A Plague I Call a Heartbeat

di BlackEyedSheeps
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


 Avvertenze: Questa storia, scritta a quattro mani, segue a grandi linee la continuity del film, mentre Occhio di Falco è liberamente ispirato alla versione a fumetti di Matt Fraction.
La nostra personale versione del: “Inviarono l’agente Barton ad uccidermi. Lui decise in modo diverso.
 
Disclaimer: Occhio di Falco, La Vedova Nera e tutti gli altri personaggi non ci appartengono, ma sono proprietà Disney e Marvel.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.
 
Jeremy Renner appartiene solo a se stesso, a noi, nei nostri sogni, a Scarlett Johansson (sempre nei nostri sogni), il 7 di ogni mese, per gentile concessione (di lei).
 
 
**
 
 

Perché in quei momenti già inizia a sembrarmi che non sarò mai capace di cominciare a vivere una vera vita;
perché ho già avuto l’impressione di aver perso ogni misura, ogni senso della realtà, della autenticità;
perché, infine, ho maledetto me stesso...

(Fëdor Dostoevskij, "Le Notti Bianche")
 
 
San Paolo, Brasile
Aeroporto Privato
Ore 23:17

 

 

Si specchiò per un istante nella pozza scarlatta che si stava aprendo ai suoi piedi. Il proprio, distorto riflesso, sembrò osservarla di rimando, rosso e indistinguibile, rivolgendole una muta accusa.
 
Un rumore lontano a risvegliarla dal torpore improvviso.
 
Stai perdendo la testa, si disse.
 
Rialzò il capo, osservando il corridoio grigio e spoglio disseminato da una manciata di divise blu. Non le aveva degnate di uno sguardo, quelle cinque guardie. I suoi occhi si erano fissati, da subito, sul primo premio. Scavalcò il cadavere dell'uomo riverso a terra - Elìas Figueroa, se aveva fatto bene i suoi conti (non che si fosse concessa margini di errore) - il completo elegante ormai rovinato irrimediabilmente. Mentre si chinava sulle ginocchia per dare un'occhiata alla valigetta che l'uomo teneva ancora ammanettata ad un polso, si chiese a quanto sarebbe ammontato il conto della lavanderia, se Figueroa fosse miracolosamente tornato in vita per accorgersi del danno. Uno sproposito, suppose. Continuò a distrarsi con l'idea mentre faceva sparire due dita nello scollo della felpa nera aderente che indossava, estraendone una chiave elettronica.
 
(Senza dubbio, appena sottoposto il problema in lavanderia, l'avrebbero guardato storto, trattenendosi a malapena dal chiedergli se non fosse impazzito.)
 
Studiò rapidamente il meccanismo della valigetta, trovando il punto giusto in cui inserire la scheda (gingillo per cui altri tre uomini, solo una misera mezz'ora prima, avevano perso la vita). Uno spreco inutile, si era detta, pur comprendendo la necessità di appropriate misure di sicurezza. Una piccola parte di lei ne era quasi soddisfatta: contro ogni buon senso, stava cercando di evitare i lavori troppo semplici. Quella di cui aveva bisogno era una paga come si deve, che le desse un po' di respiro e del tempo per riflettere.
 
(Ci sarebbe stata una sommaria previsione, un silenzioso assestamento dei danni, dopodiché l'avrebbero avvisato di non aspettarsi granché, guardandosi bene dal dirgli che una cosa - con sicurezza - poteva aspettarsela: uno scontrino da capogiro.)
 
La lucina rossa sul display della valigetta lampeggiò un paio di volte prima di spegnersi con un sonoro scatto: il coperchio si sollevò senza problemi, rivelandone il contenuto.

(L'uomo avrebbe insistito, avrebbe lasciato il completo nelle sapienti mani del personale al bancone, e se ne sarebbe andato con un sorriso speranzoso sulle labbra.)
 
La chiavetta USB sembrò guardarla a mo' di scusa dal suo involucro in gommapiuma: aveva un'aria terribilmente misera, un tesoro troppo piccolo per uno scrigno tanto complicato.
Le istruzioni erano chiare, si rammentò, sfilandola dal suo supporto senza ulteriori perplessità. Lanciò una rapida occhiata al volto dell'uomo, una smorfia di disappunto sul proprio. Il pensiero la colpì come uno schiaffo a mano aperta: persone come lui non sistemano le cose rotte, si limitano a buttarle via e a comprarne di nuove. Vestiti, orologi, macchine, donne. Che importanza avrebbe avuto? Che stupida, pensò tra sé e sé, rimettendosi finalmente in piedi.
Ricaricò la pistola - le armi tedesche, doveva ammetterlo, non erano poi così male - controllò il silenziatore ed imboccò il corridoio, scansando i cadaveri uno ad uno, fermandosi solo per sfilare il badge di sicurezza dal collo di una delle guardie. Svoltò a sinistra, seguendo mentalmente la mappa dell'hangar e dell'edificio adiacente che aveva passato una notte intera a memorizzare, e un'altra a controllare di persona per accertarsi che corrispondesse alla realtà. Continuò a camminare, rapida e silenziosa, accertandosi via via che le telecamere di sicurezza fossero ancora disattivate. Le guardie di ronda avrebbero concluso il loro giro - il terzo della serata - di lì ad un minuto circa. Sessanta secondi prima che si accorgessero dei cadaveri nella sala di controllo; cinquantacinque - ammettendo una certa prontezza di riflessi - prima che riattivassero le telecamere.
 
Sbucò in un corridoio-galleria che dava direttamente sull'hangar illuminato solo per metà, quel tanto che bastava per indovinare la silhouette di un piccolo jet sul lato opposto a quello attualmente aperto. Una serie di tavoli erano stati sistemati al centro dello stanzone: uno di essi ospitava tre computer accesi, gli altri, armi di tipi diversi, alcune montate, altre smontate e disposte ordinatamente su panni verdi. Tre manichini erano stati allineati a qualche distanza dai tavoli su cui erano esposte le armi; tutti e tre avevano riportato considerevoli danni (un braccio, una testa, un buco nello stomaco). Le luci dei computer proiettavano ombre spettrali ai piedi dei presenti.
 
Riconobbe l'uomo alto e massiccio che sembrava tenere la situazione sotto controllo: capelli folti e grigi, completo beige. Si stava accendendo una sigaretta, mentre sette uomini irrigiditi gli guardavano le spalle, lanciando occhiate sospettose in ogni direzione. Avevano un'aria fin troppo minacciosa in confronto ai tre ometti che li stavano fronteggiando: due indossavano camici bianchi e capelli improbabilmente impomatati (Non di loro iniziativa, ipotizzò), il terzo, un completo troppo largo per la sua corporatura minuta. Sembravano preoccupati, continuavano a scambiarsi occhiate fugaci, a controllare freneticamente gli orologi. Natalia li compativa: di lì a poco, la situazione si sarebbe fatta terribilmente scomoda.
 
Sapeva, infatti, che Rustam Valikhanov, il miliardario kazako dall'accentuata tendenza alla megalomania, avrebbe atteso inutilmente le sue preziose istruzioni per l'uso. O qualsiasi cosa ci fosse dentro la chiavetta USB per cui aveva ucciso non meno di dieci persone (sapeva benissimo che erano nove, ma non voleva ammettere di aver fallito - per l'ennesima volta - nel proposito di non tenere il conto).
 
Attraversò la galleria, stando ben attenta a nascondersi al di sotto delle vetrate che davano sull'hangar. Raggiunse la porta che l'aspettava dalla parte opposta, usando il badge sottratto ad una delle guardie, per attivare la serratura elettronica. Abbassò la maniglia e spinse. Non l'aveva aperta che di un misero spiraglio, quando le parve di scorgere qualcuno nell'area immediatamente esterna all'edificio. Riaccostò con cura, rivolgendo una silenziosa e poco convinta preghiera a nessuno in particolare, sperando di non essere stata notata.
 
Diverse figure vestite di nero sfrecciarono ai bordi della pista d'atterraggio, avvicinando l'entrata dell'hangar e uscendo, così, dal suo campo visivo. Imprecò a mezza voce, realizzando di avere compagnia. Compagnia non richiesta. Richiuse la porta prima di poter attirare inutilmente l'attenzione. Rimase in ascolto. Una smorfia di disappunto sul viso mentre realizzava quanto fossero rumorosi. Un'altra, seccata stavolta, quando capì che stavano salendo la scala che li avrebbe condotti da lei. Non si scompose più di tanto. Si arrampicò sull'intelaiatura di metallo della porta, approfittando dell'area ridotta del corridoio per restare sospesa in un angolo del soffitto, sorreggendosi con piedi e mano libera - l'altra impugnava ancora la pistola - puntati in tensione contro le pareti.
 
Una squadra di quattro agenti si riversò all'interno del corridoio un attimo dopo. Non meno di un terzo del totale della forza presente, stimò tra sé.
Non le ci volle molto per riconoscere il logo impresso sulle divise: SHIELD.
Arricciò il naso, contrariata e vagamente impressionata al tempo stesso. Quelle istruzioni dovevano valere più di quanto pensasse se erano riuscite a scomodare un'organizzazione tanto potente (come decidessero di utilizzare quella potenza, poi, era un'altra faccenda: Natalia li aveva visti compiere numerosi errori, sprechi di energie e mezzi; ma ottimizzare i metodi della concorrenza, non era di certo suo compito).
 
Non era la prima volta che aveva a che fare con loro: sapeva che l'assassinio della figlia di Drakov, restituita al padre in undici, macabre rate, aveva mandato all'aria certi loro accordi diplomatici; che l'aver tolto di mezzo alcuni personaggi, figure pubbliche, aveva creato loro imbarazzo a livello internazionale; che l'incendio dell'ospedale di Stoccarda, nel quale avevano perso la vita decine di persone, aveva reso critica la sua posizione nei loro confronti.
 
Natalia non aveva il tempo di quantificare i guai in cui si sarebbe trovata quando gli uomini dello SHIELD si sarebbero accorti di essere arrivati tardi alla festa. Non appena la porta si fu richiusa al loro passaggio e il corridoio si rifece deserto, atterrò sul pavimento senza il minimo rumore. Utilizzò nuovamente il badge per aprire la porta, uscendo in fretta e furia all'esterno dell'edificio, una scalinata metallica ai suoi piedi. Si aggrappò alla ringhiera, saltando oltre, lateralmente, per raggiungere il suolo senza troppi preamboli.
 
L'aeroporto privato era piccolo e a malapena illuminato: non c'era bisogno di attirare troppa attenzione sull'incontro tra il magnate kazako e i rappresentanti di una nuova fabbrica d'armi in ascesa (stanziata nel sud del Cile, temporaneamente in trasferta), per mostrare al ricco, potenziale acquirente, gli ultimissimi modelli di fucili di precisione, pistole da combattimento e quant'altro, con un occhio di riguardo per certe bombe batteriologiche che promettevano di far furore sul mercato della guerra. Il cuore di quelle bombe, il vero piatto ricco dell'incontro, era stato accuratamente nascosto, fuori dalla portata della concorrenza, in un luogo sicuro. Qualche banca - forse in Svizzera o alle Cayman - o magari in un bunker su un'isola sperduta, supponeva. Natalia non poteva ancora esserne sicura: il lavoro consisteva nel recuperare la collocazione del virus e gli schemi delle armi, nel caso ci fosse qualcosa che valesse la pena provare a riassemblare. Nella migliore delle ipotesi, la sua parte si sarebbe conclusa con la consegna della chiavetta, una stretta di mano, e una montagna di soldi in più sui suoi conti correnti.
 
Scivolò lungo il perimetro dell'edificio, puntando verso nord, in direzione della recinzione metallica che aveva superato solo due ore prima per raggiungere l'aeroporto. La vegetazione era stata adeguatamente rimossa per svariate centinaia di metri, ma la foresta riprendeva a crescere non molto distante, promettendo protezione e invisibilità.
 
Si allontanò con discrezione, tentando al contempo di prestare attenzione all'azione in corso: dal punto in cui si trovava, sembrava che lo SHIELD avesse fatto irruzione all'interno dell'hangar. Valikhanov, però, doveva essersi accorto del cambio di programma perché l'aereo con il quale era arrivato era appena stato messo in moto: Natalia immaginò che volesse tentare la fuga, sorprendendo gli agenti con un'uscita dal lato opposto dell'hangar.
 
Non aveva né il tempo, né la voglia di trattenersi a scoprire cosa sarebbe successo. Il rumore del motore del piccolo jet privato di Valikhanov le permise di prendersi qualche libertà, sollevandola dall'obbligo di essere sempre e solo inquietantemente silenziosa. Raggiunse senza fretta il retro dell'edificio, facendosi scudo di altri blocchi secondari per avvicinarsi ulteriormente alla recinzione. Si appiattì contro la parete, mentre il motore del jet si spegneva sotto una scarica di spari. Si assicurò di avere il cappuccio della felpa calato sul capo, di potersi facilmente confondere con il buio della notte ormai inoltrata. Inspirò a fondo e contò fino a tre, prima di lanciarsi  in una folle corsa in direzione della recinzione. Durò solo pochi secondi, ma le parve un'eternità: corresse di poco la propria traiettoria quando ebbe individuato il punto in cui la recinzione era stata opportunamente sollevata al suo primo passaggio. Alle sue spalle, gli uomini dello SHIELD - e quelli di Valikhanov senza alcun dubbio - continuavano a far fuoco.
 
Passò in scivolata al di sotto della recinzione, riemergendo dall'altra parte con un po' meno fiato e qualche sbucciatura in più. Riprese a correre dopo l'ennesima boccata d'aria, senza fermarsi, finché non ebbe raggiunto il punto in cui la vegetazione si faceva finalmente più alta.
 
La foresta la inghiottì senza esitazioni.
 
 

 

San Paolo, Brasile
Aeroporto Internazionale Guarulhos
Ore 5:42

 

 

Il barista al di là del bancone si muoveva con gesti meccanici e sguardo vacuo mentre spostava e distribuiva tazze di caffè americano, cappuccino e tè a chi si accingeva a partire o tornare verso un paese del mondo a loro scelta. Non pareva neanche accorgersi di quello che stava facendo, ma i suoi movimenti erano precisi, accompagnati a piccoli cenni o frasi in risposta ai clienti che lo ringraziavano, lo salutavano o semplicemente gli rivolgevano la parola.
 
Natalia prese il suo tè in bicchiere da passeggio, chiedendosi se, da fuori, anche lei avrebbe fatto quell'effetto a chi l'avesse vista lavorare. Di certo, si trattava di due professioni completamente diverse, ma più di una volta, nel bel mezzo dell'azione, si era sentita scivolare in un turbine di inerzia, come se i suoi arti si muovesse prima che il suo cervello potesse registrarne le mosse. Le capitava, semplicemente, di diventare spettatrice di se stessa, che la sua mente si mettesse seduta ad osservare lo spettacolo del suo corpo, un corpo che sapeva esattamente cosa fare senza ricevere alcuna istruzione.
 
Naturalmente, sapeva che si trattava solo di un'impressione, che se vi avesse fatto troppo affidamento, un giorno o l'altro sarebbe stata un po' troppo lenta, un po' troppo goffa, un po' troppo in ritardo... e allora lo spettacolo a cui avrebbe assistito sarebbe stato completamente diverso.
 
Sprofondò nelle sue consuete fantasie di sconfitta, mentre pagava per la colazione e rivolgeva un impercettibile saluto al barista, ora improvvisamente rianimato dall'arrivo di quella che pareva una collega, magari per dargli il cambio e permettergli di tornare a casa dopo una notte estenuante.
 
Raggiunse la sala d'attesa dopo un rapido controllo dei voli in partenza. Quello che l'avrebbe portata a Parigi non era ancora arrivato. Si mise compostamente a sedere su una poltroncina libera, sorseggiando un po' del suo tè amaro e ripromettendosi di fare la conta dei lividi e dei danni non appena avesse messo piede in Europa. Lasciò vagare lo sguardo sulle immediate vicinanze: prima che potesse realizzarlo, aveva già contato quattro famiglie - una di tre, due di quattro e una di cinque persone - sette coppie, due gruppi. Bambini svegli e pimpanti le sfrecciavano davanti, inseguendosi a vicenda sotto lo sguardo stanco e cerchiato di genitori ancora assonnati.
 
