbington avesse drizzato il pelo e soffiasse in sua direzione, le pupille che scintillavano nella penombra.
“Avanti, Aviaria1 Chang, non ho tutto il giorno!”. Le sbraitò contro Kitty.
“Mi ha graffiata!”, gemette la ragazza, le mani sul volto.
Kitty la scansò malamente e, con un rapido movimento, sollevò il gatto per la collottola, trattenendolo con facilità non poco sorprendente per la sua mole. Lord Tubbington mosse le zampe irrequieto prima di puntare lo sguardo sulla padrona: si era rimessa in piedi, Brittany, e si era sporta istintivamente per prenderlo tra le braccia ma Kitty protese il braccio a mo' di intimidazione.
Si rivolse all'intera camerata. “Domani inizierete la corsa alle 4.00 in punto: doppia durata, doppio percorso. Colazione alle 6.00 e allenamento al campo fino a mezzogiorno. Luciderete le divise di tutta la divisione maschile, pulirete tutte le camerate e le docce”.
Un attimo d’intenso silenzio nel quale tutte le ragazze assunsero sguardi increduli e sgomenti, se alcune erano impallidite come Marley e osservavano la scena con terrore e dispiacere; altre, come Lauren, avevano l'aria di ribollire di puro e semplice astio. Se fosse più rivolto al Capitano o a Brittany sarebbe stato impossibile da dire.
“La nostra Barbie”, l'aveva indicata con la mano libera. “che ha introdotto questo esperimento di Chernobyl mal riuscito, perché si crede al di sopra delle regole, sarà la prima ad alzarsi e l'ultima ad andare a riposare. E voi che l'avete protetta con il vostro silenzio, sconterete la detenzione con lei. Riguardo a questo”, lesse il nome sul collarino con una risata sprezzante. “lui sarà un magnifico tappetino per la mia doccia”.
Esalò senza fiato Brittany: se gli ultimi istanti era stata pietrificata dal terrore e annientata dai sensi di colpa per aver coinvolto persone innocenti nel suo guaio; in quel momento sembrò tornare in sé e si sporse nuovamente verso la ragazza. “No, ti prego!”.
“Sta zitta”, la rimproverò bruscamente. “E ringrazia che non ti butti fuori con lui”.
“Fuori dove?!”.
“Non preoccuparti”, le sorrise velenosamente. “Non è più un tuo problema”. Aveva fatto un brusco cenno a Tina, le aveva assestato il felino tra le braccia e si era incamminata verso l'uscita con lo stesso incedere fluido e sicuro di sé.
“Aviaria, gettalo fuori dall'edificio: se dovessi rivederlo, appenderò i tuoi orribili capelli come bandiera”.
Tina, pur impallidita, gettò uno sguardo di pure scuse in direzione di Brittany che Marley stava cercando di trattenere per il braccio. Il viso scintillava di lacrime, le labbra schiuse, quasi non riuscisse neppure a respirare, mentre Lord Tubbington continuava a scrutarla ed emetteva altri miagolii di impazienza.
“TI PREGO!”, gemette ancora Brittany, cercando di scostarsi da Marley.
Si fermò sulla soglia dell'uscio, Kitty: indugiò per un istante ad osservarne l'espressione sofferente prima di scuotere il capo, schioccando la lingua sul palato. “E' ora di crescere, Barbie. Non rivedrai più il tuo gatto, non in questa vita almeno”. Scoccò nuovamente lo sguardo all'intera camerata. “Cena tra un'ora e siate puntuali: laverete i piatti di tutto il refettorio: non che per qualcuno sia una novità dopotutto”, volse uno sguardo maligno in direzione di Brittany e di Marley ed uscì.
Il micio miagolò disperato e Brittany cercò di rincorrerle ma fu Lauren, stavolta, a bloccarle il passaggio e sbattere l'uscio.
“Lasciami andare”, cercò di eluderla con movimenti simili a quelli di un giocatore di football che cerchi di smarcarsi.
Lauren parve in procinto di schiaffeggiarla: le mani sui fianchi e una smorfia di puro odio sul volto. “Non credi di aver fatto abbastanza casini per oggi?”. A giudicare dalle espressioni delle altre ragazze, ad eccezione di Marley, sembrava essere opinione comune.
“Parlerò con Neal, vi farò togliere la punizione ma adesso lasciami-”.
“Ancora non l'hai capito: più cerchi di attaccarti ai pantaloni del tuo paparino e più Kitty si infuria e più Kitty si infuria e più noi ne paghiamo le conseguenze”.
Le tremarono le labbra, ma scosse il capo e serrò i pugni. “Tu non capisci, io-”.
“Non mi importa un accidenti del tuo gatto, di te o della tua famiglia ma se verrò punita un'altra volta per colpa tua”, aveva mosso il pugno con fare così furioso che Brittany era indietreggiata d'istinto. “ti giuro che sarò io stessa ad offrirmi come aiutante a Psycho Kitty per renderti la vita un inferno”.
Cenni d'assenso, parole di approvazione e, lentamente, l'intera camerata ad eccezione di Marley le si era rivoltata contro. Brittany indietreggiò, il cuore in gola e lo sguardo smarrito, si lasciò cadere sul proprio letto, le mani raccolte al viso e la consapevolezza di essere sola. Come non mai.

~

Non aveva molto appetito: sentiva la nausea stringerle lo stomaco. Quando tutta la camerata si era disposta per andare in refettorio, si era allontanata dal gruppo ed era uscita nei campi a cercare il gatto, chiamandolo con voce disperata ma resistendo anche al freddo, sfregandosi le braccia al corpo. Soltanto quando Marley era venuta a cercarla, aveva fatto rientro: aveva dovuto cedere alla realizzazione che Lord Tubbington era ormai perduto e che se Kitty si fosse accorta della sua assenza, avrebbe soltanto peggiorato le cose. E ciò significava, da quel momento, anche correre rischi all'interno della sua stessa camerata. Aveva sentito sguardi di puro odio scorrere contro di sé quando lei e Marley avevano fatto il loro ingresso nella sala mensa, ma si erano disposte in un tavolo isolato. Non sollevò mai lo sguardo dal proprio piatto: nella mente tutti i ricordi del suo amato gattino e degli anni trascorsi insieme.
Era stata tutta colpa sua: se non fosse mai arrivata in quella città, in quell'Accademia, Lord Tubbington non sarebbe stato abbandonato in un luogo sconosciuto ed incapace di badare a se stesso. E non aveva soltanto agito in modo egoistico ma persino creato problemi alle altre ragazze, a Marley che continuava a sorriderle e che, senza dire parola, le stringeva tuttora la mano in segno di conforto.
Farò mai qualcosa di giusto? Si era chiesta sconsolata.

Erano rimaste solo lei, Marley e la Signora Rose. Una volta che Kitty aveva abbandonato la stanza per ritirarsi, Lauren e le altre si erano sfilate guanti e grembiuli che avevano gettato ai piedi di Brittany. “Ci devi un favore”, era stata la sferzante dichiarazione della ragazza a cui Brittany non aveva reagito se non un vago cenno di assenso. Sarebbe stato sicuramente preferibile restare sola a quel punto, piuttosto che sentire i loro sguardi o bisbigli ostili. In quel momento avrebbe voluto persino sottrarsi all'amica e a sua madre che, coi loro sorrisi e sguardi colmi di dolcezza e di tenerezza, le facevano solo venire ulteriormente voglia di piangere. Non che questo risolvesse le cose: sentiva ancora la gola arida e la pelle ruvida del viso, gli occhi gonfi e il cuore serrato in una morsa.
Stava cercando di scrostare il fondo di una pentola, il sudore freddo che le scivolava lungo le tempie e il bruciore delle pupille quando sentì qualcuno pronunciare il suo cognome. Si volse lentamente, scostando una ciocca di capelli dal volto, una vistosa scia di detersivo per piatti a colarle dalla guancia e sul grembiule che Mrs Rose le aveva prestato.
Non riuscì a non sentire quella stretta all'altezza dello stomaco, come ogni volta che quello sguardo verde indugiasse sul suo volto. Ma era una visione dolce quanto dolorosa quella del Capitano Clarington in quel momento. Aveva perso il conto del numero delle volte in cui l'avesse scorta in estrema difficoltà e quel giorno era sembrato infinitamente lungo e agognava soltanto il momento in cui si sarebbe messa a letto e, per qualche ora, tutti si sarebbero dimenticati di odiarla.
Lo sguardo verde indugiò sul suo volto: aveva le sopracciglia corrugate ed aveva la sensazione che stesse sondando il suo stato d'animo, ragione per cui distolse il proprio, morsicandosi il labbro e desiderando soltanto che se ne andasse e non dovesse scorgerla in quello stato. Timorosa che persino lui le rivolgesse un aspro rimprovero per la sua condotta. O si sentisse preso in giro da quell'infrazione del regolamento.
Si rivolse a Mrs Rose, tuttavia. “Le dispiace se gliela rubo per una mezz'ora?”, le chiese.
Lo sguardo confuso della signora corse dall'uno all'altro, ma il volto bonario scintillò del suo sorriso più dolce ed annuì. “Certo che no”, rivolse uno sguardo di incoraggiamento a Brittany che, tuttavia, impallidì.
“Ma Kitty-”.
“E' un ordine, Pierce”, sembrava tornato ai suoi modi più decisi ed autoritari, Hunter. Si volse nuovamente alla donna, ma stavolta lo sguardo saettò anche verso Marley. “Se il Capitano Wilde venisse a cercarla, ditele che è con me”.
Ancora inebetita, al cenno di Hunter che si era scansato di lato per farla passare per prima, Brittany si era tolta il grembiule e si era affrettata ad uscire. Soltanto quando lasciarono il refettorio, sfilò il berretto e lasciò che i capelli le cadessero scompostamente sulle spalle, cercò di ravviarli con una mano, constatando che avrebbe dovuto farsi una lunga doccia e lo shampoo prima di andare a letto. E avrebbe dovuto essere rapida per riuscire a dormire qualche ora, prima del risveglio.
Camminarono in silenzio: ebbe la sensazione che Hunter stesse aspettando di trovarsi in una zona più tranquilla e che la stesse guidando precisamente verso una meta prefissata, lasciandole soltanto adito a seguirlo. Sentiva il suo sguardo addosso e non poteva che sentire alimentare in sé la sua curiosità e il timore che si celasse un motivo tutt'altro che piacevole: sentiva che, per quel giorno, aveva raggiunto la soglia massima di sopportazione. Ci vollero diversi istanti perché Brittany realizzasse che si trovavano nella zona dei dormitori ma non svoltarono nella direzione della sua camerata (l'idea che Lauren o Kitty in persona la scorgessero era tutt'altro che rassicurante), ma all'ala opposta. Inarcò le sopracciglia con fare interrogativo ma non parlò, si fermò quando Hunter fece lo stesso, di fronte ad una porta.
Soltanto allora il ragazzo, la mano sulla maniglia, si volse ad osservarla con particolare attenzione e Brittany avrebbe voluto essere abbastanza abile da celare il suo reale stato d'animo. Si morsicò il labbro ma distolse lo sguardo, stringendosi le mani in grembo.
“Hai pianto”, non era una domanda ma la ragazza trasalì ed arrossì.
Scosse il capo, tuttavia, memore che Hunter fosse l'ultima persona che sarebbe stato saggio coinvolgere. “Sto bene”, cercò di rassicurarlo, scostandosi i capelli scarmigliati dal volto e cercando di assumere un'espressione più tranquilla.
“No, affatto”, fu l'asciutta replica di Hunter ma, con un gesto semplice, schiuse l'uscio, un angolo delle labbra sollevato. “Vediamo se ho qualcosa che ti farà stare meglio”. Le fece cenno di entrare e Brittany, l'espressione confusa ma incoraggiata dal suo sorriso, varcò la soglia della camera che contemplò con tanto d'occhi quando comprese che si doveva trattare della sua.
L'ambiente era rustico come quello delle altre camere da letto, ma era più piccola e, infatti, vi era soltanto un letto, un armadio, un libreria colma di libri, uno scrittoio e un divanetto. Adagiato pigramente sul letto, un gatto siamese dal pelo lungo e bianco che sembrava morbido almeno quanto una nuvola, dai limpidi occhi verdi. Si era sollevato alla vista di Hunter, un placido miagolio, ma scrutò curiosamente la nuova arrivata: il musetto reclinato prima di scendere agilmente dal letto. Si strusciò brevemente alle caviglie del padrone per poi avvicinarsi a lei, annusandola con aria guardinga.
Si chiuse la porta alle spalle, Hunter, che scrutò dall'uno all'altra. “Ti presento Clarence”, le aveva detto e Brittany aveva sorriso nel mettersi a coccoloni per allungare la mano: il micio l'aveva scrutata quasi a voler stabilire un contatto di sguardi e poterne sondare il grado di affidabilità. Evidentemente convinto, si era lasciato accarezzare, inclinando presto il musetto perché le dita della giovane gli sfiorassero il mento. “Mr Pussy per gli amici2”, aggiunse vagamente divertito dal modo in cui la giovane avesse rapidamente sciolto il ghiaccio.
“Ciao Mr Pussy”, lo salutò, Brittany, deliziata dalla morbidezza del pelo che sembrava davvero vaporoso come una nuvola, nonché dalla vibrazione prodotta dalle fusa, indice di reale apprezzamento. Aveva socchiuso gli occhi, Mr Pussy, che sembrava tutt'altro che annoiato ma ben disposto a lasciarsi ulteriormente vezzeggiare.
Hunter li scrutava con le sopracciglia inarcate, le braccia incrociate al petto e l'espressione pensierosa. “E' un gran ruffiano e tu lo stai decisamente viziando”, osservò in tono leggero.
“Scusa”, aveva commentato la ragazza, quasi timorosa nello scostare la mano. Gesto che non fu gradito dal felino che schiuse gli occhi e le si avvicinò ulteriormente, sfregandosi contro il suo ginocchio ed emettendo un miagolio.
“Non devi scusarti”, si affrettò a dire, Hunter, l'espressione sorpresa. “Non ti stavo sgridando”.
Arrossì, Brittany, ma sorrise nuovamente. “E' davvero bellissimo”, aveva sussurrato e Hunter si era chinato a prenderlo tra le braccia.
“Mr Pussy è molto lusingato”, lo aveva risposto sul letto. “Ma non è per questo che ti ho portata qui”, le aveva indicato una portafinestra che doveva condurre alla terrazza. Da quel poco che aveva compreso della sua vita in Accademia, immaginava avesse l'abitudine prendere una boccata d'aria prima di andare a dormire o di primo buon mattino. Abbassò la maniglia e nuovamente la lasciò passare per prima: Brittany l'aveva valicata domandandosi se volesse offrirle un'altra panoramica del paesaggio, ma sgranò gli occhi e il suo cuore parve fermarsi per un lungo istante.
Sul pavimento era stata adagiata una cesta di vimini e, raggomitolato su se stesso, sopra una coperta, Lord Tubbington stava dormendo.
“Lord Tubbington”, sussurrò, Brittany, senza fiato. Si avvicinò alla cesta, l'aria incredula, ma si chinò fino a sfiorarne il morbido pelo, carezzandone lentamente le orecchie e il dorso, sentendo una nuova euforia sgorgarle dalle labbra in una risata liberatoria. Scostò le lacrime dal viso, volgendosi ad osservare il ragazzo che, appoggiato alla balaustra, stava rimirando la scena, un vago sorriso sulle labbra.
“Come facevi a saperlo? Dove l'hai trovato?”, gli chiese incredula.
Mr Pussy, d'altro canto, rimasto solo nella camera, aveva rizzato il pelo e la zampina premeva contro il vetro della portafinestra: un'occhiata di puro biasimo nei confronti del padrone. “Ho visto Cohen Chang cercare di portarlo fuori: devo ammettere che i suoi tentativi di difesa sono stati lodevoli”, sembrava divertito. “Mi ha raccontato tutto”, aggiunse in tono più sussurrato. “Le ho detto che me ne sarei occupato personalmente”.
Brittany si era rimessa in piedi, continuava ad osservarlo con occhi sgranati, apparentemente incapace di proferire parola. Restò semplicemente ad ascoltarne le parole e cercò di realizzare il significato di tutto quello che era accaduto.
“So che non vuoi separartene”, era stata la semplice dichiarazione del ragazzo che si era stretto nelle spalle. “posso tenerlo qua, almeno fino a quando Mr Pussy non lo accetterà nel suo territorio”, aveva alluso al gatto che stava scrutandoli con espressione risentita, strappando a Brittany un verso di divertimento. “Mi sembra che si sia ambientato bene”, continuò Hunter, la stessa voce rassicurante. “Naturalmente puoi venire a trovarlo quando vuoi o quando non sarai in punizione almeno”.
Si sentiva nuovamente vicina alle lacrime, Brittany, ma per la prima volta, in quella lunga giornata, era un motivo di reale gioia e di commozione. “Hai... hai fatto tutto questo per me”, la sua voce tradiva la sorpresa, la letizia e, al contempo, la gratitudine. Non si era mai sentita sufficientemente capace di esprimersi a parole ma avrebbe voluto trovarne per spiegargli tutto. L'emozione del rivedere il suo gatto e sapere che non lo avrebbe più abbandonato, la gioia all'idea che lui avesse avuto una simile e dolce iniziativa, senza pretendere nulla in cambio. E persino quella costrizione all'altezza dello stomaco e il modo in cui le fosse impossibile distogliere lo sguardo da quello verde.
Aveva continuato a scrutarla, Hunter, probabilmente realizzando lui stesso l'entità del suo gesto. Si strinse nelle spalle, tuttavia, a sminuire il tutto. “Non è stato nulla di che, davvero: non avrei voluto tu soffrissi per-”.
Non poté terminare la frase, Hunter: era stato un movimento fluido e naturale quello con cui Brittany gli aveva stretto le braccia al collo, intriso di quello che sembrava un reale bisogno di compiere un gesto spontaneo ed istintivo. Probabilmente non ci sarebbero state parole per fargli comprendere il calore che sentiva in corpo, in quel momento. Poteva soltanto sperare di condividerlo, riducendo le distanze e infrangendo un'altra barriera protesa tra loro.
“Grazie... grazie di cuore”, pigolò, la voce soffocata contro il tessuto della divisa del ragazzo. Scoprì di avere nuovamente gli occhi umidi e gli spasmi leggeri ne facevano tremare le spalle e serrò le palpebre spasmodicamente, abbandonandosi semplicemente a quell'istante.
Sembrava rigido il giovane, ma non riusciva a pensare che il proprio fosse stato un movimento inappropriato, non quando si sentì abbandonare completamente a lui, quasi ne dipendesse il suo stesso benessere o quel desiderio di prolungare quella sensazione di familiarità. Di casa.
Trattenne il fiato quando, lentamente, percepì il coinvolgimento del ragazzo stesso, evidentemente intaccato da quella stessa sensazione. Le sue braccia, lentamente, la serrarono contro di lui: riuscì a percepire i suoi battiti ben scanditi, regolari, rassicuranti. Chiuse maggiormente gli occhi e sorrise, Brittany, sospirando e rilassandosi ulteriormente. Il suo profumo sembrava la perfetta cornice di quel momento e non aveva altra pretesa se non di viverlo con tutta se stessa. Almeno un istante. A dispetto dell'Accademia e dei suoi rigidi formalismi, regole ferree ed orari inflessibili. Persino cozzando contro le maniere sempre pacate del giovane, quel velo di riservatezza e di compostezza che ne caratterizzava ogni interazione.
“Stai bene?”, la sua voce era parsa un sussurro delicato e lontano, quasi avesse il timore di disturbarla e Brittany si costrinse a scostarsi per osservarlo.
Annuì, si scostò le lacrime dal viso e rise. “Sono felice: per la prima volta da oggi”, ammise con voce più contrita. “... da quando sono arrivata qua, a dire la verità”. Era stato spontaneo e naturale dirlo ma soltanto allora si rese conto di quanto fosse reale e quanto, soprattutto, dipendesse dalla presenza stessa del giovane.
Si era accigliato, tuttavia, il giovane e aveva sospirato. “Odi così tanto questo posto?”, la sua voce era più bassa del suo naturale timbro. Non sembrava offeso, soltanto preoccupato.
Brittany arrossì ma scosse il capo. “Non lo odio”, aveva inclinato il viso di un lato, mantenendo il contatto con il suo sguardo. “Non adesso”, gli aveva rivolto un altro sorriso, ma il ragazzo continuava ad osservarla con quegli intensi occhi verdi che sembravano scavarle a fondo.
“Concediti altro tempo: tutto ciò che stai passando, ti fortificherà”. Sembrava crederlo realmente.
Aveva annuito, Brittany, ma non aveva potuto fare a meno di chiedersi se, in quel suggerimento, si celasse una sua verità nascosta, soprattutto alla luce di quanto Neal le aveva raccontato durante il ballo.
Tempo, aveva bisogno di tempo. E avrebbe avuto accanto Lord Tubbington, Marley e probabilmente persino il ragazzo che le stava di fronte.
“Hunter”, con quali parole avrebbe potuto chiedergli qualcosa di simile? E sarebbe stato giusto farlo? In fondo era stato già fin troppo disponibile, senza neppure pretendere nulla in cambio.
La stava nuovamente scrutando il giovane, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni in una posa più naturale e pigra, ma il sorriso sulle labbra, in attesa che parlasse nuovamente.
Si riscossero entrambi all'ennesimo tentativo di Mr Pussy di attirare l'attenzione, con una zampata più forte contro la portafinestra.
“Clarence”, lo ammonì con tono di rimprovero e il gatto indietreggiò, mentre il padrone schiudeva la portafinestra. Si volse nuovamente alla ragazza, l'aria interrogativa. “Cosa volevi dirmi?”.
Scosse impercettibilmente il capo, Brittany. “Dovrei andare, mi stanno aspettando”.
Hunter si limitò ad annuire e la lasciò passare, dopo che ebbe nuovamente carezzato Lord Tubbington ed attraversarono la sua camera da letto.
“Ancora grazie”, eppure non sembrava ancora abbastanza, anche se lui l'aveva rassicurata al riguardo. Era uscita dalla camera ma il ragazzo indugiò, la mano appoggiata alla maniglia, la sagoma a coprire la soglia dell'uscio.
“Buonanotte e cerca... cerca di resistere, mh?”, era stato un gesto improvviso, dopo un momento di stasi, quello in cui le aveva appoggiato la mano sui capelli, scarmigliandoli appena in un vezzo che doveva essere complice ma che la fece rabbrividire.
“Ce la metterò tutta”, sussurrò in risposta. “Buonanotte”. Si era incamminata ma non aveva sentito la porta richiudersi e si era nuovamente girata in sua direzione. “Tu ci riesci?”, gli aveva chiesto improvvisamente e in modo diretto. “A resistere?”.
Era certa che non avrebbe risposto, o che l'avrebbe guardata interdetto e spiazzato da una simile domanda potenzialmente intrusiva. Ma la sorprese ancora una volta. Un sorriso ne increspò le labbra, la scrutò con il viso inclinato di un lato. Lo sguardo sembrò scintillare. “In una serata come questa?”, le chiese quasi a mo' di conferma. “Decisamente sì”.
Aveva annuito, Brittany, per qualche motivo sentendosi nuovamente rassicurata: quasi una parte di sé fosse consapevole che quella semplice risposta, ancora una volta, celasse qualcosa di ben più intenso. Che probabilmente avrebbe compreso concedendosi tempo, come le aveva suggerito, e magari persino conoscendolo meglio. Sollevò la mano in un cenno di saluto, un ultimo sorriso, e si volse nuovamente, sperando di non perdersi lungo il tragitto.
Era cerca che la porta di Hunter era rimasta aperta, fino a quando non aveva girato l'angolo.
Riprese il suo lavoro in cucina, andò a letto molto tardi, dopo una lunga doccia risanatrice, e con la prospettiva di una lunga giornata davanti. Ma il punto è che, da quella visita, non smise di sorridere.

To be continued...


1 Riferimento assai discutibile e poco lusinghiero all'influenza che ha avuto uno dei principali focolai soprattutto nel Sud Est asiatico.
2 Il nome originale (fonte Murphy stesso su twitter) è Mr Puss, ma credo che aggiungere la “y” gli dia un tocco un po' più dolce ;) Inoltre mi è sempre capitato di leggerlo così nella traduzione. E' stato Nolan stesso, (sempre su twitter), a dichiarare che fosse Clarence il nome del micio, ragion per cui, per essere il più meticolosa possibile, ho inserito entrambi :)

Spero mi abbiate perdonato i momenti meno lieti di questo capitolo, ma dopotutto c'è stato anche qualche motivo per sorridere. Se Brittany si sta abituando a questa nuova vita, subentreranno altre situazioni da vivere e si approfondiranno i rapporti con le altre figure principali :)
Uno scorcio al prossimo capitolo:

Brittany, rilassati”. “Sì, scusa”. “Non devi scusarti”. “Scusa, cioè niente. Mi hai chiamata per nome”. “Se preferisci ti chiami Pierce-”. “No, mi piace sentirtelo dire”.
Ora mi racconterai la parte mancante da 'non lo sopporto, non voglio parlarne' a 'spero che mia madre non si accorga che mi brillano gli occhi pensando a lui'”.
Spero ti sia reso conto, Hunter, che sono mosse da svenevole cheerleader e neppure molto aggraziate” “Dissento ma procediamo alla votazione”.


Un abbraccione forte a tutte le mie unicorn girls: mandatemi qualche vibrazione positiva in forma di unicorno, in attesa della mail con il responso dell'esame di ieri :D
Buon weekend a tutti,
Kiki87






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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


capitolo 6
Ti conosco,
ho danzato con te una notte
e abbiamo desiderato che non finisse mai.
Spero sia reale,
che questa visione sia più di quanto sembri,
perché se il sogno diverrà realtà,
so cosa faremo.
Balleremo di nuovo,
come abbiamo fatto allora,
in un sogno.1
(Once Upon A Dream, colonna sonora di
La bella addormentata del bosco”)





Capitolo 6

Era divenuta una piacevole abitudine, anche senza un orario prestabilito, potersi trattenere nella camera di Hunter. Se la visita era soprattutto alimentata dal desiderio di passare del tempo con il suo adorato micio, spesso diveniva occasione di godere, seppur indirettamente, anche della presenza del giovane Capitano. Quest'ultimo le concedeva l’ingresso persino in sua assenza, ogni volta che aveva un po' di tempo libero e riusciva a sfuggire alle punizioni di Kitty, nonché ai malumori delle sue compagne di stanze. Decisamente il nuovo sistema di orari previsto dal Capitano Wilde non aveva favorito le sue relazioni sociali e sentiva spesso su di sé gli sguardi indagatori o il silenzio che si diffondeva sospettosamente al suo rientro, facendole comprendere che era proprio lei l'oggetto di discussione.
Lo stesso Lord Tubbington sembrava apprezzare quel nuovo ambiente: sicuramente più ristretto ma anche meno caotico e rumoroso della camerata femminile e non era raro che, dopo i primi giorni, si addormentasse sul divano, nel posto lasciato libero da Mr Pussy.
Da parte sua, quando presente, Hunter passava gran parte del tempo leggendo (aveva anche scoperto che indossava gli occhiali: una montatura scura e dalle lenti rettangolari che gli davano un'aria più intellettuale e meno sportiva) o studiando. Così, mentre stava seduto davanti alla sua scrivania, cercava di essere il più silenziosa possibile e di non disturbarlo. Tuttavia, spesso e volentieri, non riusciva a fare a meno di osservarlo: si soffermava sul modo in cui aggrottava le sopracciglia, quando si concentrava su un passaggio più ostico o su come lo sguardo si fissasse su un punto indefinito mentre rifletteva. Erano momenti in cui si domandava se ci fosse qualcosa a preoccuparlo, al di fuori degli impegni accademici: avrebbe persino voluto esserne a conoscenza, se non avesse avuto remore di essergli di peso o risultargli inopportuna.
Molto più semplice era l'interazione con Mr Pussy che non mancava di dimostrarle la propria simpatia, non appena entrava nella camera. Si riscuoteva dal suo sonnellino, si stiracchiava sul divano o sul letto del padrone, prima di avvicinarsi e strusciarsi alle sue caviglie o accoccolarsi al suo grembo, senza attendere gli si avvicinasse.
La prima volta che Hunter aveva osservato quel siparietto si era concesso di inarcare le sopracciglia, il viso inclinato di un lato, tanto che Brittany aveva temuto che ciò lo infastidisse. Ma il ragazzo aveva inarcato l'angolo delle labbra. “Gli piaci, è evidente”, aveva commentato con semplicità, lo sguardo nuovamente saettato sul libro che stava leggendo, le dita a sostenersi la fronte.
“Anche tu mi piaci”, aveva sussurrato, Brittany, con un sorriso più dolce. Ma era seguito uno strano silenzio a quella frase pronunciata a cuor leggero: sembrava che Hunter stesso si fosse riscosso dalla sua concentrazione e aveva nuovamente levato lo sguardo su di lei. Non riuscì ad interpretarne lo stato d'animo, ma arrossì. “Dicevo a Mr Pussy”, aveva precisato in tono timoroso, per poi realizzare che ciò poteva essere poco lusinghiero.
Il cipiglio sulla fronte del ragazzo si era ampliato, le sopracciglia inarcate prima di emettere un suono gutturale di divertimento.
Non sembrava essersi offeso, aveva constatato Brittany, ma ciononostante l'imbarazzo non riusciva a scemare e si morsicò il labbro, affrettandosi ad aggiungere: “Cioè, non è che tu non mi piaci, visto che ti conosco un po' meglio”, avrebbe soltanto voluto che il suo cuore smettesse di scalpitare così intensamente da darle la sensazione di star per scoppiarle e che la sua voce non sembrasse così strozzata, come esitasse a respirare. “Sei molto gentile e-”, stava cercando di articolare ulteriormente la sua risposta.
“Brittany”, l'aveva richiamata lui, il viso inclinato di un lato e il sorriso addolcito. “Rilassati”, le aveva detto con aria tranquilla e la ragazza aveva rilasciato il fiato.
“Scusa”, era stato una sorta di pigolio.
Aveva aggrottato nuovamente le sopracciglia, evidentemente perplesso. “Non devi scusarti”.
“Scusa!”, si era affrettata a dire la ragazza per poi mordersi il labbro, facendo un vago cenno con la mano. “Cioè, niente”.
Mr Pussy aveva miagolato ad attirarne l'attenzione e si era rilassato solo al sentirne di nuovo la carezza sotto il mento. Ma Brittany stava ancora guardando Hunter, le labbra appena schiuse, quando un nuovo pensiero la colpì. “Mi hai chiamata per nome”, il tono della voce aveva tradito una reale curiosità mista a sorpresa.
Per l'ennesima volta, il ragazzo aveva abbandonato la sua lettura ed era tornato ad osservarla: evidentemente il gesto gli era stato abbastanza naturale da non soppesarlo, ma inarcò le sopracciglia alla precisazione. “Se preferisci che ti chiami Pierce-”.
“No, mi piace sentirtelo dire”, aveva sussurrato Brittany, un reale sorriso ad incresparne le labbra il mento appoggiato al capo del siamese che si stava letteralmente crogiolando delle coccole extra, a giudicare dalle fusa che avevano riempito il silenzio, infranto solo dal pesante respiro di Lord Tubbington, addormentato sul tappeto.
Fu un lungo istante quello in cui Hunter aveva contemplato quel quadretto, quasi avesse voluto memorizzarlo nei minimi dettagli. “Bene”, aveva sussurrato distrattamente. Un vago sospiro, prima di costringersi a tornare alla sua lettura e Brittany era tornata alla sua silenziosa contemplazione.


Persino al ricordo sentì le sue guance avvampare e scosse il capo come a cercare di tornare alla realtà mentre, con cipiglio deciso, camminava lungo il corridoio che Marley le aveva descritto con dovizia di dettagli per potersi orientare. Un sorriso soddisfatto le affiorò alle labbra e accelerò il passo, quando individuò la porta giusta e seppe che non avrebbe dovuto perdere tempo: Kitty, a differenza sua, sarebbe stata fuori dall'Accademia per l'intero weekend. La sua stessa camerata si era svuotata e ciò avrebbe garantito a lei e a Marley una maggiore libertà: si era dispiaciuta solo in parte che quest'ultima non l'accompagnasse, ma era giusto trascorresse del tempo con il suo Principe. Inoltre, aveva così atteso quel momento che avrebbe voluto gustarselo egoisticamente. Schiuse la porta con il battito accelerato e il respiro trattenuto prima di osservare, per la prima volta, l'aula di danza. Era molto ampia e rettangolare: le finestre, che davano sulla distesa dei campi d'addestramento, ne illuminavano il parquet lucido e lo specchio le restituiva il suo stesso sguardo attonito. Ancorate ad un lato della sala vi erano le sbarre per gli esercizi di danza classica e, oltre allo stereo, vi era persino un pianoforte accostato ad un angolo della sala per chi voleva esercitarsi a suonarlo. E la libreria vicina era colma di spartiti a disposizione degli allievi.
Un sorriso le affiorò alle labbra nel contemplare quel luogo che sarebbe potuto divenire un rifugio felice, se fosse riuscita a farvi ritorno, quando si fosse assicurata di non incontrare nessuno. Conosceva abbastanza Kitty per immaginare che avrebbe trovato un qualche cavillo per impedirle di entrarvi o avrebbe potuto pensare che non prendesse sul serio le punizioni e il nuovo regime entrato in vigore dopo l'ultima e disastrosa ispezione della camerata.
Lasciò vagare lo sguardo tutto attorno prima di affrettarsi a raggiungere il mobile su cui era adagiato lo stereo. Vi appoggiò il proprio zainetto e ne estrasse un cd che inserì nel lettore. Legò i capelli in una coda, compì qualche esercizio di riscaldamento per i muscoli ancora intorpiditi per il sonno, una vaga smorfia laddove il ginocchio si era scorticato per una delle numerose cadute, fletté le braccia prima di allungarsi a toccare i piedi con le punte delle dita. Sentiva una nuova emozione scalpitarne il petto. Scelse la traccia musicale e si collocò al centro della stanza, lasciando che la melodia riempisse il silenzio. Le prime note scorsero leggere, come un risveglio in punta di piedi, apparentemente ignorate prima che il ritmo divenisse più incalzante in un crescendo seducente.
Movimenti fluidi, sinuosi ed eleganti con cui le braccia schermarono l'aria: naturali e disinvolti come se il suo corpo stesse finalmente ritrovando la sua armonia. Senza più timore, paure o quella pressione di non riuscire ad affrontare il presente e i cambiamenti cui stava andando incontro. Soltanto la leggerezza e la libertà con cui si muoveva in modo sempre più rapido e slanciato, abbandonandosi completamente alla melodia e ritrovando persino quella gioia di vivere che ne rese lo sguardo più lucido e ne fece sorridere le labbra di autentica serenità.
Fu come se tutti i contorni svanissero e sfumassero: tutto era distante e lontano, niente e nessuno avrebbe potuto valicare quel suo spazio o impedirle di sentire la vita scorrerle dentro in ogni singolo movimento, l'uno la continuazione dell'altro come una sequenza destinata a non terminare.
Non seppe quanto tempo fosse passato: si adattò ad ogni nuovo brano e più si muoveva e più sentiva l'energia affiorare da una riserva che l'Accademia non le aveva sottratto e così la consapevolezza che, in fondo, non sarebbe mai appartenuta a quel posto e mai avrebbe potuto toglierle la sua identità.
Solo quando lo stereo le propose una musica da ballo di sala, Brittany si rese conto che doveva esser passato molto più tempo di quanto avesse realizzato. Si fermò. Le mani appoggiate ai fianchi, il respiro lievemente ansante, le guance arrossate e ciuffi di capelli sparsi sulla fronte lucida.
“Serve un partner?”, percepì quel respiro caldo contro la nuca, la voce sussurrata e rauca e trasalì nello scorgerne il riflesso dallo specchio che aveva quasi del tutto ignorato fino a quel momento. Si volse ad osservare Hunter, la mano sul cuore e gli occhi sgranati.
Era la prima volta che il ragazzo le appariva sinceramente imbarazzato: evidentemente non si era aspettato di suscitarle quel trasalimento. “Scusami, non volevo spaventarti”.
C'era un sorriso tuttavia nel suo volto nell'osservarla con ammirazione. “O tanto meno interromperti”, precisò con un guizzo di divertimento.
Arrossì, Brittany che notò soltanto in quel momento che anch'egli non indossava la divisa ma un completo più informarle e sportivo costituito di pantaloni scuri ed elastici e una canottiera dello stesso colore. Che fosse venuto nella sala con il suo stesso intento? Si scostò i capelli dalla fronte, dopo aver spento lo stereo e aver raccolto il proprio zaino. “Da... da quanto tempo sei qui?”, chiese con voce più sussurrata, ancora evidentemente sorpresa ma imbarazzata nell'esser stata scorta in un momento così personale.
Sorrideva ancora, Hunter, le braccia incrociate al petto nell'osservarla con il viso inclinato di un lato. “Abbastanza”, dichiarò, le sopracciglia inarcate. “Sei una ballerina straordinaria: non posso credere che Neal non me l'abbia detto”, sembrava davvero incredulo.
Si strinse nelle spalle, Brittany. “Non ero qui per questo ma da quando Neal mi ha parlato di questa
sala, non vedevo l'ora di entrarci”, ammise e si appoggiò un asciugamano sul collo, dopo essersi strofinata il volto. Estrasse una bottiglietta d'acqua che tracannò avidamente.
“Credo di aver appena trovato il modo di allietarti ulteriormente la permanenza qua”, dichiarò il ragazzo che non smetteva di osservarla con fare pensieroso e compiaciuto. “Entra nel mio Glee Club”.
Quasi si strozzò e si scostò la bottiglietta dalle labbra. Aveva sgranato gli occhi, ma soltanto in quel momento sovvenne il ricordo della primissima conversazione con Neal riguardo l'Accademia stessa: Ma abbiamo molte altre attività che ti saranno più familiari: un Glee Club. Nondimeno c'era qualcos'altro di altrettanto curioso e che non aveva mai realizzato fino a quel momento.
“Non abbiamo molti ballerini esperti ma tu e Kitty insieme alzereste sicuramente il livello di preparazione generale. Ci siamo iscritti ad una gara di canto coreografato a livello nazionale ed abbiamo bisogno di persone con la tua passione”, era la prima volta che scorgeva nel ragazzo quella verve più sognatrice e pensierosa, riguardo ad un progetto nel quale aveva evidentemente investito il suo tempo e al quale dedicasse la sua attenzione. E che non aveva nulla a che vedere con la vita in Accademia in senso stretto.
“Kitty?”, domandò, Brittany, il tutto suo entusiasmo sembrò fluire via alla sola idea di ritrovarsi coinvolta in un'attività nella quale sarebbe stata ulteriormente sottoposta alla presenza del Capitano Wilde.
“E' il mio Co-capitano anche in questo, la cantante di punta e la prima ballerina, almeno per ora”, l'aveva indicata con aria altrettanto divertita, evidentemente più che incuriosito all'idea di mettere a confronto le doti di entrambe.
Ma c'era qualcos'altro a stimolare la curiosità di Brittany e su cui il giovane stava glissando o che riteneva scontato a differenza sua. “Aspetta”, lo fermò dal dare altri dettagli sull'organizzazione del gruppo. “Tu balli?”, gli chiese e, seppur non volesse apparire rude, non poteva celare una reale incredulità e sorpresa a quella realizzazione.
Aggrottò le sopracciglia, Hunter, che sembrò intuire i suoi pensieri, arricciò l'angolo delle labbra ed inclinò il viso di un lato nello scrutarla. “Difficile da credere?”, la stuzzicò quindi.
“Oh, no, no!”, non era suonata molto convincente perché il cipiglio dell'altro si approfondì e dovette cercare di nascondere il sorriso per non apparire realmente irrispettosa. “E' solo che sembri sempre... rigido”, ammise, morsicandosi il labbro ma sorridendogli accattivante perché non fraintendesse le sue intenzioni.
“Rigido”, ripeté Hunter il cui sorriso non sfumò seppur apparisse adesso ansioso di difendersi. “Hai ballato con me solo una volta ed era un ballo da sala”, le ricordò.
Sbatté le palpebre, Brittany. “Solo perché mi hai costretta, ma non parlavo di quel tipo di ballo”, aggiunse e non riuscì a simulare il sorriso divertito che, per qualche motivo, coinvolse persino il ragazzo.
Si chinò appena in sua direzione, quasi stesse pronunciando qualche segreto che non avrebbe dovuto valicare i confini della stanza. Una movenza che, tuttavia, fece accelerare i battiti della giovane. “Diciamo che quel ballo era solo un'anteprima e un incentivo per mettermi alla prova: poi potrai eventualmente ridere di me, quando mi avrai davvero visto all'opera”.
Visto da una simile distanza, con la voce così rauca e quel sorriso più accattivante che ne faceva scintillare lo sguardo verde, Brittany dubitava che avrebbe davvero potuto prendersi gioco di lui. Si riscosse, tuttavia, e lo scrutò con aria incuriosita. “E' così che vuoi convincermi?”, gli chiese.
“Ma io ti ho già convinta”, precisò il ragazzo che non si era scostata e il cui respiro caldo soffiava sul volto della giovane, procurarle ulteriori brividi. “Ti ho vista ballare, Brittany: è evidente che è questo che ti rende felice”.
Non avrebbe potuto negarlo, ma era qualcosa di incredibilmente dolce l'idea che lui lo avesse compreso guardandola per la prima volta. “E mi vorresti nel tuo Glee Club”, continuò, la voce sussurrata e la risposta sembrava esserle importante, a prescindere dall'accettazione o meno di quella proposta o di ciò che ne avrebbero pensato gli altri. Era di Hunter che desiderava il responso, proprio lui che in quel contesto l'aveva scorta e sembrava averla osservata minuziosamente.
Sembrò intuire qualcosa di simile, Hunter, perché la scrutò a lungo, così tanto da farle trattenere il fiato per l'anticipazione, prima che annuisse. “Esattamente”.
Si strinse nelle spalle, Brittany, l'espressione più giocosa. “Allora dovresti chiedermelo e non ti direi di no”, gli fece presente. Ancora una volta aveva avuto l'impressione che il ragazzo sembrava leggerle la mente e non necessitare neppure di una risposta che avrebbe voluto invece fornirgli con tutta l'intensità della stessa.
Sorrise ironicamente Hunter. “Vorresti entrare nel mio Glee Club?”.
“Volentieri”, fu la pronta risposta della ragazza, dondolandosi sui talloni con aria evidentemente soddisfatta.
Sorrise Hunter e l'atmosfera sembrò essere completamente cambiata: lo scintillio del suo sguardo si era addolcito e nuovamente l'aritmia sembrò strapparle il respiro e renderla incapace di pensare ad altri che non fosse il giovane stesso. Allo stesso modo, non riusciva ad evitare di guardarlo e domandarsi cosa fosse giusto dire o fare in una simile circostanza in cui tutto sembrava superfluo. O come alleviare quella stretta allo stomaco che andava e tornava a suo piacimento, senza che potesse in alcun modo controllarla. Si era morsa il labbro nervosamente.
Sbatté le palpebre, Hunter, e si schiarì la gola. “D'accordo, allora”, tornò al suo consueto tono pacato. “Ne parlerò con Kitty, ma tu presentati all'audizione Lunedì insieme agli altri, dovrai firmare il modulo in segreteria”.
L'incanto sembrò spezzarsi e Brittany corrugò le sopracciglia. “Aspetta, perché devi parlarne con lei?”, si stupì lei stessa del suo tono tutt'altro che lieto alla prospettiva ma si affrettò a correggersi. “Lei non mi vorrà di sicuro”.
Sorrise il ragazzo che scosse il capo. “Se ballerai come prima, la tua audizione sarà soltanto una formalità, credimi”.
“Ma lei mi odia e-”.
“Kitty ha soltanto un voto a disposizione, uno su cinque: personalmente mi hai già convinto, dovrai convincere gli altri tre del nostro Consiglio”.
Sospirò Brittany ma annuì. Aveva dunque due giorni di tempo per preparare una coreografia da sottoporre come provino. Lo stesso cui aveva accennato Marley che aveva già firmato il modulo. La sua amica non era riuscita a passare alle audizioni dell'anno precedente soltanto perché la sua domanda era stata presentata in ritardo e Kitty aveva asserito che avrebbe dovuto dedicarsi agli allenamenti, essendo la sua peggior recluta.
“Non avrai paura?”, le aveva chiesto il ragazzo che ne aveva scrutato l'espressione così diversa da quella della giovane che aveva sorpreso sul parquet.
“No, ma non voglio che Kitty abbia altri motivi per avercela con me o che la faccia pagare alle mie compagne e-”.
Il giovane le aveva appoggiato la mano sulla gota e Brittany era trasalita: con il pollice le aveva sfiorato lo zigomo in un tocco accennato che, tuttavia, ne fece scalpitare furiosamente il cuore e trattenere il fiato. Si specchiò nel suo sguardo. “Hai la mia parola, Brittany: se vuoi ballare nel mio Glee Club, farò tutto il possibile perché tu possa farlo”.
Sospirò, Brittany, che continuò a contemplarlo in volto per poi sorridere. “Ti ringrazio”.
“Mi raccomando, punterò molto su di te”. Le disse in tono evidentemente complice.
Era apparsa visibilmente emozionata ma lusingata e aveva trattenuto il fiato. “Non ti deluderò”.
“Bene, ora dovrò chiederti di lasciarmi la stanza”. Le aveva indicato l'uscita con un cenno del mento, ma Brittany aveva sorriso giocosa.
“Posso restare?”. Si era dondolata sulle braccia ma il ragazzo aveva scosso il capo.
“Assolutamente no”, stava sorridendo, ma la guardò intensamente. “Mi vedrai ballare soltanto se passerai l'audizione”.
“Avrò un motivo in più per farlo, Capitano”, imitò il saluto militare e, con un ultimo sorriso, uscì dalla stanza.

