Voulez-vous être mon échafaud?

di SunriseNina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parigi di notte. ***
Capitolo 2: *** Il quaderno della Morte. ***
Capitolo 3: *** Lettere da Vienna. ***
Capitolo 4: *** Luce e ombra. ***
Capitolo 5: *** La scintilla. ***
Capitolo 6: *** È finita. ***
Capitolo 7: *** Memento! ***
Capitolo 8: *** Vicino a te. ***
Capitolo 9: *** La Spagna. ***
Capitolo 10: *** Iter. ***
Capitolo 11: *** Oceani e fiamme. ***
Capitolo 12: *** Oui, je le voeux. ***



Capitolo 1
*** Parigi di notte. ***





Un tramonto rossiccio andava spegnendosi all’orizzonte, tingendo le acque della Senna.
Light si era appoggiato al largo bordo del Ponte Neuf, ammirando le barche che si ammassavano lungo le due sponde, cariche di merci variopinte. Risuonavano nell’aria le voci rozze dei marinai, gli odori delle spezie, lo sciabordio degli scafi. L’espressione del giovane ventenne era simile a quella di un bambino rimasto estasiato davanti ad un giocoliere, o un illusionista. Purtroppo nella sua mente vagavano pensieri decisamente meno pittoreschi, e alquanto amari, ad esser completamente sinceri. Si sovrapponevano, urlavano, si spintonavano tra loro esattamente come quelle barche.
Si levò dalla sua posizione e riprese a camminare con passo lento, equilibrato, verso la  sua meta finale.
Alla tarda ora in cui Light camminava per Parigi, poche persone ancora popolavano la città: camminavano tutti rasenti le pareti, aggirando il canaletto di scolo che tagliava in due la strada. In quei giorni era caduto un nevischio acquoso, che non aveva avuto la forza di depositarsi e imbiancare i tetti: si era sciolto brevemente in un’acqua grigiastra che aveva insozzato tutte le vie, riempiendole di pozzanghere.
C’era stato l’innalzamento dei prezzi, la creazione di nuove tasse ai ceti già vessati, la carestia appena pochi anni prima aveva ucciso buona parte del bestiame e durante quello stesso anno si era verificata la crisi del pane. In poche parole, a una decina di giorni dal Natale, il popolo parigino non aveva né soldi né cibo, e quanto pareva neppure la neve: solo freddo, un gelo che ti pervadeva fin nelle ossa, facendoti sentire un dimenticato da Dio.
Non che sembrassero arrabbiati, o chissà cos’altro: no, tutti i francesi affrontavano quelle situazioni con un’ingenuità quasi vomitevole. Scrivevano lettere al Re, convinti che questo avrebbe messo fine ai loro affanni; e che, se non riusciva, doveva proprio esser allo stremo anche lui. Ah, se avessero capito, quei poveri sciocchi, che il Re tutti i soldi che a loro sarebbero serviti li utilizzava per arricchire la sua bella reggia e deliziare le oziose ed ottuse menti dei suoi nobili. Ma si era arreso da molto tempo all’idea che il popolo fosse troppo stolto, per potersi sollevare senza qualcuno che li guidasse.
Percorse la strada principale solo per alcuni metri: abbandonò presto la piatta e agevole arenaria della pavimentazione per le lastre medievali di uno dei vicoli che si aprivano su di essa. Accelerò il passo, conscio che ormai nessuno avrebbe più fatto caso a lui, in quelle misere strettoie tra le alte palazzine della zona povera della città. Quasi correva, quando arrivò con il respiro trafelato davanti all’insegna del Saint Martin. Si fermò pochi secondi appoggiando la schiena al muro: quel piccolo pub, che si apriva su una minuscola piazzetta dalla forma irregolare, esponeva l’enorme disegno di un uomo con in mano un bicchiere di vino e un aureola sopra il tipico taglio di capelli dei monaci. Era al contempo squallido, antiestetico e blasfemo: ma a lui ben poco importava. Non era lì per il vino di bassa qualità che, secondo quel disegno, tanto piaceva al caro San Martino.
Si era sentito in imbarazzo, uscendo di casa con addosso quella terribile giacca da caccia –abitava infatti in un quartiere distinto, dove era conosciuto e apprezzato in quanto futuro avvocato-; ma quando entrò, bastò un’occhiata ai presenti per capire che la sua elegante mantella avrebbe dato parecchio nell’occhio.
Si diresse verso il solito tavolo dove sedevano le solite persone. Rivolse a tutti un saluto cordiale e al contempo distinto, e ordinò da bere.
 
Light Dieunuit. Cosa doveva esser passato nella mente di sua madre, quando lo aveva messo al mondo, quando aveva deciso di chiamarlo così? Di sicuro un certo patriottismo, nonostante Scarlett Dieunuit non abitasse in Inghilterra da decenni e avesse ormai cambiato il proprio cognome inglese con quello del marito Sigismond. In ogni caso, il piccolo era nato con il significativo nome di “luce”, e di sicuro gli si addiceva in modo letterale: era una persona brillante d’intelletto, e anche d’aspetto. Capelli corti e castani, viso affilato ma armonioso, occhi dello stesso colore della chioma, bocca sottile ed espressione inspiegabilmente regale. Light, giovane parigino di semplici natali –padre poliziotto, promosso in seguito a luogotenente generale di polizia, e una giovane studentessa inglese per madre- sapeva di aver nel suo sangue borghese qualcosa in più. Una predestinazione a qualcosa di più grande.
Non certo solo per questo si era unito a quel circolo, no; ma di sicuro anche questo motivo c’era, e non se lo nascondeva affatto.
Si ritrovavano quando potevano, in un ordine impreciso di giorni, e frequentando cinque o sei infimi pub diversi al mese. Chi erano? Niente di speciale, se non una manciata di giovani borghesi che si dilettavano nell’insultare Luigi XVI, le ridicole tasse che egli imponeva a loro e non a nobili e clero, le frivolezze di quei nobili impomatati da capo a piedi, l’inettitudine della coppia reale e di tutti i loro maledetti e lardosi consiglieri. Se la spassavano parecchio, quei ricchi cittadini che si toglievano le giacche costose e le parrucche per gettarsi in mezzo alla plebaglia e insultare chi calpestava i loro interessi.
«Ma la cosa più assurda è che … non si capisce da dove arrivino i privilegi del clero!» un paio di risate si levarono, ebbre di vino, ma l’uomo continuò «Non sto scherzando! Se a difendere le braghe dei nobili c’è il Re e il lignaggio nobile, chi c’è per i religiosi? Lo Spirito Santo?!»
«Stai dicendo che Dio è meno importante di quel mezzo cervello di Luigi?»
«Che poi potrebbero cambiare il nome… questo è il sedicesimo, cristo, il sedicesimo luigi!» grugnì uno di loro particolarmente brillo, facendo sganasciare tutti i presenti.
«Dio non è un proprietario terriero, non ha un corpo o niente che possa dargli davvero potere.» continuò l’arringatore di prima.
Al che Light, ignorando le risa generali che ancora non si spegnevano, iniziò a conversarci: «Perché, in teoria, non ne ha bisogno. Ha proprietà nel regno dei cieli.»
L’altro scosse la testa: «Non vuol dire un bel nulla, accidenti. Io, proprio ora, posso inventarmi il dio delle sardine marinate, e dico che è vissuto qui diecimila anni fa, e che bisogna sacrificargli merluzzi crudi e orecchini d’argento a ogni novilunio. Non sorridere, giovane Dieunuit!» lo ammonì «Mi prendi per scemo, vero? Ma dimmi cos’ha il dio dei cristiani di più concreto del mio dio delle sardine marinate.»
«Ha molti più seguaci.»
«Ma sono solo dèi inconsistenti alla stessa maniera, no?» mandò giù un bicchiere ancora, e poi si inserì nella conversazione dei due signori accanto a lui, che discutevano sulla data della caduta dei prezzi dei prodotti agricoli.
«Era il 1780, ne sono sicuro!»
«Ma cosa vuoi ricordare, a quel tempo ancora bevevi latte dal seno di tua madre! Era il 1778.»
Light rimase solo una decina di minuti, osservando il proprio bicchiere e ascoltando quel che gli altri dicevano. In quelle occasioni beveva poco –non voleva certo prendere vizi simili, né ridicolizzarsi per l’ebbrezza- e parlava ancor meno: interveniva in sporadiche occasioni, ma preferiva sentire quel che gli altri dicevano, covando tra sé e sé le proprie opinioni.
Ma in quella sera particolare, la sua mente era rimasta al dio delle sardine marinate. Se il dio delle sardine marinate avesse avuto uno scettro magico con cui il suo giovane amico potesse praticar miracoli, avrebbe avuto tanti problemi a battere il cristianesimo, fatto di dogmi e misteri impalpabili?
A quel dio, in fondo, mancava solo un elemento: qualcosa che mostrasse il suo operato.
Questi pensieri gli frullavano nella testa mentre usciva sulla piazzetta oscura. Forse per questo tormento interiore non si accorse dell’ambigua figura accanto alla porta, quando ci passò davanti. Ma non avrebbe potuto scamparle in ogni caso, nemmeno se si fosse lanciato in una trafelata corsa per i vicoli di Parigi addormentata: perché non si sfugge al destino correndo via. E, in ogni caso, Light non lo aveva forse aspettato per anni e anni?
«Ehi.» lo apostrofò una voce amara e profonda. Light si immobilizzò: sapeva che era per lui. Non c’era stato bisogno di dire altro, lo sapeva. Non poteva rivolgersi a nessun altro, in quella notte buia e deserta.
Si voltò di scatto, cercando di pensare a come difendersi: perché un uomo come lui sapeva che a quell’ora, tra le strade di Parigi, nessuno si fermava a chiederti un’indicazione. Era un mondo orribile, corrotto, malsano; e lo era ancor di più di notte.
Ma l’altro si avvicinava lentamente, con l’aria di chi non ha né fretta né intenzioni ostili. Eppure c’era qualcosa, ad aleggiare intorno a lui: un’aura di ignoto, di misterioso, di trascendente.
«Che vuoi, viandante?»
«La rivoluzione.» sghignazzò la voce nel buio.
Il viso di Light si tinse di rosso, senza un motivo vero e proprio: «In nome del cielo, mostra il tuo volto! Chi diavolo sei?!»
L’uomo apparve in modo leggermente più nitido, rischiarato dalla luce che proveniva dalle vetrine del pub: «Sono il dio delle sardine marinate.»
A quel punto Light avrebbe potuto tranquillamente svenire, ma non lo fece: quella figura, per quanto sinistra e spaventosa, esercitava su di lui un’incredibile attrazione.
L’accento dell’uomo era fortemente italiano, o spagnolo, non riuscì a capirlo con esattezza. Era alto, dalla carnagione così pallida e malata che si sarebbe potuta definire grigiastra; i suoi capelli non solo non erano sormontati da una parrucca, ma per di più si sparpagliavano sulla sua testa in ciuffi neri e disordinati. Non avrebbe saputo definirne l’età: nonostante il fisico statuario, la sua faccia innaturalmente allungata era segnata da rughe profonde, specie intorno alle cornee giallastre. Ma quel che più lo inquietava era quella bocca: era innaturalmente allargata in un sorriso scuro. Quando questi si avvicinò, Light poté notare che effettivamente agli angoli delle labbra si prolungavano due cicatrici lungo le guance, e che il colore violaceo delle labbra erano il segno di una qualche malattia infettiva. Ebbe improvvisamente paura di quell’uomo, una paura profonda e innaturale. Trascinava con sé un olezzo di vizi capitali e salsedine.
«Cosa vuoi?» disse Light, sempre più preoccupato.
«Quello che vuoi tu.» biascicò l’altro.
«Ah!» rispose sprezzante «Ne dubito.»
«Tu vuoi che si sollevino, non è così?»
Calò per pochi attimi un silenzio profondo, e il viso teso di Light si tinse di ansia e terrore: un poliziotto? Una spia del re? Chi diavolo era costui, e cosa voleva da lui?
«Sei qui per accusarmi, forse?!»
L’altro non badava alle sue parole, né alla sua agitazione: «Tu vuoi che questi poveri ottusi capiscano chi è nel torto. Vuoi che si ribellino alle ingiustizie a cui il re e la corte li sottopongono. E sai che hanno bisogno di una spinta, e quella spinta vorresti darla tu. Ma non sai come… vero, Light?» la sua risata sembrò giungere direttamente dall’oltretomba.
Il ragazzo era sconvolto. Nel suo petto, il cuore balzava da una parte all’altra della cassa toracica, scalpitando come i cavalli che trainavano le carrozze a quella tarda ora della notte e che sentiva in lontananza sulla strada principale.
«So cosa pensi. Pensi che ci vorrebbe un miracolo.» La sua mano scomparì in una bisaccia che portava legata alla vita, e ne estrasse un piccolo libriccino con una copertina di spesso cuoio nerastro. «Lascia che ti mostri come il dio delle sardine marinate farà il suo miracolo.»
 
Light Dieunuit, nato sotto il fortunato nome di “Luce” –e quanto aveva visto bene la giovane Scarlett, quanto, povera madre ignara!-, sapeva di aver nel suo sangue borghese qualcosa in più. Una predestinazione a qualcosa di più grande.
E in quella notte di dicembre del 1788, si ritrovò faccia a faccia con quello che sarebbe stato il suo destino. O almeno una parte.
 
La seconda parte del suo destino, mentre Light si ritrovava a discutere in un vicolo con quello strano uomo –il cui oscuro passato era sconosciuto quanto la natura malata delle sue intenzioni-, sedeva su una poltroncina osservando la neve cadere. Le scomode scarpe signorili erano abbandonate in terra, e si teneva le gambe strette contro il petto. Davanti a lui erano poggiati su un basso tavolino una lunga serie di dolcetti e leccornie: il ragazzo li prendeva mollemente tra le dita e li inghiottiva quasi senza masticarli.
La neve cadeva sui tetti di Vienna, immacolata, evocando ricordi lontani.
Il rumore di un campanile.
Il rintocco della Morte.
E in quel momento, qualcosa nell’animo del ragazzo vibrò come una corda di violino: una nota lontana, ovattata. Il suono di una serratura che si chiudeva.
Qualcosa – o qualcuno- aveva appena assicurato una catena eterea e al contempo indistruttibile intorno al suo destino.










Note Autrice (Leggete, grazie.)

Questa storia è ambientata nel periodo della Rivoluzione Francese, avvenuta tra 1788 e 1789.
Ogni riferimento a dati e avvenimenti è stato fatto quanto più precisamente possibile; ma avendo trovato difficoltà a cercare ogni singolo uso e costume dell’epoca, ho dovuto a volte lavorare di fantasia cercando di rendere tutto il più realistico possibile.
Fonti: Wikipedia e Jacques Wilhelm, ”La vita quotidiana a Parigi ai tempi del re Sole”.
I nomi: Ovviamente i nomi non potevano rimanere in giapponese: ho cercato di riportare suoni simili, o nomi che a mio parere potevano esser adatti. Ho deciso di lasciare “Light” perché protagonista e inoltre perché la ricerca di qualcosa che potesse validamente sostituirlo si era fatta impossibile. Per il suo cognome, Dieunuit (che si pronuncia circa dionuì, se mia sorella che studia francese mi ha dato le informazioni giuste...), è la traduzione dei kanji che formano “Yagami”, ovvero “notte” e “dio”. Il nome di L sarà invece rappresentato da due nomi francesi, Eler (per l'assonanza) e Riou (a sostituire il nome Ryuzaki con cui è solito farsi chiamare).
Il titolo: la traduzione è “Vuoi essere il mio patibolo?”. Ho ritenuto doveroso scriverlo in francese.

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Capitolo 2
*** Il quaderno della Morte. ***





Light si svegliò di soprassalto, con la fronte imperlata di sudore gelido.
Si guardò intorno: tutto bene. Tutto normale. Era nella sua camera da letto, al terzo piano della sua casa nel quartiere Le Marais.
Si massaggiò le tempie, cercando di accalappiare quanti più ricordi conservasse della sera prima: ma era tutto confuso, deliziosamente ottenebrato; incubi e realtà si fondevano nella sua testa, creando un abisso di tenebre fuligginose in cui lui tendeva le mani alla ricerca di qualcosa a cui aggrapparsi.
Di sicuro l’uomo che aveva incontrato era reale: il suo odore sgradevole, la stretta di mano che gli aveva dato –un palmo dalla pelle grinzosa e macilenta- erano ricordi concreti. E poi avevano parlato, e a lungo. O meglio, Light lo aveva ascoltato gracchiar la propria storia: non aveva pronunciato il proprio nome, ma aveva raccontato delle origini dei suoi nonni e bisnonni, colonizzatori delle Americhe, sterminatori di indigeni e saccheggiatori di templi. Quando gli aveva detto di essersi ormai donato del tutto ad arti magiche e misteriose, Light non aveva faticato a credergli: il suo viso, la sua voce, ma soprattutto il suo sguardo raccontavano una storia di segreti alchemici, sortilegi e negromanzie. Poteva vedere la scienza occulta a cui si era donato divorargli la carne, e sottrargli tutta la linfa vitale.
Ma quel che aveva detto alla fine era stato così assurdo, che Light era riuscito comunque ad esser diffidente.
 
«Lo vedi questo quaderno?»
Light lo osservò. Non aveva nulla di speciale, per quanto fosse chiaramente fatto a mano: sulla spessa rilegatura in cuoio nero non vi era scritto niente, e nemmeno sulle pagine di carta scadente in esso contenute. Notò però, di sfuggita, che parecchie pagine erano state strappate con minuzia, e che sull’interno della copertina vi era un bianco geroglifico a lui sconosciuto.
«E quindi? Cosa dovrei vedere?»
«Per ora nulla. Per ora, ovviamente. Questo è un quaderno della morte, e colui il cui nome sarà scritto su queste pagine morirà.»
Light alzò un sopracciglio: «È un quaderno come tanti altri.»
«Lo vedi questo simbolo?» disse l’altro, puntando con l’indice il geroglifico «Questa è la testa di Xolotl, il dio che protegge il Mictlan.»
«Cerchi di confondermi usando termini inesistenti?» disse Light, indignato e al contempo spaventato.
Se doveva nuocergli in qualche maniera, perché tanti giri di parole? Che le sue intenzioni fossero davvero diverse?
«Non dire idiozie! Xolotl è il gemello cattivo del Dio degli Aztechi, Quetzalcoatl. Accompagna le anime verso il regno dei morti, il Mictlan. Io sono un suo discepolo, un suo sacerdote…»
«Tutto quel che dici ha sempre meno senso, e non so perché ti sto ancora ad ascoltare…»
«… questo quaderno può uccidere le persone!»
Light si fermò improvvisamente. Quelle parole risvegliarono il suo vivo interesse, e scrutò negli occhi dell’altro una sincerità febbrile e fanatica.
«Cosa intendi dire…?»
«È come scrivere una preghiera. Tu gli indichi il nome di qualcuno, ma tieni a mente che devi conoscere anche il suo viso, e scrivi quando o come vuoi che muoia. E il dio ti ascolta ed esaudisce il tuo desiderio.»
«E per quale motivo vorresti darlo a me? Nemmeno so chi sei, nemmeno so se quel che dici è vero!»
«Perché voglio la rivoluzione. E so che anche tu la vuoi. Ti ho seguito, Light Dieunuit. So che sapresti farlo senza vacillare. Te lo leggo negli occhi.»
«Che vantaggio ne trai? Non mi dire che mi regali un simile onere e onore a cuore leggero, senza motivo.»
«Questo quaderno ti consuma. Ti maledice.»
E in quel momento Light ebbe la certezza che non mentiva. Lo vedeva nelle vene pulsanti delle sue mani scarne, in quelle labbra nerastre attraversate dal morbo, nelle sue orbite incavate e negli occhi infossati.
«Ma Xolotl vuole delle vittime, e io ho bisogno di qualcuno che gliene dia. E so che sta per giungere il momento in cui molto sangue sarà versato.»
 
E in quel punto il ricordo assumeva toni assurdi. Aveva la certezza che egli gli avesse fatto qualcosa… ma cosa? Era per la propria sicurezza, aveva detto. Una specie di garanzia.
Aveva avvicinato le dita scarne alla sua fronte, e da lì Light aveva visto solo il buio.
Nella mente però sentiva un sussurro lontano, un brandello di voce: ”Voglio solo la tua memoria. Nel caso la tua fedeltà a Xolotl venisse a mancare.”
 
Si alzò di scatto, rovesciando tutte le lenzuola fuori dal piccolo letto. Non era a baldacchino, ma progettava di comprarne presto uno: sapeva che, di lì a poco, suo padre lo avrebbe fatto accasare con una giovane ragazza di cui nemmeno ricordava il nome.

Si lavò e si vestì con poca cura, abbottonandosi in modo sbagliato lo stretto panciotto per ben due volte. Pantaloni di un colore purpureo, camicia candida, giaccia di un chiaro marroncino: il semplice abbigliamento di un giovane uomo che si addentrava nella società. Mentre si infilava gli indumenti le sue mani tremavano, ma lui lo negava a se stesso.
Prima di uscire, diretto all’Università, squadrò la giubba da caccia che la sera prima aveva abbandonato su una delle sedie del suo studio. La tasca di essa era rigonfia, e la forma lasciava intendere quale fosse il contenuto.
Light impiegò un paio di secondi a decidersi; poi afferrò il Quaderno della Morte e lo nascose sotto la giacca, come preoccupato dal fatto che qualcuno potesse vederlo e intuire il suo diabolico potere.
 
Non riuscì a far tacere i suoi pensieri neppure per un secondo. Vedeva le labbra del suo professore di Lettere muoversi, delineando parole su parole; di sicuro diceva qualcosa di molto sofisticato e interessante, ma Light riusciva a concentrarsi solo su quel quadernetto, premuto contro il suo petto nella tasca interna della giacca.
Cosa doveva fare?
Era vero, aveva atteso quel momento per anni, senza sapere di aspettarlo davvero; ma non aveva sempre provato quel prurito spirituale, quella sensazione di mancanza?
Passò tutta la giornata in Università, lambiccandosi tra gli scaffali della biblioteca, cercando di soffocare il proprio rimuginare continuo. Ma era un’impresa impossibile, e se ne rendeva conto.
Era un potere smodato, e forse a tratti incontrollabile. E inoltre, avrebbe potuto utilizzarlo a cuor leggero e mantenendo la segretezza?
Per non parlare di come era ridotto il cosiddetto discepolo che gli aveva fornito quella mannaia cartacea: era un incubo incarnato, così terribile che la mente di Light si ostinava a non ritenerlo umano, perché l’idea che fosse ultraterreno era quasi consolante.
Non voleva trasformarsi in niente di simile.
No, glielo avrebbe ridato. Che quella storia fosse vera o no, non voleva averne a che fare.
 
Era calato un vento serale particolarmente fastidioso che gli faceva lacrimare gli occhi: si passò la lingua sulle labbra, e sentì il sapore ferroso del sangue sulla pelle screpolata. Imprecò, si schiacciò meglio il tricorno di velluto blu sul capo e continuò a camminare.
La borsa con gli appunti scolastici batteva ritmicamente contro il suo fianco, ma si sforzava di non pensarci: voleva disfarsi di quel quaderno il prima possibile, non c’era tempo di passar da casa, il prima possibile…
«Lasciatemi andare!»
Un grido femminile squarciò l’ululare del vento. Light si guardò intorno con ansia crescente, come se fosse stato colto sul fatto: ma la sua mente razionale ebbe presto il sopravvento sulla sua istintiva paura, e realizzò che non solo non era un grido d’accusa contro di lui, ma una richiesta d’aiuto.
Un secondo urlo, identico al primo; questa volta Light riuscì ad identificarne la provenienza, e si gettò nel vicolo da cui quella voce implorava che qualche anima pia si gettasse in suo soccorso.
Quel che si ritrovò davanti fu uno spettacolo terribile e a tratti disgustoso: tre uomini circondavano una giovinetta poco vestita –ma si capiva, dalla scompostezza di quel che aveva indosso, che non aveva progettato di esser così poco coperta-, strattonandola e coprendola di epiteti così vergognosi che alla ragazza provocavano più lacrime delle percosse stesse. Erano tutti più grandi di lei, fisicamente e probabilmente anche in età: ella era bassa, incredibilmente esile, con una morbida e umile treccia a raccoglierle i capelli biondi e sottili. In altre occasioni, sarebbe anche sembrata bella: ma in quel momento, la sua vista era solo straziante, per la quantità di paura che si leggeva nel suo volto.
Light osservava  impotente dal suo nascondiglio, patendo per lei e per la povera Parigi tutt’intera, violentata dalla prepotenza delle mentalità animali che la possedevano. Improvvisamente si accorse di conoscere una delle tre bestie, che in quel momento artigliava il braccio della ragazza intimandole di non azzardarsi a urlare ancora: era Renald Boileau, suo compagno di corso. Ventiquattro, forse venticinque anni, basette folte e bionde, occhi scuri e infossati sotto una fronte resa ancor più ampia dalla precoce calvizie. Lo vedeva frequentare con blando interesse le lezioni di Lettere,  spinto più dall’onere di essere un giovane rampollo di famiglia nobile e acculturata; era conosciuto per essere attaccabrighe, e tremendamente donnaiolo: ma non si sarebbe mai aspettato che fosse infimo fino a quel punto, fino ad assalire una popolana indifesa pur di soddisfare i propri barbari desideri.
 
A pensarci bene, fu una coincidenza quasi provvidenziale per Light: una persona che, per compiere un’azione tanto scellerata, aveva scelto quella notte precisa e proprio un viottolo vicino alla strada che lui percorreva. E non una persona qualunque, ma bensì che lui conosceva, e di cui sapeva con esattezza anche il cognome –aveva infatti letto di un suo autorevole antenato quello stesso giorno in biblioteca-.
Forse, se non fosse stato per questa particolare concatenazione di fatti e coincidenze, Light avrebbe riportato quel quaderno da dove era venuto. Non avrebbe più alimentato il fuoco della rivolta, non avrebbe affrontato tutto quel che il destino gli riservò in seguito: e in particolare, non avrebbe mai conosciuto una certa persona. Un ragazzo, circa della sua stessa età, che in quel momento vagava per strade ben più fredde in una città molto lontana da Parigi. Ma ormai il lucchetto era stato chiuso, i due fili si erano annodati uno all’altro e avevano già iniziato ad aggrovigliarsi nella matassa di eventi che si sarebbero susseguiti.
 
Renald Boileau fu trovato da una vecchia massaia, riverso in terra e con le mani contorte in uno spasmo di attaccamento alla vita. Il suo cuore aveva improvvisamente ceduto, come se la mano di Dio fosse improvvisamente scesa dal cielo per stringere il suo muscolo cardiaco fino a farlo implodere. Nessuno capì come potesse esser finito nei bassifondi di Parigi, tranne ovviamente i due soliti compagni di scorribande che avevano assistito al suo infarto poche notti prima: i due avevano visto la morte ardere nel suo corpo, consumandolo velocemente come una miccia. Erano scappati immediatamente, abbandonando lì l’amico e la donna terrorizzata che avevano intenzione di utilizzar come proprio diletto. Lei, dal canto suo, si era rassettata alla bell’e meglio gli abiti ed era scappata, ringraziando Gesù Cristo per aver avuto pietà di lei: ma non sapeva che le sue preghiere erano da rivolgere al dio delle sardine marinate.
 
In qualche anfratto oscuro del macrocosmo, la prima di una lunga serie di vittime sacrificali si avvicinava alle maestose porte del Mictlan.
Un brivido scosse il corpo deforme del discepolo di Xolotl, provocandogli una risata isterica. Mormorò a sé stesso: «Ti ho proprio scelto bene, Light. Proprio scelto bene.»













Note Autrice:
La mia maniacalità è sfociata anche in questo capitolo, ovviamente. Le informazioni riguardo alla mitologia azteca sono tutte vere (testimone Wikipedia, come al solito).
Lo considero uno dei più complicati da scrivere perché fa da perno al resto del racconto... un po' una conoscenza di base, diciamo.
Spero che non vi abbia annoiato. Recensite, mi farebbe molto piacere. Se ci sono errori grammaticali, fatemelo notare. Ho finito di scriverlo a sera tarda e potrebbero esserci sviste varie.

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Capitolo 3
*** Lettere da Vienna. ***





«E a quel punto io gli ho detto: e a me che interessa, dei braccianti?»
Le donne scoppiarono in risate cavalline, come se nella loro frivola e inutile vita non avessero mai sentito nulla di più divertente; e, in un lampo di consapevolezza, Light ammise a se stesso che probabilmente era così. Buona parte dei nobili latifondisti erano zotici con indosso vestiti sontuosi, che nascondevano sotto le parrucche incipriate le loro menti ottuse.
«È tutta una questione di economia, giovanotto.» continuò Blanc-Lemaire, rivolgendosi a Light «Non c’è spazio nell’economia per le anime pie e  generose. Bisogna guardare ai propri guadagni usando la testa!» così dicendo, picchiettò la propria tempia. Light si stupì sinceramente di non udire un ovattato rimbombo.
Posò il cucchiaio. Suo padre lo guardava con un sorriso che nascondeva un’evidente richiesta di dire qualcosa, e qualcosa possibilmente all’altezza dell’ispirato e sensazionale racconto di Blanc-Lemaire.
«Non ne dubito affatto.» osservò Light, con un sorriso così delizioso che fece arrossire la moglie del nobile seduta accanto a lui.
Cercò di concentrarsi sulla squisita zuppa di pesce che i suoi ospiti gli avevano offerto, gustandone i retrogusti speziati, immaginando i luoghi che quelle povere bestie avevano visto prima di finire nel suo piatto di porcellana. Mari sconfinati, abissi sconosciuti all’occhio umano, le meraviglie dei coralli abbarbicati sui relitti delle navi greche nel Mediterraneo.
Un pensiero si impresse con lucidità allarmante nella sua mente: ”Questa zuppa ha vissuto più intensamente di qualsiasi persona seduta a questo tavolo.”
 
Indossò il cappotto, stando ben attento perché i riccioli chiari della parrucca non si impigliassero nei grandi bottoni dorati del bavero: le trovava assolutamente scomode, e alcune quasi antiestetiche, ma era quello che la moda imponeva come “buon costume”.
«È stato un piacere.» disse il padre di Light, che lo precedeva davanti all’uscio.
L’ospite fece un sorriso cordiale: «La vostra è stata un’ottima compagnia.»
Light ricambiò con un’espressione altrettanto gentile: «Anche la vostra, monsieur…»
«Blanc-Lemaire. Ma gli amici possono chiamarmi Anselme, e considero un onore poter definire amico un ragazzo brillante come te.»
Il giovane Dieunuit fece un sorriso di falsa umiltà ed uscì.
 