Non li invidiava. Le avevano insegnato a compatire quella gente per anni (nessun sano sentimento di pietà, intendiamoci), e adesso, quel senso di superiorità - sebbene indebolito e sempre meno convinto - ancora se lo portava dietro. Li guardava muoversi attraverso la vita, riempiendo i giorni, le settimane, i mesi, gli anni, con frenesia e panico, con l'unico vero obbiettivo di dimenticarsi di quanto fosse vuota in realtà. Il loro scopo, le avevano detto, era in realtà archiviare quella nozione di inutilità maledetta in un remoto cassetto della propria mente, per far sì che non ne riemergesse mai più, per impedirle di tornare a terrorizzare le menti, a far vacillare gli animi.
 
Natalia si era abituata a quella sensazione di vertigine: quand'era piccola ne era spaventata, ma la paura l'aveva abbandonata presto, sostituita da consapevolezza, rassegnazione e determinazione. Camminava tra le persone, osservandole muoversi come avrebbe osservato degli animali fantastici, rinchiusi in enormi gabbie di vetro. Con la ridicola convinzione - lei lo sapeva - di poter vedere loro, ma non viceversa. Come se la vita di tutti i giorni, quella altrui, fosse per lei uno spettacolo continuo, un'inesauribile fonte di curiosità e diletto. Tuttavia, c'erano dei giorni - quelli peggiori - in cui il dubbio le serpeggiava in petto: e se fosse stata lei l'animale in mostra? E se il vetro che sembrava rinchiudere gli altri, in realtà, stesse rinchiudendo solamente lei?
 
Rifiutava con forza l'ipotesi, ma - nei momenti di maggior coraggio o noncuranza - le piaceva prenderla in considerazione,  freddamente e con lo scrupolo di uno scienziato che stia sezionando un cadavere, giusto per dimostrare che chi aveva fatto tanti sforzi per plasmarla, crearla, usarla, aveva solo finito per renderla un essere umano nient'affatto straordinario, con gli stessi dubbi di chiunque altro. Ai suoi occhi era, insomma, un loro fallimento. Eppure, quand'era sincera con se stessa, sapeva che gli obbiettivi della Red Room erano ben altri, tutti raggiunti con risultati talmente eccellenti da ritorcersi contro il progetto stesso.
Non erano passati che un paio d'anni da quando aveva deciso di mettersi in proprio, di vivere secondo i propri ritmi, i suoi e di nessun altro. Libera di scegliere gli incarichi che preferiva, quelli più interessanti, complessi o di maggior prestigio, più spesso quelli che promettevano un compenso più alto. Era quello il caso della missione di San Paolo: il misterioso Mr. Billmann, l'aveva contattata affinché recuperasse la coordinate del virus e gli schemi di costruzione delle armi cilene di nuova generazione. Un quarto del compenso in anticipo, il resto a lavoro fatto. Spese di viaggio incluse nel prezzo. Billmann non l'aveva totalmente convinta, era quasi del tutto certa che fosse un nome inventato (aveva trovato poco o niente quando aveva cercato conferma della sua identità) e che l'uomo che si era presentato come tale non era affatto il diretto interessato. Ma la promessa di tutti quei soldi l'aveva tentata al punto di soprassedere sui propri dubbi (non senza prendere, ovviamente, le dovute precauzioni) e a tentare la fortuna. Avrebbe potuto prendersi un pausa, decidere il da farsi, preoccuparsi della propria sicurezza, trovare un alloggio consono alle sue esigenze. Il viaggio d'andata si era svolto senza intoppi e il quarto del compenso, promesso in anticipo, debitamente depositato sui quattro conti che Natalia gli aveva indicato. Era sicura che la trappola, sempre che fosse stata reale, si sarebbe palesata di lì a poco, ma non aveva alcuna fretta di correrci incontro.
 
Si portò casualmente una mano al petto, sentendo il rettangolino rigido della chiavetta USB premuto contro il seno destro, al sicuro dentro al risvolto del reggiseno, confezionato appositamente in un tessuto particolare che l'avrebbe nascosta ai metal detector e resa invisibile a qualsiasi tipo di scanner. Al sicuro.
 
Lo scoppio di un pianto improvviso la riportò alla realtà: uno dei bambini che si stavano rincorrendo intorno alle file di poltroncine della sala d'attesa era adesso a terra, rosso in viso, il volto scintillante di lacrime e muco. Immaginò che fosse quella la faccia di qualcuno che è appena andato a sbattere a muso duro contro la realtà.  O, in quel caso, il pavimento. Non le capitava più tanto spesso, ma si sentì in colpa per il pensiero impietoso un attimo dopo averlo formulato. Il padre, un ometto sui quaranta coi capelli ricci e biondi e il ventre sporgente, arrivò prontamente in soccorso del figlio, mettendo fine sia alla crisi di pianto del bambino, che ai sensi di colpa di Natalia.
 
Lo schermo delle partenze lampeggiava sopra le loro teste: il volo per Parigi invitava all'imbarco.
Bevve un altro sorso di tè prima di rimettersi in piedi, percorrendo mentalmente il percorso dalla sala d'attesa al gate 13. Superò la scena del piccolo dramma familiare, immettendosi nella galleria di negozi che l'avrebbe accompagnata fino al suo volo. Un altro schermo, dall'interno di un negozio di souvenir attirò la sua attenzione: l'edizione mattutina del telegiornale mostrava alcune immagini da un piccolo aeroporto privato ad est di San Paolo, un jet in fiamme, cadaveri coperti da teli neri, disseminati appena fuori da un hangar crivellato di colpi. "Scontro a fuoco tra trafficanti di armi", titolava la scritta in sovrimpressione.
 
Riprese a camminare senza neppure rendersene conto. In fondo, non le interessava. Provava solo una vaga e vuota soddisfazione nel pensare al quartier generale dello SHIELD sommerso da scartoffie, documenti, e-mail e fax che pretendevano spiegazioni convincenti.
 
Probabilmente, si disse, non sanno neppure cos'è che li ha colpiti.
 
 

 

New York City
S.H.I.E.L.D. Central
Ore 18:00
 

 

“Soggetto identificato, signore.”
Un guizzo nell'unico occhio sano, un fremito delle labbra, impercettibile.
Lo schermo, a favore di sguardo, rimandava una ben nota immagine.
Le mani serrate sulla scrivania e l'ira repressa che fremeva per uscire nella sua forma più distruttiva.
 
“Che sta succedendo là dentro?” Maria Hill raggiunse l'agente Coulson.
Le grida si potevano sentire perfino dal corridoio.
“Fury”, fu la serafica risposta, mentre si versava una generosa tazza di un caffè tutt'altro che invitante “A quanto pare la nostra russa preferita è comparsa di nuovo sulla scena del crimine.”
La Hill non nascose una smorfia di disappunto, tutto quello che probabilmente aveva da dire sulla faccenda.
“Conviene mettersi comodi”, le suggerì Phil, regalandole magnanimamente la bevanda che la donna però rifiutò con un cenno del capo. “E' tutta la mattina che il quartier generale è in fermento.”
“Come se non avessimo altro da fare che occuparci di inutili scartoffie...”
“Inutili?” rispose scettico lui.
Bevve un sorso di caffè, prima di avvertire il direttore chiamarlo a gran voce.
“Pausa finita”, sospirò, scambiando un'occhiata significativa con la donna.
Lanciò il caffè ammezzato nel cestino accanto alla scrivania e, concedendosi un profondo respiro, entrò nella sala comandi.
“Signore…” palesò la sua presenza, restando placidamente in attesa di ordini, ben lontano dal provocare l'ennesima, seppur minima, esplosione di Fury.
L'uomo lo accolse con granitica determinazione.
 
“Contatta l’agente Barton”, fu tutto quello che disse.
  

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Connect the cause and effect,

One foot in front of the next,

This is the start of a journey

And my mind is already gone.

(Gnarls Barkley, “Going On”)

 

 

New York City, USA

S.H.I.E.L.D. Central

Ore 18:00

 

Non era esattamente il fine settimana che si era immaginato, ma se non altro avrebbe rappresentato una validissima alternativa alla noia.

Non davanti all'ennesima partita di baseball, a scofanarsi quintali di pizza fredda di frigorifero, o bere birra sul tetto del palazzo, in compagnia di quei vicini che non facevano altro che storpiare il suo nome a loro piacimento.

 

Che lavoro hai detto che fai, Carl?

Mi chiamo Clint.

Già, ma Carl ti dona, non trovi?

Sì, ma il mio nome resta Clint.

D’accordo, d’accordo… Clint. Ehi, passate qui una birra a me e al mio amico Carl.

 

Non erano cattivi ragazzi, lavoratori onesti dagli intrattenimenti ordinari.

La piccola comunità di quartiere era di indole discreta e uno smacco occasionale alla solitudine.

New York era una città troppo frenetica, e un appartamento in centro non sarebbe comunque stato nelle sue corde.

Lì la sua casa era spaziosa, a buon prezzo, e l’affitto dei locali al piano interrato gli aveva permesso di creare uno spazio per i suoi personalissimi allenamenti, senza dare nell'occhio.

Preferiva di gran lunga le zone aperte, ma non sempre aveva tempo o voglia di correre al poligono per un tiro a freccette.

Quando gli chiedevano che se ne facesse di tutto quello spazio, rispondeva con una scrollata di spalle, deviando l’argomento sull'ultima partita degli Yankees.

Per quello, trovarsi di nuovo al quartier generale dello S.H.I.E.L.D, finalmente operativo, dopo settimane di riposo forzato (dall'ultima missione aveva guadagnato una commozione cerebrale e diverse costole incrinate), gli aveva dato la carica giusta per trascinarsi fuori dal letto e decidere, per una volta tanto, di fare una colazione come si deve.

 

Possibile che in queste macchinette non ci siano altro che snack da diabete?”

Non ce l'hai una dispensa a casa tua?”

Clint rivolse a Coulson uno sguardo colpevole.

L'ultima volta che ho controllato, il latte pareva gelatina.”

Lo sai, vero, che il latte va conservato in frigorifero?”

Clint borbottò qualcosa di incomprensibile e decise per il male minore: digitò il numero che gli restituì una merendina al cioccolato. Se non altro avrebbe avuto le energie necessarie per stare ad ascoltare Fury senza avere un imbarazzante calo di zuccheri.

Allora, spiegami di che si tratta”, seguì il collega, trovando difficoltà nell'aprire il malefico involucro della sua pessima colazione. Con che diamine di colla le sigillano? Fu costretto a usare i denti.

E rovinarti così la sorpresa? Lasciati trascinare dagli eventi, Barton.”

Lo sai che non mi piacciono le sorprese.”

E tu lo sai che solo Fury... conosce i piani che la mente di Fury partorisce.”

Tipico di Coulson.

Non riuscivi mai a capire se si prendeva gioco di te, provando un sadico piacere nel farlo o se il direttore Nick Fury fosse davvero così riservato sulle questioni lavorative da tenere all'oscuro dai piani uno dei suoi più stretti collaboratori.

La risposta era scontata.

Clint liquidò l'argomento, certo che, a breve, avrebbe avuto tutte le risposte di cui aveva bisogno.

 

Trovò il direttore seduto dietro una pila di scartoffie e terminali, una manciata di agenti al suo servizio con l'espressione di chi è in procinto di vomitare o ha appena ricevuto una pessima notizia. O entrambe.

Coulson! Barton!” li richiamò senza quasi alzare gli occhi dal video, dopodiché liquidò il marasma con un cenno nervoso della mano. I cinque agenti sparirono, grati per la tregua.

Signore.”

Clint aveva assunto la posa.

L'agente Barton era conosciuto per la sua professionalità sul lavoro, quanto per il suo disordine, mentale e fisico, nella vita.

Quando assumeva la posa, capivi che c'era in ballo qualcosa di grosso.

Potevi dedurre, conoscendolo un po' meno superficialmente dello scambio di qualche saluto per i corridoi del quartier generale, che i meccanismi del suo cervello si erano attivati e la sua concentrazione era tutta a favore del compito che gli stava per essere affidato.

O semplicemente rammentava a tutti il suo passato nell'esercito e la disciplina imposta durante l'addestramento.

Coulson, la porta”, ordinò Fury con aria pratica, rimettendosi in piedi, fronteggiando Barton “Immagino che ti abbiano aggiornato sugli eventi delle ultime ore.”

Lo scrutò come per accertarsi che non stesse dormendo in piedi.

Sì, signore. Era in tutti i telegiornali” rispose prontamente, sebbene non avesse avuto il tempo o la voglia, in realtà, di seguire qualsivoglia programma televisivo.

Quando gli era arrivata la telefonata di Coulson aveva acceso la tv. E aveva capito.

Anche se non gli era ancora ben chiaro cosa potessero volere da lui, e in che modo avrebbe potuto aiutare, nei riguardi della missione fallita a San Paolo.

Bene, ti risparmierò i dettagli tecnici e arriverò dritto al punto.”

Spense le luci dell'ufficio e diede vita allo schermo alle sue spalle che si illuminò di una luce verdognola, prima di mostrare files a finestra, proiettati direttamente dal laptop del direttore.

Comparve una foto al centro dello schermo, con tanto di dati tecnici e carta d'identità della donna in primo piano.

Capelli rossi, sguardo severo: Clint conosceva quel viso.

Natalia Alianovna Romanova” palesò Fury “Conosciuta anche sotto lo pseudonimo di Vedova Nera.”

Un click e l'immagine sullo schermo cambiò, mostrando le immagini sfocate di una telecamera di sorveglianza sfuggita al guasto che aveva "casualmente" colpito l'hangar la sera precedente.

Spia, precedentemente impiegata nei servizi segreti russi” fece scivolare una cartellina sulla scrivania, affinché raggiungesse Barton “Ti consiglio di studiare approfonditamente i documenti che la riguardano.”

Clint raccolse la cartellina, prendendo a sfogliarla distrattamente, cominciando, suo malgrado, ad avere una sfocata idea di quello che lo avrebbe atteso.

Conosciamo già questo gioiellino: la figlia di Drakov, l'incendio all'ospedale di Stoccarda…” lasciò la frase in sospeso per dargli il tempo di ricordare.

E ora San Paolo”, puntò il dito verso lo schermo. “E' la quarta volta nel giro di cinque mesi che ci mette i bastoni fra le ruote. Per quello che ci è dato sapere, lavora sola. Il perché i suoi obiettivi collidano spesso con i nostri interessi, è una cosa che dobbiamo ancora scoprire. Quello che non possiamo più tollerare è che sia libera di continuare a farlo.” Concluse con una frase che pareva più una sentenza definitiva che una semplice constatazione.

Quali sono gli ordini, signore?”, si decise quindi a domandare Clint, che non amava andare per le lunghe e, per quello che ne sapeva, nemmeno Fury.

Devi liberarti di lei.”

 

 

New York City, USA

Quartiere di Brooklyn

Ore 6:00

 

Aveva studiato a lungo tutti i file e i documenti che lo SHIELD gli aveva fornito.

Ci erano volute ore di dettagli ed estenuanti sedute con gli esperti, da mesi incaricati di monitorare gli spostamenti della Vedova Nera, prima che potesse dirsi libero di agire come più gli sarebbe risultato congeniale.

Ora si aggirava irrequieto per le stanze del proprio appartamento a mettere insieme un bagaglio utile, ma essenziale.

Raccolse e fissò, per qualche istante, i documenti - corredati di tutte le informazioni disponibili - che lo avrebbero portato in Europa, realizzando che erano ormai trascorsi un paio d'anni dall'ultima volta che era stato nel Vecchio Continente. Ricordò con nostalgia l'atmosfera della maestosa Parigi, prima di venir colpito dal pensiero vivo, ma temporaneamente sopito, che questa volta avrebbe dovuto andarci per uccidere.

 

L'omicidio non era esattamente la parte migliore del suo lavoro.

 

Per un istante rimpianse l'apatia dei giorni passati; sebbene nelle ore precedenti alla comunicazione di Fury anelasse ad un po' d'azione, in quel preciso momento, l'idea di pretendere di essere un comune inquilino di quello stabile un po' diroccato, gli sembrava più invitante dell'alternativa.

Pochi - forse nessuno - avevano provato a capire perché avesse scelto uno stile di vita così modesto, fuori dalle agitazioni prettamente cittadine.