~

Era stata con una lieve agitazione che aveva accettato l'invito a pranzo della madre: sarebbero state soltanto loro due e non aveva potuto fare a meno di chiedersi se lo scopo fosse parlare di Neal. Dal loro colloquio, aveva riposto i documenti sull'adozione nella cassettiera dell'armadio che condivideva con Marley. Sapeva di dover prendere una decisione e comunicargliela al più presto ma sentiva di non poterlo fare se non in un momento di calma e di riflessione che, tuttavia, ancora non sembrava esser giunto. Non che avesse tentato deliberatamente di ignorare la questione ma ogni volta che, insonne, i suoi pensieri si soffermavano su quell'argomento, aveva sentito la gola stringersi e il battito accelerare. Soprattutto quando, inevitabilmente, un altro volto affiorava dai suoi ricordi e si sovrapponeva a quello di Neal. Aveva anche cercato di far tacere quella vocina interiore che avrebbe voluto si confidasse con la madre che avrebbe potuto comprendere meglio di chiunque altro; ma sembrava, al contempo, la persona meno indicata se l'avesse così esortata di riflettere a sua volta e comparare le due precedenti esperienze. La prima e più dolorosa di cui non discorrevano mai e che Brittany non richiamava alla sua memoria per il timore di infliggerle sofferenza, soprattutto da quando Neal l'aveva resa nuovamente felice e aveva sopperito alla solitudine di una donna col cuore spezzato.
Era, come sempre, qualcosa di meraviglioso ricongiungersi a lei e non era mancato un lungo abbraccio, prima che salisse sulla sua auto e si dirigessero insieme al ristorante: ne aveva osservato l'espressione più che entusiasta mentre accennava a qualche annuncio promettente e qualche invio di curriculum come istruttrice di danza. Aveva anche parlato di nuovi acquisti per arredare la nuova casa nonché la scelta ancora poco chiara su quale sarebbe stata la sua meta per la luna di miele, ipotizzando la possibilità che trascorresse quella settimana con la nonna materna. Progetti che ne facevano scintillare lo sguardo azzurro e ne rendevano il sorriso allegro e solare e, ancora una volta, Brittany desistette dall'accennare a qualcosa che potesse corrodere quella piacevole atmosfera, soprattutto dopo quel periodo tanto ferreo tra le mura dell'Accademia.
“Cosa mi racconti di nuovo?”, l'aveva incalzata appena il cameriere si era allontanato con le ordinazioni di entrambe.
Dallo scintillio dello sguardo, allusivo e complice, Brittany ebbe l'impressione che fosse più che ottimista all'idea di qualche nuova rivelazione succulenta. Cercando di ignorare quella sensazione di stretta marcatura, le sorrise e si strinse nelle spalle. “Forse entrerò nel Glee Club dell'Accademia”.
“Forse?!”, le aveva chiesto la madre, le bionde sopracciglia inarcate così tanto da nascondersi sotto le ciocche che ne sfioravano la fronte. “Ti hanno già vista ballare, almeno?”, aveva chiesto, evidentemente più che fiduciosa della sua predisposizione.
Cercò di non ripensare al modo in cui, effettivamente, ciò era avvenuto – il mal di pancia non era certo qualcosa di gradevole, soprattutto prima di pranzare – ma si tormentò in capelli e si schiarì la gola, dopo aver bevuto dell'acqua. “Dovrò fare un'audizione Lunedì”, iniziò in tono cauto, spiandone le espressioni. “Mi hanno detto che sarà soltanto una formalità”, aggiunse perché si compiacesse di quel dettaglio.
Se così fosse stato, Shirley non lo diede a vedere. Al contrario, lo sguardo aveva avuto uno scintillio persino più luminoso, ma aveva inclinato il viso di un lato, scrutandola con fare felino, pur simulando perfetta compostezza e un'aria distratta e casuale. “Ti hanno detto?”, ripeté in tono leggero prima di sporgersi maggiormente in sua direzione, le dita intrecciate a sostenersi il mento e il sorriso malizioso. “Perché adesso non mi parli di chi lo ha detto, soprattutto se è la stessa persona di cui evidentemente non vuoi parlare?”. Il suo tono era cantilenante, quasi stesse cercando di ipnotizzarla con quegli occhi della nuance simile alla propria e le sopracciglia inarcate in evidente attesa.
Arrossì, Brittany, e si morse il labbro prima di appoggiarsi allo schienale della propria sedia. Sembrò quasi voler scomparire sotto quello sguardo indagatore. “Non so di chi stai parlando”, replicò velocemente per poi cercare di sviare rapidamente il discorso. “Ci sarà una specie di giuria di cinque persone all'audizione e-”.
“Sono tua madre e una madre fantastica se vogliamo dirla tutta”, si prese un istante Shirley per contemplare la veridicità di quella frase che fece sorridere la figlia con aria rassegnata, ma dovette annuire perché la donna continuasse a parlare. “E se intendi tenermi nascosto qualcosa, allora dovrò infiltrarmi, magari come fidanzata dal Preside, cominciare a fare qualche domanda in giro, andare a salutare Jonathan”, il bicchiere di Brittany era vacillato nella sua stretta e la madre aveva sorriso trionfante, cogliendo un evidente collegamento. “Tanto lo sai che lo scoprirò: quindi saltiamo subito alla parte in cui vuoti il sacco, mh?”, le domandò giocosa e, malgrado stesse sorridendo, Brittany sapeva che si trattava di una minaccia.
“Hunter”, fu il sussurro sconfitto di Brittany che si passò una mano sulla fronte con l'aria di chi si prepari ad essere oggetto di qualche calamità naturale.
“A-HA!”, l'additò sua madre con aria trionfante, incurante degli sguardi curiosi che aveva attirato con quell'esclamazione che sembrava essere rimbombata nel silenzio della saletta. “Lo sapevo!”. Batté la mano sul tavolo quasi a dare maggiore enfasi.
Brittany era terrorizzata alla prospettiva di chiederle di spiegarsi meglio, ma evidentemente non ce n'era bisogno perché la donna sembrava tutt'altro che esitante a condividere la sua opinione. “Ho sentito la tensione crescere tutta la sera, anche se ammetto che le tue confidenze dopo avervi trovato in giardino sono state abbastanza scarne”, l'aveva rimproverata con fare bonario per poi continuare il suo soliloquio. “Una simile elettricità poteva concludersi soltanto in due modi: o vi sareste uccisi a vicenda, il che sarebbe stato davvero uno spreco: certo, lui è Capitan Impalato ma un bocconcino davvero succulento; non ti avrei permesso di lasciartelo sfuggire e sono fiera di te per aver scelto la seconda opzione: balla e conquista!”, lo aveva sussurrato in tono complice, dopo essersi sporta maggiormente in sua direzione.
Se la giovane aveva già fatto fatica a seguire quel lungo sproloquio, arricchito di commenti personali e del tutto parziali; si ritrovò a sgranare gli occhi ed arrossire furiosamente. “Aspetta”, la interruppe con la mano sollevata, il viso inclinato di un lato e la fronte increspata. “Mi ha solo proposto di entrare nel Glee Club, non mi ha certo chiesto di sposarlo”, aveva sorriso ironicamente.
Allo sguardo eloquente della madre che sembrava voler obiettare un “non ancora”, aveva scosso il capo, le guance più rosate ma l'aria ben decisa e determinata a non lasciarle adito di fantasticare ulteriormente. “Farò l'audizione Lunedì: ci saranno lui, Kitty e altri tre. Tutto qui”.
“Bene”, commentò Shirley che sorrise al cameriere e lasciò che depositasse i piatti davanti ad entrambe. Quest'ultimo non ebbe tempo di rientrare nel locale, perché la donna si sporse ulteriormente verso di lei. “Ora mi racconterai la parte mancante da 'Non lo sopporto e non voglio parlarne' a 'spero che mia madre non si accorga che mi brillano gli occhi, pensando a lui'”, l'aveva incalzata con la stessa espressione determinata e sicura di sé.
“N-Non mi brillano gli occhi”, protestò la ragazza, le guance in fiamme e la madre scacciò quella replica con un vago cenno della mano.
“Allora? Siamo alla prima portata e sto fremendo: comincia a parlare”.
Era impossibile dirle di no, era qualcosa che aveva imparato più o meno da quando aveva iniziato a parlare e interagire con lei anche al di fuori del ballo. Era anche vero che la madre era un'ottima ascoltatrice (se non si consideravano le risatine, gli sguardi soddisfatti, i commenti poco celati e la mimica facciale) ma era sinceramente concentrata a cogliere il quadro delle sue interazioni con il Capitano per avvallare ulteriormente le sue opinioni al riguardo.
“E così, sotto la scorza da 'Capitan Spalle e Bicipiti d'oro'”, il commento aveva fatto strozzare la figlia con la sua porzione di pesce. “Si cela un cuore da Principe Azzurro”.
Non l'aveva mai pensata in quel modo, non aveva provato ad immaginarlo come uno dei protagonisti delle sue favole preferite, ma immaginava che sarebbe sembrato... perfetto. Come quella sera con lo smoking, anche se era stata troppo arrabbiata e risentita per dirlo ad alta voce. O come lo era stato fin da subito quando, durante l'acquazzone, l'aveva tratta in salvo da quell'altura. O come lo sarebbe sembrato persino nei gesti quotidiani, quando studiava nella sua camera con addosso un paio di occhiali.
“Principe”, sussurrò tra sé e sé e sorrise a quelle immagini ben serbate nella propria mente prima che un sospiro le sfuggisse dalle labbra. Abbassò la forchetta: il mal di pancia improvviso le aveva fatto passare lo stimolo a mangiare.
“Sei stra-cotta”, cantilenò sua madre con un sorriso più che deliziato alla prospettiva, poco curante del suo verso di sorpresa e delle guance roventi.
“N-No, io... lui, no, non-”, si ritrovò a farfugliare, neppure sapendo esattamente cosa dire.
“Davvero eloquente la sua difesa, Miss Pierce”, le ammiccò giocosamente.
La ragazza aveva distolto lo sguardo e un'improvvisa inquietudine ne aveva fatto serrare le labbra. La sola idea di poter coltivare un sentimento simile, che tanto meravigliosamente era descritto nei suoi libri, sarebbe stata davvero suggestiva ma si accompagnava ad una riflessione ben più seria.
“Non so neppure se gli piaccio come amica”, si sentì dire con voce più contrita, quasi stesse per la prima volta soppesando quel pensiero che era sempre accantonato. Certo, le loro interazioni erano divenute molto più fluide e lui era sembrato molto più cordiale, complice, anche incredibilmente dolce nelle premure che le aveva riservato. Ma che fosse tutto legato a quel rispetto che le aveva promesso da quella conversazione dopo il ballo?
“Non credo che collezioni gatti nel tempo libero”, la incalzò sua madre. “A meno che non sia uno psicolabile, il che non toglierebbe nulla al suo fascino, ma potrebbe essere un problema”, sembrava stesse realmente contemplando l'ipotesi con la stessa leggerezza con cui si sarebbe parlato del tempo e della possibilità di un acquazzone all'orizzonte.
“Comunque non importa”, Brittany sembrava essere giunta alle conclusioni di una propria riflessione. “Lui è il Capitano, Kitty gli sta sempre attorno, quando non mi sta tormentando e-”.
“Ti piace?”, chiese a bruciapelo la madre e Brittany sentì il cuore fermarsi in petto: immagini del giovane che aveva serbato in sé da più tempo di quanto avesse mai realizzato. E probabilmente, come aveva detto a Marley qualche settimana prima, aveva sempre avuto la risposta di fronte a sé, ma non l'aveva mai valutata nel giusto modo.
“Mi fa venire il mal di pancia”, ammise con voce addolcita, lo sguardo più lucido e un moto puerile nel ricercare lo sguardo della madre la cui mano si serrò intorno alla sua.
C'era un nuovo scintillio negli occhi di Shirley che, superato il momento di soddisfazione, l'aveva guardata con tanto calore da scaldarle il cuore: vi era comprensione, tenerezza, complicità e tanto amore e adorazione. “E' la sensazione più bella del mondo: vivila fino in fondo, comunque vada e non avrai rimpianti”, e vi era una verità che aveva vissuto da sempre e l'aveva resa la donna coraggiosa e sincera che Brittany avrebbe voluto tanto imitare.
Ma se era davvero la sensazione più bella, perché si sentiva così confusa e stordita?
Nei suoi libri era sempre parso così semplice comprendere quando due personaggi fossero nati per stare insieme, malgrado iniziali differenze caratteriali o di ceto sociale o le aspettative familiari e i sogni coltivati prima dell'innamoramento. Soprattutto sembrava sempre implicito il lieto fine ma aveva scoperto fin troppo presto che non tutti gli amori erano destinati ad emulare le favole. Non aveva dubbio su quale tipo di finale avrebbe preferito. Ma c'erano molte altre domande che avrebbero avuto bisogno di risposta e probabilmente avrebbe dovuto leggere quelle pagine già note con maggiore attenzione.
“E adesso ordiniamo un dessert con tanta tanta cioccolata o fragole oppure fragole e cioccolata e poi Super Mamma penserà ad un piano per eliminare la concorrenza. Un bell'infortunio alla caviglia, magari. Così le ruberai il partner e l'uomo in un colpo solo. Hai detto che si chiama Kitty?”.
Sbatté le palpebre con aria sconvolta: Kitty e Hunter ballavano insieme? E perché sua madre sembrava esserne sicura ancora prima che lo constatasse di persona? Infortunio?
Non osava immaginare cosa sarebbe scaturito da un confronto tra la madre e il Capitano Wilde ma la cosa certa era che quel pranzo non lo avrebbe facilmente dimenticato.

~

Un nodo le stringeva la gola mentre, insieme a Marley, percorreva nuovamente il corridoio verso l'aula di danza. Sentiva la tensione divenire sempre più palpabile, il battito del suo cuore era una colonna sonora quasi fastidiosa e sembrava persino rimbalzare. Cercò di regolarizzare il respiro, i loro passi rimbombavano tra le pareti ed osservò le persone già riunite fuori dalla porta. Dopo averle sorriso e stretto la mano a mo' di incoraggiamento, Marley raggiunse Ryder e Brittany si fermò poco distante dalla porta: a quanto sembrava sarebbero entrati uno alla volta e avrebbero sostenuto l'audizione di fronte al Consiglio.
Ignorò il brusio circostante e cercò di rilassarsi, come le aveva sempre insegnato la madre nei momenti antecedenti ai saggi di danza.
“Nervosa?”.
Trasalì quando quella voce sussurrata e rauca la riscosse dai suoi pensieri e si volse ad osservare il giovane che, anche in quell'occasione, aveva disertato la divisa per un abbigliamento più casual, simile a quello che aveva nella propria camera e che Brittany preferiva di gran lunga. La stava osservando curiosamente, Hunter, evidentemente sorpreso al suo stato d'animo evidentemente ansioso.
Era nervosa? Quel mal di pancia, se non fosse stato per il suo sguardo verde, sarebbe stato più che comprensibile prima di un'importante esibizione. Sentì le guance imporporarsi, ma scostò una ciocca di capelli dalla fronte, il viso inclinato di un lato, ignorando il silenzio che si era spento tra gli altri astanti che guardavano dall'uno all'altra con evidente curiosità per quello scambio di parole, prima dell'inizio delle audizioni. “No, cioè, un po'... un pochino”, indicò un'esigua misura tra pollice e indice prima di tormentarsi le mani in grembo.
Il ragazzo sciolse la stretta delle braccia al petto, si chinò leggermente e Brittany trattenne il fiato. “Te l'ho detto: balla come ti ho già vista e sarà solo una formalità”.
Annuì, lo sguardo azzurro immerso in quello verde e la stretta allo stomaco s'attenuò mentre il rilasciava il respiro e nuovamente un sorriso le increspava le labbra, appena ritoccate di lucidalabbra. “Grazie, Hunter”, sussurrò con voce flebile.
Le sorrise nuovamente e Brittany seppe che, qualunque cosa fosse accaduta, quel momento non lo avrebbe dimenticato.
Sembrò in procinto di aggiungere qualcos'altro, Hunter, ma uno schiarimento di gola li fece riscuotere : Kitty stava fissando dall'uno all'altro con aria arcigna. Teneva una cartelletta su cui era appoggiato il modulo di iscrizione al provino e batté il piede contro il pavimento. Guardò Brittany con il viso inclinato di un lato. “A quanto pare la nostra piccola Barbie sta cercando una nuova cosa”.
Arrossì, Brittany, ma Hunter si scostò per aprire la porta, facendo cenno a Kitty di precederlo, prima di rivolgersi agli astanti. “Vi convocheremo uno alla volta, per ordine di iscrizione”, istruì e tutti i ragazzi riuniti annuirono con aria nervosa ma concentrata.
Kitty passò di fronte agli studenti con aria autoritaria, insieme agli altri studenti – tre ragazzi che Brittany conosceva soltanto di vista - che dovevano far parte del consiglio. Non aveva mancato di avvicinarsi alla ragazza per sussurrarle un mellifluo: “Brutta mossa, Barbie, brutta mossa”, passò di fronte ad Hunter con un sorriso ed entrò.
Quest'ultimo, la mano sulla maniglia, incrociò nuovamente lo sguardo di Brittany. “Buona fortuna a tutti, inizieremo tra poco”. Si era chiuso la porta alle spalle e la ragazza aveva sospirato, un nuovo sorriso ad incresparle le labbra.
Come aveva annunciato Hunter, poco dopo la porta si schiuse e uno dei tre giudici che Brittany non conosceva, chiamò all'esibizione il primo candidato.
Brittany si appoggiò alla parete alle sue spalle e cercò di rilassarsi, almeno fino a quando non udì dei passi in avvicinamento. Camminando con rapido passo, Neal si stava avvicinando con aria trafelata: aveva un dolce sorriso sulle labbra e Brittany si sentì nuovamente tendere all'idea che non gli aveva ancora dato la risposta tanto attesa. Sembrava esservi, tuttavia, un patto implicito per cui il suo patrigno non ne avrebbe più fatto alcuna menzione fin quando non fosse stata pronta.
“Ho saputo del provino”, le disse con aria raggiante per poi inarcare le sopracciglia, quando tutti i ragazzi si erano messi in posizione di saluto. “Comodi, comodi, ragazzi”, aveva sorriso a tutti. “Sono qui solo come spettatore oggi: buona fortuna a tutti”.
Si era nuovamente voltato verso Brittany che lo aveva guardato sorpresa. “Non dovevi disturbarti”, sussurrò con voce flebile.
“Stai scherzando?”, sembrava davvero scandalizzato all'osservazione. “Non mi perdonerei mai di esser mancato alla tua audizione: avrei voluto ci fosse anche tua madre ma le ho promesso di raccontarle tutto”, le aveva sorriso entusiasta. L'attimo dopo le posò la mano sulla spalla. “So che per te non è stato facile adattarti a questo posto e alle sue regole ma sappi che sono fiero di te per aver avuto il coraggio di provarci e per essere qui in questo momento, a prescindere dal verdetto”, aveva parlato in un sussurro ma Brittany aveva sentito gli occhi inumidirsi e un dolce calore diffondersi in petto.
“Grazie, Neal”, sussurrò con voce più tremante. “E' importante per me renderti fiero”.
“Lo stai facendo, sarà meglio che entri adesso. In bocca al lupo!”. Le aveva stretto nuovamente la spalla e si era avvicinato alla porta.
“Neal”, il richiamo era stato appena udibile ma si era voltato immediatamente.
Parve tergiversare, Brittany, ma lo guardò, il viso inclinato di un lato. “Puoi... puoi restare qui con me, fino alla mia audizione?”.
Lo scintillio nello sguardo di Neal fu di autentica gioia ed emozione. Annuì prontamente e rimase al suo fianco per tutto il tempo. Di tanto in tanto era lui a rompere il silenzio, chiedendole se gradisse qualcosa da mangiare o cercando di spronarla a prendere una boccata d'aria quando il numero di aspiranti al Glee diminuì. Tra questi, anche Marley e Ryder si erano congedati, dopo che la ragazza l'aveva stretta con entusiasmo, rivelando che il loro numero di coppia aveva riscosso il favore di quasi tutti i giudici.
Evidentemente doveva essere stata l'ultima ad iscriversi, constatò, quando rimasero soltanto lei e Neal nel corridoio. Si volse verso il suo patrigno, le sopracciglia inarcate e lo sguardo pensieroso. Mancavano pochi istanti ma stava cercando di non pensare ossessivamente a quel momento.
“Alla cena coi Clarington”, Brittany cercò di non arrossire. “Hai detto che ti sei innamorato della mamma, vedendola ballare”.
Aveva annuito prontamente, Neal, le labbra increspate dello stesso sorriso. “Tua madre è apparentemente una donna sicura di sé, forte, ironica e incredibilmente schietta, a volte persino imbarazzante”, aveva annuito con enfasi, Brittany, facendolo ridacchiare.
Si fece nuovamente serio, Neal, come sempre molto coinvolto in quelle discussioni. “Ma quando l'ho vista ballare una sera, poco prima che iniziasse il corso, ho visto il suo cuore: la passione, il lasciarsi andare malgrado la paura e la fragilità. Ho visto una donna lottare per essere se stessa, anche quando il mondo sembrava volerla cambiare”. Il suo sguardo sembrava nuovamente contemplare quel momento, visto come si era fatto distante. “Mi sono incantato: la stavo guardando sognare su quel pavimento e con una musica con cui fondersi. L'ho amata da quel momento e ho capito che se l'avessi lasciata andare, me ne sarei pentito per tutta la vita”.
Aveva sorriso, Brittany, lo sguardo trasognato. Avrebbe voluto approfondire ulteriormente quella conversazione ma quando la porta fu schiusa e fu pronunciato il suo nome, sentì il respiro mancarle.
“Lasciati andare”, aveva sussurrato Neal che le trattenne la porta aperta e le strizzò l'occhio con fare incoraggiante.
Sorrise, Brittany (aveva la sensazione che se avesse provato a parlare, la nausea l'avrebbe sopraffatta) ed avanzò nella stanza. Non era cambiata dall'ultima volta che vi era entrata a parte che, di fronte alle vetrate a specchio, vi era una lunga tavola rettangolare, dietro alla quale erano schierati i cinque del Consiglio: Kitty e Hunter al centro in quanto Capitani delle due divisioni.
Rilasciò il respiro e si fermò al centro della stanza. Neal, che sembrava esser divenuto cinereo, aveva fatto un vago cenno ai cinque perché si accomodassero di nuovo, e si era appoggiato al pianoforte, dopo averne quasi fatto cadere gli spartiti, sotto lo sguardo gelido di Kitty che aveva levato gli occhi al cielo. Un verso di divertimento sfuggì dalle labbra di Brittany, ma almeno la tensione sembrò svanire e rivolse un sorriso al patrigno prima di concentrarsi.
“Hai tre minuti”, le disse Kitty in tono spicciolo, appoggiandosi alla sua sedia, le braccia incrociate al petto e lo sguardo torvo in sua direzione.
Annuì, Brittany, che si affrettò a porgere il cd al giovane addetto allo stereo, indicandogli la traccia da inserire e tornò rapidamente al centro della stanza. Socchiuse gli occhi, isolando tutto il resto e ricercando la concentrazione necessaria. Un solo istante, prima di lasciarsi andare e incontrò lo sguardo di Hunter che si era sporto maggiormente dalla sua postazione e le fece un impercettibile cenno di assenso. Un altro sguardo per Neal e si disse che avrebbe trionfato per loro soltanto e la fiducia dimostrata.
Ancora una volta, la musica sembrò compiere il suo prodigio: isolò tutto il resto e si lasciò andare, ogni movimento perfettamente armonico e conseguente all'altro in un'unica sequenza nella quale sentì nuovamente l'energia e la sua stessa anima fiorire nel loro culmine. Fece ciò che Neal aveva detto della madre: lottò per affermare la sua vera identità e lasciar andare la sua passione e il suo stesso sogno ad occhi aperti.
Aveva il volto arrossato alla fine della melodia, ma i cinque volti erano imperscrutabili: soltanto Neal si stava letteralmente spellando le mani a forza di applaudire, lo sguardo raggiante ed evidentemente orgoglioso. Brittany ne ricambiò il sorriso e rilasciò il respiro, roteando leggermente su se stessa e scostandosi i capelli dal viso mentre Hunter si schiariva la gola per coprire il suono prodotto dall'uomo e Kitty levava gli occhi al cielo.
“Ti ringrazio, Brittany”, arricciò appena l'angolo delle labbra. “Devo chiederti di accomodarti fuori, Signor Johnson, non vi faremo attendere molto”. Aveva commentato in tono rassicurante e Brittany si era sentita notevolmente sollevata, mentre Neal la raggiungeva e le apriva l'uscio, la mano sulla schiena e un sorriso raggiante. Stava varcando la soglia dell'uscio, Brittany, quando Kitty si volse verso Hunter, le sopracciglia inarcate. “Spero ti sia reso conto, Hunter, che sono mosse da svenevole cheerleader e neppure molto aggraziate”.
Aveva sentito il cuore fermarsi in petto e si era morsa il labbro. La risposta di Hunter fu lapidaria, per quanto proferita con il suo tipico tono composto. “Dissento, ma procediamo alla votazione”.
Lei a Neal attesero silenziosi fuori della stanza, pochi istanti ma parvero snervanti come quelli precedenti all'audizione stessa prima di poter nuovamente entrare.
Erano tutti seduti ad eccezione di Hunter che le rivolse un sorriso. “Per decisione quasi unanime”, Kitty la fulminò con lo sguardo. “Sei ammessa al Glee Club. Allenamenti a sere alterne alle 21: avrai una licenza per il coprifuoco. Puoi congedarti e congratulazioni”.
Cercò di trattenere l'entusiasmo nel rivolgere il saluto militare alla schiera di giudici prima di uscire nuovamente: fu un momento di pura complicità quello in cui lei e Neal risero.
“Sei stata straordinaria: non avevo alcun dubbio ovviamente. Anzi, mi sorprende che il verdetto non sia stato unanime, ma non importa: ce l'hai fatta ed è ciò che conta”.
Aveva annuito, lo stesso sguardo raggiante. “Grazie, Neal, di tutto”, aveva sussurrato, certa che il suo incoraggiamento e la sua compagnia prima del momento cruciale fossero stati più che indispensabili al rilassamento che le aveva concesso di esprimersi al meglio.
“Posso dirlo io a tua madre?”.
Rise del suo entusiasmo tutt'altro che propenso a scemare ma annuì e lo seguì con lo sguardo fin quando non si allontanò, il cellulare tra le mani e il sorriso orgoglioso.
“Ha ragione, lo sei stata davvero”.
Si era voltata, il sorriso ancora sulle labbra nell'osservare il ragazzo. Tutti i giudici lasciarono la stanza, uno dei tre sconosciuti le strinse la mano, rinnovandole i complimenti; gli altri due le sorrisero con aria d'approvazione. Soltanto Kitty si limitò a riservarle un'occhiata astiosa ma si allontanò senza alcun commento.
“Ti ringrazio”, aveva sussurrato e sperava che Hunter comprendesse che il ringraziamento non si limitava a quel complimento, ma a tutto a ciò che aveva fatto, dalla prima volta che l’aveva scorta ballare e l’aveva spronata a sostenere il provino.
“Ora, con tuo permesso, vorrei informare Lord Tubbington”.
Aveva sorriso il ragazzo, l'aria divertita. “Permesso accordato”, le fece cenno di precederlo e procedettero insieme lungo il corridoio.
“Quindi”, Brittany ne stava scrutando il profilo. “Ti vedrò ballare”, concluse con aria soddisfatta, il sorriso repentino sulle labbra nell'osservarlo con aria divertita.
Hunter si volse ad osservarla: un'occhiata imperscrutabile prima che inarcasse le sopracciglia per poi scuotere il capo. “Irriverente”, borbottò per risposta, strappandole una risata di puro divertimento. Non disse altro, il ragazzo, ma dalla piega delle labbra sembrava lui stesso mascherare il sorriso.


~

Era divenuto qualcosa di naturale: quasi la sua voce e i suoi giochi con i gatti fossero divenuti parte stessa di quelle pareti. Hunter si sorprendeva sempre più spesso a realizzare quanto fosse stato semplice abituarsi alla sua presenza, quasi fosse sempre stata parte di quella sua quotidianità. E senza che, considerandone l'indole riservata, provasse una sgradevole sensazione d’invasione dei suoi spazi. Anche quando non presente, si ritrovava a lasciar vagare lo sguardo sull'angolo del divanetto sul quale si adagiava a coccolare il suo enorme felino (immaginava che sollevarlo fosse un dispendio di non poche calorie) o i punti in cui lanciava la pallina che Mr Pussy si affrettava a cercare di catturare per poi inseguirla o inciampare sulla stessa. Quest'ultimo poi era lesto, al suo arrivo, ad avvicinarsi per strusciarle il musetto sulla caviglia, farle le fusa per accattivarsene la compagnia e una dose di coccole che non fosse inferiore a quella destinata al proprio animaletto. Sembrava esserci tutt'altra atmosfera rispetto a quel silenzio imbarazzato, quando la scorgeva le prime volte e si premuniva di non produrre il benché minimo rumore durante la sua lettura per il timore di essergli di disturbo. In realtà, capitava sempre più di sovente che, pur concentrato sulla lettura, sollevava lo sguardo oltre le lenti per osservarne il sorriso o l'espressione pensierosa e quella più malinconica e stanca (giorni in cui, presumeva, Kitty le avesse affibbiato incombenze più gravose).
Lei stessa sembrava essere cambiata: non era la ragazza permalosa, puerile e testarda in cui si era imbattuto che gli negava ogni speculazione sulla sua estraneità a quell'ambiente. Al contrario ne sembrava più che consapevole ma questa fragilità sembrava divenuta il suo punto di forza per cercare di riscattare l'opinione generale, soprattutto quello della sua aguzzina personale. Si domandava se lei stessa si rendesse conto di quella lenta evoluzione che gli faceva credere che quell'ambiente la stessa aiutando a crescere.
Di certo, la loro interazione era cambiata ed era qualcosa di tangibile e palpabile persino ad occhio esterno, a giudicare dalle occhiate che avevano attratto quel giorno.
Non aveva cambiato idea circa la sua poca appartenenza a quel contesto, ma era ammirevole come stesse riuscendo ad integrarsi. Continuava a pensare che la sua motivazione dovesse forgiarsi di qualcosa di più forte della semplice volontà di cambiamento. Aveva idea risiedesse in uno spirito di sacrificio o un senso di colpa latente, qualcosa che affondava le radici nel rapporto con la madre (la quale pareva tutt'altro che una persona rancorosa, senza contare la sua adorazione per la figlia) e che probabilmente lei stessa ignorava ma che rendeva ogni sua decisione al riguardo già improntata in uno stampo di cui non si sarebbe facilmente liberata. Ma era stato pochi giorni prima (e poco prima ne aveva avuto la conferma), che aveva compreso quale fosse la sua vera aspirazione. Qualunque attività avesse a che fare con la danza, avrebbe dovuto vederla primeggiare: c'era qualcosa di unico e particolare nell'osservarla in quegli istanti. Era il modo in cui i movimenti disegnavano perfettamente l'aria, il modo in cui fosse tutto armonico e poetico, come il sorriso sulle sue labbra o lo sguardo divenuto più intenso a contemplare se stessa. Così la sua figura era rivestita di una femminilità e di una grazia che aveva scorto in modo evidente, nascoste spesso in una divisa che la infagottava in modo ingeneroso o in uno sguardo più spento e desolato.
Sapeva già da quel mattino, quando aveva sorriso a vederne la firma svolazzante (l'unica in rosa, tra l'altro, e spiccante tra tutte le altre) sul modulo dei candidati alle audizioni, cosa avrebbe dovuto aspettarsi. Ma ciò non aveva tolto fascino ed entusiasmo a quel momento di grande aspettativa.
Fu in quel momento che si accorse che la giovane, Mr Pussy arrotolato tra le sue braccia le cui zampette ne sfioravano il volto, lo stava guardando e che evidentemente non aveva risposto ad una sua domanda. “Vuoi che esca? Non voglio disturbarti”, ripeté in un sussurro, accennando al libro rimasto ignorato negli ultimi istanti, la matita abbandonata sullo stesso.
Scosse il capo bruscamente e tolse gli occhiali. “Non preoccuparti, ho finito”, le disse in tono composto, lo sguardo nuovamente catturato dal modo in cui Mr Pussy si stava sfregando sotto il suo mento, strappandone una risatina divertita nel carezzarne il mento.
Si era alzato, sentendo le gambe intorpidite, ed aveva osservato l'orologio con un'espressione di vaga sorpresa. “Andrò alla mensa, vuoi che ti porti qualcosa da mangiare?”.
Non sembrava essere affamata, il che poteva essere spiegato dalla quantità (industriale) di leccornie con cui si era intrattenuta dopo l'audizione. Aveva scosso il capo, Brittany, ancora sorridente e i capelli ondeggiarono sulle spalle. “Mangerò più tardi, ti ringrazio”.
Annuì. “A dopo”, si congedò.
C'era qualcosa di rassicurante al pensiero che, seppur per un gatto, la sua presenza avrebbe ingentilito quelle pareti e quella fragranza alla fragola sarebbe rimasta sospesa tra le stesse, almeno fino a quando, con quelle movenze agili, non sarebbe uscita. Scosse il capo a quel pensiero stucchevole, ma ebbe la netta sensazione del suo sguardo limpido addosso, fino a quando non ebbe varcato la soglia della porta.
“Sai, forse dovrei dirglielo che mi piace anche lui e non solo tu... ma è un segreto tra noi, vero?”, aveva sussurrato e Mr Pussy aveva miagolato in risposta.
Non si era neppure accorto di star sorridendo, Hunter, almeno fino a quando non varcò la porta del repertorio: Finn Hudson, che stava ingozzandosi con aria beota di spaghetti, restò folgorato. Se ciò fosse dovuto al terrore che gli innescava o al fatto che stesse sorridendo, non avrebbe saputo dirlo. La polpetta, infilzata con la forchetta, gli cadde in grembo e con un “CAVOLO!”, cercò di pulirsi maldestramente con una salvietta pulita.
Sospirò, Hunter, e distolse lo sguardo, sperando che quell'immagine non gli rovinasse l'appetito.
“Qualcuno sembra di ottimo umore”, fu il commento di Jonathan, il vassoio già tra le mani e un posto al tavolo degli insegnanti già prenotato.
Il figlio scrollò le spalle. “Hudson ha sempre la faccia ebete di fronte ad un piatto: stavo pensando di proporre a Mrs Rose di usare del fango al posto del sugo per un esperimento”.
“Ma io non parlavo di lui”, fu la pacata risposta del padre che l'attimo dopo si fece serio. Sotto lo sguardo interdetto del figlio, dopo essersi posto il vassoio sul palmo di una mano, si sporse a prendere un pelo che era rimasto sulla sua divisa e sembrò analizzarlo con la stessa meticolosità di un chirurgo che debba trovare il giusto lembo di tessuto sul quale operare. “Non sapevo che Clarence stesse diventando brizzolato”, aveva commentato, un angolo delle labbra sollevato e un guizzo complice nello sguardo.
Fu un solo fatale istante quello in cui (e non era una delle domande meno bizzarre che si fosse posto) si domandò se lui e Neal non avessero parlato persino del gatto obeso che non avrebbe dovuto trovarsi in quell'Accademia. “Credo che andrò a mangiare”, borbottò e si volse prima che potesse aggiungere qualcosa.


Non c'era nulla di strano, si disse, in quello che aveva appena fatto. Insomma, aveva mangiato qualcosa di leggero e gli era casualmente, caduto l'occhio su un dolcetto guarnito di fragole che aveva immaginato fosse stato preparato per uno sfizio personale della cuoca, visto il menù monotono e proteico che era studiato per l'alimentazione degli studenti. E comunque non sarebbe stata certo obbligata a mangiarlo: magari avrebbe scoperto che era allergica alle fragole. Aveva senso spruzzarsi addosso la fragranza di un frutto a cui si era allergici?
Si costrinse a rientrare prima che il suo raziocinio fosse davvero tentato di dare una risposta al quesito. Schiuse la porta e Mr Pussy miagolò in sua direzione e scese dal divanetto con un movimento agile per raggiungerlo. La ragazza, come notò subito, era stesa, le braccia ancora piegate in quella sorta di culla in cui aveva ospitato il suo gatto e si era assopita. I capelli ricadevano sul bracciolo del divano come grano lucente, le labbra ancora increspate in un sorriso e il respiro lento e graduale.
Muovendosi senza fare rumore, appoggiò il dolcetto sulla scrivania e sembrò indeciso per qualche istante se dovesse svegliarla o meno: Lord Tubbington lo osservava con aria circospetta, appollaiato sull'altro bracciolo, mentre vegliava il sonno della padrona. Gli dispiaceva l'idea di disturbarne il riposo sereno come quello di una bambina.
Si chinò lentamente, dopo aver preso una risoluzione, e la prese tra le braccia per poi sollevarla, attento a non scuoterla troppo. Emise un mugugno soffuso, Brittany il cui viso, con un movimento simile a quello di un micio che si arrotoli nella sua cesta, si appoggiò al suo petto, ma non si mosse. Un solo istante quello in cui indugiò ad osservarne l'espressione ancora beata e completamente abbandonata al sonno. Il tempo era parso fermarsi in quel lungo istante nel quale, nel sonno della ragazza, sembravano esserci risposte e verità che aveva ignorato fino a quel momento. Un senso di completo abbandono, di serenità e di naturalezza che sembravano non appartenergli più.
Si riscosse e raggiunse il suo letto: ancora attento a non compiere movimenti bruschi, la stese sullo stesso. Ne scostò una ciocca di capelli che le scivolata sulle labbra, una traccia impercettibile che le sue dita lasciarono sul suo zigomo. Si mosse, la ragazza, sembrò volgere il viso alla ricerca dell'ulteriore contatto con le sue dita.
Si allontanò e aprì l'armadio per trarne una coperta pesante che adagiò sul suo corpo per poi puntellarla, ma fu un soffio appena percepibile quello che ne uscì dalle labbra.
“Per la cronaca, mi piaci anche tu”.
C'era silenzio anche quella sera ma, per la prima volta da quando era solo un bambino, mentre s’improvvisava un giaciglio nel proprio divano, sembrò promettere che tutto sarebbe andato bene.


Ti guardo dormire tranquillamente nel mio letto,
tu non lo sai adesso ma
ci sarebbe bisogno di dire qualcosa.
E' tutto ciò che posso capire,
è più di quanto possa sopportare.
(Hazy – Rosi Golan2)

To be continued...


1 Si tratta della scena, capirete perché lo specifico se già non lo sospettate, in cui il Principe Filippo sorprende Aurora mentre balla nel bosco. Per chi fosse interessato alla melodia, ecco qui il link della performance di Emily Osment con il riadattamento più moderno (video musicale inserito nel dvd restaurato nel 2008, in occasione del cinquantesimo anniversario dell'uscita del lungometraggio del 1959 ).  Once Upon A Dream - Emily Osment
 2 Per chi volesse sentire il brano e vederne il testo originale: Hazy - Rosi Golan


Personalmente questi momenti sono tra i miei preferiti: non fosse altro perché spesso ritengo che la parte dell'innamoramento e della presa di coscienza risultano persino più dolci della scena romantica di per sé. Non so quanto sia condivisibile questo pensiero, ma spero la lettura sia stata gradevole quanto lo è stata la stesura.
Ci tengo, come sempre, a ringraziare chiunque legga, soprattutto le mie fedeli e dolcissime recensitrici *manda unicorni galoppanti con tanti cuoricini per ognuna
Ma diamo un'occhiata al prossimo capitolo:

E' più distratta del solito o sbaglio?” “Altroché! Una bella distrazione che si chiama-”. “MAMMA!”.
Io vorrei ringraziarti, Brittany” “Me?” “Per una cosa, anzi due. La prima è perché non ti addormenti più durante le mie lezioni...” […]
Hunter?” “Sì?” “Io...” “Hunter! Giusto in tempo per la torta!” “Signore...” “Vieni dentro! Prendi la torta con Brittany, Shirley e me”.

Credo che con il ghigno/sorriso appena apparso sulle labbra, non mi resta che augurarvi un buon weekend :)
Un saluto a tutti,
Kiki87


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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


capitolo 7
«C'era una una volta un castello incantato, il suo padrone sembrava gelido come l'inverno. Nel profondo del suo cuore era intrappolata una rabbia incontenibile. Sebbene circondato da servitori, egli era del tutto solo e da un semplice atto di gentilezza, egli seppe che qualcuno si preoccupava che il Natale quell'anno trascorresse scambiandosi dei semplici doni. Ma il regalo più grande che ognuno ricevette fu il dono della speranza.»

Lumière: "C'è qualcosa nell'aria: potrebbe essere amore!"
Fife: "Amore?! Ah, ah, ah, ah, AHH, devo fermarli!".
[Citazioni da “La Bella e la Bestia: un magico Natale1 -Walt Disney]


Capitolo 7

Quando schiuse gli occhi non riconobbe la camera in cui si trovava: si rese conto, tuttavia, che non c'erano i soliti rumori che ne accompagnavano il risveglio come il russare di Lauren dall'altra parte della stanza o la presenza del braccio di Marley che penzolava dal letto superiore.
Sbatté le palpebre, strofinandosi la mano sul viso e realizzò che indossava ancora i panni del giorno precedente. Lord Tubbington le si accoccolò in grembo con tanto di fusa e Brittany sorrise nello sfiorarne il manto tigrato. Il ricordo del giorno precedente parve fulminarla sul posto e si sollevò con il torso. Nello stesso istante, la porta della camera fu schiusa ed Hunter ne valicò la soglia: era già vestito di tutto punto, aveva l'aria più che attiva e reggeva due tazze. Le rivolse un cenno del capo e la ragazza cercò di dissimulare l'imbarazzo che le sfiorò le gote a realizzare di aver trascorso l'intera notte nella sua camera, persino occupandone il letto, anche se era quasi certa di essersi appisolata sul divano, o almeno ciò era l'ultimo ricordo della serata precedente.
L'idea che l'aveva persino deposta sul letto, le procurò un singulto d'emozione e un nuovo batticuore ma il ragazzo sembrava perfettamente composto, come sempre. “Stavo per svegliarti”, le disse nell'avvicinarsi, il viso inclinato di un lato. “Hai tempo di sgattaiolare prima che le altre si sveglino”.
“I-Io, mi dispiace. Avresti dovuto svegliarmi: sarei tornata in camera mia”, si era morsicata il labbro. “Non dovevo dormire sul tuo letto, anche se è comodissimo”.
Aveva sorriso vagamente divertito il ragazzo. “Mi fa piacere”, convenne, ma scosse il capo. “In realtà ti ho spostata io: ti eri addormentata sul divano”.
Brittany notò la coperta che era stata ripiegata e che doveva aver estratto dall'armadio per potersi coprire.
“Non avresti dovuto disturbarti tanto, fai già molto per me”, aveva ammesso, le guance ancora colorate.
Si strinse nelle spalle Hunter. “Non hai motivo di scusarti: se mi fossi stata di disturbo, ti avrei svegliato o avrei chiamato Kitty. Buttarti giù dal letto credo sia una sua specialità”, aveva aggiunto con aria complice e persino Brittany si concesse di sorridere, seppure la sola idea che li scorgesse in quel momento era sufficiente a procurarle un singulto terrorizzato.
Prese la tazza che lui le porgeva con un sussurrato ringraziamento, immaginando del caffè o del the ma sorrise con aria meravigliata dopo averne sorseggiato un sorso. “Cioccolata?”.
“Mi sembravi il tipo da cioccolata”, rispose lui con una scrollata di spalle.
“Perché sono una ragazza?”, aveva chiesto d'impulso.
“Perché sei dolce,” fu l'istintiva risposta, ma parve sussultare lui stesso l'attimo dopo, perché si affrettò a correggersi. “e da quanto ho notato con le merendine, sei piuttosto golosa”.
Aveva annuito, Brittany, malgrado il rossore, ma gli aveva nuovamente sorriso. “E' perfetta, rischio di passere l'intera giornata a ringraziarti”, aveva aggiunto in tono divertito.
Si crogiolarono in quel lieve silenzio sceso tra loro, si era accomodato sul bordo del suo stesso letto a sorseggiare la sua tazza – si era chiesta se lui fosse tipo da caffè amaro o se avesse fatto a sua volta uno strappo alla regola – e Brittany aveva lasciato vagare nuovamente lo sguardo sulla camera e i primi placidi segni di luce dall'esterno. Aveva notato, sulla scrivania del giovane, le fotografie che raccontavano della vita in Accademia, una foto con il padre, ma nessuna fotografia della donna che era scomparsa, quando era solo un bambino e neppure di Kitty (e ciò l'aveva fatta segretamente sorridere con aria soddisfatta).
Sussultarono al suono della sveglia del ragazzo e Brittany realizzò che da lì a pochi minuti sarebbe suonata la tromba e avrebbe dovuto trovarsi nella sua camerata per non destare sospetti. “Sarà meglio che vada”, si affrettò a sollevarsi dal letto, depose una carezza sulla testa dei felini e si affrettò ad avvicinarsi alla porta, accompagnata dal ragazzo.
Indugiò sulla soglia dell'uscio, tuttavia. “La migliore cioccolata di sempre”, sussurrò, dondolando appena le braccia strette in grembo.
“Sono certo che si tratti di una lode più che ponderata, farò in modo che Mrs Rose la riceva”, le trattenne l'uscio aperto. “E ora sparisci, prima che Kitty ti scopra”. Aveva parlato in tono leggero, l'intonazione canzonatoria e complice, ma Brittany aveva sussultato alla realizzazione di ciò che avrebbe potuto significare. E quanto la sua presenza potesse essere di troppo o dare adito ad equivoci. Si era morsicata il labbro, ma aveva annuito, cercando di ignorare quella sensazione sgradevole di un nodo a stringerle la gola.
“Brittany?”.
Si volse istantaneamente: Hunter sembrò indugiare, la figura che occupava totalmente la soglia della camera. Sembrava avere difficoltà a trovare qualcosa da dirle. O forse non erano le parole a mancare, ma vi era la consapevolezza che non era il momento giusto. Aveva scosso il capo, Hunter, che sembrava in dissidio con se stesso. “Spero tu abbia dormito bene”, concluse, le braccia strette al petto.
Aveva sbattuto le palpebre, Brittany, la vaga sensazione che ci fosse ben altro di sottinteso, seppure non capisse esattamente che cosa. Annuì, tuttavia, un sorriso nello scostarsi i capelli dal volto. “Mai così bene”, aveva sussurrato, infine, la voce più flebile.
Parve rilassarsi, Hunter, che si concesse un altro sorriso. “Bene, sarà meglio che ti lasci andare”.
“Bene”, aveva ribattuto lei, voltandosi dopo un ultimo cenno della mano.