 
Si parlò a lungo della morte di Anselme Blanc-Lemaire: era successo una sera, mentre si dirigeva verso la propria carrozza con la famiglia. Le mani dell’uomo si erano improvvisamente artigliate al suo petto, e un roco gemito gli era salito per la gola; si era accasciato a terra come un fantoccio, e l’incontro tra il suo cranio e la strada aveva prodotto un suono simile al guscio di una noce che si spezza.
Molti, a quella notizia, avevano alzato in aria i boccali di birra da pochi spiccioli.
 
Il Natale era passato con una velocità quasi allarmante, sfuggendo all’attenzione del popolo di Parigi: gli occhi di tutti erano rivolti al susseguirsi di morti che aveva iniziato a decimare l’alta borghesia e la nobiltà.
Non vi era villa o bettola dove non si parlasse di ciò, a bassa voce, cercando di districare quel complicato mistero. All’inizio erano sembrate solo delle coincidenze: un giovane avvocato, un proprietario terriero, alcuni nobili alloggianti a Versailles. Nessun collegamento, pochi contatti tra di loro: ad associare queste morti vi era solo il modus operandi del cupo mietitore. Un infarto improvviso, particolarmente fulmineo e irrimediabilmente fatale.
Poi si allargarono le fila delle vittime: alcuni preti notoriamente libertini, rampolli insubordinati delle famiglie più nobili, ma anche prestigiosi notai, guardie del re particolarmente violente.
Tra i morti vi erano parecchie rassomiglianze: erano tutti di un buon ceto sociale, maschi -tranne per rari casi-, in età adulta ma godenti di buona salute e caratterizzati da una certa avidità, crudeltà e perfidia. Ricchi magnati amici della Corona cadevano come foglie in autunno, e agli occhi della popolazione risaltava sempre di più il marcio legno dell’albero spoglio che era ormai diventato Luigi XVI.
Inizialmente alcuni sorridevano mestamente a quelle notizie, contenti che quei luridi cani morissero; ma ben presto la gioia si fece più esuberante, si mescolò alla rabbia e al desiderio di rivoluzione. Le notizie ormai circolavano liberamente tra i popolani, e addirittura venivano ingigantite.
I nobili tremavano, si chiudevano nei loro appartamenti per sottrarsi al morbo –che comunque li coglieva nel bel mezzo delle loro faccende, implacabile, incontrastabile-; i parigini inneggiavano canti di rivolta.
Che fosse un demone o la punizione divina, non faceva differenza: era chiaro a tutti, ormai, che qualcosa –o qualcuno- manovrava i fili di quel macabro spettacolo.
Il nostro abile marionettista, in quel momento, entrava di soppiatto nell’ufficio del Luogotenente Generale di Polizia.
 
Suo padre, in linea di massima, gradiva la sua compagnia: era convinto che il vero posto di Light fosse accanto a lui, nel suo lavoro di poliziotto. Più volte gli aveva proposto di seguirlo,  in un aperta proposta nepotistica, in uno dei suoi casi; ma Light aveva sempre preferito la vita tranquilla dello studente. Ogni tanto faceva visite al padre, come per riaccendere in lui il desiderio spassionato di avere una progenie che seguisse le sue orme. Nonostante ciò si sarebbe certamente insospettito, o quantomeno incuriosito, se avesse visto il figlio scartabellare tra i suoi documenti privati. In generale doveva quindi aspettare che il padre uscisse, e poi aveva la libertà di perseguire il suo intento: difficilmente gli altri poliziotti lo avrebbero disturbato o gli avrebbero chiesto perché fosse lì, dato che erano abituati a vederlo.
Inizialmente aveva portato avanti la depurazione sociale in modo casuale, venendo a conoscenza di papabili vittime per sentito dire o durante banchetti e ricevimenti; ma aveva presto capito che doveva rendere tutto più sistematico, più certo, più sicuro.
L’ufficio di suo padre era un archivio maniacalmente preciso di accuse, resoconti di tribunali e condanne fedelmente trascritte: le faceva scorrere tra le dita, cercando i prossimi sacrifici a Xolotl.
L’idea gli era venuta qualche giorno prima, in quello stesso ufficio: aveva letto del tutto casualmente un’accusa palesemente giusta revocata ad un nobile che conosceva di vista, e aveva ben pensato di eliminare sia lui che il giudice –anch’esso notoriamente corrotto e dedito al preservare i privilegi dei nobili-.
Spostò con la mano alcune carte presenti sullo scrittoio, poi aprì il primo dei piccoli cassetti: fece un po’ resistenza, poi si aprì con un rintocco legnoso.
Vi era solo un fascio di lettere, accuratamente legate da un cordoncino rosso e con una ceralacca violacea che non riusciva a riconoscere.
Una tensione mista a curiosità iniziò a fermentare nel suo animo: per quanto quello studio fosse perfettamente ordinato, senza nemmeno un pezzetto di carta fuori posto, quelle lettere sembravano conservate con una cura ancor maggiore. La carta delle buste era di ottima qualità, non c’erano dubbi: sembravano degne di una scrivania regia. Anche il timbro sembrava dover parlare con eloquenza, eppure, ne era ben certo, non era del Re di Francia.
Si voltò verso la porta per scaramanzia: chiusa.
Le prese tra le mani con molta attenzione e si sedette alla sedia di suo padre. La piccola stanza rifletteva l’animo pragmatico e umile di Sigismond Dieunuit: tutto era in colori freddi e apatici –verde muschio, grigio, ebano-, i mobili  non erano adorni di intarsi dorati e le pareti monocromatiche erano di una semplicità destabilizzante.
Osservò le carte che stringeva tra le mani: percepiva una forza scaturire da essa e investirlo con furore, come due poli di carica uguale; al contempo sentiva in quello scontro elettromagnetico l’intensità di un legame, per quanto malevolo, ma incredibilmente forte. Come se tutto quello che aveva fatto fino ad allora fosse stato il progetto di un ente superiore, che voleva il suo incontro con quelle lettere.
Ma accantonò velocemente quell’idea: lui non era la marionetta di nessuno, né del Re, né della società, tanto meno di un qualche Dio.
Lui, era Dio.
 
Quello che immediatamente gli saltò all’occhio era l’inclinazione della calligrafia: le sottili lettere sembravano sul punto di cadere verso destra, come trascinate dalla mano dello scrittore. Non erano eleganti, affatto: a primo impatto sembrava una scrittura quasi bella, omogenea, ma se la si osservava con più attenzione si notavano gli squilibri tra le curve, nella spaziatura eccessiva o troppo minuta.
Erano redatte in un francese striminzito, poco formale: era facile capire che chiunque lo avesse scritto non lo parlava abbastanza spesso da saperlo utilizzare correttamente.
Controllò le altre: erano tutte scritte dalla medesima persona. Suo padre aveva conservato la corrispondenza con un qualche sconosciuto: ma a che intento?
“Penso come te: non è una malattia. È possibile un avvelenamento. Il Re francese e la mia Regina sono d’accordo: non è semplice malanno, ma omicidio.”
Sentì un pugnale di consapevolezza trapassargli il petto. Continuò a divorare le righe, cercando di capire chi fosse a scrivere quelle parole maledette.
“Sono onorato di lavorare insieme alla polizia di Francia, ma devi sapere che sono abituato a lavorare solo perché sono un investigatore e non un poliziotto. Cercherò di avere una buona collaborazione con voi.”
Quel “sono onorato” iniziale esprimeva una cortesia così finta da parer quasi ridicola: eppure era sicuro che chiunque l’avesse scritta, ci aveva riflettuto a lungo. Non sapeva perché, ma lo capiva: notava lo sforzo intrinseco in quelle parole di instaurare un rapporto, in cui però si rifletteva una grande inadeguatezza sociale.
“Come ho scritto già, arriverò all’inizio di gennaio per risolvere tutto. Così hanno detto a me di fare e io rispetto quel che vuole la mia Regina.”
Gennaio, gennaio! Era quello il mese, la data forse era anche già passata!
Il mistero era fitto quanto scottante: chi era costui, perché intratteneva una corrispondenza con suo padre, e chi era la regina di cui millantava?
Osservò la città annotata in cima a tutti i fogli: Vienna.
Qualcosa si aggrovigliò nel suo petto, strozzandolo: la Regina d’Austria, suocera del Re di Francia.
La sua mente era un aggrovigliarsi di pensieri ed emozioni, simile a un mare in tempesta, lui povero naufrago in balia dei flutti: e forse fu per quella confusione di pensieri, che non si accorse immediatamente di suo padre.
 
«Light, cosa stai facendo.» non era una domanda, ma un’affermazione: severa, giudicante, forse irata.
Lui strinse le lettere tra le mani e sostenne lo sguardo dell’uomo; tentennò per alcuni nanosecondi, incrociando quelle iridi scure, ma non lo fece notare all’altro.
«Sono lettere private.» disse il padre, con voce imperiosa; ma non gliele tolse di mano.
«Questo… parlate del tueur
Così lo chiamavano per le strade di Parigi, era questo che sussurravano: “assassino”. Non serviva altro, per capire a cosa ci si riferisse.
«Sì. Sì, esatto. Il Re ci ha affidato quest’incarico, da svolgere con la massima precisione e con la massima velocità. »
Light osservò nuovamente quelle carte, e il suo sguardo si fermò sulle ultime righe, preso da un’idea repentina e al contempo geniale: ma vi era una sola, minuta lettera come firma.
L.
 
Light inspirò, e tornò a guardare suo padre: non aveva alternativa. Non poteva fare altro.
«Padre… voglio lavorare a questo caso.»
Sigismond rimase immobile, mentre i suoi occhi si velavano di incredulità, e poi di lacrime.
Era suo figlio, il sangue del suo sangue, la sua massima fonte d’orgoglio: intelletto fino, animo nobile, aspetto invidiabile, portamento da comandante. Una figura al contempo armoniosa e statuaria… quasi simile a un Dio.
«Questo caso, Light, è uno dei più complicati e forse pericolosi che sia capitato nelle mani della polizia da anni a questa parte.»
«Sono pronto.» fece un passo avanti, negli occhi lo sprezzo del pericolo tipico del soldato.
«E i tuoi studi?»
«Il primo posto in cui devo stare è affianco a mio padre.»
Sigismond si voltò di scatto, stropicciandosi gli occhi nel tentativo di fermare quelle lacrime di contentezza paterna.
«Non deludermi, Light.»
Il ragazzo ebbe una visione fulminea della ghigliottina che calava sul proprio collo; saggiò il pericolo concreto che stava correndo, e al contempo la determinazione assoluta a portare avanti la sua missione di Dio Giustiziere: «Non ti deluderò.»
«Lo so. Non lo hai mai fatto.»
 
 
 
 
L’aria di Parigi era fresca e dolce, come le fragranze delle dame di corte; ma era intrisa anche di qualcos’altro, in quella mattina colma di bruma. Un odore vago, bruciante, meschino. L’odore della brace assopita.
Il ragazzo scese dalla carrozza con un piccolo balzo, atterrando sulle nude piante dei piedi. Il cocchiere gli lanciò uno sguardo al contempo contrariato e curioso, ma non osò dire una parola: sapeva che non aveva trasportato il primo imbecille di turno, anzi.
Doveva però ammettere a se stesso che, nella sua esperienza ventennale di quel lavoro, non aveva mai visto l’importanza di una persona così in contrasto con il suo aspetto: perché i suoi capelli corvini erano sciatti tanto quanto il suo lignaggio era nobile, la sua giacca sbottonata era consunta e fuorimoda tanto quanto lui era potente. Estremamente potente. E come avrebbe potuto non esserlo, qualcuno inviato direttamente dalla Regina d’Austria?
«Grazie, buonuomo.» sillabò lui con un accento marcatissimo; poi si diresse verso l’entrata della Sede di Polizia, con le spalle curve e trascinando i piedi nudi.
«Certo che se ne vedevano di cose strane, in questi tempi.» mormorò tra sé e sé, prima di ripartire con il suo cocchio.
Anche Light fu assalito da questo pensiero, nel momento esatto in cui lo vide entrare: nessuna parola lo avrebbe potuto descrivere meglio. E strano era ciò che quella figura avrebbe portato nella sua vita, contorto sarebbe stato il destino di Light, difficile la sua scalata alla vetta; il ragazzo questo non lo sapeva, ma una cosa era certa. Una consapevolezza gli palpitava nel petto, indomita, spiazzante: da quel momento in poi, sarebbero stati eternamente e dolorosamente legati.
Lo capiva dagli occhi scuri di lui, da quel suo sguardo perso, dalla pelle diafana, dallo strano accento. In tutto il suo essere, qualcosa gli gridava: ”Non ti dimenticherai di me, Light. Resterò impresso nella tua mente, nei tuoi incubi, nella tua vita.”

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note Autrice:
 
Ebbene, dopo un lungo silenzio, vi lascio questo lungo e determinante capitolo. Mi scuso per il ritardo, ma ammetto sinceramente che non ero pronta alla mole di lavoro scolastico che è stata rovesciata su di me. Mi aspetta un terzo anno abbastanza pesante, e di conseguenza non ho avuto molto tempo per scrivere.
Spero che capiate le motivazioni per cui la cadenza delle pubblicazioni penso che diventerà bi-settimanale, o poco meno. Non voglio nemmeno scrivervi capitoli sciatti o poco curati, solo per poter pubblicare una volta a settimana.


Detto questo, ci siamo: L entra in scena. Spero che siate contenti voi quanto lo sono io. Mi sto impegnando molto per questa fanfiction, come penso di aver già ribadito, quindi ringrazio tantissimo chi recensisce, chi ha messo la storia tra seguite/ricordate/preferite. Grazie, davvero.



- Nina

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Capitolo 4
*** Luce e ombra. ***





 

"L'amore è di tutte le passioni la più forte,        
perché attacca contemporaneamente mente, cuore e corpo."         

(Voltaire)              










«Chi è Sigismond Dieunuit?» tossicchiò il nuovo arrivato, rompendo il silenzio che si era creato.
Il capo della polizia fece un solenne passo avanti: «Sono io, monsieur.»
Nello stupore generale, il ragazzo annuì noncurante e si dirigeva già verso lungo il corridoio, quando la voce di Sigismond lo arrestò:  «Questi sono i miei collaboratori, Masson e Aubert.» ognuno dei citati fece un riverenziale cenno di capo «E questo è mio figlio, Light, che studia per diventare avvocato e ci aiuterà in questo caso.»
Il ragazzo imitò gli altri, un po’ imbarazzato dallo zelo di quella presentazione; rialzando la testa, si accorse che lo sguardo di quel fantomatico ragazzo era fisso su di lui.
«Inglese.» asserì l’austriaco.
«Di madre.»
«Mh.» tornò con lo sguardo sugli altri presenti,  ridando libertà ai polmoni di Light «Non vi dirò il mio nome. Questo è il modo in cui lavoro. Potete chiamare me Eler. Oppure Riou, se voi preferite. Ho firmato come “elle” fino a ora, quindi dovranno tutti gli altri credere che è mio nome. Ho detto che sarebbero venute due agenti, quindi riferitevi sia a Eler sia a Riou come a due persone diverse. Potete comunicare con il mio maggiordomo, che sa bene il francese. Arriverà presto e starà con voi qui in distretto mentre indago.»
«Un momento. Questo vuol dire che non starà con noi ad indagare? Questo non ha senso.» Serge Aubert era un uomo alto e magro dalla folta e riccia capigliatura: quest’aspetto, unito alla facilità con cui si infervorava, lo facevano additare come Allumette, ovvero “fiammifero”.
«Lavoro anche solo.» Eler marcò la parola “anche”, ma senza metterci troppo polso: era più come se la sua voce fosse un orologio, che scandiva il tempo di fatti oggettivi e immutabili. Non solo la sua voce, in realtà, ma tutto il suo essere: lui camminava a piedi scalzi. Era così, non lo aveva deciso nessuno, e non si poteva far nulla a riguardo.
Lui firmava con una lettera sola e si faceva chiamare con due nomi diversi, che con essa non avevano nulla a che fare: nessuno poteva cambiare questo fatto, dovevano solo accettare questa triplicità.
Lui avrebbe lavorato con loro, ma anche da solo.
Light si massaggiò una tempia: erano nella stessa stanza da pochi minuti, e gli pareva già di pensare come quello strano ragazzo. Che stesse sviluppando una certa telepatia? O era la mente dell’altro, che si stava facendo strada tra le sue meningi con qualche tecnica astrusa? Sembrava degno di un’azione simile.
Mentre lui si era perso fra i propri pensieri, la discussione dei presenti era ormai sviata sul vero motivo per cui erano lì.
«Aveva qualche progetto per iniziare l’indagine, monsieur Riou?»
Sigimond era chiaramente in fibrillazione, teso, avidamente curioso di scoprire la grandezza di quell’investigatore.
«Sì. Pensavo di visitare la città.»
C’erano vari modi per definire il silenzio che si venne a creare: imbarazzato, costernato, perplesso. Quasi ridicolo.
«A che scopo?» l’uomo fiammifero iniziava ad avvampare nuovamente.
«Parigi è la scena del crimine.»
Di nuovo il rintocco di quell’orologio.
“È così, non potete opporvi.”
Sigismond scrollò vagamente le spalle, spiazzato da quel comportamento, e al contempo desideroso di fare buona impressione: «Light, vuoi accompagnare il detective per la città?»
Il giovane Dio sfoderò un sorriso quieto e fascinoso nella sua sobrietà: «Sarà un piacere.»
 
Il manto di nubi era sfilacciato, e lasciava che il sole dorasse sporadicamente alcune tegole fortunate. Light osservava i cornicioni su cui la luce creava degli splendidi giochi di chiaroscuro: e la sua mente, incapace di acquietarsi, si ritrovò a riflettere su quanto luce e ombra erano differenti, opposte, e al contempo così indissolubilmente unite. Quanto avevano ragione gli antichi filosofi! Nonostante fossero passati più di due millenni, le osservazioni di Eraclito erano così attuali da commuoverlo.
Il giaccone di Eler gli sfiorò il gomito, risvegliando in lui la consapevolezza di quella vicinanza.
«Ha qualche posto particolare dove vorrebbe andare a investigare?»
«No.»
Lapidario e conciso.
L’altro lo guardò con tanto d’occhi: «Pensavo avessimo una meta.»
«L’aria aperta.»
«Soffre di claustrofobia?» si stava avvicinando al primo, consistente punto debole del suo nemico!
«Non sono a mio agio con le persone. Avevo visto che le strade erano vuote e le ho trovate invitanti.»
Con ogni probabilità, Light non aveva mai conosciuto nessuno di più stravagante. Si sentì improvvisamente fortunato, ad essere lì con lui: e non solo perché poteva tener d’occhio il pericolo che Eler rappresentava, ma per la semplice e spontanea attrattiva di conoscere meglio il giovane straniero.
«Quanti anni hai, Riou?»
«Non ricordo bene. Venti, forse. Ventuno, ventidue. Grazie di essere non formale, stava diventando fastidioso darti del lei.»
«Sei giovane, per essere un investigatore così affermato.»
«Anche tu sei giovane.»
«Il paragone tra me e te non regge.» disse, con falsa modestia. In realtà, il confronto stava avvenendo proprio in quel momento.
Camminarono per alcuni minuti in silenzio. Eler era più lento, e Light doveva regolare il passo contro la propria proverbiale fretta: si costrinse ad osservare ogni singolo particolare di ciò che lo attorniava, ma le pietre delle strade di Parigi sono tutte uguali per un parigino, e così i mattoni, i tetti, le finestre, i vicoli maleodoranti, le voci sgarbate dei popolani.
Eler invece catturava tutto con sguardo affamato, con un’ammirazione che non dava a vedere: ma anche se essa non si poteva intuire dal viso inespressivo, i suoi occhi e l’andatura la rivelavano all’osservazione attenta di Light.
«Hai paura, Light?»
Non capì quella domanda improvvisa. Il volto dell’altro era fisso su di lui.
«Di cosa?»
«Di quel che sta succedendo.»
«No. O meglio, sì, ma non è terrore. Spero di riuscire a spiegarmi. Voglio solo sviscerare questo mistero.»
«Immaginavo che avresti risposto così.»
Si era quindi già fatto un’idea tanto precisa di lui? Light sentì la gola chiudersi in uno spasmo repentino e lieve.
«Diciamo che ho una vaga idea.» proseguì quello.
«Sarebbe?»
«Se quello che cerchiamo è davvero une essere umano… allora direi maschio, che sa leggere e scrivere, che ha subito qualche trauma ed è rancoroso, calcolatore, metodico, megalomane.»
Qualcosa scoppiò nel petto di Light con una forza inaudita; forse il suo ventricolo destro.
«Come puoi definirlo megalomane?» disse con un fil di voce.
«Come potrei non definire così un uomo che si comporta come un Dio?»
«Questa è una descrizione molto dettagliata. Non potrebbe trarci in inganno?»
«Tengo in conto ogni possibilità, ma questa per ora è quella che più mi convince.»
I due si fermarono, scambiandosi uno sguardo profondo: stavano silenziosamente lottando, cercando di insinuarsi nella mente dell’altro. Light cercava di impossessarsi dei suoi pensieri attraverso quegli occhi –occhi neri, profondi pozzi dell’Ade, Cerbero ringhiante, pazzia Dionisiaca, torture dell’Inquisizione, la mannaia del boia!-
Un gorgoglio sommesso ruppe il silenzio. Eler tossicchiò, assumendo un’espressione infantile: «Ho fame.»
Light, dopo pochi secondi di sconcerto, scoppiò a ridere.
Si tenne la pancia con le mani, mentre le ciglia gli si inumidirono dal gran riso. E non vi era nulla di particolarmente ridicolo, in quella situazione: ma la fame, la fame era ciò che di più umano esisteva! E si era impossessata di Riou, di colui che Light considerava una divinità avversa! E invece era solo un umano qualsiasi!
Terminò con un sospiro esausto: «Cosa hai voglia di mangiare?»
«Dolci.»
«Ma è quasi mezzodì!»
Tic toc, l’orologio della realtà dei fatti.
Light indicò con arrendevolezza una strada poco più avanti: «Lì c’è un locale dove potremmo andare. Fanno torte deliziose, e anche il loro tè non è affatto male.»
«Molto inglese.»
«Ti piace l’idea?»
«Apprezzo tutto ciò che è inglese. Sei libero di interpretarlo come un complimento.»
I due si incamminarono, e l’orologio vitale di Light iniziò a sincronizzarsi con quello di Eler.
 
«Perché siedi in questo modo?»
Lo strambo austriaco era rannicchiato sulla poltroncina dalla parte opposta del tavolino. Stava in quella posizione quasi fetale con completa naturalezza, tenendo le mani sottili e pallide appoggiate sulle ginocchia: «Se mi sedessi diversamente, perderei almeno due quinti delle mie capacità deduttive.» reggendo mollemente la tazzina tra indice e pollice si portò il tè alle labbra: «Mi piace questo posto.»
«Sì, è molto di classe.»
Caldo e accogliente era sia l’arredamento che il tepore della stanza. Vi dominava un profumo vago e zuccherino d’impasto per dolci.
«Ci vieni spesso?»
«Sì, ma non lo avevo mai trovato vuoto come ora.»
“E chi frequenta le sale da tè a quest’ora?” pensò, ma si guardò bene dal dirlo.
«Meglio per noi. Possiamo parlare tranquillamente.»
«Sì, mi sembra un’ottima idea, però…» Light si passò la lingua sulle labbra, cercando le parole adatte «Non dovrei monopolizzarti nelle indagini. Non è giusto che sia qui solo io con te.»
«Oh, ma non sei tu, sono io a monopolizzare te.» rispose Eler con naturalezza.
Il volto dell’altro fu attraversato da totale smarrimento, e lo stravagante investigatore continuò: «Voglio che tu sia il mio collaboratore, Light.»
«Mio padre è un poliziotto formato e diligente, io sono qui per imparare…»
«No, tu non sei qui per imparare. L’ho capito subito. Se hai scelto questo caso, vuol dire che sei deciso a risolverlo. O sbaglio?»
Light si lasciò andare sullo schienale della sedia, rimanendo in silenzio alcuni secondi: era percorso da una sensazione terribile, quasi di vertigine. Quello sconosciuto dagli atteggiamenti onniscienti era già convinto di essersi fatto un’idea precisa di Light, e a malapena lo conosceva: ma la cosa più spaventosa, e questo scatenava quei brividi nel suo animo, era che aveva perfettamente ragione! Era così evidente, la sua presenza essenziale in quel caso, il suo interessamento diretto?
«Non sono d’accordo, Riou.»
«Non ce n’è bisogno. Tuo padre sarà molto contento di questo compito, e non avrai motivi per deluderlo e rinunciare a una posizione simile.»
«Tutto questo è diabolico!»
«Lo è, infatti.»
Al che Light morse un tortino di mele, nascondendo in gran fretta un sorrisetto spontaneo. Dal gran tormento di pochi istanti prima, ora ribolliva in lui una sorta di euforia: che avversario aveva trovato! Un ingegno fine, complicato, subdolo, manipolatore!
Eliminarlo sarebbe stata un’impresa magnifica.
 
Era ormai tramontato il sole, quando i due uscirono dal locale. La stagione faceva arrivare le tenebre già alle cinque del pomeriggio, e quell’ora era da poco passata.
Eler inspirò a pieni polmoni, con aria quasi estasiata: «Finalmente un po’ di frescura.»
«Frescura?!» esclamò Light, rabbrividendo.
L’altro gli rivolse un risolino quasi dolce: «Moriresti assiderato, se venissi a Vienna.»
«Non ne dubito.» si sfregò i palmi intirizziti tra loro «Devo accompagnarti al luogo in cui alloggi?»
«Sarebbe gentile da parte tua.»
Iniziarono una passeggiata simile a quella che era avvenuta di mattina, ma il silenzio era riflessivo: ognuno era intento a rielaborare quello che si erano detti in quelle ore, ovviamente con fini totalmente opposti.
Light era sempre più stupito delle capacità deduttive di Eler: con mente fredda e calcolatrice, aveva illustrato all’altro un’ampia mappa di possibili cause, possibili assassini, possibili metodi con cui quelle morti potevano essere avvenute. Le ipotesi andavano da un abate spiritualista che inscenava l’arrivo dell’Apocalisse, a un’organizzazione di umili servitori che avvelenavano i cibi dei loro ricchi e pretenziosi padroni. Il ragazzo si destreggiava tra quelle possibilità con disinvoltura, passando da un punto all’altro di quell’enorme mappa concettuale come se nulla fosse.
In tutta quella familiarità che gli aveva dimostrato, inoltre, a Light non era sfuggito un particolare importante: Eler sapeva il francese molto meglio di quanto non lasciasse credere agli altri del distretto; e, fatto ancor più importante, aveva deciso di smascherarsi davanti a lui.
Aveva cercato per tutta la giornata di comprendere, capire anche solo minimamente i suoi pensieri: ma era rimasto inerme, davanti alla mente di Riou.
Era impareggiabile sotto molti aspetti: ma tutto quel che non è raggiungibile, si sa, lo è solo da un punto di vista umano; e Light manovrava enti e forze che non appartenevano a quel mondo.
«Il vostro paese è rumoroso.»
«Parigi è una città piena di persone, è normale che…»
«No, non in quel senso. La Francia scalpita, mormora. Non so se mi spiego, ma riesco a sentirlo in ogni vicolo, in ogni finestra…»
I suoi grandi occhi neri si aggrapparono al viso di Light, spaesati e in cerca di aiuto: «Anche nei volti delle persone. Come se parlassero tutto il tempo, ringhiassero come cani, ma sempre a bocca chiusa.»
Light non sapeva come aiutare quegli occhi, quel viso insonne, straziato dal rumore del mondo. Riou in quel momento gli sembrò un bambino: i tratti morbidi del viso, i capelli scompigliati, il corpo esile e tremante di chi è sconcertato davanti al mondo. Che ne era, dell’investigatore freddo e pragmatico?
«Stai tranquillo.» gli disse, posandogli una mano sulla spalla «So che sono parole vuote, ma non posso fare di più. Ti aiuterò in questo caso, Riou, e potrai tornare nella tua tranquillità.»
E in qualche modo era addirittura sincero, come sincera era la stretta del suo palmo su quella fragile spalla: gli avrebbe donato un sonno perpetuo, un sublime e infinito silenzio.
Eler gli sorrise, rincuorato. Gli angoli della bocca si distesero per le guance diafane, dando al suo viso –di per sé incantevole, e questo era ben osservabile da chiunque- un tono stranamente affascinante.
In quell’istante, nella mente di Light, prese forma un pensiero che si sarebbe mano a mano ingigantito, riempiendosi di significati sempre più impensabili: non sarebbe stato facile uccidere qualcuno che sapeva sorridere in quel modo.










Note Autrice.

Nomi: di nuove comparse ci sono solo Masson→Matsuda e Serge Aubert→Shuichi Aizawa.
Per i due nomi di L tenderò a usare Eler in generale (per la somiglianza) e Riou nei discorsi diretti tra L e Light.