Il silenzio, l'inerzia, il susseguirsi di giorni tutti uguali, sotto il cielo leggermente incupito dalla tipica cappa d'inquinamento newyorkese; cielo in cui, a volte, riuscivi a intravedere quell'azzurro intenso che sapevi essere sempre lì, a tua disposizione, se avessi avuto gli occhi per coglierlo.

Sentirsi un essere comune, insignificante, capace di aggirarsi fra la gente senza destare interesse, libero di essere un signor nessuno, al servizio solo di se stesso e del suo caos.

Cosa che doveva invece calibrare, nascondere, somatizzare quando tornava ad essere l’irreprensibile Clint Barton, Occhio di Falco, al servizio dello SHIELD.

 

Richiuse la zip del bagaglio a mano.

Finì il suo giro di ricognizione nel seminterrato, il suo bunker personale; scelse con cura le sue armi, testò maniacalmente l’assetto del suo arco, riprogrammò le frecce dalla complicata struttura high-tech e poi… sentì sgusciare silenziosamente fuori dalla tasca dei pantaloni della tuta, la fotografia che aveva scioccamente sottratto al file personale del suo obiettivo.

La raccolse da terra, deciso a sistemarla da qualche parte, ma per un attimo si soffermò ad osservare quel viso che per mesi era stato oggetto di ricerche e attenzioni particolari al quartier generale.

Poteva una sola donna creare tanto disagio ad un'organizzazione di sicurezza mondiale?

Non voleva certo mettere in discussione gli ordini di Fury: le apparenze, purtroppo, nella maggior parte dei casi, ingannano.

Forse non avrebbe dovuto chiedersi nulla a riguardo. Portare a termine il lavoro gli risultava più facile quando conosceva poco della vita privata della sua vittima. Ne riduceva, in qualche modo, l'importanza. Il semplice smaltimento di un oggetto ormai corrotto.

Ne memorizzò i lineamenti, studiò quegli occhi glaciali e le labbra piene, i capelli color del sangue e, quando fu sicuro di non avere più bisogno di promemoria, lanciò la fotografia in aria.

 

Una freccia la trafisse, prima che potesse toccare terra.

 

In partenza, Clark?

Solo un viaggio di lavoro, amico.

Oh, giusto... che lavoro hai detto che fai, Clark?

Il mio nome è Clint.

Già, ma anche Clark ti dona, non trovi?

 

Sorrise stavolta, mentre si allontanava.

Clark, Carl, Clint, che differenza poteva fare?

Dopotutto, aveva appena rinchiuso i fantasmi della sua vita apatica dietro la porta del suo appartamento. A chiave. Doppia mandata.

 

Era appena tornato ad essere un Falco.

 

 

Parigi, Francia

Ore 9:18

 

Ci erano voluti solo sette minuti, in giro per il centro di Parigi, prima che la fin troppo familiare sensazione di essere seguita si impossessasse di lei. Tredici, prima che fosse sicura di non essere – di nuovo - inutilmente paranoica. Ne erano trascorsi diciannove quando sospettò di aver superato lo stesso uomo – alto, scuro di capelli, un paio di occhiali dalla montatura fuori moda – per ben due volte. Ventitré, quando le sembrò di riconoscere nella donna di bassa statura che le passò di fianco, portando a spasso il cane – un bassotto dall'aria antipatica e malaticcia – la stessa che aveva notato all'edicola appena fuori dalla fermata della metropolitana a cui era scesa poco prima, una copia del Le Figaro sotto braccio.

Si impose di star calma e continuò a comportarsi normalmente, fermandosi di tanto in tanto ad osservare le vetrine dei negozi appena aperti, a prestare attenzione alle boulangerie che riversavano in strada profumo di pane caldo e leccornie burrose. Chiuse le mani a pugno nelle tasche del giubbotto di pelle che indossava, stringendo fino a farsi male. Fuori, una maschera di tranquillità ed indifferenza. Un tuono in lontananza sembrò scuoterla dalla sua apatia e convincerla all'azione. Doveva capire. Doveva sapere.

 

Fece un'improvvisa deviazione, attraversando la strada per raggiungere il marciapiede opposto. Varcò la soglia della boulangerie proprio mentre le prime gocce d'acqua avevano preso a cadere. Acquistò un croissant e un pain au chocolat. Sorrise in modo convincente alla ragazza che presiedeva alla cassa, ringraziò e fece persino un commento sul tempo che andava peggiorando in un francese perfetto. Dopodiché, recuperati i pochi centesimi di resto e la busta di carta, uscì in strada.

Una fitta gelida le prese lo stomaco: l'uomo e la donna erano ancora fermi a quello stesso crocevia. Lui ad aspettare l'autobus, cellulare alla mano, lei impegnata in quella che aveva l'aria di essere un'educata conversazione col fioraio, solo qualche decina di metri oltre la boulangerie.

дерьмо*” le sfuggì in un soffio. Fece appello a tutta la sua concentrazione per raggiungere l'incrocio e imboccare la strada traversa con un'andatura non sospetta.

Pescò un'estremità del croissant dalla busta di carta, tenendosi occupata col cibo mentre pensava al da farsi. Avrebbe voluto imputare il tutto a semplici coincidenze, alla propria insaziabile paranoia, ma aveva imparato a fidarsi del proprio istinto, e il suo istinto le diceva che la stavano pedinando. In due, forse più. Non le sembravano uomini dello SHIELD e di certo non le parevano russi. Si erano fatti beccare fin troppo facilmente e – sebbene chiunque fosse a disposizione di adeguati mezzi e intelligence avrebbe potuto individuarla a Parigi – l'unico che era sicuramente a conoscenza della sua presenza nella Ville Lumière era il signor Billmann.

 

All'appuntamento con l'uomo che l'aveva ingaggiata – chiunque egli fosse realmente – mancavano ancora poco più di dieci ore. Comprese rapidamente che, dopotutto, non l'avrebbe incontrato al bar dell'hotel Park Hyatt in Rue de la Paix, come stabilito. Aveva temuto la trappola, l'aveva attesa, e adesso le si era finalmente palesata. Billmann non aveva alcuna intenzione di aspettare che fosse lei a consegnargli il bottino della missione a San Paolo. Perché avrebbe dovuto quando poteva tanto comodamente farla seguire fino al suo nascondiglio e sottrarle ciò di cui aveva bisogno senza pagare il resto del compenso pattuito?

 

Arrivò in fondo alla strada prima di svoltare sulla sinistra e immettersi in un viale alberato. La pioggia aveva preso a battere incessantemente sull'asfalto, rinfrescando l'aria di inizio giugno nel giro di pochi minuti. Non aumentò il passo, avendo però cura di dirigersi verso la zona più trafficata di Parigi: i turisti – lo sapeva – non si sarebbero lasciati scoraggiare dal maltempo, concedendole la preziosa occasione di depistare i suoi inseguitori. Evitò di percorrere le stesse strade per troppo tempo, approfittando di ogni deviazione disponibile. Abbandonò la sua colazione praticamente intonsa in grembo ad un mendicante appostato sotto una pensilina, in attesa che il temporale passasse. Rinfilò entrambe le mani in tasca e aumentò il passo, individuando un negozio di abbigliamento pochi metri più in là. Vi entrò dopo una brusca virata, ignorando la guardia all'entrata per dirigersi verso l'uscita situata dalla parte opposta del piano terra. La raggiunse senza problemi, raccogliendo con un movimento quasi impercettibile uno degli ombrelli abbandonati all'ingresso. Uscì nella piccola piazzetta, facendosi scudo dell'ombrello – dopo essersi accorta della fantasia fucsia a fiori gialli si ripromise, in futuro, di fare attenzione alla scelta - mentre puntava ad una stradina secondaria.

 

Solamente dopo aver camminato per più di un'ora, essersi infilata in un bar piuttosto affollato solo per uscire dalla porta di servizio in un vicolo dall'odore nauseabondo, preso “in prestito” tre ombrelli diversi, finto di scendere in una stazione della metro solo per uscire su un'altra strada, e fatto svariate deviazioni, si sentì abbastanza sicura da far cenno ad un taxi libero fermo ad un semaforo.

Diede al tassista le indicazioni necessarie per raggiungere un indirizzo di periferia. Pagò la corsa con due biglietti da venti euro, per poi dedicarsi alla ricerca di una vettura che facesse al caso suo tra quelle posteggiate davanti ad uno dei tanti edifici pieni di uffici della zona.

Scelse un'automobile dall'aria non particolarmente nuova, di un modello che sapeva non avere il GPS incorporato, ne forzò la portiera e la costrinse a partire usando alcuni cavi del cruscotto per innescare l'accensione. Guidò per più di mezz'ora, fermandosi solo quando fu arrivata in uno squallido quartiere dall'aria deserta. Parcheggiò in uno stretto vicolo, nascondendo l'auto dietro una fila di cassonetti che – ad occhio e croce – avrebbero dovuto essere svuotati almeno due settimane prima.

Camminò ancora per qualche minuto senza incontrare anima viva prima di infilarsi in un edificio dall'aspetto fatiscente, salendo le scale due a due per arrivare il prima possibile all'appartamento situato all'ultimo piano. Tirò fuori le chiavi e aprì la porta, rifiutandosi di accorgersi del tremore che le aveva preso le mani. Se la richiuse alle spalle con un tonfo sordo.

Casa dolce casa, pensò tetramente, dopo una rapida occhiata all'unica stanza che le si presentava davanti: una piccola cucina che non aveva l'aria di essere stata usata dopo gli anni Settanta, un lavello senz'acqua, un tavolo traballante al quale era accostata una sola sedia, un materasso abbandonato sul pavimento, un cuscino dall'aria misera, una pila di libri a tener su una piccola lampada elettrica infilata in quella che era molto probabilmente l'unica presa funzionante dell'intero palazzo.

Ignorò lo spettacolo indecente offertole dal suo nascondiglio, tirando dritto fino al bagno che – se possibile – era ridotto in condizioni persino più critiche del resto della casa. Non che per Natalia avesse una qualche importanza: aveva vissuto in luoghi ben peggiori di quella topaia.

Aprì il mobiletto del bagno, afferrando uno dei tre ripiani vuoti al suo interno. Tirò leggermente verso di sé, sfilando lo scheletro interno per rivelare una cassaforte nuova di zecca. Senza troppi preamboli, appoggiò il pollice sinistro su un piccolo display, mentre con l'altra mano digitava la combinazione alfanumerica giusta sulla tastierina. Ci vollero dieci secondi perché la cassaforte processasse le informazioni; quando lo fece, lo sportello si aprì senza il minimo rumore. Scelse un documento d'identità dalla busta di plastica che ne conteneva almeno dodici; una parrucca nera e alcuni accessori dalla scatola di cartone; due mazzette di euro (una di banconote da dieci, l'altra da venti). Rimise a posto quello che non le serviva, sigillando di nuovo la cassaforte. Rimontò il finto fondo coi ripiani dell'armadietto e – prima che potesse accorgersene – si ritrovò a guardare il proprio riflesso frammentato nello specchio rotto che chiudeva il mobiletto.

L'espressione corrucciata che si vide dipinta in faccia la fece arrabbiare.

Smettila, suggerì a se stessa, eri preparata anche per quest'evenienza. Lo sei, te l'aspettavi.

Inspirò a fondo e annuì a se stessa.

Non c'era tempo per le crisi esistenziali.

 

 

 

 

* “merda” in russo.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Uno che si distingue non per il rumore che fa, ma per il silenzio. Quando verrà a cercarti non lo farà certo urlando, per annunciare a tutti le sue intenzioni, ma verrà.

(Irvine Welsh, “Trainspotting”)

 

 

Lisbona, Portogallo
mercoledì, ore 21:12

 

Se c'era una cosa che odiava, erano le variazioni nei piani in corso d'opera.

Quando Parigi era ormai diventata una realtà così solida da permettergli di entrare nell'ottica di fare colazione con almeno una coppia di gustosi croissant, Coulson lo aveva contattato per comunicargli un improvviso cambio di rotta.

La Vedova Nera doveva aver deciso che, dopotutto, la Vie en Rose non si sposava granché con il suo stile di vita: di gran lunga più adatto il malinconico Fado e il clima atlantico ad assecondare la sua indole sfuggente.

 

L'appartamento che fungeva da copertura, lì, nella pigra Lisbona, non era niente di eccezionale – una topaia simile alla sua sistemazione a Brooklyn, ma con un'aria decisamente più rustica - quattro mura in Rua da Prata, praticamente in centro, a pochissimi minuti dalla stazione Rossio.

La zona, estremamente turistica, gli avrebbe permesso di confondersi agilmente con un buon travestimento.

Secondo le fonti, attualmente, l'obiettivo doveva trovarsi in una delle regioni centrali della Spagna. Un viaggio decisamente troppo lungo per i suoi gusti. Ma aveva imparato a controllare le attese.

Sistemò il poco bagaglio che aveva con sé e cercò punti strategici dove nascondere le armi.

L'unica di cui aveva bisogno, però, l'avrebbe tenuta in bella vista.

Aveva qualche ora ancora prima di doversi dedicare esclusivamente alla missione: la sua priorità, in quel preciso istante, era decidere se avesse più sonno o più fame.

Il profumo – che si andava estinguendo - dei ristorantini nella via adiacente gli ricordò che non mangiava da almeno undici ore.

Decise che avrebbe potuto spendere un'ora del suo tempo per provare questo fantomatico Bacalhau di cui tutti decantavano le doti e poi franare a letto per una delle dormite più sonore della sua vita.

 

 

Lisbona, Portogallo
giovedì, ore 8:43

 

Non era mai stata tanto felice di liberarsi di un travestimento come dopo il suo arrivo a Lisbona. Il viaggio in treno era stato lungo e scomodo: più di venti ore durante le quali la convinzione di essere seguita non l'aveva lasciata neanche per un istante. Questa volta, però, sospettava si trattasse di una semplice suggestione della sua mente: era certa che, la sera precedente, Billmann l'avesse attesa inutilmente al Park Hyatt hotel di Parigi dopo aver fallito nel tentativo di prendersi ciò che gli serviva senza il suo consenso, dopodiché – Nella peggiore delle ipotesi, pensò Natalia – ci sarebbero volute almeno un paio d'ore prima che i suoi uomini fossero in grado di individuarla su quel convoglio diretto in Portogallo. Lì era arrivata dopo una serie infinita di cambi e coincidenze. Aveva trascorso la maggior parte del tempo a guardarsi discretamente attorno, speso metà delle energie che le rimanevano nell'apparire disinvolta e indifferente, l'altra nel ricordarsi di star calma e rilassarsi, che la situazione era sotto il suo pieno controllo.

Non rimpiangeva granché del suo lavoro per la Red Room, ma se avesse potuto avere una sola cosa indietro da quegli anni, avrebbe sicuramente optato per il lavoro di squadra. Certo, era sempre lei quella che scendeva in campo, ma – in un modo o nell'altro – sapeva di non essere mai realmente sola. Gli spostamenti, le informazioni, tutto ciò che non riguardava l'azione vera e propria era compito altrui. Quello che le restava da fare era ciò che sapeva fare meglio: ingannare, sedurre, convincere, uccidere. La continua preoccupazione per la propria scarsità di mezzi, il convivere con la costante paranoia di non avere abbastanza denaro, di non poter usare i mezzi pubblici senza essere scoperta, di dover contare solo e soltanto su se stessa per togliersi dai guai, di non potersi fidare di nessuno in nessuna circostanza, la stava lentamente logorando.

Si era diretta ai bagni della stazione ferroviaria non appena era scesa dal treno, e non ne era uscita finché parrucca, finti piercing e trucco pesante non furono rimossi. Indossò un vestito leggero – decisamente non nelle sue corde - che aveva portato con sé: non si era sentita molto a suo agio, ma l'abito era abbastanza lungo da nascondere sia la piccola pistola che il pugnale che ebbe cura di assicurarsi alle fondine fissate attorno a ciascuna coscia. Si era legata i capelli inumiditi dal sudore in una coda di cavallo, recuperando una borsa più piccola dallo zaino con cui era partita da Parigi. Decise di nascondere il vecchio bagaglio nella grata di areazione a circa mezzo metro d'altezza sopra la tazza del water, in caso ne avesse avuto nuovamente bisogno. Si avventurò nell'assolata capitale solo quando ebbe decretato la trasformazione un successo.

