Blackout

di Aura
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il loro passato ***
Capitolo 2: *** Il suo presente ***
Capitolo 3: *** Il risveglio ***



Capitolo 1
*** Il loro passato ***


blackout


***

Quando Ivy ricordò quell'amore travolgente e unico, il dolore di averlo perso le fece mancare il respiro.


***




Ivy e Zach erano due ragazzi come tanti, in mezzo a una folla nessuno avrebbe stretto l'inquadratura della telecamera su uno di loro; ma insieme erano qualcosa di unico.
Tutti i loro amici lo percepivano, se qualcuno li avesse chiesto cosa ne pensavano avrebbero risposto che Ivy e Zach erano sicuramente destinati a stare insieme fino alla fine dei loro giorni, ad amarsi in quella maniera così pazzescamente felice.
Il loro amore era felice, come se ogni momento lo scoprissero e ne festeggiassero, come se ogni loro bacio fosse il primo e l'ultimo. Ed era in qualche modo contagioso, perché la loro forza rendeva migliore chi li stava accanto, era un perenne promemoria dell'evidente impossibilità di accontentarsi di un amore che non fosse tale.
Si erano conosciuti quando Ivy aveva diciotto anni, nel marzo del 2131, o meglio, in quell'occasione fu Ivy a conoscerlo e a subire quello che comunemente si dice “colpo di fulmine”: non appena lo aveva guardato, dopo che lo aveva sentito ridere con un suo amico e raccontare qualcosa sull'esame che avevano appena sostenuto all'università, il suo mondo era cambiato e non era più stata capace di immaginarsi un futuro senza di lui.
La ragazza che le avevano appena presentato, Sasha, si era messa ridere:
– È mio fratello, vieni, te lo faccio conoscere!
Ma Ivy non si era mossa, tenendo ben piantati i piedi a terra.
– Non credo di potercela fare. – aveva detto, ancora trasognata. Poi aveva preso una birra e si era andata a rintanare in un angolo della festa, cercando di far rallentare il suo cuore che aveva preso a galoppare.


Zach l'aveva conosciuta sei mesi dopo, quando anche Ivy si era iscritta all'università. Aveva incontrato lei e Sasha che ripassavano su una panchina del parco del campus, approfittando delle ultime giornate calde, e Sasha era stata finalmente contenta di poterli presentare l'uno all'altro: aveva sempre avuto una sensazione riguardo a loro due, e non fu delusa quando vide la luce negli occhi del fratello mentre porgeva la mano a Ivy.
Si allontanò con la scusa di dover prendere dei libri che aveva dimenticato al dormitorio, sapendo che ormai la sua presenza era del tutto superflua.
Zach si era seduto accanto a lei.
– Che corso frequenti?
– Medicina. – Ivy era sorpresa: avrebbe giurato che non sarebbe mai stata in grado di parlare con lui, eppure in quel momento, per quanto felice, era in qualche strano modo anche a suo agio.
– Perché sorridi? – le aveva chiesto, sorridendole a sua volta.
Abbassò lo sguardo, mentre l'imbarazzo iniziava a farsi sentire.
– Mi piace la tua voce. – gli aveva confessato.
Zach le sfiorò la guancia.
– E a me piacciono le tue fossette.
Ma l'imbarazzo era misto a una strana felicità, una sensazione simile alla mattina di Natale: i regali erano una sorpresa, ma anche una conferma, perché li aveva aspettati e sapeva che sarebbero arrivati.
Così la sua razionalità non si intromise a frenarla, e lasciò che il suo cuore gioisse, mentre Zach la baciava: una sorpresa stupenda, ma al tempo spesso Ivy lo sapeva, era semplicemente destinata a lui.


Quando Paul gli chiedeva come mai avesse iniziato a fare coppia fissa con quella matricola, lasciandolo solo con i vantaggi e le difficoltà della vita da single, Zach alzava le spalle.
– È l'amore della mia vita, non potevo lasciarmela scappare. – diceva, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, riuscendo chissà come a risultare convincente.
Non era mai stato una persona sdolcinata e sognatrice, aveva sempre vissuto la sua vita in maniera piuttosto disincantata, e quell'affermazione era un semplice dato di fatto: non poteva essere altrimenti.
Non quando fin dal primo giorno aveva notato il rossore sulle sue guance e non ne era stato spaventato, non quando aveva scoperto che baciarla era più normale e necessario di respirare. Non dopo la volta che si erano addormentati uno di fianco all'altro, non dopo essersi svegliati, quando fecero l'amore per la prima volta, scoprendo come i loro corpi si incastrassero alla perfezione, quasi come se non fossero progettati per fare altro per tutta la vita. Poi Ivy non era solo quello, era anche il sorriso felice che gli faceva quando lo guardava, i baci che gli dava all'improvviso, le risate mentre lo prendeva per mano e iniziava a correre quando andavano in spiaggia. Era gli sbadigli che faceva mentre cercava di ripassare dopo una giornata al mare, soddisfatti e pieni di vita, era la luce fiera nei suoi occhi quando gli aveva mostrato i risultati del suo primo esame. Era il sussurro felice quando gli aveva detto di amarlo.
Ivy era ogni giorno, ogni ora, ogni minuto che la voleva nella sua vita.


Tre anni dopo non era cambiato niente, Ivy si sentiva esplodere d'amore e di felicità ogni secondo che stava con lui. Gli studi stavano andando bene, ed era fiera della persona che stava diventando, ma avrebbe lasciato tutto senza il minimo ripensamento, perché il fulcro più importante della sua vita era sempre e comunque Zach. Avrebbe potuto abbandonare la sua vita e andare a zappare le patate con lui, e la sua gioia non sarebbe stata minimamente scalfita.
Sapeva di essere fortunata, sapeva che in genere le persone non trovano la loro anima gemella a diciotto anni, e sapeva che il fatto che dopo anni le ginocchia le tremavano ancora per l'emozione ogni volta che lui la baciava era più unico che raro.
Per quello, quando aveva scoperto di essere incinta, era semplicemente stata ancora più felice: non aveva avuto paura per i suoi studi o per il fatto che fossero giovani; e quando poi aveva incontrato negli occhi di Zach la sua stessa felicità senza riserve sapeva che niente li avrebbe fermati.