Quando ormai mi ero arresa all'abbandonare questa storia (perdita di motivazione, scuola, impegni) ho deciso di riprendere in mano le ultime bozze e di scrivere questo capitolo e una parte del prossimo. Purtroppo non posso promettervi di portare a termine questa fanfiction, considerando che secondo il progetto da me fatto mancano ancora 8 capitoli circa; ma è mia intenzione provarci, perché non voglio sprecare una storia che ho iniziato con tanta passione.
Detto questo, mi scuso se questo capitolo non vi è piaciuto e vi ringrazio in anticipo per le vostre recensioni. Sono davvero importanti per me, mi aiutano a capire se il mio lavoro è apprezzato e dove sono i miei punti deboli.
Spero che, anche nella brutta ipotesi che questa storia rimanga incompleta, vi sia piaciuto quel che ho fatto finora e che leggiate comunque questo capitolo e il prossimo.
Un grazie a Kira 16 e Scintilla19, che mi hanno lasciato delle recensioni bellifffime e che mi hanno in qualche modo spinto a scrivere questa storia

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Capitolo 5
*** La scintilla. ***





La carrozza trottava nella notte; nell’abitacolo dominava lo scalpitare degli zoccoli e il rumore ritmico delle ruote. I due si osservavano, ma con un atteggiamento così diverso da sembrar quasi impossibile che pensassero alla stessa cosa.
Eppure così era: nella mente di entrambi  troneggiava l’immagine della casa di Light, meta finale di quel viaggio.
Light e la sua futura sposa si guardavano in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. La ragazza indossava un vestito dai toni autunnali, sobrio, quasi austero, in leggero contrasto con il suo corpo infantile; ma i dolci riccioli biondi che le scendevano sulle tempie, insieme all’alto collo bianco della camicia senza merletti, incorniciavano il viso come un’opera d’arte.
«Questo vestito è splendido, Mélisande. Risalta il colore dei tuoi capelli, l’ho notato per tutta la festa.»
Le guance della ragazza s’infervorarono e lei si lasciò scappare un sorriso di frivola soddisfazione.
Non mentiva affatto: la bellezza della sua fidanzata era stupefacente. Nonostante ciò, era falso il suo interessamento per il suo aspetto, o per lei in generale. Purtroppo a dividerli c’erano motivi ben più sostanziosi dell’intelletto poco fine dell’altra, o della sua fastidiosa vocettina: erano tutti particolari a cui Light si sarebbe potuto abituare, come ogni marito.
Le cause di quel disinteresse erano radicate in lui.
Non era rimasto all’oscuro della propria indole per molto tempo: grazie alla propria autostima incrollabile, nonché alla sua inclinazione poco religiosa, non si era mai condannato eccessivamente per questa caratteristica. Sapeva, da studioso razionalista, che era nato così e nulla poteva fare in proposito: tutto quel che gli era richiesto dall’umanità era fingere. Fingere sorrisi alle donne e ammiccamenti agli amici quando prendevano moglie; fingere che il giovane e avvenente professore non gli facesse alcun effetto e che non avesse sognato per mesi le labbra del vicino di casa sulle proprie.
In questo vizioso circolo di menzogne, da quando il suo fidanzamento era diventato effettivo, aveva dimostrato a sé stesso una lussuria che non avrebbe mai pensato gli appartenesse. Aveva immaginato scioccamente, all’inizio, che l’estrema bellezza di Mélisande avrebbe reso sensuale il rapporto con lei; ma non appena aveva capito l’idiozia di quell’illusione, aveva fatto un solo gesto: chiudere gli occhi.
Ogni volta che il suo corpo si avvicinava a quello della ragazza, lui chiudeva gli occhi: e immaginando, estraniandosi, aveva baciato con ardore una quantità inimmaginabile di uomini, fossero essi conoscenti o amici stretti.
Era iniziato come un espediente e aveva riguardato solo il grande amore giovanile di Light, il vicino di una decina d’anni più grande di lui, sposato e con due figli. Quando l’infatuazione si era placata, non era scomparsa con lei la lascivia –tipica nei ragazzi dell’età di Light, per di più se essa è repressa in tal modo- : aveva pensato al cugino, al compagno di classe, al professore, all’apprendista del venditore di stoffe, al giovane chierico che distribuiva le eucarestie, al cameriere di Mélisande e a un’altra infinità di volti.
Quella volta non fu diversa dalle altre. Erano ormai tre anni che i due erano fidanzati, e ogni loro incontro seguiva il solito rituale con una precisione immane: il motivo per cui i due non rompevano quella monotonia era che Mélisande pendeva dalle labbra di Light, e qualsiasi cosa le andava bene; il ragazzo, dal canto suo, variando così spesso l’oggetto delle proprie immaginazioni, non si annoiava mai eccessivamente.
Pizzi leggeri scivolarono giù dalle morbide spalle. Gli stretti lacci del corsetto si allentarono.
Lei chiuse gli occhi, e lo baciò con tutto l’ardore di una donna follemente innamorata.
Lui chiuse gli occhi, e cercò di pensare ad altro.
 
«Non passerai S.Valentino con la tua fidanzata?» chiese Eler, sorseggiando il suo tè mattutino.
«Lei capisce i miei impegni e i motivi per cui sono obbligato a trascurarla. Le ho promesso che comunque ci vedremo presto.»
Il sole in quei giorni era accecante, in netto contrasto con il freddo che ancora dominava le strade: avrebbero dovuto aspettare ancora un paio di settimane, prima che il clima primaverile facesse i suoi primi accenni d’esistenza.
Era passato un mese dal loro primo incontro; ma non volle farlo presente, nella paura che gli sembrasse importargli troppo di quell’avvenimento.
Gli omicidi continuavano imperterriti, meticolosi e precisi: tali e quali la calligrafia di Light, con cui egli spingeva le persone al patibolo. Ormai quei delitti erano ciò che di più ordinato esisteva, nel generale clima di rivolta che dilagava per la Francia: e se la nuova stagione tardava ad arrivare, di sicuro già sbocciavano desideri ardenti nel petto del proletariato e della gente comune.
In cuor suo Light sapeva che, in quel quadro di eventi, la polizia era quasi rassicurata dal suo operato pragmatico e preciso: inoltre, era ormai palese che anche tra i funzionari dell’ordine c’era chi nutriva simpatie per il carnefice misterioso. Era inevitabile, secondo Light, che chiunque avesse a cuore la giustizia sarebbe prima o poi passato dalla sua parte. Le fila dei suoi seguaci e simpatizzanti crescevano di giorno in giorno, creando un esercito di opinioni favorevoli che incoraggiavano il Dio a proseguire il suo onere nonostante i frequenti rischi.
«Ieri tuo padre ha arrestato un gruppo di filo-rivoluzionari.»
«Non ne sapevo nulla.» commentò Light, circospetto.
«Me lo ha confidato ieri sera. Non voleva dirtelo lui, così mi ha chiesto di farlo al posto suo in qualità di tuo confidente.»
Confidente. Era così che gli altri li giudicavano? Confidenti? L’idea era plausibile, dato il tempo che trascorrevano insieme; ma al contempo aveva un che di spaventoso e sinistro, considerando l’enorme segreto che si frapponeva tra loro.
«Perché non voleva che lo sapessi?»
«Sono alcuni tuoi amici.»
Il collo di Light diventò improvvisamente caldo e la sua gola roca; soffocò un colpo di tosse, e cercò di sostenere lo sguardo dell’altro con naturalezza e con credibile stupore.
«Conoscevi Marchand, Dufour e Roux?»
«Sì, due erano miei compagni di scuola. Uscivamo insieme saltuariamente.»
E non mentiva affatto: si ritrovavano in quei già citati bar di periferia, in quella cerchia di borghesi e letterati insoddisfatti che condividevano un odio ribollente per il re. Da parecchio non prendeva più parte personalmente alle riunioni, ma il seguace del Dio delle sardine marinate –Theo Maxime- lo teneva costantemente aggiornato dei loro discorsi tramite lettere; le conservava ordinatamente nel cassetto del suo scrivano, abilmente nascoste in un doppiofondo.
«Riou, pensi che siano collegabili al nostro caso?»
«Non lo escluderei. Borghesi, organizzati, contro la corona, con i mezzi per contrastare i propri nemici… direi che corrispondono a chi stiamo cercando.»
Si avvicinò a lui, chinandosi sul tavolo: «Conosci nessun altro che potrebbe essere coinvolto? Qualcuno che la pensava come loro, stessa condizione familiare o sociale e così via.»
Non capiva cosa dovesse leggere, in quelle iridi scure: era una domanda retorica? Era forse un’accusa velata? Oppure una domanda sincera, resa così sinistra dall’amarezza di quella situazione?
Light deglutì e poi sostenne quello sguardo eloquente con sfrontatezza: «No, non conosco nessuno.»
 
Camminavano sul ponte, osservando il tramonto scemare sul fiume. Degli strepiti risalivano dalle imbarcazioni, accompagnate dal solito sciabordare dell’acqua.
Un’altra giornata era passata.
Tornavano ormai verso le rispettive abitazioni, ma Eler insisteva spesso per passare nei sobborghi della città, allungando leggermente il percorso: sembrava provare la necessità convulsa di vedere ogni singolo volto di quella città, conscio che nelle sue peggiori incarnazioni languivano le più grandi verità.
Light lo accompagnava poco volentieri per quelle vie, ma il timore di chi vi abitava non era mai più forte del piacere di quelle passeggiate verso casa: dopo le giornate di lavoro, la stanchezza rendeva Eler più umano. Si lanciavano in discorsi filosofici complessi, o semplici racconti d’infanzia, ricordi giovanili, commenti su un uomo che passava o sui compagni del distretto. Era da una vita intera che Light desiderava una persona con cui potesse parlare di qualsiasi cosa: le sue amicizie, i parenti, le amanti, non erano mai riusciti a spaziare così tanto negli argomenti di conversazione. Trovava filosofi cronici, pettegoli incalliti e malinconici inguaribili: ma nessuno che avesse un eclettismo mentale per poter essere tutte e tre le cose.
Non poteva negare a sé stesso che Eler fosse un suo amico; e a rifletterci, anche la definizione di “confidente” non era poi così errata. Ogni tanto gli baluginava per la testa l’idea di non ucciderlo: avrebbe semplicemente aspettato che la rivolta fosse scoppiata –era ormai evidente che sarebbe successo-, e poi avrebbe potuto scomparire nel nulla, rinunciando amaramente alla meritata gloria. Ma si ricredeva presto: il pericolo che il suo operato venisse scoperto prima del tempo era troppo alto. Doveva rinunciare a una promettente amicizia per il bene dell’intero paese.
«Light, senti questo rumore?»
Il ragazzo si concentrò: era un vago strepitare di vetri e risa, proveniente proprio dalla strada che stavano percorrendo in quel momento.
«Non ho idea di cosa sia. Meglio cambiare strada.»
Incurante del suo commento, Eler velocizzò il passo e si fiondò a capofitto in quella direzione.
Il ragazzo sbuffò, poi si mise a rincorrerlo: non ci teneva a rimanere da solo in quei vicoli bui, specie a quell’ora della notte. Per quanto potesse benissimo difendersi in un duello, non aveva molte speranze se lo avessero attaccato in più persone: e sapeva bene che razza di persone abitavano quei luoghi.
«Costa state facendo?» la voce di Eler era autoritaria, e si rivolgeva a un duo di giovani fermi in mezzo alla strada. Uno reggeva un bastone, e sotto i loro piedi rilucevano frammenti di vetro.
Light digrignò i denti in un’imprecazione muta: chi erano? E che diavolo stava facendo Riou?
L’austriaco, senza alcuna cognizione di quel che era la realtà in quegli angoli del mondo, avanzava a passo cadenzato e sicuro verso i due uomini: «Questi sono danni agli edifici pubblici. Dobbiamo arrestarvi.»
Light si avvicinò cautamente, squadrandoli. Proprio come immaginava: giovani coetanei, panciotti costosi sbottonati per facilitare la demolizione di una lanterna appesa al muro di un edificio.
Era una moda diffusa ormai da parecchio tempo a Parigi, quella di distruggere brutalmente le illuminazioni stradali: nella demenza collettiva che aveva assalito la popolazione, il lume della ragione si era lentamente consumato, trascinando la Francia nelle tenebre. Quel gesto altro non era che una rivendicazione di quel degenerare di mentalità, costumi, menti.
“Siamo noi, i rampolli viziati di chi vi ruba il pane di bocca, con la nostra insolenza, a trascinarvi nel buio! Gioisci Francia, gioisci!”
Gli interventi della polizia erano radi, e soprattutto magnanimi: sui loro visi si leggeva la sicurezza di chi sa d’essere in netto vantaggio, una prepotenza baldanzosa aleggiava sulle espressioni un po’ brille.
«Senti, è meglio che te ne vai, morto che cammina!»
Eler ignorò l’insulto: «Vi consegnerò a chi di dovere.»
«Ma senti questo!» uno dei due lo prese per le spalle e lo spinse contro il muro «Potremmo cambiar gioco e decidere di distruggere la tua faccia! Che ne dici?»
Light non poté fingere indifferenza, e corse verso di loro: «Lasciate stare il mio amico, risolviamo la questione civilmente!»
Prese le spalle dell'assalitore, quando il bastone del compagno gli colpì la faccia con inaspettata violenza: e fu una fortuna, se solo il naso e il labbro superiore iniziarono a sanguinare. Scoppiando in un accesso di risa, l'uomo si distrasse: e bastarono quei pochi secondi perché le ultime risate gli finissero in gola, insieme a una scheggia di incisivo.
Osservò il volto sconcertato dell'altro delinquente, ancora rintronata dall’immagine di quel pugno che si schiantava sulla mascella dell’amico; deciso a dare una lezione a Light, aveva liberato Eler dalla sua morsa.
Avevano una manciata di secondi, prima che li sbranassero vivi.
«Vieni, Riou!» gli agguantò il polso e lo trascinò via, imbucando il primo vicolo che incontrò in una corsa perdifiato.
Dietro di loro sentivano i loro inseguitori incalzarli, intimando loro di fermarsi. Light strattonò Eler, facendogli cambiare bruscamente direzione nella speranza che prima o poi li avrebbero persi di vista: ma quelle voci, i loro passi affrettati, si facevano presto nuovamente vivi alle loro spalle.
La mente del ragazzo era un recinto di fiere impazzite che si attaccavano l’un l’altra: non aveva idea di dove fossero –i sobborghi in quel punto erano tutti maledettamente identici, ed erano immersi nelle tenebre-, e il suo fiato iniziava ad accorciarsi troppo. Sentiva ancora il rumore della mandibola dell’avversario che si rompeva sotto il suo pugno, e provò un brivido di terrore all’idea del contrappasso che avrebbe subito.
«Light, di qua!»
Si voltò, osservando il braccio allungato dell’amico: gli indicava un basso steccato di legno, dietro al quale vi era un minuscolo cortile.
Con uno scatto felino Eler s’arrampicò e si lasciò cadere dalla parte opposta: in pochi secondi, con un po’ più d’impaccio, Light lo raggiunse. Si ritrovarono tra una piccola catasta di legna e un mucchio abbandonato di fieno.
Erano accovacciati con le spalle contro lo steccato, vagamente nascosti dai ceppi d’albero; il giovane borghese non poté fare a meno di pensare, anche in quella situazione, alle costose scarpe che indossava, e che in quel momento navigavano nella fanghiglia maleodorante di quel buco. Probabilmente erano finiti in un porcile in miniatura, o in un punto di raccolta di immondizie, o chissà quale altro scempio. Non voleva nemmeno pensarci.
Passarono i minuti. Le voci dei delinquenti si erano prima incollerite, poi affievolite, e infine erano sparite insieme ai loro passi: nonostante questo, i due erano rimasti lì, immobili, uno accanto all’altro, in un’insensata attesa.
«Se ne sono andati.» la voce di Eler era un sussurro velatissimo.
«Probabile.» solo quando pronunciò quella parola, lo stomaco di Light sembrò sciogliersi dal nodo in cui si era aggrovigliato. Si voltò verso Eler, il cui viso era fisso su di lui: i loro fiati erano ancora affannati, un po’ per la stanchezza, un po’ per la paura, un po’ per il freddo che intirizziva i loro corpi. Ma nonostante questo, non poterono trattenere un sorriso di sollievo.
«Riou, hai della paglia tra i capelli.» Light gli indicò il ciuffetto corvino da cui spuntavano fuori due steli giallastri.
«Tu hai del sangue sulla faccia.» Eler poggiò l’indice sulla sua bocca e gli mostrò il polpastrello: era di un vivido color rubino.
Lo sapeva: percepiva il sapore caldo e ferroso del sangue fino in gola.
«Mi ha tirato il bastone in faccia. Sarebbe potuto andar peggio.»
Eler allungò nuovamente la mano verso il suo viso, toccandogli delicatamente il labbro superiore: «Ti ha dato comunque una bella botta.»
Il suo palmo era gelido e dolce, come la neve che quell’inverno non aveva imbiancato Parigi.
«Non mi sono rotto nulla, tranquillo. Fa solo un po’ male.»
Bianco come la neve. Pallido, puro, insensibile. Eppure, in quel momento, non solo il suo indice destro era tinto di vermiglio: sulle gote si stava facendo strada un innaturale rossore.
Era forse il freddo?
 
«Grazie di avermi aiutato, Light.»
Avvicinò con la mano il viso dell’altro al proprio, e lo baciò.
 
No, non era il freddo.
 
 
Non era scesa la neve quell’anno, a Parigi. Era stato un anno freddo, lugubre e gelato, che aveva inasprito i cuori della gente: ma sarebbe bastata una scintilla sola, a riscaldare l’animo di quella città.
Light sentì quel vago attrito, un doloroso e istantaneo brivido che gli attraversò il cuore: e divampò un fuoco sulle sue labbra, sul suo viso, in tutto il suo corpo.
Più calore aveva, più ne voleva: avidità e lussuria s’unirono, sbocciando in un unico, prolungato bacio.
Era la passione genuina e disarmoniosa di chi è alle prime armi con l’amore: ma poco importò a Riou se l’altro gli morse il labbro, e a Light non interessava la sua eccessiva foga. Nelle loro imperfezioni, percepirono una perfezione superiore: ed era quel bacio, così bello, così potente.
Potente e distruttivo.
 Si staccarono, ansimando ancora. I loro respiri si condensavano velocemente in sbuffi biancastri davanti ai loro visi.
Eler cercò di dire qualcosa, ma le parole gli morirono in gola più volte; Light riprese a baciarlo.
Non era il momento adatto per parlare. Per parlare c’era tempo: si sarebbe visto in seguito, avrebbero sistemato tutto. In quel momento, aveva lo spasmodico bisogno del calore della bocca di Riou, inasprito dal sangue delle proprie ferite che ancora gli bagnava le labbra.
Non gli importava del freddo, del dolore, del maledetto posto in cui si erano rifugiati: si stavano baciando. Al di fuori di questo non vi era nient’altro.
 
 
Sedevano in silenzio, contemplando due punti diversi del cortiletto. Non erano immersi in un pensiero preciso: tutt’al più, Light stava prendendo coscienza della differenza di sensazioni tra quelle appena sperimentate e quelle con Mélisande.
Anche quando i loro corpi si univano con tremendo ardore, non era per nulla paragonabile all’effusione relativamente casta che si erano scambiati.
Ma questo era solo l’aspetto più superficiale di quell’enorme guaio.
Una fitta gli trapassò il ventre, riempiendolo di ansia e panico; le sue mani si aggrapparono alla manica di Riou, nel disperato tentativo di non affogare in quelle emozioni. L’altro lo strinse a sé per rassicurarlo.
«Tranquillo. Non è successo niente. Ci sono qui io, con te.»
Ma non si contraddicevano, quelle frasi? La presenza di Riou accanto a lui, quel contatto… poteva davvero esser definito “niente”?
Desiderò ardentemente di avere il Quaderno della Morte con sé, in quel preciso istante; ne immaginava le pagine colme di nomi, trasudanti di giustizia incrollabile, di uno scopo supremo.
Avrebbe fatto quel che in quel momento gli sembrava più giusto: vi avrebbe scritto il proprio nome, mettendo fine a quell’ignobile degenerazione dei suoi comportamenti.
Aveva perso. Con quel bacio aveva perso contro Eler.
«Light, devi promettermi una cosa.»
«Parla.»
«Non è mai successo niente.»
«Tranquillo. Nessuno verrà a sapere.»
«No, Light. Non mi importa che si sappia o no, ma… non deve essere successo, e basta.»
Calarono alcuni secondi di silenzio.
«Va bene.»
 
Presero strade diverse, come per sancire la verità di quell’ultimo accordo; e Light, nella sua passeggiata notturna di ritorno a casa, sentì quelle sensazioni sgradevoli perire nel suo petto, e al loro posto farsi strada una certa sicurezza.
Già, non era successo niente.
I suoi piani erano quindi immodificati, integri, incorrotti; e lo era anche il suo cuore, il suo destino, il suo futuro!
Sogghignò alla luna nascente: no, non aveva perso affatto.
Aveva soltanto trovato qualcosa che costringeva Eler a un parziale silenzio: in qualche modo, la partita si era definitivamente ristretta a loro due. Il giovane investigatore non avrebbe più avuto alle sue spalle il corpo di polizia, già sospettoso e scettico davanti al suo operato.
La Giustizia avrebbe vinto.
“Vincerò“.
Sentiva ardere qualcosa nell’animo, e la interpretò immediatamente come la fiamma combattiva del suo spirito che si preparava alla vera battaglia.
In realtà, quel calore non si era generato da solo: ve lo aveva instillato Riou con quel gesto indiscreto. Ma un Dio, abituato a relazionarsi con un immenso e infinito universo, rimane sbaragliato davanti al microcosmo delle emozioni terrene: e inevitabilmente, non le comprende.










Note Autrice.

E finalmente, le cose iniziano a farsi ... yaoi.
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, recensite per farmi sapere il vostro parere.
Fonti: Jacques Wilhelm ”La vita quotidiana a Parigi ai tempi del re Sole” (rispetto all'esistenza delle lanterne e all'usanza di farle a pezzi. #truestory, insomma.)
I nomi: Mélisande→Misa Amane, Theo Maxime→Teru Mikami. 

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Capitolo 6
*** È finita. ***





“Chi è destinato alla forca non annega.”
 

Lo fece quasi senza rifletterci: scavalcò il muricciolo che lo separava dall’acqua nera come la pece e si gettò tra le spire malefiche della Senna.
Riemerse dopo pochi secondi: le membra gli si erano completamente irrigidite, e sentiva l’impellente bisogno di vomitare. La corrente, né impetuosa né placida, lo portava via, sommergendolo a tratti. Dall’alto, già ormai distante, Eler osservava l’acqua scura, alla ricerca del fuggiasco. Per un secondo -un terribile secondo- Light temette che si sarebbe tuffato anche lui in un inseguimento a nuoto; ma dopo un po’, con un gesto di collera, l’investigatore se ne andò.
La luna vegliava sulla scena, guardando Light con amara disapprovazione; ma al ragazzo non importava del giudizio dell’Universo, in quel momento: era salvo, e fradicio e alla deriva ma vivo, maledettamente vivo.




 
Non vi è linguaggio più universale e al contempo interpretabile di quello corporeo: il suo significato può essere evidente e scontato oppure oscuro e incomprensibile. Per sfortuna di Light, il corpo di Eler non faceva che mandare messaggi incoerenti e criptici, trascinandolo lentamente nella pazzia.
«Stasera cosa farai, Light?»
«Vedrò Mélisande. Ceniamo insieme.»
Eler annuì, prendendo atto della propria solitudine. Sentendosi quasi in colpa, l’altro aggiunse: «Se vuoi possiamo vederci domani. C’è uno spettacolo a teatro che potrebbe piacere ad entrambi.»
Sul viso di Eler si allargò un sorriso benevolo: «Grazie, ma penso che lavorerò.»
Sembrava si ingegnasse per confonderlo: ciò che diceva non corrispondeva alla sua espressione, ai suoi movimenti. In presenza di altri sembrava volerlo mettere in imbarazzo: gli stava appresso con la dedizione –o insistenza- di una moglie premurosa; quando erano soli –e faceva in modo che succedesse spesso- a volte frapponeva tra loro distanza e pudore in modo innaturale, a volte invadeva deliberatamente i suoi spazi vitali.
Tuttavia, non si era mai spinto tanto da replicare l’irreale teatrino avvenuto ben tre settimane prima in quel lurido cortiletto, un piccolo giardino dell’Eden dove avevano consumato il loro delitto.
«Che dovrai fare domani? Mio padre continua a sfruttarti?»
«È normale che i disordini civili lo interessino più del caso per il quale sono qui. A volte è difficile distinguere le morti del nostro omicida da quelle operate dai rivoluzionari.»
Ma Light sapeva che in realtà Eler era capace di distinguere perfettamente gli uni dagli altri. Ormai per il Dio era un incubo diurno: scriveva sempre più nomi, ad orari discontinui, a notte fonda o in presenza degli altri poliziotti, rischiando di farsi scoprire sempre più spesso. Nonostante i suoi sforzi, Eler ne riconosceva sempre il modus operandi. Incombeva su Light, leggendogli nel pensiero, prevedendone le mosse e stringendo sempre di più il cappio intorno al suo collo.
Si svegliava nel cuore della notte, coperto di sudore freddo e con il fiato corto: nel sonno le mani dell’investigatore lo additavano come colpevole e lo soffocavano. Un gelo disumano gli scaturiva nelle ossa, come se tutti gli uomini da lui uccisi lo coprissero con il loro pneuma mortifero. Ma la cosa più dolorosa era che sapeva, immerso nel freddo del suo letto solitario, di desiderare il calore di quel bacio un’altra volta. Desiderava l’abbracciarsi dei loro corpi, e il suo respiro caldo tra i capelli; in preda alla tristezza e alla vergogna si abbandonava a un sonno ancor più tormentato.
«Ci si vede domani mattina, Riou?»
«Come sempre.»
Sì, sempre, all’infinito, come l’ardente tortura dell’Inferno – eppure lui bramava quel calore…-
«Passa una bella serata.»
«Anche tu.»
Eler gli scostò i capelli dagli occhi con l’indice.
«Dovrei tagliarli.» mormorò l’altro, imbarazzato da quel gesto.
«E con che scusa potrei sistemarteli, se tu li tagliassi?»
La sua mano gli sfiorò vagamente la guancia, prima di ricadere lungo il fianco.
Light cercò di ridacchiare, ma il tentativo gli morì in gola. Eler lo guardava con occhi né seri né ironici, solo sinceri: come se quella domanda fosse la più legittima dell’Universo.
«Curati dei tuoi capelli, non dei miei! Hai una zazzera che ti si scambierebbe per un mozzo di un peschereccio!» gli scompigliò la frangia, e i due si misero a ridere.
Quella domanda aleggiò nella mente di Light per ore, infestandogli il sonno.
Tra lui e Riou scorreva una terribile mescolanza di complicità, casualità, finzione e incomprensibili –o solamente inesprimibili?- emozioni.
La necessità di ucciderlo si faceva sempre più pressante.

 
«Che piacere rivederti, Light.»
Il ragazzo sorrise garbatamente, con quell’angolo della bocca alzato infido e sornione.
Da quanto tempo non vedeva i suoi compagni in quelle situazioni di eccitante segretezza? Da quasi due mesi sedeva a tavoli di locande con la semplice compagnia di Eler, e in rare occasioni di altri poliziotti; ma quella sera era circondato da una dozzina di uomini, accalcati intorno a quella stretta e intima tavolata, leggermente ebbri di vino, completamente ubriachi di rivoluzione.
«Avete più saputo nulla di Roux e gli altri?»
«Ancora in prigione. Penso che ci resteranno per un bel po’. Non possiamo esporci per aiutarli, purtroppo.»
Tutti i presenti annuirono mestamente –alcuni con sincero rammarico, altri solo felici di non dover rischiare la pelle-.
Light beveva a piccoli sorsi il vino che aveva davanti. Ottima annata, un sapore afrodisiaco, ma che comunque non riusciva a distogliere la sua attenzione da pensieri contorti e angoscianti: Mélisande, che con la sua ingenuità avrebbe potuto tranquillamente far scoprire ad Eler che non era stato con lei; l’interesse della polizia per i gruppi di rivoluzionari come loro; la duplice colpa, davanti agli occhi di un giudice, che avrebbe avuto Light in quanto sovvertitore e pluriomicida. Nulla lo avrebbe salvato da un patibolo.
La mano di Theo Maxime gli colpì la spalla in un gesto di solidarietà: «Tutto bene, amico?»
Light annuì: «Sì, scusatemi tutti. Potete immaginare in che situazione pressante mi trovi, ultimamente.»
«Ci sei dentro fino al collo, eh?» borbottò irrisorio un barbuto quarantenne «Brindiamo al giovane Dieunuit, che passa tutta la giornata in mezzo ai cani e riesce a non farsi mordere.»
«Sì, in mezzo ai cani!» esclamarono alcuni, e tutti colsero l’occasione per tracannare altri bicchieri di vino.
Theo Maxime continuava a guardare Light con espressione pensosa e quasi inquietante. Lo si poteva descrivere in generale solo con questi due aggettivi: pelle pallida, naso e mento affilati e severi, capelli corvini che gli scendevano lunghi e tristi fino a toccargli le spalle. Aveva finito l’Università l’anno in cui vi era entrato Light, e si era laureato con il massimo dei voti: composto, metodico, maniacalmente preciso, integerrimo e altezzoso. Sebbene su alcune cose differissero per idee e comportamenti, tra i due vi era una forte e inconfessata ammirazione reciproca, anche se non avevano mai avuto un rapporto che si potesse definire amicizia.
«Light, volevo... volevamo, proporti una cosa.» disse, con aria pacata e al contempo estremamente autorevole.
«Ti ascolto, Theo.» il ragazzo si sistemò sulla sua sedia, mostrando quanta più tranquillità fosse possibile.
«Ultimamente hai sempre appresso un poliziotto strano…»
«Riou. O Eler, L, nessuno ha idea di come si chiami veramente.»
«Bene, vedo che capisci di chi si parla. Arriviamo al punto: da quando è arrivato lui, la polizia ha iniziato a darci la caccia e stanarci con caparbietà e soprattutto con molti più risultati. Non fraintendermi: non sto teorizzando un tuo coinvolgimento, anzi! Spesso non sapevi nemmeno di incontri che la polizia è riuscita a sventare, come quello in cui i nostri compagni sono stati catturati. Siamo convinti tutti che la presenza di quell’uomo sia una delle principali cause del pericolo che incombe su di noi, e penso che tu lo viva in prima persona tutti i giorni.»
Ah, se solo avessero saputo la molteplicità di rischi che affrontava ogni singolo secondo, accanto a Riou! Ma lasciò che Theo finisse il suo discorso, senza fare alcun cenno.
«Insomma, Light: bisogna sbarazzarsene assolutamente.»
Improvvisamente si sentì rincuorato: era il Destino che gli veniva in aiuto, che gli indicava la strada precedentemente persa di vista! Non aveva bisogno di convincersi ad ucciderlo, gli era imposto come dono e onere dalla vita stessa. Non c’era motivo né occasione di tirarsi indietro. Inoltre, non erano chiare le sue intenzioni? Non era ovvio che Eler si stesse prendendo gioco di lui, che stesse creando i fili per manovrarlo come una marionetta?
Non l’avrebbe fatta franca, mai! Il giorno del suo giudizio sarebbe presto arrivato.
Forte di queste convinzioni, brindò alla rivoluzione con i suoi compagni.
«Amici, c’è però una cosa che probabilmente non sapete e complica tutto: non è una persona che passa inosservata, è sempre sorvegliato da qualcuno. È stato mandato dalla Regina d’Austria in persona, e se si è investigatori noti a livelli simili, difficilmente ignorerebbero la tua morte. I rischi sono altissimi.»
Maxime, che con il tacito accordo di tutti si era preso l’incarico di presidiare l’impresa, fissava il tavolo in modo pensoso: «Che consigli di fare?»
«Se volete ucciderlo, dovete coglierlo in mezzo alla mischia. Appena avviene una rivolta, o comunque un affollamento di persone, infiltratevi immediatamente: a quel punto io lo porterò da voi.»
«Il Re ha convocato per i primi di Maggio gli Stati Generali: di sicuro la polizia dovrà essere a presidiare il luogo, e chissà che folla si radunerà fuori!»
«Sarebbe l’occasione perfetta.»
«Maggio? Mancano mesi!» esclamò uno dei presenti, irrequieto.
Light annuì: «Ma in proporzione al tempo che abbiamo passato ad aspettare, sono quisquilie.»
Theo concordava con lui: «Hai ragione. Tu, Light, cerca quanto più puoi di tenerlo lontano da noi.»
Oh, come già si adoperava a farlo! Spendeva buona parte delle sue energie cercando di contrastare la sua presenza e il suo operato, ma i risultati erano assai scarsi.
Ma l’impresa non risultava più del tutto impossibile: Xolotl avrebbe accolto la sua anima nuda e fragile tra le sue fauci. A quel pensiero un brivido gli corse per la schiena, e lo spinse ad ordinare altro vino.
 