~

Per quanto la vita in Accademia fosse ancora dura, soprattutto per grazia dell'inflessibilità di Kitty, il tutto sembrava essere compensato dalle ore trascorse al Glee Club. Era la prima volta che Brittany si trovava coinvolta in un progetto di gruppo, ma era non poco soddisfacente sentirsi gratificata per un'attività nella quale poteva totalmente investire se stessa e con ottimi risultati. Persino Kitty doveva rendersene conto perché sfogava le frustrazioni, concentrandosi su Marley, la vittima preferita, prima del suo arrivo in Accademia.
Era di gran lunga piacevole lasciare il campo d’allenamento e potersi dedicare ad un'attività fisica che avveniva in un luogo chiuso e al caldo, soprattutto con l'avvento dell'inverno e il freddo persino più pungente (Kitty avrebbe continuato a farle allenare anche con la neve?), e abbandonarsi ad un'atmosfera più distesa e meno formale. In quell'aula si potevano, entro certi limiti naturalmente, porre da parte persino le differenze di gradi ed essere uniti per un obiettivo in comune.
Era stata durante l'ultima prova prima della pausa natalizia e si era diretta all'aula di danza con un po' d’anticipo, nella speranza di un po' di tempo per esercitarsi prima dell'arrivo degli altri ma, ancora prima di varcare la soglia della camera, realizzò di non essere stata l'unica ad avere avuto quell'idea. Sentì una voce maschile che riconobbe con un sorriso, malgrado stesse intonando una canzone. Si avvicinò incuriosita, attratta dal timbro profondo e piacevole, tanto da farla letteralmente sospirare nell'avvicinarsi alla soglia, almeno fino a quando non scorse Kitty.
Poteva ben immaginare perché Hunter l'avesse definita la voce femminile del gruppo: dai suoi modi così autoritari e bizzosi, non avrebbe immaginato che potesse a sua volta avere una voce tanto incantevole nel canto, il timbro persino dolce.
Restò appollaiata all'uscio con un sospiro: doveva ammettere, con un nodo in gola, che non soltanto le loro voci erano perfettamente armonizzate ma che sembravano persino... perfetti insieme. Specialmente quando lei gli si avvicinò con quel sorriso più allusivo e smaliziato e sentì il respiro mancarle. Dovette scostarsi dalla porta, le guance arrossate e la contrazione dolorosa in petto. Guardarli in atteggiamenti da innamorati era decisamente insopportabile ma se ciò facesse di lei una persona meno buona, non poteva negarsi quella sensazione di puro fastidio.

“Brittany?”.
Non si era resa conto di aver letteralmente spezzato il bastoncino di zucchero che aveva tra le dita, mentre ripensava a quel momento.
Sua madre, ancora intenta a decorare la casetta di marzapane, le rivolse un'occhiata incuriosita. Parve illuminarsi alla vista del bastoncino troncato in due e ammiccò con fare complice e divertito.
“Qualche Hunter-pensiero?”, le chiese in tono accattivante. “... dubito si spezzi in quel modo, ma sono sicuro che tutta questa grinta sarebbe interessante per lui”.
“Mamma!”, protestò la ragazza con le guance infiammate, mordicchiando una delle estremità della caramella.
Si era pulita le mani con un canovaccio, Shirley. “Prima sospiri e poi ti rabbui”, si era sporta in sua direzione. “Sentiamo, che ha fatto quella strega?”.
Gemette scandalizzata: non tanto l'uso di quell'epiteto quanto la facilità con cui sembrava leggerle il pensiero. “Non è una strega: è il mio Capitano e mi odia”, aveva replicato con una scrollata di spalle che aveva fatto ridacchiare sua madre.
“Che strano!”, esclamò in tono evidentemente ironico.
“Non c'entra... lui.” di fronte al sopracciglio inarcato della madre, si affrettò ad aggiungere: “Ok, non soltanto lui”. Aveva abbassato la voce, sentendo Neal canticchiare in salotto. “E poi... forse stanno davvero insieme”.
Aveva inarcato le sopracciglia, Shirley, le mani sui fianchi. “Quindi quando sei nella sua camera, la nasconde sul soffitto?”, aveva replicato la madre, le labbra contratte a cercare di nascondere il sorriso. “Davvero un latin-Hunter2”.
“Potresti smetterla di ripetere il suo nome?”. L'aveva supplicata, la voce evidentemente più incerta ed insicura, gettando un'occhiata al soggiorno per sincerarsi che Neal non sentisse.
Hunter, Hunter, Hunter, Hunter, Hunter”. Aveva ridacchiato l'altra, prendendo l'altra metà del bastoncino di zucchero con la medesima passione per i dolci.
“Molto matura”. Aveva esibito un bel broncio, Brittany.
“Disse colei che si era sporcata il naso di glassa”.
“Non è ve-”, trasalì quando sua madre si sporse a toccarle il viso con un sorriso furbo.
“Magari vi rivedrete: Neal mi parla così tanto di Jonathan che potrei quasi sospettare stia cercando di darmelo in marito”.
Aveva ridacchiato, Brittany, ma aveva scosso il capo. “Magari”, ripeté.
“Sempre che tu possa sposare un fratellastro”, aggiunse l'altra in tono indolente, una vaga scrollata di spalle, quasi si stesse realmente ponendo la questione.

Era notte quando Brittany aveva bussato discretamente alla sua porta: il giorno dopo sarebbe tornata a casa per le vacanze natalizie che avrebbero passato in quella stessa città. Era il momento propizio per riprendersi Lord Tubbington. Evidentemente il ragazzo la stava attendendo perché schiuse subito l'uscio: teneva il gatto tra le braccia e Brittany lo prese con un sorriso, stringendolo a sé e gli rivolse un sorriso.
Grazie di tutto”, aveva sussurrato.
Scosse il capo, Hunter. “L'ho fatto con piacere”, le aveva detto con un sorriso.
Avevano indugiato qualche istante, probabilmente non lo avrebbe rivisto per due settimane e non poté evitare di sentire quel nodo in gola.
Buon Natale, Hunter”, si era sollevata istintivamente sulle punte per appoggiare appena le labbra contro la sua guancia, ma non aveva potuto impedirsi di sentire una scarica elettrica lungo la spina dorsale, soprattutto di fronte alla luce dello sguardo verde e l'incrinatura più dolce delle labbra.
Ci rivedremo presto, ma intanto…”, si era chinato appena e, una mano a scostarle i capelli con un gesto semplice e naturale, aveva appoggiato le labbra sulla sua fronte.
Aveva socchiuso gli occhi la ragazza, cercando di indugiare in quel momento, quasi potendone trarre quanto di meraviglioso celasse.
Buonanotte”.
Notte, notte”. Si era voltata, ma le era piaciuta l'idea che non avesse chiuso la porta fino a quando non aveva svoltato l'angolo ed era scomparsa dalla sua vista.

“Brittany?”.
Si riscosse nuovamente e sua madre le sorrise, il fidanzato alle sue spalle.“Neal ci stava chiedendo se volessimo andare con lui a cena fuori”, le fece presente.
“Certo, vado subito a cambiarmi”, aveva sorriso ad entrambi e si era affrettata a scendere dallo sgabello per non subire un nuovo interrogatorio.
“E' più distratta del solito o mi sbaglio?”, Neal che aveva cinto la vita della donna e appoggiato il mento alla sua spalla, ne stava studiando il profilo con le sopracciglia inarcate.
Sorrise, Shirley, volgendo appena il viso ad osservarlo. “Altroché!”, esclamò con voce squillante. “Una bella distrazione che si chiama-”.
“MAMMA!”, ne sentirono l'esclamazione rimbombare in tutta la casa e risero entrambi.
“In effetti, forse dovremmo continuare la conversazione tra donne”, Shirley aveva baciato la guancia dell'uomo per poi divincolarsi dolcemente.
“Immagino non ci sia alcuna probabilità che io sia incluso”, aveva domandato, un vago sorriso divertito e la donna si era voltata a guardarlo.
Inclinò il viso di un lato, le sopracciglia inarcate. “Pronto a preoccuparti di ragazzi e appuntamenti?”.
Aveva deglutito a fatica, Neal. “Decisamente no”.
Aveva scrollato le spalle, Shirley. “Allora prendo congedo, Signore”, aveva imitato il gesto militare con tono enfatico prima di sgattaiolare fuori della cucina. “Britty Woman, non abbiamo finito!”.
Sorrise, Neal e scosse il capo. Era tutto perfetto. Si sporse con il dito proteso verso il tetto della casetta di marzapane.
Almeno fino a quando non sentì un deciso: “Non provarci neppure!”. Scorse la donna appoggiata alla porta che lo guardava con aria minacciosa.
Rise e scosse il capo. Quasi perfetto.

~

Il Natale con mamma e Neal si era rivelato molto più piacevole di quanto si sarebbe potuta immaginare. Solo, Brittany aveva percepito un lungo momento d’apnea nel momento in cui, di fronte a quello sguardo raggiante, aveva scartato il regalo del suo patrigno, quasi quella busta gialla contenente i documenti relativi all'adozione, pesasse tra loro come un macigno.
Li aveva osservati a lungo, sua madre e Neal, seduta sulla rampa delle scale che conducevano al piano superiore, stringendosi le ginocchia al petto, avvolta nella sua camicia da notte.
Stavano lavando i piatti al lavello, giocando e sorridendosi come se la loro unione fosse nata da ben prima. Vi era una tale armonia e una sensazione di calore e di famiglia cui avrebbe voluto prendere parte, ma sembrava ancora non esser giunto il momento in cui ciò sarebbe stato naturale e spontaneo e Brittany cominciava a domandarsi, con crescente ansia, quando sarebbe accaduto. E se ci fosse qualcosa di sbagliato dentro di sé che lo stava impedendo.
Natale era presto passato e il nuovo anno sarebbe cominciato con la festa organizzata da Neal e che Shirley aveva appoggiato con il solito entusiasmo alla prospettiva di conoscere nuove persone ed includere quelle già incontrate in quei mesi.
Da parte propria, Brittany non aveva provato una simile fibrillazione neppure al ballo o tanto meno dedicato così tanto tempo (con correlativa trepidazione e timore) alla scelta dell'abito, del make up e dell'acconciatura. Ma non poteva negare che l'occasione che si stava presentando era più che allettante, seppur non proclamata (ma certa che sua madre lo avesse già capito, visto come lo sguardo azzurro scoccasse in sua direzione con aria saputa).
Era già in salotto, il drink in mano e gli occhi che saettavano tutto attorno, tra visi ed abiti diversi, trasalendo ogni volta che sentiva suonare alla porta e uno dei due adulti si affrettava ad andare ad aprire, immaginando di chi si trattasse per il modello dell'auto o la sagoma intravista dalla finestra con l'ausilio delle luci decorative disseminate anche nel giardino.
“E' l'auto di Jonathan”, sentì dire a Neal e fu spontaneo slanciarsi alla porta quando, qualche istante dopo, sentì il trillo del campanello. Finse di non accorgersi del sorrisetto che increspava le labbra della madre ma, lo sguardo entusiasta e carico d’aspettative, schiuse l'uscio.
Trovò Jonathan, in un elegante cappotto a doppiopetto, che le rivolse un sorriso. “Buonasera, Brittany”.
“Buonasera, Professore”, lo ricambiò.
L'uomo scosse il capo e le sorrise con fare bonario, il viso inclinato di un lato. “Jonathan,” precisò. “per stasera sono solo Jonathan”.
Entrò ma Brittany trattenne l'uscio aperto e gettò un'occhiata interrogativa verso il giardino. L'uomo, che stava togliendosi il cappotto, rivelando uno smoking scuro che ne fasciava perfettamente la statuaria figura, sembrò intuire il suo pensiero. “Purtroppo Hunter non è potuto venire”.
“Oh”. Sentì il cuore fermarsi in petto, ma cercò di mascherare la delusione. Dopotutto sarebbe stato più che naturale che avesse preferito trascorrere la serata con gli amici o... con Kitty, ed era stata una mera e sciocca illusione quella di poterlo avere con sé.
Jonathan la stava scrutando curiosamente, ma l'impaccio di trovare qualcosa da dire le fu risparmiato dall'arrivo di Neal che esortò l'amico ad unirsi alla compagnia.
Chiuse la porta alle sue spalle, Brittany, e si guardò mestamente attorno: persino nella sua nuova casa, in quel momento, faticava a sentirsi parte di quell'atmosfera. Abbandonò il proprio bicchiere su uno dei tavoli del buffet e salì le scale verso la propria camera. Cercava di non pensare a quanto si sentisse sciocca per avere immaginato che quella serata avrebbe avuto tutt'altra piega o quanto sarebbe stato bello constatare che anche lui avesse aspettato quel momento per rivederla.
Si accomodò sul pouf di fronte alla toletta e imbevette il cotone con dello struccante, pronta a detergere il viso, quando intravide la silhouette della madre dal riflesso dello specchio.
“Britty Woman, che stai facendo?”.
Sorrise appena del nomignolo ormai storico e sua madre si avvicinò, si appoggiò con le ginocchia al pavimento e ne scostò una ciocca di capelli dal viso. Brittany, tuttavia, ne evitò lo sguardo.
“Non avrei dovuto perdere tempo a truccarmi”, sussurrò con voce tremante e scosse il capo.
“Sono sicura che già si pente di non essere qui con noi”, fu la delicata risposta, ma Brittany scosse nuovamente la testa.
“Perché dovrebbe?”.
“Chiediglielo”, rispose prontamente. Era quasi divertente quel suo modo di fare sempre pragmatico e la schiettezza nel parlare di chiunque e con chiunque, senza la benché minima esitazione o imbarazzo.
“Se anche volessi, non ho il suo numero”.
“Potresti distrarre suo padre, io gli ruberò il telefono”, aveva proposto e in tono così serio e composto che le strappò una risata divertita, malgrado tutto. “Oppure, sua madre le aveva ripassato le labbra con il rossetto. “potresti scrivergli una lettera: sarà come parlargli di tutto ciò che senti e potrai decidere se dargliela o meno, prima o poi”.
“Una lettera”, parve rifletterci, le sopracciglia inarcate e lo sguardo perso in un punto indefinito.
“Intanto porta il tuo bel faccino di sotto: non ti permetterò di restare in camera e da sola. ”. Le aveva cinto la mano e si era rimessa in piedi, attendendo che la seguisse. “Suggerirei una fotografia con l'amichetto di Marley, tanto per testare la gelosia. O per vedere chi ha le spalle più ampie: me lo sto chiedendo da quando me lo hai presentato”, era parsa seriamente curiosa al quesito.
Scosse il capo, Brittany, ma già più serena. “Scenderò tra due minuti”, promise, stringendole la mano e sorridendole. “Grazie, mamma”.
“Buona fortuna: ho già detto che mi piace?”.
“Svariate volte, ma so anche leggere tra le righe”, fu l'ironica risposta.
Scrollò le spalle, Shirley, apparentemente indifferente a quell'evidenza. “Era per controllare, a dopo”.

Non era andata come aveva sperato, ma la serata era piacevole, soprattutto la compagnia di Marley e di Ryder, pur sentendo addosso lo sguardo della madre. Stava scegliendo uno stuzzichino con cui riempire lo stomaco dopo aver passato l'intera ora tra balli di gruppo, quando la sagoma di Jonathan si fermò al suo stesso tavolo. Aveva ancora un drink tra le mani e sembrava che stesse scegliendo a sua volta qualcosa da sgranocchiare.
“Ti stai divertendo?”, le chiese in tono pacato e curioso.
“E' una bella serata”, rispose la ragazza, reclinando appena il capo per osservarlo.
Aveva annuito, Jonathan, lo sguardo verde identico a quello del figlio e Brittany aveva cercato di non soffermarsi su quella somiglianza. Le stava ancora sorridendo, ma parve farsi pensieroso prima di inclinare il viso di un lato, dopo essersi inumidito le labbra con l'analcolico. “Io vorrei ringraziarti, Brittany”.
“Me?”, aveva chiesto confusa e spiazzata. Ma si predispose all'ascolto: sapeva naturalmente quanto Neal gli fosse affezionato e che non a caso ne sarebbe stato il testimone di nozze, ma era sempre sembrato poco ciarliero. O il tipo di persona che non era affatto avvezza a parlare a sproposito.
“Per una cosa, anzi due: la prima è perché non ti addormenti più durante le mie lezioni”. Sorrise dello strato d’imbarazzo che ne aveva imporporato le guance, ma vi era lo stesso alone complice dei sorrisi più divertiti di Hunter.
“La seconda,” continuò con lo stesso tono composto e lo sguardo era divenuto più intenso nell'osservarla attentamente. “è perché credo che la tua presenza sia stata la cosa più piacevole capitata a Hunter in questi ultimi mesi”.
Aveva sgranato gli occhi, Brittany e l'uomo aveva annuito con molto sussiego. “Lo fai sorridere come non accadeva da troppo tempo”.
Il ricordo delle parole di Neal alla festa la fece sospirare, ma aveva parlato con tono così solenne che non poteva che esserne lusingata, seppur timorosa che una propria domanda od osservazione potesse lederne la discrezione o essergli fonte di disagio. Ma c'era comunque qualcosa che poteva dirgli e che probabilmente gli era dovuto, visto la gentilezza che le aveva riservato. Gli sorrise, il viso inclinato di un lato e le gote colorate.
“Tengo molto a lui, vorrei anche io che sorridesse più spesso”.
Jonathan aveva annuito, prendendo un bicchiere di analcolico, dopo avergliene porto uno. “E lui a te”. Aveva cozzato il bicchiere contro quello della ragazza, ma si era dovuto congedare, un sorriso e una lieve pressione sulla sua spalla, quando Neal ne aveva reclamato la presenza.
Brittany rifletté a lungo su quelle parole: istintivamente sapeva che quella di Jonathan non era stata una formula di cortesia. Era stato uno degli ultimi a congedarsi dalla festa e Brittany non aveva mancato di indugiare nuovamente con lui sulla soglia. “Gli porti i miei saluti”, lo aveva pregato.
“Lo farò”, l'aveva rassicurata con un ultimo sorriso.


~

Quando rientrò in casa, trovò il figlio seduto sul divano, un libro tra le braccia e gli occhiali appoggiati sul naso. Non si era mosso, quando aveva riposto il cappotto, ma aveva appena sollevato lo sguardo dalle pagine del libro.
“Una bella serata?”, gli chiese.
Jonathan annuì, mossosi con incedere fluido verso la cucina, era tornato con due bicchieri e una bottiglia di spumante che aveva stappato con un movimento sicuro del polso, prima di porgerne uno al figlio. “Buon anno, figliolo”.
“Buon anno”, aveva ricambiato l'altro, abbandonando il proprio libro per un istante.
Stava ancora rigirando il liquido nel bicchiere, come un sommelier, Jonathan, mentre si abbandonava per un istante contro lo schienale del divano, osservandolo con la coda dell'occhio. “Una piacevole serata ma c'era una graziosa fanciulla che credo non stesse aspettando me sulla soglia dell'uscio”, aveva commentato con voce pacata, fissando il proprio bicchiere. “Anche se devo dire che lo specchio è stato molto generoso con me questa sera”.
Il fatto che non ci fosse alcuna intonazione scherzosa o maliziosa, non impedì al ragazzo di aggrottare le sopracciglia e boccheggiare appena.
“Ti manda i suoi saluti”, aggiunse il padre con la stessa flemma.
Annuì, Hunter, lo sguardo fisso sulle pagine del romanzo senza tuttavia leggerne le parole o comprenderne il significato. Provò ad immaginarla e un sospiro gli sfuggì dalle labbra.
Si era sollevato, Jonathan, evidentemente consapevole che non sarebbe riuscito a strappargli una maggiore confidenza, soprattutto se avesse provato a torchiarlo. Ma, dopotutto, certi fatti erano evidenti ad ogni buon osservatore, specie se palesati in modo spontaneo. “Credo che andrò a riposare: l'anno prossimo andrà bene, figliolo. Credo avrà in serbo molte novità”.
Annuì, Hunter, e parve davvero sperarlo.

~

Le vacanze di Natale erano scivolate via con inaudita velocità e, per quanto fosse piacevole trascorrere il tempo tra quelle che erano divenute le sue mura domestiche, cominciava persino a scalpitare all'idea che, da lì a poche ore, avrebbe nuovamente visto il giovane. Il pensiero si tradusse in una dolcissima aritmia e ciò che, nella sua mente, aveva preso a definire 'il mal di pancia da Hunter'.
Si soffermò ancora una volta: la valigia era piena solo a metà, ma esitò con un pullover tra le mani e lo sguardo corse alla scrivania. Una busta rosa era adagiata sulla stessa: la prima lettera che avesse mai composto. La stesura era avvenuta la sera di Capodanno: specchiarsi negli occhi di Jonathan Clarington e riceverne le parole di stima non aveva fatto che accrescere quel dolce batticuore e la nostalgia dell'altro viso altrettanto familiare. Aveva ripensato al consiglio della madre e si era accomodata di fronte alla scrivania: aveva preso fogli bianchi e la propria penna preferita dall'inchiostro rosa che risaltava come i petali di un fiore.
Aveva scoperto di non averne solo il bisogno, ma persino una predisposizione naturale per quanto lo stile ne rispecchiava la semplicità. Chissà se un giorno avrebbe avuto il coraggio di consegnargliela, si era chiesta spesso e volentieri quando il sonno faticava a giungere e carezzava Lord Tubbington addormentato sul suo grembo.
Sembrò indecisa, ma prese l'involucro nello stesso momento in cui, con un rapido guizzo, sua madre schizzò letteralmente nella stanza e fu lesta ad avvicinarsi alla finestra con la stessa agilità di una spia in un film d'azione.
La ragazza sbatté le palpebre con aria confusa. “Mamma, ma cosa-?”.
Si era abbassata bruscamente, Shirley, quasi avesse temuto di essere il bersaglio di un cecchino esperto. Si volse altrettanto rapidamente e le fu davanti, prendendole le spalle.
“Corri, corri di sotto: è lui!”
“Cosa? Di chi-?”.
“Presto! Ho distratto Neal con la torta!”, la stava letteralmente sospingendo fuori della porta.
Ancora stordita, la lettera in mano, Brittany scese rapidamente la scalinata: era a metà della stessa, quando sentì il campanello suonare.
“Apre Britty Woman!”, annunciò Shirley al piano di sopra e le fece cenno alla porta con aria esaltata, prima di nascondersi nella sua camera.
Scosse lievemente il capo, Brittany: d'accordo che il vicino non le piaceva per il vizio di sputare mentre parlava, ma sembrava un po' esagerato nascondersi addirittura.
Schiuse la porta, con aria rassegnata, ma il suo cuore si bloccò alla vista del giovane che, sull'ingresso del portico, la stava osservando. Quasi ispirato dai suoi stessi pensieri, eccolo lì.
Quasi due settimane erano passate dall'ultima volta che lo aveva scorto e il suo cuore iniziò a galoppare rapidamente nello scrutarlo. Se da un lato quel tempo di separazione era quasi parso infinitamente lungo ed insostenibile, dall'altro aveva la sensazione che il tempo si fosse persino fermato. Avrebbe potuto sporgersi di poco per poterlo sfiorare e appurare che tutto fosse reale.
“Ciao Brittany”, la salutò in un sussurro.
Lord Tubbington, sgattaiolato da sotto le gambe della padrona, miagolò in direzione del giovane quasi a mo' di saluto.
“Hunter”, sussurrò Brittany che deglutì prima di stropicciarsi i capelli, la mano appoggiata alla porta e il sorriso che ne addolciva l'espressione l'attimo dopo. Schiuse maggiormente l'uscio. “Vuoi entrare?”, chiese con voce rauca.
Sperò che fosse la sua immaginazione e, dal piano di sopra, sua madre non avesse realmente commentato a mezza voce un “trascinalo per la giacca!”.
Parve vacillare il ragazzo, ma scosse il capo e si umettò le labbra, una mano si sfiorò la nuca e se non lo avesse conosciuto a lungo nei panni del Capitano severo ed inflessibile (o quasi), avrebbe potuto pensare che fosse realmente nervoso in quel momento. “In realtà dovrei rientrare ma, visto che stavo passando di qua, stavo pensando...". Lo sguardo verde era adesso volto al micio e si schiarì la gola e alluse a lui con un cenno del mento. “... potrei prendere Lord Tubbington in anticipo: rientrerò presto domattina e sarà più facile portarlo nella mia camera”.
“Oh”, era parsa spiazzata la ragazza: aveva fatto quella deviazione soltanto per il suo gatto? Per quanto la sua cortesia fosse quasi... eccessiva, non poteva negare quella spiacevole sensazione. Delusione?
La cosa strana era che persino Hunter, in quel momento più corrucciato, non sembrava affatto contento.

Ma non era il caso di dimostrarsi poco riconoscenti, concluse tra sé, e gli sorrise. “Sei molto gentile”, aveva preso tra le braccia il felino che guardava dall'uno all'altra.
“Figurati, è un piacere”.
“Eccolo qua”, glielo aveva porto delicatamente e lo aveva osservato tra le braccia del ragazzo.
Lord Tubbington emise un miagolio ancora evidentemente confuso da quella nuova situazione.
Pareva il momento di lasciarlo andare: non c'era davvero altro da dirgli? Non che avesse sperato di sentirgli dire che era venuto per un saluto o con l'intenzione di vederla – se avesse voluto, in fondo, avrebbe potuto profittare di quelle due settimane di vacanza – ma... aveva almeno sentito un po' la sua mancanza? Anche solo una minima parte di quella che aveva provato lei? Sarebbe stato più che sufficiente. Indugiò nervosamente, morsicandosi il labbro, mentre Hunter sembrava soppesare di congedarsi, subito dopo aver estratto le chiavi dalla tasca della giacca.
“Hai passato delle belle vacanze?”, gli aveva chiesto d'impulso, simulando un altro sorriso allegro e spensierato, passandosi una mano tra i capelli, il viso inclinato di un lato. “Mi sei mancato”, si sentì dire con voce più flebile, ma tutto parve fermarsi nell'istante in cui l'autentico stupore sembrò alterare i lineamenti del ragazzo e Brittany sentì le guance ardere. “Alla festa”, aggiunse.
Era stata una sua impressione o, dal piano superiore, era giunto un verso d’esasperazione?
Che avesse sbagliato o meno, sapeva che non avrebbe comunque ritirato quelle parole, soprattutto quando il volto dell'altro si aprì in un sorriso che parve farne illuminare gli occhi. In modo repentino ed improvviso ma così spontaneo e naturale che le strappò un brivido lungo la spina dorsale.
“Mi dispiace essere mancato”, le disse, il viso inclinato di un lato nell'osservare gli occhi azzurri.
“Non dovevi sentirti obbligato”, aveva cercato di sminuire con un sorriso, scrollando le spalle. “E poi avrai avuto altri programmi con... altre persone”. Scosse il capo, quando l'immagine di Kitty le apparve di fronte con inaudita nitidezza.
Era parso pensieroso, Hunter ma, con sua sorpresa, aveva mosso un passo in avanti e si era chinato di modo che i loro occhi fossero alla stessa altezza. “E' stato bello ricevere i tuoi saluti: il modo migliore di cominciare il nuovo anno”, aveva proferito con voce profonda che le aveva fatto scalpitare più intensamente il cuore. Brividi caldi e freddi lungo la spina dorsale, le sue labbra s’incresparono in un sorriso, aveva insinuato la lettera nella tasca posteriore dei pantaloni, coperta dalla lunga blusa che indossava. Indugiò in quella posizione, ignorando Lord Tubbington il cui musetto si era sporto verso la padrona con un miagolio.
“Non è stato il modo migliore di concludere quello vecchio, non essere qui con te”.


~
Stava canticchiando in cucina, Neal, mentre apriva il frigorifero ed estraeva la torta gelato dallo stesso: un'espressione estatica sul volto che ne fece scintillare gli occhi e salire l'acquolina in bocca al pensiero di infierire su quella magnifica composizione con una forchetta da dessert.
Non resistette dall'allungare un dito a sfiorare la glassa decorativa per poi emettere un mugugno soddisfatto e appoggiare la teglia sulla tavola già munita di una spatola da cucina e di un piatto sul quale depositare una porzione particolarmente generosa.
Fece per intagliare la fetta, quando percepì il suono del campanello e sollevò appena gli occhi al cielo, l'aria sospirata e sofferta prima di sentire la voce della fidanzata. Evidentemente sollevato, scrollò le spalle e sedette con aria particolarmente compiaciuta. Si beò di lasciar mischiare il sapore del dolce sul palato.
Scosse il capo, cercò di concentrare la sua attenzione sui due piatti vuoti che si affrettò a riempire per portarli alle due donne ma, quando scostò l'uscio con un fianco per entrare in soggiorno, colse il movimento con cui Brittany si era avvicinata al gradino di ingresso, il grasso felino che le passava accanto.
Ma cosa?
Si avvicinò quatto quatto, in punta di piedi letteralmente e si appiattì contro l'uscio (Brittany l'aveva quasi chiuso, evidentemente essendosi avvicinata alla persona che aveva suonato: che si trattasse della recluta Rose?) e fu allora che sentì la voce di Hunter.
Un lampo di sorpresa ne fece baluginare lo sguardo primo di realizzare che la giovane si era letteralmente chiusa fuori con lui, senza che nessuno fosse presente e che stavano parlando in tono più sommesso. Si irrigidì: le immagini del loro unico ballo durante l'anniversario dell'Accademia gli baluginarono in mente e così le parole di Jonathan di evidentemente stima che aveva accolto con aria lusingata quanto quella di Shirley. Ma che il suo amico stesse celando un ben altro tipo di lode?
Si sentì letteralmente accasciare contro la porta.
No, non stava accadendo.
Non era neppure (ufficialmente) genitore di ruolo.
Calma, calma, si ammonì, il sudore freddo che scivolava lungo le tempie.
“Mi dispiace essere mancato”, aveva sentito dire dal ragazzo e aveva sgranato gli occhi, realizzando che stava parlando della festa del veglione.
“Non dovevi sentirti obbligato”.
Sorrise compiaciuto della risposta della ragazza: stava prendendo le giuste distanze, ottima mossa dopotutto.
Ma era del figlio del suo migliore amico che si stava parlando e non era stato lui stesso il primo a riporre totale fiducia, tanto da conferirgli la carica più alta della sezione maschile? Non era forse lui il primo a sentirsi rassicurato a sapere che ci sarebbe stato un altro sguardo vigile sulla figliastra, in caso di necessità.
Ma è stato lui a tradire la mia fiducia, gli suggerì una voce interiore.
Si avvicinò ulteriormente perché Brittany aveva nuovamente parlato, ma non era riuscito a cogliere il sussurro, evidentemente erano abbastanza vicini perché non occorresse parlare a voce alta.
Perché dovevano stare così vicini?
Brutto, brutto segno.
Ok, lui era il padrone di casa, il patrigno nonché il Preside e le tre “p” avrebbero dovuto significare qualcosa per quel traditore della patria.
Perché diavolo continuavano a parlare a voce così bassa?
Era il caso di prendere provvedimenti, ma di mettere la torta al sicuro per prima cosa.


~

Si era presa un lungo istante, Brittany, ad assaporare quel momento: il cuore nuovamente in gola e il respiro più rado ma era pura serenità quella che brillava nei suoi occhi in quel momento. Quella dolce aspettativa che sembrava nuovamente arrecarle una dolce vampata di calore e di speranza, di fibrillazione e di realizzazione che tutto fosse reale e quel momento fosse soltanto loro.
“Ma adesso sei qui”, aveva sussurrato con voce più tremula per poi schiarirsi la gola. “Per Lord Tubbington”, aggiunse con un sorriso più complice ad indicare che il patto tra loro era ancora in vigore.
Aveva sorriso, Hunter, lo stesso sorriso più divertito, ma aveva annuito, uno scintillio più dolce dello sguardo nell'inclinare il viso di un lato. “Sì, sono qui”, aveva sussurrato in risposta e nei loro sguardi sembrò esservi una comunicazione e comprensione che andasse ben oltre le parole espresse in un reciproco avvicinamento. Sembravano entrambi pensare che ci fosse un motivo ben diverso, pur senza necessità di esplicitarlo, quasi timorosi di infrangere quell'atmosfera.
Brittany estrasse la lettera dalla tasca posteriore e la strinse, quasi necessitando di quella pressione per placare quella nuova agitazione. La lettera, pensò, le dita che tremavano. “Hunter?”, aveva reclinato il capo per osservarlo.
“Sì?”.
“Io...”, sarebbe stato semplice allungare il braccio e porgergliela o lasciare che lui si avvicinasse senza parlare, rischiando così di dire qualcosa di sbagliato.
Sarebbe stato tutto molto più semplice se Neal non fosse apparso sulla soglia, facendoli trasalire entrambi e fu un movimento rapido quello con cui Brittany nascose nuovamente la lettera.
“Hunter!”, esclamò con voce più stentorea che sembrò letteralmente rimbombare nel cortile cosparso di ghiaccio. “Giusto in tempo per la torta”, sorrise ad una maniera quasi maniacale nel guardare dall'uno all'altra, aspettandosi che entrassero entrambi e sostassero laddove avrebbe potuto controllarli.
Hunter sbatté le palpebre, ma parve riprendersi abbastanza in fretta perché gli rivolse un cenno del capo. “Signore”.
“Vieni dentro: prendi la torta con Brittany, Shirley e me”, scandì bene le ultime parole, lo stesso sorriso gioviale malgrado uno strano tic all'altezza della palpebre.
“Ti senti bene, Neal?”, gli chiese Brittany con gli occhi sgranati. “Ti sta tremando l'occhio”, lo aveva additato, ma il patrigno aveva riso in una pessima imitazione dell'entusiasmo dei Babbo Natale dei centri commerciali nell'accogliere i bambini e farli sedere sulle proprie ginocchia.
“Non so di cosa tu stia parlando”, si schermì rapidamente. “Allora, Hunter?”, lo stava nuovamente guardando con lo stesso sorriso fin troppo gioviale che parve irrigidire il ragazzo, probabilmente dotato di qualche sesto senso.
“La ringrazio, ma io,” si schiarì la voce, quasi ricordando solo in quel momento di trattenere un felino obeso tra le braccia. “mi stavo congedando a dire il vero”.
“Che peccato”, Neal sospirò con aria fintamente rammaricata.
“Neal!”, era stato l'aspro rimprovero di Shirley che si era appoggiata alla sua spalla e adesso lo guardava con le sopracciglia corrugate. Ma quando tornò ad osservare i due, recuperò immediatamente il sorriso più allegro e spensierato, con quel luccichio più suadente dello sguardo. “Lasciamo che Brittany saluti il suo Capitano,” si era sporta verso di lui. “sempre che io non riesca a convincerlo ad entrare”.
Sembrò deglutire, Hunter, che si schiarì la gola. “Temo di essere già in ritardo e mio padre mi attende, quindi dovrei davvero andare”.
“Veramente”, Neal sembrò annaspare nel guardare dall'uno all'altra e cercare qualcos'altro da aggiungere ma Shirley lo trascinò dentro con un “Se non ti sbrighi finirò anche la tua porzione”.
Brittany si volse verso il giovane, vagamente confusa: che la torta avesse contenuto qualcosa di strano al suo interno?
Hunter sembrò recuperare la sua proverbiale compostezza e rilassarsi quando entrambi gli adulti furono rientrati. “Allora, ci vedremo domattina”.
Aveva annuito, Brittany, un vago sospiro nell'accompagnarlo verso l'auto: lo aveva osservato schiuderne la portiera dei sedili posteriori per appoggiarvi Lord Tubbington al quale aveva deposto un'ultima carezza, raccomandandogli d’essere obbediente. Aveva nuovamente sorriso al giovane che, tuttavia, sembrava indugiare dal circumnavigare l'auto per prendere posto dal lato guidatore e sentì i suoi battiti accelerare nuovamente.
Lanciò una vaga occhiata alla casa, Hunter, ma le aveva sorriso nuovamente, le mani affondate nelle tasche del lungo cappotto e si era chinato al suo volto a baciarne la guancia in un tocco appena accennato che era stato sufficiente a farle colorare e divampare un nuovo calore in petto.
“Anche tu mi sei mancata”, aveva sussurrato infine.
Sorrise, Brittany, e Hunter si volse nuovamente dopo un ultimo cenno di saluto ed entrò in auto.
Seguì il tragitto con lo sguardo, fin quando l'auto non svoltò e solo allora rilasciò il respiro, prima che la voce nuovamente alterata di Neal la richiamasse alla realtà e si affrettò a rientrare.

~

[...] Belle si domandò se non fosse stato l'effetto della neve e del suo candore che sembrava ingentilire ogni cosa. O se non fosse quella magica atmosfera che le scaldava il cuore fin da bambina nell'avvicinarsi al Natale e al grande albero decorativo sotto il quale avrebbe trovato tutti i suoi doni. Ma poi si diede della sciocca per averlo anche soltanto pensato: la reale gioia era scorgere il suo sguardo e vederne quel barlume di autentica serenità e di tenerezza a renderne i lineamenti meno mostruosi e rigidi, riuscendo a scorgere quello che sarebbe somigliato ad un Principe. Quell'animo puro e gentile che doveva ancora esistere e di cui lei era realmente persuasa, della gioia che avrebbe nuovamente potuto provare, scacciando la solitudine e tornando ad essere se stesso. Perché una parte di sé avrebbe continuato a credere che quel sorriso non fosse stato casuale ma che l'incantesimo potesse essere spezzato e lui stesso, in cuor suo, non attendesse altro. Che quel Natale gli aveva nuovamente recato la speranza che la sua vita non fosse finita. [...]

Aveva terminato il capitolo con un sorriso, Brittany, ripose anche la spazzola sul tavolino della toletta, insinuò il libro nel proprio trolley e si immerse nelle coperte. Ripensò alla lettera che aveva nascosto tra le pagine dello stesso libro.
Il momento giusto sarebbe arrivato, dopo quel giorno non aveva più il benché minimo dubbio.



To be continued...

Un capitolo di transizione, potremmo definirlo, ma prendetelo come un personale augurio in occasione delle festività natalizie che si stanno finalmente avvicinando.
Come sempre, ringrazio chiunque mi stia seguendo, in modo particolare le persone che allietano la pubblicazione lasciandomi loro commenti ed impressioni, siete le mie unicorn girls <3

Un'occhiata al prossimo capitolo:


Sarebbe un peccato se tu rinunciassi alla danza, anche se averti qui è... divertente”. “Ehi, di questo passo Finn sarà geloso”.
Ho fatto una cosa brutta”. “Lo hai fatto volontariamente?”. “No, cioè, non avrei dovuto farlo, ma non volevo ferirlo”.
Sono solo un peso”. “E' quello che dico da mesi”.

Mi dileguo e prendo congedo, prima di sentirmi addosso le proteste indignate, ma posso dire che stiamo giungendo ad un punto di svolta importante.
Di nuovo auguri a tutti voi di un sereno Natale per voi e le vostre famiglie :)
A presto,
Kiki87

1 Si tratta di uno spin off che si colloca nel periodo natalizio, quando l'incantesimo della Bestia ancora non è stato infranto e Belle vive nel castello con lui. Il testo che ho riportato è una favola che Belle ha scritto per la Bestia; l'altro è un dialogo in cui Lumière e gli altri servitori stanno spiando Belle e la Bestia mentre pattinano, nella speranza che i due si innamorano. Fife è un flauto (da umano un musicista) che è in combutta con il “cattivo” della storia per impedire che l'incantesimo venga spezzato, da lì il “devo fermarli” (ma sentirlo nel cartone è doppiamente divertente :D).
2 Latin Lover ad una maniera Hunteresca (?). Ma sì, penso si sia capito :D

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Capitolo 8
« C'era una volta, molto lontano »,
così diceva una favola
che mio padre mi raccontava.
Diceva che c'era un mondo di fantasia,
c'era un principe che avrebbe lottato per me
fino alla fine.

Questo non è il modo in cui pensavo che sarebbe andata,
eri colui che avevo immaginato accanto a me.
Ma a volte l'amore cade nelle mani degli incauti.
Perché questa non è una favola
e io non sono una principessa.
Non sono una principessa.
(No Princess1 - Ashley Tisdale)





Capitolo 8


Il nuovo anno sembrava cominciato con una consapevolezza che rendeva tutto più chiaro e, al contempo, dava nuovo significato a tutto ciò che la circondava. Persino alle sfuriate di Kitty e ai suoi tentativi di farle passare dei brutti momenti. Bastava ricordarsi, infatti, che, da lì a poche ore, avrebbe nuovamente scorto quel volto: che si trattasse di un allenamento del Glee Club o di una visita a Lord Tubbington.
Nel frattempo, la vita scolastica stava nettamente migliorando: non solo si era più assopita durante una lezione di Mr Clarington, ma la sua materia era divenuta persino più piacevole e così ascoltarne le spiegazioni e la passione con cui illustrava le strategie messe in atto dagli eserciti nel corso della storia. Era molto simile a Hunter ma, seppur aldilà del suo lavoro fosse poco ciarliero, mancava di quell'ombra più scura che talvolta sembrava spegnere lo sguardo del figlio.
Si domandava spesso che cosa avrebbe potuto liberarlo completamente di quel fardello o renderlo totalmente sereno o entusiasta. Soprattutto, pregno di una gioia che non fosse soltanto un'effimera soddisfazione o un momento di relax, sottratto ai suoi doveri. Tuttavia, fino a quando fosse riuscita a scorgerne un sorriso e persino crogiolarsi all'idea che le fosse dedicato, tutto sarebbe stato perfetto. O quasi.

Dovresti dirglielo”, l'aveva ammonita dolcemente Marley, sporgendosi dal letto superiore per osservarla e Brittany si era mordicchiata il labbro.
Era appena rientrata nella camerata, giusto prima che scattasse il coprifuoco (con la scusa delle vettovaglie e dell'aiuto in cucina, compito che avrebbe portato a compimento fino alla fine dell'anno scolastico) e Marley era rimasta sveglia ad attenderla. Era divenuta una sorta d’abitudine perché anche lei potesse abbandonarsi più serenamente al sonno.
E' così evidente?”, le aveva chiesto con tono quasi preoccupato ed angosciato alla prospettiva che il suo sguardo fosse fin troppo trasparente. Il che sarebbe stato accettabile, nonostante l'imbarazzo, alla presenza della madre e dell'amica, tutt'altro qualora fosse stato Hunter stesso a comprenderlo.
Basta guardarti: è facile capire con chi eri prima e dove sia tuttora la tua testa”, era stata la pacata osservazione, il sorriso quasi intenerito ad incresparle le labbra.
Brittany aveva scosso il capo e sentito le guance ardere ma l'ombra ne avrebbe celato lo stato d'animo, almeno per qualche ora. Si era stesa sul proprio letto, le braccia sotto il capo a mo' di cuscino. Aveva lasciato che il silenzio permanesse tra loro per diversi istanti: negli occhi ancora le immagini di quell'ultima ora in sua compagnia e delle chiacchiere casuali eppure così intinte di una nuova serenità e reciproca comprensione. Ma vi erano sempre tanti dubbi e parole non dette. E l'interrogarsi sulla legittimità o meno di una lettera che aveva segretamente condotto con sé.
Non ho mai avuto...”, aveva iniziato con voce incerta, dopo qualche istante, cercando di descrivere ciò che stava provando. “Non mi sono mai trovata in una situazione così”, aveva sussurrato.
Marley si era sporta dal letto superiore e Brittany ne aveva immaginato il sorriso: la vista non si era ancora del tutto abituata al buio.
So che fa paura,” aveva sospirato la sua amica con aria comprensiva “ma se lui prova lo stesso, state solo tergiversando: prima o poi sarà chiaro ad entrambi, non credi?”.
Si era mordicchiata il labbro, Brittany, rimpiangendo di non poter stringere Lord Tubbington in quel momento di particolare tensione, ma aveva rilasciato il respiro. Aveva poi scosso il capo: se era già abbastanza imbarazzante pensare a loro in quei termini, l'idea che si stesse solo illudendo era insopportabile. “Forse è solo gentile, se lui e Kitty-”.
Aveva sbuffato, Marley, probabilmente non soltanto per l'antipatia verso il suddetto soggetto. “Non l'ho mai visto sorridere, quando è con lei: di solito erano ghigni ma ultimamente neppure quelli. I veri sorrisi non li mostra certo a chiunque”, aveva soggiunto in tono più complice e allusivo.
Ha un bellissimo sorriso”, era stata la spontanea risposta di Brittany, neppure curandosi di star compromettendo la sua “neutralità” con quell'ammissione. “Vorrei vederlo più spesso”.
Non aveva commentato nulla al riguardo, Marley, la voce persino più entusiasta. “Glielo dirai?”.
Aveva sospirato, Brittany, uno sguardo corse alle altre sagome addormentate, il russare di Lauren era ormai un abituale sottofondo. “Gli ho scritto una lettera, ma non so se sono pronta”, aveva ammesso dopo un altro lungo istante di silenzio.
Evidentemente stava riflettendoci, Marley, perché aveva taciuto per qualche istante, prima di rispondere: “Arriverà il tuo momento: ne sono sicura”.
Brittany aveva osservato il cielo stellato dalla finestra.“Se non sarà troppo tardi”, aveva aggiunto tra sé e sé.


~

La scaletta per la competizione di canto coreografato sembrava ormai definita da tempo, ma erano state necessarie delle modifiche alla sequenza di danza, soprattutto dopo che la squadra sembrava aver raggiunto una buona armonia ed erano divenuti evidenti i punti di forza e le carenze di ognuno.
Stavano tutti ascoltando l'ennesima prova del duetto tra Hunter e Kitty. Brittany, da parte sua, stava cercando di concentrarsi sulle espressioni del giovane ed isolare tutto il resto, onde evitare che nuovamente quella fastidiosa contrazione allo stomaco le procurasse un'espressione di disappunto (e che, soprattutto, si rendesse palese. Con l'eccezione di Marley e Ryder, almeno, i quali avevano preso a punzecchiarla al riguardo, suscitandole non poco imbarazzo).
Il contatto di sguardi sembrava un elemento imprescindibile, quasi fosse necessario a dare maggiore enfasi ai versi stessi della canzone, ma non poteva che chiedersi se lo sguardo di Hunter celasse altro. Da parte di Kitty tutto sembrava fin troppo evidente, in quel modo di sorridere leziosa, di avvicinarsi con fare più languido, costringendola a far saettare lo sguardo sul pavimento e stringersi le braccia al petto e cercare di ascoltare soltanto il dolce connubio delle loro voci. E realizzare quanto persino quel testo sembrasse descrivere le sue stesse emozioni.


Come siamo finiti qui, non saprei dirlo
ma sembra così giusto.
L'ultima cosa che mi sarei aspettato, sta accadendo,
siamo tu ed io.
C'è qualcosa di reale che non posso spiegare
e nulla sembra più lo stesso.

Per la prima volta ho realizzato
qualcosa che non ho mai capito prima.
Per la prima volta guardandoti negli occhi,
improvvisamente c'è molto di più.
Qualcosa che entrambi sentiamo dentro
per la prima volta.