Il piano per la giornata era piuttosto approssimativo: uno, trovare un appartamento i cui proprietari fossero attualmente in vacanza (decidendo che avrebbe avuto più fortuna nei quartieri ricchi della città); due, tenersi fuori dai guai. Vagabondò per ore, troppo stanca per prestare realmente attenzione a quelle finestre che parevano chiuse da tempo, ai balconi ornati di piante dall'aria particolarmente assetata, ai portoni che sembravano stati presi di mira da un volantinatore folle. Si mise a seguire un gruppo di turisti scandinavi ad una distanza tale da poter essere scambiata per un membro della comitiva da parte del casuale osservatore esterno. Colse qualche stralcio di conversazione – in norvegese, constatò - tra i due ragazzini che chiudevano la fila, evidentemente contrariati dal dover fare tanta fatica per qualcosa che non li interessava minimamente. Sorrise tra sé, riconoscendo la sequela di parolacce che stavano rivolgendo agli adulti che capitanavano il gruppo. Finì per distrarsi a tal punto che – nel bel mezzo di un'accesa discussione su chi fosse il miglior Batman del cinema – prima che potesse rendersene conto – le strade in salita, il caldo sempre più insistente – si ritrovò al gradito fresco di una chiesa. Furono l'odore di acqua santa e di cera bruciata che l'avvertirono del brusco cambiamento di scenario. Lasciò che la famiglia norvegese si allontanasse per osservare meglio l'architettura interna dell'edificio, che i due ragazzini si sedessero sulla panca più lontana dall'altare per continuare il dibattito, restando immobile poco oltre l'ingresso. La chiesa era piccola e stranamente luminosa, decisamente spoglia in confronto alle cascate d'oro che ricordava delle chiese ortodosse in Russia. Non ne era mai stata un'avida frequentatrice, e di certo non avrebbe mai detto di credere in un qualche dio, eppure, a volte si era sentita come se il solenne silenzio di quei luoghi la rispecchiasse in modo fin troppo accurato. C'era stato un periodo – tra il malcelato shock dei primi incarichi con la Red Room e il disincanto del lavoro in proprio – in cui si era quasi convinta di non avere età, di essere sempre esistita, di star eseguendo gli ordini di una volontà superiore ed eterna, come una sorta di sporco angelo vendicatore caduto disperatamente in basso e infine costretto a punire gli esseri più abietti e disgustosi che incontrava sul proprio cammino. Aveva pensato di essere antica e assoluta come la Morte, gelida e implacabile come la Vendetta. Come se non fosse stata una persona con un nome e un passato ben preciso, ma un assoluto, un astratto fattosi temporaneamente concreto nel corpo di una ragazzina russa qualunque. Era trascorso qualche anno perché si accorgesse di essere solo una spia particolarmente portata al proprio lavoro e nient'altro, al servizio di nessun Dio se non all'arbitrarietà delle decisioni umane.

La statua di Sant'Antonio situata nell'abside in fondo alla navata centrale, sembrava rifiutarsi di guardarla, rivolgendole un muto “non abbiamo tempo per te”. Deglutì piano, mordendosi le labbra fino a farle sanguinare.

Non era trascorso che un minuto da quando aveva fatto il suo distratto ingresso in quella chiesa, ancora meno perché si sentisse terribilmente inadeguata. Abbandonò i turisti norvegesi, imboccando l'uscita per essere nuovamente investita dal caldo avviluppante del primo pomeriggio, tirando paradossalmente un sospiro di sollievo. Quel fastidio avrebbe potuto sopportarlo. Una mendicante in compagnia di un vecchio cane meticcio stava seduta nell'ombra proiettata dalla facciata dell'edificio. Tirò fuori una banconota da venti euro, abbandonandola nel piattino delle offerte ai piedi della donna. L'animale le rivolse un'occhiata esausta senza alzare il capo dal grembo della padrona: sembrava dirle con pigra aria d'accusa, “credi davvero che questo migliori le cose?”

Serrò le labbra, ignorò il ringraziamento strascicato della donna e scese i gradini che conducevano all'entrata della chiesa per ritornare al livello della strada.

Si allontanò prima di poter decidere riprendersi i soldi e di cancellare, così, quel goffo gesto.

 

 

 

Lisbona, Portogallo
Ore 9:22

 

Era lei.

Lei che cercava di confondersi fra la folla, di mimetizzarsi con la rumorosa fauna turistica, di seguire un gruppo di persone di cui aveva appena intuito le traiettorie, ma una volta che Clint aveva agganciato l'obiettivo, difficilmente se lo lasciava sfuggire.

Sapeva di non poterla semplicemente avvicinare e piantarle un coltello nello stomaco.

L'idea, oltre ad essere da idioti, lo nauseava.

La distanza, nel suo lavoro, era tutto. Visuale migliore e distacco necessario per rendere tutto meno concreto, efferato.

La guardava muoversi con disinvoltura: ora come facesse davvero parte di un gruppo di turisti, ora come una cittadina qualunque della capitale. Se non avesse passato ore a studiare il suo fascicolo e le sue fotografie, forse avrebbe davvero avuto delle difficoltà nel riconoscere in lei la donna di cui lo SHIELD voleva cancellare le tracce.

Voleva studiarla, memorizzarne le movenze, distinguerne la mimica, per poterla trovare sempre, ovunque decidesse di nascondersi.

Raccontami un po' di te, Natalia, pensò, cercando di andare oltre la facciata che la donna si era costruita per l'occasione. Per quanto brava potesse essere, prima o poi, i suoi tratti caratteristici sarebbero usciti allo scoperto.

Il modo in cui si riavviava i capelli, il passo rapido ma leggero, l'espressione di vago disappunto per qualcosa che non le tornava, potevano sembrare dettagli insignificanti, ma non per Clint.

Sapeva di star percorrendo una strada pericolosa, che avrebbe potuto finire per conoscere “troppo” di quella che doveva essere l'obiettivo di una mezza giornata di lavoro, ma se la fantomatica Vedova Nera era così letale come tutti dicevano, allora era il momento di prendere le giuste precauzioni.

Si fermò giusto il tempo di vederla sparire all'interno di una chiesa.

Questa decisamente non me l'aspettavo.

Non nascose un'espressione contrariata; con Dio aveva così tanti conti in sospeso che non era pronto a entrare in casa sua e trovarsi afflitto da secoli di insegnamenti biblici.

Decise di deviare per un bar poco distante.

Non attese poi molto, dimenticò casualmente il cappellino di paglia sul tavolo del bar – quel travestimento era appena scaduto -, inforcò un paio di occhiali dalla montatura sportiva, nascosti nella tasca posteriore dei pantaloni, ed uscì di nuovo sotto il sole che già martellava impietoso a quell'ora del mattino. Il cielo libero da nuvole.

Seguì Natalia e le lasciò il tempo di prendere la traversa di una via che aveva memorizzato.

So dove stai andando.

Raggiunse una bancarella che vendeva ciliegie e ne comprò un sacchetto, deciso a lasciarle un po' di filo, prima di tornare a ripescare il suo amo.

Sicuro che fosse passato abbastanza tempo, riprese il cammino, solo per trovarsi faccia a faccia con un venditore occasionale di occhiali da sole particolarmente insistente.

Ahm, no amigo, sono a posto” si indicò gli occhiali come a sottolinearne la presenza.

Il tizio non sembrava intenzionato a mollare.

 

(E intanto Natalia stava sicuramente risalendo i gradini che portavano alla città alta.)

 

D'accordo, d'accordo...” Estrasse il portafoglio – vuoto - “Ho solo cinque euro... cinco... cinco euro” il ragazzo non si fece pregare troppo, gli strappò di mano i soldi, sganciando un paio di occhiali da sole dalla discutibile montatura zebrata.

 

(Seguiva il pigro percorso di un tram. Strade poco trafficate, da lenti e ardimentosi turisti che ingenuamente rifiutavano la comodità dei mezzi pubblici).

 

Ma...” persino Clint aveva una decenza a cui rispondere, ma quello se n'era già andato, sparito, inghiottito dalla città, alla ricerca di qualche altro pollo da spennare.

Come un turista qualsiasi.

Stronfiò qualcosa, infilandosi gli occhiali in testa, incurante del fatto che già ne indossasse un paio e si affrettò all'angolo dietro cui il suo giovane bersaglio era sparito.

Non era nemmeno sicuro che fosse così giovane, dopotutto.

In realtà non era nemmeno sicuro avesse un'età: il suo era uno di quei visi che non riesci a identificare, non una ruga, ma l'espressione di chi, cose, nella sua vita, ne ha viste parecchie, e di sicuro non tutte di suo particolare gradimento.

Anime vissute.

Si maledì per la divagazione filosofica, quando di Natalia non trovò traccia.

Il passo affrettato, su per quelle stradine così ripide, le pigre sieste dei gatti, i panni stesi profumati di bucato, le pareti scrostate, la voce gracchiante di qualche televisore, vite attraverso le finestre di appartamenti ammassati uno sull'altro, scorci di umanità in porzioni che duravano secondi.

 

Si fermò solo quando il dedalo di quelle strade divenne confusionario.

Il minotauro era stato giocato. Arianna aveva tagliato il filo.

 

Sbuffò qualcosa di poco carino nei confronti del cielo, del sole, e dell'universo, maledì i venditori ambulanti e il turismo incivile, tornando a ripercorrere, sconfitto i suoi passi stanchi.

 

Scendendo, un paio di turisti si fermarono a fotografare un gatto sopito con un paio di occhiali zebrati sulla testa maculata.

 

 

Lisbona, Portogallo
Ore 19:54

 

I gradini dell'imponente statua di Giuseppe I del Portogallo erano ancora caldi quando Natalia vi si lasciò cadere sopra. La Praça do Comercio le ricordava un'enorme scatola di sardine aperta sulle rive del Tago: avrebbe dovuto accorgersi prima dei festoni colorati appesi per le strade della città, ma non l'aveva fatto e la disattenzione le era stata fatale. Ovunque guardasse c'erano persone, corpi ammassati gli uni contro gli altri, canzoni e grida improvvisate che si levavano da questo o da quel capannello di gente, turisti in preda all'euforia scatenata dalla vitalità dei portoghesi, l'odore forte del cibo, del basilico, del sudore.

A Natalia girava la testa. Prendere tutto quel sole non le aveva fatto bene, le spalle le bruciavano: come il monumento del defunto re sul quale era seduta, anche il suo corpo sembrava emanare tutto il calore che aveva assorbito durante la giornata che volgeva al termine. Aveva deciso che si sarebbe occupata dell'alloggio col favore delle tenebre e aveva approfittato del tempo libero per mettere qualcosa nello stomaco – una manciata di dolcetti di cui aveva già scordato il nome – e comprarsi un abito diverso in una boutique vintage nella quale era capitata per caso. La fantasia floreale, a dirla tutta, la nauseava, ma la gonna le arrivava fino ai piedi, il che le dava il permesso di muoversi a suo piacimento senza che un colpo di vento improvviso rivelasse l'arsenale che aveva nascosto sotto i vestiti.

Non importava quante volte si ripetesse di apparire più allegra per non dare eccessivamente nell'occhio, quel caos la stava mettendo in seria difficoltà e il buon umore generale non faceva che peggiorare il suo. Era esausta, intontita dal caldo, arrabbiata con se stessa per aver scelto Lisbona tanto frettolosamente da dimenticarsi completamente del giorno di festa, preoccupata per tutte le cose che sicuramente non aveva notato fin dall'arrivo nella capitale. Se non si era accorta degli addobbi che coloravano la città in onore di Sant'Antonio, cosa le assicurava di non essersi persa dettagli più importanti? Pedinatori, facce familiari, uomini di Billmann...

La piazza, nonostante il fiume e un grosso cantiere per lavori in corso, era fin troppo aperta per i suoi gusti: se avessero voluto toglierla di mezzo sarebbe stato sufficiente appostarsi sul tetto di uno degli edifici circostanti e premere il grilletto. Un buon silenziatore, una buona mira, e c'erano persino ottime possibilità che – nella confusione imperante – non si sarebbero accorti del suo cadavere riverso sui gradini fino alla mattina successiva: turisti che avevano alzato troppo il gomito se ne vedevano ovunque. Se tendeva l'orecchio tutto quello che sentiva era rumore assordante, se aguzzava la vista vedeva solo persone dietro ad altre persone. Ucciderla a distanza ravvicinata senza troppo clamore? Praticamente un gioco da ragazzi. In un clima del genere, si sarebbe accorta del pericolo solo quando sarebbe stato troppo tardi.

Sapeva di non essere al sicuro, eppure, nonostante il muto terrore che alle volte riemergeva a stringerle lo stomaco fino a farla star male, quella sera furono la pigrizia e la stanchezza ad avere la meglio. Che mi ammazzino pure, pensò. Niente più preoccupazioni, niente più fughe, niente più paranoia... la morte non suonava poi così male. Alla Red Room le avevano insegnato a rimanere attaccata alla vita con le unghie e con i denti – era, di fatto, un assetto troppo prezioso per andare perduto – contro qualsiasi avversità. L'accanimento che ci metteva per aver salva la pelle le veniva naturale, come un meccanismo istintivo sul quale non aveva alcun controllo. Dopo, a pericolo scampato, si chiedeva perché lo stesse facendo, perché ci tenesse così tanto a rimanere viva. Perché era tanto importante?

Quei pensieri la infastidirono a tal punto da convincerla ad andarsene: l'appartamento di una famiglia di sconosciuti, da qualche parte, la stava aspettando. Aveva bisogno di bere e di farsi una doccia gelida.

Si era appena rimessa in piedi che l'equilibrio le venne a mancare: qualcuno l'aveva spinta da dietro mandando in tilt tutti i suoi campanelli d'allarme. Riuscì a mantenersi in piedi e a voltarsi di scatto, mettendosi automaticamente in posizione di difesa. La borsa le scivolò giù dal braccio per il movimento brusco, spargendo monete ovunque. I due turisti, vistosamente ubriachi, che l'avevano urtata – italiani, comprese – si stavano allontanando con passo barcollante: non si erano neppure accorti dello scontro. Doveva avere un'aria incredibilmente stupida con i pugni sollevati, pronta a combattere contro... niente.

Alzò gli occhi al cielo ormai scuro e si mandò al diavolo in tutte le lingue che conosceva, il che richiese un bel po' di tempo e concentrazione: si mandò al diavolo un sacco di volte.

Fece appello a tutto il suo autocontrollo per costringere i propri nervi a rilassarsi, operazione che l'assorbì a tal punto da impedirle di accorgersi dell'uomo che le stava proprio davanti: la sua borsa in una mano, gli spiccioli raccolti da terra nell'altra. Non era molto alto, ma le diede subito un'impressione di solidità. Capelli biondo scuro, occhi grigi, lineamenti marcati, grosse braccia, abbigliamento decisamente discutibile: aveva l'aria di essere americano.

Grazie”, gli disse, rivolgendogli un sorriso convincente ma privo di qualsiasi calore. “Dovrei stare più attenta”, aggiunse in tono desolato, colorando il suo inglese di un accento vagamente svedese.

Non è colpa tua”, si affrettò a specificare lo sconosciuto con un sorriso amichevole. Era sicura che non avesse meno di trent'anni. Valutò la situazione mentre si riprendeva la borsa – sistemando con attenzione la tracolla sulla spalla dolorante – e i soldi: fece per ripescarli di persona dal palmo aperto della sua mano, ma l'uomo girò il polso all'ultimo secondo, lasciandole appena il tempo di fare altrettanto prima di lasciarli cadere. Da dietro la maschera di cordialità che stava indossando, Natalia lo squadrò con sospetto: voleva evitare di essere toccato? O di toccarla, per semplice educazione? Una serie infinita di ipotesi le sfilò davanti agli occhi: maniaco dell'igiene, imbarazzante malattia della pelle, mani sporche o appiccicose, mani sudate, o forse aveva qualcos'altro da nascondere. Voleva accertarsi che non avesse anelli: nel suo ambiente, veleni e sedativi somministrati con un casuale sfiorarsi o uno scontro fortuito, erano ormai all'ordine del giorno. L'uomo si era rimesso le mani in tasca, impedendole di controllare. Poteva costituire un pericolo o essere solo un innocuo (Nessun uomo lo è, si ricordò Natalia) turista americano in vacanza.