***

gennaio 2143

– Paul dov'è lui? Dov'è Zach? – gli aveva chiesto, quasi urlando.
Lui l'aveva guardata con pietà, o almeno fu quello che Ivy lesse nei suoi occhi.
– Lo sai, non vuole avere più niente a che fare con te, in questi anni non è cambiato niente.

***





Febbraio 2135

Ivy ancora non sapeva di essere incinta, lo avrebbe scoperto un paio di giorni dopo; e la vita che stava crescendo dentro di sé le avrebbe fatto dimenticare per alcuni mesi la conversazione che aveva sentito per caso tra Zach e suo padre.
– Sei completamente impazzito? Non si rinuncia a queste occasioni, hai lavorato una vita per ottenere la borsa di studio.
– Non ne voglio discutere papà: è dall'altra parte del mondo, non lascerò Ivy.
– Butti il tuo futuro all'aria per una ragazzina?
– È lei il mio futuro, è più importante di quel master.
Le aveva parlato di quella borsa di studio: era il corso più importante a cui uno studente di scienze politiche potesse ambire, e le graduatorie erano praticamente impossibili da superare: solo tre persone su più di cinquemila in tutto il mondo potevano accedervi, e le aveva detto che una posizione nei primi cinquecento, alla quale puntava quando aveva fatto domanda, lo avrebbe avvantaggiato enormemente quando l'anno successivo avrebbe cercato lavoro come giornalista nella sezione politica dei principali quotidiani nazionali.
– Non capisci la fortuna che hai avuto? Tre persone su migliaia che hanno fatto domanda, e tu sei tra quei tre.
– Papà, non so più come dirtelo: non mi interessa: non è così che voglio vivere la mia vita.

Lei avrebbe rinunciato a tutto, ma non era pronta a come si sarebbe sentita nel sapere che anche lui lo faceva; sapere che si stava lasciando scappare un'occasione tanto unica le provocò una piccola crepa nel cuore: avrebbe voluto solo il meglio per lui, e le faceva male essere lei l'ostacolo tra Zach e la cosa migliore che potesse capitargli.

Poi quella conversazione le scivolò dai ricordi per qualche mese: quello che stava succedendo era più grande di loro, e di qualsiasi ambizione, in fondo; si sentivano fatti per amarsi, e un figlio in arrivo era la più forte prova tangibile che potesse esistere.
Ivy si incantava, guardando Zach parlare con la sua pancia: sembrava nato per essere padre, anche se si sforzava non riusciva a immaginare niente di più perfetto. L'aveva accompagnata a tutte le visite, e anche quella mattina di aprile era accanto a lei.

Ivy lo aveva capito non appena aveva letto lo sconcerto negli occhi dell'ostetrica, ma aveva fatto finta di niente, cercando di farsi forza, continuando a stringere la mano di Zach che ancora sorrideva.
Sfogò in quella frazione di tempo il suo lutto, in silenzio, nel petto un urlo soffocato, mentre il dottore si avvicinava all'ecografo e scambiava con l'ostetrica uno sguardo d'intesa.
L'avevano fatta rivestire e li avevano mandati in un altro ambulatorio, dove quel dottore con la voce lenta e pacata aveva detto quello che Ivy aveva già capito: il cuore di loro figlio aveva smesso di battere.
Lei aveva guardato per tutto il tempo Zach, incapace di distogliere lo sguardo dal suo viso quando anche lui stava capendo, come se stesse guardando un incidente al rallentatore.
Aveva visto la gioia scomparire dal suo volto, lasciando spazio al dolore, lo stesso che provava lei e che non avrebbe mai voluto vedere negli occhi della persona che amava più della sua stessa vita.

Zach era stato forte per lei, l'aveva consolata con le migliori parole possibili, dicendole che avrebbero avuto il loro bambino e la felicità di quel momento avrebbe scacciato via i brutti ricordi di quello che stavano vivendo.
Ivy era triste, sì, ma era preoccupata: non aveva avuto nessun segnale di quello che stava succedendo, aveva paura del perché fosse successo.

Il giorno dopo scese nel laboratorio della sua facoltà.
– Mike, l'altro giorno ti ho portato due campioni di sangue, ti ricordi?
L'assistente controllò il registro.
– Soggetto A e Soggetto B; i risultati per i test che mi hai chiesto dovrebbero essere pronti nel pomeriggio.
– Sto facendo delle modifiche nella mia ricerca, fai a tempo a fare un controllo sulla compatibilità procreativa?
Lui aggiornò il registro.
– Mi metto subito al lavoro, puoi passare a ritirarli verso le cinque.
A e B erano lei e Zach.



Era come se sapesse già il risultato, ancora prima di aprire la busta.
E nel frattempo tutte le sue convinzioni crollavano, una ad una: rivedeva la smorfia di dolore sul viso di Zach, mentre apprendeva che la gravidanza si era interrotta, ricordava la conversazione che aveva sentito mesi prima tra lui e suo padre.
Come potevano essere fatti per stare insieme, se poi di fatto la natura diceva che non era così? Se dovevano rinunciare a tutto l'uno per l'altro?
Ivy avrebbe rinunciato a tutto per stare con lui, l'unica cosa a cui si rese conto non poteva rinunciare era proprio la felicità di Zach.
Il foglio le scivolò dalle mani, cadendo beffardamente in modo che anche da terra potesse rileggere il risultato: Incompatibili.






Nda: Ho progettato questa storia come una one shot, ma al momento di pubblicarla ho iniziato a tentennare, dividendola in tre capitoli; per questo motivo la lunghezza dei capitoli sarà variabile, perché preferisco dividerli per contenuti piuttosto che per quantità di pagine, ecco perché l'ultimo capitolo sarà il più lungo.

Che dire, eccovi presentati Ivy e Zach, ma questo non è che il loro passato: da come si può intuire dalle ultime righe Ivy sta iniziando a maturare una decisione che li allontanerà. 

Al prossimo capitolo, il capitolo dei blackout! Ringrazio in anticipo chi si fermerà a scrivermi cosa ne pensa, a presto!