Non posso trovare le parole per spiegare
cosa provo per te.
Voglio solo starti accanto.
Non avrei mai immaginato
che qualcuno mi avrebbe fatto sentire,
nel modo in cui fai tu.2


Si era intrattenuta, alla fine dell'allenamento, ripetendo i movimenti della coreografia di fronte allo specchio. Cercava di cacciare le immagini del duetto per poi aggrottare le sopracciglia al pensiero di quanto sembravano perfetti insieme.
Il piede scivolò sul parquet, ma l'impatto non avvenne e sentì una salda presa intorno a sé: levò lo sguardo. Hunter stava sorridendo, il braccio avvolto attorno alla sua vita: la sollevò lentamente, senza alcuno sforzo. “Tutto bene?”, le chiese, le sopracciglia inarcate. Doveva essere la prima volta che la vedeva perdere la concentrazione e l'equilibrio e ciò la imbarazzò non poco.
Annuì e scostò lentamente la mano dalla sua spalla. “Sto bene, grazie: sembra che tu sia davvero il mio Principe”, si era sentita dire in un moto spontaneo e naturale.
“Cosa?”, aveva inarcato le sopracciglia, evidentemente spiazzato.
Sbatté le palpebre, Brittany, ignorando l'effluvio di calore al viso. “Il mio salvatore, sì”, si era corretta nervosamente.
Le sorrise nuovamente, il giovane, le braccia incrociate al petto e il viso inclinato di un lato. “Cerca di non infortunarti: non potrei fare a meno della nostra ballerina di punta”.
Aveva sorriso, Brittany, lusingata nonostante tutto. “Starò più attenta: promesso”.
“Sembra che tu non riesca a lasciare questa stanza molto facilmente”.
Sorrise, Brittany, lo sguardo che sfiorava quelle pareti che, oltre alla camera del giovane, sembravano le uniche a trasmetterle quel dolce calore e la sensazione di familiarità e di sicurezza. “E' quella che più mi piace”, ammise.
“Si vede e non solo per la danza”.
“C-Come?”, era stato il suo momento di guardarlo con occhi sgranati e l'espressione evidentemente preoccupata. Un dubbio lacerante che le si stava insinuando, alla sola idea che lui potesse anche sospettare quale fosse il suo reale interesse, al di fuori della sua passione.
“La canzone,” aveva inclinato il viso di un lato e la stava osservando con un sorriso, “sembravi incantata”.
Brittany si sorprese dell'idea che, durante l'esecuzione, ben lungi dal concentrarsi sulla sua partner di canto, stesse proprio guardando in sua direzione.
“E' davvero una bellissima canzone”, sussurrò per risposta per poi inclinare il viso di un lato.
“Mi piace la tua voce”, aggiunse. Da molto tempo non si era più affezionata ad una voce che riuscisse a procurarle quel dolce tremore nel cuore e quel brivido lungo la spina dorsale. Consapevole che, socchiudendo gli occhi, sarebbe riuscita nuovamente a sentirne il suono dentro di sé, fino a farla rilassare ed abbandonare al più dolce dei riposi.
Si era stretto nelle spalle, Hunter. “Non è facile trovare, in un'Accademia, qualcuno disposto e capace di esibirsi in questo tipo di attività”, sembrò schermirsi.
Le dispiacque quella risposta pragmatica. Sembrava che, malgrado se la cavasse più che bene e che il suo corpo fosse più che disciplinato ai movimenti, neppure la danza o il canto fossero la sua reale passione. Che fossero soltanto un'occupazione come l'altra, a differenza di quanto aveva pensato, quando era sembrato così entusiasta all'idea di reclutarla nel suo Glee Club. Che si trattasse soltanto del desiderio di aggiungere un nuovo encomio e una nota di merito nel suo curriculum? In momenti come quello, si domandava se mai sarebbe riuscita a capirlo completamente.
“Sarebbe un peccato se non lo facessi”, aveva sussurrato più dolcemente.
Parve sorpreso, Hunter, ma inclinò il viso di un lato e le sorrise con altrettanta gentilezza. “Sarebbe un peccato se tu rinunciassi alla danza che è la tua vera vocazione”, inclinò il viso di un lato e la scrutò attentamente. “Anche se averti qui è divertente”.
“Ehi, di questo passo Finn sarà geloso”, si sentì dire, il sorriso nella voce nel tentativo probabilmente di smussare i toni ed evitare che quelle parole o quel genere di discorsi la rendessero nuovamente nervosa ed incapace di affrontare un altro tipo di conversazione.
Ma non parve cogliere il pretesto, Hunter. Aveva scosso il capo ed era avanzato in sua direzione. “Quello che intendo dire-”.
“Mi dispiace interrompere, ma la nostra Barbie ha un appuntamento con gli stivali della sua camerata”, era intervenuta la voce di Kitty: il timbro era molto meno dolce di quello che aveva allietato la platea. Sorrideva di quel sorriso che Brittany aveva imparato a temere. Ma ciò non le impedì di scrutarla con aria incredula.
“Ma ho fatto tutto quello che dovevo e li ho lucidati ieri,” aveva replicato, pur premunendosi di non alzare la voce e di aggiungere: “Signora”.
Si strinse nelle spalle, Kitty, la coda di cavallo che scivolava sinuosa sulla spalla. “Sei diventata discreta a pulire”, le indicò l'uscita con un cenno del mento, il sorriso completamente dissolto dal suo volto.
“Kitty”, era stata la voce di Hunter stavolta ad irrompere il dialogo in corso.
“Hunter, con tutto rispetto, ” il sorriso lezioso era tornato sulle labbra nel rivolgersi a lui, “la camerata femminile è sotto la mia giurisdizione, salvo ordini dall'alto”. Lo sguardo corse nuovamente a Brittany in una silenziosa minaccia che ella ben ricordava circa il possibile coinvolgimento di Neal. “Chiarito questo, è ora che tu vada: non te lo ripeterò”.
Sospirò, Brittany, ma annuì e riprese il suo zainetto. Vi ripose la bottiglietta d'acqua, osservò la lettera per un istante, ma ancora non sembrava giunto il momento adatto. E neppure sembrava particolarmente vicino. Aveva rivolto il saluto militare a Kitty, un cenno della mano al ragazzo e si era lasciata l'aula alle spalle.

“Allora, Hunter, ti va di riprovare il duetto? Non sono molto convinta di un passaggio”, e già gli si stava avvicinando: lo spartito tra le mani. Sembrò aver recuperato il suo sorriso più baldanzoso, nonché la straordinaria capacità di sbattere le palpebre con incredibile velocità.
Sospirò, Hunter, lo sguardo ancora volto alla porta da cui Brittany era appena uscita, prima di incrociare lo sguardo del Capitano.
Scosse il capo e scrollò le spalle. “No, ” fu la schietta e lapidaria replica, “in verità no”.
Non attese risposta e recuperò la sua sacca sportiva, senza più neppure voltarsi.
Aveva sbattuto le palpebre, Kitty, l'aria incredula. “Ma-”.
“Ti saluto, Kitty, buone prove”.

~

Belle si era sempre affidata ai suoi amati libri: una finestra sulla realtà e su mondi distanti. Attraverso quelle immagini aveva conosciuto grandi amori e grandi sofferenze, aveva contemplato volti di diversi Principi. Nessuno di loro era mai stato descritto come la Bestia che si ritrovava spesso ad osservare, giorno dopo giorno, cercando di discernere da quel suo aspetto spaventoso o da quella natura più brusca e burbera e ricercare la dolcezza di uno sguardo sincero o di un sorriso repentino quanto emozionante. In verità, per quanto si rifugiasse con piacere in quella biblioteca con la dolce compagnia del camino, nessuno di quei libri avrebbe potuto ben descrivere l'uomo che aveva di fronte. Probabilmente soltanto il suo cuore avrebbe potuto schiudersi nel giusto modo e soltanto per lui. Se se lo fosse concesso, ricacciando la paura e affidandosi ad esso, come sempre.

Il suono della tromba giunse quasi molesto, ma Brittany sospirò e chiuse il libro: la mano ne sfiorò la copertina con un sorriso.
“Grazie”, sussurrò a fior di labbra. “Sei sempre la miglior risposta”.
Ascoltò i suoni ovattati provenienti dalla camerata: le altre compagne si stavano ridestando a loro volta e il viso di Marley fece capolino, un sorriso gigantesco ad illuminarle il viso e gli occhi blu.
“Buon San Valentino!”, esclamò con voce gioviale. “Qualche programma speciale?”.
San Valentino, ripeté la ragazza tra sé e sé ma carezzò nuovamente la copertina del libro per poi aprirlo ed estrarne la lettera.
Reclinò il capo per osservare l'amica ed annuì, un vago sorriso. “Credo di sì”.



Conosceva ormai abbastanza delle sue abitudini per poter supporre, quasi con certezza, quando la sua camera sarebbe stata vuota. Così, quando schiuse l'uscio (dopo aver bussato per sicurezza), non fu delusa. Tutto era in perfetto ordine come sempre e i due gatti, dopo esserci contesi la palla sul pavimento, avanzarono in sua direzione. Sorrise e si chinò ad accarezzarli entrambi nei loro punti preferiti, prima di rimettersi in piedi.
Avanzò nella camera, dopo essersi chiusa l'uscio alle spalle (assicuratasi che non vi fosse nessuno nei corridoi), la busta ancora tra le dita e scrutò il letto del giovane. Si domandò se fosse stato meglio lasciarla in bella vista sul materasso o se dovesse nasconderla sotto il cuscino.
Si morsicò il labbro e indugiò in quella posizione fino a quando Mr Pussy, arrampicatosi sulla cassettiera dopo esser balzato agilmente sul letto, non la richiamò con il suo miagolio: stava facendo le fusa, inarcando la schiena, e Brittany osservò il cassetto più in alto, quasi si fosse trattato di un implicito suggerimento.
Sembra una buona idea. Sorrise e accarezzò il felino quasi a ringraziarlo, prima di schiudere il cassetto con l'intento di lasciare l'involucro al suo interno, al sicuro da sguardi indiscreti o dagli artigli e le piccole zuffe tra i due animaletti. Vi appoggiò la busta e poi la nascose sul fondo, provò l'impulso di richiudere subito il vano e in modo brusco, prima che la paura la costringesse a riprenderla e stracciarla. Lo sguardo, tuttavia, fu attratto dal bordo di una cornice d'argento che s’intravedeva sotto una sciarpa rossa, con il tipico motivo scozzese a quadrettoni.
Fu un lungo momento quello in cui indugiò a scorgere quel bagliore argentato, prima che la curiosità prendesse il sopravvento. La prese tra le dita e la sollevò.
Lo sguardo azzurro cadde dapprima sul ritratto del bambino che le strappò un sorriso intenerito nello sfiorarne i lineamenti: non doveva avere più di dieci anni e se anche allora i capelli sembrassero più scuri e vi fossero dei ciuffi scarmigliati sulla fronte in quel caschetto, non vi erano dubbi circa la sua identità. Non lo aveva mai visto sorridere in quel modo: tanto puro ed innocente, spensierato e... felice. Non c'era definizione migliore e avrebbe dovuto immaginare il perché. Lo sguardo, infatti, fu attratto dalla donna che lo cingeva da dietro, il mento appoggiato alla sua spalla.
Brittany quasi trattenne il fiato: la prima cosa che pensò era che fosse incredibilmente bella ed eterea. Non una bellezza appariscente in un sorriso accattivante o in un atteggiamento femminile e civettuolo. Al contrario, scaturiva dalla dolcezza dei suoi lineamenti e di quel viso dagli zigomi leggermente pronunciati che gli davano una forma quasi a cuore. Lo sguardo castano era intenso e sembrava riuscire, persino così immobile e statica, a catturare i pensieri altrui. Le belle labbra carnose erano curvate di un sorriso sognante e i capelli, di un biondo castano, le incorniciavano il viso di una carnagione chiara e quasi diafana. Pura e delicatissima, quasi una bambola, così soave nell'armonia di quella semplicità che riusciva ad incantare lo sguardo.
Sentì il fiato mancarle al pensiero che non avrebbe mai avuto occasione di osservarla da vicino o di poter sentire quanto melodiosa dovesse essere la sua voce o semplicemente appurare che fosse reale.3
Lo sguardo si adombrò nel domandarsi per quale motivo Hunter non teneva quella meravigliosa fotografia in bella vista. La risposta, tuttavia, era fin troppo comprensibile e sembrava dire molto di quell'ombra scura nel suo sguardo o quel suo apparire sempre imperturbabile.
Trasalì quando la porta fu schiusa, la sorpresa la bloccò con la cornice tra le mani e sentì il ragazzo pronunciarne il nome con intonazione sorpresa.
Si era voltata molto lentamente, la cornice ancora tra le mani e il tempo sembrò dilatarsi e bloccarsi in quell'istante. Quello in cui Brittany ebbe la sensazione di sdoppiarsi e contemplare la scena dall'esterno mentre una voce interiore sembrava implorarla di riporre l'oggetto, prima che fosse troppo tardi.
Hunter aveva sgranato gli occhi, lo sguardo verde era saettato verso la fotografia e sembrò vacillare come se lo avesse colpito con tutta la sua forza e lui non fosse stato in grado di difendersi. Inerme ad un sopruso di fronte al quale sembrava impreparato e incapace di reagire.
Brittany aveva sentito il cuore scalpitare furiosamente e aveva deglutito a fatica, mentre l'altro si irrigidiva impercettibilmente.
“I-Io-”.
Non ebbe modo di articolare la frase o un tentativo di scuse: dopo quell'attimo in cui tutto sembrò essersi fermato, Hunter sembrò riprendere controllo di sé. Si era avvicinato talmente rapidamente che, per la prima volta, Brittany fu impressionata dalla differenza di stazza, soprattutto quando, con un gesto brusco, le strappò di mano la cornice. Ma non era stato il gesto di per sé a sconvolgerla quanto l'autentica rabbia di cui era intriso il suo sguardo che sembrava aver perso ogni dolcezza o divertimento che vi avesse mai potuto scorgere fino a quel momento. I suoi stessi lineamenti sembravano divenuti granitici.
Lo sentì richiudere il cassetto con tale violenza che riuscì a far sussultare anche i due gatti: Mr Pussy era bruscamente sceso dalla cassettiera, lo sguardo interrogativo volto al padrone e un placido miagolio.
Dopo quello che parve un interminabile istante di silenzio, Brittany si volse ad osservarne la schiena: aveva sollevato la mano, ma sembrò incapace di allungarla a sfiorarne la spalla o il braccio o cercare di pronunciare qualsivoglia frase di cordoglio. Si morsicò il labbro e il respiro sembrò accelerare, riuscì a percepire il battito convulso del suo cuore e il timore di ciò che sarebbe potuto scaturire un qualsiasi gesto o una ricerca di contatto. Consapevole di essersi spinta fin troppo oltre.
“S-Scusami, ” sussurrò con voce tremula, “n-non avrei dovuto, volevo solo lasciarti una cosa e-”, le stava tremando la voce e cercò di prendere un bel respiro perché riuscisse a spiegarsi nel modo migliore, consapevole di dovergli una giustificazione più che plausibile.
Ma il ragazzo non si era neppure voltato ad osservarla: riuscì ancora a percepire la rabbia che stava covando in sé, seppur fosse immobile e lo sguardo puntato innanzi a sé e potesse solo scorgerne la postura rigida e la tensione dei muscoli.
“Va' via”, lo sentì pronunciare con voce bassa che somigliava quasi ad un ringhio rabbioso e che non aveva mai intaccato il suo timbro fino a quel momento, neppure quando impegnato in un'invettiva contro Finn. Non vi era l'autorità di un Capitano e tanto meno il formalismo del suo ruolo, ma pura ed autentica rabbia che era rivolta esclusivamente a lei.
Era trasalita, gli occhi sgranati e il cuore sospeso in gola: il suo tono le strappò un brivido lungo la spina dorsale. Per quanto desiderasse trovare le giuste parole, riusciva soltanto ad osservarne le scapole e la schiena, il tremore delle braccia e dei pugni contratti che sembravano cercare di contenere le burrascose emozioni che lo stavano dominando in quell'istante.
Sentì l'aria mancarle e un improvviso nodo alla gola.
Ne aveva sussurrato il nome, quasi una ricerca di rassicurazione, pur consapevole di non meritarne alcuna, era avanzata in sua direzione.
Era stato allora che si era voltato e fu spaventata da quella che pareva una trasfigurazione quasi innaturale dei suoi lineamenti.
Lo stupore lasciò spazio alla dolorosa consapevolezza che tutto fosse reale.
“Fuori!”, seppur non avesse alzato ulteriormente la voce o perso il controllo, il timbro e lo sguardo erano stati così autoritari e rabbiosi che la ragazza non poté che indietreggiare. Sembrò essere un istinto vitale, quando lui avanzò e, per la prima volta, fu cacciata da quelle stesse pareti in cui aveva trascorso le ore più felici in quell'Accademia.
“Hunter”, sussurrò con voce strozzata, gli occhi lucidi e il viso esangue, “t-ti prego, io-”.
Il tonfo della porta fu così violento da strapparle un verso impaurito.
Rimase immobile, il respiro più rado e brividi caldi e freddi scivolarle lungo la spina dorsale: continuò ad osservare quell'uscio, quasi sperando che potesse nuovamente schiudersi a lei.
Ci vollero diversi istanti, scanditi dal battito irregolare, a farle comprender che era stata appena gettata fuori della camera e dalla sua stessa vita. E che era stata solo ed esclusivamente una sua colpa.
Indugiò immobile nello stesso punto: cercò un suono o un qualcosa che la riportasse al presente ma, oltre la soglia, sembrava esservi un silenzio spettrale. Adagiò la mano a sfiorare la superficie di legno e vi appoggiò il capo.
Socchiuse gli occhi a ritrovare il respiro.
Si tappò le labbra, prima che ne sgorgasse il singhiozzo trattenuto fino a quel momento.


Talvolta ancora pensava a quell'episodio che aveva rischiato di far finite tutto, prima che riuscissero realmente a conoscersi. Sapeva che la sua colpa non era stata la mera curiosità ma l'aver infranto la fiducia dell'altro. Un tradimento implicito, inaspettato che aveva reso la Bestia più fragile e più che mai chiusa in se stessa. E soltanto per colpa sua.

Da lì a poco sarebbe scattato il coprifuoco, ma non aveva idea di quanto tempo fosse passato da che si era rifugiata nel proprio letto. Cercò di ignorare le risatine delle compagne, si nascose sotto il lenzuolo per sfuggire alla vista di Marley, quando avrebbe fatto ritorno dal suo primo San Valentino con Ryder. Come avrebbe potuto raccontarle ciò di cui si vergognava così intensamente?
Morse le lenzuola, trattenne i singhiozzi, ignorando il bruciore degli occhi arrossati, il tremore diffuso lungo il corpo e lo stomaco che si contorceva per la fame. Soffocò quei versi gutturali contro il cuscino, desiderando soltanto potersi nascondere dallo sguardo altrui e persino da se stessa se fosse stato possibile. Scomparire senza lasciare alcuna traccia di sé.
Fu soltanto molto dopo, quando il silenzio e il buio calarono nella camerata, che si lasciò cadere al torpore del sonno. Ma non l'abbandonò l'idea dolorosa che, poco distante, anche il ragazzo probabilmente stava ripensando a quel maledetto istante.

~

Entrò in sala mensa con gli occhi gonfi per la notte quasi del tutto insonne: era uscita prestissimo per cercare di evitare gli sguardi delle altre ragazze e incapace di sopportare ulteriormente i crampi della fame. Se non avesse saputo che non avrebbe potuto sottrarsi alla sfilza d'attività che Kitty aveva in serbo per loro, non avrebbe neppure provato ad ingoiare qualcosa.
Mrs Rose le sorrise con la solita dolcezza e quel calore che aveva sempre contraddistinto le loro interazioni, ma in quel momento si sentiva incapace di meritare persino la sua benevolenza, da sempre una delle poche cose piacevoli della vita in Accademia. Ma doveva ormai conoscerla abbastanza bene da incuriosirsi di fronte a quel suo incedere quasi timoroso e il capo chino, tentando di sfuggire allo sguardo di chiunque.
“Stai bene, Brittany?”, le aveva chiesto, il viso inclinato di un lato, trattenendo il piatto che avrebbe dovuto porgerle.
Avrebbe voluto sorriderle e salutarla con la solita allegria ma non riuscì neppure ad articolare suono e si limitò a sollevare lo sguardo ad incontrare quello della donna, un verso rauco a sgorgarle dalle labbra che coprì maldestramente con il pugno chiuso.
Scosse il capo, Mrs Rose, si tolse i guanti e le fece un silenzioso cenno con il mento perché la seguisse nelle cucine, dopo aver lasciato un'altra cuoca a distribuire la colazione.
Dopo che si fu seduta ed ebbe bevuto un bicchiere d'acqua e trangugiato un paio di bignè (che Mrs Rose nascondeva con solerzia per le sue reclute preferite), Brittany, seduta su un alto sgabello, sembrò recuperare un po' di colore in viso.
Rivolse un sorriso grato alla cuoca che le si era seduta di fronte e non sembrava avere fretta di riprendere il suo lavoro. Al contrario, la donna le aveva sorriso incoraggiante. “Ora ti va di raccontarmi cosa è successo?”, le aveva chiesto in un sussurro appena percepibile.
Deglutì, Brittany, e il nodo in gola sembrò nuovamente acuirsi, ma annuì. Non osò incontrarne nuovamente lo sguardo, ma cercò di trovare le parole per spiegarsi al meglio. “Ho... Ho fatto una cosa brutta”, esordì e sembrò timorosa del suo biasimo.
Sembrava sorpresa, Millie Rose, ma non si profuse in alcun giudizio prematuro e neppure cercò di incoraggiarla a spiegarsi in termini più espliciti. “E lo hai fatto volontariamente?”, fu la pacata domanda, proferita con la stessa dolcezza.
Scosse il capo, Brittany, che sollevò il mento per guardarla e sembrò accalorarsi perché comprendesse bene quel punto. “No!”, aveva risposto con vigore per poi mordersi il labbro. “Cioè, non avrei dovuto farlo, ma non volevo ferirlo”, la voce era divenuta più rauca e al solo pensiero gli occhi erano nuovamente divenuti lucidi.
Mrs Rose annuì e le strinse la mano in un implicito segno di comprensione. “Hai provato a chiedere scusa?”.
“Ci ho provato, non tanto bene... ma adesso non vuole più vedermi e n-non potrò spiegargli tutto”.
La stretta della donna sulla sua mano era divenuta più ferma. “Ognuno reagisce al dolore a modo suo: devi dargli tempo di perdonarti ma, nel frattempo, devi perdonarti tu stessa, Brittany”. Aveva atteso che i lacrimosi occhi azzurri incontrassero di nuovo i suoi. “Capita a tutti di sbagliare, Brittany, e di ferire qualcuno senza volerlo, ma tu hai un cuore puro e questo Hunter di sicuro lo sa”.
La mano esile era vacillata nella sua ed era impallidita. “Io non ho detto-”.
“Oh, scusami: intendevo la persona di cui stai parlando”. Aveva finto di assumere un tono più sussiegoso, ma le aveva sorriso con maggiore dolcezza e una punta di complicità.
Inclinò il viso di un lato. “Sei molto importante per lui. Sono sicura che già vorrebbe dirti che vuole perdonarti, ma è un ragazzo molto riservato: non riesce sempre ad aprirsi alle persone, anche se l'ho visto molto più rilassato ulteriormente. Ho quasi sospettato che Finn rischiasse di finire l'anno senza punizioni”.
Seppure quelle parole fossero riuscite a farle sorridere, Brittany parve nuovamente afflosciarsi ad un ulteriore dubbio. “E se non fosse in grado di perdonarmi, per quello che ho fatto?”.
Sospirò, Mrs Rose. “Allora dovrai comunque perdonarti, Brittany, e andare avanti”.
La ragazza annuì, ma parve ancora scoraggiata. “Grazie, Signora Rose”, si era appoggiata alla sua spalla, allargando le braccia per cingerla e la donna le aveva sfiorato delicatamente la schiena.
“Andrà tutto bene”, le aveva sussurrato con la sua solita dolcezza.
Era da molto che desiderava che qualcuno pronunciasse di nuovo quelle parole e con la medesima capacità di riuscire a rasserenarla.
Sì, doveva provare a crederci.

~

Per la prima volta da quando era giunta al Glee Club, aveva atteso quell'allenamento con il cuore pesante come un macigno. Certo, doveva concedere a Hunter del tempo, ma sperava che almeno avrebbero potuto parlare con maggiore tranquillità. Non riusciva a biasimare nessun altro se non se stessa e continuava a riflettere su quella scarna spiegazione che Neal gli aveva fornito al ballo.
Era evidente che stesse ancora soffrendo e quel fantasma dal viso dolcissimo e dal sorriso tanto incantevole, non gli permetteva di vivere serenamente il presente. Non avrebbe mai voluto essere la persona che non soltanto non si era dimostrata capace di sostenerlo, ma che lo aveva costretto a rivivere quei momenti e nel modo peggiore.
Era entrata nell'aula di danza spronandosi ulteriormente a non lasciarsi andare allo sconforto, ma aveva presto scoperto, il nodo in gola sembrò serrarsi maggiormente, che Hunter non sarebbe venuto per la prima volta.
Cercò di cacciare il suo volto dai propri pensieri durante le prove e le minacce di Kitty sembrarono ben utili allo scopo. Tuttavia, sembrò totalmente dimentica della spensieratezza e della leggerezza che solitamente accompagnava quelle ore e si ritrovò a riflettere sull'eventualità che Hunter non fosse disposto a parlarle molto presto. Sarebbe stata in grado di affrontare le prove con quella consapevolezza, sopportandone il silenzio o, peggio ancora, l'ostilità?
Alla fine dell'allenamento, non seguì le altre verso l'uscita, ma fu proprio da Kitty che si diresse, mentre era ancora concentrata nella lettura degli spartiti con il cipiglio corrugato. Levò lo sguardo, quando la sua ombra le oscurò la visuale, l'espressione spazientita.
“Voglio lasciare il Glee Club”, si sentì dire con voce tremula.
Kitty non batté ciglio ma il corrugamento della fronte si accentuò. Scosse il capo, infine, e abbassò bruscamente il foglio. “Ascoltami bene, Barbie, perché lo dirò una volta sola,” l'aveva fissata con aria glaciale, “ballare è l'unica cosa in cui te la cavi decentemente e, detto in parole povere, ci servi”.
Si era morsicata il labbro, Brittany. Ironico che la prima volta che Kitty le rivolgesse un riconoscimento di discutibile gentilezza, lei fosse di tutt'altra opinione. Aveva scosso il capo. “Sono soltanto un peso”, aveva sussurrato con voce tremante, sentendosi nuovamente e pericolosamente vicina alle lacrime.
Sbuffò, Kitty, incrociando le braccia al petto. “E' quello che dico da mesi ma-”, si interruppe e la fissò con un nuovo lampo di comprensione che le fece sgranare gli occhi, prima che un sorriso le increspasse le labbra. Inclinò il viso di un lato, la coda di cavallo scivolò sulla spalla. “Aspetta, tu credi che Hunter non sia venuto per qualcosa che riguarda te, è così?”. Non sembrò neppure sforzarsi di nascondere il suo evidente divertimento all'idea.
Distolse lo sguardo, Brittany, ma Kitty pareva più che sicura di sé. Il sorriso continuò a sostare sulle sue labbra ritoccate dal rossetto che spiccava incredibilmente, soprattutto considerando che la maggior parte del tempo la trascorresse con vesti tutt'altro che femminili.
“E' così”, commentò tra sé e sé il Capitano che avanzò in sua direzione, le mani sui fianchi prima di sollevare la mano a sfiorarne appena il mento, in un finto vezzo di comprensione. “Sei così ingenua che fai quasi tenerezza”, l'aveva blandita ma con tono tutt'altro che carezzevole o realmente dispiaciuto per come la stava scrutando. Il disprezzo ne oscurò lo sguardo e ne rese i lineamenti più marcati, così la piega delle labbra carnose. “Piccola stupida, lui e suo padre sono dovuti andare fuori città e lo avevano programmato dall'inizio della settimana”.
Rilasciò il respiro, Brittany, e fu come se, finalmente, quel macigno avesse allentato la presa. “Grazie... di tutto”, aveva sussurrato e le aveva sorriso sinceramente, neppure curante dell'epiteto. Non soltanto le aveva dato quell'informazione, ma l'aveva persino fatta desistere (a modo suo, ovviamente) dal commettere un errore e allontanarsi dalla sua attività preferita.
Aveva raccolto lo zainetto e si era voltata per allontanarsi, ma aveva sentito lo sguardo di Kitty puntato in un punto preciso tra le sue scapole, quasi fosse pronta ad infliggere l'ulteriore colpo.
“Credi davvero di essere così importante per lui?”, le chiese senza fronzoli.
Si fermò, Brittany, la scrutò con la coda dell'occhio, e ne notò l'aria più che compiaciuta, lo scintillio più suadente e soddisfatto dello sguardo.
“Apri gli occhi, Barbie”, le disse con voce carezzevole che contrastava perfettamente con la perversa gioia nel suo sguardo. “Hunter Clarington non è alla tua portata e tu lo sai benissimo”.
Trattenne il fiato, Brittany, sentì nuovamente il cuore stretto in una morsa dolorosa e un brivido gelido scivolarle lungo la spina dorsale.
“La tua presenza qui è un insulto: neppure Neal ti vorrebbe, se non fosse un modo per prendersi la tua bella mammina”.
Fu come sentirsi schiaffeggiare e vacillò per un istante, gli occhi sgranati nel vuoto e l'immagine del patrigno e dei suoi sorrisi più dolci. Dello scintillio delle iridi azzurre che lo rendevano vispo ma dolce come un bambino e della premura con cui l'aveva sostenuta prima dell'audizione.
Si sentì stringere i pugni e si volse bruscamente. “Stai mentendo!”, malgrado lo sguardo lucido, la sua voce si era levata con esasperata convinzione, seppur più stridula.
Non parve prendersela, Kitty, al contrario il suo sorriso si fece persino più esteso, seppur dovesse deviare l'oggetto della sua offensiva. “Cerchi così disperatamente di trovare il tuo posto qui dentro: sei tu che menti a te stessa e questo lo sanno tutti. Hunter ti ha voluta qui solo per una strategia e devo ammettere che sia stato obiettivo sul tuo talento. Ma temo che tu ti illuda se pensi che ci sia un altro motivo”, aveva inclinato il viso di un lato e la scrutò con finta curiosità.
“Sbaglio o non ti ha neppure chiesto di diventare la sua partner? O di ballare con lui, anche soltanto per una prova amichevole, si intende”.
Lasciò che il silenzio cadesse nella stanza, sembrò letteralmente crogiolarsi della sua confusione per poter affondare la stoccata finale. “Lo so, fa male, ” sarebbe potuta sembrare sincera se non si fosse sforzata di assumere quell'espressione contrita, “ma è il momento che affronti la realtà: se scomparissi da un momento all'altro, a chi credi importerebbe, a parte la tua amica "braccia di legno e occhi a palla"? Persino Hudson ha perso interesse, da quando lo hai condotto di nuovo tra le braccia del suo spaventapasseri”.
Sapeva che Kitty stava soltanto dando sfogo alla sua secolare antipatia. Che il solo fatto che fosse entrata in Accademia le fosse costato il suo odio. Sapeva che i suoi sentimenti per Hunter gliela rendevano ulteriormente detestabile.
Quello che più non riusciva a comprendere, a quel punto, era fin dove le sue parole fossero soltanto una ripicca. E dove si celasse la verità che aveva cercato di ignorare fino a quel momento.
Dove era la fosse Brittany e per quanto avrebbe potuto continuare a vivere quella farsa prima che il suo castello di carte crollasse. Prima che Hunter e poi Neal si stancassero di lei e della sua incapacità di affrontare degnamente una situazione o di esprimere i suoi sentimenti per entrambi. Prima di deludere persino sua madre e l'unico gesto d'amore che, finalmente, poteva compiere per ringraziarla di tutti i sacrifici. Prima che qualcun altro la cacciasse dalla sua vita e lei fosse costretta ad osservare, incapace di impedirlo o di reagire.
Prima di domandarsi, ancora una volta in quegli ultimi dieci anni, cosa ci fosse di sbagliato in sé, che rendeva impossibile a chiunque, al di fuori di sua madre, di amarla.
Le era passata accanto, Kitty, e Brittany aveva voltato il capo bruscamente nel tentativo di nasconderle le lacrime e di trattenere il singhiozzo. La sentì appoggiarle la mano sulla spalla. “Lo sai? Dovremmo parlare più spesso: è stato un piacere”. Le aveva sussurrato malignamente all'orecchio.
Ne sentì i passi allontanarsi nel corridoio e Brittany si strinse le braccia al corpo, prima che i singhiozzi infrangessero il silenzio.
Si lasciò scivolare sul pavimento e si strinse le ginocchia al petto.


~
Le osservò tutte nella loro camerata: Lauren stava raccontando qualcosa e tutte le altre l'ascoltavano attentamente. Alcune ridevano e altre sembravano fin troppo impressionate per farlo, ma erano un gruppo. Condividevano lo stress e la stanchezza delle lunghe giornate, i momenti di soddisfazione o di gioia personali. Erano loro contro il mondo.
Cercò di ricacciare le parole di Kitty dalla mente: incontrò lo sguardo di Marley il cui sorriso si spense al vederne l'espressione.
Brittany trasalì quando si sentì sfiorare alla spalla e si volse ad incontrare lo sguardo di Tina.
“Devi andare dal Preside: mi ha chiesto di chiamarti e vuole che tu lo raggiunga subito, sembra urgente”.
Aveva sbarrato gli occhi, Brittany, la mente ancora febbrile dei troppi pensieri e la tempia che pulsava quasi dolorosamente.
Ringraziò Tina, distolse lo sguardo da Marley, si chiuse la porta alle spalle e si affrettò a percorrere il corridoio ormai più che familiare verso l'ufficio di Neal.
Bussò alla porta.
“Avanti”, le rispose istantaneamente l'uomo: evidentemente la stava attendendo con ansia.
La prima cosa che scorse dalla porta fu lo sguardo serio – molto serio – di Neal, seduto di fronte alla sua scrivania.
Schiuse maggiormente l'uscio e il suo cuore sembrò fermarsi.
I loro sguardi si incontrarono subito e il suo respiro si fermò: sentì il cuore scalpitare furiosamente e la sua mente spegnersi. Per un istante le pareti sembrarono girarle attorno e si sentì mancare il terreno sotto i piedi.
“Ciao Brittany”.
La sua voce era esattamente la stessa: il tempo sembrava non essersi fermato e, in quel lungo intervallo, l'aveva ricordata perfettamente. Era stata un'irrinunciabile parte di sé, il simbolo stesso della sua infanzia, per quanto sbiadita o lontana.
A due metri da lei, suo padre, William Pierce, le stava sorridendo.


To be continued...

Anzitutto spero che abbiate tutti passato un buon Natale e che vi stiate preparando a festeggiare degnamente la fine di quest'anno e l'inizio del prossimo.
Spero non me ne vogliate (troppo) per questo capitolo dai toni più cupi, ma la storia è tutt'altro che al termine. Una sbirciatina al prossimo:

“Mamma, io voglio che tu sia felice più di ogni altra cosa al mondo e hai bisogno di Neal per questo. E io non ti permetterò di perderlo”. “Perché ho la sensazione di star perdendo te?”.
“Essere un uomo non vuol sempre dire essere forte o apparire tale, Hunter. Sotto quella divisa c'è altro e lei lo ha tratto fuori: fa' che non sia stato vano”.
« Se la mia vita potesse somigliare a quella di una principessa, so che tu saresti la mia favola: il mio Principe camuffato da Bestia ».


Vi lascerò il tempo per le vostre elucubrazioni e vi do' appuntamento al 2014, augurandovi il meglio e ringraziandovi, come sempre, di essere partecipi. Anche questa fanfiction è stato uno dei momenti più gratificanti del 2013 e lo devo a voi (anche se adesso magari mi volete un po' male :P) <3

Un forte abbraccione,
Kiki87


1 Cercando il testo della canzone, ho letto che alcuni la attribuiscono a Rihanna, ma non saprei dire se a torto o ragione. In ogni caso, avendo conosciuto ed essendomi affezionata a questa versione, è quella di Ashley (l'unica che si trovi, per altro, persino nei video in cui risulta sia Rihanna a cantare) che vi propongo, Se voleste ascoltarla e vederne il testo originale, cliccate qua: No Princess - Ashley Tisdale
2 Versi tratti da “For the first time”, canzone del musical “Spectacular!” con protagonista lo stesso Nolan. Per ascoltarne il brano e/o vederne il testo originale della sua performance con Tammin Sursok, cliccate qui: For The First Time - Nolan Funk & Tammin Sursok
3 E' dall'inizio della pubblicazione che mi sono crucciata alla ricerca di una presta volto per la madre di Hunter, fino a quando non ho rivisto recentemente la splendida Natalie in un film. Ed ecco dunque l'immagine cui mi sono ispirata per descrivere la fotografia: Rebecca Clarington

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


capitolo 9
Così vicini a raggiungere
quel famoso “vissero tutti felici e contenti”.
Quasi credendo
che non sia una finzione.
E adesso che sei accanto a me,
guarda quanto siamo arrivati lontano.
Siamo così lontani. Così vicini...

Come potrò affrontare i giorni impossibili,
se dovessi perderti adesso?
(So Close – Jon Maclaughlin;
colonna sonora di “Come d'Incanto”
- versione originale).




Capitolo 9.


Odiava quella sensazione: più si avvicinava all'obiettivo e più la distanza sembrava divenire insormontabile. Era come se, a dispetto della sua formazione e dello spasmodico bisogno di tenere tutto sotto controllo, tutto gli stesse sfuggendo dalle dita e non potesse fare nulla per impedirlo.
Erano passati dieci anni dall'ultima volta in cui aveva sentito una simile angoscia, ma allora non c'era stato davvero nulla che avesse potuto fare, non era stato il suo orgoglio a farlo fallire e castigarlo fino a quando il dolore non era cessato, ma consumandolo dentro.
Si fece largo tra la folla di passeggeri che stavano attraversando l'aeroporto e lasciò saettare lo sguardo al tabellone delle partenze, un nodo in gola a realizzare che avrebbe potuto essere troppo tardi, seppur si fosse rifiutato di crederlo, fino a pochi secondi prima.
Cercò l'imbarco, ma la corsa s’interruppe alla vita delle due sagome familiari: il Preside che stava cingendo la fidanzata per le spalle, nell'evidente tentativo di sostenerla. Quest'ultima sembrava aver perso la sua verve e quello scintillio vivace che l'aveva sempre contraddistinta.
Si fermò di fronte a loro e Neal parve sorpreso di scorgerlo.
Non osò pronunciare la domanda che premeva sulle labbra, Hunter, ma non ce ne sarebbe stato bisogno a quel punto. Se non un masochistico desiderio di sentire quelle parole e lasciare che quella realtà si abbattesse su di lui con inaudita violenza.
Scosse il capo, Neal, e Hunter rilasciò il respiro.
“E' troppo tardi”.
Lo sguardo corse alla vetrata: un aereo stava solcando l'azzurro incontaminato e puro. Un colore simile a quello di un paio di iridi che lo avrebbero tormentato da quel momento, ogni volta che avesse chiuso gli occhi.
La lettera, impressa nell'inchiostro rosa e dal profumo di fragola, cadde sul pavimento.



Due giorni prima.


Brittany tremò. Non riusciva a credere a ciò che stava osservando in quel momento: era come se la sua vita le fosse passata davanti agli occhi, in una rapida sequenza d’immagini che sembravano rievocare quel passato che aveva creduto perduto. Sempre meno nitido e sfuggente come un sogno.
Quello stesso volto che era stato il corollario dell'infanzia: il ricordo più dolce e struggente che ancora le spezzava il cuore. Lo stesso viso, impresso in fotografie ingiallite, era a pochi passi da lei e quel sorriso, per quanto dolce e rassicurante, non riuscì a riempirle il cuore di calore.
Sentiva la testa pulsare dolorosamente di tutte le domande che ancora sostavano senza alcuna risposta.
“Papà”, riuscì a dire con voce rotta e per un istante fu come se quei dieci anni non fossero mai trascorsi e di nuovo lo stesse osservando come allora: la stessa devozione e lo stesso bisogno.
Era stato un gesto impercettibile quello con cui Neal parve chinare il capo: un moto di resa e di consapevolezza. “Vi lascio soli”, si era raddrizzato, lo sguardo più serio che mai, mentre scrutava l'uomo con i pugni stretti lungo i fianchi. Alcun alone di complicità o di simpatia. Si volse a Brittany e ne sfiorò la gota. “Sarò qui fuori”, ammorbidì le labbra in un coraggioso tentativo di sorridere. Sembrò faticare a percorrere quei pochi passi che lo separavano dall'uscita, ma, infine, si chiuse l'uscio alle spalle.
Aveva allargato le braccia, William, in un chiaro segno di ciò che le stava chiedendo.
Sentì il respiro farsi più rado, Brittany, una parte di sé avrebbe voluto coprire quella distanza (ben più di dieci anni di lontananza), ma restò immobile, le braccia a stringersi il corpo. “C-Cosa ci fai qui?”, riuscì a chiedere con voce stentata. Levò finalmente gli occhi ad incontrare nuovamente quelli dell'uomo.
William abbassò le braccia, ma il sorriso non sfumò dalle labbra e fu lui stesso a percorrere quei pochi passi che li separavano. “Sono tornato perché questa volta resterò”, aveva sussurrato e Brittany sentì il nodo in gola farsi più stretto, il respiro più pesante.
Sostò in quell'istante, quasi fosse quello che dovesse stabilire cosa ne sarebbe stato della sua vita.
Lasciò che le si avvicinasse, lo vide allungare le braccia ed attese un moto di calore, nel momento in cui l'avrebbe nuovamente stretta tra le sue braccia.
“Sta lontano da mia figlia!”, la voce distorta dalla rabbia di sua madre la fece trasalire. Entrò a grandi passi, seguita da Neal che stava vanamente cercando di trattenerla.
“Ciao Shirley, ti trovo in splendida forma”, la salutò William.
La donna gli rivolse uno sguardo carico d'odio e si limitò ad appoggiare la mano sulla spalla della figlia. Si frappose tra i due in un atteggiamento evidentemente difensivo.
“Come osi presentarti qui, dopo dieci anni, e pretendere di parlare con lei?!”, la sua voce non era mai persa così stridula e il suo sguardo non aveva mai lampeggiato di simile ira. “Come osi guardarla in faccia, dopo quello che le hai fatto?!”.
Brittany trasalì e quelle parole, la veemenza con cui furono pronunciate e l'eco delle stesse sembrò riempire quel silenzio innaturale.
Non parve scomporsi, William, lo sguardo comprensivo rivolto a Brittany le cui iridi saettavano dall'uno all'altra con espressione evidentemente spaventata.
“Come stavo spiegando al tuo fidanzato, vorrei solo avere un'occasione per parlare con nostra figlia”.
Rise senza allegria, Shirley, le mani piantate sui fianchi. “Hai perso quel diritto! Dieci anni fa!”, aveva ribattuto aspramente, lo sguardo ancora colmo di puro e semplice disprezzo.
Aveva sospirato, William, il cui sorriso non era ancora sfumato. “Credo che Brittany sia in grado di decidere da sola”, replicò con tono paziente.
“Non parlare come se questa fosse una delle tue cause in tribunale!”, lo aveva ulteriormente incalzato, Shirley, la cui rabbia sembrava a stento trattenuta nel suo corpo esile.
Scosse il capo, Brittany, il viso tra le mani, quando le urla della madre sembrarono aprire una porta dei suoi ricordi: un frammento in cui il suo alter ego più minuto stava stringendo Lord Tubbington in una notte di tempesta. Entrambi credevano che dormisse, ma il loro litigio le aveva tolto il respiro e ogni traccia di sonno.
Sentì gli occhi farsi lucidi ma li schiuse. “Basta, tutti e due!”, li esortò con voce strozzata.
Sembrò tutto fermarsi in quel momento: si volsero tutti in sua direzione e sua madre cercò di stringerla a sé, baciandole la fronte e sfiorandone i capelli. “Vai fuori, Brittany, parleremo dopo”.
“Non puoi trattarla come una bambina”, era intervenuta la voce di William il cui sorriso aveva lasciato spazio ad un'espressione di disappunto.
“Finitela!”, era stata la voce di Neal a sovrastarli. “Brittany ha ragione e se è per lei che volete agire, come suoi genitori dovreste ascoltarla”, aveva parlato in tono serio che sembrava così mal assortito a quei lineamenti spesso ammorbiditi dal sorriso più gioviale e sbarazzino. Era stato lui stesso ad avvicinarsi a Brittany, ignorando lo sguardo risentito di Shirley, per poi appoggiarle le mani sulle spalle. “Vuoi parlare con tuo padre, Brittany? Vuoi avere delle risposte?”.
Brittany si era morsa il labbro, lo sguardo che correva dall'uno all'altra: ma fu di fronte agli occhi quasi imploranti della madre che il suo respiro parve fermarsi. Fu la pressione di Neal sulle spalle a farla riscuotere e questi le sorrise incoraggiante. “Va tutto bene”, l'aveva rassicurata.
Aveva annuito, Brittany, con aria contrita.
“Bene”, Neal si era voltato verso gli altri due. “Credo che avremmo tutti bisogno di tempo per calmarci: forse William potrebbe venire a cena da noi, questa sera”.
Quest'ultimo era apparso compiaciuto. “Sei molto gentile, Neal, ma avrei un'altra proposta a dire il vero e, come sempre, mi piace agire in anticipo e pianificare tutto per tempo”, aveva allungato una busta rettangolare verso Brittany che l'aveva presa con aria curiosa. Le sue dita tremarono e impallidì alla vista di un biglietto aereo.
Fu a lei che si rivolse, ignorando i due fidanzati: “Ti darò tutte le risposte che vuoi, ma non soltanto: voglio darti tutto ciò che ti ho tolto. Vieni a Washington con me”.
Un gemito le era sgorgato dalle labbra: il suo cuore sembrò scalpitare furiosamente e il biglietto cadde sul pavimento in un fruscio.
Shirley era impallidita, per la prima volta anche la mano di Neal sulla sua spalla vacillò.
“Non me ne andrò questa volta,” aveva sussurrato William nell'abbottonarsi nuovamente il cappotto e passarle accanto. “Decidi con calma: ne riparleremo stasera”.
Non aveva atteso risposta, le aveva sorriso un'ultima volta e aveva lasciato la stanza. Sembrò indifferente al silenzio sconcertato e teso che aveva lasciato alle sue spalle.

~

Sembrava una quiete irreale quella che si respirava quella sera: Brittany non aveva fatto ritorno alla camerata, ma era tornata a casa con Neal. Vi era stata un'atmosfera pesante per tutta la serata: sembrava che ognuno fosse completamente estraneo agli altri ma che, al contempo, le analoghe angosce ed emozioni della giornata fossero esposte sulla tavola insieme alle portate.
Soltanto suo padre sembrava perfettamente a suo agio: quasi stesse loro illustrando l'arringa che avrebbe portato alla vittoria della sentenza, quasi fosse stato già tutto stabilito ed ognuno di loro fosse soltanto una pedina di un gioco pianificato fin dall'inizio, con dieci anni d’intervallo.
Continuava ad osservare suo padre, ancora incredula: aveva raccontato della sua vita a Washington: come se il trasferimento fosse stata una decisione ponderata (e doveva essere stato così), senza alcuna menzione della fuga dalla sua stessa casa e dell'aver abbandonato la sua famiglia. Soltanto un breve racconto del suo nuovo studio legale di cui era socio anziano e donna che aveva conosciuto: di famiglia ricca ed elegante e già madre di una figlia nata da un precedente matrimonio. Dal loro matrimonio era nata un'altra figlia che aveva da poco compiuto otto anni.
Ha otto anni, quell'informazione era rimasta impressa nella mente della ragazza, la sua stessa età quando se n'era andato.