Le mie amiche sono rimaste in albergo. Troppa Ginja”, riprese a parlare nonostante non fosse affatto sicura di volerlo fare. Era certa di non averlo mai visto prima, ma il fatto che l'avesse avvicinata in mezzo a tanta gente – sebbene con una scusa valida, doveva ammetterlo – non le permise di lasciar andare la cosa. Nel peggiore dei casi era un uomo di Billmann arrivato fin lì per rapirla, torturarla e farsi consegnare i piani di San Paolo; nel migliore, uno sconosciuto con un minimo di buone maniere. “Non sarei dovuta uscire da sola”, aggiunse con una leggera scrollata di spalle. Aveva cambiato postura, espressione, tono di voce, mimica facciale, gestualità: non voleva apparire minacciosa. La prima cosa che aveva imparato durante il suo addestramento alla Red Room era che gli uomini si espongono più facilmente quando credono di avere una posizione di superiorità rispetto al loro interlocutore, specialmente quando quell'interlocutore è una donna. Sorrise con aria un po' imbarazzata, “Greta”, si presentò, tendendogli la mano affinché gliela stringesse. Lo guardò in viso senza, però, voler apparire troppo sfrontata, decidendo – al tempo stesso – quale fosse il modo migliore per toglierlo di mezzo senza dare troppo nell'occhio. Non ne ebbe bisogno: con sua grande sorpresa, l'uomo non si sottrasse al contatto, allungando la mano per stringere quella di Natalia in una morsa decisa ma gentile, “Francis”.

Trattenne il respiro finché non l'ebbe lasciata andare. Nessuno scherzo, constatò con una punta di delusione. Ha solo mani terribilmente ruvide. Corporatura granitica e dita callose la fecero pensare ad un lavoro manuale, un lavoro di fatica.

Nonostante il buonsenso che la spingeva a restare all'erta, Natalia si rilassò, i muscoli si fecero meno contratti, i nervi meno tesi. Era solo un turista in vacanza che le aveva raccolto la borsa. Fine della storia.

Lo sentì fare un commento sui portoghesi e sulle feste e straordinariamente - forse per ripagarlo della gentilezza – si impedì di lasciar cadere la conversazione, dando la miglior interpretazione di Greta-l'adorabile-svedese-in-vacanza-con-le-amiche-ubriacone di cui era capace in una serata tanto pigra. Decisamente non la sua migliore. Smise di ascoltarlo, continuando a far conversazione in modalità “pilota automatico”, ma non di studiarlo. Conosceva a menadito gli effetti che una menzogna aveva sul volto umano, ma sul viso di Francis non ne lesse neanche uno. Come aveva potuto pensare che si trattasse di un uomo di Billmann? Fece scorrere lo sguardo sulla maglia dal rosso un po' scolorito, leggermente sdrucita sul colletto, che riportava il nome di quella che era quasi sicura essere una squadra di baseball di Boston. Ha un buon odore, il pensiero la colpì dal niente, facendola sentire immensamente sciocca. Non ricordava quando fosse stata l'ultima volta che era stata con un uomo, ma – per un ridicolo attimo – l'idea di trascorrere la notte con quello sconosciuto non le sembrò poi tanto stupida. Che avrebbe potuto perderci? Turista solitaria incontra turista solitario, si intrattengono a vicenda, se ne tornano a casa: era sicuramente una delle trame meno originali che avrebbe potuto inventarsi. E in più c'era qualcosa nella sua espressione che la faceva sentire... si impedì di pensare “al sicuro”, perché sarebbe suonato troppo idiota, e decise solamente che aveva l'aria di una persona affidabile, qualcuno su cui avresti potuto contare nel momento del bisogno.

Francis stava ancora parlando quando Natalia si accorse di averlo fissato per un attimo di troppo: le parve di scorgere qualcosa di terrificante in fondo ai suoi occhi. Fu costretta a distogliere l'attenzione su altro mentre le parole continuavano ad uscirle di bocca, provate e riprovate fino alla nausea per uno scenario scelto a caso tra quelli che aveva in repertorio, pronti per l'uso. Per assurdo, si sentì come se non avesse avuto addosso abbastanza vestiti.

Si congedò poco dopo: la dolce Greta doveva tornare dalle sue amiche e accertarsi che stessero bene. Lo salutò con un sorriso pieno di un disagio che riuscì a malapena a nascondere. Gli diede le spalle e si fece strada tra la folla con un po' troppa foga, ignorando di proposito il tremore che le aveva preso le mani. Non era più tanto sicura che a spaventarla fosse stato qualcosa che gli aveva letto nello sguardo: piuttosto qualcosa che lui era riuscito a leggere nel suo.

 

 

Lisbona, Portogallo
Ore 19:58

 

Doveva assolutamente ricordarsi di complimentarsi con la dea bendata – privatamente e con le dovute riserve - per averlo benedetto con quella fortuita casualità.

Credeva di aver perso un’intera giornata di lavoro e invece eccola lì, la sua schiva Vedova Nera, turista fra i turisti, spaesata dai festeggiamenti – o maestra nel simularlo.

Nemmeno si era reso conto di averla avvicinata tanto, e di aver spontaneamente (stupidamente) cercato il primo contatto diretto.

Eppure ora erano lì, uno di fronte all’altra, fra la calca di gente e le grida etiliche, festose, a intrattenere una conversazione che non era nemmeno sicuro li portasse da qualche parte.

Cercò di evitare qualsiasi contatto fisico – vittima dei suoi stessi principi lavorativi - prima di rendersi conto che sarebbe risultato sospetto o quantomeno bizzarro. Una spia abituata ad avere a che fare con gente che agisce in modo forzatamente spontaneo non ci avrebbe messo molto a smascherare il suo ardito travestimento.

Si finse turista anch’egli, cercò di immedesimarsi in una parte che non gli era granché congeniale, ma che, per quanto riguardava l’essere spaesati e decisamente poco avvezzi alla folla, gli risultava fin troppo semplice.

Doveva ammettere che era brava.

Una pelle diversa da quella che le aveva visto ostentare durante il pomeriggio. Ora era anche una questione di parole, atteggiamenti, qualcosa che non avrebbe potuto constatare da lontano.

Quel modo di calibrare la voce - bassa, vagamente arrochita forse dal caldo, forse solo di natura - affinché non rivelasse nessuna emozione particolare, le frasi, scelte con cura, per metterlo a suo agio; chissà quante volte aveva simulato conversazioni come quella, con quante varianti, più o meno credibili, aveva depistato occasionali clienti o seccatori.

E poi oh, era bella – gli occhi limpidi, sfuggenti, le labbra piene, in movimento, la curva morbida dei fianchi, quella goccia di sudore che sembrava delinearle la linea flessuosa del collo fin giù a insinuarsi fra i seni inaspettatamente generosi - un fascino che sgorgava a prescindere dall’inganno. Era convinto fosse ben più che conscia di possederlo, e decisa a sfruttarlo in qualsiasi modo le potesse tornare utile.

 

Se Fury lo avesse visto in quel momento, colto nell’atto di apprezzare quello che doveva essere un freddo obiettivo da eliminare…

Poteva sentirne le grida, e la mortificazione di Coulson che magari, segretamente, avrebbe comunque spalleggiato la sua debolezza.

 

Non percepiva minacce. Probabilmente Natalia aveva deciso che non doveva rappresentare un pericolo. Appuntò mentalmente che avrebbe dovuto complimentarsi anche con se stesso. Sempre privatamente, sempre con le dovute riserve.

Già, non è la prima volta che vengo a Lisbona”, una conversazione del tutto comune, quella fra due sconosciuti che cercano un contatto familiare in mezzo a gente sconosciuta. “Sono passati anni, ma devo ammettere che non è cambiato molto…”

Era affascinato da come riuscisse ad evitare il suo sguardo, senza smettere di studiarlo un solo istante.

Dovette combattere con se stesso per sottrarsi al disagio di sentirsi sotto esame, cercò di limitare i gesti, di fingersi spavaldo di mettersi in mostra come avrebbe fatto un qualsiasi uomo di fronte a una bella donna.

Si sorprese persino di ricordare come si facesse. (I suoi recenti tentativi di abbordaggio si erano conclusi per disperazione. Delle altre.)

Devi assolutamente provare il riso di mare, c’è un posto qui vicino che ne cucina di ottimo. Il locale è piccolo ma le quantità sono abbondanti e a buon prezzo.”

Oh, sarebbe grandioso.”

Magari però convinci le tue amiche a bere dopo cena, perdersi le bellezze della città di sera è un vero peccato.”

La risposta sempre pronta, vaga, ma decisa, poteva sembrare un modo gentile per non invitare l’uomo a esporsi troppo. Falsa timidezza, educata discrezione. Ma sapeva che non era così.

Improvvisamente ne fu intimorito. Nonostante fosse ormai evidente che lei lo considerasse un semplice viaggiatore, vide che i propri tentativi di sfondare una corazza pre-fabbricata, venivano demoliti, uno dopo l’altro, che tutto quello che riceveva era la falsa copia di quello che stava cercando. Che diavolo si aspettava di scoprire? Dove voleva arrivare?

Stava cercando una scusa, un pretesto per dilungare, rimandare la violenta conclusione a quello scambio di gentilezze? Oppure si aspettava di scorgere una scintilla, una goccia di umanità, di reale spontaneità.

Non doveva convincerla a fare qualcosa per lui, gli ordini erano chiari, doveva ucciderla.

E allora a che pro continuare con quella farsa? L’istinto lo aveva spinto oltre, troppo vicino a quella linea di confine che avrebbe dovuto vedere da lontano, come era abituato a fare.

Cosa lo aveva spinto allora ad arrivare tanto vicino al baratro?

Troppo sangue, troppe vittime.

Il pensiero si materializzò e scomparve, come polvere nel vento.

Si diede mentalmente dello sciocco e per un breve, misero attimo, persino la sua, di maschera, crollò e lei se ne accorse.

E fu solo allora che lesse la paura, nei suoi occhi. La prima vera reazione spontanea, il primo vero sentimento reale.

Mi ha scoperto, sono finito, la copertura è crollata, la missione è fallita.

Si scoprì vagamente sollevato da quella constatazione e la cosa lo spaventò più del previsto. Si schiarì la voce, dissimulando lo sconcerto con la delusione per la loro annunciata separazione.

Spero di rivederti in giro, Greta.”

E con quello fu finita. Ne seguì la silhouette allontanarsi fra la folla, cupo contrasto con i colori cittadini e il sollievo si tramutò in ansia.

Doveva agire in fretta.

Non poteva lasciarla scappare, andava contro i suoi principi, la sua professionalità. Lo SHIELD si fidava di lui e lui non poteva farsi sorprendere da repentini e mutevoli sbalzi di pietà.

 

Però la paura… quella paura. L’aveva vista tante volte, in tanti occhi. Quella paura colpevole, dilaniante, consapevole che lui stesso si era ritrovato ad osservare attraverso uno specchio che gli rimandava la sua immagine.

 

 

Lisbona, Portogallo
Ore 21:30

 

Aveva recuperato il suo arco. Se non altro la presenza tangibile dello strumento che gli era ben più congeniale della conversazione, lo faceva sentire a suo agio. Ora era pronto, a prescindere da qualsiasi sentimento di compassione o di empatia che aveva potuto provare in uno stupidissimo istante.

In piedi sul tetto di uno di quei vecchi palazzi, con la vaga eco delle musiche distanti nella piazza ormai lontana, nella solitudine di quella notte appena abbozzata, assestò la mira e seguì il passo rapido, ma esausto, del suo bersaglio.

 

Nessun ripensamento.

Vittime, non lo siamo tutti?*

 

Focalizzò, inspirò a fondo, ne individuò il cuore che immaginò vivo e pulsante sotto quel leggero abito di cotone.

Si preparò a scoccare la freccia.

Poi un guizzo, rapido, intangibile che polverizzò la sua concentrazione.

Uomini. Un gruppo di uomini che si materializzarono da chissà dove, scivolando furtivi dalle vie, nel buio, tutt’intorno alla donna.

Che fu rapidamente circondata.

L’arco fu abbassato, la freccia ritirata.

Forse non avrebbe dovuto proprio uccidere nessuno, quella notte.

 

 

 

Note:

*Citazione dal film “Il Corvo”.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Io... io dormirò tranquillo, perché so che il mio peggior nemico... veglia su di me.

(“Il buono, il brutto, il cattivo”)

 

 

 

Lisbona, Portogallo
Ore 21:32

 

La circondarono prima che potesse registrare i loro passi strascicati sull'asfalto. Si fermò in mezzo alla strada, rivolgendo un'occhiata non particolarmente preoccupata ai tre uomini che le sbarravano la via. Sapeva di averne almeno altri tre alle spalle. Nessun'arma in bella vista, presumibilmente pistole e coltelli pronti ad essere sfoderati come argomenti di persuasione o per darle un po' di filo da torcere.

Li studiò con sistematicità, assorbendo rapidamente informazioni mentre ricordava a se stessa di avere un vantaggio non indifferente: avrebbero dovuto prenderla viva, altrimenti i preziosi progetti di Billmann sarebbero rimasti abbandonati nelle sue cassette di sicurezza fino a tempo indeterminato.

La famosa Vedova Nera”, gracchiò l'uomo che le stava di fronte, un forte accento tedesco, alto di statura, largo di spalle, naso camuso e una grossa cicatrice che gli attraversava l'occhio destro.

In carne ed ossa”, rispose, senza curarsi di celare la nota di fastidio nella propria voce.

Era fin troppo consapevole di essere ben oltre la fase dei giochetti; in un certo senso sollevata di non dover continuare a trattenere il fiato in attesa di quell'inevitabile momento. Approfittò della conversazione in corso per voltarsi verso il resto dell'allegra combriccola: solo due dei sei sembravano avere tasche abbastanza ampie da contenere caricatori di riserva. Gli altri indossavano maglie a maniche corte e pantaloni più o meno leggeri, probabilmente per non dare troppo nell'occhio tra i turisti che affollavano le strade della capitale.

Hai qualcosa che appartiene al nostro capo. Vorremmo, come dire... averla indietro, prima che le cose non si facciano, come dire... antipatiche”, riprese lo sfregiato, fissandola con aria di ostentato sdegno.

Ai suoi occhi non era altro che una ladra dotata di due belle tette, un nomignolo ad effetto e doti decisamente sopravvalutate. Non l'avevano, dopotutto, trovata in meno di quarantotto ore?

Oh, lo capisco. Posso essere... come dire, antipatica, quando voglio”, lo scimmiottò, reclinando il capo di lato per rivolgergli uno sguardo che aveva del divertito, nonostante il suo viso non lasciasse indovinare proprio niente del genere.

Lo sfregiato grugnì una mezza risata, subito seguito dagli altri tirapiedi.

Non ti conviene giocare con il fuoco, ragnetto, a me gli insetti non piacciono.”

Natalia sembrò valutare la cosa e poi si strinse nelle spalle: “I ragni non sono insetti”, lo informò con naturalezza, provocando una reazione immediata nell'uomo alto e slanciato che lo fiancheggiava. Fece un passo avanti come per affrontarla, ma il capo lo bloccò alzando semplicemente una mano.

Non ancora Hans”, lo redarguì prima di tornare su Natalia.

Il pacco di San Paolo. Lo vogliamo. Consegnacelo adesso e forse il signor Billmann sarà abbastanza magnanimo da risparmiarti...”, cambiò espressione. “Sarebbe un peccato uccidere una donna tanto bella”, tirò fuori la lingua dalle labbra e l'agito un poco prima di scoppiare di nuovo a ridere, il fedele coretto degli altri a fargli da sottofondo.

Scommetto che tra quelle cosce ci sta il paradiso”, continuò. Visto che il siparietto stava riscuotendo tanti consensi, perché fermarsi?

Natalia sorrise, abbandonando delicatamente la borsa a terra. Il movimento mise in allarme i tre uomini alle sue spalle. Sentì distintamente lo scatto della sicura di un'arma da fuoco.

Lo sfregiato sollevò di nuovo la mano, lasciandola sospesa a mezz'aria, pronto a dare il segnale ai suoi nell'istante in cui l'avesse ritenuto necessario. Natalia doveva assicurarsi che scegliesse il momento sbagliato.

Il secondo uomo armato di pistola - intuì dalla sua postura - era quello che stava alla sinistra dello sfregiato, un uomo calvo, non molto alto, con una folta barba scura e occhi piccolissimi.

Con la certezza di aver individuato i due membri del gruppo che la preoccupavano di più, si concesse di avvicinare lo sfregiato di un paio di passi, finendogli a meno di un metro di distanza.