Light, Theo e altri quattro uomini uscirono insieme, salutando i commensali. Ridacchiavano e parlavano con disinvoltura, come chi non ha nulla da nascondere.
Il giovane Dieunuit osservava distrattamente il viso del compagno che gli parlava, quando alle sue spalle scorse un manipolo di uomini che si avvicinava a loro: e, inconfondibile anche nella penombra, Eler capeggiava il gruppetto con una camminata spedita.
I suoi muscoli si irrigidirono di colpo, paralizzandolo e stringendogli i polmoni; ma la morsa della sorpresa era più debole di quella della paura.
«Che succede?» mormorò Theo, preoccupato dal suo cipiglio.
«Correte!» biascicò, e voltando loro le spalle si lanciò in una corsa disperata per la via.
La reazione fu immediata: appena i compagni di Light iniziarono ad allontanarsi, le intenzioni degli uomini che si avvicinavano furono del tutto smascherate; non si fecero più problemi a fingersi passanti, e si gettarono a capofitto verso di loro.
 

Light ansimava: l’aria notturna era fredda, e gli scendeva per la gola a fatica, rendendogli difficoltoso e doloroso ogni respiro. Il vino che aveva ingurgitato –che sciocco gesto, che sciocco era lui!- gli ribolliva nelle vene e gli faceva venire forti capogiri.
 Con la stessa foga con cui tempo prima aveva corso al fianco di Riou, ora gli sfuggiva disperatamente; sentiva dietro di sé le urla dei poliziotti, e i respiri dei compagni: dispersi come bestie rincorse da un branco di lupi, si lanciavano nelle direzioni più disparate, perdendosi l’un l’altro.
Light sapeva con certezza assoluta che Eler gli stava alle calcagna, e che aveva scelto lui come vittima sacrificale: l’agnello fuggiva, e il coltello del carnefice lo inseguiva fedelmente in ogni angolo di quella lurida periferia.
Lanciò uno sguardo dietro di sé, rischiando di inciampare in un pezzo di lastricato sconnesso: sì, era proprio lui ad inseguirlo. E non poteva essere altrimenti: luce e tenebra non si possono dividere, esistono una in virtù dell’altra. Ma quella sera non si sarebbero dovute toccare, assolutamente: o una mannaia avrebbe staccato la testa del giovane dal resto del corpo .
Light cercò di ragionare in modo lucido: dove poteva andare, dove? Conosceva bene il fiato dell’altro, e in una corsa simile avrebbe sicuramente vinto l’investigatore.
Dove poteva scappare, dove?
Improvvisamente la strada che stava percorrendo gli sembrò familiare: e nel momento in cui sfrecciò accanto a una serie di lanterne rotte e mai riparate, capì. Era la strada che percorrevano solitamente nel verso opposto, diretti verso le proprie abitazioni!
A una manciata di minuti c’era il ponte da cui di solito osservavano il sole che si congedava dalla sua giornata lavorativa.
«Fermati!»
Probabilmente non aveva mai sentito la voce di Eler così autoritaria, e il suo accento straniero così marcato: fece uno scatto disumano, e si diresse verso il fiume.
Quanti minuti aveva prima che quello lo raggiungesse? uno, due? Mezzo? Gli stava già afferrando il cappotto svolazzante?
Non voleva la cattura, l’onta, le accuse ingiuste, la prigionia! Non voleva gli occhi del padre devoto e della madre servizievole delusi! Ma soprattutto non voleva morire, non voleva morire!





Eler gli fece cenno di entrare nello studio di Sigismond.
Light lo seguì con finta scioltezza, che si dissolse nel momento stesso in cui l’altro chiuse la porta alle loro spalle.
«Che devi dirmi, Riou?»
L’investigatore sospirò, titubante. Light non aveva mai letto una simile incertezza su quel viso, e ne era terrorizzato.
«Riou, stai bene? Che succede?» allungò la mano verso il suo braccio quasi con premura, ma Eler gli afferrò il polso: e Light capì, ma era troppo tardi.






Era arrivato al ponte, intenzionato ad oltrepassarlo; ma gli mancavano ancora un paio di passi, quando inciampò e cadde in avanti: l’impatto gli strappò un urlo di dolore, che all’altro sicuramente non sfuggì. Si strinse il braccio, ansimante e dolorante: la manica della camicia si era lacerata, e il terriccio si era mischiato al sangue di una ferita superficiale ma vistosa. Si voltò velocemente: nonostante il buio, vedeva la sagoma di Eler che era a una decina di metri da lui.
Vedeva la prigione, sentiva il cigolare delle manette e la fredda lama della ghigliottina. sentiva i fuochi brucianti dell’Inferno corrodergli la pelle, e le urla lancinanti dei condannati eterni che gli trapassavano la mente.
E allora preferì gli abissi gelidi, l’abbraccio oscuro e freddo dell’acqua del fiume.




 
Light respirava a malapena, e sentiva il sudore invadergli il corpo: doveva essere una vista ben poco piacevole, lì, con quell’aria da persona per bene e i vestiti pregiati, che si affannava con atteggiamento colpevole. Si sentiva patetico al punto che solo guardarlo doveva essere una sofferenza assoluta: ma negli occhi di Eler si leggeva un dolore ben più acuto, più lacerante, più distruttivo. Delusione.
Aveva dormito poco, quella notte: si era trascinato per ore, fradicio, tra le strade di Parigi. Aveva rischiato di morire assiderato, e un paio di volte aveva vomitato in un vicolo: ma alla fine era arrivato a casa, si era chiuso la porta alle spalle e si era lasciato andare ad un sonno breve e profondo. Aveva pensato che quella mattina sarebbe bastato un lungo bagno per togliersi di dosso il puzzo delle acque del fiume e anche la colpevolezza, ma così non era stato.
Cercò di dimenarsi un’ultima volta, ma la presa dell’altro sul suo polso era salda: e in fondo, non c’era più da agitarsi. Non vi era modo di scappare.
Eler gli scoprì l’avambraccio: la ferita di Light, malamente rimarginata, si mostrò in tutta la sua bruttezza e colpevolezza.
Era finita.










Note Autrice.
Ci ho messo parecchio a pubblicare questo capitolo, e me ne rammarico. Spero vi sia piaciuto, non lo ritengo un gran capolavoro, ma mi ha aiutato a liberarmi dalla morsa del blocco dello scrittore. Spero che il titolo del capitolo non vi abbia fatto spaventare troppo! Tranquilli: buona parte del capitolo 7 è già stata scritta, quindi spero di pubblicarlo presto. Per vostra sventura, non è finita affatto.
La storia inizia a prendere forma e a complicarsi: speriamo di uscire vivi da quest'intreccio. Io soprattutto spero di riuscirci!
Buone vacanze di Natale a tutti! ♥

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Capitolo 7
*** Memento! ***





~
I can't make my own decisions
or make any with precision
maybe you should tie me up
so I don't go where you don't want me

if God's the game that you're playing
we must get more acquainted
because it has to be so lonely
to be the only one who's holy?
~








 
Il buio che li avvolgeva era spezzato solo da un sottile spicchio di luna, che rischiava vagamente i loro profili. Light poteva scorgere il corpo dell'altro sotto le sue stesse lenzuola e il luccichio malefico delle manette che li univano.
Erano un compromesso stabilito tra Sigismond e il detective austriaco: una catena di due metri, o poco più. Questa era la distanza che era stata decisa per separare il giovane Dieunuit dalla prigione o dalla forca: in cambio della sua vita, il padre aveva dovuto accettare che il figlio fosse costantemente sorvegliato da quello stravagante e inquietante soggetto. Ma che importava quanto misurasse? Il problema stesso era la sua esistenza materiale, la convivenza forzata dei due.
Per Light sembrava che il silenzio fosse completamente sparito dalla sua vita: anche nella più totale assenza di rumori esterni persisteva il metallico tintinnare delle manette. Nelle tenebre di quella prima notte, per di più, anche tenendo immobili le catene, il respiro di Eler gli invadeva le orecchie, la testa, il petto: l'unico modo per ignorarlo era coordinarlo al proprio, ma Light aveva una tremenda paura e non osava farlo. Sarebbe stato come accogliere il respiro dell'altro nei polmoni, stringere una intima collaborazione per vivere, un connubio delle loro esistenze!
Non poteva avvicinarsi ancor di più a lui.
«Light?»
Il ragazzo rimase immobile, cercò di fingersi addormentato.
«So che sei sveglio.»
Si voltò bruscamente verso Eler, immobile accanto a lui con aria pacata e amichevole: «Come mai non riesci a dormire?»
«Potrei chiederti la stessa cosa, Riou.»
«Io sono abituato a non farlo, ma sarebbe meglio per te se ti addormentassi.»
«Ti preoccupi della mia salute. Molto coerente, per una persona che mi voleva mettere in prigione fino a qualche ora fa.»
«Non potevo ignorare dei sospetti fondati, è una questione di onestà. Come potrei definirmi un poliziotto, se non fossi onesto e imparziale?»
Light sbuffò con aria irritata e piena di disapprovazione: «Onestà. Bella parola, davvero; peccato che sia inappropriata, in bocca a te.»
Il viso di Eler assunse subito l'espressione di chi è stato stuzzicato nel suo intimo orgoglio: «Sono onesto, e sempre onestamente mi sono comportato tanto con i miei superiori quanto con te.» Il suo perfetto francese inciampava goffamente.
«Questa è una bugia, non puoi negarlo.»
«Non ho palesato i miei sospetti, certo, ma era legittimo e soprattutto essi erano ovvi: sono sicuro che già li avessi capiti. Sono stato sincero dall’inizio alla fine.»
«Certo, sincero…» disse con un risolino ironico.
«Perché ridi, è la verità.»
«Allora diciamo tutto come sta!» disse iroso «Sincerità, onestà… belle parole, ripeto! Usa la bocca solo per parlare, però, perché baciarmi e assumere atteggiamenti fraintendibili per inguaiarmi non è stato affatto onesto!»
Ci fu un attimo di silenzio, interrotto solo dai loro respiri scoordinati.
«Tu pensi che io lo abbia fatto per questo?» mormorò Eler.
«Che altro motivo avevi, se non quello di ricattarmi?»
L’altro rimase in silenzio per un po’, poi si girò sul fianco e diede le spalle allo sconvolto interlocutore.
«Non posso sopportarti.» gli mormorò Light, che scivolava lentamente in una crisi nervosa.
«Senti…»
«Che vuoi ancora?»
«Quello è stato probabilmente il gesto probabilmente più sincero che io ti abbia riservato. No so se mi delude il fatto che tu non lo abbia capito, ma era decisamente prevedibile e non te ne farò una colpa. Anzi, forse è stato un bene.»
Il cuore di Light risalì lungo la gola del ragazzo, che provò testardamente ad ignorarne la presenza: «Tu farnetichi. Quel che dici non ha alcun senso.»
«Non è un concetto così complicato.»
«Spiegati, allora!» e nemmeno lui sapeva se quello che desiderava fosse che le sue intuizioni fossero confermate o smentite: sarebbe stato un bene o un male? Da una parte il sollievo di condividere quelle emozioni  nuove e profane, ma dall’altro la loro tremenda innaturalezza e scomodità.
Eler giocherellò con l’angolo sfilacciato del suo cuscino, come per tenerlo con il fiato sospeso ancora per un po; rigirò alcune parole tra le labbra, poi le sussurrò: «Mi attrai parecchio, Light. Tutto qui.»
Quelle parole lo travolsero come un fiume in piena: l’acqua gelata gli corse lungo il corpo, giù nei polmoni, intorpidendogli ogni muscolo e rendendogli impossibile il respiro. Sentì la propria anima liquefarsi e scorrer via in quel torrente trascinante, lasciandolo inerme, puro e al contempo vuoto: e che altro effetto avrebbero potuto avere quelle parole?
Tutto si era devastato, spazzato via dall’irruenza dell’acqua. Rimanevano loro due, inermi mortali sul letto del fiume, spiriti nudi e freddi.
Light si avvicinò a Riou, suo unico compagno in quella valle di nulla assoluto: non senza titubanza, lo abbracciò stringendosi alla sua schiena. L’altro non si mosse, anzi, sollevò un poco il busto perché le braccia dell’altro potessero cingerli completamente il busto. Nessuno dei due osò parlare ancora: qualsiasi frase avrebbe rotto quell’equilibrio precario per cui i due riuscivano ad assumere un simile atteggiamento, dimenticando qualsiasi cosa che non riguardasse quel preciso istante.
Non importava più, in quella frazione di tempo, del mondo esterno: il Quaderno della Morte, la rivoluzione, il caso che Eler stava risolvendo, gli amici rivoluzionari… nulla aveva più un significato rilevante, davanti a quell’abbraccio. Il maledetto diverbio da tra bene e male era una sciocchezza, una frivolezza che poteva essere accantonata in un angolo, almeno per quella notte.
Stretti sotto la segretezza delle coperte e consolati da quell’intima solitudine –perché l’inondazione della verità aveva lasciato vivi solo loro due-,  si addormentarono.
 
 
 
 
«Sbrigati a prepararti.»
«Dove andiamo a far colazione?»
Light scrollò le spalle, allacciandosi velocemente la camicia: «Dove preferisci.»
Eler annuì, mentre con fare placido e tranquillo indossava i suoi umili vestiti. Per chi lo vedeva dall’esterno era facile scambiarlo per l’apprendista di un calzolaio, ma chi viveva a stretto contatto con lui –e chi, più di Light?- sapeva quanto altolocata fosse la sua posizione.
Light notò vaghi segni biancastri sulla sua schiena. La sua discrezione gli impedì di far domande, ma all’altro non sfuggì il suo sguardo: «Ero un ragazzo vivace. Prendevo molte botte dalle suore, ma non posso dire che non avessero ragione.»
Light annuì, senza voler troppo capire cosa questo sottintendesse: Eler era complicato da affrontare al presente, conoscerne il passato lo avrebbe reso solo più pesante e incontrastabile per l’animo del dio incatenato.
«Vado in bagno, non scappare nel frattempo.»
Light fece un risolino: «Sissignore.»
Appena l’altro sparì, si gettò verso la propria scrivania: che fortuna disumana, che l’investigatore non avesse frugato tra i suoi cassetti disordinati!
Cercò tra i fogli e i libri gettati alla rinfusa, reliquie del suo tranquillo e glorioso passato da studente: quasi lo rimpiangeva, nella sua situazione di divinità decaduta.
Doveva trovare quel quaderno e nasconderlo sotto qualche asse sconnessa, oppure strapparne la copertina e… no,  no! Chi gli assicurava che questo non gli avrebbe causato problemi? Tante volte si era domandato dove risiedesse il fulcro di quel potere, e non doveva intaccare nemmeno un angolo di quello strumento demoniaco, per mantenere vivo il suo potere. Ma dov’era, dov’era il Quaderno della Morte?
Aprì l’ultimo cassetto con una furia quasi disperata: in cima a una risma di fogli usati vi era un piccolo foglietto sgualcito, fermato da un ciottolo raccolto palesemente dalla strada.
Lapidarie come le tristi frasi di un’epigrafe, ecco le parole che quel misterioso e terribile messaggio portava: “È in un posto sicuro.”
 
 
Inizialmente Light aveva valutato quel compromesso delle manette scomodo e preoccupante: ma in quel momento, davanti agli occhi stupiti dei parigini più mattinieri, lo considerava soprattutto imbarazzante.
Eler, invece, sembrava terribilmente a suo agio; questo non faceva che indisporre maggiormente il giovane Dieunuit, la cui mente era già affollata da ben più grandi preoccupazioni.
Il quaderno era sparito, e lui non aveva idea di come fosse possibile; o meglio, non riusciva ad accettare l’idea che qualcuno fosse sgusciato in casa loro di notte, vedendoli abbracciati e teneramente assopiti insieme, per sottrargli un oggetto tanto prezioso e pericoloso.
Inoltre, per quel che Light sapeva, solo una persona era a conoscenza del suo onere di giustiziere: ma i suoi tratti già si mescolavano nella memoria, divenendo confusi e a tratti quasi fantasiosi e inverosimili.
«Il suo tè, signore.» disse una voce roca con forzata gentilezza.
Prese la tazza, ringraziando il cameriere con un cenno del capo, e iniziò bere lentamente la bevanda quasi bollente. Il suo sapore lo stupì: non aveva mai assaggiato una miscela simile. Non riusciva nemmeno a dire se fosse meglio del normale tè indiano che importavano a Parigi, da quanto quel gusto fosse differente da ciò a cui era abituato.
Iniziò a chiedersi da dove provenisse: un aroma delle Americhe? Africa? O una qualche particolare coltivazione del Sud dell’India?
Varie immagini gli attraversarono la mente: i fiumi imponenti del Nilo, del Gange e del Rio delle Amazzoni; i profumi inebrianti delle spezie, il fruscio delle secche erbe della savana e il rumore degli acquazzoni nelle foreste pluviali.
 
Eler si voltò verso Light: barcollava leggermente, chinando inconsciamente la testa come in preda a un sonno terribile.
«Ti senti bene?» gli chiese, perplesso.
L’altro si fermò, trovando molto difficile l’operazione di sostenere il peso del proprio corpo; annuì velocemente, poi biascicò: «Tranquillo, possiamo andare.»
Uscirono dal locale, ma dopo pochi passi Light divenne una zavorra attaccata al polso di Eler. Il giovane austriaco gli rivolse nuovamente la stessa domanda, ma la risposta fu decisamente più eloquente: le pupille di Light si voltarono, e il giovane cadde in terra privo di sensi.
 
 
 
 
 
 
 
La cosa peggiore dell’oblio è la sua consistenza densa e pesante.
Ti saresti mai immaginato che fosse così, Light?
Ingoia ogni movimento, ogni respiro.
Sprofondi, come in un oceano di silenzio e rumori che l’orecchio umano non riesce a comprendere.
E improvvisamente non sei che un frammento di nulla, nell’immensità dell’universo.
 
 
 
 
 
 
«Chi si rivede.»
Light non riusciva a prendere coscienza del proprio corpo: dov’era finito, quell’ammasso di carne? Era solo, barcollante, etereo.
Chi gli parlava?
«Non pensavo che bastasse così poca Nectandra per portarti qui… meglio per me.»
Quella voce gli sembrava familiare. L’aveva sentita poco prima… poco prima di cosa?
«Che cosa stai farfugliando? E chi sei, dannazione!»
«Ti sei già dimenticato?»
Quella cadenza nell’accento, il tono sarcastico e la risatina soffocata e grottesca. Il cameriere? Sì, il cameriere! E purtroppo non solo lui!
«Sei… sei tu? Il sacerdote, o come ti sei fatto chiamare ...»
«Non ricordi nemmeno a chi hai offerto la tua anima... Sei ridicolo. In ogni caso preferisco essere chiamato sciamano.»
«Dove sono?»
«Non capisci nulla, vero? Qui non sei.»
«Voglio andarmene. Non riesco a respirare.»
«Te ne andrai presto, non preoccuparti; ma non prima di aver pagato un pedaggio.»
L’agitazione crebbe in lui, trasformandosi rapidamente in panico: «Cosa stai dicendo? Io non ti devo niente!»
«Non ti preoccupare, non è nulla di doloroso… Ma anche se lo fosse, non te ne ricorderesti.» di nuovo quella risata infernale, fredda e pungente.
«Ti prego… ti prego, lasciami andare… Cosa ho fatto di male?»
«Ti sei cacciato in grossi guai, Light Dieunuit. Non posso rischiare che il mio prezioso quaderno rimanga in mano a una persona imprigionata come te… Presto scopriranno te e i tuoi amici, e allora ti impiccheranno, e Xolotl sarà estremamente felice di ricevervi. Sono già molto generoso con te: per farti tacere non mi sto prendendo la tua vita, ma semplicemente la tua memoria.»
Una mano raggrinzita, grigia e putrefacente fuoriuscì dall’informe massa dell’oscurità, puntando le unghie giallastre verso di lui: e a quel punto Light, in preda a un destabilizzante déjà-vu, ricordò.
Quella stessa mano si era avvicinata alla sua fronte alcuni mesi prima, con lo stesso identico gesto, accompagnato da delle parole che solo in quel momento risuonavano nella loro terribile verità: ”Voglio solo la tua memoria. Nel caso la tua fedeltà a Xolotl venisse a mancare.”
«No! Ti prego, posso essere ancora utile al tuo Dio! Io posso ancora donargli un sacco di vite, datemi una possibilità, una sola…»
«Ormai ti sei legato al diavolo, come potresti essere un Dio?»
Si riempì di vergogna e di furore: «Mi libererò di quelle manette, lo giuro!»
 
«Le manette?!» un’ultima, tremenda risata risuonò in quell’anfratto di cosmo.
 
«Proprio non ci arrivi, vero, Light Dieunuit?»
 
 
 
 
 
 
Mille spilli gli trapassavano il cranio, il gomito sinistro pulsava innaturalmente in preda ad un fioco dolore: dove si trovava? Gli sembrava di essersi risvegliato da un sonno profondo quanto lungo, come se l’eternità si fosse appena interrotta.
Era sdraiato su delle lenzuola candide e familiari: aprì con difficoltà gli occhi e si guardò intorno. Impiegò un paio di secondi a realizzarlo, ma era in camera sua, al sicuro.
«Light?»
Il ragazzo si voltò: Eler lo guardava con sorpresa dall’uscio. Era a piedi nudi, indossava solo i pantaloni e la maglietta con le maniche rimboccate: tra le mani aveva un panno umido, che probabilmente intendeva posargli sulla fronte.
«Ciao, Riou.» la sua voce era roca e impastata, ma l’altro sembrò entusiasta di quei blandi segni di vita: gettò in terra lo straccio –non aveva mai, mai fatto nulla di così palesemente emotivo davanti a Light prima d’allora- e, gettandosi sulla sponda del letto, lo strinse in un abbraccio soffocante.
«Ti sei svegliato, finalmente.» mormorò, facendogli sentire il respiro caldo sul collo.
«Hai intenzione di soffocarmi? Dai spazio ai miei polmoni.»
Eler allentò la morsa e si alzò a rimirargli il viso.
Light si sentiva profondamente confuso, la sua mente era al contempo assopita e scombussolata; ma la vista di quel volto amichevole lo rincuorò, e non poté fare a meno di sorridere.
L’altro sembrò vacillare, cercando di mantenere un’aria contenuta e apatica come al solito: ma la farsa durò pochi secondi. Si abbassò verso di lui e gli diede un lieve bacio sulle labbra, delicato e sfuggente come un soffio di brezza: e al pari di un vento fresco, fece scorrere un brivido lungo la schiena di Light.
Con la stessa velocità e misticità con cui era entrato nella sua vita, il Quaderno della Morte sparì dalla sua mente: e annegando tra i suoi pensieri ancora vaghi e stanchi, Light si aggrappò a Riou, alla sua presenza, al suo corpo, a quelle sue labbra tanto segretamente desiderate.
Le manette erano abbandonate in un angolo del letto, insignificanti.













Note Autrice.

Siamo arrivati a un punto che penso possa essere definito fondamentale: Light, come nell'opera originale, perde la memoria (in questo caso contro la sua volontà).
Ho pensato a DECINE di modi in cui questo potesse accadere, compresa l'ipotesi di fargli planare un pianoforte in testa: spero vi sia piaciuta l'idea di mantenermi sul "surreale-ma-non-troppo" per il personaggio di Ryuk-umanizzato, e di fargli sottrarre la memoria di Light in una sottospecie di trance.
Fonti e piccoli accenni di maniacalità:  la Nectandra è una pianta che veniva usata dagli sciamani dell'America Latina nei loro rituali di cura, meditazione e auto-ipnotismo. In realtà è sostanzialmente un rimedio per piccoli malanni, febbre et similia. ( se volete essere sicuri, c'è addirittura wikipedia. )

Il testo all'inizio è di "Playing God", dei Paramore. Terribilmente adatta.


Nina.
 

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Capitolo 8
*** Vicino a te. ***





«Il modus operandi corrisponde?»
Erano seduti in terra, osservando il curato e pittoresco chiostro del piccolo monastero.
Eler rifletteva osservando le nuvole sfilacciarsi in cielo: il clima andava mitigandosi velocemente.
«Direi di sì, Light.»
Madre Agnés, quarant’anni, morta improvvisamente d’infarto, in perfetta salute secondo il medico che una settimana prima l’aveva visitata: le aveva prescritto alcune erbe per l’insonnia, causata dallo stress in cui la donna era immersa ultimamente. Il monastero riceveva immense donazioni, ma l’aiuto alla popolazione in miseria dei quartieri limitrofi era stentato: avevano subito attacchi da parte di parecchi gruppetti di rivoltosi, che erano però sempre stati sedati dalla polizia. In quanto fedele amica dei più alti membri della Corte dei Conti la donna si era procurata parecchi –e non del tutto ingiustificati- nemici.
Personaggio in vista, vicino al potere del Re, malvisto della popolazione e il crepacuore improvviso e insensato: dalla fine di marzo a quelle prime giornate di maggio se ne erano verificati a decine, ancor più frequentemente del solito ma con lo stesso metodo serrato e logico.
Light, intenzionato a far cadere le false accuse su di sé, aveva zelantemente aiutato il compagno d’avventure ad andare a trovare tutti gli omicidi che potevano risalire al loro misterioso assassino. Il compito era sempre più complicato e ostacolato per vari motivi: la polizia stava accantonando la loro missione, considerando irrilevante che un duca morisse d’infarto o perché la sua carrozza veniva assaltata brutalmente da dei folli ribelli del contado; il mistero non si infittiva né si risolveva, ma procedeva, instancabile e irrisolvibile, mescolandosi alle ondate di violenza e paura che sconvolgevano il paese.
In tutto questo, il principale indiziato non poteva evitare di gioire segretamente, ogni volta che uno di quei casi veniva ricollegato all’assassino seriale: lo svenimento e la conseguente botta alla testa –così aveva ipotizzato-  gli aveva offuscato buona parte della memoria, confondendogli non poco l’esistenza. Riconosceva le persone, e appena lo faceva ricordava ogni cosa o larga parte di quello che avevano vissuto insieme, come se mano a mano raccogliesse manciate della sua  memoria e le rigettasse nella propria mente; tutto questo lo rendeva terribilmente inquieto, perché non aveva idea di cosa avrebbe potuto improvvisamente ricordare. Aveva incontrato per strada un suo vecchio amico, e improvvisamente aveva rimembrato le serate con lui a lamentarsi animatamente del regime, insieme a un manipoli di consimili: ma di questo non aveva fatto parola ad Eler. Tutto quello che gli importava era dimostrare che non era lui il responsabile di quegli omicidi.
L’investigatore austriaco, dal canto suo, era terribilmente sfibrato: Light lo percepiva nel suo respiro greve, nelle occhiaie sempre più marcate nonostante dormisse parecchio, nell’appetito una volta vivissimo che andava scemando.
Gli diede una gomitata amichevole: «Non esser così giù di corda.»
«Ma io non sono giù di corda.»
Light sospirò: forse lui non era un gran consolatore, ma anche Riou si impegnava nel rendergli più difficile il compito.
«Ho un’idea per tirarti su, anche se non sei triste, ovviamente.»
Eler sembrò diffidare inizialmente da quella frase: ma in cuor suo, Light lo sapeva, nutriva un’accondiscendenza verso ogni proposta dell’altro.
«Sarebbe?»
 