Quella notte non riuscì a prendere sonno: strinse tra le mani quel libro, quasi sperando che sfogliandolo, sarebbe riuscita ancora una volta a trovare la risposta ai suoi dubbi.
Si riscosse, quando sentì bussare alla porta: sua madre aveva indosso la camicia da notte, ma sembrava tutt'altro che stanca, nonostante si denotasse l'espressione fin troppo seria. Le sorrise ma quel suo solito brio sembrava scomparso. “Non dormi?”, le aveva chiesto, ma erano entrambe consapevoli che si trattava di una domanda retorica.
“Neppure io”, aggiunse con aria comprensiva e le porse una delle tazze di cioccolata. Si sedette sul letto, al suo fianco e, per qualche istante, sostarono in quel silenzio che ricordava la loro casa e ciò che era stata la loro vita, a pochi giorni dalla partenza di suo padre. Quando persino la loro spensieratezza sembrava essersene andata con lui, prima che riuscissero a ritrovare il sorriso e l'energia di andare avanti. Affidandosi l'una all'altra, fino all'arrivo di Neal.
Non aveva ancora assaggiato la cioccolata, Brittany, aveva adagiato la tazza sul comodino, ma continuava a sfiorare il libro con aria assorta, lo sguardo perso nel vuoto.
“Posso?”, gentilmente sua madre aveva preso il volume e lo aveva schiuso: Brittany la osservò leggere la dedica, ma non fece alcun commento al riguardo.
“Brittany”, pronunciò il suo nome dopo quello che parve un tempo infinito.
“Mamma,” la ragazza aveva la voce rotta, ma sollevò gli occhi lucidi, “mi dispiace così tanto”.
Shirley la guardò incredula, lo stesso scintillio di un dolore che non era mai stato espresso. “Di cosa dovresti scusarti?”, cercò di sorridere con la consueta ironia. “Io ti ho portato via dalla tua città e tu sei stata così coraggiosa da provare la vita dell'Accademia: sono così fiera di te e se forse io non fossi stata così egoista-”, la sua voce sembrava giunta ad un punto di rottura, come se improvvisamente fosse necessario comprendere quale fosse stato il momento che aveva compromesso tutto. Come se quella condizione potesse rendere più accettabile ciò che sarebbe accaduto dopo.
“Tu mi hai dato tutto,” aveva obiettato Brittany, “e io ti giuro che ci ho provato”.
“Lo so”, aveva sussurrato Shirley, il tono più dolce. “Ma non avrei dovuto sottoporti ad una simile pressione e se tu non eri pronta a questa nuova vita, allora-”.
“Mamma, io voglio che tu sia felice più d’ogni altra cosa, ” le aveva stretto la mano con tale energia che era stata Shirley ad immergersi nel suo sguardo, alla ricerca di un conforto e di una consolazione, “e hai bisogno di Neal per questo. E io non ti permetterò di perderlo”.
“Perché ho la sensazione di star perdendo te?”, era la prima volta che sua madre appariva così vulnerabile ed indifesa.
Brittany la strinse tra le braccia con rinnovata energia, gli occhi lucidi e le labbra tremanti.
“Non mi perderai mai: sarai sempre con me e io tornerò da te”, le aveva detto con voce incrinata ma la strinse più forte, quasi bisognosa che lei capisse e che questo rendesse tutto più semplice. “Ma ho bisogno di risposte, prima di andare avanti”.
“Se ti dovesse ferire di nuovo, non potrei sopportarlo”. Era stata l'ammissione con voce strozzata.
“Hai già fatto tanto per me: è il momento che io ce la faccia da sola, mi capisci, vero?”.
Aveva annuito, Shirley, ma aveva tirato su con il naso. “Preferivo quando venivi da me con Lord Coso in braccio, e potevamo dormire tutti insieme”.
Aveva sorriso, Brittany, ma l'aveva guardata con devozione. “Grazie di avermi lasciato scegliere”.
“Ringrazia Neal, quel traditore, se fosse stato per me-”.
“Mamma”, l'aveva richiamata con aria incredula, afflitta all'idea di aver creato una frattura tra loro. Soprattutto quando l'uomo, ancora una volta, aveva agito anteponendo il suo bisogno al proprio.
“Scusami, era già dura vederti solo nei weekend e adesso...”.
“Io tornerò da te, lo sai questo, vero?”. Aveva ribadito a voce più alta.
“Sarà meglio per te, perché neppure tutto l'esercito degli Stati Uniti mi fermerebbe dal venirti a riprendere per i capelli, se necessario”.
Aveva riso, Brittany, ricacciando le lacrime ed erano rimaste immobili qualche istante ad assaporare quel contatto e quella vicinanza, quella promessa che sembrava più vitale che mai.
Si era schiarito la voce, Neal, che era apparso sulla soglia dall'uscio: bussò cautamente e Shirley si asciugò gli occhi. “Al diavolo, mi serve dell'altra panna”, era uscita dalla camera con la sua tazza di cioccolata e Brittany aveva sorriso all'uomo.
“Posso entrare?”.
Aveva annuito, Brittany, ed aveva atteso che Neal facesse il suo ingresso. Aveva sfiorato con lo sguardo quelle pareti prima di prendere posto sulla poltrona.
Sentiva la tensione crescere ma quando lo guardò, non lo sembrava più il gigante che le era apparso la prima volta. Solo un uomo dal dolce sorriso e quelle maniere tanto dolci, quello scintillio più giocoso nello sguardo che, anche nel suo caso, aveva lasciato spazio ad un'aria più dimessa.
“Ti prenderai cura di lei, lo so, però te lo chiedo lo stesso”.
Aveva annuito, Neal. “Lo farei anche a costo della mia vita”.
“Lo so,” aveva replicato Brittany. “e non ti ho mai detto grazie per questo”.
Aveva scosso il capo, Neal. “Io dovrei ringraziare per essere entrato nella vostra vita e mi dispiace se ho sbagliato con te o-”, Neal sembrava faticare a trovare le parole, ma Brittany scosse il capo con aria decisa e si accomodò sul bracciolo della poltrona.
“Tu non hai sbagliato nulla,” ne aveva appoggiato la mano sulla spalla. “ e se anche tornassi indietro, rifarei tutto soltanto per poterti conoscere meglio”.
Aveva sorriso, Neal. “Hai un cuore puro, Brittany: non cambiare mai. Promettimi che se avrai bisogno-”.
“Conterò su di te. Ma io tornerò, Neal, per te e la mamma”.
L'uomo sospirò. Sembrò in procinto di dire qualcosa, ma scosse il capo impercettibilmente.
Si rimise in piedi e, dopo un solo istante di esitazione, si chinò ad appoggiare le labbra contro la sua fronte. Chiuse gli occhi, Brittany, e inspirò quella vicinanza, desiderò stringerlo ma quando schiuse gli occhi, Neal era già sulla porta.
“Buonanotte”, sussurrò e Brittany gli sorrise.
Aveva creduto che prendere quella decisione avrebbe reso tutto più semplice, almeno ciò che ne sarebbe derivato. Ma quella sera la sua unica certezza era quella di aver spezzato il cuore di due persone.
Non vi ferirò mai più, sussurrò tra sé e sé, le guance bagnate mentre si appoggiava nuovamente al materasso e cercava di dimenticare tutto nell'oblio di un sonno ristoratore.


~

Era angosciante l'idea che avrebbe percorso quel corridoio per l'ultima volta, ancora più struggente il pensiero che fosse l'unica a sentire quel nodo in gola. Sempre più pungente mentre raggiungeva la sua meta.
Cercò di cacciare le immagini dell'ultima occasione in cui si era trovata di fronte a quell'uscio: nella mente ancora il suono della sua voce, distorto dalla rabbia e quei lineamenti contratti. Trasse un profondo respiro, per un istante sfiorò la superficie di legno: quando avrebbe bussato, tutto sarebbe cambiato di conseguenza. Assaporò quel momento di sospensione del tempo e della sua vita, prima di avere il coraggio di palesare la sua presenza.
Uno scalpiccio di passi familiari e, quando schiuse la porta, quello stesso paio d’iridi verdi, così chiare nei suoi sogni e nei suoi ricordi più recenti, la osservarono per un lungo istante di sorpresa tensione. Gli occhiali appoggiati sul naso, Hunter sembrò vacillare alla sua vista e sentì nuovamente quella dolorosa contrazione allo stomaco, ma cercò di non ricordarsi che probabilmente sarebbe stata l'ultima volta.
Si sarebbe dissolta, quando fosse stata lontana da Colorado Springs e avesse pensato a lui?
Non avrebbe avuto neppure una fotografia con sé, ma la dolce consapevolezza che quei lineamenti sarebbero rimasti integri nella sua memoria.
Non fece alcun cenno di voler entrare: era come se avesse contaminato quel luogo, oltre al loro rapporto, e non avrebbe fatto alcuna differenza fino a quando non l'avesse perdonata.
Rilasciò il respiro, un vago sorriso alla vista di Mr Pussy che, da sotto le gambe del padrone, si stava sporgendo per strusciarsi alle sue caviglie. Si chinò a sfiorarne appena il capo, prima di ergersi nuovamente.
“Vorrei riavere il mio gatto, per favore”, si sentì dire dopo quel lungo istante di silenzio.
Se prima di allora, era stato un silenzio quasi complice, era come se quell'ultimo incontro avesse segnato una barriera persino più estesa di quella ai cui estremi si erano posti, prima di imparare a conoscersi.
Si accigliò, Hunter, con aria frastornata: che si aspettasse un altro tipo di dialogo non avrebbe saputo dirlo. Non aveva mai avuto alcuna certezza nei suoi riguardi.
“Sai che non puoi tenerlo,” il tono era ragionevole e composto mentre stringeva le braccia al petto, il viso inclinato di un lato nello scrutarla. “Qui è al sicuro ma se vuoi vederlo-”, aveva fatto cenno di scostarsi dalla porta.
Sorrise amaramente, Brittany, all'idea che fosse pronto a condividere di nuovo il suo spazio personale. “Sto per andare a vivere a Washington e spero di portarlo con me”.
“Cosa?”. Non cercò neppure di celare la reale sorpresa che ne aveva fatto sgranare gli occhi e schiudere leggermente le labbra.
“Andrò a vivere con mio padre e la sua famiglia”, spiegò in un sussurro, tormentandosi i capelli. “E' tornato per me”.
Parvero volerci diversi istanti prima che Hunter assimilasse la notizia: la mano a risistemare gli occhiali, ma quel cipiglio incredulo sul volto, ne tradiva la reale confusione.
Aveva sospirato. “Mi sembra una decisione improvvisa: credevo che ormai l'Accademia significasse qualcosa per te”, seppur si sforzasse di apparire calmo, Brittany ebbe l'impressione vi fosse quasi un'accusa nel suo tono.
Sentì gli occhi prudere, ma distolse lo sguardo e si strinse nelle spalle. “Era così infatti”, levò nuovamente lo sguardo su di lui. “Ma hai sempre avuto ragione e non potevo continuare ad ignorare che questo non è il mio posto”. Un sussurro ovattato ma sembrò colpirlo in modo evidente.
Tanto che Brittany avrebbe voluto allontanarsi rapidamente, prima che riuscisse a compromettere la sua risoluzione ed intaccarne la sicurezza.
“Il mio gatto, per favore”, insistette.
Ne sostenne lo sguardo per un altro lungo istante, Hunter, prima di rabbuiarsi e rientrare nella camera: lo prese tra le braccia e glielo porse dopo pochi istanti.
Indugiarono entrambi sulla soglia e Brittany strinse a sé Lord Tubbington, quasi avesse il disperato bisogno di un appiglio. “E' stato bello conoscerti”, si era sentita dire e aveva cercato di contenere l'emozione nella sua voce. “E scusami... per tutto”, sussurrò con voce più incrinata al ricordo di quell'ultimo e fatale errore.
Aveva distolto lo sguardo, Hunter, la mascella contratta ma un impercettibile cenno d’assenso. “Spero che starai bene, a Washington”.
Parole formali e troppi silenzi sospesi: una confessione mai pronunciata e probabilmente destinata a restare celata, ma la consapevolezza sempre più dilaniante che fosse troppo tardi.
“Ciao Hunter”, si era voltata con il cuore in gola nel compiere il percorso inverso, un passo alla volta e la speranza di sentirne nuovamente la voce.
Fin quando la porta non si chiuse: non aveva atteso che svoltasse l'angolo. Era definitivamente un addio.
Emise un singhiozzo e sentì Lord Tubbington sfregarsi al suo mento in un placido miagolio, ma scosse il capo e cercò di riprendere respiro. Uscì dal campus e raggiunse l'auto della madre.
“Stai bene?”, le chiese quest'ultima senza alcuna incrinatura maliziosa o complice nella voce.
“Sì,” sussurrò e si sforzò di sorridere, dopo aver rimosso le ultime lacrime, “è la cosa giusta”.
Si domandò se nel tentativo di persuadere la madre, non si celasse un disperato bisogno di una conferma persino per se stessa.

~

La penna scorreva sul foglio saltuariamente: qualche breve segno con l'inchiostro rosso a correggere la punteggiatura o un difetto grammaticale del test di metà semestre.
Aveva un cipiglio corrugato a rivelare la concentrazione che stava mettendo in quel gesto, ma lentamente un sorriso ne increspò le labbra. Poteva dirsi più che soddisfatto del risultato .
Stava per scrivere il giudizio all'apice del foglio quando, come una sorta di tornado umano, Neal Johnson, entrò nella stanza. Erano rare le occasioni in cui ne aveva scorto una simile espressione: non vi era alcun guizzo nello sguardo o un'espressione bonaria. Soltanto autentica rabbia mentre, senza pronunciare alcuna parola, si avvicinava alla sua libreria per poi cominciare a scaraventarne i libri a terra con il viso evidentemente trasfigurato dalla tensione.
Non si scompose affatto, Jonathan Clarington, ma il cipiglio sulla fronte si accentuò e lo osservò: attese qualche istante, fino a quando l'altro non sembrò completamente senza fiato e abbandonò le braccia lungo i fianchi. Stava ansimando.
“Gentile da parte tua togliere la polvere dai miei libri”, esordì con tono imperturbabile e solo allora Neal lo guardò. Sembrava invecchiato di dieci anni, era come se avesse perso quella genuinità che gli conferiva un'aria più giovane, malgrado fossero coetanei.
Sospirò, Jonathan. “Pensi che continuerai ad infierire su personaggi storici morti o ti deciderai a dirmi cosa sta succedendo?”.
Strinse le labbra, Neal, prima di serrare la mascella. “Se ne va”, riuscì a biascicare.
La penna cadde sul foglio e Jonathan sgranò gli occhi. “Shirley? Cosa diavolo è-?”.
“Brittany”, precisò Neal e il cipiglio dell'altro si approfondì.
“Se vuole lasciare l'Accademia, immagino che-”.
“Andrà a stare a Washinton con quel... William”, masticò quel nome con tutto il disprezzo di cui era capace.
Si alzò bruscamente in piedi, Jonathan, e circumnavigò la scrivania, i pugni contratti contro i fianchi, seppur sembrasse sforzarsi di mantenere la sua tipica compostezza e raziocinio. “D'accordo”, sollevò le mani come a voler prendere il controllo della situazione. “Hai provato a parlarle?”.
Scosse il capo, Neal, che si afflosciò contro il muro e parve svuotato. “Non potrei impedirlo, neppure se lo volessi: è una sua decisione”.
Un impercettibile sollevare gli occhi al cielo di Jonathan che tuttavia sospirò. “Protesti comunque dirle cosa provi”, lo incalzò.
Neal lo guardò con aria quasi colpevole e deglutì a fatica. “Volevo farlo,” ammise e scosse il capo, “ma sarebbe egoistico da parte mia e dovrei anteporre il suo benessere al mio”.
“Forse”, gli concesse Jonathan scrollando le spalle. “Ma ciò non significa che tu non abbia diritto di soffrire per questa decisione o di farle sapere che l'ami come fosse tua figlia”.
Si era rabbuiato. “Quello che non capisco è come può accadere così... improvvisamente. Senza contare che avrei davvero voluto vedere con quale faccia tosta quella specie di uomo si sia presentato: sarei stato più che felice di dargli il mio bentornato”, aveva soggiunto con aria più minacciosa.
Aveva sorriso amaramente Neal. “Ha bisogno di risposte che solo lui può darle”.
“Oh, balle,” borbottò Jonathan con aria spazientita, “è evidente che stia scappando, da cosa o da chi,” e il suo cipiglio si era corrugato, “non saprei dirlo ma se non la fermerete, sarete tutti suoi complici”.
“L'ho forzata a vivere in una realtà che non è la sua: avrei dovuto incoraggiarla a seguire la danza o, non lo so, avrei dovuto trasferirmi a New York e lasciare a te la direzione, io-”.
Scosse il capo, Jonathan, quasi a volerne lenire gli evidenti sensi di colpa e gli premette la mano sulla spalla. “Magari Brittany non appartiene a questo posto, ma non potete lasciare che quell'uomo le porti di nuovo via la serenità e la illuda del contrario”.
“E' troppo tardi”, aveva commentato Neal in un flebile sussurro.
Scosse il capo, Jonathan, ritrasse la mano e si scostò bruscamente: senza pronunciare motto si avvicinò all'attaccapanni e prese il cappotto, sotto lo sguardo sconvolto dell'altro.
“Dove vai?”.
“A cercare di risolvere l'altra parte dell'equazione”, fu la laconica risposta prima che si chiudesse la porta alle spalle.
Si era stretto nel lungo cappotto e aveva attraversato i campi d'addestramento con incedere sicuro e fluido: non era stato difficile scorgere, anche da lontano, il plotone che il figlio stava addestrando.
Mentre tutti gli altri erano impegnati nel compiere il loro percorso ad ostacolo, muovendosi come un'unica macchina i cui ingranaggi erano perfettamente oliati, Finn Hudson era l'unico disposto sul prato, sotto lo sguardo imperturbabile del figlio. Il viso del ragazzone era paonazzo ed imperlato di sudore mentre sollevava il busto, le braccia intrecciate sulla nuca ad eseguire la serie di addominali.
Appoggiò la mano sulla spalla del figlio: quest'ultimo si volse ad osservarlo con aria evidentemente sorpresa. Era piuttosto raro vederlo nuovamente percorrere i campi d'addestramento e abbandonare la sua postazione dietro una scrivania o di fronte ad una classe.
Si chinò, parlando in un sussurro. “Quando avresti avuto intenzione di dirmi che Brittany se ne sta andando?”.
La sorpresa divenne persino più evidente sul volto del giovane che distolse rapidamente lo sguardo, per poi stringersi nelle spalle. “Le notizie corrono in fretta”, si limitò a dire con ostentata indifferenza.
Scosse il capo, Jonathan, prima di voltarsi verso il plotone. “L'allenamento è sospeso: rientrate tutti immediatamente”, lasciò echeggiare la sua voce.
Un cicaleccio sorpreso si diffuse: si fermarono tutti ad osservare i Clarington. Finn stava già sollevandosi con il sorriso ritrovato, quando Hunter strinse i pugni lungo i fianchi. “Non per te, Hudson”, sibilò. Parve mortificato, il ragazzone, e assunse un'aria contrita, mentre tutti gli altri, con aria evidentemente felice, si allontanavano. Alcuni persino dandogli una pacca sulla spalla, a mo' di consolazione.
“Ritirati pure, Hudson”, ribatté Jonathan.
Parve confuso, Finn, che guardò da padre a figlio, grattandosi nervosamente la nuca. “Devo dimagrire... Signore?”, chiese, quasi ad essere certo di non aver equivocato l'ordine.
Sospirò, Jonathan, che scosse il capo, indicando con il mento la struttura dell'Accademia verso cui stavano tutti dirigendosi, cercando di sfuggire al gelo invernale. “Alla doccia!”.
“FORTE!”, esclamò Finn con aria beata, quasi timoroso che Hunter potesse riprendersi da quell'espressione d’evidente stupore ed incredulità. Si affrettò a raggiungere gli altri, dopo aver aggiunto un: “Cioè, grazie, Signore!”. Non attese risposta e riprese a correre più velocemente di quanto Hunter stesso si sarebbe mai aspettato. “Puck! Puck, ASPETTAMI!”.
Soltanto quando anche la sua sagoma fu soltanto un punto in lontananza, Jonathan si volse verso il figlio che aveva stretto le braccia al petto e lo scrutava con le sopracciglia inarcate, in un'espressione di evidente insoddisfazione per quell'iniziativa.
“Allora,” lo incalzò il padre con aria perfettamente tranquilla. “cosa hai intenzione di fare?”.
Non batté ciglio, Hunter, e Jonathan ebbe la sgradevole sensazione che quella nuova serenità che aveva scorto nel suo sguardo negli ultimi mesi, si fosse dissolta e che avesse nuovamente di fronte una sua copia apatica.
“E' una sua decisione”, proferì dopo un lungo istante di silenzio, continuando ad osservare il padre con la stessa aria implacabile.
Jonathan sospirò. “E con questo siamo a due”, commentò tra sé e sé prima di osservarlo con evidente preoccupazione. “Non è questo il punto e lo sai”, appoggiò la mano sulla sua spalla, quasi così facendo riuscisse a stabilire un contatto abbastanza ristretto, perché il giovane si sentisse in grado di esprimersi liberamente e lasciarsi andare.
“Ascolta, lo so che la notizia di me e Julienne è stata inaspettata e probabilmente anche improvvisa, ma sai anche che Rebecca è stata l'amore della mia vita”, la sua voce così pacata aveva per la prima volta subito una flessione. I suoi stessi lineamenti e il suo sguardo sembrarono intaccati da quelle parole, al solo rievocare l'immagine di quel volto e di una scomparsa prematura con cui stavano ancora cercando di convivere dopo dieci anni.
Aveva distolto bruscamente lo sguardo, Hunter, si era irrigidito come se lo avesse colpito e parve più che mai cercare un pretesto per non osservarlo, per non lasciare che qualcuno scrutasse nelle sue emozioni. La sola menzione sembrava insopportabile. “Questo non c'entra”, pronunciò e la sua voce non riuscì a tradire quella flessione più tremula.
Scosse il capo, Jonathan. “Oh, sì. E' così e così sarà fino a quando non riuscirai ad affrontare il dolore e smetterla di seppellirlo”, aveva ribattuto.
Il suo stesso sguardo verde scintillò nuovamente. “Ogni singolo giorno...”, sembrò lui stesso faticare a trovare le parole ed era probabilmente la prima volta che Hunter ne osservava l'aria più vulnerabile. Probabilmente, illudendosi che suo padre fosse implacabile, aveva sperato che quella stessa apparente invulnerabilità, potesse renderlo più forte.
“Non passa un giorno senza che io ripensi a quella notte: ho smesso di cercare un perché o di prendermela con il destino, alla fine mi resta il rimpianto di non averle ricordato quanto l'amassi, prima di quell'incidente. Crediamo che il tempo che ci è concesso sia infinito, ma non è così: noi due dovremmo ricordarlo, meglio di chiunque altro. Se hai qualcosa da dirle, anche se non le facesse cambiare idea, dovresti farlo almeno per te stesso”.
Un nervo vibrò sulla mascella di Hunter che aveva stretto i pugni lungo i fianchi e parve, per la prima volta, realmente intaccato. Deglutì e fu dopo un lungo istante che rilasciò il fiato seppur la voce apparisse più roca. “Non posso fermarla”.
Sospirò, Jonathan. “Brittany sta scappando, non voglio neppure sapere cosa sia successo tra voi, ma tu, ” gli aveva cinto entrambe le spalle, nel tentativo di scuoterlo, “potresti essere la certezza di cui ha disperatamente bisogno in questo momento”.
Parve non riuscire a trovare le parole, Hunter, lo sguardo si scurì e il respiro divenne più rado.
“Essere un uomo non vuol dire essere sempre forte o apparire tale, Hunter. Sotto quella divisa c'è altro e lei lo ha tratto fuori: fa' che non sia stato vano. Sii chi desideri essere, finalmente”.
Aveva scostato le mani e, dopo un altro lungo istante di silenzio, si era voltato, le mani affondate nel lungo cappotto. Sembrò in procinto di lasciarlo ai suoi pensieri, ma lo osservò ancora una volta, da sopra la propria spalla.
Un sorriso a fior di labbra. “Per la cronaca, scommetto che anche i Principi avevano una divisa nelle favole dei Grimm”.
Un vago colorito rosato sulle guance di Hunter, ma non ribatté.
Osservò suo padre allontanarsi. Un vago sospiro e spostò lo sguardo sull'altura.

~

Quando si alzò quel mattino, sentì la tempia pulsare: decisamente nelle ultime notti il sonno era tardato a giungere. Scostò la coperta e si passò una mano sul volto: una fortuna che fosse Sabato o sarebbe già stato in piedi molte ore prima per la corsa e l'ispezione della camerata.
Si era infilato sotto la doccia calda e aveva lasciato che il calore s’infrangesse sulla pelle, quasi sperando che anche i suoi tormentati pensieri fossero lavati via dal bagnoschiuma.
Stava scegliendo il maglione da indossare e lo sguardo si appoggiò sul comodino accanto al letto.
Da molto tempo era come se la sua vita si fosse fermata quella notte: l'ultima volta che aveva scrutato l'orologio, ed era passata da poco la mezzanotte del primo Gennaio di dieci anni prima.
Si avvicinò cautamente al mobile, sul quale Mr Pussy si stava stiracchiando con tanto di fusa, e lentamente schiuse il cassetto. Dopo quella che parve un'eternità, voltò la cornice e scrutò il viso della donna, soffermandosi sullo sguardo così dolce e quel sorriso pregno d’amore e di dolcezza.
Se avesse socchiuso gli occhi, avrebbe persino potuto sentire il dolce scampanellio della voce e della risata nell'appoggiarsi alla sua spalla. Quella dolce pressione e il calore di quell'abbraccio.
La posò sul comodino con aria assorta: fece per chiudere il cassetto, ma corrugò le sopracciglia alla vista di una busta rosa. Aveva un intenso profumo di fragola, quasi vi fosse stato spruzzato addosso volontariamente.
Il suo cuore accelerò i battiti, quando quel volto gli si materializzò davanti: soltanto in quel momento ripensò che, nello scorgerla proprio davanti a quel mobile, aveva alluso al volergli lasciare qualcosa.
Quasi in uno stato catatonico la prese tra le mani e si lasciò cadere sul letto: osservò il proprio nome impresso in una calligrafia femminile dai caratteri tondeggianti, almeno quanto le circonferenze che descriveva danzando.
Un solo attimo d’esitazione prima di stracciarne l'involucro per leggerne il contenuto: la stessa calligrafia con cui aveva stilato il suo nome e lo stesso inchiostro rosa con cui doveva aver firmato il modulo d’iscrizione al Glee Club. Si sorprese di quanto tempo sembrava essere trascorso, e di quante occasioni erano state sprecate.
Scosse il capo e lo sguardo verde scivolò sulle righe scritte, un sussulto al cuore a leggerne la data.

31 Dicembre 2013.1
Caro Hunter,
E' la prima volta che provo a scrivere una lettera per qualcuno, non so neppure come si dovrebbe fare o cosa si dovrebbe dire.
A volte vorrei che la mia vita fosse come quella delle favole: una principessa a cui tutti vogliono bene, che vive in un luogo felice e ha una mamma e un papà che le hanno insegnato ad avere il suo “e vissero per sempre felici e contenti”.
Non è sempre così. So che sembro più piccola della mia età e che non sempre dico la cosa giusta. So anche che la vita è molto più difficile, anche se streghe e unicorni non esistono.
Ma mia madre mi ha insegnato a guardare le cose bolle, a cercare qualcosa di “favoloso” anche nella realtà. E credo di averlo trovato.
Quando mio padre mi leggeva di un Principe, ho sempre immaginato che sarebbe stato come nelle favole: sempre sorridente, con lo sguardo felice, tante dolci parole che mi avrebbero fatto venire le farfalle nello stomaco. Sto rivalutando l'idea e credo che il Principe Azzurro sia troppo perfetto per essere vero.
Sto scoprendo (ma ancora non ho finito leggere il libro) che esiste un altro Principe che spesso è sottovalutato: quello che all'inizio ha un brutto carattere, sembra persino malvagio, non sorride mai ma, se guardato attentamente, nasconde uno sguardo più triste. E tanta solitudine.
Anche se si fa chiamare “Bestia” è pur sempre un Principe. Ma il suo sorriso vale persino più di quello del Principe Azzurro e così un suo abbraccio o il suo semplice sguardo.
Se la mia vita potesse somigliare a quella di una Principessa, so che tu saresti la mia favola. Il mio Principe camuffato da Bestia (senza offesa!).

Ma non devi dire nulla, lo capirò e non ti chiederò mai nulla: fai già tanto per me, ogni volta che mi sorridi. Quindi non smettere di farlo e spero di poter sognare ancora un po' di essere quella Principessa.
Grazie per farmi innamorare di te,
ogni giorno di più.
Con tutto il mio affetto,

Brittany.

Con le dita tremanti, insinuò nuovamente la lettura nella busta, prese il cappotto ed uscì rapidamente dalla stanza.
Doveva soltanto augurarsi che non fossero ancora usciti di casa.

~

Presente

E' troppo tardi”.
Le parole di Neal echeggiarono a lungo nella sua mente, anche quando fu uscito dall'aeroporto: lo sguardo ancora volto al cielo, laddove l'aereo era scomparso, dopo aver lasciato una lunga scia.
Serrò la mascella, uno spasmo doloroso all'altezza del petto e, per la seconda volta nella sua vita, Hunter Clarington desiderò non sentire nulla ed estraniarsi dal suo stesso corpo.
Per la seconda volta in vita sua, ebbe la sensazione che tutto gli si sgretolasse addosso e che non potesse fare nulla per controllarlo.


To be continued...


Spero che abbiate passato bene le festività e il 2014 possa sorridervi.
Da parte mia sono in piena sessione invernale per l'università ma la scrittura e le fiction non mancano di darmi momenti di relax e di consolazione allo stress quotidiano.
Capitolo di transizione ma al contempo la svolta che porterà al compimento della fanfiction e degli ultimi nodi da sciogliere.
Uno sguardo al prossimo capitolo:

Non è il caso di essere sarcastici: è stato un errore di diciotto anni fa.” “Sì, diciotto anni che camminano, parlano e vengono a vivere a casa nostra.” “Devi solo avere pazienza: non durerà molto questa storia”.
Perché cerca di diventare come loro quando è evidente che lei vale molto di più?” “Ho tante domande.” “Credo abbia già le risposte: deve solo avere il coraggio di accettarle (...)”.
Amavi la mia mamma?” “Sì, l'ho amata: quando sei nata, ero certo che l'avrei amata tutta la vita.” “Non eri felice però”.

Ringrazio di cuore tutte voi che mi avete sostenuto nel 2013 e spero continuerete a farlo e che io saprò allietarvi questi momenti di lettura.
Un abbraccione,
Kiki87




1 Dunque, dunque, vi devo una piccola precisazione. Tra le MOLTE cose che non ho tratto da Glee, una è sicuramente la cronologia. Ammetto che non saprei neppure collocare gli episodi nella fascia temporale adatta (e non parlo solo di mesi!). Quindi, sì, nella mia fanfiction Brittany ha iniziato il 2014, anno in cui compirà 19 anni. Per Hunter non ho specificato l'età ma immagino una differenza di massimo due anni, quindi 20 compiuti. Fate conto che l'Accademia fa le veci di un College per capirci ;)

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10
(…) “Perché non importa dove vai o cosa vedi,
vorrai sempre essere nel luogo in cui appartieni,” disse Lucy.
“La tua casa è dove più ti senti a tuo agio ed amata,” disse Wendy.
“E' una parte di te,” aggiunse Alice. “E' dove si trova la tua famiglia”.
“Non c'è nessun posto come casa,” disse Dorothy, come se
non avesse mai pronunciato quelle parole.
(The Land Of Stories: The Enchantress Returns1 - Chris Colfer)


Capitolo 10


Dopo aver vissuto tutta la sua vita a New York, nella stessa casa, era al quanto strano trovarsi nuovamente da capo: un secondo trasloco e una nuova dimora ad accoglierla. Il tutto era avvenuto in un periodo molto più breve.
Il viaggio in aereo non era stato particolarmente entusiasmante: suo padre si era immerso in pratiche di lavoro per quasi tutto il tempo, scritto sulla sua agenda con l'immancabile penna stilografica, trascritto documenti al computer2 o letto fascicoli interi che avevano un'aria molto noiosa, a suo modesto giudizio.
Brittany aveva diviso la sua attenzione tra la vista al di fuori del finestrino (non che ci fosse molto da scorgere, dopo aver trascorso mezzora ad indovinare le forme delle nuvole, a dirla tutta) e l'indugiare sulla presa salda dell'uomo sulla penna. Lo stesso modello di quella con cui aveva trascritto la dedica sul suo libro: si era chiesta, le guance rosate, se una volta giunti a Washington, sarebbe stato disponibile a leggerle nuovamente qualche favola della buonanotte. O se lui stesso ricordasse quei momenti con la sua stessa emozione e nostalgia.
Ci sarebbero state così tante domande da formulare su quel lungo periodo di lontananza, sulla sua nuova famiglia e su come avevano accolto la notizia del desiderio di condurla con sé. Stava cercando di farsi coraggio per rivolgergli parola, e magari riscuoterlo dalla lettura, quando l’hostess della business class chiese solo se avessero voluto favorire di qualche piatto o una bevanda.
Solo allora suo padre si era ridestato, aveva sorriso con la sua solita sicurezza e aveva ordinato due bicchieri di champagne: ne porse uno a Brittany che lo guardò con aria dubbiosa.
“Un brindisi è d'obbligo, direi”, le aveva sorriso, allungando il calice verso il suo per far cozzare i loro bicchieri. “Ad un nuovo inizio”, aveva sussurrato.
Aveva sorriso, Brittany, e seppure lo champagne le avesse scaldato lo stomaco (un po' amaro per i suoi gusti. E poi Neal, per festeggiare qualcosa, le avrebbe offerto una torta e le avrebbe ceduto tutte le fragole. Si era sorpresa per qual paragone, ma aveva scosso il capo), presto le procurò una lieve emicrania che la indusse ad appoggiare il capo contro il finestrino. Con la coda dell'occhio si accorse che l'uomo al suo fianco era nuovamente immerso nella sua lettura e aveva anche inforcato un paio d’occhiali.
Sospirò. Non era il viaggio che aveva sperato, ma avrebbe dovuto pazientare e sperare che Lord Tubbington dormisse per quasi tutto il tempo.


La villa che aveva di fronte era qualcosa di davvero... fiabesco. Contrariamente a quanto si era aspettata, dalle fotografie riportate in vecchi libri di scuola, suo padre non abitava nel centro urbano, ma in una zona di campagna i cui colori naturali davano al luogo un sapore più simile ad un giardino spropositato. Pareva di trovarsi al di fuori di un castello, pur con tocchi moderni come la piscina, il gazebo di legno con poltrone di un delicato color avorio. La struttura, in stile coloniale, ricordava per location la casa dei Nani di Biancaneve, per quanto molto più prestigiosa. Aveva una facciata di mattoni, sormontata dall'edera che sembrava essere parte stessa della bellezza, un'ampia porta ad arco con vetri trasparenti dava la vista sull'ampio giardino che doveva essere un bel ristoro durante le giornate estive. 3
Era rimasta molto sorpresa all'idea che il padre, tipico uomo d'affari che si recava sempre a lavoro in metropolitana, potesse adattarsi a quell'ambiente più rurale, ma, a quanto aveva appreso, si trattava di un'abitazione che la moglie Chloe, di famiglia benestante, aveva ereditato. Sembrava comunque ben avvezzo, a giudicare da come fosse naturale per lui rivolgersi ad un autista di limousine, con tono spiccio e formale, dicendogli semplicemente di ricondurli a casa, dopo averli presentati brevemente all'uscita dell'aeroporto.
Quest'ultimo, un uomo robusto ma dal sorriso bonario, le aveva aperto la portiera e, con sua gran sorpresa, aveva estratto la valigia del padre e il suo trolley. Quasi si vergognava di quel colore così vivace che sembrava spiccare rispetto a quella del padre, così elegante e dal colore più sobrio, soprattutto confrontandola con l'ambiente raffinato che si trovava di fronte.
“Posso portarla da sola”, aveva commentato, ma il padre le aveva stretto la spalla, ridendo come se avesse appena proferito una battuta di spirito.
“E' il suo lavoro, Brittany, lascialo fare: tu hai cose più importanti a cui pensare”, aveva scrutato il trolley con le sopracciglia appena inarcate.
Aveva annuito, Brittany, ma aveva osservato preoccupata l'uomo, mentre sollevava la gabbietta nella quale Lord Tubbington era sveglio e parecchio contrariato, a giudicare da come aveva rizzato il pelo e stava soffiando minacciosamente.
“Va tutto bene, Tubby”, cercò di carezzarlo dai fori della porticina che lo teneva chiuso all’interno.
“Viaggi leggera: Chloe e Vivian portano come minimo cinque valige a testa, quando andiamo in vacanza”, aveva commentato suo padre in tono distratto.
Brittany aveva sgranato gli occhi: soltanto nelle fiction aveva potuto contemplare simili lussi, ma non era qualcosa di troppo difficile da immaginare, se quella villa che avevano di fronte era per loro qualcosa di tanto abituale.
Sembrò in procinto di aggiungere altro, William, ma la suoneria dell'iPhone lo sorprese e, facendole cenno di seguirlo, si affrettò a rispondere e dirigersi lungo il vialetto acciottolato per entrare.
Brittany indugiò ancora qualche istante: sentiva una nuova agitazione pervaderla, all'idea di essere sottoposta al vaglio degli sguardi estranei e di ciò che avrebbero potuto pensare di lei e del suo stile di vita molto più semplice.
“Non vuole entrare?”, l'autista le aveva nuovamente sorriso. “Mi permetta di darle il benvenuto, Miss Pierce: è molto diversa da come l'avevo immaginata”, sembrava essere un complimento, visto quel sorriso caloroso. Chinò il capo, premendo la mano contro la visiera del berretto. “Conti su di me se desidera andare in città o avere qualcuno che le mostri i dintorni”.
Lo aveva ringraziato con gran fervore. Ed era stato davvero curioso constatare che era stato un estraneo a farla sentire finalmente benvenuta. Si vergognò, l'attimo dopo, per un pensiero così poco lusinghiero nei confronti del padre, soprattutto, quando quest'ultimo si era affacciato all'ingresso, richiamandola affinché lo raggiungesse.



La sensazione di stordimento non sembrò affatto placarsi, quando le mostrò la camera dove avrebbe alloggiato e che sembrava quella di un albergo. Il letto era ampio almeno una piazza e mezzo e tutte le pareti erano decorate di una sfumatura d'azzurro chiaro: vi erano quadri raffiguranti la campagna di Washington affissi alla parete, una scrivania e una libreria piena di libri (nessuno di favole, aveva constatato a primo colpo d'occhio). Un ampio armadio a tre ante che era pronto ad accogliere tutti i suoi abiti e il suo trolley rosa che aveva un'aria particolarmente dimessa, rispetto a quello scenario.
“E' il tuo colore preferito, vero?”, suo padre aveva alluso a quella sfumatura che era ridondante in quelle pareti e aveva un'espressione tanto orgogliosa e sicura di sé, che Brittany non aveva osato contraddirlo. “Immagino che vorrai riposare e dovrai disfare la valigia: devo assolutamente passare dall'ufficio ma Chloe e la servitù saranno a tua disposizione, se avrai bisogno di qualcosa”.
“A più tardi”, lo aveva salutato ed aveva atteso che la porta fosse chiusa alle sue spalle, prima di rilasciare il respiro.
Tutto faceva sembrare quella situazione persino più irreale e Brittany continuò a studiare quell'ambiente, domandandosi se sarebbe mai riuscita a personalizzarlo, quando sembrava avere uno stile già deciso e le incuteva il timore di poterlo in qualche modo rovinare. Fu quando lo sguardo cadde sul grande specchio d'avorio e scrutò il proprio riflesso che contemplò la sua espressione.
Tutt'altro che entusiasta, sembrava spaventata e smarrita. Si sentì esattamente come si era sentita durante il the in salotto, in compagnia della nuova famiglia di suo padre: assolutamente fuori posto. E sicuramente non aveva giovato il modo in cui gli sguardi di Chloe e di Vivian, la figlia maggiore (doveva avere più o meno la sua età), avevano indugiato sui suoi jeans scoloriti, la camicetta stropicciata dopo il viaggio e i capelli spettinati. Un imbarazzo che era divenuto qualcosa di dolorosamente simile ad una mortificazione persino per chi, come lei, non aveva avuto particolari occasioni per voler sfoggiare un look particolarmente curato. Ma aveva l'impressione che persino l'abito del ballo all'Accademia non avrebbe fatto loro batter ciglio.
Chloe era una donna nobile ed aggraziata ma in modo quasi suggestivo: si muoveva con tale cadenza da far sembrare le sue mosse una sorta di danza o probabilmente era il portamento che persino dopo anni di danza classica, avrebbe potuto difficilmente emulare. Seppur le ricordasse vagamente la madre (per i capelli biondi e la silhouette slanciata), il severo chignon e quella fronte sempre liscia, nonché il sorriso che non faceva che arricciare appena gli angoli della bocca, i suoi lineamenti erano più spigolosi. O forse era dovuto al fatto che non sembrava quasi mai scomporsi. Sicuramente una donna di classe ed affascinante, ma persino la sua stretta di mano era parsa fredda.
Vivian, in compenso, era incredibilmente bella: lo aveva pensato con ulteriore disagio e non l'aveva consolata che la sua evidente avvenenza avrebbe potuto far apparire scialba persino una ragazza con buona autostima. Aveva la pelle soffice, un profumo ammaliante, una bella bocca carnosa ritoccata dal rossetto, i capelli di un biondo fulvo, lievemente arricciati sulle punte e persino nella sua espressione appena più imbronciata, appariva perfetta. Era poco più bassa di lei, ma i vestiti eleganti e il tacco alto ne slanciavano la figura, facendola sentire persino più assoggettata. 4
Alyson, invece, aveva i capelli legati in due trecce, una lieve spruzzata d’efelidi sul naso ma un sorriso adorabile e spontaneo e, lo aveva notato con una certa emozione, la forma degli occhi molto simile alla propria, lievemente allungata.
Ho una sorella, aveva pensato istintivamente, riuscendo quasi a sovrapporre i propri tratti di infanzia a quelli della bambina. Si domandò se lei stessa avesse notato quel particolare, visto che la propria curiosità era seconda soltanto alla sua.

Sbrigate le presentazioni e formalità, Brittany si era seduta con loro per il the e aveva dovuto fare del suo meglio per imitare la postura corretta degli altri commensali e il suo timore si accrebbe quando, involontariamente, qualche goccia di the le cadde sulla tovaglia candida, nel tentativo di versarne nella propria tazza.
Nonostante il sorriso bonario del cameriere o il sorridente: “succede anche a me!” di Alyson, Brittany si era persino più irrigidita e aveva dovuto cercare di prendere un bel respiro, come se si fosse nuovamente trovata di fronte una giuria ad un saggio di danza.
Allora, Brittany,” aveva esordito Chloe, guardandola, “tuo padre ci ha raccontato dell'Accademia: è davvero una scelta... curiosa”, le sue labbra si erano arricciate e le sopracciglia finissime erano così inarcate, che Brittany aveva avuto la sensazione che volesse usare ben altro aggettivo.
Oltretutto, la sola menzione, le aveva procurato un istantaneo collegamento che le aveva innestato una fastidiosa fitta allo stomaco. Ma si schiarì la voce, indugiando con il biscotto che non aveva ancora finito di mangiucchiare (non le piacevano molto le mandorle, ma non era il caso di apparire maleducata o ingrata).
Credo sia stata molto istruttiva: ho imparato molte cose”, aveva risposto, malgrado tutto, con un impeto di orgoglio al ricordo dei suoi progressi nel famigerato percorso ad ostacoli o alla corsa mattutina prima di colazione o persino alla pulizia degli stivali o dei pavimenti.
Davvero?”, era parsa educatamente sorpresa ma le aveva sorriso nuovamente con aria condiscendente. “Ma immagino che tu aspiri a qualcosa di più... femminile”.
Il pensiero di come Kitty avrebbe reagito a quelle parole, l'aveva rincuorata, ma si era affrettata ad annuire. Non era riuscita del tutto a scacciare quella sensazione di mero fastidio: anche se la vita in Accademia non le si confaceva molto, provava un sentimento di lealtà nei confronti di Neal, Jonathan Clarington, persino del suo dispotico Capitano.
Ballare è la mia passione”, aveva risposto dopo un istante di silenzio nel quale aveva dovuto ricordarsi che si era allontanata da Colorado Springs per lasciarsi tutto alle spalle.
Oh,” aveva commentato la donna che non era parsa minimamente impressionata, “deve essere una piacevole... frivolezza per passare il tempo libero, ma io mi riferivo ai tuoi progetti per il futuro”.
Chloe,” l'aveva richiamata William con aria bonaria, “ è appena arrivata: lasciala respirare”.
Il sorriso si era gelato sulle labbra della donna e vi era una nota di freddezza nel rivolgersi al marito. “Non era certo mia intenzione essere invadente: stavo solo cercando di fare conversazione con la nostra ospite e sono sicura che a Brittany non dispiaccia”.
Non aveva potuto fare a meno di notare come avesse sottolineato il sostantivo “ospite”, quasi ad alludere al fatto che la sua permanenza sarebbe stata transitoria. Ma era stata lieta dell'interruzione. Se doveva ammettere con una certa riluttanza che, più che mai, non aveva certezze sul suo futuro professionale o meno, aveva la sconcertante sensazione che nulla che ciò avrebbe detto, sarebbe mai parso soddisfacente per la donna, neppure se avesse alluso ad un'attività di beneficenza. Ma fu al suo sguardo insistente che si affrettò a scuotere il capo e sorridere. “No, certo che no”, aveva pigolato. Non che fosse il caso, comunque, di esternare un'opinione diversa.
Vivian potrebbe portarti in città con le sue amiche: sono sicura che sarà un modo molto piacevole di ambientarti e cominciare a conoscere la città”.
Si era voltava verso la ragazza, quasi a cercarne la conferma: questa le aveva sorriso ma, come nel caso della madre, non era stato un gesto tale da scaldarle il cuore. “Sarà divertente,” aveva commentato la ragazza, dopo un istante di silenzio, “come due sorelle”. Aveva sottolineato il termine, ma lo sguardo divertito era stato scoccato in direzione di William.
Posso andare anche io?”, aveva chiesto Alyson: le labbra sporche di cioccolato e Brittany non aveva potuto fare a meno di sorridere.
La madre si era affrettata a pulirle il viso con aria quasi rassegnata. “Sei soltanto una bambina: perché per il momento non cerchi di imparare a mangiare senza sporcarti?”.
Uffa”, si era imbronciata con cipiglio così sincero che Brittany non aveva potuto fare a meno di concentrarsi su di lei, il viso inclinato di un lato.
Potrei portarti dei pasticcini al mio ritorno, così mi mostrerai i giardini”, le aveva proposto e la bambina le aveva rivolto uno sguardo così entusiasta e sinceramente grato che Brittany aveva sentito un dolce moto di calore farne scalpitare il cuore.
Alyson non mangia dolci fuori pasto”, era stata la secca replica di Chloe e Brittany si era morsa il labbro e non aveva osato ribattere.
Lanciò un'occhiata in direzione del padre che aveva nuovamente estratto il suo iPhone ed era concentrato a scrivere rapidamente una e-mail. “Magnifico,” aveva detto distrattamente, “scusatemi, devo fare una telefonata”.
Immagino che vorrai riguardare il tuo guardaroba prima di cena: posso chiedere alla domestica di accompagnarti alla tua camera, se tuo padre sarà ancora impegnato”, le aveva proposto, Chloe, non appena il marito si era allontanato.
Si era stretta nelle spalle, Brittany con un sorriso. “Posso aspettare papà: non ho molte cose con me”.
Immagino che allora avrai bisogno di qualcosa di nuovo, per stare con noi”, lo sguardo aveva perforato la sua mise con aria alquanto eloquente. Evidentemente vivere in quella casa aveva delle regole concernenti persino l'abbigliamento.
Oh, andremo a fare shopping?”, aveva domandato in un moto puerile, immaginando che lei e Vivian avessero un rituale simile a quello che suo madre chiamava “shopping day”.
Chloe aveva storto le labbra. “Non ho tempo da perdere: forse William non ti ha detto che sono molto occupata con la mia fondazione benefica. Ma chiamerò il nostro sarto e sono sicura che potrà cucire qualcosa di... appropriato anche per te”.
Oh, la ringrazio”, aveva sussurrato con sussiego: persino quella che sembrava una gentilezza spontanea, sembrava dover essere meritata.
Imparerai che le cose qui funzionano diversamente da quanto sei abituata. Con permesso, Alyson, andiamo a prepararci per le tue lezioni di pianoforte”.
La bambina l'aveva salutata allegramente con la mano e Brittany aveva sorriso per poi seguirle con lo sguardo. Non appena furono uscite, Vivian saltò in piedi, il cellulare tra le mani. “Ciao Stacy, no niente di che”, l'aveva sentita cicalare mentre usciva, camminando rapidamente, malgrado i tacchi alti.
Rimasta sola, Brittany, si morsicò il labbro ed osservò la tavola vuota.
Gradisce altro the, Miss Pierce?”.
No, grazie”, si era alzata, concedendo ai camerieri di sparecchiare: non osando avventurarsi nella casa senza indicazioni o il permesso, si era fermata di fronte alla vetrata che dava la vista sul giardino.
Aveva sospirato con aria sgomenta: non era proprio l'inizio in cui aveva sperato.
Ancora qui?”, le aveva chiesto suo padre una decina di minuti dopo. “Vieni, ti mostro la tua camera”.