Scommetti bene”, commentò, senza abbandonare quell'aria subdolamente divertita. “Sembri essere un uomo furbo, uno che riconosce un ottimo affare quando lo vede”.

L'uomo le rivolse un cenno d'assenso: Natalia chiamava, e il suo ego rispondeva.

Sono sicura di poter risparmiare un bel po' di lavoro a tutti quanti”, lo blandì e l'avvicinò ancora di più, lentamente. “Non c'è motivo di tirare questa fastidiosa faccenda per le lunghe”, ribadì, eliminando quasi del tutto la distanza che li separava.

Sentì gli altri cinque muoversi nervosamente ai loro posti, ma non azzardarsi a muovere un dito senza il consenso dello sfregiato.

Natalia si chinò verso di lui, accostando le labbra al suo orecchio. Riusciva a sentire il battito accelerato dell'uomo, il calore che il suo corpo emanava, una luce improvvisamente diversa negli occhi.

In cambio della tua collaborazione”, sussurrò carezzevole “Ti prometto che abbandonerai questo mondo tra le mie cosce”.

L'uomo non fece in tempo ad abbassare la mano e dare il segnale che il pugno di Natalia lo colpì in piena gola, togliendogli il respiro.

Scartò immediatamente sulla sinistra, girando su se stessa per afferrare il braccio armato del calvo. Gli afferrò il polso con forza, colpendolo con una violenta gomitata allo stomaco che lo piegò in due all'istante. Fece leva sul suo braccio per colpire con un calcio all'indietro il numero tre, quello che lo sfregiato aveva chiamato Hans, dritto in faccia, ma non abbastanza rapidamente – il vestito troppo lungo le era d'intralcio – da impedirgli di colpirla al polpaccio con un grosso coltello serramanico. Ignorò il dolore e strinse con maggior forza il braccio del calvo. Calcolò l'angolazione giusta e lo abbatté contro il proprio ginocchio, spezzandolo così come avrebbe spezzato un rametto troppo lungo. L'urlo di dolore che emise venne soffocato dal primo sparo che sibilò nell'aria, a pochi centimetri di distanza dal suo viso.

Raccolse in fretta l'arma da fuoco abbandonata dal calvo, mirando senza esitazioni alla testa dell'uomo che le aveva sparato.

Ebbe appena il tempo di premere il grilletto che il numero quattro le fu addosso, sbattendola a terra senza troppi complimenti. Il contraccolpo le fece mancare il fiato e la costrinse a lasciar andare la pistola. Usò entrambe le mani per bloccargli la mano armata di coltello, e tutta la forza di cui disponeva per respingerlo al mittente. Il corpo pesante dell'uomo – almeno cento chili, valutò – la teneva saldamente schiacciata a terra: si risolse a tirargli una testata in pieno naso. Un sonoro crac annunciò ad entrambi che il setto era andato a farsi benedire.

Colse al volo il momento di shock, respingendo saldamente il polso con una mano, colpendolo violentemente tra le costole con l'altra, concedendole la leva necessaria per toglierselo di dosso.

Si accorse dell'ombra che incombeva su di lei e rotolò di lato appena in tempo perché il proiettile la colpisse alla spalla solo di striscio, prima di rimbalzare sull'asfalto e andare a finire chissà dove. Aveva messo KO un artigliere, reso inoffensivo l'altro, ma le loro armi erano state prontamente recuperate dai compagni.

La rabbia per la lentezza e la goffaggine con cui stava affrontando lo scontro le diede alla testa.

Afferrò lo spacco del vestito e tirò con tutte le forze, strappandolo fino almeno a metà coscia.

Estrasse la sua pistola, uccidendo in un batter d'occhio l'uomo che aveva provato a spararle e quello che stava per farlo. Un dolore lancinante al fianco l'avvisò che, almeno una delle coltellate era decisamente andata a segno. Ricacciò indietro il dolore e ruotò il busto per colpire l'assalitore – lo sfregiato, si accorse - con una violenta gomitata al viso, senza dargli il tempo di riprendersi la lama. Tirò fuori il coltello da sola, impedendosi in ogni modo di urlare. Lo scagliò agilmente contro il numero quattro, prendendolo in pieno petto. Sollevò il braccio armato e sparò all'unico sottoposto ancora in piedi prima di preoccuparsi del calvo col braccio rotto che stava freneticamente cercando di digitare qualcosa sulla tastiera di un telefono cellulare. Si curò di ficcargli una pallottola tra gli occhi prima di voltarsi a fronteggiare lo sfregiato che ancora annaspava in cerca d'aria.

Una promessa è una promessa”, gli annunciò con voce gelida, mascherando abilmente dolore e stanchezza per ottenere l'effetto desiderato: negli occhi dell'uomo vide per la prima volta il terrore.

Natalia rinfoderò la pistola, afferrando il lato opposto della gonna dell'abito per aprirsi a forza un altro spacco nello stoffa.

In piedi!”, gli ordinò a gran voce, furiosa.

L'uomo obbedì, le mani alzate a mo' di resa, il naso sanguinante, il labbro inferiore gonfio, una supplica biascicata in tedesco.

Si concesse un lungo attimo di pausa per riprendere fiato. Contò fino a dieci prima di correre verso lo sfregiato, darsi lo slancio per capovolgersi a mezz'aria, agganciargli le cosce attorno al collo e spezzarglielo in un unico, fluido movimento, prima di atterrare seduta a terra, la testa dell'uomo, ormai cadavere, appoggiata in grembo.

Chiuse gli occhi e serrò le labbra fino a farsi male, impedendo al suo cervello di registrare il dolore che pareva volerle esplodere in tutto il corpo, pretendendo attenzione.

No, si disse, non ancora.

In fondo alla strada, scorse le luci dei fanali di una macchina in avvicinamento.

Fece appello a tutte le poche energie che le erano rimaste per rimettersi in piedi, una strana sensazione alla base della nuca a suggerirle che qualcuno la stava osservando. Liquidò la cosa senza troppe cerimonie: sicuramente gli spari e le grida avevano attirato l'attenzione di qualche abitante del quartiere cui i festeggiamenti non interessavano, che adesso la fissava dalla finestra aperta, o attraverso le persiane. Non aveva tempo di preoccuparsi dei particolari.

Usò la gonna dell'abito per raccogliere tutti i coltelli, le pistole e i caricatori degli uomini di Billman.

Qualsiasi cosa il calvo avesse scritto, il messaggio era stato inviato: senza dubbio, la cavalleria l'avrebbe raggiunta al più presto.

Impugnò la sua Glock e rimase in mezzo alla strada per assicurarsi che l'automobile fosse costretta a fermarsi. Quando lo fece, puntò l'arma contro il conducente e lo costrinse ad uscire dall'auto in un portoghese, suo malgrado, incerto. Gli intimò di star zitto ma, visto che non sembrava né troppo lucido, né intenzionato a lasciar andare la sua macchina, si vide costretta a tirargli un pugno in faccia e a metterlo a dormire per un po'.

Dei tuoni lontani la informarono che la pioggia sarebbe arrivata a farle compagnia di lì a poco. Salì sull'automobile – un modello fin troppo antiquato per i suoi gusti, ma avrebbe dovuto adattarsi – rovesciò le armi sul sedile del passeggero e ripartì senza guardarsi indietro.

 

 

Sintra, Portogallo
Ore 00:03

 

Ultimamente i suoi film mentali venivano sistematicamente smentiti. Uno dopo l’altro.

Non che fossero particolarmente entusiasmanti o ricchi di colpi di scena sensazionali, ma il programma di una doccia, un pasto veloce e un pisolino in previsione del rientro negli Stati Uniti lo aveva allettato fin dal momento in cui aveva preso la decisione di farla finita con quella missione.

Invece la Vedova Nera cosa faceva? Non solo si liberava dei fastidiosi terzi incomodi – screanzati e impertinenti per altro; fino a pochi minuti prima, Clint era certo che la loro fosse una classica relazione a due, non un’orgiastica spedizione punitiva – ma si lanciava in un'improbabile fuga con una scassatissima Due Cavalli dallo sbiadito color porpora, verso lidi sconosciuti.

In realtà era certo non sarebbe riuscita ad andare troppo lontano. Non l’aveva vista particolarmente in forma. Così come lei aveva lasciato un ricordo indelebile e perpetuo ai danni dei suoi inseguitori, loro dovevano averle regalato un certa dose di buchi e antiestetici lividi.

Si era preoccupato di lasciarle un ricordino sul tettuccio della macchina: una delle sue frecce speciali, dotate di localizzatore, lo avrebbero condotto da lei con tutta calma. Certo, finché non avesse abbandonato la scassona.

Non poteva comunque dormire sugli allori e poi, ormai, dopo lo spettacolo gentilmente offerto dalle industrie circensi Black Widow & Co., aveva abbastanza adrenalina in corpo per affrontare indenne la notte.

Si procurò facilmente una vettura, grazie alla collaborazione dei suoi vigili contatti a New York.

 

Coulson, ma tu dormi mai?”

Ti ricordo che qui è giorno, Barton.”

Giusto. Forse allora dovrei dormire io.”

Cerca di non farlo mentre guidi.”

Come farei senza i tuoi preziosi consigli?”

 

Viaggiò per alcuni interminabili minuti, finché lo schermo del localizzatore non gli indicò che la macchina della dolce Natalia si era fermata da qualche parte, nei pressi di Sintra.

Ridente località situata nel distretto di Lisbona… citava la guida turistica. Avrebbero dovuto cercare alternative a quel grottesco aggettivo. Come venir accolti da un gruppo di locali, in preda a sghignazzanti convulsioni: non uno dei benvenuti più sereni. Qualcosa forse più nelle corde di qualcuno come Stephen King.

E solo allora si rese conto che giusto una descrizione del raccapricciante scrittore avrebbe potuto rendere l’idea del luogo in cui la Vedova Nera aveva deciso di trascorrere la sua contusa nottata.

I boschi che circondavano la cittadina erano un intreccio di alberi e sentieri che, con l’oscurità, non suggerivano luoghi sicuri. In più, il temporale ormai alle porte, il borbottio ancora lontano dei tuoni e i lampi che illuminavano a tratti un cielo terribile, davano ai dintorni un’atmosfera lugubre, condita di enfatica tragedia.

Si chiese se la donna non avesse scelto quel posto, convinta di trovarcisi a suo agio, come un vero aracnide, nella trama della sua ragnatela.

Avvicinò la Due Cavalli, abbandonata nei pressi di un inerpicato sentiero, probabilmente uno di quelli diretti al Castelo dos Mouros (famoso per le nebbie che ne circondavano le mura persino in alcune, assolate giornate estive) e non si stupì nel trovare tracce scure, di quello che doveva essere sangue, sulla ghiaia.

Una ruga di preoccupazione gli attraversò la fronte, quando si rese conto che la macchina della donna non era l’unica presente all’appello: un paio di SUV, neri come la pece, erano parcheggiati dalla parte opposta della strada.

Qualcun altro doveva aver avuto la sua stessa idea e il suo istinto gli suggeriva che doveva trattarsi della stessa gentaglia che aveva attaccato Natalia a Lisbona.

Ancora una volta inopportuni, ancora una volta a interferire con la loro intima disputa a due.

Raccolse arco e frecce, deciso ad addentrarsi nel bosco, pronto alla caccia. Per una volta tanto, perfettamente a tema.

 

Contro ogni previsione non gli ci volle poi molto per individuare il gruppo di uomini che si spostavano goffi e rumorosi su per la salita.

Decisamente li aveva sopravvalutati.

Ipotizzò fossero almeno una decina. Attivò gli occhiali notturni, abbarbicato su uno degli alberi attorno, complimentandosi per aver sbagliato il calcolo per un solo elemento dell’allegra comitiva.

Un piccoletto dall’aria stonata, seguiva il corteo, armato di comunicatore. Probabilmente un localizzatore, che Dio solo sapeva come avessero fatto ad applicarle. Forse una cimice fra i capelli, nelle pieghe dei vestiti… o fra le armi che la donna aveva caricato in macchina.

Si rese conto che Natalia doveva essere decisamente fuori fase per commettere un errore tanto grossolano. A meno che non fosse così folle da averlo fatto consciamente, per averli tutti al suo cospetto. Decise di scartare la seconda ipotesi.

La donna era in grossi guai e improvvisamente provò di nuovo quella lontana, insensata, forma di compassione.

Insensata? Oh, andiamo! Una decina di uomini contro una donna sola e per quanto letale, spaesata, ferita, al buio.

In realtà cominciava ad avvertire una sorta di perversa simpatia per il modo in cui era riuscita a risolvere la situazione a Lisbona: nemmeno le dettagliate descrizioni nei fascicoli dello SHIELD avrebbero potuto rendere appieno quello che aveva constatato con i propri occhi. Le complesse tecniche di combattimento, quelle braccia e quelle gambe, eccellenti armi da difesa. La profonda conoscenza di qualsiasi arma e del loro molteplice utilizzo. Una macchina da guerra.

Uno spreco doverla eliminare, un’offesa coinvolgerla in uno scontro impari, a maggior ragione se messo in atto da un gruppo di imbarazzanti e pretenziosi killer da quattro soldi.

Una risorsa che lo SHIELD forse avrebbe dovuto valutare con occhio critico, prima di dare ordine d’eliminazione sommaria.

Si maledisse per aver nuovamente messo in dubbio le decisioni dei superiori. Aveva imparato a gestire la disciplina ed era certo che non sarebbe stato così facile farlo cadere di nuovo in quel baratro oscuro da cui lo stesso SHIELD lo aveva ripescato. Doveva molto all’organizzazione, doveva loro forse tutto quello che era adesso, e allora per quale diavolo di motivo si trovava tormentato dai dubbi? A domandarsi se non avesse davvero nessuna voce in capitolo riguardo quello che era chiamato a fare?

Serrò le mascelle, finché non avvertì quel dolore alle tempie che lo riportò alla lucidità, alla concentrazione.

Quasi non si rese conto che aveva iniziato a piovere.

Primo obiettivo, rallentare e intralciare l’avanzata di quel gruppo di imbecilli in nero.

Natalia aveva bisogno di tempo.

 

Con la prima freccia fece cadere l’ultimo piccoletto della fila. Senza il cervellone tecnologico sarebbero stati privati dell’occhio di quel grande fratello che gli dava un ulteriore vantaggio.

Nessuno sembrò accorgersi della sua mancanza.

Con la seconda e la terza si portò a casa altri due trofei: uno cadde nel dirupo poco distante con una certa gradevole discrezione; l’altro, che si era allontanato per controllare nella boscaglia laterale, trovò la sua fine dentro una pozzanghera. Se gorgogliò qualcosa, nessuno se ne accorse.

Vai alla grande, Clint, si complimentò con se stesso, recuperando l’ennesima freccia dalla faretra.

Poi un movimento, quasi indistinto, alla sua destra. Un fruscio di fogliame così impercettibile, coperto dal picchiettare della pioggia, da poter essere frutto di una fervida immaginazione.

Puntò l’arco in quella direzione, senza riuscire veramente a distinguere qualcosa di concreto.

Assottigliò lo sguardo e la sua visione notturna gli suggerì che qualcuno, laggiù, stava osservando la scena dal suo nido di ragno.

Deviò la freccia e colpì l’uomo in cima alla fila, mandando in rapida confusione il gruppo.

 

Se dovevano scatenare l’inferno, che fosse almeno qualcosa di teatrale.

 

 

Sintra, Portogallo
Ore 00:07

 

Doveva ammetterlo: la quantità di uomini che Billmann le aveva messo alle costole l'aveva impressionata. Quindici in tutto secondo i suoi calcoli. Ciò che non l'aveva sorpresa affatto era la dimostrazione di incompetenza e inefficacia che un numero del genere suggeriva. Per quanto le costasse constatarlo, con le abilità e il sangue freddo adatti, anche un solo uomo sarebbe riuscito a metterla in difficoltà in giorni come quelli. Evidentemente, come tutti i parvenu, anche Billmann preferiva la qualità alla quantità. Su quel fronte, se non altro, non c'era proprio niente di originale.