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Capitolo 2
*** Il suo presente ***


blackout


********

30 giugno 2138


Il mal di testa la costrinse a chiudere gli occhi.
– Ivy, va tutto bene? – le chiese una voce preoccupata di fianco a lei, che non riusciva a riconoscere.
Dopo una decina di respiri piano piano tornò tutto normale, aprì gli occhi sentendosi disorientata, come appena sveglia.
Accanto a lei un ragazzo la guardava, allarmato.
– Ivy, stai bene? – la stessa voce di prima.
Strizzò gli occhi massaggiandosi le tempie, cercando di ricordare: Andrew, era Andrew, il suo ragazzo. Non si ricordava niente, ma sapeva che era così, e che aveva sempre pensato di stare bene con lui; fino a quel preciso istante: lo guardò, e capì che c'era qualcosa che non andava.
– Vuoi un'aspirina? – le chiese.
– No, – disse, meravigliandosi della sua stessa voce. – va meglio, grazie.
Continuarono a camminare, e riconobbe il campus. Stavano andando verso quello che sembrava l'edificio principale. Cercò di ricordare, la festa in onore dei laureandi.
Non appena entrarono fu salutata da decine di persone che non riusciva a riconoscere, per quanto impegno ci mise.
– Che faccia brutta che hai. – le disse poi una ragazza che sembrava aver abbastanza confidenza con lei.
– Ha avuto un brutto episodio di emicrania. – le stava spiegando Andrew.
Sasha, quella era Sasha: come aveva fatto a non riconoscerla?
– Andrew ti dispiace andarmi a prendere da bere? – gli chiese, sentendo il bisogno di rimanere sola con lei.
– Tutto bene? – le chiese poi Sasha, quando si fu allontanato.
Ivy si sentiva sul punto di piangere, il mal di testa le offuscava tutto, non ricordava niente.
– Cosa mi sta succedendo? – le chiese, sperando che quella che riconosceva come un'amica potesse dirle qualcosa.
Ma lei non sembrava sapere niente.
– Non lo so.
Poi Ivy sentì una voce, mischiata a quelle di centinaia di studenti e parenti; la riconobbe tra tutte, quella voce le arrivò al cuore e il mal di testa cessò improvvisamente.
Era a qualche metro da lei, si girò e incontrò i suoi occhi, sentendosi trapassata da uno scroscio d'acqua mentre tutto prendeva di nuovo significato. Lei era Ivy, e lui era... era...
Divenne ancora tutto nero.




********

15 Agosto 2139


Sapeva che qualcuno aveva detto qualcosa di divertente, perché ricordava che il mal di testa l'aveva colpita nel bel mezzo di una risata.
Ma era l'unica cosa che ricordava.
Faceva fatica a respirare, tra il dolore che le trapassava le tempie e le mandava scariche in tutto il corpo e quella sensazione di paura. Non sapeva dov'era, non sapeva chi era.
– Ivy? Sta svenendo, aiutatemi a farla sdraiare. – sentì.
Non stava svenendo, aveva solo mal di testa, e le mani sulle sue spalle non facevano altro che amplificare quel dolore. Si scansò bruscamente.
– Ho un'emicrania. – sillabò.
Bevve l'acqua che le porsero e riuscì ad aprire gli occhi.
Era alla festa di laurea... no, da quella era passato un anno. E lei non si ricordava niente di quel periodo, come se non fosse mai esistito. Ripensò alla festa: c'era una persona, stava per riconoscerla ma per quanto provasse a sforzarsi non si riusciva a ricordare chi fosse.

Fece un timido sorriso a Matt, il ragazzo che sapeva di star frequentando in quel periodo pur senza ricordarlo, e si guardò in giro.
Erano a un barbecue, e non conosceva la metà delle persone che erano lì. Anzi, praticamente nessuno.
Vide un ragazzo, alto e magro, che le ricordò qualcosa.
– Ehi, Paul. – gli disse avvicinandosi, quando tutti ormai rassicurati dal fatto che stava bene e avevano ripreso a festeggiare.
– Ivy. – la salutò lui, con una strana luce negli occhi. – stai meglio?
Lei scosse la testa.
– Onestamente? No. Non so cosa mi sta succedendo, non capisco, sono disorientata.
– Sasha mi ha detto che ti era capitato anche l'anno scorso, ti sei fatta visitare?
Ivy lo guardò, preoccupata: non lo sapeva.
Ma sapeva che Paul era l'unica figura famigliare lì intorno, e anche se provava uno strano disagio nel stare con lui era la sua sola alternativa.
– Non so se faccio bene a parlartene, ma ha...  – La frase di Paul fu interrotta da un fischio nella sua testa, che le annebbiò tutto; cercò di resistere, aveva la sensazione che stesse per dirle qualcosa di importante, ma scivolò di nuovo nell'incoscienza.




********

31 dicembre 2140


– Dieci, nove, otto...
Nell'altra stanza qualcuno stava facendo un conto alla rovescia, e lei era rannicchiata in un angolo dell'ingresso, al buio.
La porta si aprì, entrò una persona che non sembrò notarla, Ivy lo guardò, cercando di riconoscerlo, mentre il mal di testa si assopiva un poco.
Spalle larghe, cappotto nero, capelli castani. Non le diceva niente, ma d'altra parte non sapeva nemmeno dire chi fosse lei.
Si alzò, e senza capire bene cosa stesse facendo scarabocchiò qualcosa su un foglietto.
“Scusami, ho l'emicrania, – rifletté, mentre le tornavano alla mente i precedenti episodi. – un'altra volta. – aggiunse. – Vado a casa. Ivy” firmò poi.
Lanciò un'occhiata verso il salotto, dove il nuovo arrivato veniva accolto così calorosamente che la mezzanotte di capodanno passava in secondo piano.
Lui rideva. Quella risata...
Uscì velocemente dalla casa, mentre quella risata le martellava in testa, più fastidiosa dell'emicrania.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta?
Fermò un taxi e fornì all'autista un indirizzo che non riconosceva, ma sperò di non sbagliarsi.
Fortunatamente la chiave che aveva in tasca aprì la porta della piccola villetta davanti alla quale si era fermato; da quando aveva una villetta?
Vide nelle foto dell'ingresso lo stesso viso che le restituiva il riflesso del vetro, era a casa.
Si sdraiò sul divano, mentre il ricordo di quella risata la colpì nuovamente, come un calcio sullo stomaco, e iniziò a piangere, fino a quando l'oblio la prese di nuovo con sé.