 

Il fondo del boccale si schiantò contro il tavolo, accompagnato da un lungo sospiro di soddisfazione: «Non bevevo da troppo tempo.»
Light sorrise, portandosi più moderatamente il bicchiere alle labbra: «Si vede dal tuo naso.»
«Sono raffreddato, non è per il bere.»
«Raffreddato a maggio? Tu, che sei arrivato qui dal gelo austriaco a piedi scalzi?»
«I francesi sono pazzi: che problema c’è se voglio tenermi i piedi liberi? Odio dover andare in giro con le scarpe. Sono scomode.»
Era sera tarda, ormai: l’oste non li disturbava, in parte perché la sua bettola non doveva avere troppi clienti, ma anche perché due rampolli così ben vestiti dovevano sicuramente esser provvisti di molti denari. Senza che questi lo chiedessero colmava continuamente i loro bicchieri, tenendo bene a mente quanto gli dovessero.
«Usciamo da qui, c’è puzza di topi putrescenti.»
Light rise, e i due se ne andarono barcollando dal locale –non prima di aver pagato due monete in più di quanto fosse loro richiesto-.
La bella stagione stava arrivando, ritardando sempre più lo spettacolo serale del tramonto: lo si intravedeva nel cielo che sovrastava le viuzze, nelle nuvole tinte di porpora. Corsero verso il ponte, desiderosi di vederlo in tutta la sua bellezza: le loro leggeri giacchette, lasciate aperte, svolazzavano intorno ai loro fianchi. Sembravano scolaretti scappati ai loro insegnanti, ebbri di libertà, inspiegabilmente felici.
In parte Light capiva il motivo di quella contentezza: non vedeva Eler anche solo accennare un sorriso da troppo tempo. Convivere con il suo velo di tristezza era logorante, e vederlo spogliato delle quotidiane preoccupazioni lo risollevava enormemente.
Si aggrapparono al muricciolo che delimitava la sponda del fiume: le acque scorrevano, inesorabili e maestose, incuranti del destino della loro città.
«Ti rendi conto di quante cose hanno visto queste acque?» biascicò Light all’altro «In questo stesso fiume dove sono stati gettati i ribelli delle Jacquerie, probabilmente vi facevano il bagno i Galli.»
«Mi manca il Donaukanal.»
Guardò l’altro, perplesso: «Il cosa?»
«Donaukanal, il fiume che attraversa Vienna.»
«Non è il Danubio?» chiese Light, stupito della propria ignoranza.
«È un suo braccio artificiale. Ci facevano andare al parco tutte le domeniche mattina, dopo la Messa. Potevamo solo camminare uno dietro l’altro, ci fermavamo a giocare solo mezz’oretta: ma quel fiume era bellissimo. Era tutto quel che avevamo di magnifico.»
Light cercò di interpretare quei ricordi, capendone il vero significato: «Mezza giornata a settimana per dei bambini? Chi erano questi carcerieri?»
«Suore. Per lo più. Ma gli altri bambini ci andavano più spesso, io…» la sua bocca era impastata, e le parole gli sgusciavano fuori dalla bocca leggermente strascicate «Passavo tanto tempo con altri maestri. I più bravi li mettevano sopra i libri tutto il giorno.»
«Che scuola terribile… Io ho imparato per tanti anni come privatista. Studiavo a casa.»
«Anche io.» lo guardò in viso, con aria stranamente malinconica ma serena «Ero in un orfanotrofio.»
Qualcosa nel petto di Light si incrinò e iniziò a cigolare: ogni minuscolo ingranaggio era al suo posto, e dentro di lui la macchina del passato di Eler aveva iniziato a sferragliare, massacrandogli l’anima.
Non poteva dire di non averlo pensato, almeno qualche volta: non accennava mai ai genitori, né a parenti di alcun genere; ma c’erano molte cose di cui Eler non parlava, e che Light non smaniava di sapere.
«Quindi non sai… insomma, chi siano i tuoi parenti?»
«Non ne ho la minima idea, ma… non mi ha mai fatto troppo effetto. Mi hanno insegnato ad essere pragmatico, a vivere… con me stesso e per me stesso. Sono un prodotto finito, Light: come un ragazzino che inizia come garzone e diventa capomastro, io sono un agente specializzato in investigazione che è nato in qualche sporco sobborgo da chissà quale infima coppietta.»
«Come riesci a parlare così di te stesso?»
«È la verità.» buttò all’indietro la testa e ridacchiò «E non bevevo da troppo.»
Light squadrò il suo sorriso sornione e innaturale: ora comprendeva la facilità con cui si muoveva tra i suoi falsi nomi, e il perché non avesse la minima idea di quali fossero le basi dei rapporti umani. Aveva vissuto recluso, convinto di non essere una persona –fatta di carne, nome, affetti- ma una mente che doveva essere perfetta e al servizio dell’Impero che lo aveva raccolto, in fasce, e lo aveva salvato dalla morte prematura.
Rigirava tra i polpastrelli la catena che li univa: «Mi dispiace. Davvero.»
«A me dispiace per te, che non hai mai assaggiato dei Semmelknodel in brodo.»
Light si voltò verso Eler con un sorriso addolcito, e questi sembrò prenderlo come un permesso per cingergli la vita con le braccia, attirandolo a sé.
Provò l’impulso di spingerlo via come se offeso, ma si fermò e chiuse per alcuni secondi gli occhi: era calata una brezza notturna, a rinfrescargli il corpo caldo d’alcol; in quella meravigliosa situazione, non avrebbe potuto desiderare null’altro che l’abbraccio scherzoso di una persona desiderata.
Si presero per mano come di tacito accordo e si avviarono verso casa, senza rivolgersi alcuna parola, cullati l’uno dalla presenza dell’altro e dal calore dei loro palmi uniti.
Un brivido si era cristallizzato nella schiena di Light, al pensiero di quello che aveva passato il ragazzo che camminava affianco a lui: ma ancor più incredibile, e in un certo modo anche commovente, era stata quella sua confessione. Di sicuro bisognava tener conto della sua mente alticcia, ma poteva basarsi su così poco quella confidenza? No, ne era certo. Quella convivenza aveva fruttato molta più complicità di quanto ci si potesse immaginare, ma entrambi l’avevano semplicemente nascosta in qualche recondito nascondiglio del loro subconscio; ma la brezza primaverile e la copiosa bevuta avevano liberato quel legame, che era esploso in tutta la sua potenza.
I piedi iniziarono a dolere dopo pochi minuti e, quando arrivarono all’ingresso della casa del giovane Dieunuit, le scale che li attendevano sembravano impraticabili: si accasciarono contro il muro, alla ricerca della volontà di raggiungere definitivamente il loro giaciglio.
In fondo non si stava troppo male, sul pavimento ligneo dell’entrata: avrebbero potuto rimanere lì, accovacciati, sonnecchiare uno appoggiato all’altro come bambini.
Eler si appoggiò alla sua spalla, e iniziò a infastidirgli le ciocche che gli cadevano sulle tempie, canticchiando sottovoce. Presentì le sue intenzioni, ma non se ne preoccupò fino a quando i loro nasi si sfiorarono –come erano riusciti ad arrivare nuovamente fino a lì?-.
Provò a pensare a Mélisande, al suo collo fine e ai boccoli biondi; ma quel pensiero era insipido e incolore. La bellezza delle labbra di Eler invece era reale, viva, sgargiante.
Gli diede un bacio, poi un altro, un altro ancora; Riou fece un risolino: «Light, tu… sei ubriaco.»
«Amico mio, sei più brillo tu.»
«No no.»
«E invece sì!» rise Light, prendendogli il viso tra le mani e coprendoglielo di baci veloci e schioccanti.
Si rialzarono dal pavimento freddo dell’ingresso e barcollarono su per le scale fino alla camera da letto, continuando a farfugliare più o meno confusamente e a ridere ogni tanto.
«Ho caldo.» biascicò Eler, togliendosi i vestiti che aveva addosso; per poco non inciampò nei suoi stessi pantaloni, prima di cadere con indosso il solo intimo sul materasso.
Light gli si accovacciò vicino, ancora vestito, prostrato dal sonno e dall’alcol: voleva solo dormire, entrare nel mondo di Morfeo con in corpo quella sensazione di allegra contentezza.
«No, Light, resta sveglio…»
«Non ho voglia di farti compagnia, ho sonno.»
Eler sbuffò. Se Light non fosse stato così stanco, probabilmente avrebbe potuto godersi il picco di ubriachezza dell’altro e riderne per i successivi tre giorni: ma, per fortuna del giovane austriaco, non era nelle condizioni di potersi concentrare lucidamente su qualcosa.
Eler si avvicinò a lui, giocherellandogli con i capelli. Light ridacchiò: «Dai, smettila.»
«Voglio tenerti sveglio.»
Light sentì le sue gambe aggrapparsi alle proprie ginocchia, e cercò con la poca forza che gli rimaneva in corpo di mandarlo via: ma se poca era la forza, l’effettiva volontà era ancor minore. Gli piaceva quel contatto, quell’intimità, l’idea che potessero stare così vicini uno all’altro.
«Smetti di toccarmi…» biascicò, cercando di prendergli i polsi per fermarlo: ma le mani di Eler si muovevano velocemente sulla sua pelle, sotto la sua maglietta, lungo la schiena; gli carezzava i fianchi con le dita e i piedi con i propri. Sembrò indugiare un attimo, poi quel frenetico movimento delle mani si addolcì, e andò a infastidirgli la cintola.
«Riou, davvero, stai esagerando.» gli disse, con una flebile ma rianimata preoccupazione.
«Perché, non posso?» gli stava goffamente slacciando i pantaloni «Non ci vede nessuno, e a te piace.»
Light inspirò per ribattere, rosso in viso, ma dalla sua bocca non uscì nessuna parola: prese bruscamente la mano di Eler e lo spinse via.
SI guardavano con aria sconvolta, i petti e le menti in subbuglio; poi Riou crollò sul proprio cuscino. Il suo corpo iniziò a sussultare sommessamente, in preda a singhiozzi lacrimosi.
Light sentì un’incredibile tristezza invadergli il cuore e provò un immediato rimorso per quella resistenza: cercò di avvicinarsi a lui, di abbracciarlo, ma il ragazzo rimaneva immobile, con il viso sprofondato nella federa. Mugolava qualcosa, una cantilena lamentosa e rotta dal pianto.
«Riou, stai bene? Non farmi preoccupare…»
«Non dovrebbe essere… così.» bofonchiò l’altro.
«Che stai dicendo?»
«Io vorrei solo… Tutto è nascosto, perché? Lo so che a te piace, perché non posso?»
Light si accovacciò affianco a lui, osservando il muro di fronte come ipnotizzato. Già, perché?
In quel momento quel che avrebbe dovuto fare, in quanto ragazzo per bene, sarebbe stato addormentarsi con indifferenza all’altro, magari pensando alle dolci curve della propria donna; e lui non poteva pensare ad altro che a quel ragazzo, quel ragazzo affianco a lui… che poco prima aveva astiosamente respinto.
Si massaggiò vigorosamente gli occhi, reprimendo delle lacrime in procinto di nascere: voleva sparire, scappare dalle proprie responsabilità. Il timore e la vergogna si stavano impossessando di lui.
L’attrazione tra loro era innaturale e sconveniente: anche se si fosse ignorato a fatica il fatto che erano due uomini, erano per di più un investigatore e un indiziato! Era vero che le false accuse su di lui stavano cadendo, ma l’altro avrebbe potuto comunque avere il beneficio del dubbio, e in ogni caso il loro rapporto non avrebbe dovuto approfondirsi.
“E perché mai no?” si chiese improvvisamente.
Osservò la nuda schiena di Eler e le proprie gambe nascoste dalle lenzuola: in quel momento c’erano solo loro due. Non doveva considerare nessun altro elemento, doveva ragionare sulla questione prendendola al suo stato più puro.
Lui e Riou.
Non vi erano motivazioni religiose a fermarlo, e sulla moralità di quella sua tendenza si era messo il cuore in pace molto tempo addietro. L’opinione altrui? Bastavano pochi accorgimenti per mantenere qualcosa segreto; e in quel momento di tensioni politiche e sociali, pochi avrebbero speso il loro tempo ad indagare su una coppia troppo unita di amici. Era statisticamente certo che non fossero gli unici esseri umani che conducevano una vita simile: avrebbe potuto tranquillamente essere un bravo marito –provvedere alla vita agiata della moglie e alla scuola degli ipotetici figli- e al contempo amare chi preferiva… Sempre che si fosse davvero sposato con Mélisande o chiunque altra.
Che altro teneva divisi i loro corpi in quell’unico letto, se non la sua codardia?
Inspirò profondamente. Erano lui e Riou. A Riou lui piaceva, e non aveva avuto remore a mostrarglielo; e per quel che riguardava se stesso, negare i propri sentimenti era ridicolo e doloroso.
Eler si era nel frattempo lasciato andare a un dormiveglia leggero e tormentato: si strinse a lui, destandolo improvvisamente. Light rise un poco per il suo viso confuso, e lo baciò teneramente.
Riou sorrise contento, e Light lo baciò ancora.
Si addormentarono con le gambe intrecciate e i petti a pochi centimetri l’uno dall’altro, sfibrati dalla bevuta ma al contempo tremendamente sollevati: erano entrambi consapevoli del fatto che qualcosa era irrimediabilmente cambiato, nell’istante in cui Light aveva deciso di preferire l’amore alla paura.





 
 
 
«Maggio è probabilmente il mese più bello dell’anno.»
Eler non rispose, ma il suo pacato sorriso era un segno di chiaro assenso.
Light osservò il paesaggio meraviglioso in cui erano immersi: uno dei tanti stagni della zona si estendeva davanti a loro, coronato da alberi in fiore e voluminosi arbusti pieni di bacche. Poco più avanti del punto strategico che avevano scelto iniziava il lieve pendio di ciottoli bianchi che portava all’acquitrino, in cui in alcuni punti crescevano sparuti canneti. A completare il sobrio ma delizioso spettacolo vi erano il sole impetuoso e un quartetto di grilli nascosto lì intorno, tra l’erba alta, a spezzare il silenzio.
Quella mattina domenicale si erano alzati entrambi con un insopportabile capogiro, e Light aveva storto il naso quando l’altro gli aveva proposto quella uscita fuori città per riprendersi: le sue intenzioni erano di restare nel letto tutto il giorno, immobile, a navigare nel proprio malessere.
Si era fatto alla fine convincere, e non se ne era pentito: avevano seguito la Senna per poco meno di tre ore ad un trotto rilassante, in groppa a due cavalcature prese in prestito dallo stalliere della famiglia Dieunuit. L’aria mattutina e il sole di quella fortunata giornata avevano migliorato il suo umore e anche il suo stato fisico: sazi della tarda colazione, se ne stavano lì sotto le fronde di un basso albero, ad osservare lo specchio d’acqua davanti a loro e a godersi la meritata tranquillità.
«Dovremmo fare più spesso questo genere di escursioni.»
Light annuì: «Sì, ho sempre desiderato fare qualche viaggio nelle zone più a Sud.»
«Sarebbe davvero bello.»
«Nella natura ci si sente liberi per davvero.»
L’altro non rispose. Rifletteva con lo sguardo perso in qualche angolo del panorama: Light indovinò dopo poco, a cosa stesse pensando.
Inspirò, preparandosi a quelle parole: sapeva che era solo questione di tempo.
«Light, ho deciso di toglierti le manette. Definitivamente, non solo come oggi.»
«Dici sul serio?» mormorò.
«Ci ho riflettuto. Mi sono sentito spesso in colpa per questa pena, e come penso avrai notato negli ultimi tempi ogni pretesto era buono per togliertele dai polsi: ma non potevo rinunciarci del tutto, eri sospettato. Non meriti di essere ammanettato, se la pista che conduceva a te si è rivelata falsa. Da quando a marzo ho preso questa iniziativa di costrizione i delitti sono proseguiti, e questo forse non ti scagiona del tutto, ma di sicuro non merita una pena tale.»
Light annuì: improvvisamente quella notizia non gli fece né caldo né freddo. Si era abituato a quella situazione, per quanto scomoda; e c’era da dire che Eler aveva effettivamente fatto di tutto, per non fargliela pesare eccessivamente.
Perché in quel momento aveva deciso di cambiare radicalmente la situazione? Qual era il vero significato di quel retro-front simbolico?
«Quali erano i patti con mio padre?»
«Che se avessi fatto cadere l’accusa, avrei lasciato la giurisdizione sul caso alla polizia francese. Penso che non gli sia andato per niente a genio, il mio gesto.»
Il giovane Dieunuit cercò di metabolizzare quelle parole, di dar loro un senso e una serie di conseguenze: e subito gli si pararono davanti delle ipotesi che non avrebbe voluto considerare.
«Che farai tu ora, Riou?»
«Mi vorrebbero indietro, a Vienna.»
I grilli continuavano il loro inno di lode all’estate che arrivava. Light si chiese se Eler aveva mai assistito a un clima simile.
«Ci tornerai, quindi?»
L’altro non gli nascose un vago sorriso soddisfatto: «Hanno accettato la richiesta che ho fatto a febbraio. Ho chiesto di poter diventare poliziotto del distretto di tuo padre, e durante questi mesi hanno valutato il mio operato e… Ora sono un agente dello Stato Francese.»
Light dovette moderare la reazione di sollievo che gli nacque nel cuore e che si espanse nelle vene come ossigeno a ridargli vita dopo una lunga apnea.
«È fantastico, Riou! È una posizione lavorativa così…»
«Vicina a te.»
Light rimase pietrificato. Lo guardò, sperando di… aver sentito male? Davvero lo avrebbe voluto?
Un’infinità di silenzio dilagò tra i due.
«Perché io, Riou?»
Voleva fargli capire che era sbagliato basarsi su di lui. Non era una strada che avrebbero potuto percorrere insieme: perché si ostinava a non capirlo?
La sera prima aveva deciso di abbattere le barriere tra loro, ma non aveva pensato a cosa avrebbe fatto avendo la possibilità di ricostruirle: avrebbero dovuto inseguire quella vicinanza, se il destino lo avesse impedito? Avrebbero dovuto lottare per quel legame, già di per sé complicato e controverso?
«Ho deciso così: sono intelligente quanto testardo, penso tu lo sappia. Ci ho riflettuto razionalmente e non cambierò idea.»
«E se te ne pentissi?»
«Non ho altra casa a cui far ritorno. Vienna non è la mia casa, è stata la culla del mio dolore.»
«E se io me ne andassi da qui?»
«Ci rifletterei ancor più a lungo e con più raziocinio … e alla fine ti seguirei.»
«E se io non volessi essere seguito da te?» disse, trascinato da quel discorso al limite dell’assurdità.
Eler lo guardò con occhi penetranti: «Vuoi essere lontano da me, Light?»
Un ciuffo più riccio degli altri gli spuntava dalla chioma all’altezza della tempia, profonde occhiaie nere accompagnavano le iridi stanche e scure.
A che serviva mentire a quegli occhi e a se stesso?
«No, Riou.»
I loro sguardi si incontrarono come due amici di lunga data, stupiti e inspiegabilmente entusiasti; le loro mani si cercarono, e poco dopo di esse si unirono anche le loro bocche, con più foga delle altre volte: Light si protese con titubanza verso l’altro, che cedette con arrendevolezza al peso del suo corpo e lasciò che si sdraiasse sopra di lui, a patto di poter giocherellare con i suoi capelli.
Quando sentì le mani dell’altro tra i capelli sorrise, al pensiero della confessione che gli aveva fatto mesi addietro: per tanto, troppo tempo aveva dovuto dissimulare il desiderio di toccarli con un vago risistemargli la frangia, mentre in quel momento erano completamente suoi.
Si separò dalle sue labbra, il viso velato da pensieri mesti: «Stare con te è fantastico, Riou, ma sono comunque preoccupato. Non dovresti far tutte queste decisioni sulla tua vita in base a una sola persona, che conosci tra l’altro da pochi mesi.»
«Non avevo mai avuto nessuno per cui valesse il prezzo di prendere delle decisioni così veloci e radicali.»
Testardo e irremovibile, come al solito. Com’era bello.
«Sei uno stupido. Guadagni solo guai, con me.»
Il giovane investigatore, inspirò profondamente, e un brivido gli fece fremere l’intero petto: «Lo so, ed è una gran bella sensazione.»
Light si sentì ribollire qualcosa nel profondo dell’animo: una fantasia, un’idea, un’intenzione. Fece scendere timidamente la mano lungo la fila di bottoni che chiudevano i pantaloni dell’altro, sbottonandoli man mano: «So di proibito?»
Eler gli baciò leggermente le labbra: «No, di colazione all’inglese.»
 
 
Quando Eler gli sfilò dalle braccia la camicia, nonostante il caldo della giornata, tremò per alcuni istanti: esitò soltanto in quel momento e nell’attimo di goffaggine in cui fece incastrare la caviglia di Riou nei suoi pantaloni.
Light invertì i ruoli con una spinta poderosa, facendo soccombere Eler alla propria ombra: i raggi del sole di maggio rischiaravano la sua pelle nuda, e quando si sfilò i pantaloni l’erba secca gli solleticava fastidiosamente gli stinchi.
 
 
Per alcuni versi era una situazione inconcepibile, tanto da sembrare astratta: come poteva essere così ammaliato, stregato, desideroso di un corpo che era come il suo? Ma per quanto fosse impensabile, era evidente il fascino delle membra pallide e asciutte dell’altro, dei suoi fianchi leggermente arcuati, come i perfetti e simmetrici confini del suo desiderio.
Light gli baciò avidamente la pelle del petto e della pancia, con il brivido di chi può ammirare un’opera d’arte: e la perfezione di quella carne sotto le sue labbra, sotto le sue mani, era estremamente personale. Eler era perfetto per lui, le loro anime combaciavano: e i loro corpi di conseguenza non potevano che volersi l’un l’altro. Voleva che Eler si unisse a lui in qualsiasi modo il loro corpo e la loro mente permettessero.
L’innocenza di Eler era in suo possesso: tentennò un attimo, ma l’idea che quella serbata verginità era alla mercé della sua bocca lo fece traboccare di smania.
Gli prese le gambe e lasciò che appoggiasse le ginocchia divaricate sulle sue spalle; sentì l’altro fare una leggera resistenza, e alzò fugacemente lo sguardo verso Eler, alla ricerca di segni di rifiuto: trovò solo un viso improvvisamente paonazzo, intimorito; nonostante l’imbarazzo fece un cenno con il capo, per fargli capire che non doveva preoccuparsi.
La bocca di Light era timida e titubante: aveva paura che ad ogni minimo movimento con la lingua Eler si risvegliasse da quell’accondiscendenza –stava permettendo che un ragazzo, un ragazzo lo toccasse nel più impuro dei modi!- e lo respingesse con violenza: ma avvenne tutto il contrario. Sentì, con enorme felicità, il suo corpo distendersi e accomodarsi in quella situazione: e non si vergognò né esitò a stuzzicarlo, a stringergli le cosce con le mani, a lasciarsi andare alla più pura lussuria. Sentì più volte il corpo dell’altro intirizzirsi in preda a tremiti veloci che gli smorzavano il respiro; e dopo le prime volte, Eler non si sforzò nemmeno di trattenere la voce.
Eler allungò la mano tra i suoi capelli e vi ci aggrappò: Light alzò di nuovo la testa, e rimase ammaliato dalla sua bocca schiusa e screpolata: si arrampicò per il suo petto che si alzava ed abbassava in respiri rochi e profondi e lo abbracciò, ascoltava i battiti dei loro cuori unirsi, gli scompigliava i capelli e gli baciava il collo, la fronte, le labbra ansimanti. Stringeva quel volto tra le mani, chiedendosi come potesse tutto quello essere vero, come potesse essere così bello. Scoppiò a ridere, si strinse al corpo di Eler e lo spinse sul fianco sinistro fino a ritrovarsi di nuovo sotto di lui, in preda a quella risata leggera ma incontrollata. Riou lo guardò senza capire, con aria quasi smarrita: «Che succede? Ho fatto qualcosa di male?»
Le risa dell’altro si attenuarono, e con occhi umidi gli sussurrò: «Nulla della mia vita è stato reale fino ad adesso. Non mi sono mai sentito così bene. Sono vivo, Riou, capisci?»
L’altro si passò la lingua sulle labbra, dove un sottile taglietto gli aveva fatto sbocciare una goccia di sangue. Il sole lo sovrastava e filtrava tra i suoi folti capelli, incoronandolo davanti al cospetto dell’amante, sdraiato sotto di lui.
«Light, stai…» la sua voce era flebile, proveniente dai più lontani anfratti della sua anima «…stai piangendo.»
«Anche tu.»
Risero entrambi, con le guance colme di lacrime.
 
Con tutte le lenzuola in cui si era avviluppato con l’indifferente corpo della fidanzata, non aveva mai avuto un giaciglio migliore di quel sottobosco primaverile.
Con un movimento troppo brusco, Eler gli strappò un’altra imprecazione. Aveva cercato di trattenerle fino a quel punto, ma dolore e piacere continuavano ad alternarsi in picchi imprevedibili.
«Light, sicuro che non vuoi girarti?»
«Ti ho detto di no.» mormorò a denti stretti, intento a calmarsi con respiri profondi. Non voleva per alcun motivo separarsi dalla visione del corpo dell’altro e dei suoi movimenti nel proprio: sentiva il bisogno di soddisfare ogni suo senso.
«Continua, non preoccuparti.»
«Ti fa male?»
«È sopportabile.»
Eler sembrava arrivare quasi al limite e impaurirsi, sul suo viso si alternavano sgomento e passione: in preda a una foga improvvisa e inaspettata inarcò la schiena pochi secondi e spinse con ancor più forza.
I suoi gemiti, i suoi gemiti! Light, in un lampo di lucida estraneità, pensò che avrebbe potuto far l’amore anche solo con la sua voce. E perché non con l’odore della sua pelle misto a quello dell’erba, e con la forma smussata della spina dorsale che sentiva sotto i polpastrelli, e con quegli occhi che gli erano sembrati tanto a lungo dei pozzi di tenebre?
Light percepì per la prima, meravigliosa volta in vita sua dei brividi di calore percorrergli tutto il corpo, indemoniandolo.
Lui era la casa di Riou. L’unico posto in cui il giovane potesse sentirsi al sicuro ed esprimere il suo vero io, con tutti i difetti e le sfumature caratteriali che la sua istruzione aveva segregato nel suo subconscio.
Voleva essere il luogo sicuro di Riou: voleva essere cercato, desiderato, amato da lui.
Non era più sola libidine: quello era un incontro che univa i poli dell’esistenza, la carne e lo spirito.
Le loro anime si incontrarono in cima a una scalinata di dolore e piacere.










Note Autrice.

Ho scritto questo capitolo letteralmente in fretta e furia presa dall'ispirazione, e non secondo l'ordine dei fatti (sì, smascheriamo la mia disorganizzazione): spero di essere riuscita a rendere il tutto omogeneo e di aver evitato errori di grammatica/sintassi/coerenza temporale et similia.
Spero che questo capitolo vi piaccia particolarmente, almeno quanto a me è piaciuto scriverlo: nonostante tutto sono abbastanza soddisfatta di com'è venuto.

Nina.
P.S.
Domanda abbastanza importante, se rispondeste nelle recensioni mi fareste un grande favore: il Rating della storia va bene Arancione o devo modificarlo in Rosso?

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Capitolo 9
*** La Spagna. ***





Un cupo e maestoso turbine di suoni riempiva la cattedrale. Light inspirò, lasciando che le note dell’organo fluissero nel suo sangue: presto sentì Clérambault scorrergli nelle vene e dargli alla testa.
Lo stomaco gli si contorceva, le mani tremavano e gocce di sudore freddo gli imperlavano le tempie.
Aprì gli occhi e lo sguardo sofferente del crocifisso lo trapassò: che strazio disarmante quella disperazione religiosa, quella passione, quel comune calvario.
Si guardò intorno: decine e decine di capi chinati, supplici, che si sottomettevano al peso di quella musica.
Non resse oltre la spaventosa atmosfera di quel concerto religioso: uscì di soppiatto dalla chiesa, correndo lungo le pareti e cercando di slacciare il primo bottone dello stretto colletto.
Quel pomeriggio era stato particolarmente cupo: non aveva potuto stare da Eler per molto tempo data la fragile bugia usata come scusa, e la tensione di entrambi per motivi differenti aveva reso l’incontro abbastanza freddo. Lo aveva salutato con un paio di baci che esprimevano una triste tenerezza: non era colpa di Riou, ma di qualcosa di più alto. Una sensazione trascendente e inquietante.
Aveva cercato di collegarsi alla dimensione che lo stava richiamando con la musica di quell’organo, ma non aveva resistito che pochi minuti: in quel momento sentiva la terribile mancanza dell’altro, si sentiva in colpa per come lo aveva trattato.
Arrivato a casa aveva ormai maturato la decisione di tornare da Riou e cenare con lui, per consolarlo: si precipitò senza nemmeno togliersi il soprabito verso il salotto dei genitori. Avrebbe gentilmente declinato il loro invito a cena, magari dicendo che doveva recarsi a casa della fidanzata.
Spalancò con poca discrezione la porta del salotto entrando a passo di carica, ma si interruppe all’istante, vedendo che Sigismond aveva compagnia.
Mélisande, seduta dall’altro capo del tavolo rispetto a monsieur Dieunuit, si era portata la mano al petto per lo spavento: sul suo volto roseo e infantile era calata un’amara vergogna, e se ne era andata velocemente, zampettando sulle scarpette costose, rivolgendo un cenno timido a Light e un “Vi ringrazio molto di questa conversazione” a Sigismond.
I due uomini erano rimasti soli, uno in piedi e l’altro seduto: ed erano così simili e al contempo così diversi che vederli dall’esterno sarebbe stata una pietà. Il volto stanco e prostrato del padre, la cui calvizie incedeva senza tregua e i capelli si ingrigivano per le preoccupazioni, si scontrava contro la paonazza e irrigidita faccia del figlio, avvenente e turbolento: «Perché lei era qui?»
Le anziane sopracciglia si corrucciarono: «Non osare parlarmi in quel modo.»
Light si trovò costretto a fare un passo indietro: «Scusami, padre.» nonostante questo i suoi occhi fiammeggiavano ancora, desiderosi di spiegazioni: e l’altro lo sapeva bene.
Il vecchio sospirò, e fece cenno al figlio di sedersi davanti a lui, sulla stessa sedia da cui poco prima la ragazza era scappata: Light lo fece con diffidenza, senza interrompere il contatto visivo con l’altro. Presagiva qualcosa di terribile –e dopo quel che aveva visto in pochi secondi sarebbe stato difficile non farlo-, e voleva capire cosa stesse succedendo. I due non avevano mai avuto contatto in precedenza, parlavano a malapena in presenza di Light: di cosa avevano da ciarlare in sua assenza?
«Mélisande è venuta a parlarmi, Light.» cercava le parole adatte con tremenda difficoltà «La tua fidanzata è… sostanzialmente preoccupata. Per voi due, intendo. Lascia che ti spieghi, non parlare ancora: sappiamo tutti quello che sta succedendo, specie noi poliziotti capiamo bene quel che il nostro paese sta affrontando. Io ho molta più esperienza di te, Light, e percepisco ancor di più la gravità della situazione: ma l’amore ha fatto sentire le stesse cose alla giovane Mélisande. È davvero, davvero preoccupata, Light. E anche io lo sono.»
«Cosa ti ha detto?»
«Ha dei parenti che abitano nel Regno di Spagna che le hanno recentemente lasciato un’eredità. Pensava di vendere quei terreni per poter utilizzare qui il patrimonio, ma data la situazione attuale, i genitori la hanno convinta a dirigerla direttamente. Cercherò di andare al nocciolo della questione: ha ufficialmente chiesto a me e tua madre di potersi trasferire con te in Spagna. Tua madre ha fatto resistenza all’inizio, ma è ormai completamente convinta; e io non ho avuto dubbi.»
«Come puoi chiedermi di scappare così? Non è così che mi hai educato! In un paese in cui sta per scoppiare la guerra…»
«Proprio per questo, Light! Sei un soldato? Un poliziotto? Non aggrapparti a valori medievali che di sicuro io non ti ho insegnato. Ti ho detto di combattere per le tue cause, non di sacrificare inutilmente la tua vita, distruggendo i sogni della tua giovane sposa e le speranze dei tuoi genitori. Sarei un assassino se ti obbligassi a rimanere qui a Parigi, sapendo che potresti essere in un casolare tranquillo in un altro Stato disposto ad accoglierti.»
La Spagna. Non vi era mai stato, ne aveva un’idea vaga derivata dalla letteratura e dai racconti da salotto.
«Tutto questo non ha senso. E perché ne ha parlato con voi, non con me?!»
«Guardati! Ascoltati! Come avrebbe potuto una ragazzina come lei proporre questo a te, sapendo la reazione immediata che avresti avuto…»
«Appunto, padre! Una ragazzina che vuole decidere del mio futuro, che spera di aggirare la mia determinazione passando per l’affetto dei miei genitori!»
«Non sono un imbecille influenzabile, Light.» mormorò rabbioso il padre.
Il ragazzo si passò la mano tra i capelli, sentendo la fronte accaldata: «Non era quello che intendevo, e lo sai.»
«Abbassa il tono di voce, e ricordati che sì, Mélisande sarà una ragazzina, ma tu non sei da meno. Non guardarmi con quegli occhi, Light, sai che non è un’offesa: è la semplice verità. Ho più esperienza di te, ti sto proponendo qualcosa che so esser meglio per te. Un tempo ho fatto la stessa identica cosa che Mélisande sta facendo ora, e so di aver migliorato la vita di tua madre. Non avevo idea di quello che il paese avrebbe attraversato in una decina d’anni, ma ormai abbiamo l’età per non preoccuparci della nostra sorte.»
Il figlio lo guardava, apriva la bocca, la richiudeva senza proferir parola: qualsiasi pensiero si annodava confusamente nella sua gola e lì moriva, soffocandolo.
«Non posso obbligarti, è evidente. Ma sappi che ho intenzione di darti il tormento, fino a quando non seguirai tua moglie.»
Sigismond gli si avvicinò, prendendogli affettuosamente il braccio e stringendolo: «Tu non sei come me. Sono contento dell’esperienza di lavoro insieme, ma la tua bravura si dimostra nello studio, nei calcoli, nell’intelligenza. Fuori da qui puoi trovare qualsiasi cosa: pace, se è quello che cerchi; fama o importanza, perché sapresti distinguerti in qualsiasi posto se avessi l’opportunità di farlo; una famiglia, e ti assicuro che è la massima bellezza al mondo. Ma non qui, Light. Qui non c’è nulla, per te.»
Il ragazzo annuì velocemente, si divincolò con gentilezza dalla morsa di quella vecchia mano ed uscì dalla stanza: nel momento stesso in cui la porta si chiuse, lui crollò in un pianto nervoso e disperato.
 