Si era appoggiata al proprio letto e si era lasciata stendere a rimirare il soffitto: era come se la sua vita a Colorado Springs fosse lontana anni luce e, ancora una volta, dovesse ricominciare tutto da capo.

~

Non ricordava di aver mai dormito su un letto più comodo: nessuna tromba a suonare a mo’ di sveglia, nel mezzo della notte, strappandola dai suoi sogni e riportandola mestamente alla realtà.
Ci mise qualche istante, quando schiuse gli occhi, a riconoscere la stanza dagli arredi e la mobilia eleganti. Sospirò e si raddrizzò con il busto prima di osservare la debole luce del sole.
Constatò che erano da poco passate le sette del mattino – in Accademia già sarebbe stata in ritardo – e cercò di rilassarsi nel morbido lettone. Si domandò come sua madre stesse dormendo e se fosse ancora molto triste o Neal avesse tutto sotto controllo. Sorrise all’immagine del micio addormentato beatamente accanto a lei e ne sfiorò il pelo con aria assorta.
Quando ormai il sonno sembrò dimentico, si alzò: avrebbe approfittato del tempo a disposizione per cercare qualcosa di abbastanza carino, o almeno il più vicino agli standard della padrona di casa, tra i pochi abiti che aveva condotto con sé. Ne scese uno molto semplice dal colore rosa e pettinò con cura i capelli che poi legò in una treccia a spiga, lasciandone qualche ciocca libera sulla fronte e ai lati del viso. Quando la cameriera giunse a chiamarla sembrò più che sorpresa di scorgerla già in piedi, ma Brittany le sorrise allegramente, mentre cercava qualche molletta con cui fissare le ciocche ribelli.
“La colazione sarà servita a breve, ma può accomodarsi di sotto: la signora è già seduta a tavola”.
Aveva annuito, Brittany, cercando di insinuare gli orecchini. “E mio padre?”, le chiese guardandola dallo specchio mentre ella rassettava il suo letto, dopo aver indotto Lord Tubbington – il pelo dritto e un’occhiata di puro biasimo – ad accontentarsi del tappeto.
“Il signor Pierce è partito questa mattina per incontrare un importante cliente europeo”, pareva sorpresa che non lo sapesse.
“Oh”, aveva sgranato gli occhi, sorpresa e confusa: non avevano ancora avuto modo di parlare seriamente dopotutto, anche se erano concordi che avrebbe passato del tempo a Washington.
“Tornerà tra una settimana”, aggiunse la ragazza con un sorriso gentile, ma Brittany parve preoccupata alla prospettiva di tanto tempo in sua assenza, in una casa che non le apparteneva e in balia della padrona e delle figlie. Della maggiore soprattutto che sembrava amichevole almeno quanto Kitty nei giorni del suo “migliore” umore. Si morsicò le labbra, ma decise di scendere per non farsi attendere troppo, soprattutto se dovevano essere tutte presenti per la colazione.
Stava scendendo le scale verso il piano inferiore, il brusio di voci concitate: gli ultimi bisbigli di una conversazione che non avrebbe dovuto udire.

Quanto andrà avanti questa pagliacciata?”, aveva chiesto Vivian, a mo’ di buongiorno una volta giunta a tavola. Neppure guardando la madre, aveva estratto la cipria per gli ultimi ritocchi al viso.
Chloe, che le aveva tolto il cosmetico e lo aveva richiuso con un gesto secco, le aveva rivolto un’occhiata ammonitrice. Avrebbe dovuto comunque ringraziare il botulino se la sua fronte sarebbe rimasta liscia, anche di fronte all’argomento più spinoso. “Vivian, abbassa la voce per favore: niente isterismi”.
Aveva incrociato le braccia al petto, la ragazza, con aria tutt’altro che distesa: “A quale gioco sta giocando tuo marito con questa storia della figlia ritrovata?”.
Chloe, pur preoccupandosi di poter avere sgraditi ascoltatori, le rivolse un’altra occhiata di pura esasperazione. “Credi che a me faccia piacere? Speravo che almeno portasse una signorina con un minimo di classe. Non mi sorprende che si sentisse a suo agio in un’Accademia promiscua, a rotolarsi nel fango”.
Bella classe,” aveva commentato l’altra ridacchiando, “mettere incinta una liceale, sposarla per accontentare la suocera e poi andarsene e piantare in asso lei e la figlia”.
Aveva stretto le labbra, Chloe. “Non è il caso di essere sarcastici: è stato un errore di diciotto anni fa”.
Sì, diciotto anni che camminano, parlano e vengono a vivere in casa nostra”, fu l’ulteriore replica sferzante.
Devi solo avere pazienza”, aveva sospirato la madre, cingendole la mano. “Non durerà molto questa storia: ce lo vedi a recuperare dieci anni di rapporto? A farle da balia o trattarla come fosse la gemella di Alyson. Rinsavirà, ma intanto ha lasciato a noi il piacere per una settimana”.
Si era incupita alla precisazione. “Non ho affatto voglia di portarla in giro con le mie amiche: penseranno che stia facendo della beneficenza. E’ così scialba”.
Sospirò ulteriormente, Chloe che tambureggiò con le unghie smaltate sulla tovaglia candida. “Non parlarmene: non ci metterà molto tempo a capire che non è del nostro mondo. Vorrei sperare che lo avesse già fatto, ma è meglio non illudersi troppo”.
Non sembra troppo sveglia”, fu la replica dell’altra che scrollò le spalle con un vago sorriso e riprese la cipria.
Shh, sta arrivando”.

Era un sorriso fin troppo repentino quello che apparve sul volto di Chloe, quando la vide: ne squadrò la figura e sembrò scovare i molteplici difetti che dovevano essere evidenti al suo sguardo. Il fatto che il vestito non fosse stirato e fosse dozzinale se paragonato al loro, il trucco appena visibile, le unghie corte e sminuzzate e le ballerine ai piedi.
Chloe dovette probabilmente ricorrere ad uno sforzo disumano per non dimostrare il proprio disappunto. “Spero tu abbia dormito bene”.
“Buongiorno”, la ragazza indugiò con le mani strette in grembo ma sorrise ed annuì. “Molto bene, grazie, spero anche voi”.
“Accomodati”, le indicò il posto accanto a quello della figlia maggiore che le concesse appena un sorriso stirato.
Poco dopo apparve Alyson che, dopo aver baciato la guancia della madre, ignorò il posto che solitamente occupava William, andò a sedersi accanto a Brittany, dopo averle rivolto un bel sorriso che la ragazza ricambiò. Si era sporta verso di lei. “Ti va di prendere il the con me, dopo?”, le aveva chiesto con voce esitante.
“Tesoro, sono sicura che Brittany abbia cose più serie a cui pensare”, si era intromessa Chloe, mentre la cameriera disponeva le loro tazze e serviva qualche pietanza per la colazione: nulla di più casereccio come tost o cerali ma un'accurata selezione di cibi che Brittany non avrebbe neppure saputo identificare, nella maggioranza dei casi.
“Volentieri”, era stata la pronta risposta di Brittany e la bambina parve illuminarsi.
Chloe tacque, la linea delle labbra incredibilmente stirata.


Non fu una sorpresa constatare quanto si sentisse molto più a suo agio nella cameretta della bambina, fingendo di prendere del the con vassoi e piattini di plastica, circondate da bambole delle più svariate taglie. Alyson era dolce e piena d’energia: aveva almeno una decina di domande da rivolgerle per ogni cosa che le dicesse o raccontasse, ma Brittany si divertì a rispondere ad ognuna e anche ad aiutarla a trovare un nome da duchessa per intrattenere quel gioco di ruolo, o atteggiarsi a gran signora parlando di cavalli, di castelli o di viaggi in Europa.
Fu quando, dopo più di un’ora di finto salotto, Alyson tacque che Brittany si preoccupò dei pensieri che dovevano attraversarle la mente.
“Stai bene?”, le chiese dopo aver posato la tazza di plastica.
Sembrò indugiare la bambina, prima di riuscire a dire qualcosa, ma infine si decise, il viso inclinato di un lato e lo sguardo acceso di speranza, malgrado l’esitazione evidente. “Tu sei mia sorella, vero?”.
Aveva sentito un dolce calore in petto e il tambureggiare più emozionato del suo cuore. Aveva annuito, il sorriso più dolce. “Abbiamo una mamma diversa, ma non mi piace dire sorellastra, ” spiegò raggrinzendo appena il naso in una smorfia che fece sorridere la bambina, “ma potrei essere tua sorella, se vuoi”.
Aveva sorriso ulteriormente la bambina, continuando a scrutarla. “Sei diversa da Vivian”, aveva infine proferito.
Sospirò, Brittany, ed annuì con aria appena più mesta. “Lo so: lei è davvero elegante e sarebbe perfetta per questo gioco”.
Ed è bellissima, aggiunse mentalmente con un sospiro.
“Ma tu mi piaci,” l’aveva contraddetta la bambina: le sopracciglia corrugate e il sorriso nel cingerle la mano, “sono contenta che sei qui”.
E per la prima volta dal suo arrivo, sentì di potersi davvero sentire a casa. Almeno per qualche istante di piacevole immersione nel mondo della bambina.

Non voleva dubitare delle buone intenzioni in quel tentativo di aiutarla ad inserirsi meglio, ma non avrebbe potuto trovare le parole per esprimerle, senza offenderla, che quel look non era proprio adatto a lei. Alyson, seduta sul suo letto mentre carezzava Lord Tubbington, l'aveva guardata con aria sconvolta: gli occhioni sgranati e le labbra schiuse che osservò dal riflesso dello specchio.
“Stai malissimo”, aveva detto così serenamente che Brittany aveva persino riso, per poi annuire con la stessa aria perplessa.
Le mani sui fianchi, studiò ancora una volta la sua figura: indossava un abito nero ed austero nella sua sobrietà: sprovvisto di maniche e dalla gonna a tubino a stringerle i fianchi, collant (che odiava) e scarpe di vernice con tacco sottile e una giacca blu che le arrivava alla vita. I capelli le erano stati acconciati in una crocchia persino più stretta di quella di Kitty, al suo primo giorno d’addestramento.
“Devo solo... abituarmi”, ma neppure lei sembrava particolarmente convinta mentre studiava le unghie finte che le erano state applicate, di una tonalità fiammeggiante di rosso. Come si poteva usare le dita senza romperle? Ed erano davvero così indispensabili?
“Sembri vecchia”, fu il commento di Alyson, coronato da una smorfia.
Sì, Brittany, non avrebbe saputo trovare un aggettivo migliore per l'eccessiva serietà dell'abito, soprattutto con quegli occhiali dalla finta montatura, che avrebbe dovuto attribuirle, a detta di Chloe, un'aria più intellettuale.
Sospirò: era soltanto un modo di adattarsi, come indossare un'altra orribile uniforme in Accademia, dopotutto.
Vivian fece capolino dalla porta, con espressione evidentemente annoiata: “Sei pronta?”, le chiese.
Brittany non poté fare a meno di notare che il suo look non avrebbe potuto essere diverso dal proprio, anche se probabilmente sarebbe riuscita ad indossare lo stesso outfit senza un risultato similmente disastroso. Probabilmente lo stava pensando anche lei, perché lo sguardo che le rivolse era qualcosa di simile allo schifato.
Le sorrise l'attimo dopo. “Sei molto... elegante”, disse con le labbra percosse da un tremito. “Andiamo, le mie amiche non vedono l'ora di conoscerti”, aveva sorriso, infine, con un'incrinatura più melliflua.
“Fammi gli auguri”, sussurrò Brittany alla bambina ma quest'ultima, per risposta, si era imbronciata. “Non prenderai più il the con me, vero?”, aveva pigolato.
“Ma certo che lo farò: preferirei restare con te,” ammise con un sospiro, sfiorandone i capelli e accertandosi che Vivian non sentisse, “ma al mio ritorno, ti racconterò tutto quanto”.
“Promesso?”, una scintilla d'entusiasmo era tornato a farne baluginare gli occhioni, sottolineato da quel sorriso repentino.
“Promesso”.
“Allora?”, la voce sferzante di Vivian le riscosse e Brittany si affrettò a prendere la borsa (anche quella tristemente nera e fin troppo grande per i suoi gusti) e raggiungerla.


Trovarsi di fronte alle amiche di Vivian fu come essere la (sfortunata) comparsa di una fiction con ragazze ricche quanto affascinanti che gettavano occhiate sprezzanti a chi non consideravano degno di loro, chi non poteva permettersi abiti come i loro o chi non aveva le stesse origini.
Si sentiva intimidita, Brittany, se i vestiti che indossava normalmente non erano abbastanza eleganti, il completo che le era stato confezionato era ancora più lontano dalla sua personalità.
Nel viaggio in limousine aveva osservato il gruppetto ridere e scherzare, apparentemente come se lei fosse invisibile, tanto da avere quasi il timore che persino respirare, potesse sottoporla di nuovo ad un'attenzione poco lusinghiera.
Strinse le labbra, ma il suo disagio non migliorò, quando le seguì in un negozio d’abbigliamento e le osservò scegliere diversi capi delle migliori griffe sul mercato: avevano persino a disposizione uno stender appendiabiti.
“Non provi nulla?”, le aveva chiesto una delle ragazze.
Era arrossita. Non aveva minimamente pensato di portare con sé tutti i suoi risparmi, ma dubitava che sarebbero stati sufficienti a comprare qualcosa di più di un foulard.
Aveva scosso il capo. “No, ma voi fate pure: aspetterò qui”, aveva commentato in tono affabile, fingendo di curiosare a sua volta tra gli scaffali e i reparti.
Le tende del camerino dietro il quale si era rifugiata Vivian, furono aperte e la giovane la richiamò. “Ti dispiacerebbe prendermi la cintura in vetrina? Voglio vedere come si abbina a questo vestito”, le aveva sorriso.
Non ebbe neppure tempo di rispondere perché le altre ragazze fecero capolino dagli altri cubicoli.
“E a me le scarpe azzurre con gli strass: stai lontana da quelle di vernice”.
“Il vestito bianco per me”
“Gli occhiali da sole per me: quelli a goccia”.
“E anche una pochette per me”, aveva aggiunto Vivian annuendo al suo riflesso. “Avanti,” l'aveva esortata, vedendone l'espressione smarrita e corrugata nel tentativo di memorizzare le istruzioni di ognuna, mascherando il tono insolente con un sorriso, “non abbiamo tutto il giorno: è solo il primo negozio”.
Sbigottita e non poco preoccupata all'idea di dover ricordare ogni futile dettaglio (che cos'era una pochette, a proposito?!), Brittany si era allontanata in fretta, cercando con lo sguardo una commessa libera che potesse aiutarla a rintracciare tutti gli articoli. Sentiva l'ansia divorarla e il disagio crescente per le scarpe troppo strette.
Era riuscita a recuperare le scarpe e gli occhiali da sole (chissà se erano quelli giusti), ma avrebbe dovuto chiedere a Vivian, sperando di non farsi udire dalle altre, dove fosse la pochette che le aveva chiesto. Si affrettò a tornare nell'area dei camerini, attenta a non far cadere gli articoli tra le braccia.
“Bella sorpresa i tuoi, Vi, io avrei preferito un bel soldato dell'Accademia a questo punto”, sentì la voce di una delle ragazze, prima che riuscisse a palesare la sua presenza al di fuori delle tende.
Era arrossita e la menzione le aveva procurato una stretta al cuore, senza contare l'umiliazione all'idea d’essere oggetto dei loro scherni. Scosse il capo e si decise a richiamare la ragazza, ma fu la sua risposta ad anticiparla.
“Non parlarmene: dovreste vederla girare per casa con quell'aria da cane bastonato. Patetica ed insopportabile”.
Sentì il cuore fermarsi in gola, un nodo stretto che le rese difficile articolare un suono, mentre lentamente la vergogna le procurava un brivido gelido a discendere lungo la spina dorsale.
“Davvero crede di potersi adattare alla vita di qui?”.
“Crederebbe di vedere un unicorno, se le mostrassi un manifesto: è davvero imbarazzante. Speravo che s’inventasse una scusa, dopo che William è partito per risparmiarci la sua presenza. Insomma, neppure i suoi genitori la vogliono tra i piedi, un motivo deve pur esserci”, era stata la sferzante replica, in tono crudelmente divertito che aveva fatto ridere le altre.
“Ma dov'è finita?”, l’aveva incalzata una delle altre.
Aveva sbuffato, Vivian. “Sarà meglio vada a recuperarla o chi la sente mia madr-”, schiuse le tende per poi sussultare alla vista della ragazza. “Brittany!”.
Non parve imbarazzata, al contrario, un'espressione di disappunto la fece accigliare: “Stavi origliando?”.
“Mi dispiace di non essere abbastanza stupida da non capire”, replicò in tono stizzito, lasciando cadere a terra gli accessori e i capi d'abbigliamento che aveva tra le braccia, prima di togliere anche la falsa montatura degli occhiali e la molletta che teneva legati i capelli. “Magari mio padre non mi ha voluta, ma almeno adesso so che la colpa non è mia, se preferisce una figlia viscida come te”.
L'aveva vista sgranare gli occhi, aveva ignorato lo sguardo incredulo delle amiche e degli avventori più vicini e si era affrettata ad uscire dal negozio, ignorandone i richiami: gli occhi gonfi, le labbra tremanti e il cuore ancora in gola per quell'agitazione improvvisa.
Cercò di regolarizzare il respiro, ma la rabbia aveva presto ceduto il posto ad un dolore fin troppo intenso alle parole di Vivian e all'idea che vi fosse un fondo di verità.
Cosa stava facendo? L'Accademia non era stata la sua casa, ma era evidente che la villa di Chloe lo sarebbe stata ancora meno. Cosa avrebbe fatto fino al ritorno del padre? Era evidente che non fosse mai stata la benvenuta: ad eccezione della piccola Alyson, nessuno si era dato la pena di provare a darle un'occasione.
O tanto meno suo padre era sembrato ansioso di parlare con lei o anteporre la loro riconciliazione ai suoi impegni di lavoro, se neppure gli era sembrato opportuno informarla dei suoi impegni. Non era mai stata una sua priorità e questo non sarebbe cambiato.
Trasse un profondo respiro, scostò le lacrime dal viso, e camminò lungo la strada al di fuori del centro commerciale, incurante della pioggia. Soltanto un sorriso nostalgico al ricordo di un temporale su un campo d'addestramento di Colorado Springs, di un Principe Soldato a trarla in salvo. Chissà cosa stava facendo in quello stesso istante o se avesse mai pensato a lei, dalla sua partenza e da quell'addio quasi frettoloso ed inevitabile.
“Miss Pierce”, si riscosse e trasalì, quando un uomo si affiancò, ma riconobbe l'autista che la stava riparando con il suo ombrello e le aveva rivolto un'occhiata preoccupata. “Prenderà freddo: salga in auto, la riporterò a casa”.
“Ma Vivian?”, chiese con voce confusa seppur confortata da quella traccia di gentilezza del tutto disinteressata e sincera.
“Non avrà problemi,” rispose in tono composto, ma sembrava indifferente alla prospettiva del contrario, “la prego, insisto”.
Gli sorrise con aria grata, Brittany, ed entrò nell'auto ed affondò contro il confortevole abitacolo caldo, mentre l'uomo le porgeva una salvietta con cui asciugarsi, ma neppure si stupì di quella sorprendente presenza dei comfort di qualunque tipo.
Le fu persino di compagnia durante il viaggio, indicandole di tanto in tanto qualche monumento o qualche piazza famosa, ma fu quando giunsero fuori dalla villa che la trattenne.
“Perché cerca di diventare come loro, quando è evidente che lei vale molto di più?”.
Sorrise con aria mesta, Brittany, per quanto simili parole sembrassero fin troppo pregne di una gentilezza che sembrava dimentica tra quelle mura lussuose. “Ho tante domande”, aveva sussurrato per risposta, sperando che potesse comprenderla, pur non conoscendone la storia.
“Credo abbia già le risposte: deve solo avere il coraggio di accettarle e di essere se stessa”, aveva alluso ai suoi abiti con una vaga smorfia. “Tra parentesi, quel trolley è il bagaglio più bello che io abbia mai trasportato”, aveva aggiunto con un guizzo divertito che le aveva strappato una risata.
Era tornato serio. “Cambiare la sua natura, la sta solo allontanando dalla sua vera vita, non se lo dimentichi”.

Rimuginò a lungo su quelle parole, Brittany, lo sguardo che vagava al paesaggio che riusciva a contemplare dalla sua finestra, Lord Tubbington rannicchiato tra le sue braccia.
Trasalì quando l'uscio della sua camera fu schiuso ed apparve Chloe con aria di gran disappunto.
“Ho avuto una spiacevole conversazione con Vivian su quello che è successo questo pomeriggio e sulla tua intollerabile condotta”, aveva esordito con tono petulante e risentito.
Sbatté le palpebre, Brittany, prima di stringersi nelle spalle. “Non disturberò più Vivian”, replicò in tono composto.
Non pareva soddisfatta la donna il cui sguardo si accigliò ulteriormente (o almeno le parti di viso non ritoccate) e così la postura rigida. “Vorrei che le porgessi le tue sincere scuse: non è così che mi aspetto che si comporti un'ospite”.
Sorrise, Brittany, quasi divertita dalla situazione. “Mi dispiace,” commentò con lo stesso tono pacato e sembrò che il cipiglio della donna si attenuasse, “mi dispiace aver impiegato così tanto tempo a capire la verità e aver fatto soffrire le persone che amo”.
Sbatté le palpebre, Chloe, evidentemente perplessa per poi incupirsi ulteriormente. “Voglio che tu chieda scusa a Vivian, per quello che le hai detto questo pomeriggio”, precisò come se la ritenesse dura di comprendonio.
“Lo farei, se avessi mentito o se ritenessi di aver sbagliato”. Probabilmente valeva la pena dimostrarsi così incuranti soltanto per osservarne l'espressione mutare e quell'arrossamento del volto.
“Insolente testarda, ” lo sguardo era divenuto glaciale, “solo perché tuo padre vorrebbe rimediare al passato, non significa che tu abbia alcun diritto di venire qui ed occuparti con aria così sfrontata ed ingrata. Se tua madre non ti ha insegnato neppure cosa sia il rispetto, allora-”.
Si era bloccata alla vista del mutamento del volto della ragazza: gli occhi fiammeggianti, aveva abbandonato il gatto sul materasso per poi stringere i pugni lungo i fianchi. “Non dica una sola parola su mia madre e, per favore, esca. Dopotutto questa resterà la mia camera, fino a quando non tornerà mio padre”.
Probabilmente perché totalmente spiazzata, probabilmente perché una grande signora non avrebbe mai dovuto alzare il tono, ma Chloe indietreggiò con le labbra ancora strette. “Lo informerò personalmente e lo esorterò a tornare prima del previsto”.
Inclinò il viso di un lato, Brittany, rilasciò il respiro e si concesse di nuovo un sorriso educato. “Gliene sarei molto grata: ho davvero bisogno di parlare con lui e sono stanca di rimandare”.
“Ti farò portare un vassoio per i pasti: non ho intenzione di vederti nuovamente in giro per casa”, e prima di darle occasione di replica, aveva sbattuto la porta alle sue spalle.
Brittany rilasciò il respiro e si lasciò cadere sul proprio letto: lasciò che Lord Tubbington le si appallottolasse in grembo e ne sfiorò il pelo, lo sguardo volto al soffitto.
L'attimo dopo si ritrovò a sorridere: era riuscita a tenere testa a Vivian e Chloe in una sola giornata. E, dopotutto, se lei poteva considerarsi la Cenerentola malcapitata, entrambe sarebbero state perfette per il ruolo di sorellastra e matrigna.

~

Trascorse i giorni seguenti nella propria camera: non aveva alcun desiderio di unirsi alla famiglia del padre (a prescindere dal divieto di Chloe) ed era piuttosto grata che anche loro desiderassero lasciarla sola, ad eccezione di Alyson la cui compagnia era stata l'unica fonte di gioia in quel contesto.
“Sei triste”, osservò la bambina dopo che ebbero inscenato una cena formale sul tappeto, coinvolgendo persino Lord Tubbington a cui era stato legato un tovagliolo intorno al collo, ma che aveva preferito continuare a dormire.
Sorrise, Brittany, nello sfiorarne i capelli e realizzare quanto fosse in grado di capirla con un semplice sguardo. “Mi manca la mia famiglia”, sussurrò in risposta.
Aveva spiegato brevemente alla madre della partenza del padre, ma senza porvi particolare enfasi perché non si preoccupasse. Checché la sua reazione fosse piena di indignazione, Shirley non lo aveva manifestato dal telefono e aveva cercato di ricondurre la conversazione su aspetti più familiari, come l'avvicinamento del matrimonio e persino alludendo alle questioni dell'Accademia ma senza mai riferirsi esplicitamente al giovane il cui volto era sempre più presente nei suoi sogni.
“Credevo che fossimo noi la tua famiglia”, aveva pigolato la bambina e Brittany si era affrettata a cingerla e appoggiare il mento tra i suoi capelli.
“Tu ne fai parte”, aveva precisato. “E ne farai sempre parte, se lo vorrai, ovunque io sarò”.
“Ma non vuoi restare”, aveva obiettato la bambina, guardandola con aria afflitta. “E' perché papà è stato cattivo con te?”.
Per quanto la domanda fosse stata pronunciata con tono pigolante e quasi timoroso, Brittany aveva sentito una dolorosa contrazione all'altezza del petto, ma le aveva sorriso e ne aveva sfiorato la guancia. Aveva scosso lentamente il capo: non avrebbe permesso che la bambina perdesse fiducia nell'uomo o la sua vita si tingesse di sfumature più malinconiche. “Sono sicura che ha sempre fatto del suo meglio e che ti ama più d’ogni altra cosa”.
Quasi invocato da quelle parole, la porta si schiuse e l'uomo fece capolino con il suo sorriso più pacato.
“Papà!”, aveva gridato Alyson che si era alzata per corrergli incontro.
Brittany restò a contemplarli con un vago sorriso, prima di alzarsi in piedi e rilasciare il respiro, consapevole che il momento stava finalmente giungendo.
“Come stanno le mie bambine?”, aveva chiesto l'uomo, baciando la guancia della piccola ma guardando la primogenita.
“Non siamo bambine, ” aveva protestato Alyson, guardando la sorella, “diglielo, Britt!”.
“Non lo sono”, si sentì dire e William la guardò a lungo prima di rilasciare il respiro.
“Sto per leggerle la favola della buonanotte: vuoi venire?”.
Suo malgrado aveva sorriso ed annuito con reale emozione. “Mi piacerebbe molto”.

C'era qualcosa di dolce e struggente nel sentirlo nuovamente leggere: la sua voce era persino più profonda di come la ricordasse in quei frammenti del passato. Ma continuò ad assistere, ignorando quella fitta al cuore, soprattutto alla rivelazione di quale volume stesse attualmente leggendo alla bambina.
Quelle parole, soprattutto, sembrarono continuare a ronzarle in testa come pungolandola, affinché non le ponesse da parte.
« Belle era accanto a suo padre: ciò che aveva disperatamente desiderato dalla loro triste separazione nel castello dell'orribile Bestia. Eppure, adesso che poteva scorgerlo coi suoi stessi occhi, si sentiva distante come non mai. Era come se la gioia di quel ritrovamento non potesse essere compensata dalla perdita. Come se non potesse più gioire con tutto l'amore che provava per lui. Perché il suo cuore, lo sapeva, era rimasto in quel castello lasciatosi alle spalle, per quella che credeva sarebbe stata l'ultima volta. »”.
Suo padre si era interrotto alla vista della bambina addormentata: chiuse il libro e levò lo sguardo alla ragazza, ma si accigliò alla vista delle lacrime sul suo volto. “Stai bene?”, le chiese in un sussurro.
“Perché non mi hai voluto?”.
Un silenzio gravoso scese sulla stanza e William, lentamente, tolse gli occhiali prima di scuotere il capo. Le fece cenno di seguirlo e, dopo aver spento la luce e rimboccato le coperte della bambina, la condusse nuovamente nella camera assegnata alla ragazza.
Brittany sedette sul letto, le ginocchia strette al petto e l'uomo si accomodò accanto con espressione pensierosa: sembrava aver perso quel sorriso accattivante con cui aveva cercato di blandirla fino a quel momento.
“Non c'è un solo giorno in cui non mi penta di quello che ti ho fatto, Brittany”, esordì infine con voce quasi stanca nel ricercarne lo sguardo.
Non parve battere ciglio la ragazza, il viso inclinato di un lato. “Amavi la mia mamma?”, non pareva volerne sentire giustificazioni, ma la voce era spenta come lo sguardo e distante, quasi una parte di sé già si stesse nuovamente staccando dalla realtà circostante.
“Sì,” rispose senza esitazione, “l'ho amata: quando sei nata, ero certo che l'avrei amata per tutta la vita”.
Un vago sorriso sulle labbra della ragazza, una mera consolazione circa le circostanze della sua nascita, una piccola gratificazione per aver spezzato il cuore della moglie.
“Non eri felice però”, dedusse senza alcuna sfumatura di biasimo o di stizza.
“Avevo trent'anni: un'opportunità di lavoro a cui non volevo rinunciare e una vita davanti. Tua madre era incredibilmente protettiva nei tuoi confronti e non voleva neppure considerare l'idea di un trasferimento... almeno allora”, si era concesso di sorridere, ma la ragazza non aveva minimamente ricambiato il gesto. Scosse il capo, William. “Quello che voglio dire è che ci ho provato, Brittany, con tutto me stesso, ma non ero pronto a rinunciare alle mie aspirazioni. Mi sentivo in trappola e con il terrore che avrei trascorso la mia vita odiando chi avrei incolpato del mio più grande successo mancato. Non avrei potuto essere il marito e il padre che avreste meritato, non a quelle condizioni”.
Sentì le lacrime scorrere sul volto, Brittany: se aveva sperato che quelle risposte rendessero tutto più comprensibile, la consapevolezza era persino più straziante e l'ammissione di aver anteposto se stesso e il suo bisogno alla famiglia che aveva infranto.
Scosse il capo. “Mi dispiace avervi complicato la vita: forse se non fossi nata, non avreste dovuto sposarvi e avreste avuto ciò che volevate entrambi, senza che accadesse tutto questo”, se non era mai stata in grado di pronunciare quelle parole nel terrore di procurare un dolore alla madre, in quel momento sgorgarono dai meandri dei suoi ricordi, dei suoi tormenti e delle sue paure più recondite.
Aveva scosso il capo, William, che le aveva cinto il mento, scostandole le lacrime. “Non devi pensare neppure per un istante che sia stata una tua colpa: darti alla luce è stata la cosa migliore che io e tua madre potessimo fare e le si spezzerebbe il cuore sentirti parlare in questo modo”.
“Non ma era abbastanza evidentemente,” aveva ribattuto con una nuova sfrontatezza. “Non eri felice ed hai preferito scappare”. Malgrado il tono lacrimoso, vi era una nuova energia a riscuoterla e darle l'impulso di lasciar andare tutto quanto, senza pentirsene.
Aveva sospirato, William, ma non aveva cercato ulteriori giustificazioni. Aveva annuito. “Forse un giorno potrai capirmi, ma non ti biasimerei. Non posso pretendere un perdono che non merito”.
Aveva scosso il capo, Brittany, lo sguardo volto alla vetrata della finestra. “E' quello che ho fatto anche io: sono scappata”, ammise dopo un lungo istante di silenzio. “Dalla madre che ama sua figlia più di ogni altra cosa al mondo, dall'uomo che non chiede altro che essere mio padre e che io ho continuato a respingere e... da lui”. Aveva rimosso le ultime lacrime per tornare ad osservarlo. “E tutto questo perché non mi sono mai sentita abbastanza per nessuno di loro”.
Suo padre sembrò voler ribattere, ma Brittany lo fermò: si alzò e prese il libro che le aveva regalato. Ne aveva ignorato lo sguardo sorpreso e lo aveva schiuso tra le pagine nelle quali aveva lasciato il segnalibro e aveva letto, con voce tremante e la vista annebbiata:
« Non importava quanto Belle cercasse di ricordarsi che quello era il luogo cui era destinata: la sua casa. La sua casa, comprese tra le lacrime che l'accompagnarono al sonno quella notte, non era un luogo fisico, ma l'abbraccio a cui anelava più d’ogni altra cosa.
La sua casa era nello sguardo dell'uomo a cui aveva destinato il suo cuore: un Principe camuffato da Bestia »”.
Aveva sorriso amaramente, William e, per la prima volta, Brittany fu certa che i loro pensieri e ricordi fossero gli stessi. “Hai trovato il tuo Principe, quindi”, le aveva chiesto come se non fosse passato un lungo intervallo tra l'innocente domanda di una bambina e la giovane donna che aveva di fronte in quel momento.
Aveva stretto il libro al petto, Brittany, e aveva annuito. Levò lo sguardo su di lui: “Avrei voluto che fossi il primo a saperlo”.
“Lo avrei voluto anche io”, aveva sussurrato.
Altrettanto certa era che sapessero entrambi ciò che quelle parole sottintendevano: quell'addio in sospeso da dieci anni.
Si alzò in piedi, William, ma Brittany lo trattenne e levò la mano. “Sono felice che tu adesso sia il padre che avresti voluto essere anche allora. Ma non spezzare il cuore di Alyson: non ti chiedo altro e non ho più nulla da perdonarti”, non vi sarebbero stati dubbi circa la sincerità di quelle parole malgrado il viso esangue, gli occhi lucidi e le labbra tremanti.
“Vorrei ancora poter essere il tuo”, aveva ammesso con un sorriso amaro.
Aveva scosso il capo, Brittany, un vago sorriso. “Sei andato avanti ed è ciò che devo fare anche io, ma ero bloccata”, replicò con la medesima semplicità.
“A causa mia”, specificò l'uomo.
“Dovevo perdonarti e dovevo perdonare me”.
Malgrado tutto, quella consapevolezza, sembrava darle nuove respiro e alleggerirle il cuore, dopo segreti rimpianti e domande senza risposta.
Superò quella distanza, William, e la strinse al petto e, dopo un istante di lungo oblio, Brittany lasciò che i singhiozzi infrangessero il silenzio e pianse.
Pianse per quella bambina smarrita che era stata per lungo tempo, per la donna che stava ancora faticando ad emergere, per la donna che avrebbe desiderato essere e la famiglia e l'amore che sperava l'attendessero ancora con lo stesso bisogno.
“Andrà tutto bene”, le aveva sussurrato William prima di baciarne la fronte, sfiorandone i capelli e trattenendola contro di sé, per un altro lungo istante, quando il pianto si calmò.
E, finalmente, Brittany gli credette e poté sorridere in quell'ultimo abbraccio.
Aveva capito quale era la sua casa e, da quel momento, nulla avrebbe più potuto ostacolarla.


To be continued…





Ed eccoci alla conclusione di questo capitolo del tutto innovativo per location e personaggi. Devo ammettere di essermi abbastanza divertita nel caratterizzare la nuova famiglia di William e spero di aver sciolto i dubbi circa il suo precedente matrimonio con Shirley e il modo in cui l’abbandono abbia avuto ripercussioni su Brittany.
Ma è tempo di guardare avanti come la nostra protagonista:

(…) era all’aeroporto quel giorno ma non ha avuto tempo di parlarti”.
Ho capito che eri una piantagrane dal primo momento in cui ti ho vista, e lo penso ancora”.
Credevo che la Bestia smettesse di essere tale, dopo la dichiarazione di Belle”.


Spero di avervi fatto tornare il sorriso e avervi reso abbastanza curiosi per il prossimo capitolo. Come sempre, vi ringrazio della partecipazione, soprattutto nel rendermi sempre partecipe dei vostri feedback ed emozioni <3
Un abbracciane a tutti e buon weekend,
Kiki87





1 Chiedo scusa a chi ancora non abbia letto questo splendido libro in inglese e anche a chi aspetterà eventualmente la traduzione “ufficiale”, ma non ho trovato citazione migliore per questo capitolo. Senza contare che è sempre un gran piacere poter citare Chris Colfer :)

2 Perdonate la mia ignoranza: non ho mai preso l'aereo e tanto meno condotto con me il notebook a bordo. Da quanto ho letto su internet, l'aereo non dovrebbe schiantarsi perché William ha aperto un documento di scrittura, in caso mi diciate il contrario, provvederò a correggere :D
3 Per aiutarvi a visualizzare meglio la casa, ecco il link di qualche fotografia a cui mi sono ispirata per la descrizione: ammetto che non sia il mio forte descrivere le abitazioni, ma sicuramente un'immagine è di gran supporto. Si tratta, nello specifico, di un hotel di lusso nello scenario della campagna di Washington: 
foto 1
foto 2
foto 3
4 Per la nuova moglie e la figlia adottiva di William, non potevo che ispirarmi ad altri due personaggi di Gossip Girl: Lily Wan Der Woodsen per Chloe: Chloe  E per Vivian, ho immaginato colei che si è spacciata per la nipote di Lily, Ivy Dickens: Vivian

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


capitolo 11
La Bestia: Belle, tu... tu sei tornata.
Belle: Ma certo che sono tornata. (…)
Andrà tutto bene. Adesso siamo insieme.
Andrà tutto benissimo, vedrai.
[La Bella e la Bestia – film d'animazione di Walt Disney]

Capitolo 11


Lo stesso scenario: l’orizzonte minacciato dalle nuvole scure, la costruzione imponente con quell’aura d’autorità che sembrava impressa nell’assemblaggio stesso dei mattoni. Una distesa di campi e l’immensità della natura piegata a location di una realtà con sue regole e identità.
Un sorriso sulle labbra, i capelli scossi dal vento e un trolley di uno sfacciato rosa shocking che trascinava senza alcun timore: lo sguardo di chi aveva ritrovato sicurezza e fiducia a farne scintillare lo sguardo azzurro. Sentì, anche in quel momento, gli sguardi curiosi puntati su di lei: un saluto sorridente alla vista del naso di Finn Hudson, schiacciato conto il finestrino del pullman, su cui erano sedute circa trenta reclute.
Poco prima dell’ingresso si stagliava una figura maschile che Brittany guardò con aria serena: l’uomo, lo sguardo fino a quel momento puntato sulla cartelletta su cui stava leggendo e scribacchiando con aria concentrata, si riscosse, quando le ruote del bagaglio cozzarono contro le pietruzze del vialetto. Inarcò le sopracciglia ma, l’attimo dopo, le labbra furono increspate da un sorriso divertito e insieme lieto. La guardava come se si fosse aspettato che sarebbe arrivata prima o poi.
“Buongiorno, Brittany,” la salutò con aria allegra, “spero che la villeggiatura sia stata di tuo gradimento”.
La giovane si fermò ed annuì, il viso lievemente reclinato all’indietro per osservarlo. “E’ stata molto utile, ” asserì per poi piegare la testa di un lato, “è un piacere rivederla, Signor Clarington”.
Lo sguardo tradì per la prima volta una punta d’esitazione e di timore. “Lui è-?”.
Aveva annuito, Jonathan Clarington, prima ancora che concludesse la domanda. “Immagino che ti vedrò tra non molto ma, per il momento, bentornata”, le strinse la spalla, quando le passò accanto e si diresse verso il pullman le cui porte erano ancora aperte, evidentemente attendendo che facesse il suo ingresso.
“Signor Clarington?”.
L’uomo si era voltato e Brittany esitò un solo attimo, ma ricoprì rapidamente la distanza per stringerlo: affondò il capo contro il suo petto ampio, appena sopra il tambureggiare del suo cuore. Sembrava quasi di cingere una montagna per la sua stazza imponente, ma questo non rese il gesto meno sentito per nessuno dei due.
Un solo attimo d’evidente sorpresa ma l’uomo le batté gentilmente la mano libera sulla schiena.
“Spero tu non mi chieda di passarlo a mio figlio: potrebbe essere imbarazzante in luogo pubblico”, aveva commentato con una lieve traccia d’ironia che aveva fatto ridacchiare la giovane.
“Non tardare”, l’aveva ammonita, con un sorriso, dopo che si fu scostato.
Aveva annuito, Brittany, e si era diretta con passo più deciso verso l’edificio, ben consapevole che ciò che stava per intraprendere era solo il primo passo.
Jonathan salì sul pullman, inarcò le sopracciglia ai fischi canzonatori del plotone, prima di stringersi nelle spalle. “Se vi state chiedendo se un uomo della mia età abbia più fascino di voi, direi che la risposta è alquanto evidente. Appurato questo, vogliamo andare? Siamo già in ritardo”.

~

Lo sguardo era corrugato, mentre scriveva sul foglio, ogni tanto sollevava gli occhi a rimirare la cornice sulla scrivania. La sfiorava, quasi quel sorriso fosse un’implicita promessa che sarebbe andato tutto bene, se non avesse perso la fiducia o quella parvenza di serenità.
Si interruppe per strofinarsi il volto in un gesto di reale stanchezza: avrebbe dovuto affrettarsi per non ritardare e venir meno al suo dovere, in rappresentanza dell’Accademia.
Stava per appoggiare nuovamente la penna sul foglio, ma si riscosse al bussare che infranse il gravoso silenzio dei suoi pensieri. Sperando che Jonathan non si fosse intestardito a scortarlo di persona, come se fosse stato un figlio capriccioso e riottoso, Neal pronunciò uno svogliato: “Avanti”, e levò lo sguardo verso l’ingresso.
Sembrò restare congelato alla vista della ragazza e il tempo stesso sembrò cristallizzarsi, mentre cercava in quel volto i segni della stessa persona che aveva lasciato andare. Così straordinariamente esile e puerile al suo sguardo, i cui occhi sembravano lasciar carpire più di quanto palesasse, fino a cogliere profondità celate ad uno sguardo distratto o poco interessato.
“Brittany”, l’esclamazione quasi rauca e il tono allarmato. Si levò dalla sua sedia, circumnavigando la scrivania per esserle di fronte: gli occhi sgranati e le labbra schiuse. “Stai bene?”.
Non riusciva a spiegarsi la sua presenza se non per qualcosa di negativo: si era irrigidito al pensiero dell’uomo il cui sguardo suadente quanto privo di reale calore umano, lo aveva reso poco fiducioso fin dall’inizio. Brittany aveva promesso di tornare, ma aveva sperato con tutto il cuore che tali parole non fossero state pronunciate soltanto per lenire il dolore della madre.
La ragazza gli sorrise con una dolcezza che ne fece scintillare le iridi. Riusciva a percepire una nuova quiete provenire da lei, come mai era accaduto da che l’aveva conosciuta. Ma non sembrava aver fretta di parlare: continuava ad osservarlo, quasi solo in quel momento riuscisse veramente a guardarlo e realizzare qualcosa.
Cercò di rilassarsi e le sorrise: si trattenne dal coprire le distanze e cingerla, quasi vi fosse la consapevolezza implicita che prima dovesse lasciarla parlare.
“Tua madre sa che sei qui?”, si aspettava di vederla varcare la soglia da un istante all’altro e con lo slancio che l’animava, quando si trovava di fronte ad un parquet.
Sorprendentemente, Brittany scosse il capo, ma non perse il sorriso. “Ho preso un taxi dall’aeroporto,” spiegò con tono tranquillo, “nessuno sa che sono qui, a parte il Signor Clarington e un plotone di ragazzi ma,” si avvicinò, tormentandosi i capelli per la prima volta, il viso inclinato di un lato, lo sguardo più puerile e timoroso che aveva già scorto in precedenza, “ho tanto bisogno di parlare con te, prima di tutto il resto”.
E Neal si sentì trattenere il fiato nello scorgere un anelito di speranza e di un’evidente attesa: era soltanto la sua curiosità a trattenerlo dal cingerla tra le braccia e cullarla. Ma, in quel momento, a prescindere da ciò che gli avrebbe detto, si promise che non l’avrebbe più lasciata andare per alcun motivo.