********

23 settembre 2141

Aprì gli occhi di scatto.
– Sono passati dieci anni. – disse.
– Ti senti bene? – una mano strinse la sua. Ivy si divincolò, chi era? L'uomo accanto a lei assunse un aria preoccupata. – Ancora, Ivy? Guardami, guardami negli occhi: tu sei Ivy, e io sono Sean. Ci dobbiamo sposare tra sei mesi, siamo venuti a vedere il giardino botanico dove si terrà la cerimonia.
Ivy si guardò intorno, non era un parco, non era il parco del campus. E quella panchina non era dove...
– Sean non posso sposarti. – disse, in preda al panico. Lui era il suo fidanzato, lo sapeva, ma non poteva sposarlo, non poteva stare con lui. Più guardava quella panchina più sentiva che la scatola cranica si stringeva, comprimendo il suo cervello.
– Non dire fesserie, Ivy, ora non sei in te, ma...
Fece qualche passo indietro.
– No, non ti amo, non abbastanza.
Da che cosa erano passati dieci anni? E perché una panchina le faceva quell'effetto?
Quando aveva conosciuto Sean, prima o dopo l'ultima emicrania?
Lui sembrava dannatamente tranquillo, come se ritenesse le sue parole come il vaneggiamento di un pazzo.
– Torna qui, Ivy: non sai quello che dici.
Scosse la testa, sfilandosi l'anello che portava sulla mano sinistra.
– No, Sean, lo so benissimo: è finita. Scusami. – disse, restituendoglielo, prima di correre via.
Via da quella panchina che le stava facendo franare il mondo.




********

31 dicembre 2142


Strinse il bracciolo della poltrona dove era seduta, stava succedendo ancora.
E ancora si sentiva stordita, in un mondo che non conosceva, senza sapere chi fosse: l'unica cosa che sapeva con certezza era che c'era qualcosa che mancava nella sua vita.
Era sola, quella mattina. Per la prima volta era sola, e questo stranamente la calmava: non doveva aver paura di non riuscire a riconoscere qualcuno, nessuno l'avrebbe vista in quelle condizioni.
Il mal di testa la opprimeva, la luce le feriva gli occhi, ma era preferibile al tenerli chiusi: almeno non rivedeva quel sorriso che la stava tormentando.
Si alzò, raggiunse la sua camera, aprì il secondo cassetto del suo comodino e frugò alla cieca fino a che trovò un foglietto consumato.
Inconsciamente prese una matita e scrisse, in fondo:

XXXI XXII MMCXLII.

Rimise il foglietto nel cassetto e si sdraiò sul letto.






Nda: Ecco il secondo capitolo, dove il senso della storia è più chiaro, anche se immagino che qualcosa possa essere ancora nebuloso.
Non temete, vedrete che con il prossimo capitolo anche voi capirete cosa sta succedento a Ivy! Nel frattempo sapete già chi è la persona che vede?
Fatemi sapere se vi sta piacendo, alla prossima!

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Capitolo 3
*** Il risveglio ***


blackout




Aprì gli occhi, incredula. Per la prima volta si ricordava con chiarezza cosa era successo nel bel mezzo di un emicrania. Sapeva di averla avuta, le ricordava tutte, anche se paradossalmente più quei momenti erano vividi e più il resto della sua vita diventava nebuloso; ma in quel momento sembrava di secondaria importanza.
Si mise a sedere, cercò nuovamente il foglietto e lo lisciò: era il programma della festa di laurea, sul retro erano segnate delle lettere senza significato:

XXX VI MMCXXXVIII

XV VIII MMCXXXIX

XXXI XXII MMCXL

XXIII IX MMCXLI

XXXI XXII MMCXLII

Cosa erano quelle lettere, che cosa si era voluta appuntare? Più le guardava più le vedeva mischiarsi sotto ai suoi occhi, era come se un altra sé stessa avesse voluto lasciarle degli indizi da risolvere.
Ma non era mai stata una brava in crittografia, non si spiegava come le era venuto in mente di lasciarsi un messaggio simile.

Una voce irruppe dall'altra stanza, era qualcuno al telefono.
– Ivy? Ci sei? Sono Betty, passo a prenderti alle sette, fatti trovare pronta...
Corse a rispondere.
– Betty? Non penso di stare molto bene. – provò a declinare.
– E salteresti la festa di capodanno? Scordatelo, mettiti due fette di cetriolo sugli occhi e vatti a fare un bagno, vedrai che sarai come nuova. A dopo. – le rispose l'altra ragazza, perentoria, prima di chiudere la comunicazione.