 
 
 
Mélisande giocherellava timidamente con il cucchiaino. Erano seduti uno davanti all’altro ad un minuscolo tavolino, posto all’esterno della locanda in onore al sole radioso.
«Sei ancora arrabbiato, Light?»
Light non rispose, ma l’altra interpretò la sua espressione stanca come un cenno di arrendevolezza. Rincuorata, come se la sua mancanza fosse stata finalmente perdonata, cinguettò: «Vedrai che ti innamorerai della Spagna. È bellissima davvero.»
«Ci sei mai stata?» chiese lui con un vago scetticismo –non si curò di nasconderlo, data la poca comprensione dimostrata da Mélisande per il suo stato d’animo-.
«Più volte, da piccola! Dopo i monti, che non mi piacciono per nulla, la pianura è stupenda e con un bel clima… e si mangia così bene!»
«Quindi vuoi prendermi per la gola?»
«No, io intendevo… Ecco…»
Light ridacchiò: era così facile prenderla in giro, lo era sempre stato. In quel momento, però, la sua beffa non era sincera e sdrammatizzante, come tutte quelle che le aveva rivolto in quegli anni: era intrisa di cattiveria. Per qualche inspiegabile motivo, Mélisande non riusciva a cogliere la differenza di intenzione con cui quei piccoli scherzi le venivano rivolti: ridacchiò anche lei con aria fintamente offesa e sorseggiò il suo tè.
Improvvisamente una figura si avvicinò a lui, stretto in un vestito scuro e lugubre ma al contempo dignitoso, e si chinò verso di lui: «Light! Che piacere vederti.»
Il ragazzo sorrise imbarazzato, in leggera difficoltà nel riconoscere l’altro; accortosene, l’interlocutore gli diede una pacca sulla spalla: «Sono io, Theo Maxime.»
Lo osservò meglio, cercando di rievocare situazioni in cui avesse visto quel viso affilato dai lunghi e neri capelli:«Oh, certo! Eravamo compagni di scuola, giusto?»
«Esattamente. Scusami, avrei dovuto prevedere che non ti ricordassi di me.»
Light accennò un’alzata di spalle: «Purtroppo non riesco a riconoscere sempre i volti, ma non sto avendo molti problemi. I ricordi riaffiorano piano piano per associazione.»
«Io e i tuoi amici eravamo molto preoccupati che avessi scordato…»
Le mani di Theo si poggiarono docili sul tavolo; quella posatezza ricordò a Light i pallidi dorsi delle mani di Eler, e questo gli fece subito distogliere lo sguardo. Theo lo guardava alla s ricerca di un barlume di intesa, un guizzo di consapevolezza.
«Pensavamo che avessi ignorato la tua missione, ma ho saputo dei nuovi arrivi nel corpo di polizia… hai fatto un ottimo lavoro.»
Theo si allontanò con un sorriso superbo ma contenuto, con la camminata lenta e cadenzata di chi ha la situazione a proprio favore e rimira le proprie ignare vittime.
Nel momento in cui la sua alta e scura figura si fece meno distinta, un ricordo esplose nitido nella mente di Light: era la propria bocca che pronunciava quelle parole con decisione, quasi brama, e un’inspiegabile contentezza.
“Se volete ucciderlo, dovete coglierlo in mezzo alla mischia.”
La realtà gli crollò addosso, le immagini assopite di quella sera si ravvivarono nella sua mente come una brace su cui si gettano nuovi ceppi: e bruciava tutto il corpo, l’incendio divampava silenzioso nelle sue carni.
“Io lo porterò da voi.”
 
 
Osservò il proprio riflesso nello specchio: la camicia aperta, i capelli disordinati, e quel fagotto di vestiti puliti stretti sul petto. In un impeto di orrore per se stesso gettò tutti gli indumenti nella valigia ai suoi piedi, senza curarsi del fatto che si stropicciassero. Agli occhi di Mélisande sarebbe sempre sembrato un dio sceso in terra, e degli sguardi altrui in un mondo che non era sua non gli interessava.
Pensò all’odore cupo e umido dei boschi francesi, al frinire dei grilli e a quei ciottoli bianchi ai bordi dell’acquitrino: bianchi e accecanti come il dolore, come il piacere.
No, non se ne poteva andare da Parigi!
Infilò le mani con furia nella valigia, gettando manciate di vestiti sul proprio letto: la sua casa, la sua dannata casa era lì, non tra le braccia di un paese afoso e rozzo, costretto a tenere tra le proprie braccia quella stupida e imbellettata ragazzina. Voleva maledire il giorno in cui l’aveva conosciuta, in cui aveva sorriso alle sue melense lusinghe; e anche tutti gli amici che lodavano le sue guance morbide e le sue forme rosee… Che se la tenessero pure, frivola, inutile e rosa come un suino!
Ricordò con improvvisa intensità il sorriso di Eler, così contento di poter restare a Parigi, nell’inferno francese, accanto a lui.
Le sue ginocchia cedettero, e si ritrovò in terra piangente, accovacciato come un bambino.
Con che innocenza e semplicità Riou aveva pensato di potergli stare sempre vicino, di poter essere insieme nonostante tutto: qualcuno o qualcosa si era ovviamente adoperato a mandare all’aria ogni cosa. Nel petto del giovane austriaco, rimasto inerme e vuoto per così tanto tempo, si era accesa una scintilla che stava per essere immediatamente e crudelmente soffocata. Eler sarebbe stato lì dove lui aveva promesso di farlo trovare, fiero nel nuovo bardamento della sua figura, rassicurato dalla posizione di poliziotto. Si sarebbe lanciato nella mischia, avrebbe trattenuto i rissosi cittadini, avrebbe sparpagliato i più violenti e messo paura a chi si fingeva più spavaldo degli altri.
Quel che più raggelava il sangue nelle vene di Light era la cornice dei ricordi, che per quanto si sforzasse non riusciva a focalizzare completamente: come era giunto a promettere di portare Eler come vittima sacrificale? Lo avevano obbligato? In che stato d’animo si trovava per aver giurato qualcosa del genere?
Con se stesso era sincero almeno per un fatto: era assolutamente plausibile che avesse frequentato persone faziose, che di quei tempi erano automaticamente delinquenti. La sua avversità astiosa verso il Re non era un segreto per Eler, non lo aveva mai negato: anche se aveva dimenticato momentaneamente le riunioni rivoluzionarie, i sentimenti che lo avevano spinto a parteciparvi le prime volte erano rinati velocemente in lui, anche dopo il trauma cranico.
Ma era davvero così disumano da aver voluto consegnare proprio Riou a quelle persone?
La vergogna gli logorava il petto, e con essa una disperazione quasi nevrotica: la sua memoria era una massa nebulosa, come una fitta coltre di nebbia sul mare, in cui ogni tanto si intravedono i relitti di grandi imbarcazioni. Allo stesso modo il proprio passato si ripresentava a Light: come qualcosa di inquietante, mastodontico ma morto; il pesante spettro della propria vita.
Forse era destino, quella separazione. Forse era destino che Theo Maxime mettesse fine alla vita di Eler prima che lui potesse scoprire del tradimento di Light, e che Light avesse l’opportunità di scappare da sé stesso per chiudersi in una realtà inutile, ma anche priva di emozioni che lo potessero distruggere.
Sarebbe stato giusto? No, decisamente no. Ma nulla era giusto in quel mondo, né per lui, né per Eler, né per gli altri: se una qualche giustizia fosse esistita al mondo, il popolo non avrebbe sofferto la fame; lui non sarebbe stato messo alle strette da una donna che non amava e che non aveva mai amato, non avrebbe dovuto passare la propria vita con lei in uno Stato sconosciuto; ed Eler avrebbe vissuto una vita vera, una vita in cui gli fosse dimostrato amore almeno una volta, senza alcuna ritorsione, senza conseguenze. Era nato nella miseria, cresciuto nell’apatia e quando aveva trovato qualcuno –ed era lui, Light, l’unico che avesse avuto importanza nella sua vita-, questo mostro di persona lo aveva condannato a sua insaputa.
«Light?»
Il ragazzo si voltò, stranito dal pigolio che aveva interrotto i suoi pensieri: «Oh. Ciao, mamma.»
Lei fece un sorriso timido e rugoso. Quanti anni le si erano accumulati sulla pelle con una tale cattiveria? Cinquanta, ed era dir tanto; eppure quel viso era già così vecchio.
«Light, forse è stata colpa mia, della mia indifferenza a capire come sei sempre stato… ma devi capirmi, chi si sarebbe lamentato di un figlio ubbidiente e taciturno? Tutte le mie amiche mi invidiavano, tutte.» il labbro inferiore le tremò in quel sorriso triste
«Mi chiedevano che genere di disciplina ti imponessi, si complimentavano per come eri intelligente, educato, silenzioso. Forse è un consiglio tardivo, ma… per una volta, una sola, lascia perdere il resto. Lascia perdere tutti i tuoi ragionamenti che so che fai, tutte le complicanze. Se non segui ora l’amore, morirai senza averlo fatto. Scusa la mia durezza, non intendo spaventarti affatto.»
Lui si passò la lingua sulle labbra aride: «Tranquilla, non lo stai facendo.»
«Voglio solo che tu non faccia la scelta sbagliata.»
Light la guardò con rinnovato e inaspettato affetto: «Hai fatto così, quando sei venuta in Francia?»
Lei arrossì e dovette far un gran respiro prima di rispondere: «Sì, Light. E con tutta la sincerità possibile, ti assicuro che non ho mai fatto una scelta più giusta.»
Lui rimase immobile, fissando con insistenza il pavimento. La madre tossicchiò, sistemò il lembo della gonna e si diresse verso la porta a piccoli e timidi passetti.
Light alzò improvvisamente la testa: «L’amore non è per sempre, mamma.»
La donna rimase un attimo interdetta, la mano ferma sulla maniglia della porta e delle parole che le si fermavano tra le labbra; dopo alcuni secondi fece l’ultimo sorriso e gli rispose: «Niente lo è, ma di tutte le cose che non lo sono, è decisamente la più bella.»
Il figlio non poté fare a meno di sorridere, mentre quella frase faceva sentire il suo calore per le sue vene.
«Ho deciso che partirò.»
 
 
 
«Già qui, monsieur Dieunuit? Pensavo la partenza fosse prevista per questa sera.»
Light annuì allo stalliere: «Miss Mélisande intende partire il prima possibile.»
Il vecchio si grattò le ispide guance: «Oh, ma il cocchiere non è qui a quest’ora…»
«Non se ne preoccupi, gli abbiamo chiesto personalmente di recarsi a casa di mia moglie per la partenza anticipata.»
«Ah, giovani e sognatori, proprio non vedete l’ora di partire per la luna di miele!» bofonchiò lui con la sua gola roca.
Light gli rivolse un cenno di assenso, cercando di mantenersi il più controllato possibile: dentro di sé fremeva come non mai.
Aveva pochi minuti per mettere in atto il suo piano: doveva caricare tutti i bauli da solo e nel minor tempo possibile, per poi sfrecciare a Boulogne-Billancourt, unico punto dove l’ansa del fiume permettesse di raggiungere Versailles. Era il luogo dove tutti i cittadini sarebbero affluiti, dopo la polizia avrebbe bloccato il passaggio a tutti gli estranei alla riunione degli Stati Generali.
Sapeva dove abitava Eler in quegli ultimi giorni, sapeva dove avrebbe dovuto passare per intercettarlo prima che avvenisse il tumulto.
Governava in modo impacciato il carro, in preda all’ansia: i cavalli scalpitavano, trascinavano il cocchio facendolo sobbalzare sulle pietre sconnesse delle vie. La sua testa, che solitamente in situazioni simili si affollava di piani e strategie, in quel momento era dominata da un solo pensiero: raggiungere Eler e portarlo via. Non aveva la minima idea di dove sarebbero andati, ma nella sua mappa mentale aveva perfettamente chiari i posti che avrebbero dovuto fuggire: lontani da Parigi, dall’odiata Spagna, dalla temuta Austria. Per quel che gli interessava, sarebbero potuti andare in qualsiasi altro posto, anche nelle desolate lande norvegesi se era necessario.
Rise di sé e della propria confusione: in pochi minuti aveva individuato già decine di falle nel suo stesso piano. Mélisande la sera si sarebbe ritrovata senza carrozza, i suoi genitori avrebbero potuto cercarlo, lo stalliere e il cocchiere avrebbero potuto incontrarsi; insomma, nella migliore delle ipotesi aveva una manciata di ore prima che ci si accorgesse della sua fuga, e perché no, anche della coincidenza con quella di Eler.
«Ma a chi importa!» esclamò, dando una strigliata improvvisa ai cavalli che nitrirono scontenti.
Light mise a tacere i suoi dubbi e la sua razionalità: in quello slancio di coraggio doveva abbandonarsi all’istinto; e sapeva bene dove esso lo conduceva. Verso chi lo conduceva.
Improvvisamente vide una figura dai capelli neri e sbarazzini che camminava tranquillamente sul ciglio della strada; oltre ad essa vi erano solo un’arrancante vecchietta e un biondo giovane dall’aria frettolosa.
Si avvicinò di più per essere certo, e riconobbe definitivamente Eler: il battito del cuore gli riempì le orecchie, tanto che a malapena distingueva il proprio affannoso respiro.
«Riou!»
L’altro si voltò con l’espressione perplessa di chi si sente interpellato ma non capisce da chi; si guardò intorno per un paio di secondi, poi finalmente incrociò il viso di Light e gli rivolse un sorriso contento e stupefatto: «Che ci fai qui?» gli chiese, dopo aver trottato verso la carrozza.
Light cercò di rispondere sinceramente, ma le bugie fluirono dalla sua bocca senza che potesse fermarle: «Io, ecco... Volevo vederti e darti un passaggio!»
Eler lo ringraziò un poco stranito, ma con la sua solita indifferenza rispetto alla stranezza del genere umano; si abbarbicò accanto all’amante, cingendogli con discrezione il fianco, e il cocchio ripartì.
«Sarà un grande evento, non ti nasscondo di essere contento... anche se questa divisa è insopportabile. Quasi mi pento della mia scelta.»
Il silenzio nervoso di Light gli fece aggiungere con imbarazzo: «Ovviamente scherzo.»
Light accennò un sorrisetto che scomparve in meno di un secondo: fissava la strada, le mani strette intorno alle redini con le nocche bianche dalla tensione.
Stava portando a termine la sua missione di boia, portando il condannato al patibolo?
Il prigioniero, per intelligenza o per l’aura torva della morte che si avvicinava, iniziò a fare domande al carceriere: «Perché non c’è il tuo cocchiere, Light? Come mai non mi hai avvisato prima che venivi, sarebbe stato molto più comodo.»
Non lo chiedeva esplicitamente, ma era chiaro che ad Eler interessava il motivo vero per cui l’altro era lì, non quei futili particolari. Capiva che qualcosa di più grande, e probabilmente più grave, si aggirava sotto quei gesti scomposti e improvvisati.
Light sentiva la pelle di tutto il corpo velarsi di sudore per l’agitazione: cercava di convincere la verità a rivelarsi, ma questa non faceva che torcergli lo stomaco, rifiutandosi di farsi pronunciare.
«Ti va di venire con me a fare un giro al posto di andare a questo noioso evento?»
Gli enormi occhi di Eler si spalancarono ancor di più: «Scherzi, vero?» Un sorriso non troppo convinto gli attraversò il viso «Su, Light. Sbrighiamoci o sarò in ritardo.»
«Ma è davvero così importante? Non sarà poi tanto un problema, se mancherai…»
«Sì, è solo l'incarico più importante da quando sono in servizio. Detto da un maniaco di precisione come te, poi… Sei forse ubriaco?»
Light scosse la testa e fermò la carrozza all’improvviso. Eler si voltò cautamente verso di lui, come se si preparasse a qualsiasi colpo sferrabile.
Si guardarono negli occhi: tra le loro iridi si innestò un fitto discorso, un disperato urlarsi addosso, mentre le loro labbra serrate fecero cadere il silenzio nella strada.
Le dita di Light cercarono quelle di Riou, che si ritrassero diffidenti: nel petto del giovane boia si aprì una voragine di tristezza e incomprensione. Provò il desiderio infantile e vergognoso di andarsene via e basta, scappare, nascondersi in un vicolo e piagnucolare finché qualcuno sarebbe venuto a raccoglierlo; e tutto sarebbe stato semplice, come una favola a lieto fine.
Ma non c’era un lieto fine nel posto in cui stava portando Eler: c’era solo un patibolo fatto di mani nascoste e rabbiose, ira contro un Re che nulla aveva a che fare con l’uomo che Light amava. No, non poteva lasciare che un’ingiustizia simile accadesse: Riou non era un nemico del popolo francese, obbediva alla propria Regina, nel rispetto delle regole come il suo giusto paese gli aveva insegnato.

«Perché non vuoi che io vada verso Billancourt?»
«Vorrei che tu venissi con me.»
«Dove?»
«Non lo so, esattamente. Penso verso Marsiglia.»
«Per quanto?»
«Un po’, direi.»

Eler annuì: «Lasciami solo passare da casa. Questi vestiti sono scomodi e appariscenti.»
 
Scapparono così, senza chiedersi un perché. Ci sarebbe stato tempo, tanto tempo, per parlarsi; ma in quel preciso istante entrambi percorrevano la propria fuga, uno affianco all’altro, stretti ma senza toccarsi, ognuno irrigidito su se stesso: ripercorrevano le proprie vite, si chiedevano chi non avevano salutato e se qualcuno sarebbe loro mancato; si chiedevano se avrebbero mai più bevuto un tè come quello del loro locale preferito, o se avrebbero visto ponti più belli di quelli della Senna, e se lì sarebbero riusciti a darsi baci ebbri nella brezza notturna.
C’erano così tanti interrogativi: sulle loro teste gravava il destino, mescolato a una coltre di nubi sfilacciate.
Guardando l’orizzonte, Light si rese conto che solo due cose erano certe nel suo futuro, da lì in poi: quel pomeriggio ci sarebbe stato un acquazzone estivo, e lui ed Eler non si sarebbero più divisi. E a dirla tutta sul fattore meteorologico non era così certo.
Una mano pallida e delicata gli si posò sulla coscia: i suoi muscoli si allentarono, e finalmente, dopo tanti giorni di angoscia, ricominciò a respirare.

«Sarebbe meglio andare verso Toulon. Lasciamo perdere Marsiglia.»
«Sapresti arrivarci?»
Eler fece un’alzata di spalle: «Posso provare.»
«Dio!» esclamò Light con un ghigno incredulo «C’è qualcosa che non sai o non sai fare? »
«Dire di no ai tuoi stupidi piani, di solito.»
Risero un po’ entrambi. La vita sembrava terribilmente leggera.












Note Autrice.

Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che il susseguirsi veloce dei fatti non abbia reso brutto il capitolo. Spero vi sia piaciuto, e ancora di più che vi piacciano i prossimi, sono contentissima di essere arrivata quasi al completamento di questa fanfiction
A presto, grazie a chi lascerà una recensione, apprezzo sempre moltissimo i vostri commenti.

Nina.

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Capitolo 10
*** Iter. ***




 

I cavalli brucavano malcontenti l’erba del bosco, rimpiangendo il pregiato foraggio. Eler osservava il cielo con aria persa, cercando di rimanere impassibile ai versi tremendi di Light. Passò qualche momento di silenzio sospetto, così si sporse dal sedile del cocchiere verso il giovane inginocchiato in terra: «Stai meglio?»
Light ansimò, alzò la testa per prendere aria; poi il collo ricadde giù e rigettò un’ultima volta.
Chiuse gli occhi, cercando di convincersi di star bene: sentiva le proprie interiora acquietarsi e il respiro farsi più regolare; si alzò e, barcollando, fece i pochi passi che lo distanziavano dalla carrozza. Eler lo squadrava con preoccupazione e un poco di naturale ribrezzo: «Sei sicuro di voler continuare? Possiamo fermarci al paese che abbiamo superato poco fa.»
Light cercò di scuotere in capo in segno di dissenso, ma un brivido repentino glielo impedì: tutti i suoi muscoli si indebolirono, e ricadde in ginocchio come una marionetta senza vita.
Il compagno, con fare testardo, lo caricò sulle proprie spalle e lo fece sedere all’interno, avvolgendolo in un cappotto di pelliccia come un bambino in fasce: «Stasera si dorme a Montbard, e non in carrozza.»
Light cercò di farlo desistere, spaventato: «Non in carrozza? No, non possiamo… Se ci trovassero…»
«Smetti di preoccuparti. Siamo a più di duecento chilometri da Parigi. Le possibilità che ci trovino sono praticamente inesistenti.»
Light si raggomitolò nel caldo rifugio del cappotto: sentiva una terribile vergogna cadergli addosso e avvolgerlo insieme a quel tepore. Si era sempre creduto un condottiero, un abile e testardo pianificatore: era bastato uscire dalla sua culla, dal suo piccolo mondo, per rendersi conto di quanto fosse fragile e debole. Quella consapevolezza nauseante, la notte passata all’addiaccio tra i boschi umidi e il continuo viaggio trottante gli avevano rivoltato le viscere.
Per fortuna aveva qualcuno che si prendeva cura di lui, per quanto fosse imbarazzante mostrarsi così davanti a Riou: aveva deciso di portarlo con sé, ma era stato velocemente detronizzato dal posto di comandante.
Un sorriso gli spuntò sulle labbra: era una bella lotta, tra loro due. Una competizione che aveva generato ammirazione, e sentimento.
La strada si fece meno accidentata e il viaggio divenne più sopportabile.
Era il secondo giorno di fuga.
 
 
«Non hai mai dormito in una stanza così spoglia, vero?»
Light fece un’espressione scherzosa, ma in cuor suo sapeva che era così, ed entrambi lo capivano: Eler sembrava molto più a suo agio dell’altro, in quelle quattro mura spoglie,  con delle lenzuola che odoravano di muffa e stantio.
Non era certo una sistemazione regale, ma avrebbe sopportato quello e ben altro, pur di proseguire quel cammino.
La cittadina era quieta e silenziosa: gli ultimi viandanti tornavano verso casa a piedi, nemmeno una carrozza a guastare la pace. A un paio di case di distanza si sentiva il vago e rilassante rumore del fiume.
Light cercò di sistemarsi comodamente tra le coperte e si rivoltò su un lato, stremato come non mai: «Buonanotte, Riou.»
«Non mi fai nemmeno posto?» gli chiese l’altro, avvicinandosi alla sponda del letto.
Light lo guardò un po’ stranito: «Non è nemmeno una piazza intera, praticamente.»
Eler, ignorando le sue parole, si intrufolò sotto le coperte e si distese sopra di lui: «Mi faccio piccolo.»
«A me sembra solo che tu faccia la zavorra sui miei polmoni.» lo rimbeccò Light. Com’era snervante non riuscire ad imporsi su una persona come Riou! Per quanto ci provasse non poteva prendersela senza smentirsi in una manciata di secondi: gli diede un veloce e scherzoso bacio sulla punta del naso e l’altro rise.
I loro corpi di nuovo così vicini: non pensava che un’occasione simile sarebbe mai potuta riaccadere.
«Potremo stare così tutte le volte che vorremo, capisci?»  mormorò Light, entusiasta ed eccitato «Solo noi due, senza nessun fastidio, senza nessun problema…»
«Senza manette e senza segreti.»
Sembrava di vivere in un universo surreale, in una concreta fantasia: erano lontani da Parigi, immersi lucidamente in un prolungato atto spavaldo e sentimentale, contenti come probabilmente non si erano mai sentiti.
La vita aveva un gusto diverso: più ogni cosa assumeva sfumature assurde, più sembrava vero e realistico quel che stava loro accadendo. Quel che loro avevano deciso di far accadere.
Forse era quella la diversità, forse era insita in quella decisione la nuova fiamma che ardeva il loro giovane animo: la libertà di aver scelto, di essersi indicati da soli il proprio cammino, e soprattutto di averlo fatto insieme.
Light osservò il volto dell’altro nella penombra: una nuova fiamma. Una scintilla scoccata misteriosamente mesi addietro, nel lurido recinto di un porcile, ardeva gloriosa e rinvigorita in quel letto squallido.
Sembrava tutto meravigliosamente destinato ad accadere.
 
 
 
 
Lui e Riou facevano l’amore in cima a un’imponente ziggurat di pietra nera. Il sole bruciava le loro pelli e le pietre su cui erano distesi si arroventavano, la carne ribolliva e si ustionava.
Intorno a quell’enorme costruzione non vi era che deserto: tra la sabbia e lungo la scalinata dell’imponente piramide erano disseminati cadaveri dal colorito pallido e lucido come cera, corpi senz’anima, emblema di morte.
Nuvole purpuree riempirono improvvisamente il cielo, solcate da lampi azzurri; la luce del sole si indebolì, ma quel calore insopportabile aumentava a dismisura.
Light sentì la voce di Eler supplicarlo di fermarsi immediatamente, ma non gli diede alcun ascolto. I suoi movimenti si fecero più bruschi, irosi, volti solo a provocare dolore. Percepiva il corpo dell’altro contro il proprio, ma non riusciva a vederne il volto: con furore si aggrappava a lui, scorticandogli la schiena con le unghie.
Un vortice di violenza e rabbia dominava il suo petto.
Sentiva delle voci levarsi dalle profondità della terra: incomprensibili inni, arcane preghiere mortifere, un assordante stridere di pietre.
Il sangue gli percorreva in rivoli umidi e caldi le cosce.
Eler lo supplicava sempre più, con la voce rotta dal pianto.
«Perché mi stai facendo questo?»
 