 

Dai rami più alti e resistenti dell'albero prescelto, Natalia osservò il gruppetto farsi strada attraverso la pioggia e i boschi di Sintra. Decisamente non la meta che si era prefissata. Si era accorta di non poter continuare per molto, non con quella particolare auto e non in quelle condizioni: perdere i sensi al volante non era nella lista delle sue priorità. Avrebbe voluto trovare un ospedale, magari prendere in prestito disinfettante e bende, ricucirsi dove fosse stato necessario, ma i due SUV la individuarono prima di quanto avesse sperato. Era stata costretta a continuare per la sua strada e approfittare della fitta vegetazione offerta dalla località portoghese: non sarebbe stata in grado di affrontarli tutti insieme, ma – forse, nella migliore delle ipotesi – uno alla volta e col favore delle tenebre, sì.

 

Aveva avuto appena il tempo di accorgersi del localizzatore conficcato sul tettuccio dell'auto (tecnologia fin troppo sofisticata per una banda d'uomini tanto dozzinali), di recuperare il fatiscente kit di pronto soccorso nel bagagliaio (a che decade risalisse, esattamente, non lo sapeva, ma non prometteva bene) e di inforcare il sentiero per i boschi tanto velocemente quanto le sue condizioni le concessero. Individuato il punto migliore in cui fermarsi e scelto l'albero che offriva la posizione migliore rispetto al gruppo in avvicinamento, si era fermata per controllare il contenuto del kit: la buona notizia era che dentro aveva l'aria di essere decisamente più recente che fuori, la cattiva che quella quantità industriale di cerotti delle SuperChicche non le sarebbe stata granché d'aiuto. Spruzzò il disinfettante sul polpaccio e sul fianco bendati: entrambe le ferite grossolanamente fasciate con quella che era stata la gonna del suo abito, drasticamente accorciato sopra il ginocchio. Se doveva uccidere tutta quella gente, avrebbe avuto bisogno di piena mobilità.

Fece un rapido inventario delle armi a sua disposizione: la sua Glock, il suo coltello, una delle armi da fuoco requisite ai sei che le avevano fatto visita a Lisbona (aveva abbandonato il resto nel trabiccolo su cui era arrivata), munizioni. Non molto, ma si sarebbe dovuta accontentare. Il suo problema principale, al momento, era tutto il sangue che aveva perso e che ancora stava perdendo: se non si fosse data una mossa, il numero di uomini da sconfiggere sarebbe stato totalmente irrilevante.

 

Mise da parte il kit non appena ebbe deciso che era il momento di agire. Individuò immediatamente il suo primo obbiettivo (il più vicino all'albero su cui si trovava) e valutò un piano d'azione. Scelse poi le vittime successive a seconda della loro posizione e dall'oscurità del punto in cui si trovavano. Fu solo allora che si accorse che tre soggetti mancavano all'appello. Dove diavolo sono andati a finire? Non ebbe il tempo di scoprirlo: il capofila crollò a terra, colpito da qualcosa che Natalia non era riuscita ad identificare, mandando gli altri membri del gruppo allo sbaraglio.

 

Approfittò del parapiglia generale e si calò giù dal suo albero, lama del coltello stretta tra i denti, pistola in pugno. Atterrò alle spalle della prima vittima designata, l'afferrò da dietro prima di sgozzarlo con un movimento preciso. Il gorgoglio del sangue si confuse con quello della pioggia che scendeva dal cielo e in rivoli sul terreno fangoso. Usò il tronco come copertura e cercò di capire che cosa fosse successo. Che avessero improvvisamente deciso di ritorcersi gli uni contro gli altri? Possibile che la sua buona stella – non era poi tanto sicura di averne una – avesse deciso di inviarle un dono tanto provvidenziale quanto una faida interna alla squadra che avrebbe dovuto ucciderla? No, qualsiasi cosa avesse colpito il capo, era stata scagliata dall'alto ed era ormai piuttosto certa che i tre uomini mancanti fossero già stati messi KO senza che se ne fosse accorta. Un misto di gratitudine verso ignoti e fastidio pungente le riempì lo stomaco: qualcuno stava facendo il suo lavoro al suo posto. Decise, però, di rimandare le questioni etiche ad un altro momento.

 

Restò appiattita contro il tronco dell'albero e tese l'orecchio, sperando di poter indovinare la posizione dei restanti quattro uomini, ma il rumore della pioggia copriva tutti gli altri, permettendole a malapena di sentire le grida confuse dei superstiti. Non le restò altra alternativa se non quella di lasciarsi guidare da quelle: uscì allo scoperto, sulla destra, puntando l'arma davanti a sé. Individuò il bersaglio prima che quello potesse fare altrettanto con lei, piantandogli una pallottola alla base della nuca. Si tuffò nell'ombra di un albero vicino, facendo più fatica del previsto a mantenere l'equilibrio: la suola delle scarpe da tennis non era esattamente studiata per quel tipo di terreno. Una scarica di colpi le annunciò che la sua posizione era stata scoperta.

Non si scompose più di tanto – il tronco le offriva uno scudo sufficiente – e restò ad aspettare che le munizioni finissero. Il che accadde, puntualmente, solo una manciata di secondi più tardi. Ne approfittò immediatamente, piegandosi sulle ginocchia prima di sporgersi e far fuoco: altri due corpi rovinarono a terra, privi di vita. Il terzo, l'unico ancora piedi, stava indietreggiando e al tempo stesso armeggiando col caricatore della pistola che pareva essersi inceppata. Natalia prese un'improvvisa decisione e si rimise in piedi, uscendo allo scoperto. Avanzò verso di lui, tese il braccio davanti a sé, e quando gli fu ad un misero metro di distanza, aprì il fuoco, il buio e la pioggia ad inghiottire la nuvola scarlatta che si alzò dal cranio dell'uomo. Il delicato ciaf con cui il cadavere si accasciò a terra fu come manna dal cielo, anche se la sensazione di pericolo, alla base dello stomaco, non si dissipò come avrebbe voluto. Inspirò ed espirò ripetutamente, sforzandosi di non perdere concentrazione e lucidità. La luce di un lampo si fece strada tra le fronde degli alberi, illuminando il bosco per un misero istante: le fu sufficiente per accorgersi che c'era qualcosa a sporgere da alcune delle figure sparse tra la vegetazione. Ripiombò il buio prima che potesse capire di cosa si trattasse.

 

Ma non ce ne fu bisogno: un tonfo leggero alle sue spalle la costrinse a voltarsi di scatto. Un sibilo acuto a pochissimi centimetri dal suo viso, la Glock che le volò via di mano, lontana dalla sua presa, sparendo chissà dove nella boscaglia fangosa.

 

La punta della freccia scintillò nella notte.

 

 

 

Sintra, Portogallo
Ore 00:17

 

 

Il suo primo istinto fu quello di mettersi a ridere: che lei lo volesse o meno il famigerato vendicatore mascherato dei boschi di Sintra era arrivato a somministrarle la sua giustizia.

Con arco e frecce.

Arco e frecce, si ripeté, come per assicurarsi di non star vaneggiando tra i fumi della debolezza ormai imperante. Eppure era proprio così, si trovava faccia a faccia con Robin Hood e, cosa peggiore, era persino riuscito a disarmarla in un modo che, per altro, non le era ancora chiaro. Rifletté a fatica: quelle che aveva visto piantate nei cadaveri erano frecce. Le toccò ammettere che la sua “buona stella” aveva un aspetto tutt'altro che scontato.

Le ombre proiettate dagli alberi e il buio della notte celavano alla vista la maggior parte della figura che adesso le stava davanti, tenendola sotto tiro. Eppure, c'era qualcosa nei muscoli delle braccia, nelle vene che riusciva ad intravedere alla luce dei pochi raggi di luna che filtravano nel soffitto di foglie del bosco, che le risultò stranamente familiare. Come se l'avesse già visto prima.

Un'altra consapevolezza: il localizzatore sul tettuccio non apparteneva agli uomini di Billmann (Allora come hanno fatto a trovarmi tanto rapidamente?, altro quesito cui si sarebbe premurata di rispondere appena si fosse tirata fuori dai guai), ma allo sconosciuto.

Ripercorse, mentalmente e al contrario, la strada che aveva fatto da Sintra a Lisbona, al punto in cui lo sfregiato e i suoi amici l'avevano trovata, a quella sensazione di essere osservata dall'alto che aveva tanto stupidamente liquidato. Chi era e come faceva a sapere che si trovava a Lisbona? Fece un altro passo indietro: alla sera della festa di Sant'Antonio, al caos della Praça do Comercio, al turista americano dalle mani ruvide con cui aveva scambiato poche, distratte parole...

 

il gelo le scese nello stomaco. Un lampo improvviso li illuminò entrambi, confermando i suoi sospetti. Se fosse stata più in forma, più vigile, più attenta, si sarebbe maledetta fino alla nausea. Ingannata come una stupida principiante, pensò con rabbia.

 

Fammi capire, volevi avere l'onore?”, si ritrovò a chiedergli, alludendo agli uomini che l'aveva appena aiutata ad uccidere, in un inglese privo del benché minimo accento.

La mossa che fece successivamente, l'avrebbe ammesso in seguito, fu disperata e un tantino patetica: si abbassò sulle gambe e lo caricò a testa bassa – certa che non avrebbe potuto scoccare la freccia se gli fosse stata troppo vicina – stringendogli le braccia attorno ai fianchi prima di gettarlo a terra. Gli rovinò addosso, schizzando entrambi d'acqua e fango. Afferrò la struttura dell'arco e la spinse verso l'alto, cercando di inchiodargli arma e mani al terreno, operazione praticamente impossibile nelle condizioni in cui si trovava. Usò tutta la – poca – forza che le rimaneva, cercando al tempo stesso di piantargli un ginocchio tra lo stomaco o in mezzo alle gambe, ma Francis la ribaltò senza troppi problemi.

Si ritrovò immobilizzata a terra, il fiato corto, la vista sempre meno chiara, il freddo che sentiva nelle ossa – forse per la pioggia, forse per tutto il sangue che aveva perso - sempre più insistente, il doloroso pulsare della ferita al fianco. Non avrebbe resistito per molto.

Potevi almeno darmi il tempo di parlare!”, lo sentì ringhiare con tono indispettito, il che le provocò l'ennesimo accesso di rabbia insensata, quest'ultima esponenzialmente aggravata quando le sembrò di riconoscere il simbolo dello SHIELD impresso nella sua maglia.

Иди к чёрту!*” Non sarebbe morta per mano di un dannato arciere!

Le teneva ferme entrambe le gambe sotto una delle proprie, ma – con uno sforzo immane – Natalia riuscì a liberarne una e a tirargli un goffo calcio in un fianco. Non contenta, affondò i denti in una delle mani guantate dell'uomo, distraendolo abbastanza a lungo da riuscire a rotolare di lato e rimettersi in piedi, sporca di terra e sangue.

Barcollava pericolosamente, ma mantenne – praticamente per miracolo - una parvenza di equilibrio. Scosse la testa come per riacquistare lucidità, ottenendo solo di sentirsi pure peggio: sembrava che le tempie fossero sul punto di esplodere. Era sicura che Francis stesse ancora parlando, ma quello che aveva da dire non le interessava. Non aveva più niente da perdere: si preparò ad attaccarlo di nuovo, o almeno era quello che credeva di star facendo.

Non ebbe il tempo di muovere un passo: l'ennesimo sibilo a fendere l'aria, un clic ad interrompere, per un misero istante, il rumore della pioggia che continuava a cadere incessante, un bruciore insistente al collo e il mondo che ruotava come impazzito attorno a lei, le sue linee sempre più appannate e confuse...

 

La stanchezza prese finalmente il sopravvento, mentre freddo e buio inghiottivano il suo ultimo, incredulo pensiero: Uccisa da un arciere... come una stupida principiante...

 

 

 

~~~~~~~~~

 

 

Note:

Va' all'inferno!” in russo.

 

 

~~~~~~~~~

 

 

 

A/N: qualche anticipazione dal prossimo capitolo, per stuzzicare la curiosità di chi – magari – si è fermato a leggere la nostra PAMPINA ù_ù

 

 

**NEL PROSSIMO CAPITOLO**

 

Il viso di Natalia, ancora estremamente pallido, inoffensivo, sembrava meno sofferente di qualche ora prima.

 

**

 

Magari era morta davvero e quello era il suo personalissimo inferno, dominato da caos e leggi prive di una qualsivoglia logica.

 

**

 

Tutto quello che volevo era salire sul primo aereo per gli Stati Uniti, questa mattina”, chiarì “E invece sono qui, a sentirmi ripetere la stessa domanda. Francamente? Non lo so cosa voglio, o che cosa mi aspettassi. Forse di chiarirmi le idee sul perché mi sia esposto per salvarti il culo...”

Nessuno ti ha obbligato a tenermi in vita”, cercò di parlargli sopra, ma la ignorò.

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Il volto umano non mente mai:

è l'unica cartina che segna tutti i territori in cui abbiamo vissuto.

(Luis Sepùlveda - “Diario di un killer sentimentale”)

 

 

Al largo del porto di Cascais, Portogallo
Ore 7:04

 

Finalmente l’oceano.

Il vento fresco di giugno che raccoglieva gli aromi e le voci lontane di un porto di mare.

Le assi lucide di una piccola imbarcazione schiaffeggiate da onde impertinenti.

L’odore del caffè che riempiva l’aria.

L’atmosfera che si sarebbe detta di vacanza.

 

Ci voleva decisamente più panna.

“E’ tutto sotto controllo, Coulson”, se avesse continuato con quel tono di voce, non sarebbe risultato più credibile di un cantante lirico con la raucedine. “Ho solo bisogno di un po’ di tempo in più. Di' a Fury che se vuole le cose fatte bene non deve mettermi fretta. No… aspetta, non dirglielo.”

Si stava innervosendo e ci bevve sopra un po’ di caffè amaro.

La comunicazione venne interrotta e lanciò il telefono su un ammasso di asciugamani macchiati di sangue.

Si passò una mano fra i capelli ancora umidi dopo la doccia e abbandonò la tazza sul ponte della piccola imbarcazione che aveva preso in prestito dalle infinite risorse dello SHIELD.

Erano passate ore, ma ancora non era affatto sicuro di aver preso la decisione giusta.

Il mal di stomaco non si era affatto placato. I sospetti di Coulson gli avevano dato lo scacco matto. E facevano male, perché questa volta sapeva perfettamente di aver in qualche modo tradito la sua fiducia.

L’uomo però, ancora, non doveva aver ritenuto necessario nessun intervento, o a quel punto si sarebbe trovato in compagnia. Rinforzi non richiesti per una missione che avrebbe dovuto concludersi in uno, massimo due giorni.

In quel momento, la tavola piatta dell’oceano attorno a sé, gli sembrò l’unica compagnia necessaria. Silenziosa e priva di coscienza.

 

Scese i pochi gradini che portavano alla cambusa, vagamente accecato per via della mancanza di luce, in contrasto con l’abbagliante sole all’esterno.

 

Dormiva ancora.

Il viso di Natalia, ancora estremamente pallido, inoffensivo, sembrava meno sofferente di qualche ora prima.

Aveva dovuto prestarle il primo, essenziale, soccorso. Un paio di ferite niente male, placate dall’intervento di qualche punto.

Il resto, non erano altro che contusioni che le avrebbero lasciato dolori diffusi ma nessun danno a lungo termine.

Si chiese se non avesse esagerato con la quantità di sedativo che le aveva somministrato al momento della cattura.

Dopotutto, pensò, non era stato tarato per venir destinato a lei.

In realtà avrebbe dovuto conservare quel sonnifero per qualcun altro, qualcuno che non avrebbe dovuto uccidere come invece gli avevano chiesto di fare al cospetto della Vedova Nera.

Semplicemente non aveva potuto farlo.

A torto o a ragione ancora doveva stabilirlo. Avrebbe potuto stilare una lista di pro e contro e sicuramente le motivazioni per cui avrebbe dovuto eliminarla una volta per tutte, avrebbero superato in lunghezza i motivi per cui, invece, non avrebbe dovuto farlo. Eppure, seppur consapevole, aveva optato per assecondare la lista più corta.

 

Venne sorpreso a spiarla, quando lei finalmente aprì gli occhi.

Confusa e stordita, era comunque sicuro che non le ci sarebbe voluto molto per capire che non era libera di muoversi agilmente.

 

“Ho dovuto ammanettarti”, la informò prima che compisse qualche movimento imprudente. “Oh, non mi guardare in quel modo, non avresti potuto fare molto comunque, nelle condizioni in cui ti trovi.”