Ivy seguì di controvoglia il consiglio, anche se avrebbe voluto rimanere a casa e riflettere sul suo mistero; anche perché, esattamente come in un episodio di emicrania, non si ricordava chi fosse quella Betty.
Ma doveva cercare di comportarsi normalmente, e inoltre sperava di poter incontrare qualcuno che la potesse aiutare a sbloccare la memoria: la sua paura era quella di tornare a scordarsi di quelle lettere, che il ricordo le scivolasse dalle mani così come era spuntato, all'improvviso. Puntuale, alle sette, il campanello di casa suonò, Ivy prima di uscire mise nella borsetta il foglio con le lettere, come un amuleto che le avrebbe impedito di dimenticare: aveva la sensazione che la soluzione a quel mistero era quanto di più importante ci potesse essere.
Salì sulla macchina salutando le ragazze, cercando di mascherare il suo imbarazzo nel non riconoscerle.
– Allora, – le disse la bionda alla guida, Betty, – sei pronta a incontrare il prossimo uomo della tua vita?
Ivy sollevò un sopracciglio, stanca,
– Non sono dell'umore adatto.
– Ehi, – si ribellò la rossa seduta dietro, – io e Betty ci siamo fatte in quattro per trovartelo, e tu stasera lo conoscerai! Vedrai, è completamente diverso da Sean.
Ivy cercò di ricordare l'uomo che sapeva di aver lasciato tempo prima, e si chiese in che modo la persona che volevano presentarle fosse diversa.
Parcheggiarono nel vialetto di una villa enorme, piena di luci e di musica.
Colin era alto, vestito elegantemente come ricordava Sean, ma aveva una barbetta ispida ad arte, e un piccolo cerchietto nel sopracciglio.
– Che schianto, eh? – le sussurrò “la rossa”.
Ivy sorrise debolmente, non aveva minimamente voglia di passare la serata con quel tizio.
– Vado a prendere da bere, volete qualcosa? – disse, per togliersi d'impiccio.
Fortunatamente allontanandosi notò che Colin era molto più interessato alla “rossa” che a lei, il che attutì il suo senso di colpa, perché era lampante che anche “la rossa” stravedeva per lui, spingendola a chiederle come mai allora volesse presentarlo a lei.
– Dolce o secco? – le chiese un cameriere.
– Dolce, grazie.
Una voce famigliare attirò la sua attenzione,
– Il tempo passa ma i tuoi orrendi gusti rimangono uguali.
Si voltò e vide Paul, lieta di riconoscerlo.
– Ciao, è... – tentennò, sperando di non sbagliare. – È un po' che non ci si vede, vero?
Lui scrollò le spalle,
– Abbastanza. Hai fatto qualcosa? – le chiese, studiandola.
– In che senso?
Continuava a guardarla.
– Non lo so, sembri diversa.
Doveva forse dirgli dei suoi ricordi persi e ritrovati?
Chiacchierarono del più e del meno, fortunatamente senza entrare troppo nei particolari, e Ivy riuscì a tenere la conversazione senza perdersi, sentendosi normale.
– Hai intenzione di rimanere? L'ultimo capodanno che abbiamo fatto insieme te la sei data a gambe, avevi davvero mal di testa o non volevi vedere...
Ivy non lo stava più ascoltando, osservava delle lettere che gli spuntavano da sotto la camicia.
– Che cos'è? – chiese, interrompendolo.
Paul alzò la manica, mostrando il tatuaggio: V X MMCX
– La mia data di nascita. – rispose, con estrema ovvietà.
Ivy si massaggiò la tempia.
– È una data? Tu sai tradurle? – chiese, improvvisamente affannata.
Paul la guardò, preoccupato.
– Non starai avendo un altro attacco, vero?
Le dita tremavano, mentre raggiunse la chiusura della borsa. La fece scattare, riuscì a tranquillizzarsi solo quando sentì la carta logora del foglio. Sospirò, più sicura.
– Prometto di spiegarti tutto, ma prima riesci a tradurmi queste date?
Paul guardò il foglio che gli stava porgendo, dubbioso.
– Posso provare. – disse, grattandosi la testa. Ivy era decisamente strana quella sera, l'aveva intuito quando l'aveva incontrata e ora ne aveva la conferma.
Scrisse su un tovagliolino le cifre corrispondenti.
– Ecco. – disse, porgendoglielo.
Ivy lesse a mezza voce.
– Trenta sei duemilacentotrentotto. Quindici otto duemilacentotrentanove...

– Sai cosa sono? – le chiese.
Ivy scosse la testa.
– A te dicono qualcosa?
Lei non sapeva niente della sua vita, magari gli altri potevano ricordare per lei.
– Questo è il capodanno di due anni fa, e questo è quel ferragosto... – si bloccò, sembrava aver trovato la soluzione, ma era restio a comunicargliela.
– Vai avanti, Paul, per favore.
Lui guardava lei e guardava il tovagliolo, indeciso.
– Queste due, la data di oggi e il ventitré settembre duemilacentoquarantuno, non so a cosa si riferiscono, ma le altre... sì, le altre corrispondono alle date di quando Zach è tornato a casa.
Quel nome le passò da una tempia all'altra.
– Chi? – boccheggiò.
– Zach. – ripeté lui, serio.
Ivy non respirava più, chi era Zach? Prese le sue cose, e corse da Betty, chiedendole di accompagnarla a casa.

Zach.
La prima emicrania: la voce tra la folla, gli occhi che aveva incontrato; era lui.
La seconda emicrania: c'era anche lui a quel barbecue, per qualche strano motivo erano stati ai poli opposti del giardino per tutto il tempo.
La terza emicrania: era Zach quello che era arrivato allo scoccare della mezzanotte.
Ma chi era Zach?
Cercò di ricordarsi di quel settembre, della panchina: guardandola aveva ricordato che erano passati dieci anni, ma dieci anni da cosa?
Poi, come una diga che all'improvviso va in frantumi, tutti i ricordi la travolsero: dieci anni dal loro bacio, Zach era Zach, il ragazzo che aveva amato con tutta sé stessa.
Come aveva fatto a dimenticarlo, perché?
Insieme ai ricordi belli erano arrivati anche quelli brutti, la borsa di studio, il figlio che avevano perso, il sapere che non avrebbero mai potuto averne insieme.
La decisione di lasciarlo senza una spiegazione, e l'ipnosi e le medicine per sradicarlo dalla sua vita, per non soffrire.
Tutti i suoi buchi erano cicatrici un tempo riempite da lui.
Quando Ivy ricordò quell'amore travolgente e unico, il dolore di averlo perso le fece mancare il respiro. Ancora. Dopo tutti quegli anni ancora quel dolore, si chiese quanto sarebbe durato, prima che l'ipnosi afferrasse nuovamente il suo inconscio, per farla ritornare nell'oblio.