 
Light si svegliò di soprassalto; gocce di sudore freddo gli correvano per le tempie, il cuore batteva tanto forte da dolergli. Temette un infarto, aspettò insensatamente la propria morte per alcuni secondi, ma nessuna  mano gelida arrivò a ghermirlo. Dov’era l’angelo della morte, perché si non affrettava a salvarlo da quell’agonia?!
La tachicardia iniziò a dargli tregua. Il respiro, zoppicando, riprese lentamente un’andatura più umana.
Si voltò, cercando Eler con le mani: il resto del materasso era vuoto e tristemente freddo.
Si alzò con difficoltà, chiedendosi sconsolato e preoccupato dove fosse finito il ragazzo che aveva trascorso la notte con lui… era stato così, vero?
Cercò di snebbiarsi le tempie massaggiandole con foga: i ricordi si mescolavano al truce sogno, gli umidi boschi dei colli francesi si confondevano all’arsura del deserto.
 Avevano lasciato presto Montbard il giorno prima, questo lo ricordava bene. Avevano seguito il fiume, poi qualcosa aveva convinto Eler a cambiare improvvisamente strada: un bivio, un’indicazione, un presentimento… non lo ricordava, come non ricordava dove si trovasse esattamente in quel momento. Avevano evitato il centro di Avignone e si erano intrufolati in un dei borghi della periferia, spinti dal temporale estivo e dalla precaria salute di Light a cercare un posto in cui dormire.
Dov’era Riou?
In quel momento una donnina dalla dubbia età fece capolino dalla porta: «Buongiorno, vedo che si è svegliato. Il suo amico mi ha detto di portarle il pranzo in camera. Si sente ancora molto male?»
La presenza di un essere umano, per di più dall’aria tanto amichevole, sprigionò un calore rassicurante nel suo petto. Provò però un immediato senso di vergogna per essere ancora in veste da notte all’ora di pranzo: non aveva fatto caso in tempo al fiume di luce che scaturiva dalla finestra, nel suo tormentato tentativo di separare incubo e realtà. Scosse velocemente il capo e prese tra le mani il piccolo vassoio di legno che la donna gli stava porgendo: «Vi ringrazio. Il mio amico vi ha detto quando sarebbe tornato?»
Lei sembrò piacevolmente stupita di essere interpellata con un “voi”: «No, mi ha solo… solo chiesto questa cortesia, tutto qui.»
Light annuì riconoscente e la donna sgattaiolò via, gustandosi tra le labbra raggrinzite le parole cortesi di quel ragazzo così avvenente: ma erano passati gli anni in cui poteva permettersi di mostrarsi lasciva con i clienti della sua bettola.
Light spiluccò la frittata insapore, osservando meglio la stanza in cui si ritrovava: quella seconda sistemazione era decisamente meglio della camera ammuffita della notte prima. La dedizione con cui la proprietaria cercava di nascondere lo squallore dell’ambiente in sé si leggeva perfettamente nei pomelli lucidati e nelle piccole chincaglierie con cui aveva addobbato gli spogli ripiani della stanzetta.
Uno strano turbamento si era impossessato delle sue notti, in quei giorni: la debolezza fisica e la consapevolezza dell’essere un fuggiasco continuavano a dipingere nella sua mente addormentata scenari apocalittici e sogni perversi. Non li ricordava nella loro interezza, per sua fortuna, ma rimaneva immerso in una sensazione di inquietudine per alcuni lunghi e tesi minuti.
Cercava di spiegare a se stesso con estremo raziocinio che era la normale reazione a quello che gli stava succedendo, o meglio, a quello che lui stava facendo; le conseguenze delle decisioni consapevoli che aveva preso.
Si interrogava senza sosta su cosa stesse succedendo a Parigi in loro assenza: aveva inizialmente sperato di scoprire qualcosa racimolando dicerie nelle città in cui erano arrivati, ma ben poco sapevano i popolani. Il fatto che gli Stati Generali discutessero di questioni finanziarie o legislatura, a discapito delle richieste del Terzo Stato, erano minuzie che un oste di paese ignorava: l’unica notizia che gli sarebbe potuta interessare era la testa di re Luigi che rotolava sul pagliericcio di una ghigliottina.
Non erano questi i soli fatti che interessavano a Light: immaginava il padre e la devastata sposina che lo inseguivano, seguendo le orme delle varie falle del suo piano di fuga frettoloso. Aveva condiviso queste preoccupazioni con Eler il giorno prima: con ogni probabilità in quel momento l’assenza dell’altro era motivata da un qualche progetto che era sorto in mente a Riou durante la notte.
I suoi sospetti in merito furono confermati una manciata di minuti più tardi, quando Light scese nella piccola sala comune –o cucina, a seconda di come la si interpretasse- della bettola: la mano stanca di Riou aprì la porta e la sua voce roca salutò la padrona, inginocchiata vicino all’ingresso intenta a pulire una macchia di grasso.
Il suo sguardo era inquieto e, nel complesso, il ragazzo era visibilmente alterato: Light si avvicinò a lui trattenendo un’aria eccessivamente premurosa: «Per caso è successo qualcosa?»
«Non hanno voluto comprare la carrozza.» mormorò Eler, visibilmente scosso e preoccupato.
L’altro cercò di capire che genere di piano quella frase nascondesse: «Chi non ha voluto? Perché hai cercato di venderla?»
«È  l’unica cosa che ci renda riconoscibili: ha gli stemmi, i marchi della bottega e così via. Sono riuscito a trovare l'unico venditore di cavalli di questi quartieri, ma non l’ha accettata.»
Light annuì, approvando l’idea dell’altro e al contempo preoccupandosi di quella prova evidentissima che avevano con loro: la ricca famiglia di Mélisande aveva fatto incidere effettivamente su ogni porta il loro antico -e ormai privo di valore- simbolo, e sul lato posteriore sventolava anche un gonfalone di broccato. Come se non bastasse, la prestigiosa bottega di carpentieri che l’aveva costruita aveva decorato entrambe le porte con disegni che richiamavano notoriamente il fabbricante.
«Ha pensato che fossi un ladro, dato quant’è bella ha pensato fosse di qualcuno importante.» spiegò Eler «Non vuole avere a che fare con… roba scottante, ha detto.»
Un silenzio preoccupato calò tra i due, Eler chiese gentilmente alla donna un bicchiere di acqua. Light non lo aveva visto così demoralizzato in vita sua: si rese improvvisamente conto di quanto si affidasse a lui, e quanto vederlo scoraggiato gli facesse crollare la terra sotto i piedi.
Sentì un dito scarno picchiettargli sul braccio: la donnina lo osservava con trepidanza e timore, rigirando qualche frase oscura tra le labbra ma senza il coraggio di proferirla. Light le si avvicinò e quella gli mormorò: «Non volevo assolutamente origliare...»
 
 
 
Le pareti grigiastre erano vessate dal sole di mezzogiorno, in un combattersi di luce e accecante riverbero. Le torrette gotiche si ergevano come soldati di prima linea, coraggiosi, pronti a morire contro quel nemico anche nel loro stato pietoso. Le merlature del tetto parevano denti sgretolati e marciti di un mostro, gli archi accennati sulle pareti sembravano costole in rilievo su un petto scarno e affamato.
Light osservava l’edificio, cercando in qualche meandro della propria testa un vago ricordo di letteratura italiana: «Se egli fu sì bel… Se fu si bel come ora…»
Le parole dantesche non gli tornavano alla mente, ma ben ricordava il significato della descrizione di Lucifero: il suo aspetto angelico era stato magnifico tanto quanto erano terribili le sue diaboliche e nuove sembianze. Nessun paragone gli riusciva più adatto e straziante, davanti alla decadente Sede del Papato avignonese.
«Non ho mai visto un palazzo ridotto in questo stato.» osservò Eler, riprendendo la strada che la vecchia donna aveva loro indicato.
«Con il pretesto della rivolta i peggiori individui l’hanno derubato.» le parole di Light traboccavano di indignazione «Un reperto storico simile in mano a un branco di finti rivoluzionari… bestie che sfruttano degli ideali alti per delle simili… schifezze.»
L'altro alzò le spalle con indifferenza: «Alle persone piacciono gli ideali, è stata una scelta astuta per giustificarsi.»
Light lo squadrò malamente: «Gli ideali dovrebbero essere un fine, non uno stupido mezzo.»
«Non credo negli ideali.»
«Una persona rigorosa come te?» lo prese in giro Light.
«Il mio rigore è pragmatico e relativo alle circostanze. Tendo ad ubbidire, fino a quando farlo è la scelta più ragionevole.»
«La tua vita è priva di romanticismo, Riou.»
«La tua si illude di averne. Io mi prefisso semplicemente degli scopi e li seguo, ma scopi veri.»
«La libertà non è vera? L’uguaglianza non lo è? Cosa c’è di più vero di questo?»
«Questo sasso è più vero di tutto quello che hai elencato. Chi segue questo genere di ideali parte con una decisione, realizza il completo contrario e si convince soddisfatto di aver fatto esattamente quello che voleva. Io sono molto più semplice: ho accettato l’incarico di far parte della polizia e vi ho dedicato tutta la mia giovinezza. ho voluto rispettare il volere della mia regina, l’ho fatto fino a trasferirmi in un paese straniero. Ho voluto indagare a fondo su un caso, l’ho fatto fino a incatenare un innocente.»
«E ora sei qui con me. L’amore non è ciò che di più ideale esiste?» lo guardò con un sorriso provocatorio.
Riou lo guardò con schiettezza: «Non sei un ideale. Tu sei tu, in carne ed ossa. E ho deciso di stare con te. Direi che le mie decisioni si sono realizzate molto più di quanto non lo abbiano fatto la maggior parte delle tue, specie quelle che probabilmente discutevi con i tuoi amici borghesi.»
Light si irrigidì a quella secca affermazione: «Forse non sarei qui con te, se avessi saputo prima della tua spiazzante faccia tosta.»
«No, saresti qui comunque. Accetti difetti di me ben peggiori, e lo sai.»
Light, così zittito, accelerò il passo verso la via che la vecchia locandiera aveva loro indicato: come detestava dovergli dar ragione!
Riou gongolò un po’ tra sé e seguì allegro il passo affrettato dell’altro.
L’edificio era incastrato tra due alte costruzioni molto antiche ma fatiscenti: pareva un’erbaccia rigogliosa cresciuta tra due ceppi di querce secolari.
Light si avvicinò con titubanza allo scuro portone, frenato da sensati pregiudizi e da un innato senso etico; Eler, invece, con la sua proverbiale ostinazione sempre tinta di noncuranza, afferrò il battente e bussò.
Nel momento stesso in cui li fecero entrare, capì che difficilmente avrebbe dimenticato una scena così ricolma di squallore: penetrò nelle sue ossa insieme all’umidità e all’ostilità per quel luogo buio e soffocante.
La persecuzione dei calvinisti e degli ebrei in territorio francese, attenuatasi solo negli ultimi decenni, era stato un fenomeno distruttivo e disumano che non aveva portato alcun miglioramento sociale –a dispetto delle aspettative delle autorità e della ingenua gente comune-: le attività di usura, prestiti illeciti, scambi loschi di merci e banchi dei pegni erano resistiti nell’ombra, radicati profondamente nella società.
Non era per niente entusiasta di quello che stavano facendo, ma vendere la carrozza era ormai una necessità improrogabile, e non solo per il fatto che essa poteva esser riconosciuta: qualsiasi fosse stata la loro meta finale, non si sarebbero potuti spostare ancora per molto con le poche risorse monetarie che avevano. I risparmi personali di Light non solo erano esigui, ma il padre aveva deciso di utilizzare delle banche sicure per trasportarli in Spagna: il denaro che il ragazzo aveva fisicamente con sé sarebbe bastato ancora per poco.
Il tozzo uomo che aveva aperto loro la porta li condusse fino a un cortiletto interno. Aveva un naso aquilino con delle narici incredibilmente grandi: il resto dei tratti grezzi del viso, rispetto ad esso, risultava insignificante. Non si poteva definire sordido, anzi: il suo aspetto esprimeva sì una certa grossolanità, ma pulita e a suo modo dignitosa, quasi onesta -paradossale, per la sua professione-.
Light si appoggiò a uno dei muriccioli, facendo segno ad Eler di seguire l’uomo e di scegliere lui: vedeva i quattro carretti che erano allineati in un piccolo rettangolo di ciottolato e ognuno di essi gli avrebbe fatto rimpiangere la sua carrozza e quella decisione.
Un profondo senso di inadeguatezza lo riempì come mai prima d’allora: si era portato alle labbra la mela del peccato e, come l’ingenuo Adamo, ora assaggiava le amarezze della vergogna. Si poteva definire timore di Dio? Non era credente, ma in quel momento sentiva uno sguardo potente traforagli la nuca con rimprovero e sdegno.
I due uomini trattavano a pochi metri da lui, gesticolavano in un muto duello matematico. Gli occhi chiari dell’usuraio erano vispi e intelligenti, ma non erano nulla paragonati agli enormi e scrutanti occhi di Riou: pupille cacciatrici, avvolgenti e al contempo affilate armi; ti cercavano, ti seducevano, ti intrappolavano.
Aveva fatto così anche con lui e continuava ad ingannarlo? O proprio il fatto che Riou lo avesse seguito mostrava la particolarità del loro caso, la sincerità di un sentimento incondizionato?
Avevano finito di discorrere. Un modesto carretto tinto di verde con le raggiere rinforzate era diventato il loro nuovo mezzo di trasporto: considerandone la larghezza e la presenza di ben quattro ruote, l’evidente usura del legno poteva essere ignorata.
«Siete dalla vecchia Christelle?» chiese l’uomo con voce roca, cercando di nascondere la stanchezza per quella sfida verbale.
«Sì. Se ci segue le mostreremo la carrozza e potremo concludere ogni particolare della cosa. Vorremmo partire entro domani mattina.»
Eler rivolse all’uomo queste parole con viso altero, poi si voltò verso Light: le labbra sottili si incresparono in un sorrisetto di infantile soddisfazione.
Se gli occhi di Riou gli mentivano, non avrebbe desiderato nulla in cui vivere se non le loro bugie.












Note Autrice.

Adorabili capitoli "di mezzo", che non si riescono mai a scrivere e che non soddisfano mai... ma questo è un importante anello che ci congiunge al finale della storia. Sì, siamo agli sgoccioli, come si usa dire. Ora che la scuola non sarà più un assillante problema spero di poter finalmente concludere questa fanfiction che, tra alti e bassi, ho curato tanto e penso meriti una conclusione. Mi dispiace per coloro che hanno cercato di seguirla con me, dovendosi sopportare mesi di interruzioni; alla pubblicazione dell'ultimo capitolo spero che qualcuno possa leggerla con più tranquillità e continuità.
A presto, e grazie ai pochi disperati che ancora seguono Riou e Light in questa storia.
Nina.

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Capitolo 11
*** Oceani e fiamme. ***


Demoni e meraviglie
Venti e maree
Lontano di già si è ritirato il mare
E tu
Come alga dolcemente accarezzata dal vento
Nella sabbia del tuo letto ti agiti sognando
Demoni e meraviglie
Venti e maree
Lontano di già si è ritirato il mare
Ma nei tuoi occhi socchiusi
Due piccole onde son rimaste
Demoni e meraviglie
Venti e maree
Due piccole onde per annegarmi.
  
 Jacques Prevert





Light misurava a lunghi passi il perimetro della stanza, evitando alcuni mobili addossati alla parete: una piccola libreria più larga che alta, due stretti letti divisi da un comodino, un minuscolo tavolino rotondo su cui era poggiato un vaso vuoto e scheggiato. A grandi linee questo era ciò di cui la stanza era composta: l’unico mobile che osava staccarsi dalle pareti era una mastodontica scrivania che troneggiava al centro della stanza. Per le dimensioni e lo stile più raffinato del resto dell’arredamento attirava tutta l’attenzione a sé, quasi annullando il resto del monolocale.
«Come vi dicevo, il braciere e la cucina sono al piano inferiore, nel retro del mio negozio.» spiegò con solerzia il proprietario di casa «Capisco che potrebbe risultare più scomodo, ma si evitano molti problemi legati alla fuliggine e all'odore.»
Light pensò che quella stanza, affacciata su una via dove i pescivendoli strillavano tutto il giorno, non avrebbe potuto avere un odore peggiore, ma si guardò bene dal dirlo.
«Potrebbe risultarvi addirittura più comodo, se ad esempio vi preparassi io i pasti e ve li portassi. Ovviamente costerebbe di più.»
Light scosse la testa: «Non si preoccupi, ci penseremo noi. Vedremo di non darle fastidio e di non invadere eccessivamente il suo spazio.»
L'idea di avere nuovamente qualcuno che si curasse dei suoi pasti lo allettava come un piacere soave, ma non potevano permettersi di pagarsi una sorta di cameriere in quel momento: anche solo pagare l'affitto per quella misera camera era per loro un problema da affrontare presto.
«Che ne dici?» disse Light, voltandosi verso Eler. Il ragazzo osservava dalla grande finestra il mare limpido di Toulon, sorvolato da stormi di gabbiani e cosparso di barche. Impiegò qualche secondo per rispondere, ma lo fece con un cenno di capo convinto: era perfetto.
 
 
Monsieur Bourgeois aveva un animo amorevolmente rude e ricolmo di brusca tenerezza: morta da poco la moglie con cui aveva condiviso la casa sovrastante il suo piccolo negozio, aveva deciso di trasferirsi nel retrobottega e di affittare la stanza. Come aveva spiegato ai due giovani con cordiale sincerità, non riusciva a stare in quella stanza senza riempirsi di malinconia: preferiva il suo minuscolo lettuccio in fondo al negozio, vicino alle stufe e ai trucioli di legno. Aveva bisogno di guadagnare quanto più possibile per potersene andare dalla vivace città costiera e ritirarsi in un luogo più tranquillo per attendere la fine dei propri giorni.
I due ragazzi vendettero tutto quel che era loro rimasto, carretto compreso, e aiutarono l'anziano con il frenetico lavoro in bottega: non erano garzoni eccellenti, soprattutto Light era carente di una qualsiasi abilità in materia, ma il padrone di casa aveva preso in simpatia la coppia di fratelli Dieunuit -così si erano presentati, per quanto agli occhi di chiunque sarebbe sembrato assurdo; ma loro non cambiarono mai versione, e il vecchio non la contestò mai apertamente-.
La loro fuga era giunta in un punto cruciale e al contempo statico; da come si comportavano sembrava che il loro intento fosse di stabilirsi lì per molto tempo: la ricerca di una dimora stabile, di un lavoro fisso. Ogni tanto la fantasia di rimanere attraversava le loro menti stanche di scappare, ma non lo confessavano e continuavano nel loro frettoloso e produttivo modo di vivere. Era solo questione di tempo: mettevano da parte i mezzi per spiccare l'ultimo volo e andarsene per sempre dalla Francia. Lo avevano deciso insieme, scrutando quel mare argenteo che profumava di una riscoperta libertà, di speranze lontane e invitanti.
Toulon era un porto multiculturale. Vi approdavano navi da ogni dove, diretti in qualsiasi luogo del mondo: inglesi, portoghesi, spagnoli, genovesi, siciliani, fiamminghi. Fiumi di prodotti di lusso dall'India, ingenti quantità di materie prime dalle colonie francesi in Canada. Per quanto il mar Mediterraneo avesse perso la sua preminenza commerciale rispetto agli oceani, non si poteva certamente definire ristagnante l'economia del porto francese, anzi: per cittadini come Light ed Eler, che poche volte in vita loro avevano visto il mare o si erano immersi nella vita dei mercanti, era tutta una cacofonia di lingue incomprensibili, un'accozzaglia di prodotti dai colori sgargianti e volti stranieri. Un carnevale infinito e vociferante che si intensificava verso il centro portuale della città, situato più ad ovest rispetto alla zona costiera in cui loro abitavano.
Era una città che gridava alla vita, al movimento, al fiammeggiare dell'attività umana: quella stessa passione pervadeva gli animi dei due innamorati, pronti a sacrificarsi per quel sogno di andarsene insieme.
Così trascorsero parecchie settimane, le ultime fresche di giugno e le prime roventi di luglio. Ripulirono la stanza, tolsero la polvere dai volumi impilati sulla libreria, dopo qualche esitazione unirono i due letti. Lavorarono nella bottega, ottennero brevi incarichi nei negozi adiacenti, iniziarono a lavorare a domicilio come molti operai dell'epoca; si inserirono con difficoltà ma anche con determinazione nella vita dei ceti bassi, si adattarono, si nascosero tra i pescivendoli illetterati e amanti delle frottole. Trovarono qualche impiego più dignitoso tra i commercianti, grazie ai loro studi e all'innata logica matematica di Eler: era facile trovare braccianti tra la povera gente, ma dei contabili efficienti erano molto più rari. Si facevano assumere da mercanti in erba, giovani con un patrimonio da investire e una sete d'avventura divorante. Si proponevano spesso come dipendenti fissi, nella speranza di riuscire a salpare per altre terre; ma i tumulti e le rivolte, la cui influenza iniziava a farsi sentire anche nelle zone lontane dalla capitale, rendevano tutto più instabile e ogni uomo più diffidente, specie nei confronti di chi mostrava un'evidente cultura: nessuno aveva intenzione di rischiare d'imbarcare dei fuggiaschi ricercati o persone che in qualche modo avrebbero potuto creare problemi con la loro presenza.
Il paese era in fermento perenne.
Il 4 giugno giunse la notizia della morte dell’erede al trono, un infante a cui succedeva il fratello ancor più piccolo. Titoli e avvenimenti nominali, data la situazione di crisi evidente della monarchia stessa, ma che in qualche modo sollevarono l’interesse del popolo.
Più inosservati alla maggior parte delle persone con cui ormai vivevano, ma di focale importanza e gravità per i due borghesi coscienziosi, furono i fatti politici: il 20 giugno, nonostante la chiusura dell’hotel des Menus-Plaisirs, nacque l’Assemblea Nazionale in una misera sala da pallacorda.
Nel pomeriggio del 10 luglio arrivò la grande notizia a Toulon come una ventata di Maestrale, attraversando il paese da Parigi all’estremità sudorientale della Francia: il giorno prima era stata ufficialmente creata l’Assemblea Costituente.
Gli effetti e le conseguenze di tutto quel che accadeva in quei mesi estivi non erano ancora chiari, i più nemmeno li presagivano; ma l’animo di Eler, una perfetta miscellanea di istinto animale e logica, fiutò nell’aria il cambiamento e il disastro molto prima di molti altri, compresi quelli che poi lo misero in atto.
Avevano programmato di restare in bottega tutta la giornata, ma Riou decise improvvisamente di uscire senza dare molte spiegazioni. Ogni tanto capitava: grazie alla sua proverbiale astuzia e capacità di tessere fili tra le persone, aveva creato un primordiale nucleo di amici –nel senso più losco del termine- e informatori. Non riferì esattamente a Light cosa avesse fatto ma, quando tornò a sera tarda, sul suo viso vi era un’espressione seria e risoluta: avevano un incontro fissato per il giorno seguente con un commerciante di lane, per farsi assumere come ragionieri revisori.
Light cercò di mostrarsi contento di quella trovata improvvisa e, ne era certo, in qualche modo disonesta: «Direi che è fantastico. Dove dobbiamo andare ad incontrarlo?»
«Nel ghetto.»
 
 
I muri delle case crescevano in altezze spropositate verso il cielo, rendendo le anguste strade ancor più scure e vagamente inquietanti. I due attraversarono le prime fila di edifici, insinuandosi in viuzze che parevano un labirinto. Le persone li guardavano con uno stupore vago e timoroso di chi preferisce non immischiarsi.
Il popolo eletto, costretto a vivere in ristretti quartieri, era costretto ad innalzare le proprie case a dismisura. Si protendevano come preghiere verso il cielo, alla ricerca di Dio.
La casa in cui entrarono spiccava in grandezza e in bellezza rispetto alle altre: subito si resero conto che essa all'interno, più che abitazioni, conteneva uffici e luoghi di lavoro. Decine di cappelli azzurrini, il segno distintivo che era loro richiesto di utilizzare, si muovevano per i corridoi a ranghi serrati.
L'idea di quel luogo così atipico ed alieno nel bel mezzo del mercato turbava Light: era una dimensione di vita che conosceva per sentito dire, in quel modo blando e indifferente con cui si apprende delle epidemie e della morte di persone che non si conoscono.
Si percepiva unità, una segretezza sottintesa in ogni frase che si scambiavano, un tacito accordo in quei loro particolari tratti facciali.
L’uomo a cui si trovarono davanti aveva un aspetto decisamente eccentrico: di mezza età, terribilmente scarno, un naso prominente sovrastato da una fronte bombata; questi tratti rudi e brutti erano in netto contrasto con i suoi abiti scuri e composti, ancor di più con il suo linguaggio estremamente forbito. Eler lo aveva ben avvisato di quanta professionalità assumessero i commercianti di tale rango e importanza, come se i traffici di merluzzi o tessuti nobilitassero più di intere generazioni di sangue aristocratico -punto su cui, in realtà, Light riusciva a trovarsi particolarmente d'accordo-.
Il giovane Dieunuit cercava di trattenere i propri accenni di nervosismo, invidiando la naturalezza di Eler in quella situazione.
Il capo dell'omino davanti a loro si mosse leggermente: «No, mi dispiace. Mi hanno parlato bene di voi, ma non ho bisogno di altri contabili nelle mie navi, non in quelle in partenza nel prossimo mese. Vi dirò anzi che la maggior parte dei genovesi e dei veneziani sono partiti già a maggio, presentendo il disastro: noi ci stiamo muovendo con più lentezza solo per la nostra sicurezza. Difficilmente troverete corporazioni che cerchino membri d'equipaggio... forse qualche mercante che lavora in proprio, ma nulla di sicuro, e probabilmente niente di adatto a voi due. Preferiscono i mozzi, o coloro che riescono a governare un timone.»
I due giovani annuirono, sospirando silenziosamente. Non era la prima delusione, ma era stata fino ad allora anche l’aspettativa più grande. La simpatia reciproca ed evidente tra loro e l’uomo seduto dietro alla scrivania ricolma di carte andava così dissolvendosi, annullando qualsiasi speranza di contatto.
Aveva un’aria terribilmente cordiale ed era evidentemente dispiaciuto di lasciarli andare così delusi. Li guardò con un sorriso sconsolato e chiese: «Da dove venite? Avete accenti molto diversi dal mio, ma anche tra voi.»
«Sono parigino, di origini materne inglese.» spiegò Light.
«Solo materne? Non lo avrei detto. Lei è la prima persona dell'Ile-de-France che sento parlare in modo comprensibile!» ridacchiò sotto gli ispidi baffi neri «Ovviamente scherzo. Lei invece?»
Riou sembrò tentennare: «Sono cresciuto in territorio austriaco, per lo più a Vienna.»
«Come il mio rabbino!» esclamò, folgorato dalla coincidenza «Ha per caso parenti ebrei? Alcune personalità di spicco della nostra comunità hanno avi suoi connazionali, e i suoi tratti potrebbero suggerire...»
«Non le so dire. Sono cresciuto in un orfanotrofio e poi nella Kaiserlich Internatsschule.»
«Dice sul serio?»
Riou annuì, gli occhi fissi sul volto dell'altro ne studiavano lo stupore con estrema cautela: «La conoscete? Ne avete fatto parte?»
«No no, non io. Ho vissuto tutta la mia esistenza qui, nel meridione francese. Come però vi ho riferito prima, non sono rare le provenienze orientali o nordiche nel nostro nucleo. Il mio rabbino vi insegnò per anni, ne parla molto spesso. Ho il sospetto che vi possa anche esser stato studente, ma non saprei dirlo con certezza: ha ormai una certa età e non parla volentieri dei primi vent’anni della sua vita.»
Quel nuovo punto di contatto aveva creato tra i due una sottile chimica a cui Light si sentiva estraneo: al contempo, però, ne avvertì tutte le potenzialità.
«State cercando di andarvene?» chiese a voce più bassa l’uomo, scrutandoli con gli occhi scuri e acquosi. «Ci stiamo provando.» rispose Eler con inaspettata e totale sincerità.
L'altro li osservò per alcuni intensi istanti, sfiorandosi la barba con la punta delle dita, in profonda riflessione. Sul viso grinzoso si era disegnata un'espressione interessata e incredula davanti al gesto che lui stesso stava per compiere.
Allontanò la sedia dalla scrivania e li guardò con aria tronfia: «Se mi si concede un'espressione fatta, questo probabilmente è il vostro giorno fortunato.»
 
Non molti paesi potevano all'epoca vantare dei capi di governo che non fossero matti, pochissimi avevano l'onore di essere guidati da un sovrano illuminato: Pietro Leopoldo, sia per i contemporanei che per i posteri, meritò questo titolo.
Light non aveva mai sentito parlare del Granducato di Toscana in vita sua: le parole di Zekharia, il commerciante che aveva provvidenzialmente deciso di essere il loro mecenate, gli figurarono immediatamente una terra promessa.
Livorno, uno dei porti più floridi e ricchi del Mediterraneo, vivace culturalmente, privo di un ghetto: la comunità ebraica viveva nella società, libera da restrizioni di ogni sorta. Gli ebrei potevano entrare nelle Corporazioni, anche nelle più prestigiose: lo stesso Zekharia spiegò di essere membro dell'Arte dei Mercanti della Lana. Numerosi gruppi di giovani intraprendenti della sua stirpe si imbarcavano verso questi più fortunati luoghi, intenzionati a far fortuna.
Non era teoricamente previsto che in queste spedizioni, a metà tra viaggi commerciali ed esodi verso una seconda Gerusalemme, prendessero parte persone esterne al ghetto; ma nessuna regola scritta lo impediva, era un veto muto e sottinteso a cui però una personalità di spicco avrebbe potuto opporsi.
Light ed Eler erano giovani zelanti, laboriosi, evidentemente più intelligenti della media e disposti a tutto per andarsene; una nave che partiva di lì a pochi giorni aveva bisogno di equipaggio per mansioni di scarsa importanza. Con la disponibilità a fare lavori manuali di Light e la conoscenza di cartografia di Eler -una tra le tante nozioni che il giovane serbava nel suo immenso patrimonio culturale- si sarebbero resi utili e avrebbero realizzato il loro intento.
Light girava per la stanza irrequieto, ripensando alle parole dell'uomo riguardo alla città dove si sarebbero diretti: aveva accennato, tra le varie arti, anche quella di Giudici e Notai. Forse, deviando i suoi studi umanistici sul ramo accademico della giurisprudenza, avrebbe potuto entrare a farne parte. L'idea lo confortava non solo perché gli figurava un ritorno a qualcosa di più aulico del mercato del pesce e del rattoppare le suole, ma era soprattutto una prospettiva di un futuro stabile. Un progetto duraturo, delle basi su cui costruire la propria esistenza.
Si voltò verso Eler: si era velocemente procurato carte e strumenti topografici in vista della partenza e riscopriva gli insegnamenti assopiti nella sua testa ormai da anni. Era solerte, preciso, ricolmo di senso del dovere, chino sulla scrivania e silenzioso da più di un’ora.
Light ricordò la frase che gli aveva detto settimane addietro:” Il mio rigore è pragmatico e relativo alle circostanze. Mi prefisso degli scopi e li seguo.” In quell’istante riusciva a leggere nella sua fronte corrucciata quella stessa inclinazione d’animo.
Sospirò. Erano le otto di sera, avevano cenato da due ore, come previsto dagli orari del loro padrone di casa: il vecchio in quel momento già dormiva, pronto a levarsi all’alba per accogliere i pescherecci.
«Stai ancora lavorando?»
Lui annuì lentamente, come se qualsiasi movimento potesse infrangere il delicato equilibrio della sua opera.
Light si slacciò la camicia, scoprendo il petto nudo; Eler teneva gli occhi fissi sulle carte mentre l'altro si avvicinava alla scrivania coperta di fogli. Dalla finestra aperta una brezza calda portava nella stanza un intenso profumo di gelsomino. Il sole languiva sull'orizzonte del mare.
Light si mise dietro lo schienale della sedia, massaggiando le tese spalle dell'altro; gli carezzò il petto, i fianchi, cercando di insinuarsi tra la camicia ruvida e la tiepida pelle.
«Light, dovrei finire prima di domani.»
"Dovrei". Aveva già iniziato a vacillare.
Light gli baciò il collo più volte: l'afa di luglio e il lavoro ininterrotto gli avevano velato la pelle di sudore, i muscoli tesi dalla concentrazione si lasciavano ammaliare da quelle tenerezze.
«Proprio non mi ascolti.» La mano di Light scivolò tra le sue gambe divaricate, dentro i pantaloni di grezzo lino.
Eler poteva fingersi incrollabile quanto voleva, Light conosceva i suoi punti deboli e aveva forgiato le chiavi per ogni suo piacere prediletto. Gli baciò l'orecchio, osservando compiaciuto come l'altro iniziava a distendersi sulla sedia, le mani appoggiate ai braccioli. Light si sporse ancor di più sopra di lui, così che la mano protesa tra le gambe dell'altro potesse muoversi. La bocca di Eler si schiuse estasiata, un brivido vago nel corpo gli scioglieva lentamente la tensione nei muscoli.
«Facciamolo qui, Light.»
Quell'improvvisa risolutezza inizialmente lo spiazzò, ma pensò bene di non lasciarsi scappare l'occasione inattesa.
«E come dovrei mettermi, in mezzo ai documenti e ai tagliacarte? No, non si riesce.»
Eler si alzò improvvisamente dalla sedia, rischiando quasi di rovesciarla in terra; voltato verso Light iniziò a spogliarsi, frenetico ma preciso, senza mancare un bottone nonostante gli occhi fossero fissi in quelli dell'altro. "Metodico e infallibile anche nella passione", pensò Light con un sorriso. Quanto, quanto lo amava.
«Che ne dici del balcone? Ti piacerebbe, Riou?» lo canzonò.
«La balaustra è scomoda.»
L'altro lo strinse a sé, continuando a prenderlo in giro: «E il fatto che ci vedrebbero dalla strada ovviamente non ha importanza, no?»
«A dire la verità a questa ora, statisticamente parlando, il numero di passanti in questo quartiere...» Light soffocò i calcoli statistici in un bacio impaziente e violento.
 