Brittany sospirò, le mani strette in grembo nel guardare l’uomo che aveva dato nuova felicità a sua madre, l’uomo che aveva sempre rispettato i suoi spazi o la sua scarsa presenza e partecipazione e sempre con un sorriso dolce e una disponibilità e spontaneità quasi commoventi. Pronto ad incoraggiarla, anche quando la decisione lo avrebbe ferito in prima persona, l’uomo che le aveva chiesto un posto nel suo cuore che era sempre stata trattenuta dal concedere.
“Neal,” lo richiamò con voce tremante. “io sono tanto dispiaciuta”, esordì e lo vide sgranare gli occhi ma prima che potesse replicare, riprese parola.
“Ti ho sempre tenuto a distanza, ” aveva ammesso: flash d’immagini che sembravano confermare quei momenti passati, quelle occasioni perse come un monito a non lasciare che ciò avvenisse nuovamente, “e tu non hai mai fatto nulla per importi, neppure quando ti ho ferito”.
“Brittany”, le sorrise con tale comprensione e tenerezza che Brittany temette di non riuscire a concludere.
“Credevo di star proteggendo la mamma all’inizio, anche se ho capito quanto vi amate”, continuò e le parole scivolarono in modo più fluido, quasi ansiose però di dare suono ad una verità seppellita a lungo nei meandri della sua quotidianità.
“Ma stavo soltanto proteggendo me stessa, perché non avrei potuto sopportare che qualcun altro mi lasciasse, da un giorno all’altro”, era stata la confessione più rauca che ne aveva fatto luccicare gli occhi e reso la gola più stretta.
Sembrò in procinto di replicare, Neal, ma ancora una volta la ragazza lo procedette: gli si avvicinò, guardandolo dal basso, il viso inclinato di un lato, il sorriso più timido e delicato, prima di proferire quelle parole trattenute probabilmente troppo a lungo e più che mai vitali e necessarie per ripartire. Questa volta insieme. “Sarò tua figlia, se ancora vorrai essere mio padre”.
Era la prima volta che vedeva quel luccichio nello sguardo dell’uomo che aveva di fronte, ma non vi fu bisogno di risposta pronunciata a chiare lettere. Neal finalmente coprì la distanza e la strinse con calore e un’energia tale che sembrava serbare tutto l’amore e la dedizione serbati in silenzio fino a quel momento, tutte le parole ancora non pronunciate e tutte le promesse che avrebbero stretto da quel nuovo inizio.
Brittany affondò contro il suo petto come se null’altro fosse possibile e non restasse che abbandonarsi completamente a lui con fiducia e bisogno. Lasciò che le sfiorasse i capelli in un tocco vellutato e quasi devoto, e finalmente comprese il significato di un legame scaturito da una reciproca necessità e non da una traccia genetica.
“Scusami per tutto, ” mugugnò con la voce soffocata contro la divisa che indossava.
Scosse il capo, Neal, la scostò appena per sfiorarne le gote a rimuoverne le lacrime e ne baciò la fronte. “Avrei atteso altri cent’anni per questo momento”, aveva rivelato, per poi trarla a sé un altro lungo istante, quasi non fosse stato sufficiente o necessitasse di un’altra stasi per convincersi che fosse tutto reale.
“E ora andiamo, ” si era scostato rapidamente, recuperando quel guizzo sbarazzino e complice ma guadagnandosi uno sguardo confuso da parte dell’altra, “abbiamo un Glee Club da far vincere”.
Boccheggiò, Brittany, facendo mente locale prima di scuotere il capo. “Ma io non sono più iscritta”.
Fu allora che Neal sorrise con aria persino più accattivante. “Potrei distrattamente non aver ancora firmato la tua richiesta di ritiro: potrai partecipare e da domani non sarai più una studentessa di quest’Accademia”.
Aveva sorriso, Brittany, all’idea di ciò che poteva averlo trattenuto dall’apporre una semplice firma e da ciò che ne sarebbe conseguito. Un altro pensiero, tuttavia, le procurò un brivido lungo la spina dorsale e sentì il respiro farsi più rado, nonostante le sue motivazioni dopo la partenza da Washington. “Lo apprezzo molto, ma non so se sia il caso”.
Si era accigliato, Neal. “Qual è la prima regola di un buon soldato? Non abbandonare mai i compagni in difficoltà, qualunque sia il tipo d’ostacolo”.
Brittany si era morsa il labbro. “Non credo che mi vorranno con loro e non potrei biasimarli”, aveva obiettato, lo scintillio più affranto all’idea dell’addio tanto freddo e formale con Hunter.
Neal scosse il capo e le cinse le spalle, conducendola verso l’uscio per poi rivolgerle uno sguardo divertito. “Se stai parlando di un aitante Capitano, per cui sospetto che tua madre abbia un’infatuazione inquietante, alto un metro e ottantatré centimetri, spalle larghe e occhi verdi, allora temo di dover dissentire”.
Una nuova vampata di calore aveva sfiorato le gote di Brittany. “Te l’ha detto la mamma?”, aveva pigolato dopo essersi schiarita la voce, cercando di darsi un contegno.
“Diciamo che i soldati hanno un loro modo di dimostrare affetto e di questo sono più che informato e poi… è così evidente?”, aveva chiesto con aria quasi rassegnata che aveva fatto ridere la ragazza, smussando l’imbarazzo e la tensione.
“No, ma apprezzo lo sforzo”.
Si era nuovamente fatto serio, Neal, e le aveva cinto le spalle. “Era all’aeroporto quel giorno, ma non ha avuto tempo di parlarti”.
Aveva sentito il cuore fermarsi in gola, Brittany, una nuova speranza che si accompagnò ad un moto di calore ad irradiarle dal petto. Un vago sorriso nel domandarsi come sarebbero andate le cose se il volo avesse ritardato a sufficienza da consentire loro un ultimo dialogo. Chissà se sarebbe ancora stata disposta a partire o avrebbe compreso in modo più nitido di appartenere alle persone che l'avrebbero guardata andarsene.
Si era riscossa per osservare l’uomo con aria più dolce e un misto di gratitudine e di tenerezza. “Sarai un papà meraviglioso”, aveva asserito in un sussurro più tremulo.
Parve molto compiaciuto, Neal, ma la strinse più forte, prima di rilasciare un sospiro. “Dovremo fissare delle regole se tra voi… sì, insomma, se diventerà qualcosa d’ufficiale, capisci?”. Era sembrato lui stesso quasi timoroso di esprimere quell'eventualità e ciò aveva fatto sorridere la ragazza con persino più tenerezza.
Nonostante il nuovo rossore sulle gote, si era portata la mano alla fronte. “Signorsì, Signore!”, aveva esclamato nella tonalità che più compiaceva Kitty.
Se quello era stato soltanto l’inizio, non aveva alcun dubbio che tutto sarebbe stato meraviglioso da quel momento in poi.

~

Era la prima volta che Brittany prendeva parte ad un’occasione simile: finora la danza, ad eccezione delle prove degli ultimi mesi, era sempre stata un evento privato e personale. Ma all’Accademia aveva imparato, più che mai, lo spirito di squadra, il cameratismo (talvolta anche nell’accezione peggiore) e il significato dell’unione: dell’essere una parte del successo dell’altro.
Erano arrivati trafelati al Teatro della città, il rinomato Fine Arts Center1, allestito per l’occasione e si confusero tra la folla: Brittany si guardò attorno con aria smarrita e preoccupata, fino a quando Jonathan Clarington, la cui imponente altezza lo rendeva facilmente rintracciabile, si fece largo per raggiungerli.
Il viso era notevolmente sereno nel vederli insieme.
“Come stanno andando?”, chiese ansiosamente Neal.
L'altro emise un breve sospiro. “Non sarà facile spuntarla: ci sono molti concorrenti e altrettanti talenti”, spiegò in tono pacato. “Il duetto di Hunter e del Capitano Wilde credo abbia avuto molta presa in generale, ma disgraziatamente la ragazza è sembrata dolorante nel secondo numero. Dipenderà tutto dal numero finale... il che ci rimanda all’arma segreta, immagino”.
Brittany parve ancora più confusa: se aveva sentito il cuore in gola alla realizzazione che Hunter fosse in quello stesso edificio e lo avrebbe rivisto da lì a poco, fu ancora più sconcertante, quando i due adulti la guardarono con un sorriso evidentemente allusivo. Fu quasi tentata di guardarsi attorno, quasi aspettandosi un ballerino di talento, magari fuoriuscito dalla fiction “Paso Adelante”, ma sgranò gli occhi alla comprensione. “Io?”.
“Lo sei sempre stata,” aveva asserito Neal con evidente orgoglio. “un pessimo soldato ma-”.
“Hey!”, aveva borbottato in risposta, le braccia incrociate al petto e il cipiglio di puerile disappunto.
“Ha anche fatto un ottimo saggio di storia”, intervenne Jonathan con un sorriso, “un peccato che non faccia media su un giudizio finale”.
“Ma è la danza che ti scorre dentro,” aveva continuato Neal in tono più dolce, “e mi dispiace di essermi lasciato trascinare e averti costretto a qualcosa di diverso”.
Aveva scosso il capo, Brittany. “Non rimpiango nulla… o quasi”, aveva appena raggrinzito il naso al ricordo delle angherie di Kitty.
“Allora, vuoi condurre il Glee Club alla vittoria?”
Aveva sorriso con aria più compiaciuta. “Sono qui per questo”.
Jonathan la scortò lungo il dedalo di corridoi verso il camerino, per poi indicarle la porta corrispondente all’alloggio della loro Accademia, contraddistinto da una targa che le procurò una nuova aritmia.
“Buona fortuna”, si era congedato con un ultimo sorriso.
Brittany temette il momento del ritorno persino più del momento in cui sarebbero saliti sul palco: quanti sarebbero stati effettivamente felici di rivederla? Hunter sarebbe stato uno di loro? Sentiva il cuore in gola in quel momento e sfiorò la superficie dell’uscio che la separava da quella verità.
Cercò di cacciare dalla mente l’immagine di un momento simile e ascoltò il brusio proveniente dall’interno: prese un profondo respiro e, infine, schiuse la porta.
Come un unico corpo, si erano tutti voltati verso l’uscio e parvero restare congelati sul posto. Brittany ebbe appena modo di scorgere lo sguardo sorpreso e spiazzato di Hunter e di Kitty, prima che Marley, uno strillo felice, le gettasse le braccia al collo.
“Sei tornata per vederci?”, le chiese quest’ultima quasi dondolandola in quell’abbraccio e strappandole un sorriso mentre la cingeva a sua volta, quasi necessitasse, in assenza del suo gatto (sperò che l’autista del taxi lo avesse consegnato a casa con cura: un peccato non poter scorgere la reazione della madre alla vista della gabbietta e del messaggio accluso), di quel contatto.
Brittany guardava Hunter che, dopo quel momento di puro sbigottimento, era tornato a scrutare il foglio che teneva tra le mani: appariva più che mai concentrato, soltanto la mascella contratta e l’irrigidimento della postura ne tradivano una qualche emozione.
“Molto commovente, Barbie, ma non abbiamo tempo per i convenevoli”, fu la secca replica di Kitty. La stava scrutando con aria arcigna, mentre si sedeva su un divanetto, stendendo la gamba per appoggiare del ghiaccio sulla caviglia2.
Scosse il capo, Brittany, dopo essersi dolcemente svincolata dall’abbraccio dell’amica a cui trattenne la mano. “Sono venuta per partecipare”, aveva precisato, la voce leggermente tremula.
Sentì il silenzio gravoso sugli astanti, Marley aveva rafforzato la stretta, Ryder, Jeff e Mike le sorrisero con evidente approvazione, ma era i due Capitani che stava tuttora scrutando, consapevole che fossero solo loro ad avere voce in capitolo.
“Se me lo permetterete”, aveva aggiunto.
“Dobbiamo, dobbiamo, dobbiamo”, era stato il suggerimento di Jeff che sembrò letteralmente saltellare sul posto, ma fu allo sguardo gelido di Hunter che si fermò, la stessa espressione di un bambino trovato con le mani sporche di marmellata.
Fu Kitty ad alzarsi, gettando la confezione di ghiaccio sul pavimento, facendo sussultare Brittany.
“Te ne vai, lasciandoci nella merda totale per il tuo bisogno di riconciliarti con il mondo di Barbie e poi torni, pretendendo che noi ti permettiamo di tornare, come se nulla fosse accaduto”, lo sguardo era glaciale, la voce altisonante che aveva fatto congelare tutti sul posto, compresa Marley a cui Brittany si aggrappò con più intensità.
Aveva annuito, sostenendo lo sguardo del Capitano e sospirando. “Non posso cancellare i miei errori,” sussurrò in tono contrito in quell’ammissione, “e mi dispiace di avervi egoisticamente coinvolto, ma lasciate che mi scusi, facendo l’unica cosa che mi riesce bene, specialmente se questo può aiutarvi”.
Si era voltato verso Hunter, Jeff, la stessa espressione di un bambino implorante, qualcosa di simile a quella che Marley stava gettando al Capitano Wilde che si era portata le mani sui fianchi e continuava a scrutare la sua ex recluta come non chiedesse di meglio di prenderla per i capelli. E farla cozzare contro la parete. Ripetutamente. Fino a quando non avesse perso i sensi.
“Ho capito che eri una piantagrane dal primo momento in cui ti ho vista e lo penso ancora”, aveva esordito e Brittany si mordicchiò il labbro, sollevando le mani.
“Io-”.
Aveva sbuffato, Kitty, le braccia serrate al petto nel fissarla con aria ancora piena di biasimo e di rancore, prima di scuotere il capo. “Ballerai al mio posto”, sancì e un silenzio stupefatto cadde tra gli astanti.
Non ebbe neppure modo di sentire lo squittio felice di Marley o il modo in cui le stava cingendo il braccio, letteralmente saltellando, perché non riusciva neppure a contenere quel nuovo scoppio di gioia e d’energia che le fece scalpitare il cuore.
“La coreografia è un po’ cambiata,” continuò Kitty, un’occhiata gelida alla sua amica per placarne il moto di felicità, “ma non abbiamo tempo di fartela memorizzare”, era avanzata in sua direzione e le aveva cinto le spalle per poi guardarla intensamente, costringendola a chinarsi verso di sé.
“Dovrai seguire Hunter e lasciarti guidare da lui: leggere e anticipare i suoi movimenti e far in modo che ogni tuo passo sembri completare il suo, credi di riuscirci?”.
Aveva deglutito nervosamente, Brittany, ma l’aveva guardata dritta negli occhi ed aveva annuito.
Si era rivolta a Marley, Kitty, con un cenno del mento. “Andate a cambiarvi, le darai il tuo vestito3”.
“Signorsì, Signora”, aveva replicato Marley che non sembrava affatto dispiaciuta. Brittany sapeva avrebbe dovuto ringraziarla e non soltanto per aver rinunciato a quell’ultima esibizione in suo favore e senza alcun risentimento. Al contrario, trattenendola ancora per mano, la stava lei stessa sospingendo verso il bagno.
“E Barbie?”.
Si era voltata, Brittany, e Kitty le fece cenno di avvicinarsi. Sembrava piuttosto contrariata nel continuare a scrutarla con le braccia incrociate al petto e le labbra serrate in una smorfia.
“Gli sei mancata,” aveva commentato in tono spiccio, quasi volesse assicurarsi di parlare, prima di cambiare idea, “ma se lo vedrò di nuovo giù di tono a causa tua, ti strapperò i capelli uno per uno e te li farò ingoiare, mi sono spiegata?”.
Aveva sentito il cuore farsi più pesante, Brittany, lo sguardo corse al ragazzo che non le aveva più neppure rivolto un’occhiata e che sembrava totalmente incurante del suo ritorno. Non aveva neppure preso parola sulla questione, malgrado fosse stato il primo a spronarla ed esortarla, il primo a desiderare di vederla unirsi al Glee Club.
Era tornata ad osservare Kitty, consapevole quanto quelle parole dovevano esserle sofferte, soprattutto per il reale affetto verso lo stesso ragazzo. Aveva annuito con un sorriso di gratitudine.
“E ora fila, abbiamo già perso abbastanza tempo”.
Si era morsicata il labbro, Brittany, ma l’aveva cinta impulsivamente in un abbraccio che aveva strappato sguardi increduli e qualche fischio canzonatorio tra i ragazzi. Era rimasta rigida, Kitty, come un pezzo di ghiaccio.
“Grazie,” aveva sussurrato Brittany con voce pregna di reale commozione, ma Kitty si era divincolata bruscamente.
“Sto cercando di trattenermi dal darti un pugno, Pierce”, aveva borbottato per risposta, scostandola da sé.
La fissò incredula, Brittany.
“Che c’è?”, le abbaiò contro l’altra. “Non penserai di essermi davvero mancata?”.
“Mi hai chiamata per cognome”, era parsa incredula.
Aveva sbattuto il piede a terra, Kitty, le labbra contratte prima che notasse qualcosa e le prendesse rudemente il braccio. “Sono unghie finte?”, lo chiese in un sibilo minaccioso quanto il detonatore di una bomba. “Toglile, prima che te le strappi via io”, si era voltata per poi lasciarsi cadere sul divano, una smorfia risentita nel prendere il ghiaccio e borbottare, con aria contrariata: “unghie finte, puah!”.

~


Carezzò il tessuto dell’abito, il cuore in gola e una sensazione di nausea a stringerle lo stomaco, il pensiero che da lì a poco avrebbe dovuto ballare di fronte ad una platea e avrebbe dovuto farlo con il ragazzo che amava e ancora non le aveva rivolto parola.
“Esci subito dal bagno, Barbie, non hai tempo di sentirti vagamente desiderabile”.
Un vago sorriso ad incresparle le labbra: per la prima volta ebbe la sensazione che non si trattasse di un mero tentativo di offenderla.
Si fece largo tra i compagni, un ultimo abbraccio a Marley, e seguì le indicazioni verso il palco sul quale si sarebbero esibiti. Con il cuore in gola e il respiro tremulo, il solo rumore delle sue scarpe con tacco a sfiorare la piattaforma, raggiunse la prima linea e la sagoma di Hunter già schierato e perfettamente padrone di sé.
Rimirò il sipario che si sarebbe levato da lì a pochi secondi: sentiva il cuore in gola, ma avrebbe potuto onestamente affermare che non fosse del tutto dovuto al nervosismo per la competizione, quanto il pensiero del giovane al suo fianco di cui stava scrutando il profilo, le mani strette in grembo. Restò ad osservarlo per quelli che parvero istanti interminabili, prima di allungare timidamente la mano a cingerne appena il braccio, quasi avesse il reale bisogno di sentirlo al suo fianco, in quel momento, malgrado tutto ciò che era accaduto. Malgrado quel divario che sentiva più intenso che mai.
Si era voltato ad osservarla e Brittany deglutì di fronte al suo sguardo impenetrabile, soltanto un lieve corrugamento delle sopracciglia nell’osservarne la mano che lo stava trattenendo: sembrava lo stesso Capitano rigido ed inflessibile che aveva conosciuto al suo arrivo in Accademia.
Ciò non fece che accrescere l’ansioso timore che fosse troppo tardi.
“Hunter, io-”.
Aveva scosso il capo, il giovane, tornando ad osservare innanzi a sé. “Non è questo il momento”, aveva commentato, quasi neppure muovendo le labbra.
Sospirò, Brittany, ma ne lasciò il braccio e cercò di farsi coraggio: dopotutto era già riuscita una volta a solcare quell’apparente freddezza e avrebbe dovuto concedergli più tempo.
In quel momento avrebbe soltanto dovuto concentrarsi sulla gara, su una coreografia che aveva subito modifiche e sul dover analizzare lui e sui suoi movimenti, lasciando da parte i trascorsi o lasciando che le sue emozioni fossero esternate a quella maniera unica e particolare, che lui lo comprendesse o meno.
Il sipario si stava levando e si concentrò su quell’aritmia quasi soffocante.

Le prime note infransero il silenzio: era la seconda volta che si accingeva a ballare con il giovane e, come la prima volta, i loro pensieri sembravano distanti come una muraglia, ma ciò non le impediva di riuscire ad entrare in contatto con lui, ad una maniera silenziosa.
Ancora una volta, tutto il resto del mondo sembrò confuso e distante: gli altri ballerini sulla pista, il pubblico partecipe: ne seguiva ogni passo, lo anticipava e lo accompagnava come fossero da sempre destinati a vivere insieme quel momento. Qualcosa sembrava farle credere, in quella circostanza, che non potesse esserci un reale distacco. Non fin quando i loro sguardi si fossero fusi come un’estensione dei loro movimenti complementari ed affini, non quando le sue braccia la sorreggevano perfettamente e le dava quello slancio per farle toccare le vette più alte per poi ricadere nella sua presa salda e sicura, una promessa silenziosa. La consapevolezza che quel legame non si era mai realmente infranto e non se ne fosse mai andata.
Erano entrambi affannati, il suo volto vicino, ma la rimise in piedi senza fatica: lo scroscio degli applausi pareva distante e lontano e così gli schiamazzi dei compagni.
Ne stringeva ancora la mano, Brittany. Hunter abbassò lo sguardo ad osservare le loro dita intrecciate, probabilmente condividendo la sua stessa sorpresa: rinsaldò la presa e le fece cenno con il mento alla platea e si chinarono in simultanea.
Ma il punto era, almeno per Brittany, che lui non la lasciò andare e ciò sembrò più eloquente di qualunque parola potesse pronunciare, prima che potessero ritrovarsi soli.


Probabilmente con il tempo avrebbe smarrito quei ricordi ed immagini, la proclamazione della loro vittoria compresa: aveva lasciato che sfilasse con Kitty per ritirare il loro trofeo che sarebbe stato posto in una teca all’ingresso dell’Accademia.
Si affrettò a scendere dal palco quando scorse la sagoma della madre: il cuore in gola nel raggiungere lei e Neal. La donna la cinse con rinnovata energia e sentì le lacrime di gioia scorrerle sul volto.
Fu un lungo istante quello in cui tutte le voci sembrarono acquietarsi e si lasciò andare in quell’abbraccio, dimentica di tutto il resto e semplicemente accertandosi che lei fosse lì e l’avrebbe ancora trattenuta a lungo, senza più lasciarla andare.
“Oh, Britty Woman,” la sua solita intonazione allegra sembrava smorzata dall’autentica commozione.
“Sei stata un incanto: una principessa danzante”, aveva sussurrato una volta scostata dal suo abbraccio. Le aveva sfiorato le gote a rimuoverne le lacrime e ne aveva baciato la fronte, tornando a stringerla e dondolarla tra le sue braccia.
“Lo è sempre stata”, era intervenuto Neal nel baciarle a sua volta il capo, ma Shirley nuovamente la strattonò a sé, con fare possessivo ed energico che le strappò una risata.
“Non ti lascerò più andare: a costo di legarti: dobbiamo andare a casa, voglio che mi racconti tutto quanto”.
Si era divincolata dolcemente, Brittany, lo sguardo che cercava nuovamente il ragazzo che stava parlando altrettanto allegramente con il padre. Quasi attratto dagli occhi azzurri che lo stavano osservando, si era voltato in sua direzione e le aveva sorriso.
Aveva mantenuto quel contatto di sguardi, Brittany, prima di voltarsi verso i due adulti: “So che da domani non sarò più una studentessa dell’Accademia, ma vorrei passare là l’ultima notte, se per voi va bene”.
Persino vedere nuovamente quel sorriso compiaciuto della madre, che aveva seguito il suo sguardo, fu quasi commovente, persino concedendole di porre da parte le sue istanze. Neal, al contrario, sembrò invece sudare freddo, tormentandosi appena i capelli “I-Immagino che sia giusto, tecnicamente dovresti farlo, ma non sei obbligata e-”.
“Da domani sarai agli arresti domiciliari, a casa”, aveva sancito Shirley nella sua migliore espressione severa, malgrado l’ammiccamento finale.
Aveva riso, Brittany, per poi schiarirsi la voce ed assumere la posa di comando. “Signorsì, Signora!”.


“Dobbiamo festeggiare, vero Hunter, vero, vero?”.
Sterling stava letteralmente saltellando sul posto come un cucciolo sovra-eccitato ma, alla sua occhiata guardinga, si era congelato sul posto, realizzando la gaffe. Aveva assunto un’espressione quasi mortificata. “Volevo dire Capitano Clarington”, aveva soggiunto con voce quasi timida.
Scosse il capo, Hunter, un vago sorriso ad incresparne le labbra, ma lo sguardo verde era fisso sulla sagoma della giovane impegnata con la madre e il fidanzato. Giocherellava con una ciocca di capelli e si stava avvicinando lentamente al gruppo, dopo essersi congedata da entrambi con un bacio.
“Voi andate pure: niente coprifuoco stasera”.
Incurante del moto di felicità che aveva innescato e del modo scomposto in cui Sterling si era lanciato addosso a Chang e Puckerman per festeggiare, raggiunti da Hudson (la cui mole aveva fatto scricchiolare pericolosamente le assi di legno della pedana) che sembrava un’appendice del giovane con la cresta, si era allontanato dal gruppo.
La stava ancora rimirando ed attese che si sciogliesse dall’ennesimo abbraccio con la recluta Rose, prima che, a sua volta, gli si facesse incontro.
Non disse nulla, Hunter, le porse la mano che lei prese: un sorriso emozionato ma consapevole che i loro pensieri fossero più che mai allineati e che, una volta ritrovati, non avrebbero lasciato facilmente quel contatto.

~

Sorrise, Brittany, entrando nella camera del giovane: non pareva affatto cambiata dall'ultima volta. Era come se potesse serbare ricordi dei momenti più piacevoli vissuti tra quelle mura. Come se non vi fosse mai stata davvero una separazione. Pur nella speranza che quello stato d'animo fosse condiviso, sarebbe stata in grado, allora, di dare voce a quei pensieri, a quello stato d'animo?
Sospirò a quell'interrogativo, ma ne varcò la soglia e sorrise alla vista del gatto persiano che le si era subito avvicinato e che aveva preso in braccio, mentre il giovane si richiudeva la porta alle spalle.
“Non è cambiato nulla”, diede voce ai suoi pensieri e, al suo cenno, si accomodò sul materasso, imitata dal giovane che si strinse nelle spalle ma continuò ad osservarla intensamente.
“Quasi nulla”, replicò, infatti, e le indicò la scrivania.
Brittany sgranò gli occhi alla vista della cornice che aveva trovato nel cassetto. Sembrava passata una vita e, da una certa prospettiva, si sentiva diversa dalla ragazza che si era rivelata sprovveduta ed impulsiva in quel gesto indiscreto. Si volse nuovamente in sua direzione. “Mi dispiace per quel giorno”, iniziò morsicandosi appena il labbro.
Non finì la frase perché il giovane scosse il capo. “Non ti ho mai chiesto perdono come ho reagito”, sussurrò, ma prima che potesse replicare, continuò, quasi ciò rendesse più facile lasciar completamente andare quelle parole e dare voce ai propri pensieri. Era come se volesse liberarsi di quel velo di riservatezza che lo contraddistingueva, ma Brittany attese.
Distolse lo sguardo il giovane, la mascella contratta a tradirne il nervosismo. “Ero un bambino, quando morì ed è come se la mia vita da allora si fosse fermata”.
La sua voce era divenuta più bassa e Brittany ne aveva cinto la mano come silenziosa consolazione: l'aveva stretta tra le proprie, Hunter, e ancora una volta genuinamente la ragazza si sorprese di quanto fossero grandi ma dalla presa salda e forte.
“Era la notte di Capodanno e mio padre era impegnato per una festa qui in Accademia: lei pensò che fosse meglio che andassi alla festa di un compagno di scuola dove ci sarebbero stati i miei coetanei. Erano le due di notte, quando venne a prendermi e... ci fu l'incidente”, il resoconto si interruppe, lo sguardo volto al pavimento e Brittany si domandò se fosse la prima volta che pronunciasse tali parole a voce alta o se, ancora a distanza di tempo, il dolore fosse fresco ed intenso come allora. Lasciò che indugiasse in quel momento, non assecondò l'istinto di sfiorarlo, ma gli concesse tutto il tempo necessario a riprendere parola.
“Attesi per delle ore senza capire, fino a quando non giunse mio padre alle prime luci del giorno: non ricordo di averlo mai visto tanto sconvolto, per quanto cercasse di apparire in sé”.
Aveva sospirato, Brittany, lo sguardo nuovamente corse a quel volto, immortalato in un momento d’autentica serenità e di gioia, ma il cui ricordo era così fragile e delicato che sembrava potersi spezzare al solo sguardo. O essere troppo intimo per poterlo inficiare di una sincera curiosità.
Era tornata a scrutare il profilo del giovane, riuscendo mentalmente a ritrovare ordine e nuova spiegazione a tanti interrogativi passati e persino avendo quasi l'impressione che lui stesso fosse diverso dal giovane che aveva lasciato tra quelle stesse mura.
“Non lo dissi a nessuno, ” continuò improvvisamente e Brittany rinsaldò la presa e gli si fece più vicina ad appoggiare la spalla esile alla sua, “ma non ho potuto fare a meno di incolparmi e la cosa peggiore era il pensiero di essere mai voluto restare senza di lei a quella maledetta festa. Forse avrei dovuto insistere o pregarla di tenermi con sé o...”. .
Aveva scosso il capo, ma la sua voce spezzata bastò a procurarle una dolorosa fitta al petto: scosse il capo energicamente e gli avvolse le braccia intorno al collo e ne sfiorò la nuca ad una maniera dolce e rassicurante. Appoggiò la gota alla sua e parlò in un sussurro delicato, inframmezzato dalla sua stessa apprensione e da quel dolore condiviso che ne aveva fatto stringere la gola.
“Eri solo un bambino e nessuno a quell'età dovrebbe vivere un dolore simile o, peggio ancora, ritenersi responsabile”, lo aveva trattenuto quasi con forza, cercando di imprimere l'intensità di quelle parole con l'energia stessa di quel contatto, ma contrastandolo con la voce appena sussurrata, quasi timorosa di essere invasiva, persino nel dolore appena espresso ad alta voce. “Ha sempre voluto che tu fossi felice e sono sicura che è ciò che desidera anche adesso: non ti avrebbe mai lasciato per nessun motivo, se non avesse pensato che ciò sarebbe stato meglio per te”.
Aveva scosso fermamente il capo, Hunter, e Brittany aveva lasciato che si divincolasse dolcemente, il capo ancora chinato prima di sollevare lo sguardo di un verde striato in quel momento che le procurò un'altra dolorosa fitta al petto. “E' da allora che non più creduto di poter essere felice”.
Scosse il capo, Brittany, il viso inclinato di un lato. “Non dovresti torturarti così, sono sicura che non è ciò che vorrebbe: dovresti ricordare quel sorriso e sapere che anche il suo ultimo gesto era per assicurarsi che tu lo fossi. Se non vuoi farlo per te stesso, dovresti farlo per lei”, aveva suggerito con voce più dolce, lasciando che le dita ne sfiorassero la gota in un tocco rassicurante e vellutato.
“Non ho più festeggiato la notte di San Silvestro”.
Aveva annuito, Brittany, con aria più assorta. “Grazie di avermelo detto, ma non ti permetterò di passarla di nuovo da solo”, era stata la promessa solenne, per poi sorridere con fare più accattivante, nel tentativo di smussare la tensione.
“Potremo anche allenarci se è quello che preferisci, ma a patto che non piova”, aveva soggiunto ad una maniera più scherzosa, sollevata nel vederne un sorriso incresparne le labbra, malgrado tutto.
“Non sono una buona compagnia”, si era schermito con uno scrollo di spalle per poi soggiungere, altrettanto ironicamente: “E tu non sei proprio la recluta migliore”.
Aveva ridacchiato, Brittany, per poi raggrinzire il naso. “L'ho già sentito dire, ma visto che non posso dire il contrario, fingerò di non aver sentito”.
Lasciò che la cingesse nuovamente e affondò contro la sua spalla con gli occhi socchiusi a trattenerlo in quel momento di serenità e di reciproco conforto, dalla sola consapevolezza di esserti ritrovati in una solitudine simile. A lasciare che il suo profumo la cullasse e la sensazione della sua presenza, riuscisse a schermare le sue paure e i suoi dubbi, tranquillizzarla e farla, nuovamente, sentire a casa. Una promessa implicita che non se ne sarebbe più andata.
Probabilmente stava pensando qualcosa di simile perché, l'attimo dopo, la scostò appena per rimirarla in volto, le sopracciglia inarcate. “Non mi hai detto di tuo padre”.
Aveva contratto le labbra, Brittany, in un sorriso più amaro. “Non c'è molto da dire, temo: è andato avanti con la sua vita, come abbiamo fatto la mamma ed io ma... mi sentivo bloccata”, aveva distolto lo sguardo, un vago sospiro nel ripercorrere i suoi dubbi e tormenti segreti.
“Mia madre ha rinunciato a tutto, quando sono nata, aveva solo diciassette anni e un futuro nella danza, ma lo ha fatto senza rimpianti e io avrei voluto essere abbastanza forte da essere disposta a sacrificarmi a mia volta, ma non riuscivo a pensare di sostituirlo con Neal”.
Aveva scosso il capo, il giovane. “Nessuno si sarebbe mai aspettato che tu lo facessi: è stato importante per te... nel bene e nel male”.
Aveva annuito, ma non aveva potuto fare a meno di sospirare e scuotere il capo. “Credevo che sarei stata meglio, se avessi avuto le risposte che volevo e, anche se so che adesso è felice, sapere che ero un ostacolo alla sua carriera o alle sue ambizioni-”, si era morsicata il labbro e lo sguardo era divenuto più contrito e amareggiato.
“So che non dovrei, ma una parte di me continua a domandarsi se sarebbero stati più felici e se sarebbero stati ancora insieme, se io... se io non fossi nata”, aveva concluso in un gorgoglio e il giovane l'aveva accolta tra le sue braccia e aveva appoggiato il mento ai suoi capelli.
L'aveva cullata a lungo senza pronunciare parola e Brittany aveva socchiuso gli occhi, completamente abbandonata a quel contatto e quel calore che sembrò sciogliere quel nodo in gola. Tutto poteva essere rimandato, anche risposte più spinose: fino a quando fosse sostata alla sua presenza, consapevole che, fin quando fosse rimasta con lui, tutto sarebbe stato chiaro e limpido e non avrebbe più dubitato di sé.
L'aveva scostata da sé per guardarla in volto.
“La loro vita è cambiata, ma sono stati loro a decidere come: non è mai stata una tua responsabilità. Non dovresti mai pensare di essere un errore: faresti un torto a tua madre che ti ama più d’ogni altra persona al mondo. A Neal che vuole entrambe nella sua vita e... a me”, ne sfiorò le gote con movimenti circolari delle dita e appoggiò la fronte alla sua. “Non voglio pensare ad una vita in Accademia senza che arrivi una recluta dal trolley rosa e che sembra appena uscita da una beauty farm per Barbie”.
Aveva sorriso, Brittany, annuendo con vigore e ritrovando il sorriso. Lasciò che ne scostasse i capelli dal viso, le mani più esili appoggiate al suo petto, quasi a trattenerlo.
“E' la mia ultima giornata qui”, aveva asserito in un bisbiglio, l'attimo dopo.
“Lo so,” aveva risposto il giovane, senza smettere di osservarla intensamente, “ma aspetterò i weekend oppure”, parve pensarci sopra, un sorriso più vispo e divertito che raramente ne increspava le labbra, “potrei assumerti come aiuto cuoca o inserviente, a te la scelta”.
Aveva simulato un broncio vagamente offeso prima di tornare a adagiarsi contro il suo petto, socchiudendo gli occhi e crogiolandosi di quel dolce profumo e dalla consapevolezza che tutto era perfetto in quel momento e non vi erano più fratture tra loro. Quel semplice contatto sembrava dire tutto. O quasi.
Si scostò poco dopo per osservarlo. “Neal ha detto che eri venuto in aeroporto quel giorno”, aveva sussurrato e Hunter, per la prima volta, parve vagamente a disagio.
Annuì. Prese un libro appoggiato sul comodino e ne estrasse la busta che Brittany rimirò con occhi sgranati e le guance arrossate, quasi se ne fosse completamente dimenticata fino a quel momento.
Sorrise il ragazzo nel depositarla sul letto, cingendone maggiormente la vita, e attraendola nuovamente a sé. “Credevo che la Bestia smettesse di essere tale alla dichiarazione di Belle”, sembrò riferirsi a quell'appellativo finale del “Principe camuffato da Bestia”.
“I-Io”, era arrossita profondamente e, seppur la lettera avrebbe dovuto semplificarle il riuscire a palesargli i suoi sentimenti, sembrava più che mai difficile sostenerne lo sguardo limpido.
Sorrise, Hunter, ma scosse impercettibilmente il capo e la trasse maggiormente contro di sé, quasi disperasse di mantenere quel contatto, appoggiò le labbra alla sua tempia e rilasciò un dolce sospiro contro il suo orecchio. “Sarebbe la mia gioia, essere il tuo Principe”, aveva sussurrato con voce appena percepibile.
Scosse il capo, Brittany, scostandosi appena per rimirarlo e sfiorandone delicatamente il volto. “Una favola,” lo corresse, “non solo un Principe: vivo una favola, da quando ti conosco”.
L'aveva stretta più intensamente prima di rilassarsi e stendersi sul letto, trattenendola contro il proprio petto, sfiorandone delicatamente i capelli e sollevando le coperte su entrambi, quasi isolandosi dal resto del mondo in quell'anfratto soltanto loro.
O quasi, considerando come Mr Pussy, che aveva trottato ai loro piedi, si fosse a sua volta accoccolato in grembo alla giovane.
“Avremo il nostro happy ending?”, le chiese, la voce sembrava provenire anch'essa da un mondo fatato, continuando a cingerla per poi porgere una carezza al micio.
Annuì, Brittany, sostenendosi appena al gomito per osservarlo. “Devi solo crederci e seguire il tuo sogno”.
“E' da tanto che non mi chiedo più quale sia”, aveva ammesso con voce distante, probabilmente ripensando al passato.
Aveva sorriso, Brittany, mantenendosi su un fianco. “Allora è il momento di ricominciare”
“Come?”, la incalzò, il viso inclinato di un lato, quasi allietato da come le risposte le sembravano naturali, quasi fosse lei stessa fonte di quella sicurezza a cui aggrapparsi.
“Non andandomene più da qui per cominciare”, aveva riflettuto, le bionde sopracciglia contratte per l'aria pensierosa.
Aveva annuito, con aria fintamente pensierosa. “Sono d'accordo”, sussurrò e rinsaldò la pressione delle braccia attorno alla sua vita.
“E comunque non te lo avrei permesso”, aveva concluso nell'appoggiare nuovamente la fronte alla sua.
Non era probabilmente la frase d'amore più consueta o la formula più diffusa, Brittany lo sapeva, ma in cuor suo era certa che non avrebbe potuto esservene una migliore o più vissuta.
L’inizio di una loro favola.

To be continued...

Spero di essere riuscita a farmi perdonare l'atmosfera più amara di questi ultimi capitoli: mi sembra davvero incredibile essere giunti a questo punto, quando si ha la sensazione di aver cominciato da poco.
Ma non credo sia il caso di cominciare discorsi d’addio, quindi vi lascio qualche piccola anticipazione dell'epilogo:

Realizzerò la tua favola: credo di avere già l’idea adatta”.
Sono entrata per mia madre, ma era per te che volevo restare”.
Vorrei chiederle di concedermi il primo ballo padre e figlia”.
Oh, avanti, non fare-“. “La bestia?”.

Come sempre ringrazio tutti voi che mi seguite e un esercito di unicorni per tutte voi che siete sempre così dolci e gentili da condividere le vostre emozioni e allietare il mio Venerdì <3 Non sarebbe lo stesso senza di voi!
Non mi resta che augurarvi un buon fine-settimana,
a presto,

Kiki87


1 Per info (o per controllare che non me lo sia inventato :P), vi lascio il link ufficiale a disposizione: Fine Arts Theatre
2 Se qualcuno se lo stesse chiedendo, no, Shirley non ha attentato alla sua vita :D Diciamo che è stato il karma.
3 Spiacente per Marley ma è l’unica la cui altezza sia analoga a quella di Brittany nel contesto :D

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Capitolo 13
*** Epilogo ***


epilogo
Le favole si avverano:
nel profondo
vogliamo credere che
continuano ad avverarsi
e un segreto è svelato,
è la parte della storia
che preferiamo.

Non chiedere al tuo cuore se
sente di poter volare.
La tua testa sente di poter girare,
ogni lieto fine è un nuovo inizio,
restane affascinato.

(Ever Ever After – Carrie Underwood, colonna sonora
di “Come d'Incanto”, Walt Disney) 1



Epilogo



Era sempre qualcosa d’emozionante e di “magico” estrarre la sua scatola a forma di scrigno: ne sfiorava la superficie intagliata con l'incisione dei due simboli (un diadema da principessa e una stella a simboleggiare il grado militare) con rispettive iniziali “B” e “H” che un caro amico aveva commissionato per loro. Uno dei doni decisamente più apprezzati di sempre.
Lo schiuse e, ancora una volta, lo sguardo vagò tra i ricordi più sereni della sua vita, ma non indugiava mai troppo nella dolce nostalgia: richiamarli alla mente, era come riviverli, ma con la consapevolezza di ciò che era avvenuto dopo e, al contempo, con la dolce sicurezza che ve ne sarebbero stati altri. Altrettanto sereni e felici con i quali riempire ulteriormente quello scrigno.
Il primo che prese tra le mani era una pergamena arrotolata: seppur conoscesse a memoria le parole scritte, le rilesse ancora una volta. E la mente, con un sorriso sognante sulle labbra, vagò alla prima volta in cui le aveva lette.

Quando schiuse gli occhi, un sorriso sereno aleggiava ancora sulle sue labbra, ma serrò nuovamente le palpebre, quasi volendo assicurarsi di poter trattenere quella nuova serenità il più lungo possibile. Dopo anni nei quali era sembrata vagare in una sorta di limbo, tutto sembrava così incredibilmente meraviglioso nella sua naturalezza.
Allungò la mano, ma corrugò le sopracciglia, quando percepì la zona più fredda del materasso. Schiuse nuovamente gli occhi e si sollevò con il torso: ad eccezione di Mr Pussy che si stava stiracchiando pigramente, era sola.
Ma fu alla vista della rosa adagiata sul comodino e della busta che si rasserenò: allungò la mano a prenderla, l'altra intenta ad accarezzare il micio le cui fusa sembravano un saluto.
Schiuse il bigliettino, gli occhi già illuminati d’aspettativa.

Perdonami se non sarò qui, quando troverai questo biglietto,
i miei doveri di Princip-2 Capitano esigono la mia presenza.
Buon risveglio: sembra tu stia facendo sogni meravigliosi che non vedo l'ora di conoscere.
A più tardi,
Hunter


Si beò della rosa che si portò al volto per sentire la fresca morbidezza dei suoi petali e, infine, si alzò. Lasciò a sua volta un biglietto, prima di uscire dalla camera.

I doveri di un Principe Soldato sono improrogabili,
almeno ti ho incontrato in sogno, ma non vedo l'ora che avvenga davvero.
Buona giornata, a più tardi,
xoxo3
Brittany

~

Sarebbe stata l'ultima volta in quella camerata, ma non poté fare a meno di provare un po' di nostalgia, soprattutto quando Marley l'abbracciò e dovette deludere le sue speranze su un suo possibile ritorno a frequentare l'Accademia.
Persino Lauren, certo a modo suo, sembrava un po' dispiaciuta, anche se asserì che non le sarebbero ovviamente mancate tutte le punizioni extra che erano state scontate per i suoi guai.
S’intrattenne tutta la mattinata con loro e stava ancora discutendo circa la possibilità di un colloquio con il responsabile delle ammissioni alla Tisch School of Arts4, quando un placido miagolio le riscosse tutte. Mr Pussy avanzò nella stanza e Brittany sorrise, ma si chinò a prenderlo in braccio, ignorando le risatine maliziose delle altre, fino a quando non scorse una pergamena arrotolata ed incastonata nel collare.
La srotolò, il cuore in gola e le guance più rosate, e scorse quell'iscrizione che sembrava tratta... da un libro di favole, persino con l'iniziale in miniatura, le rifiniture dorate a decorazione e il font di scrittura perfettamente abbinato.

Non abbiamo ancora avuto il nostro “ballo ufficiale” e credo sia giunto il momento di rimediare.
Questa sera, dove ti ho vista ballare da sola la prima volta, alle 21.
Ti accludo un biglietto da visita: sono certo che farà al caso tuo. Ogni Principessa dovrebbe avere una “fata madrina” che si rispetti.
Confido che, in questo caso, sarà davvero speciale.
A stasera,
Hunter

PS: fremo nell'attesa.

E' così romantico”, aveva commentato Marley con sguardo sognante, per poi punzecchiarle il fianco con il gomito. “Abbiamo appurato che il Capitano Clarington ha un cuore, dopotutto”.
Parla per te,” fu la sferzante e maliziosa replica di Lauren, “io di altri parti del corpo, non ho mai avuto dubbi”.
Non le stava ascoltando, Brittany, il foglio di pergamena ancora tra le mani e un sorriso rivolto al biglietto allegato, anch'esso decorato con fregi e decorazioni degne dei suoi libri preferiti. Rilesse il post scriptum e sentì il cuore scalpitare furiosamente: decisamente se la loro vita sarebbe stata simile a quell'esordio giornata, non avrebbe potuto sognare di più.