E a quel pensiero il respirò sembrava non volerle tornare più, doveva trovarlo, a qualsiasi costo, doveva guardarlo un ultima volta sapendo chi aveva davanti e doveva dirgli tutto, il perché l'aveva lasciato.
Respirò dentro a un sacchetto di carta, la sua unica speranza era Sasha, e doveva trovarla: lei l'avrebbe portata da Zach.
Si collegò al sito del suo corso universitario, stando a quello lavorava ancora in città, e viveva a una cinquantina di chilometri da lì; doveva essere sua la casa di quel capodanno che ricordava.
Guardò l'ora: era quasi mezzanotte, non poteva presentarsi lì, avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo. Nel frattempo, però, sarebbe dovuta rimanere sveglia e lucida: era l'unica speranza per continuare a ricordare.
Passò la notte seduta sul divano, spossata dalle lacrime che continuavano a scenderle, al pensiero di quello che aveva fatto.
Non che si pentisse di averlo lasciato: lo aveva fatto per lui, per dargli l'opportunità di avere una vita,e probabilmente era riuscita nel suo intento; aveva sbagliato nel non dirgli il perché, nel fuggire e nel dimenticarlo, perché conoscendolo sapeva che in quel modo lo aveva ferito profondamente.
Tornò sul sito e lo cercò: aveva frequentato quel famoso master, ma era tornato e si era preso il posto che le aveva detto di volere, giornalista in una delle testate più importanti della nazione.
Continuò a vagare su internet, leggendo i suoi articoli, cinici ma sagaci, spiando i particolari della sua vita: non si era mai sposato, ma aveva avuto un figlio. Non stava con la madre, ma stando a quello che era riportato lo aveva riconosciuto e provvedeva a lui.
Tutto quello che scoprì le fece male e bene allo stesso tempo: Zach aveva fatto quello che lei aveva sperato, ma sembrava che nella sua vita mancasse qualcosa, e sperava di poter restituirglielo lei, confessandogli come erano andate realmente le cose. Prima di dirgli addio un'ultima volta.
Alle cinque si preparò un altro caffè, la determinazione aveva spazzato via il sonno, complice anche il fatto che il pomeriggio prima aveva dormito, ma voleva accumulare quanta più caffeina, in modo da poter resistere il più a lungo possibile. Trovare qualcuno che le facesse nuove sedute per rompere definitivamente l'ipnosi era impossibile, in quei giorni di festa, e se si conosceva un po', se anche si fosse annotata di farle, una volta tornata a scordare tutto si sarebbe fidata di più del suo istinto di anni prima nel voler dimenticare, e avrebbe ignorato la cosa.

Sapeva che non avrebbe potuto bussare alla porta di Sasha di prima mattina, così una volta arrivata nel suo quartiere attese che il sole si alzasse, ripetendo a mezza voce il discorso che si era preparata.
Doveva partire col dirle dell'ipnosi, perché Sasha l'ascoltasse.
Quando si sentì finalmente pronta suonò il campanello, e aspettò ancora.
– Ivy? – sbadigliò mentre apriva la porta e la faceva entrare. – Sono anni che non ti vedo, tutto bene? Come mai questa visita?
Registrò l'affermazione, chiedendosi il motivo di quel distacco, dal momento che attualmente era l'unica amica che ricordasse di avere.
– Ti devo parlare, Sasha, è una cosa molto importante: scusami se sono venuta qui senza avvisarti, ma devo risolvere tutto questo il più in fretta possibile.
Sasha la precedette in cucina, e versò il caffè in due tazze, facendola sedere.
– Parla, allora.
– Innanzitutto devi sapere che quando ho lasciato Zach mi sono sottoposta a dei cicli di ipnosi, per dimenticarlo. Ecco perché devo esserti sembrata un po' strana.
Sasha si era innervosita a sentire nominare il fratello da lei, lo capiva dal sopracciglio alzato, ma continuò, raccontandole tutto, dai motivi del perché l'aveva lasciato alle varie amnesie. Lei non fiatò, per tutto il tempo, rimanendo immobile come una statua di sale.
Poi, quando Ivy finì, Sasha incrociò le braccia.
– A questo punto fai una nuova ipnosi e dimentica di nuovo tutto. – disse, aspra.
– Ma non capisci? Devo vedere Zach, devo dirgli...
Sasha la interruppe.
– Tu non gli devi dire niente, Ivy: anni fa gli hai spezzato il cuore, punto. Anni fa, non ieri: non c'è niente che tu possa fare, ora, se non andartene, e non azzardarti più a nominare mio fratello. Lascialo in pace.
Ivy era sbalordita dalla sua freddezza, che l'aveva congelata. Sasha non l'avrebbe aiutata a cercare Zach.
– Devo chiederti un'ultima cosa, poi me ne andrò: come ti ho detto non ricordo praticamente nulla degli ultimi anni, cosa è successo tra me e te?
– Non lo immagini? Dopo come hai trattato Zach ci siamo allontanate, prima di poco, poi finita l'università abbiamo iniziato a frequentarci sempre meno. Quando mio fratello, stufo della tua presenza, mi ha chiesto di non invitarti più se ci fosse stato anche lui, ho preferito tagliare direttamente tutti i ponti con te. Non mi cambiava niente.
Ormai era alla porta di casa.
– Sasha, nemmeno ora riesci a perdonarmi? Neanche dopo che ti ho spiegato perché l'ho fatto?
– Dici che lo hai fatto per lui, ma l'unica cosa che gli hai fatto è stato farlo soffrire, non hai migliorato la sua vita. – sibilò, prima di chiuderla fuori.