Due notti ancora e avrebbero salutato per sempre quel minuscolo monolocale affacciato sul rumoroso mercato del pesce, avrebbero abbandonato la Francia traditrice di sogni e sarebbero approdati in una florida nuova vita. Insieme.
Insieme come avevano voluto essere fin dall'inizio, insieme come era destino che fosse. Insieme come in quel momento, su quel letto scomodo, avvinghiati e innamorati in quel modo folle e senza remore che appartiene solo ai giovani.
Era da parecchio che Riou non accettava di esser succube del corpo dell’altro: la terza volta che era successo, una mattina domenicale di poche settimane prima, era stata per lui dolorosissimo; scosso e in silenzio era rimasto tra le braccia di Light molto a lungo. Inaspettatamente quella sera afosa di luglio, con le dita intrecciate a quelle dell’amato perché lo seguisse nelle sue intenzioni, si era di sua sponte chinato riverso sul letto: invitava il corpo dell'altro a stringersi al proprio.
Light allungò la mano sulla nuca di Riou, accompagnandogli il fianco con l'altra; strinse i capelli tra le dita e l'altro per un istante reclinò la testa indietro con un gemito di dolore. Quel singhiozzo strozzato piacque a Light più di quanto avrebbe potuto confessare: continuò con una smania ancor maggiore, respirando ansimante contro la schiena del ragazzo. Amava quella sensazione, quella pelle nuda contro la bocca, le magre cosce di Eler, la sua chioma scarmigliata come quella di un ragazzino dispettoso.
Cercò di spezzare il proprio respiro pesante per confessare il proprio amore, mostrarglielo come una superba opera d'arte, fiero e in lacrime come un orgoglioso artista.
Tutto questo per te, Riou. Correre, gettarsi nelle acque salmastre della fuga, amarsi tra le lenzuola, litigare come vecchi pacifici amici, imparare una professione, una lingua e ogni giorno dimenticare un volto della vita passata, una viuzza di Parigi.
Dimenticarsi ogni giorno le pallide e insoddisfacenti curve delle donne per imparare a memoria il corpo dell'uomo amato, l'apice unisono del piacere, la sottile perversione della segretezza e della forza e della dolcezza.  Oh, com'era bello sotto occhi ignari guardarsi, sfiorarsi di nascosto,  sapere all’insaputa degli altri!
A quei pensieri sprofondò nell'orgasmo.
Un sussurro ingoiato per metà: «Ti amo, Light. Ti amo.»
 
 
 
 
 
 
L'aria satura di fumo sembrava puro veleno ma lui la respirava a pieni polmoni, tossendo ogni tanto grumi di sangue. Dall'alto del muro diroccato osservava le fiamme che divoravano la Bastiglia, si inebriava delle urla straziate e feroci che tutta Parigi esalava.
«Xolòtl è grande...» sussurrò, mentre il calore delle fiamme iniziava a lambirgli la pelle marcia: si stava riempiendo di bolle che non percepiva, tanto corrotta e putrefatta era la carne che il suo scheletro si trascinava dietro, incapace di morire. Aveva sperato che quel giovane, quel giovane Dieunuit avrebbe potuto gloriosamente essergli successore...
Contemplava i soldati morituri che combattevano tra i corpi squartati. Aveva fallito, ma con quella carneficina Xolòtl lo avrebbe perdonato... sì, lo avrebbe perdonato e posto in gloria negli Inferi accanto a suo padre e al predecessore e a tutti gli avi uniti dal sangue che al loro Dio avevano donato!
«Guarda questo altare pieno di fiamme! Solo per te mio Dio, immenso e potente concedimi oh ti prego ascoltami! Io tuo discepolo, io tuo ultimo sacerdote!»
Una mano gli afferrò la spalla, e lui seppe.
«Sei tu?» mormorò, colmo di reverenziale timore. I rossi e purulenti occhi si bagnarono di lacrime.
«Sono io, padre.»
«Lasciami vedere il tuo volto... mio padre mi vide, quando divenni suo successore...»
«Non posso.»
«Il mio Dio non è stato soddisfatto da me? L'ho deluso?»
L'altro non rispose. Prese saldamente anche l'altra spalla e con una spunta poderosa lo gettò dal muro, nelle fauci delle fiamme.
E mentre la sua carne si purificava con il fuoco e diventava sacra cenere, alzò gli occhi alla ricerca di un’ombra, una sagoma, un indizio di esistenza: e vide.
 
E mentre il mistico incontro tra Dio e uomo avveniva, suggellato dalla morte ardente, si udì nell'universo un tintinnio.
Un infrangersi di cristalli, un sortilegio spezzato.
 
Il quaderno aveva cambiato definitivamente possessore.
 
Ogni ricordo ritornò.
 
 
 
 
Una lama gli trapassò il cranio da parte a parte, sprigionando un mostruoso fiume di ricordi: il volto scarno e putrefatto di un sacerdote, l’onere di essere giustiziere, la gloria di seguire il più puro degli ideali… l’esultanza delle masse, la paura della polizia, l’accorrere dei rinforzi dall’Austria, il dolce desiderio di rivolta e di morte…. la melodia di un organo, l’odore del fango e il freddo di quella sera di febbraio, un canneto di un placido laghetto, l’amore e la rugiada sulla pelle, e il segreto dell’anima umana e l’acqua della Senna nei polmoni e i violacei segni sui polsi per le manette…
Light fissò febbricitante i propri avambracci: pallide braccia quasi femminee, un reticolo bluastro e pulsante in cui intravedeva vaghe macchie scure, ricordo indelebile della loro unione.
La sua mente gridava al tradimento, lo stomaco si contorceva in spasmi acidi e insopportabili; conati amari gli risalivano per la gola, come se il corpo stesse cercando di rigettare la velenosa verità.
Eler dormiva inconsapevole, beato, pronto all’avventura del giorno dopo. Non poteva scappare, non da Eler; e dove poi, e con che mezzi? Dopo quanti giorni l’altro lo avrebbe braccato come una preda impaurita e spacciata?
Corse alla scrivania cercando tremante e in preda al panico tra le carte lì ammassate fino a quando non impugnò saldamente il tagliacarte.
Non aveva alternative.
Si avvicinò  al capezzale di Eler. Una melodia lontana si avvicinava, il tuono grave del destino; seppe, seppe in quell’istante, che dalla prima volta che aveva letto quell’atipica calligrafia su una lettera indirizzata a suo padre, il fato aveva per loro allestito un patibolo.
Osservò il pulito e candido collo di Eler e non poté non pensare a tutti i baci con cui lo aveva coperto.
Si erano avvicinati, odiati, cercati, amati alla follia, rincorsi: chi sarebbe stata la luce e chi l’ombra?
Chi il boia e chi il giustiziato?
Il sorriso diabolico di un Dio osservava la scena: l’ultima incognita era stata svelata.
Riou borbottò qualcosa nel sonno e si strinse ancor di più al lenzuolo, masticando a vuoto un paio di volte. I capelli gli coprivano in ciocche disordinate la fronte, un ciuffetto sollevato scopriva la tempia destra.
Light lo guardo per alcuni lunghi secondi: lo voleva ricordare così.
Il sangue gli ribolliva nelle vene, tutto il suo corpo era teso e scosso da spasmi adrenalinici; si accucciò accanto alla sponda del letto, continuando ad osservare l’amato assopito. Allungò il braccio sinistro, il pugno serrato e l’inevitabilità di quel che stava accadendo che gli riempiva gli occhi insieme alle lacrime.
Incise con forza la carne del proprio polso e il dolore iniziò a sgorgare insieme al sangue. Come in preda a una stravolta ipnosi continuò a tracciare una linea con la lama, fino a raggiungere la metà dell’avambraccio: a quel punto il terrore e la sofferenza divennero insopportabili, pazzia e razionalità collassarono insieme nella sua mente, emise un gemito roco e angosciato.
Non poteva fermarsi, non poteva!
«Light? Light, cosa succede?»
Una voce, l’unica voce, un segnale d’aiuto.
La debole mano sinistra cercò di reggere a sua volta l'impugnatura, mille invisibili aghi la perforarono.
«Stai male? Light!»
Le forze gli mancavano, la volontà andava mescolandosi al delirio: si lacerò il polso destro con un taglio obliquo e poco profondo.
Sentì le mani dell'altro che lo toccavano, cercavano di fermarlo. No, non doveva andare così! Non era quella la fine giusta!
«Lasciami!» rantolò Light, ferendosi le braccia come in preda a delle convulsioni «Lasciami! Lasciami! Lasciami!»
Sentì la voce di Riou, più volte, piena di una paura che non aveva mai conosciuto. Un vago senso di freddo alle braccia, le giallastre pareti del loro bagno, il dolore e la vista disgustosa del sangue.
E infine, quando la sua mente distrutta precipitò nel buio, un'ultima voce.
 
Un ricordo. Un monito che non aveva ascoltato in tempo.
 
«Questo quaderno ti consuma. Ti maledice.»












Note Autrice.

Sono contenta di aver finalmente scritto questo capitolo. Le realtà etniche/geografiche/culturali che ho inserito nel racconto sono tutte vere e ben documentate, dalla descrizione del Granducato di Toscana al ghetto di Tolone, situato al centro della città. Spero vi sia piaciuto.
Nina.

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Capitolo 12
*** Oui, je le voeux. ***




 

Il sole giudicava la scena con ardente potenza, unico spettatore di quell’ultimo duello.
I due ragazzi erano uno davanti all’altro, ritti su quella forca come su un palcoscenico senza pubblico. In mezzo a loro vi era un cappio vuoto e immobile, sormontato dall’impalcatura lignea della forca.
Light prese la ruvida corda e, senza staccar gli occhi da Riou, si fece passare il laccio intorno al collo, pronto per l’impiccagione.
Eler fece un passo repentino verso di lui, afferrò la fune sopra la sua testa e la tirò: essa cadde srotolandosi molle in terra, mostrando l’altro capo sciolto. Light fissò il serpente di corda ai suoi piedi, la mano ancora appoggiata al cappio largo e inutile che portava al collo, poi guardò il volto inespressivo di Eler: su quella maschera di pallore, dopo alcuni secondi, si formò un sorriso. Contraccambiò.
 
Non vi era stato alcun vincitore.
Oppure lo erano stati entrambi.
 
 
 
 
 
 
 
Voci e scalpiccii salivano dalla strada insieme a una piacevole brezza fresca che rigenerava l’ambiente immobile della piccola stanza.
Light si stropicciò gli occhi con poco vigore: sentiva il corpo indebolito fin nella punta delle dita, un diffuso torpore senza un fuoco di dolore preciso. La febbre era sì calata dai giorni precedenti, ma l’idea di vestirsi decentemente e scendere in strada era ancora lontana dalla realtà.
Alcuni timidi colpi alla porta di legno. Light non si sforzò nemmeno di dire “avanti”: a quell’ora del mattino aveva sempre un unico visitatore fisso ed egli sapeva bene di non aver bisogno del permesso di entrare. Anzi, la vista della sua figura sull’uscio era spesso l’unico motivo per cui Light si ostinava a svegliarsi e a resistere alla febbre. Per cui si ostinava a vivere.
Eler entrò a passi lenti nella stanza. Indossava abiti di cotone leggero, dai colori tenui; se non fosse stato per alcuni tratti del viso, sarebbe sembrato un abitante del luogo. Niente a che vedere con lo stile francese, ma erano piacevolmente nuovi e puliti e gli conferivano un’aira particolarmente sana e riposata. A Light sembrò quasi che le sue profonde occhiaie fossero diminuite, ma probabilmente era una questione di abitudine: più è il tempo che si passa con una persona, più queste sottigliezze perdono la loro stranezza e si uniscono all’ordinario. Il suo modo strano di parlare, la scompostezza nel sedersi: quanti particolari che ormai sentiva esser parte della sua quotidianità. Della loro quotidianità.
Questo pensiero lo fece crollare in un lago di tristezza, ma non mostrò all’altro che vi stava affogando: in quelle visite c’era un equilibrio da rispettare, un tacito patto sancito dalla loro compostezza e dal silenzio che invadeva la camera da letto di Light.
Si chiuse le mani sul petto, cercando di reprimere quell’aspra consapevolezza: non c’era più una loro quotidianità. C’erano solo quelle visite giornaliere placide, monocorde, brevi; e poi il silenzio, un oceano di silenzio che invadeva ogni pertugio, dilatava dolorosamente ogni secondo.
Eler lo aiutò a sedersi, mettendogli due cuscini dietro la schiena; gli reclinò la testa con la mano, la toccò per carpire la temperatura corporea, poi vi stese un lembo di stoffa imbevuto d’acqua. Un paio di gocce scivolarono lungo le tempie del ragazzo, facendo le veci delle lacrime che stava trattenendo.
Erano a Livorno da quasi due settimane: la malattia era subentrata dal secondo giorno di viaggio, iniziando con leggeri malesseri scambiati facilmente per i soliti disagi da persona di terra su una barca. Provvidenzialmente, Eler aveva capito prima degli altri, forse prima ancora di Light stesso, da cosa fosse provocata la malattia di Light.
«Devo pulire il braccio.»
Gli occhi del malato guardarono quelli di Riou con aria supplichevole; sembravano mormorare: "Devi proprio? Ti prego, non farlo. Lo farò io quando tu te ne sarai andato."
«Meglio se lo faccio io.» lo disse e basta, senza dare alla propria voce un tono severo né mellifluo o tanto meno scocciato: la semplice, oggettiva verità.
Light cercò di non scomporsi ulteriormente e allungò l'avambraccio sinistro: un taglio profondo e scabroso si allungava in un alternarsi di grumi di sangue e minuscoli lembi di carne viva, dove era stata rimossa l'infezione. L'aspetto, per quanto poco apprezzabile, era ormai decisamente migliore della crosta dolorosa e giallastra che gli si era formata durante il viaggio. Avrebbe dovuto aspettare, avrebbe dovuto riprendersi invece di partire debole e con quei maledetti tagli ancora esposti e potenzialmente pericolosi: ma non aveva osato tirarsi indietro. Sapeva che Eler sarebbe partito con quella nave e seguirlo avrebbe rimandato una questione che Light non avrebbe mai voluto affrontare: cosa ne sarebbe stato di loro insieme?
«Come va l'altro?»
Light continuò a tenere premuto il braccio interessato sul lenzuolo: «Bene. Erano superficiali e si sono rimarginati bene.» aspettò qualche secondo, passandosi la lingua sulle labbra «Si vedono, ma non molto. Non sono troppo in contrasto con il resto della... della pelle.»
Eler annuì con serietà, come un medico professionista che ascolta con interesse puramente professionale una diagnosi positiva. Effettivamente in quei giorni era la parte che stava recitando: arrivava ogni mattina con impacchi di lavandula per i tagli, garze imbevute di un qualche intruglio disinfettante di aglio dall'odore insopportabile, boccette -probabilmente costose-  di olio di elicrisio con cui gli ungeva delicatamente la pelle lacerata. Light non osava chiedergli nulla, a volte aveva a malapena il coraggio di aprir bocca per ringraziarlo.
Aveva confessato. Ovviamente aveva omesso tutto quello che nei suoi ricordi riguardasse quel malefico quaderno e il volto scavato del sacerdote, sempre che tutto ciò fosse davvero esistito e non fosse stata solo una proiezione della sua mente. A quel punto, pensava che qualsiasi cosa fosse possibile. Una sola cosa era certa, ed era ciò che gli aveva detto quando aveva ripreso conoscenza: era lui il meurtrier, l'assassino che avevano disperatamente cercato insieme, il boia della Giustizia Divina, il marionettista di cui nessuno conosceva il volto ma solo l'operato, il nome sussurrato con ammirazione tra coloro che volevano la rivolta e con paura tra i nobili e i facoltosi dalla coscienza non limpida.
Non aveva sprecato molte parole su tutto il resto. Non sapeva cosa dire, come spiegarsi. Come avrebbe potuto l'altro comprendere quelle due anime diverse che erano cresciute in un solo corpo, rigogliosi rampicanti su di un solo muro, intrecciandosi e fronteggiandosi ma coesistendo sempre, in ogni momento? Questo era quello che Eler vedeva. Non gli aveva nemmeno provato ad accennare dell'amnesia: non gli avrebbe creduto. E in fondo al proprio animo Light sapeva che non era una scusa credibile neanche per se stesso: aveva dimenticato, sì, ma non era forse dalla stessa radice che quei desideri si erano evoluti? Non aveva comunque covato i suoi ideali, i suoi rancori, e quel malcelato senso di comunanza agli orgogliosi idealisti che avevano approvato il suo operato da assassino?
Aveva ucciso tante persone e quel che era più tremendo e insopportabile era che, a mente lucida, si rendeva conto di esserne capace. Ne coglieva la plausibilità. E non solo lui.
Alla fine, come in qualsiasi altra questione, Riou aveva avuto le giuste impressioni e deduzioni: che scherzo orribile per lui da parte del destino, l'avere sempre ragione!
«Hai per caso sentito il signor Mugnai in questi giorni?»
Eler annuì: «Ieri mattina. Un anticipo del primo pagamento del mio locale.»
Già, il suo locale. Non più il loro. Niente era più loro.
«Devo dirgli che mi sto sentendo meglio e presto potrò lavorare per Zekharia...»
Eler sembrò rigirare delle parole tra le labbra, poi mormorò: «Non c'è bisogno che tu lo faccia.»
Light rimase stupito, ma ribattè debolmente: «Gli avevo promesso di pagare subito per la disponibilità a darci... darmi... questi appartamenti. Conosce bene Zekharia e saprà quanto guadagnerò con lui, voglio solo rassicurarlo...»
«Non devi pagargli questi giorni.» disse Eler con tono fermo «L'ho già fatto io.»
Il silenzio della stanza cambiò, come se la brezza avesse invertito improvvisamente direzione, rimescolando l'aria della stanza in modo completamente opposto.
Il suo labbro inferiore tremò leggermente. Voleva dire qualcosa che fosse all’altezza della situazione, o che quanto meno fosse ad essa coerente. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo in lui, cosa significasse quel gesto. Eler continuava a guardarlo con i suoi occhi scuri, enormi, meravigliosi, che non lasciavano trasparire nulla che lo aiutasse a far chiarezza.
«Perché?» balbettò.
Al che Eler, con un vago sorriso irrisorio, disse una frase che Light non si sarebbe mai aspettato: «Secondo te?»
Era una domanda retorica. Voleva che lo fosse. Light però non riusciva a trovare il collegamento di pura ovvietà che avrebbe collegato quella falsa domanda alla realtà dei fatti.
«Io... io non lo so.»
Light abbassò lo sguardo come disorientato. Gli occhi gli si inumidirono senza che potesse fermarli: le lacrime iniziarono a scendere sempre più copiose lungo le sue guance, trascinando con sé quel sentimento inesprimibile di dolore e arrendevolezza al destino.
«Non mi merito pietà, Eler.»
«Hai ragione. Ma non è quel che ti sto offrendo.»
«E allora cosa?»
Eler si sedette accanto a lui sul letto: «Forse la mia stupidità, dato che sto facendo per la seconda volta lo stesso errore.»
Sentiva il suo profumo insieme a quello, più forte, degli olii con cui lo aveva medicato. I suoi capelli corvini gli cadevano in ciocche disordinate sulle tempie e alcune sulla fronte.
Light cercò timidamente la sua mano sul lenzuolo, e la strinse con il palmo tremante: «E lo è davvero? Cioè, è davvero un errore?»
Eler fece un pacato e sincero sorriso: «In realtà non lo so. Ma anche se lo fosse, ora non mi interessa.»
Light continuava a piangere, ma ora il rivolo di lacrime accarezzava un sorriso stremato: «Posso baciarti?»
Eler annuì. Le loro labbra si sfiorarono debolmente e per pochi secondi, il tepore abbandonò velocemente le labbra screpolate di Light. Ma non importava. Era un inizio. Lo leggeva negli occhi che aveva davanti e sentiva quella consapevolezza pulsargli nel petto e ridargli vita.
Era il primo giorno di agosto del 1789 e quello era un nuovo inizio.
 












 



Parigi, 27 febbraio 1820
"Cara madre, amata madre,
è così strano scriverti queste righe. La mia mano ha tremato, scritto e cancellato per fogli e fogli interi, il mio cuore ha vacillato; ma non posso, non posso permettermi di perdere quest’occasione di scriverti dopo anni. A darmi aiuto per scoprire dove vivessi e contattarti è stato –guarda come la sorte talvolta riesce a stupirci!- il cameriere dell’ormai defunta famiglia dei Blanc-Lemaire. Mi ha riconosciuto quasi subito, incontrandomi quasi per caso in uno dei pochi e fatiscenti luoghi di ritrovo di Parigi. Che gioia scoprire che eri viva, che gioia immensa! Ho pianto come un neonato alla notizia, nonostante io abbia superato da un po’ i cinquant’anni. Non riesco a immaginarti, madre, invecchiata: pensandoti ricordo un viso ovale, segnato vagamente dal tempo, e i tuoi neri capelli che ormai saranno candidi. Suppongo che nemmeno tu riusciresti a credermi o immaginarmi se ti dicessi che anche io ormai ho i capelli che vanno ingrigendosi, ma è così. Non allarmarti troppo: del viso ventenne che tu ricordi è rimasto ancora molto, sotto questi tratti adulti. Sì, madre, sono nuovamente a Parigi, ma non ci vivo, nonostante la mia permanenza abbia ormai superato il mese pieno: mi manca la mia casa, la mia patria, la dimora che ho condiviso in tutti questi anni con il mio unico amore.
Ho passato queste ultime settimane alla ricerca di ogni vecchio amico o conoscente, sforzando la memoria a ricordarsi ogni cognome e nome. Ho saputo della morte di Mélisande, di cui probabilmente non sei al corrente: è successo cinque anni fa, per il secondo parto. Me ne sono rammaricato: anche se non l'ho mai amata e a volte a stento sopportata, era una brava ragazza dal buon cuore. Sono contento che sia comunque riuscita a maritarsi presto e a vivere in Spagna come sperava.
Meno dispiaciuto lo sono stato sicuramente per la fine di Theo Maxime. Lo hai conosciuto poco, ma ricordo che nemmeno tu lo apprezzavi molto. Io sono arrivato nel corso degli anni a detestarlo. Era prevedibile che con il suo spirito inquieto e infido si cacciasse in uno di quei maledetti gruppi faziosi, giacobini o foglianti o come hanno preferito farsi chiamare prima di Bonaparte.
So che tu e mio padre avete ricevuto la prima lettera che vi ho mandato, anni e anni fa. Non è stata l’unica, ma delle restanti ho ormai la quasi totale certezza che nemmeno una carta vi sia giunta: erano tutte indirizzate a un padre che non sapevo fosse morto. Ho temuto subito che fosse colpa mia, quando l’ho saputo: ma mi è stato prontamente riferito, e da più persone, il fervore con cui è morto durante la presa del palazzo delle Tuileries. Non avrei approvato la sua adesione alla protezione del Re, ma era un uomo d’onore e fedele fin nelle ossa. Ho avuto un padre degno d’ammirazione e ho tenuto tantissimo a lui e ai suoi insegnamenti. Nell’anno in cui questo accadeva, nel 1793, io ed Eler abbiamo comprato quella che è attualmente la mia modesta abitazione: mi piacerebbe molto mostrartela, ma dubito che un viaggio da Londra fino in Toscana sarebbe adatto a una persona che, con tutto il rispetto dovuto, ha raggiunto ormai la tua età. In ogni caso, ti piacerebbe: è immersa tra i campi coltivati e i boschi che circondano il lago di Santa Luce. Siamo lontani dai centri abitati ed è relativamente scomodo da raggiungere, ma l’abbiamo comprata provvidenzialmente: l’anno in cui abbiamo abbandonato Livorno la città era minacciata dall’Inghilterra ed è stata invasa dalle truppe napoleoniche di lì a poco. L’isolamento ci ha aiutato ad evitare gli scontri e inoltre, specie con il passare degli anni, la vita solitaria e contemplativa si è dimostrata la più adatta a me e Riou. La casa era una cascina e quindi tale era la forma, con due piani stretti a ferro di cavallo intorno a un cortiletto interno: vi abbiamo tenuto un recinto di pollame per un po', allevandoli per piacere personale.
Vivevamo soli all'inizio, poi siamo riusciti ad assumere una massaia, un giardiniere e da un po’ di anni anche alcuni contadini che coltivino gli appezzamenti di terra che abbiamo acquistato nel tempo: l'attività notarile ha portato grandi profitti al nostro focolare, oltre che grandi soddisfazioni a me, ma anche questa piccola esperienza di piccoli proprietari è stata gratificante.
Eler ha fatto molti mestieri da persona eclettica quale era, ma da quando siamo partiti da Toulon (come vi raccontai nella mia lettera) la cartografia si è impossessata del suo cuore e lo ha impegnato fino alla fine dei suoi giorni. E qui il motivo per il quale sono in Francia e per cui vi sto scrivendo –un motivo che ancora mi tormenta i sogni e l’animo- : Eler se ne è andato poco meno di un anno fa. È stata una malattia improvvisa ma decisamente lenta nel suo sviluppo: lo ha legato al letto per tre mesi. Mentre era costretto all’immobilità gli ho letto tanti libri –ha apprezzato in particolare le raccolte di poesie di Marino-, ho anche suonato qualcosa per lui con il violino (sono diventato discretamente bravo in questi anni). Nonostante il morbo che gli divorava i polmoni è morto felice e accanto a me. Mi ha chiesto, in tutto il suo pragmatismo, di prender moglie; dubito però di riuscire a soddisfare questa sua ultima richiesta. Mi ha spinto lui a partire, quando ormai sentiva la morte vicina: ho resistito allora e anche dopo la sua morte, per molto; il mio cuore però non ha retto e un mese fa mi sono convinto a seguire il consiglio. Tra noi due finisce sempre così, sai? Ribatto quanto voglio, ma vince immancabilmente lui.
Mi ha amato tanto, madre.
Ha avuto solo me e io solo lui, in tutta la nostra vita.
Scrivo questo non solo per riuscire ad elaborare il mio lutto –non ho potuto infatti confessare questi particolari se non a voi- ma soprattutto perché vi è un solo motivo se ho potuto vivere i trent'anni più intensi e belli che potessi desiderare: quella sera, quell'ultima sera, madre, mi dicesti che, se non avessi seguito l’amore quella volta, sarei morto senza averlo fatto. E avevate ragione: l’amore non è per sempre, ma è di sicuro la cosa più bella di questo precario mondo.
Ti sto ringraziando dal profondo del mio cuore, madre.
Forse non potrai capirmi. Forse non vorrai. Voglio solo che tu non ti penta e non ti tormenti: dopo quella scelta, sono stato felice. Immensamente felice. Spero che questo, nel grande amore materno che so che hai serbato per me in questi anni, ti consoli e ti renda contenta per me.
Resterò qui fino alla tua risposta a questa missiva: voglio sapere se desideri incontrarmi. Io, dal canto mio, lo desidero ardentemente.
In questi anni bui e tormentati in cui stiamo vivendo, l’affetto delle persone è forse tutto quello che ci resta.
Forse è l’unica cosa che ci rende ancora esseri umani.

Tuo figlio Light."












Note Autrice.

Ammetto che, arrivata a questo punto, è strano pensare di aver davvero concluso questa fanfiction, iniziata a settembre dell'anno scorso. Mi ha impegnato molto e mi è molto piaciuto scriverla: mi sono ripromessa di portarla a termine prima di iniziare a scrivere racconti miei che non fossero fanfiction per inseguire il mio sogno di essere scrittrice, e così ho fatto.
Non so esattamente cosa dire; spero innanzitutto che sia piaciuta a tutti quelli che l'hanno letta e che la leggeranno. Ringrazio le persone che hanno recensito e messo la storia tra i preferiti/seguiti/ricordati e che lo faranno. In particolare ringrazio ancora Mirella__, Scintilla19 e Aras13 per le recensioni e il ... coraggio di seguire fino in fondo la mia storia.
Questa storia la devo (e quindi la dedico) ai vostri continui incoraggiamenti e complimenti, meritati e non.

au revoir!

Nina.

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