~

Dream Dress5”, quello era il nome del negozio, scritto con un carattere elegante e raffinato che Brittany aveva ammirato con sguardo emozionato.
Entrata, fu subito attratta dalla visione degli abiti più incantevoli e pregiati che avesse mai scorto: abiti da sera, da Prom, fino ai modelli da cerimonia e dai più svariati colori e tessuti che sembravano soltanto attendere di poter essere indossati per dare davvero vita ai sogni delle ragazze. Si guardò attorno, quasi suggestionata da tanto splendore, fino a quando non le apparve di fronte un ragazzo le cui belle fattezze erano paragonabili a quelle di un elfo, nel suo immaginario infantile. Aveva, infatti, lineamenti delicati, ma la statura era ben più slanciata, rispetto alla versione mitologica. Tutta la sua carnagione sembrava lucente come la porcellana: su di essa erano incastonati, come pietre preziose, occhi di sfumatura cangiante di azzurro e gli abiti di raffinata sartoria, ne risaltavano il portamento signorile.
Mademoiselle,” si era presentato con un sorriso altrettanto brillante, “lasci che mi presenti: sono Kurt Hummel6 e è mio compito quello di realizzare i sogni di ogni fanciulla che valichi la porta di quel negozio. L'accompagnerò in un tour accurato e, nel frattempo, potremo scambiare qualche parola, così conoscerò meglio la mia prossima Musa”.
Sorrise, Brittany, e fu impossibile resistere ai suoi modi galanti, ma intrisi di piacevole complicità.
Come una fata madrina?”, chiese con aria evidentemente sognante prima di porgergli la mano, “è un piacere conoscerti, Kurt, mi chiamo Brittany”.
A quel paragone, Kurt dondolò le spalle con aria compiaciuta, ma ne baciò la mano con la stessa raffinatezza che sembrava parte di lui, prima di sorriderle più accattivante. “Il mio metro”, e lo estrasse dalla tasca interna della giacca, “fa più magie di una bacchetta: questo te lo assicuro”.
Come prevedibile, Kurt andò letteralmente in visibilio alla vista dell'invito impresso su pergamena, seppur avesse sorriso con aria sorniona, evidentemente già a conoscenza delle intenzioni del ragazzo. “Il signor Clarington, sì: ho già parlato con lui, ma la sua iniziativa è andata ben oltre le mie aspettative sulle sue doti da Principe”, aveva ammesso.
Quasi non resistesse, srotolò di nuovo la pergamena, la mano sul petto e un sospiro quasi sognante. “E' così bello vedere che esistono ancora dei fidanzati così romantici ed è persino un soldato, lui”, l'aria sognante aveva lasciato spazio ad una più polemica, a giudicare da come aveva alzato la voce ad una maniera assai eloquente.
Solo in quel momento, lievemente sorpresa, Brittany si avvide di un ragazzo seduto su un divano (era stato così silenzioso fino a quel momento, che neppure vi aveva fatto caso), le gambe accavallate, sembrava completamente preso dalla lettura della sua rivista sportiva. Aveva i capelli di un castano chiaro, sollevati in un ciuffo morbido e vaporoso, occhi verdi, spesso illuminati dal divertimento e con un ghigno che ne increspava le labbra sottili. A quelle parole, tuttavia, levò lo sguardo e sollevò gli occhi al cielo. Senza distogliere lo sguardo sulle pagine che aveva di fronte, replicò con voce annoiata ma intrisa di sarcasmo.
I soldati sono sopravvalutati e quelli dell'Accademia sono solo arrapati disperati che farebbero di tutto per arrivare... all'alzabandiera”.7
Una sfumatura color vermiglio pitturò le gote di Kurt che parve irrigidirsi: da parte sua, Brittany, non riusciva a capire quale attinenza potesse avere la bandiera dell'Accademia, ma preferì non intromettersi o esplicitare quel dubbio. Almeno alla presenza del ragazzo che appariva così brusco nelle risposte.
Kurt, tuttavia, si schiarì la gola, evidentemente desideroso di ignorarlo, perché le sorrise nuovamente e si concentrò su di lei. “Quindi sarà un appuntamento galante, con tanto di ballo, se ho ben capito?”, le chiese conferma.
Sorrise soddisfatto, il ragazzo seduto al suo angolo, e voltò pagina, apparentemente deciso ad ignorarli.
Annuì, Brittany, le guance nuovamente rosate, ma lo guardò quasi timorosa. “Ecco, in realtà non siamo proprio fidanz-”.
Non ancora”, ribatté Kurt con una garbata strizzata d'occhio, “ma è bello vedere che esista ancora una certa attenzione al corteggiamento”, aveva sospirato nuovamente con aria stoica.
Disse colui che mi odiò dal primo istante in cui il suo ex ragazzo ci presentò e dal suo « non mi piaci », cadde tra le mie braccia. Sei mesi dopo, tutto secondo il mio piano”, fu la pronta replica dell'altro ragazzo, quasi fosse stato implicitamente chiamato in causa.
Brittany, suo malgrado incuriosita, cercò di trattenere il sorriso.
Sei mesi?”, chiese infatti.
In realtà mi amava da prima, ma sa essere molto testardo”, replicò l'altro con una scrollata di spalle. “L'attesa comunque si è dimostrata... piacevole quanto il risultato”.
Kurt, che era divenuto di un bel color ciliegia, si volse nuovamente al ragazzo per poi assumere una posa rigida e impettita. “Da questo momento, t’ignorerò!”, dichiarò con veemenza.
Rise l'altro e Brittany dovette nascondere il suo stesso divertimento, ma si affrettò a stringere il braccio che Kurt le aveva porto, evidentemente intenzionato ad iniziare il tour.
Realizzerò la tua favola: credo di avere già l'idea adatta”.


Aveva perso la cognizione del tempo tra abiti di diverso tessuto e colore, ma quando uscì per l’ennesima volta dal camerino e il suo sguardo incontrò quello di Kurt, seppero entrambi che non avrebbe potuto esservi un’altra scelta.
L'abito era naturalmente ispirato ad una delle favole preferite di Brittany: soprattutto il momento cruciale del ballo, non quello del primo incontro sotto false spoglie per entrambi, ma quello finale, a palazzo e circondati dalle reciproche famiglie e dai sudditi.
Un bustino stretto ed aderente alla vita sottile, ne modellava il busto, aveva maniche lunghe e il bavero bianco a risaltare contro la sfumatura rosa dell'abito. Lasciava le spalle nude e il corpetto era impreziosito da uno scintillio dorato di pietre a disegnare un ghirigoro sul davanti. Si apriva poi in un'ampia gonna, resa corposa dagli strati di tulle e che scivolava morbida fino al pavimento, sembrava perfetta per un ballo da sala. 8
Sai, l’ignorarmi era divertente per le prime due ore-”, persino Sebastian (quello era il nome del ragazzo) si concesse di gettarle un’occhiata distratta. Probabilmente era stato il tessuto lucido ad attirarne l’occhio. O l'espressione emozionata della ragazza e quella commossa di Kurt che si affrettò ad avvicinarsi per togliere delle pieghe inesistenti e sistemare gli strati di tulle.
Batté le mani ed annuì. “E’ per questo che disegno abiti: lo sguardo della fanciulla che trova quello giusto, è come innamorarsi”.
Era rimasta silenziosa fino a quel momento, Brittany, incapace di distogliere lo sguardo dal proprio riflesso e dirsi, ancora una volta, che la sua favola si stava realizzando e quell'abito ne era uno splendido ed evidente simbolo. Non restava, a quel punto, che vivere la sua favola e senza più alcun timore.
E’ davvero… perfetto”, sussurrò, infine, con voce quasi rauca, incapace di articolare una frase più lunga.
Sei davvero Britteliziosa”, fu l’ispirazione di Kurt che le strappò una risatina.
Sebastian si strinse nelle spalle con le sopracciglia inarcate: “Sarà difficile toglierlo”, fu la recensione che strappò a Kurt un verso d’indignata disapprovazione.
Gli colpì il braccio con fare ammonitore, Kurt, ma il sorriso dell’altro divenne persino più suadente, mentre, ignorandone l’espressione stizzita, ne cingeva la vita: “Come questo”, aveva aggiunto sfiorando una sorta di bustino da uomo che indossava sotto la giacca del tight, facendolo arrossire persino di più.
Brittany sollevò le mani, dopo essersi concessa una piroetta su se stessa, con un sorriso più sognante: “Continuare pure a fingere di litigare: vado a cambiarmi”, trillò in loro direzione.
Non stiamo fingendo!”, fu la stridula protesta di Kurt.
Stiamo ancora litigando?”, chiese Sebastian, “A giudicare da come tremi, stiamo già per fare pace”.
SEBASTIAN!”, Brittany ne sentì il rimprovero persino dal camerino.
Si premunì di cambiarsi con attenzione: in parte per il timore di poter rovinare l'abito, d'altra parte per lasciare che i due “litigassero” o “non litigassero”, per un po'.
Al congedo, Brittany abbracciò dolcemente lo stilista. “Sei davvero magico”, lo lodò e il ragazzo sorrise con evidente soddisfazione, ma lo sguardo addolcito dallo scintillio delle iridi.
Vivi la tua favola”, le augurò baciandole entrambe le guance.
Anche voi”, rimarcò la giovane sorridendo ad entrambi.
Lo faremo”, la rassicurò Sebastian che le rivolse un vago cenno del mento, ma uno sguardo tutt'altro che innocuo al proprio ragazzo.

~

Uno stato di dolce attesa e d’impazienza febbrile, al contempo, aveva atteso che l’orologio scandisse quell’esatto momento. Persino quei corridoi bui sembravano accoglierla con sguardo attento, silenzioso ma complice dell’atmosfera più favolosa.
Camminava lentamente e solo il suono dei tacchi infrangeva il silenzio: scorse la luce accesa in prossimità dell’aula di danza e quando vi entro, rimirò la tavola che era stata sontuosamente allestita.
Hunter era lì. Ciò che ne faceva risplendere il viso era quel sorriso che raramente ne increspava le labbra, ma che ne faceva risaltare le iridi verdi e sembrava lui stesso parte di quella favola annunciata, la sua figura quasi fin troppo meravigliosa e affascinante per potersi definire reale. Con un gesto fluido le aveva cinto la mano e Brittany sentì il suo stesso cuore scalpitare intensamente, come un orologio che scandisse quei momenti di intensa serenità.
Il giovane si portò la mano alle labbra e la sfiorò con un tocco appena accennato, ma capace di farle scorrere un brivido lungo la spina dorsale. “Sei meravigliosa questa sera”.
E Brittany gli credette, non per proprio merito, ma per quel dolce scalpitio in petto che prometteva nuovi istanti da vivere insieme e con altrettanta gioia ed incanto.
Anche tu”, riuscì a sussurrare e il giovane si scostò dolcemente per spostarle la sedia e permetterle di sedere.

Non avrebbe potuto ricordare con esattezza il dialogo durante la cena: anche ripensandoci, a distanza di tempo, vi erano solo fotogrammi di un sorriso o del momento in cui la mano del giovane trovò la propria per non lasciarla più andare.

L’aveva stretta con una lieve pressione, prima di alzarsi e indicarle il parquet. “Vorresti ballare con me?”.
Per un solo istante, pensò a quel primo ballo, quando con quel fare più autoritario l’aveva vincolata a sé e, ancora una volta, realizzò quanto il loro rapporto si fosse evoluto e così la loro comunicazione e sintonia.
Non desideravo altro”, sussurrò per risposta e, malgrado il sussurro più tremulo, si riusciva a cogliere l’aspettativa nello sguardo brillante.
Se la danza era il modo di esprimere se stessa, non poteva essere una coincidenza il riuscire a sentirsi libera e leggera tra le sue braccia. Quasi tutto il mondo si fermasse e la sua realtà fosse solo quella melodia, il calore della sua mano nella propria, la pressione ferma e sicura del suo braccio attorno alla vita o il battito del suo cuore sotto il proprio palmo.
Si era fermato, Hunter, apparentemente non prestando più attenzione alla musica.
Ho riletto la tua lettera”, l’aveva cinta in una postura meno formale nel fasciarle la vita e Brittany aveva allungato entrambe le braccia alla sua nuca, adattandosi a quel nuovo stile.
Le guance più rosate a quelle parole. “Lo farai ogni giorno?”, gli chiese, cercando di dissimulare l’imbarazzo.
E’ probabile”, le concesse con un sorriso più complice.
Si era nuovamente fatta seria. “Non credevo di riuscire a dirti tutto di persona, ” aveva ammesso, la voce più tremula ma il sorriso a schermirsi, “probabilmente neppure adesso, eppure è tutto perfetto”. Probabilmente neppure ce ne sarebbe stato bisogno, non fino a quando i loro sguardi fossero riusciti a fondersi in quel modo.
La stretta del giovane si era rafforzata. “Non avresti potuto farlo meglio”, aveva obiettato, allungando una mano a sfiorarne la gota con la punta delle dita, quasi timoroso di poterne compromettere la dolcezza o di poterle persino procurare dolore.
Ma neppure io credo di essere in grado di dire ciò che ci aspetta,” aveva ammesso ma, a dispetto di tali parole la pressione delle sue braccia si rafforzò, “forse essere una Bestia era più semplice”, aveva inclinato il viso di un lato ed esibiva quell'espressione provocatoria che aveva adattato nei loro dialoghi iniziali e più diffidenti.
Aveva emesso uno sbuffo, Brittany, tra il divertito e il risentito nell’imbronciare le labbra a quella maniera più puerile. “Hai smesso di esserlo da molto tempo”, aveva dichiarato infine.
Si fermò di nuovo, Hunter, e la osservò intensamente. “Sei riuscita a non perdere la Principessa che è in te, malgrado questa Accademia, il tentativo di adattarti alla nuova famiglia e il ritorno di tuo padre”.
Aveva sorriso, Brittany, lusingata da quell'osservazione ma aveva scosso il capo: non si era trattato soltanto di un suo merito. “Sono entrata per mia madre, ma era per te che volevo restare”, aveva affermato con semplicità.
Aveva annuito, Hunter e lo sguardo si era fatto persino più pensieroso.“E’ per questo che sarà facile lasciare tutto questo e trovare di nuovo la mia strada, con te e ovunque vorrai”.
M-Ma l’Accademia-”.
Si era stretto nelle spalle. “E’ stata la mia casa per molto tempo: è venuto il momento di seguire il mio sogno come ha suggerito qualcuno, o di crearne uno nuovo”, spiegò con altrettanta semplicità per poi rafforzare la pressione attorno alla sua vita, “ e vorrei te accanto per riuscirci, se accetterai di essere la mia principessa”.
Un singulto emozionato, un sorriso sguardo lucido e, con slancio, gli gettò le braccia al collo.
Solo se continuerai ad essere il mio Principe”, aveva asserito con voce tremula, il viso adagiato sulla sua spalla e le braccia esili a cingerlo, quasi fosse l’unico appiglio a cui aggrapparsi all’indomani di un nuovo inizio.
E’ la più alta carica che io abbia mai raggiunto”, aveva sussurrato e aveva appoggiato il mento contro il suo capo, socchiudendo gli occhi e quasi dondolandola in quel contatto prolungato.
Infine, la scostò dolcemente. Non sorrideva più e aveva smesso completamente di muoversi: l’emozione le tolse il respiro.
La pressione delle sue braccia intorno alla vita si fece più ferma, l’altra mano continuava a sfiorarne la gota e lo sguardo fisso in quello della giovane, sembrava cercare una conferma o una consapevolezza da sempre condivisa ma mai esplicitata, fino a quel momento.
Si chinò al suo viso e Brittany socchiuse gli occhi come nient’altro fosse possibile e tutto sembrò fermarsi in quel preciso istante. Conscia soltanto del battito incessante del suo cuore che sembrò voler cristallizzare quel momento, renderlo unico ed eterno.
Le sue labbra sfiorarono le sue e trattenne il respiro, consapevole che ogni singolo istante vissuto fino a quel momento, li avesse condotti esattamente lì.
Sorrise sulle sue labbra, il ricordo dei baci “del vero amore”, di cui aveva letto da bambina, ne sfiorò la gota, quasi necessitasse di un segno tangibile della sua presenza e della conferma che non stesse sognando. Sorrise quando la mano più grande si strinse attorno alla sua, a trattenerla.
Rafforzò la pressione intorno al suo collo, con fare più fanciullesco e puerile, nel prendere nuovo slancio, che lo indusse a sollevarla leggermente nel trattenerla a sé. Un sorriso a fior di labbra, un abbraccio che prometteva che non l'avrebbe lasciata andare e di nuovo il tempo si fermò.
Un altro istante.

Brittany sorrise e ripose la pergamena. Lo sguardo fu attratto da una busta pregiata e la schiuse per leggerne il messaggio della partecipazione al matrimonio di sua madre e di Neal.

Una meravigliosa giornata estiva e soleggiata: la sua domanda d’ammissione alla Tisch era già stata inoltrata e così quella di Hunter alla stessa Università, ma per la facoltà di medicina9.
Sua madre sarebbe rimasta a Colorado Springs con il marito e quell'anno il Glee Club, volendo tenersi stretto il trofeo e il titolo, avrebbe avuto una spumeggiante ma professionale ballerina alla guida.
Era stato tutto predisposto e i campi d’addestramento dell'Accademia sembravano, con il padiglione sontuosamente allestito e le decorazioni, un giardino fiabesco. Così anche l'altare di legno intarsiato di fronte al quale gli sposi si sarebbero scambiati le promesse di nozze.
Erano entrambi sulla terrazza che dava accesso posteriore all'edificio e stavano rimirando il paesaggio. O almeno lo avevano fatto per qualche istante, prima che si ritrovasse avvinta tra le braccia del ragazzo.
Un verso divertito al sentirsi nuovamente trattenere, prima che le labbra del giovane sfiorassero le proprie e, ancora una volta, le ripetesse quanto fosse splendida quel giorno.
Cercò di divincolarsi dolcemente: “Devo andare”, aveva sussurrato con voce appena trasognata.
Lo so,” aveva replicato, senza tuttavia accennare a lasciarla, “ma non ne ho voglia”. Si era stretto nelle spalle nel rinsaldare la pressione intorno ai suoi fianchi.
Devo farlo”, replicò con poca convinzione nel socchiudere gli occhi, al tocco delle labbra lungo la gota, “sono la damigella d'onore”.
Sì, sembra plausibile”, l'aveva lasciata dopo un lungo istante e aveva indicato la porta con un cenno del mento, come molto tempo prima. “Va'”.
Aveva annuito, Brittany, l'aria ancora sognante, ma, prima di entrare, si era nuovamente voltata in sua direzione e ne aveva cinto il collo, con un verso divertito. “L'ultimo”, lo aveva blandito, ricevendone un sorriso sornione in risposta, prima che si chinasse al suo viso.
Si era scostata alla vibrazione del cellulare per poi estrarlo dalla pochette: “Dieci chiamate perse: sono morta”, gli occhi sgranati prima di schizzare letteralmente via, suscitando una risata divertita nell'altro.
Si era voltato, le braccia appoggiate alla balaustra e aveva rimirato il paesaggio con un sorriso: una delle ultime panoramiche di quel luogo e tra le più emozionanti da serbare nel ricordo.
Grazie a Shirley nessuno potrà più dire che le Accademie non sono romantiche”.
Si era voltato con un sorriso alla vista del padre, fasciato nella sfolgorante alta uniforme e pronto al suo ruolo di testimone, a braccetto con una donna molto elegante e dal sorriso scintillante.
Papà, Julienne10”, Hunter si era loro avvicinato e si era chinato a baciare la guancia della donna.
Suo padre lo aveva osservato divertito, scambiando uno sguardo sornione con la donna. “Sono sicuro che oggi Brittany sia persino più raggiante del solito”, aveva commentato.
Inarcò le sopracciglia, Hunter, guardandolo con la tipica compostezza, serrando le braccia al petto. “Ne sono sicuro”, aveva replicato cautamente, “credo sia in ostaggio nella camerata femminile”, indicò la struttura.
Aveva annuito, Jonathan, e per qualche motivo Julienne gli aveva affibbiato una pacca sul braccio. “Non essere irriverente”, lo aveva rimproverato dolcemente.
Hai ragione”, convenne Jonathan che aprì la porta cavallerescamente, ma si sporse verso il figlio: “Hai una macchia di rossetto proprio in quel punto”, aveva indicato una sbavatura accanto alle labbra e il ragazzo aveva sgranato gli occhi. Un vago colorito rosato ne aveva sfiorato le gote, prima che estraesse, più goffo che mai, un fazzoletto dalla tasca.
ALT!”, era stata la voce di un agitatissimo Kurt Hummel a fermarlo.
Sebastian trotterellava alle sue spalle con posa indolente, le mani conficcate nelle tasche dei pantaloni eleganti, ma guardandosi attorno come un turista distratto.
So cosa stavi per fare!”, lo additò il ragazzo che, benché leggermente più basso, ma dalla stazza più esile, appariva più minaccioso che mai. “Insubordinazione al buon gusto!”, esclamò con enfasi, prima di scuotere la testa. “Andrò anche a strigliare la damigella”, aveva scosso il capo con evidente disapprovazione, ma, con un gesto spiccio, aveva estratto una salvietta inumidita che un Hunter inebetito aveva preso. Sospirò, Kurt, che gli strappò di mano il fazzoletto e lo insinuò nuovamente nel taschino del tight con aria stoica.
Jonathan e Julienne si allontanarono ancora ridacchiando.
Devo ancora vedere la sposa e già sto iperventilando”, lo stilista che si era improvvisato wedding planner, stava letteralmente parlando da solo.
E io che speravo fosse per come sono sexy in questo smoking”, era intervenuto Sebastian con voce suadente.
Alzò gli occhi al cielo, Kurt. “Andiamo, siamo in ritardo: devo ricordarti il perché?”.
Non mi sembrava che ti fosse dispiaciuto rivestirmi”, c'era un sorriso malizioso ad incresparne le labbra, ma lo seguì con aria indolente, rivolgendo appena un cenno del mento al ragazzo che sorpassò.
Sbatté le palpebre, Hunter, con aria perplessa: quella giornata si prospettava tutto fuorché banale o priva di personaggi curiosi.

~

La cerimonia era stata davvero emozionante: Brittany aveva sentito gli occhi inumidirsi in più di un'occasione, ma era una gioia senza eguali poter contemplare l'autentica felicità sul volto della madre e la consapevolezza che, finalmente, anch'ella avesse trovato l'amore della sua vita.
Il pranzo stava procedendo altrettanto serenamente, quando era giunto il momento dei brindisi e Neal si era alzato dal suo posto.
Ho molto di cui ringraziare quest'oggi e se ho trovato la gioia in questa splendida donna che oggi è diventata ufficialmente mia”, fischi d’approvazione, qualche sporadico applauso.
Splendida e ancora in attesa della torta, però”, si era stretta nelle spalle, Shirley, con finta modestia, ma lo sguardo raggiante.
Neal si era schiarito la gola ed aveva atteso che gli ospiti silenziassero nuovamente. “Credo che una dedica del tutto speciale vada ad un'altra giovane donna che mi ha permesso di entrare nella sua vita. E' con questo che, sperando non mi dica di no e garantendole che sono stato addestrato a dovere”, aveva occhieggiato verso Shirley con un’aria complice, “vorrei chiederle di concedermi il primo ballo tra padre e figlia”.
Aveva sentito le guance infuocarsi, Brittany, a tutti gli sguardi puntati in sua direzione - il naso già arrossato di Kurt che soffiava nuovamente nel suo fazzoletto - ma aveva sorriso di cuore. Si era lasciata sollevare da Neal che, rapidamente, l'aveva raggiunta, per porgerle cavallerescamente la mano.
Sarà un onore”, sussurrò per risposta e si era lasciata condurre sulla pedana che era stata allestita (dopo aver rimosso tutti gli elementi del famigerato percorso ad ostacoli).
Attenta, Britty Woman”, si era levata la voce della madre e il guizzo ironico, “Jonathan sarà anche impegnato, ma potrei sempre prendermi l'altro Clarington”.
Scosse il capo, Brittany, ridendo allo sguardo imbarazzato di Hunter, almeno dopo che ebbe evitato il soffocamento nel sorseggiare il suo drink. Lasciò che Neal le cingesse la vita e, insieme, si abbandonarono al ritmo.
Sorrise quando sollevò il braccio per farla piroettare, attenta a non calpestare l'orlo del suo lungo abito.
E' la festa che volevi?”, chiese in un sussurro.
No”, aveva commentato l'uomo con un sorriso nel condurla abilmente, “è persino migliore”.
Aveva annuito, lo sguardo luminoso quasi quanto quello della madre: “Sono felice di far parte del suo sogno”.
Aveva rafforzato la pressione dell'abbraccio, Neal, appoggiando il capo contro i suoi capelli e ne baciò la fronte. “Non sarebbe stato lo stesso senza di te”.
E sono anche onorata di questo ballo padre-figlia: l'ho sempre sognato”, aveva ammesso con le guance più rosate.
E sarà solo il primo”, aveva commentato con aria gioviale, ma trattenendola contro di sé e lasciandole affondare il viso contro il suo petto.
Un altro lungo istante nel quale non sembrò necessario scambiare altre parole. Era finito il tempo del disagio, dei silenzi da riempire, delle frasi di circostanza o del sentirsi in soggezione. Era tutto perfettamente naturale, tutto in funzione di quell'istante.
Immagino di doverti lasciar andare”, aveva alluso ad Hunter che si era avvicinato con un sorriso, ma aveva atteso educatamente. La pista, come notò la ragazza, si era rapidamente riempita di coppie che volteggiavano dolcemente.
Sorrise, Brittany, ma prima che potesse cingerne la mano, era stato Jonathan ad intervenire, lasciando il figlio di stucco. “Rispetta i gradi, soldato: testimone e damigella, dopo lo sposo sono l'uomo più importante”, aveva commentato, facendo ridere Neal.
Beh?”, era intervenuta, Shirley, le mani sui fianchi in un'espressione sorniona, “la sposa non ha diritto a sgranchirsi le gambe? Non vedo l'ora di gettare dal tetto queste stupide scarpe”, era parsa timorosa che lo stilista non la sentisse.
Al braccio porto di Neal, aveva scosso il capo, cacciandone la mano con un gesto rapido. “Avrai tempo di calpestarmi i piedi: credo che finalmente mi prenderò il mio Cavaliere”, con un sorriso accattivante aveva insinuato il braccio sotto quello di Hunter che, lo sguardo ancora incredulo, si era schiarito la gola, prima di rispondere un cauto: “Sarà un onore”.

Rise ancora al ricordo, Brittany, e scosse lievemente il capo.
Lo sguardo corse ad un altro oggetto: una scatolina metallica che aprì con un sorriso, rivelando dei cartigli rettangolari, alcuni vergati dalla propria calligrafia, altri da quella di Hunter.
Rilesse quelle parole che sembravano già allora segnare il destino che li avrebbe attesi, quando quelle aspettative si sarebbero concretizzate. Aspettative che erano divenute la cornice della quotidianità che stavano tuttora vivendo.

Erano saliti sul tetto della casa di New York, sul quale la madre aveva fatto edificare un giardino che si apriva al paesaggio della città. Brittany si muoveva con incedere fluido e sicuro, il giovane la seguiva con cipiglio appena più curioso.
Perché siamo saliti fin qua?”, chiese, infatti, prima che il suo stesso sguardo fosse catturato dalla splendida panoramica che poteva osservare da quell'altezza.
Non solo per quello”, lo blandì Brittany che stava scrutando attentamente il pavimento fino ad individuare una mattonella mobile nel pavimento. Sorrise con aria di trionfo e la scostò per rivelare qualche giocattolo che Hunter osservò più divertito.
Un nascondiglio?”.
Esatto, era per i giocattoli, ma ho pensato ad un altro modo per usarlo da quest'anno”, aveva esordito, rimettendosi in piedi ed osservandolo. “So che non ti piace festeggiare la notte di San Silvestro”, aveva alluso agli invitati della madre e di Neal che stavano già rumoreggiando nell'appartamento in cui avevano vissuto fino all'anno precedente.
E questo mi sta bene, ma non devi smettere di credere che le cose non andranno meglio e te lo proverò!”, aveva concluso con aria determinata. Fu allora, che dalla borsa appesa alla spalla, estrasse due penne e dei cartigli rettangolari per poi porgerne alcuni al giovane.
Scrivi una lista di desideri per il prossimo anno: tra un anno torneremo qui e scopriremo quali si sono realizzati e quali avranno bisogno di più tempo”.11
Aveva scribacchiato velocemente i propri per poi inserirli in una scatola di latta che avrebbe ospitato anche quelli del giovane, ma fu quando lo scorse con la penna ancora in mano e lo sguardo volto a lei, che si immobilizzò. “Non riesci a decidere?”.
Si morsicò il labbro, quasi timorosa che lui potesse obiettare quanto quell'espediente fosse sciocco o infantile. O che la sola idea palesava quanto fossero diversi, fino anche a suscitarne un terribile ripensamento.
Aveva scosso il capo, un sorriso più dolce e lo scintillio più amorevole nello sguardo. “In realtà stavo pensando che momenti simili hanno reso quest'anno incredibilmente perfetto ed è difficile immaginare che possa andare persino meglio”.
Aveva sorriso per risposta, quasi commossa. “Ma è soltanto l'inizio”, lo aveva blandito più dolcemente.
Aveva annuito, Hunter, si prese un istante di riflessione e scrisse sui suoi cartigli, il sorriso ancora sulle labbra. A quel punto, Brittany li piegò e li confuse tra loro, prima di nasconderli nella scatola e poi sotto la mattonella.
Tra un anno sapremo”, aveva sussurrato, realizzando che ciò implicava la volontà di essere ancora insieme a costruire i loro sogni.
Sembrò intuirlo, Hunter, perché ne cinse la mano prontamente. “Tra un anno”.

Indugiò nel rileggere qualche proprio cartiglio nella scintillante biro rosa:
Mamma e Neal felici.
Un altro anno con il Principe.
Un saggio di danza alla Tish.

Aveva poi scorto quelli del ragazzo:
Mio padre e Julienne felici.
Hudson fuori dall'Accademia (possibilmente senza che vi faccia ritorno).
Sopravvivere al primo anno di medicina.
Smettere di essere una “Bestia”.

Aveva riso di quell'ultimo cartiglio, seppur fosse divenuto una sorta di gioco tra loro, ma ancora si ritrovava ad arrossire alla menzione di quella prima lettera d'amore e quel paragone che sembrava racchiudere tutto quanto.
Fino a quando non scorse l'ennesimo proposito che riuscì, ancora a distanza di tempo, a strapparle un brivido lungo la spina dorsale e un sorriso a fior di labbra.
Non si sarebbe mai stancata di percorrere quelle parole: ignara, nel momento in cui erano state vergate, che quella voce in particolare, nella lista dei desideri, ne avrebbe cambiato la vita.

Il tuo ultimo per quest'anno”, aveva riepilogato nell'indicare il cartiglio.
Come di tradizione, erano saliti sul tetto per poi riprendere la scatola con i reciproci desideri e leggere quelli dell'altro ad alta voce, lasciandolo poi commentare se fosse più o meno riuscito nell'intento. Aveva dispiegato il foglietto e una vampata di calore le aveva sfiorato le guance, gli occhi appena lucidi e le labbra tremanti nel leggerlo: “Chiederti di diventare mia moglie”, aveva letto con un sorrisino accattivante, prima di sfiorare con dedizione l'anello e sorridere.
Questo è stato più che realizzato”, convenne.
Il giovane sorrise, cingendone la vita: “Decisamente era il più importante”.

Sfogliò l'album con le fotografie del matrimonio, un sorriso nello scorgere un foglio su cui, stesso inchiostro di sempre, aveva scribacchiato (tra correzioni varie), le parole delle sue promesse di matrimonio.

Ero una ragazzina con la testa tra le nuvole e questo non è cambiato molto. Ero testarda e permalosa... ma solo un pochino”, aveva ignorato lo sbuffo ironico della madre e del giovane che le stava di fronte, più bello che mai nello smoking confezionato dal sarto di fiducia e ormai provetto wedding planner.
Gli aveva rivolto uno sguardo di pacato rimprovero. “Poco, poco!”, aveva esplicitato, indicando una piccola quantità con pollice ed indice, prima di schiarirsi la gola e ritrovare serietà e concentrazione, stringendo il bouquet quasi fosse un punto di sostegno.
Le favole erano il mio rifugio dal mondo: dai momenti tristi o dalle mie paure. Mi sentivo sperduta, quando ho abbandonato New York per venire a vivere in quell'Accademia con quelle orribili uniformi: era come se strappassero via la felicità e la sarta si era rifiutata di farmene una rosa, ancora non ho capito perché, in fondo credo che, invece, avrebbe-”.
Allo schiarimento di gola di Kurt, si era morsicata le labbra. “Stavo divagando, chiedo scusa”, si era raddrizzata e aveva sospirato.
Non è stato facile adattarmi alla nuova città, una nuova casa o alle corse alle cinque del mattino, a non dormire durante le ore di storia”, aveva sorriso a Jonathan per poi schiarirsi la gola.
E poi c'eri tu”, lo aveva indicato con lo stesso bouquet, “non somigliavi proprio ad un Principe, a dirla tutta, ma io ero soltanto un'aspirante principessa senza corona e senza il suo Re, almeno non ancora”, e lo sguardo aveva cercato quello che era divenuto suo padre a tutti gli effetti, con un sorriso più dolce.
Non mi sono arresa: certo, c'è voluto del tempo e Kitty e le mie compagne di camerata potrebbero aggiungere che ho combinato qualche guaio lungo il percorso, ma poi le cose, a poco a poco, sono diventate più nitide perché avevo già le risposte, dentro di me”, lo sguardo era divenuto più sicuro e la voce più rauca, quasi commossa.
La mia favola è diventata realtà perché tu l'hai resa tale e di questo non potrò mai ringraziarti abbastanza, ma prometto che ci proverò, ogni giorno, con tutto l'amore che ho e tutto quello che verrà”.

Stava ancora indugiando sulle fotografie del meraviglioso abito che Kurt aveva confezionato, ispirandosi naturalmente agli abiti delle Principesse, ma fu il vagito alle sue spalle a strapparla dalla sua contemplazione. Fu lesta a riporre tutto nel bauletto ed alzarsi in piedi: un sorriso a fior di labbra nell'avvicinarsi alla culla, posta ad un angolo della camera da letto matrimoniale. Si chinò rapidamente ad osservare la sagoma agitata.
“Shhh, va tutto bene”, sussurrò con voce più dolce nello sfiorarne la gota, quasi timorosa di non essere abbastanza delicata nel farlo.
Gli occhioni si spalancarono alla sua vista: sembrò che tutto si fosse fermato in quello stesso istante e tutto fosse in funzione della sua voce e presenza. Aveva aperto e chiuso le manine, le labbra avevano emesso un suono prolungato, simile ad un richiamo e il lamento era finito. Una nuova urgenza ne faceva rilucere il viso.
Brittany aveva sorriso nel sollevarlo con attenzione e baciarne la fronte, per poi specchiarsi negli occhi di quel verde di una sfumatura chiara, quasi azzurrina.
“Ciao Nathan12: ben svegliato, amore”, lo aveva cullato dolcemente e aveva osservato quel sorriso di pura adorazione che ne aveva increspato le labbra, mentre la manina cucciola si allungava, come sempre, ad insinuarsi tra i capelli biondi e sciolti. “Hai di nuovo confuso la notte con il giorno, mh?”, lo aveva blandito premendo il naso contro quello del bambino.
Lasciò che le dita della mano libera ne sfiorassero il viso, inducendola a baciarne il palmo. “Hai fame, mh?”, si era avvicinata al comodino per prendere il biberon pieno (dopo averlo riscaldato) e glielo porse, sorridendo dell'espressione evidentemente soddisfatta.
Ne continuò a sfiorare la testolina bionda, la manina ancora avvinta alla sua: non distoglieva lo sguardo, Nathan, seppur impegnato a suggere, distraendosi di tanto in tanto per sfiorarne il viso, mentre si chinava a baciarne la fronte.
Quando fu nutrito, si appoggiò nuovamente alla sua spalla e passeggiarono lungo la camera, prima di uscire nel corridoio, sorridendo all'udire la voce di Hunter in sottofondo: la flessione cadenzata e piacevole che assumeva durante la lettura.
Si soffermava spesso sulla soglia dell'uscio, quasi timorosa di invadere quell'atmosfera o di essere persino di troppo.
Sorrise nell'osservarlo appoggiato alla testiera del letto di Rebecca13, i cui occhi erano velati dal sonno, malgrado si sforzasse di mantenerli aperti e di riuscire a prestare ancora attenzione.
Nathan, scostandosi appena dalla sua spalla, aveva contemplato a sua volta la scena ed emesso un altro vagito.
“Shhh, papà sta leggendo la favola a tua sorella”, lo aveva blandito, baciandone nuovamente la fronte, ma aveva sorriso, quando la bambina le aveva rivolto uno sguardo sognante per poi bisbigliarle un: “Siediti, mamma”, tastando l'altro lato del letto.
Sotto lo sguardo divertito del marito che aveva interrotto la lettura, si era accomodata a sua volta, dondolando ancora Nathan che sembrava a quel punto interessato ad osservare a sua volta il volume, gli occhi sgranati e le dita protratte a toccare le figure.
Hunter riprese la lettura e Brittany sorrise nel riconoscere il passaggio della sera di Natale e il ballo di Belle e di Adam.

“Una delle mie parti preferite”, aveva osservato nel vederlo richiudere il libro, quando la bambina si era finalmente addormentata. Non ci sarebbe stato bisogno di schiudere la copertina per conoscere le parole che Hunter vi aveva vergato, otto anni prima, quando era nata.

Questo libro mi ha condotto alla mia Principessa,
l'ho guardata diventare Regina, ogni giorno al suo fianco.
Con la promessa di essere sempre il tuo Re,
ma lasciarti crescere e vivere la tua favola,
Papà.

“Perché? Esiste una parte che non ti piace?”, le chiese con un accenno più ironico, mentre, con attenzione, rimboccava il letto della bambina e spegneva la lampada sul comodino.
“L'allontanamento di Belle”, rispose di riflesso, rimettendosi in piedi, ancora cullando Nathan che, tutt'altro che stanco, stava ancora toccando (e talvolta tirando) le ciocche di capelli che le scivolavano sulle spalle.
“Ma era necessario”, la blandì con un sorriso.
“Ma è triste”, aveva obiettato.
“E' il vissero per sempre felici e contenti che conta”, aveva rimarcato cingendone la vita, baciando il capo del figlio e soffermandosi ad osservare la bambina addormentata.
Aveva sorriso, Brittany, e si era chinata a sua volta a baciarne la fronte con un: “Sogni d'oro”. Ne scostò la frangetta dalla fronte ed uscirono silenziosamente, per poi dirigersi alla loro camera.
Le prese il bambino dalle braccia, consentendole di inoltrarsi per prima sotto le coperte, raggiungendola poco dopo, malgrado Nathan fosse impegnato a tirarne chirurgicamente i capelli con espressione divertita.
“Che ne diresti di dormire un paio d'ore?”, chiese al bambino in tono accattivante, appoggiandoselo in grembo. Questi lo stava scrutando, ma si era sbilanciato in avanti ed era parso troppo interessato a tastarne il viso o osservarne le smorfie e le espressioni: soprattutto il sopracciglio che inarcava ad esprimere spesso scetticismo o perplessità.
Brittany scosse il capo con un sorriso ormai consapevole, ma ne aveva profittato per prendere carta e penna dal comodino accanto al suo lato del letto. Quell'anno aveva in mente di proporre anche a Rebecca di stilare la sua lista di desideri per l'anno successivo.
“E' tutto a posto per il 31, hanno tutti confermato: mamma e papà, tuo padre e Julienne, Marley e Ryder, Kurt e Sebastian (credo lo costringerà), Alyson e le sue amiche e...”, aveva voltato il foglio, “Finn e Rachel, sì”.
Si era voltato così bruscamente, Hunter, che si sarebbe detto che un nervo del collo si fosse accavallato, gli occhi sgranati e persino Nathan sembrò restare congelato per un istante, quasi ne avesse percepito lo stato d'animo. “Hudson?!”, ripeté in tono incredulo. “In casa nostra”.
“Rachel aspetta un bambino”, aveva commentato con tono sognante, “non è meraviglioso?”.
“Un baby Hudson?”, aveva soggiunto, persino più sconvolto, “scommetto che distruggerà qualcosa persino dal ventre materno”.
Aveva soffocato una risatina, Brittany, il viso inclinato di un lato. “Oh, avanti, non fare-”.
“La bestia?”, aveva chiesto con un sorriso malizioso.
“Non stavo per dire questo”, si era affrettata a distogliere lo sguardo, un sorriso appena più divertito ma le guance rosate. Ancora a distanza di tempo si sorprendeva di come sembrava riuscire a leggerle il pensiero. O probabilmente era dovuto al fatto che non fossero cambiati molto dal primo incontro, seppur cresciuti insieme.
“Non sai mentire”, fu la replica pacata ma divertita, mentre dondolava appena le gambe quasi sperando di poter così indurre il bambino ad addormentarsi.
Aveva scosso il capo, Brittany, ma ne aveva cinto la mano. “Lo so che per te non è facile e ne sono davvero fiera”, aveva sussurrato con voce più dolce, intrecciando le dita alle sue e rivelando quanto la sua riflessione andava ben oltre la conferma di una lista di invitati.
L'espressione dell'altro si era addolcita, sporgendosi a baciarne le labbra in un tocco sfiorato, attento a non schiacciare il bambino. “Lo è, quando si crede di nuovo in qualcosa o in qualcuno”, aveva sussurrato nel baciarne poi la tempia.
“Lieta di averti salvato allora”, aveva sorriso nello stendersi per poi accoccolarsi al suo petto, cingendo a sua volta il bambino. Quest'ultimo, evidentemente comprendendo cosa stava accadendo, di nuovo insinuando le dita nei capelli della madre, si era steso a sua volta, ma di traverso. Il capo appoggiato al seno della madre e i piedi sulla faccia del padre.
Hunter sospirò e scostò delicatamente il piede con una mano, le sopracciglia inarcate, ma la scrutò con la coda dell'occhio: “Mi salverai anche da questo?”.
Aveva ridacchiato, Brittany, prendendo il bambino tra le braccia e stendendolo su di sé. “Una Regina può questo ed altro per il suo Re”, aveva sussurrato con dedizione, lasciando che Hunter l'attirasse a sé e appoggiasse il capo al suo.
La Principessa aveva lasciato spazio alla Regina, ma nel suo cuore non vi erano più timori nel vivere appieno la sua favola.




The End


Poco conta quanto tempo si dedichi alla stesura della fanfiction o quanto abbia preceduto lo scriverne la prima bozza: quelle due parole finali sembrano sempre una sorta di condanna definitiva. E' sempre una gioia dolce amara lasciar andare i propri personaggi, pur sapendo perfettamente che, almeno nel proprio immaginario, avranno il loro “ e vissero per sempre felici e contenti”.
Credo che ogni fanfiction rappresenti una fase della propria vita: indubbiamente alla stesura di questa ha contribuito l'essermi affezionata al personaggio di Hunter (per non scomodare l'interprete e cadere nel puro fangirling). Ha voluto essere uno sfizio per riuscire a convivere con la consapevolezza che, ancora una volta (dopo Sebastian), Murphy mi abbia fatto infatuare di un personaggio, senza svilupparne adeguatamente il background e la personalità, per poi porlo da parte come un giocattolo difettoso all'origine e non più utile al disegno finale.
La scelta della principessa è stata semplice: certamente con l'avvertimento dell'OOC o la premessa di un contesto e premesse diverse dall'originale, avrei potuto sbizzarrirmi con chiunque, pur rispettando le mie “coppie ideali” che fossero canon o fanon. Ma ha voluto essere anche il riscatto di un personaggio inserito nella trama quasi per sbaglio, per un espediente fortunato dell'interprete e che è scandalosamente evoluto ad una maniera spesso illogica e incoerente. Più per l'affetto, le aspettative dei fan, che per merito del personaggio di per sé (almeno per come sviluppato, senza alcuna critica ad Heather che ho sempre ammirato come ballerina e alla quale ovviamente auguro ogni fortuna nella carriera e vita privata).
Credo che ognuna di noi abbia avuto il suo sogno di essere una Principessa (più o meno riposto nel cassetto), ognuna si sia affezionata a quelle favole che (come le fanfiction stesse) sono proiezioni dei desideri per una vita serena. E ognuna di noi ha avuto (e ha ancora) il sogno di un Principe che non manchi di essere garante di protezione e sicurezza e, al contempo, capace di dolcezza e di tenerezza, quando richiesto.
Brittany ed Hunter sono stati il mio filtro in una realtà immaginaria nella quale tutto è andato, come avevo pianificato dall'inizio ed è come se, con loro, anche una parte di me si fosse sentita partecipe della loro gioia.

Una gioia ulteriormente alimentata dai feedback che ho ricevuto e scorgere dalle splendide recensioni. Persino le attese e speranze di chi ha letto, le osservazioni argute o più spiritose, sognanti o ironiche. Ma, soprattutto, la disponibilità a lasciarsi guidare da me e condividere un po' di sé, relazionandosi alle mie creaturine (più o meno originali) e sognando con me.
Tutto questo e molto più in questi cinque mesi.

Non mi resta che, con un sorriso, ringraziarvi di cuore di essere stati parte della mia personale favola.
Senza bacchetta magica ma con uno spruzzo di magia che non basta mai e augurandovi di realizzare le vostre favole e i vostri sogni :)

Kiki87







1 Per ascoltare il brano e vederne il testo originale: Ever Ever After
2 Non è stato (stranamente) una mia dimenticanza in fase di correzione: Hunter stesso ha scritto la parola “principe” e ha “finto” fosse sbagliata e che dovesse cancellarla :D
3 Non chiedetemi perché, Brittany mi sembra molto il tipo da “xoxo” anziché “baci e abbracci” come formula finale di un messaggio :)
4 Come certamente saprete, la Tish è uno dei dipartimenti della New York University e come dice il nome stesso, si tratta della facoltà dedicata alle arti: dal teatro alla musica, dalla recitazione alla scrittura, dai musical ai film e alla televisione.
5 Letteralmente “abiti da sogno”, ringraziando Sophie Kinsella e “I love shopping in bianco”, trovandomi davanti questo nome nell'ennesima lettura, ho cestinato il mio abbozzato “Fabbrica dei sogni” :)
6 “Shame on you” a chi mi conosce personalmente, se non aveva capito che era lui lo stilista e il “caro amico” a cui si allude all'inizio dell'epilogo, che ha confezionato lo scrigno :P
7 Immagino non ci siano dubbi sull'identità del fidanzato che ho attribuito a Kurt. Chiedo venia a chi stesse leggendo e non fosse uno stimatore della Kurtbastian. Non ho segnalato la coppia, poiché ha ruolo soltanto in questo epilogo e volevo fare una gradita sorpresa ad altri lettori che mi conoscono per le fanfiction dedicate a tale coppia. Ma se siete state così tolleranti da arrischiarvi a leggere finora una crackship come quella principale, confido che possiate dimostrarvi pazienti. Vi ringrazio di cuore e spero che questo non pregiudichi l'umore nel leggere queste scene :)
8 Si tratta dell'abito con cui Aurora ha danzato alla fine del racconto, ero indecisa (come le due fate :D), tra l'azzurro e il rosa ma le avevo già attribuito l'azzurro e dopotutto il trolley rosa è stato uno dei segni distintivi ;) abito
9 Ci tengo a precisare che i  riferimenti all'Hunter canon e l'avventura con gli steroidi e le iniezioni ai Warblers, non hanno nulla a che vedere con questa rivelazione. Nella sua aria più intellettuale ( e la foto di Nolan con gli occhiali impressa nella mia mente) mi suggerisce questo head canon :)
10Non è stato facile scegliere una presta-volto per questo personaggio per quanto sia semplicemente citato, almeno fin a quando non ho cercato tra le immagini di Google nella filmografia di Sasha. E mi sono letteralmente innamorata di questa fotografia: Sasha & Charlotte  La collega con cui ha recitato in “Across the River to Motor City”, una miniserie canadese, è Charlotte Sullivan.
11Sì, vorrei prendermi il merito dell'idea. In realtà ho tratto l'espediente da One Tree Hill: era usanza di Lucas e Haley quella di scrivere anno per anno le aspettative del nuovo anno scolastico :) E poi tornare a leggerle all'inizio di quello nuovo e scriverne altre. L'ho riadattata in stile Huntany :P
12Il nome (naturalmente è una coincidenza che coincida con quello di Nathan Scott di One Tree Hill e che io adoro *_*) voleva essere una sorta di fusione tra quello di Neal e Jonathan :)
13La bambina ha naturalmente il nome della nonna paterna che non ha conosciuto.

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