Ivy iniziò a camminare, senza una meta precisa.
Ora la sua unica alternativa era cercare Paul, ma non sapeva da dove iniziare, non sapeva niente di lui.
Chiamò Betty, che dopo essersi lamentata della sua ritirata la sera prima gli diede il numero di chi aveva organizzato la festa, l'unica risorsa che Ivy aveva.
Fortunatamente Joe conosceva Paul, e riuscì a farsi dare il suo numero.
Non rispose al telefono, ma aveva il servizio di localizzazione attivato, e non era a più di tre chilometri da dove si trovava lei; e imprecando contro il servizio taxi che sembrava non volesse raggiungere quella zona iniziò a correre.
Arrivò davanti a casa sua trafelata, e si attaccò al campanello, imponendosi di svegliarlo: piuttosto avrebbe buttato giù la porta, ma Paul doveva ascoltarla.
– Ma che diamine ci fai qua, Ivy? – disse, aprendole, infastidito.
Lei entrò in casa, aveva paura che così come Sasha non l'aveva voluta aiutare neanche Paul l'avrebbe fatto, soprattutto dal momento che l'unico motivo per cui lo conosceva era perché era amico di Zach.
– Paul dov'è lui? Dov'è Zach? – gli chiese, quasi urlando.
Lui l'aveva guardata con pietà, o almeno fu quello che Ivy lesse nei suoi occhi.
– Lo sai, non vuole avere più niente a che fare con te, in questi anni non è cambiato niente.
– Paul, ti prego. Devo solo parlargli, ho poche ore per farlo, e non so neanche quante di preciso. È difficile da spiegare, ieri mi hai aiutato a ricordare alcune cose, e devo dirgliele assolutamente.
Paul le mise una mano sulla fronte.
– Sei consapevole di avere la febbre, vero?
Ivy si scansò.
– Ascoltami, è importante: mi sono fatta ipnotizzare, per dimenticarlo, ma devo dirgli perché l'ho lasciato, ho sempre saputo di doverglielo dire, ecco perché avevo quelle emicranie, il mio subconscio cercava di farmi ricordare. Ora lo so, ma non durerà a lungo, ecco perché devo trovarlo il prima possibile.
– E stai anche delirando. – affermò Paul.
Ivy si appoggiò al muro, sconsolata: non la stava cacciando come aveva fatto Sasha, ma sapeva che non aveva modo di fargli cambiare idea.

Vide il suo cellulare, appoggiato su una mensola, e cambiò strategia.
– Fammi un favore. – disse, più mansueta, – Dammi un'aspirina, e torno a casa.

Aspettò che lui si allontanasse, e cercando di fare il meno rumore possibile raggiunse il telefono, trovando il numero di Zach e copiandolo sul suo cellulare. Poi, prima che Paul tornasse, uscì di casa e iniziò a correre di nuovo.
Iniziò a rallentare, mentre il telefono tra le sue mani sembrava bruciare: lo guardò, fece partire la chiamata, e si fermò.
– Pronto? – la sua voce la raggiunse dopo un paio di squilli, era identica a come si ricordava. Aveva sempre amato la sua voce. – Pronto? – stava ripetendo.
– Non attaccare. – disse allora, maledicendosi perché non sapeva cosa dirgli. Zach rimase in silenzio, lei deglutì, e provò a parlare. – Zach, sono Ivy, non attaccare, ti prego, ti devo parlare.
– Non voglio ascoltarti, Ivy, cosa vuoi da me? – ora la sua voce le arrivò tagliente, nervosa. Sentì le lacrime pungerle gli occhi, mentre cercava le parole da dirgli.
– Lo so, so che non vuoi, ma ti prego, dimmi dove sei: ti devo parlare. È importante, poi ti lascerò in pace, te lo giuro.
– Ivy smettila: non chiamarmi più.
– Zach, – singhiozzò impaurita, sentendo che lui stava per chiudere la conversazione. – Zach ascoltami, non ti cercherò più, non potrò cercarti più, ma ora ti devo vedere, ti devo parlare, e ho poco tempo per farlo: poi me ne dimenticherò.
– Smetti di piangere, non si capisce quello che dici. Cosa vuol dire che te hai poco tempo? Stai forse per morire e vuoi darmi l'ultimo saluto? Dedicalo a qualcun altro, non ne vale la pena.
– No, non è quello, ti prego, ti scongiuro. – Controllò lo schermo del suo telefono, anche lui poteva essere localizzato e le diceva che era in città. – Ascolta, sarò da te in meno di un'ora, aspettami. Te lo giuro, solo questa volta, solo oggi, poi non ne saprai più niente di me.
Zach chiuse la conversazione, ma ora sapeva dove trovarlo. Riprese a correre, Paul aveva ragione, aveva la febbre, forse era una reazione fisica ai suoi ricordi tornati a galla, ma ignorò le gambe che le cedevano e la testa che pulsava odiosamente, ricordandole quanto fosse flebile quel momento di lucidità, fino che raggiunse un posto dove un taxi accettò di andarla a prendere. Riferì l'indirizzo che il telefono le aveva evidenziato come posto dove si trovava Zach, e si staccò dallo schienale, cercando di rimanere lucida: non poteva cadere nell'oblio proprio in quel momento.
Lottò contro le palpebre che si volevano abbassare, cercando di non lasciarsi cadere in tentazione quando il suo corpo le suggeriva di chiuderle per un solo istante, e quando finalmente il taxi si fermò sentì di nuovo le lacrime affiorare. Era arrivata, poteva dire tutto a Zach: doveva solo farsi ascoltare.
Il portone del condominio era aperto, fortunatamente, lesse il piano sull'etichetta del citofono e raggiunse il suo pianerottolo.
Guardò la porta che aveva di fronte: Zach si trovava dietro di quella, a pochi metri.
Si portò una mano al petto, come a voler rallentare inconsciamente il cuore che martellava, impazzito, e suonò il campanello.
La porta si spalancò di colpo.
– Cosa non ti era chiaro nella frase: “non voglio parlare con te”?
Ivy però non lo sentiva.
Rimase senza fiato a guardarlo, perfetto come si ricordava, forse anche di più con un accenno di barba incolta e lo sguardo più maturo.
– Sei tu. – singhiozzò. – Sei proprio tu.
– Vattene Ivy: questa storia non attacca. – disse infastidito, cercando di chiuderla fuori, ma lei riuscì a scivolare tra la porta e lo stipite.
– Zach ti prego ascoltami, è tutta mattina che corro, e ti cerco: se non ti dico questa cosa non potrò farlo più, dammi quest'occasione, ti scongiuro!
La stava guardando con una strana smorfia, Ivy lo vedeva tra le lacrime che le offuscavano la vista, e capiva perché si stava comportando così: non era difficile tornare a interpretare i suoi occhi, era ancora arrabbiato, soffriva ancora nel trovarsela di fronte.
– Parla, allora, dannazione! – esplose, perdendo la sua apparente pacatezza. – Almeno la finisci: si può sapere cosa vuoi?
Ivy rimase ad osservarlo, in silenzio. Ora, trovandoselo davanti, iniziava a pentirsi per non avergli dato l'opportunità di scegliere lei, a dispetto di tutto: non avrebbe mai voluto sentirsi un peso, un ostacolo tra lui e la felicità; ma d'altra parte sapeva con assoluta certezza che per lei l'unica felicità si sarebbe avverata accanto a lui. Non poteva essere altrimenti, lo amava ancora, e lo sentiva con inaspettata chiarezza, nel suo inconscio non aveva mai smesso di amarlo e di cercarlo.
– Sono qui per dirti la verità, hai diritto di saperla. Quando ti ho lasciato ho deciso io per te, come sarebbe stata la tua felicita e come sarebbe dovuto andare il tuo futuro, mi rendo conto soltanto ora che volendo assumermi io tutto ho solo fallito. Zach, se c'è una cosa a cui devi credere è che se l'ho fatto è stato solo perché pensavo fosse il tuo bene, ti amavo da impazzire, e in questo non è cambiato niente, ti amo ancora oggi.
La smorfia si accentuò.
– Sei venuta solo a confessarmi i tuoi sentimenti? – disse a mezza voce.
Ivy gli raccontò tutto, a partire da quando aveva saputo del suo master, quando aveva capito prima di lui di aver avuto un aborto, di come il suo cuore si fosse doppiamente spezzato nel leggergli negli occhi il dolore, mentre il dottore glielo comunicava. Del test che aveva fatto, a sua insaputa, e di come tutto quello le avesse accecato tutto, portandola a vedersi come un veleno nella vita di lui.
Zach scivolò sul pavimento, turbato. Sembrava crederle.
Ivy si inginocchiò di fronte a lui, aspettando che elaborasse le informazioni, osservando i suoi occhi, che vagavano per la stanza e poi su di lei, cercando di capire.
– Perché, – le chiese poi, dopo un lungo silenzio, – non mi hai detto niente, in questi anni? Perché solo ora?
Ivy strinse la mano in un pugno, quella spiegazione le ricordava anche quanto fosse labile quel momento. Le unghie si conficcarono nel palmo, spingendola a parlare, a confessargli quell'ultima cosa.
Sussultò quando Zach posò la mano sulla sua, aprendole il pugno. Abbassò gli occhi, guardando le due mani una sull'altra.
– Non riuscivo a sopportare di averti lasciato, così ho voluto dimenticarti. Mi sono iscritta a una sperimentazione di ipnosi, e ti ho cancellato dalla mia testa.
Tornò a guardarlo, le sembrò di leggere la pietà nei suoi occhi, e lo capiva: si commiserava da sola.
– Col senno di poi, – continuò, – se da un lato me ne pento, dall'altro non posso giurare di aver sbagliato, non dopo aver scoperto che il mio cuore non vuole saperne di smettere di amarti. In tutti questi anni quando ti vedevo, o quando vedevo delle cose che potevano ricordarmi te, avevo delle emicranie, erano dei momenti in cui non mi ricordavo più chi ero ed ero più vicina a capire chi eri. Una volta finito me ne scordavo, tutte le volte, fino a ieri. Ieri mi sono ricordata, ho trovato le date delle emicranie, e ho trovato te. – si coprì la bocca con una mano, cercando di impedire alle labbra di tremare. – Non dormo da più di ventiquattro ore, avevo paura che se mi fossi addormentata mi sarei scordata di nuovo tutto.
Zach prese la mano che le copriva le labbra, abbassandola e scoprendole il volto.
– Perché ci tenevi tanto a raccontarmi tutto? – le chiese, senza smettere di guardarla negli occhi.
Ivy sentì l'ennesima lacrima sfuggirle, rotolare giù per la guancia e cadere nel vuoto, andando a bagnare i suoi pantaloni.
– Perché sapevo di averti rovinato la vita. – ammise.
Zach abbassò la testa, sbuffando un sorriso stanco.
– È così, Ivy. Sei stata una stupida, hai deciso anche per me, e davvero, mi hai rovinato la vita. – Ivy cercò di divincolare le mani dalle sue, ma Zach le trattenne. – E ora lascia che sia io a decidere per tutti e due: starai con me, e me la metterai a posto. Non ti farò andare via di nuovo, non mi importa cosa diranno tutti: sei stata stupida, stupida, tremendamente stupida, ma non posso ignorare che lo hai fatto per me.
– Non so per quanto riuscirò a ricordarmi di te.
– Ti farò fare un'altra ipnosi. – disse, sicuro.
– E se non funzionasse?
– Non lo so, ma prima o poi ti riporterò da me, troverò un modo. Ivy a me non importava niente, insieme ce la saremmo cavata: non potevamo avere figli? Li avremmo adottati, l'essenziale era che ci fossi tu nella mia vita, non un figlio con il mio codice genetico. E quel master sai che fine ha fatto?
La tirò a sé, e Ivy si strinse al suo petto.
– Scusami. – singhiozzò.
– Perché piangi ancora?
– Non sopporto l'idea di perderti.
Zach le accarezzò la testa.
– Vedrai, non mi perderai. E comunque ora sei qui, vero? Ti ricordi di me, vero? Non importa quanto durerà.
Ivy sollevò il viso verso di lui, e mentre lo baciava pregò che lui avesse ragione.
Ancora, le loro labbra unite, le mani e le gambe intrecciate, avevano senso come poche cose nella vita.
Lo amava, avrebbe voluto urlarlo con tutta la sua voce, e anche ogni centimetro della sua pelle esplodeva per gridarlo.

Le accarezzò la guancia.
– Dormi, Ivy: vedrai, ti farò di nuovo ricordarti di me.
Le palpebre le tremavano, quasi chiuse del tutto, ma lei non voleva ancora lasciarsi andare.
– Abbracciami. – sussurrò.
Zach, sdraiato accanto a lei, la strinse, e Ivy si addormentò.






Nda: Ecco il terzo e ultimo capitolo. Mi rendo conto che essendo la storia il racconto di un sogno, sia molto più comprensibile per me che per voi, e probabilmente avrei dovuto delineare meglio, evitare alcuni stacchi della narrazione: oggi vi posto il terzo capitolo, ma un giorno riprenderò in mano la storia, e la riscriverò, sperando di riuscire a darle una forma migliore! Si spengono le luci su Zach e Ivy, chissà se riusciranno a stare insieme...

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