Le sue parole andarono a scontrarsi con un muro di stizzito silenzio.

“Hai perso un bel po’ di sangue, la scorsa notte. E a meno che tu non abbia le capacità di ripresa di uno scarafaggio, ti consiglierei di goderti la comodità della tua branda. Che per la cronaca era la mia.”

Si complimentò con se stesso per lo sfoggio, non richiesto, di nobiltà d'animo.

La donna non parve apprezzarlo. Vatti a fidare della cavalleria.

Gli sfuggì un sospiro stanco e intrecciò le braccia al petto, osservandola. Si rese conto, dal suo sguardo improvvisamente allarmato, che doveva aver capito di aver perso tutto quello che aveva con sé.

Clint si infilò una mano in tasca ed estrasse una piccola busta di plastica.

“Cercavi questa?”

Finalmente la donna parve avere la prima reazione spontanea, scalciando a fatica il lenzuolo che la copriva.

Non le rivelò che gli era risultato impossibile, con i pochi mezzi di cui disponeva di decriptare le informazioni sulla chiavetta.

“Materiale interessante”, ovviamente cercò di farle credere il contrario “Tanto da scatenarti dietro una quantità spropositata di ninja da quattro soldi.”

Il suo silenzio, straordinariamente, non lo mise a disagio.

“Un po’ come la tizia, di quel film”, tergiversò “Che massacra un gruppo di giapponesi con una katana e una tutina gialla… Kill Bill!”

Il suo sorriso si fece strano: “O forse era Billmann?”

La chiavetta era stata un osso duro, ma il cellulare e altre piccole tecnologie che la donna teneva nascoste addosso gli erano stati utili per tracciare una mappa approssimativa delle sue informazioni.

Il piano generale, purtroppo, non gli era ancora del tutto chiaro.

“Chi hai fatto incazzare, stavolta… Natalia?”

Gli occhi di lei si fecero grandi, forse ancora afflitti dagli effetti del sedativo, ma gli piacque pensare che forse, un pochino, era riuscito a impressionarla.

Poi, le sue labbra si aprirono e ne uscì una voce che aveva a malapena conservato quel tono caldo che le aveva sentito il giorno della festa di Sant’Antonio.

“Che vuoi da me?”

Clint si sorprese di non sapere che cosa risponderle.

Rimase in silenzio.

Non le mentì.

“Capire.”

 

 

 

Collocazione sconosciuta
Ora non meglio identificata

 

Non si era fatta molte illusioni sulla morte, ma un paio di cose se le era aspettate con certezza: avrebbe smesso di sentire, pensare, esistere... e allora perché le sembrava di star galleggiando nel vuoto? Il ritmo lento e cadenzato di tamburi in lontananza a riempirle le orecchie, una leggera pressione alla base dello stomaco, come in attesa di un risveglio improvviso dei sensi.

Macchie di luce coloravano a tratti il buio dei suoi occhi. E poi... ogni centimetro di lei sembrava impazzire nel tentativo di avvisarla che qualcuno era lì con lei, che la stava osservando.

No, non è possibile.

Il sordo pulsare che le sembrava di udire, si trasformò nel martellio lancinante delle sue tempie. Il dolore e l'indolenzimento, la morbida consistenza di un materasso sotto di lei, la stretta rigida e fredda attorno ai polsi arrivarono a palesarsi subito dopo, imponendo al suo esausto cervello di prenderne atto. Non le mancava che di aprire gli occhi e lo fece: la tenue luce di una stanza che non le risultò familiare in alcun modo, la ferì, peggiorando drasticamente il suo mal di testa.

 

Mise a fuoco la figura confusa che la osservava da qualche passo di distanza. Stavolta non fece alcuna fatica a riconoscerlo: Francis. O qualunque fosse il suo vero nome. La consapevolezza di essere stata ingannata come una spia alle prime armi le scese nello stomaco come un boccone troppo amaro da digerire.

Le tornarono in mente gli avvenimenti della sera precedente (o era trascorso più tempo?), il bosco, gli uomini di Billmann, la freccia che l'aveva colpita e – ne era convinta – anche uccisa.

Evidentemente aveva fatto i male i suoi calcoli: doveva averle somministrato una qualche porcheria chimica per metterla KO e portarla... da qualche parte. Anche se sembrava che le avessero svuotato il cranio per riempirlo di ovatta, Natalia intuì il movimento del rollio delle onde, impercettibile, ma inconfondibile. Erano su una barca. Non credeva che sarebbe stato possibile, ma il suo umore riuscì a peggiorare.

 

Contro ogni buonsenso, cercò di muoversi: scoprì di avere le mani immobilizzate sopra la testa nel momento esatto in cui l'uomo la informava di averla dovuta ammanettare. Un rumore metallico accompagnò il suo gesto e con le dita le parve di sfiorare una ringhiera fredda. Fantastico. Si inumidì le labbra con la punta della lingua, la bocca fastidiosamente impastata dal sonno e dal sedativo. Cercò di capire in che razza di condizioni si trovasse: si accorse che la ferita al polpaccio era fasciata di fresco. Come se i pensieri fossero stati concatenati, anche il fianco si fece sentire, ricordandole della coltellata infertale dallo sfregiato. Il fastidioso pungere dei punti di sutura, le tolse ogni dubbio: Francis, o chi per lui, si era preso cura delle sue ferite.

Un dubbio, gelido e terribile andava formandosi nel retro della sua mente. Tentò in tutti modi di elencare tutto ciò che sentiva man mano che riacquistava sensibilità in tutto il corpo. L'aveva avuta a disposizione, priva di sensi e di conoscenza per chissà quanto tempo... tentò di scacciare l'idea.

 

Per un istante fu quasi sul punto di chiederglielo e forse l'avrebbe fatto, se l'uomo non le avesse mostrato una bustina di plastica, la chiavetta USB sigillata all'interno. Grandioso, un altro problema da aggiungere ad una lista che andava allungandosi in maniera impressionante.

No, non stavo cercando un bel niente. Stronzo.

Le parole di lui, però, attirarono – suo malgrado – la sua attenzione. Materiale interessante? Si era assicurata di rimuovere metà dei file dalla chiavetta, di metterli al sicuro in un luogo che solo lei conosceva e di criptare i restanti: una specie di assicurazione nel caso in cui Billmann avesse deciso di tirarle qualche tiro mancino. Doveva avere abbastanza informazioni per convincerlo di aver portato a termine la missione, ma anche una rete di sicurezza nel caso in cui avesse deciso di non ottemperare ai termini del loro accordo. Si era lasciata abbagliare dal compenso stratosferico, sottovalutando l'impazienza e l'incompetenza di un uomo come Billmann: un errore che non avrebbe commesso una seconda volta.

 

Tentò di alzare gli occhi al soffitto alla battutaccia di Francis, procurandosi – se fosse stato possibile – un mal di testa nel mal di testa che già aveva. Chi aveva fatto incazzare? In questo caso in particolare, Billmann che le aveva mandato dietro uno squadrone di quindici uomini per strapparle quella stupida chiavetta; e lo SHIELD per averli svergognati per l'ennesima volta, tanto da spingerli ad inviarle contro un arciere ad ucciderla. Il punto era uno: non l'aveva fatto. Si è presentato con un arco. Magari lo SHIELD sta tentando di prendermi per il culo. Non ne era certa, ma sicuramente, se Francis era davvero un assassino, doveva essere anche piuttosto scadente nel suo lavoro. Che l'avesse tenuta in vita per quegli stupidi piani?

 

Le tempie continuavano a pulsare dolorosamente, il proprio corpo le dava segno di esserci, ma non di poterle essere di alcun aiuto se avesse deciso di ribellarsi. Era ferma, bloccata su una stupida branda, alla mercé di un uomo che andava in giro con un arco e che avrebbe dovuto ucciderla, ma che non l'aveva fatto. Magari era morta davvero e quello era il suo personalissimo inferno, dominato da caos e leggi prive di una qualsivoglia logica.

 

“Che vuoi da me?” andò dritta al punto – non aveva né la voglia, né le energie per permettersi il lusso di perdere tempo. Fu costretta ad inorridire al suono roco e incerto della propria voce. Lesse la confusione negli occhi di lui: l'aveva portata fin lì senza sapere che cosa volesse da lei?

 

“Capire.”

 

 

Al largo del porto di Cascais, Portogallo
Ore 7:28

 

“Dovrai essere… un po’ più preciso di così”.

Clint si prese il suo tempo, un po’ per valutare la situazione, un po’ per comprendere chi realmente si trovasse di fronte. Nessun fascicolo, nessuna fasulla conversazione lo avrebbe aiutato a comprendere l’essenza di quella donna.

Il suo sguardo ostile, il suo tono, altrettanto refrattario, potevano dire tutto e niente.

“Sicura? Credevo ti bastasse uno sguardo per capire cosa passa nel cervello delle persone”, non era certo di volerla provocare, ma di levarle quell’espressione imperturbabile dalla faccia sì. “Una donna sola. Senza la copertura di alcuna organizzazione, si va a infilare in un casino di livello internazionale... per quanto? Una valigetta piena di soldi? Pensavo che una ex spia sovietica, che ha imparato a cavarsela da sola, potesse sopravvivere facendo scelte un po' meno azzardate.”

Il silenzio di lei gli suggerì che si era offesa. O così almeno intuì.

“Andrai a parare da qualche parte o ci tenevi solo a farmi la predica?”

“Hai fretta, per caso?”

Non sarebbe stata una corsa semplice. E lui non era poi così abile con le parole.

Gli riusciva meglio essere diretto. Decise di non smentirsi.

“Ti ho vista combattere, sei brava. Gente come te farebbe comodo allo SHIELD.”

Stava improvvisando. Non era affatto sicuro che lo SHIELD avrebbe appoggiato la sua audace proposta.

“Non m’importa niente di ciò che farebbe comodo… allo SHIELD”, da come pronunciò quel nome, comprese che ne provava ribrezzo. E che molto probabilmente pensava che lui fosse completamente andato di cervello “Anche se sì, immagino che un po’ di incompetenza in meno non vi nuocerebbe.”

“Ouch”, colpito. “Immagino sia più soddisfacente sfamare gente come il tuo amico Billmann. Nella ricompensa spero abbia almeno incluso il conto per il tuo funerale.”

Seppe di averla fatta incazzare. Felice di aver fatto centro. Magari doveva continuare la parte del presuntuoso provocatore.

“Soddisfacente? No. Penso a sfamare me stessa e nessun altro: ho smesso di prendere ordini dai piani alti. Un americano che è convinto di uccidere per conto del bene supremo...”, lanciò quella che sembrava una risata sarcastica. “Che novità.”

“Tu però sei ancora viva”, non sorrideva più. “Nessuno ha parlato di bene supremo. Hai interferito in un’operazione di sicurezza mondiale. Le conosci almeno le conseguenze di quello che porti dentro quella tua chiavetta USB? Delle persone che stai mettendo in pericolo?”

“Supponi che m’importi. Ti sbagli”, di nuovo quel tono glaciale. “Tutti uccidono per proteggere i propri interessi. Credi seriamente che lo SHIELD non abbia mai messo in pericolo nessuno? Le tue mani sono tanto sporche quanto le mie. Non far finta del contrario.”

“Non lo sto facendo”, su quel punto non aveva decisamente intenzione di contraddirla. Mani sporche di sangue? Era una vita che ci stava combattendo e quel colore non se ne sarebbe mai andato. Evitare che però si macchiasse anche di quel crimine? Poteva farlo. Ci stava provando.

“Ma se sei ancora viva è perché l’ho deciso io”, voleva mettere in chiaro la sua posizione, farle capire che non era stata una casualità che l’aveva portata lì. Ma il frutto di una decisione istintiva, sconsiderata forse, ma pur sempre una decisione, della quale probabilmente si sarebbe portato appresso a lungo le conseguenze, qualsiasi esse fossero.

Voleva che capisse che questa volta aveva rischiato il colpo definitivo, sperando che fosse ancora abbastanza attaccata alla vita da considerare delle proposte, da rivalutarle.

 

“Quindi, di nuovo, cosa vuoi da me?”, lo sguardo di Natalia mutò in qualcosa di terribile, qualcosa a cui non seppe dare un nome immediato. “A meno che tu non ti sia già preso quello che volevi.”

Gli ci volle un po’ per intuire quello a cui la donna stava alludendo, ma quando lo fece, sentì qualcosa di profondo e sgradevole in fondo allo stomaco. Lo avevano accusato di tante cose, ma mai di aver approfittato di qualcuno in difficoltà. Men che meno di qualcuno di cui aveva stupidamente deciso di prendersi cura.

Non si preoccupò di nascondere l’offesa.

“Tutto quello che volevo era salire sul primo aereo per gli Stati Uniti, questa mattina”, chiarì “E invece sono qui, a sentirmi ripetere la stessa domanda. Francamente? Non lo so cosa voglio, o che cosa mi aspettassi. Forse di chiarirmi le idee sul perché mi sia esposto per salvarti il culo...”

“Nessuno ti ha obbligato a tenermi in vita”, cercò di parlargli sopra, ma la ignorò.

 

“Forse solo perché mi facevi pena. Forse solo perché è così che ho cominciato anche io. E credimi, la tua posizione in confronto a quella da cui hanno ripescato me, è di gran lunga un passo avanti.

Hai la tua indipendenza, questo non lo nego, delle capacità che farebbero invidia all’intero corpo dei Marines. Ma oltre a questo?

Io avevo delle discrete capacità militari, una buona mira e un gran bel casino in testa.

Lo SHIELD mi ha restituito la dignità. Una possibilità di redenzione. Al servizio di superiori? Certo. Nella vita ci sarà sempre qualcuno a darti ordini. Perfino tu stai agendo per conto terzi. La differenza sta nell’intuire quale fra le scelte sia quella più sensata. Meno dannosa.

La mia tendenza a non eseguire ciecamente gli ordini è rimasta comunque. Altrimenti non starei blaterando di queste cose con te. Quello che rende diversa la mia situazione è che nessuno mi verrà mai a cercare per tentare di fregarmi se io non cercherò di fregare loro. Rispetto. Reciproco.”

Non fu certo che il suo discorso avesse fatto breccia nel cuore della Vedova Nera, continuava a non trovarsi a suo agio nei panni del trascinatore, e ancora una volta, doveva aver sbagliato tutte le parole, l’istinto folle che gli provocava le cadute più dolorose. Ma la sua espressione gelida cominciava a innervosirlo. Non gli rendeva facili le cose.

Eppure l’aveva vista. La paura.

Forse, dopotutto, fu solo il riconoscersi in quello sguardo ad aver frenato la sua mano. A decidere di risparmiare lo specchio di se stesso.

Si chiese, nuovamente, perché si ostinasse a lanciarsi sistematicamente in imprese impossibili.

 

 

 

Collocazione sconosciuta
Ora non meglio identificata

 

Si sentiva terribilmente stupida e vulnerabile ad avere quell'inutile conversazione nelle condizioni in cui si trovava: esausta, stordita, ammanettata ad un letto. Certo, si era trovata in situazioni ben peggiori di quella, più volte, ma mai nessuno aveva cercato di... cosa? Convincerla a fare la scelta giusta? Per chi? Per lei – lo dubitava fortemente -, per se stesso – molto probabile -, per gli interessi dello SHIELD?

 

Sentì i muscoli tendersi in modo quasi doloroso alla menzione di quella parola. Si concentrò ancora più intensamente su una delle venature di legno lucido che riusciva a distinguere sulla superficie di un armadietto poco distante dalla branda su cui si trovava. Pena. Chi cazzo si credeva di essere? Pensava sinceramente che raccontarle la sua lacrimevole storia, sapere che l'aveva salvata perché gli aveva fatto pena, l'avrebbe miracolosamente riportata sulla retta via? Il concetto le appariva ridicolo. Retta via, pensò con disgusto, non esiste proprio niente del genere. Più ci pensava e più la rabbia le si agitava nello stomaco.

 

Tornò a guardarlo solo quando ebbe concluso. Un ex militare con un'ottima mira, caduto drammaticamente in disgrazia, per poi essere salvato dal provvidenziale intervento dello SHIELD, un'organizzazione che si occupava di uccidere e mentire a seconda delle proprie esigenze. Commovente.

 

“Mi insulti supponendo di sapere tutto di me per aver letto uno stupido file”, la voce le uscì gelida e appena udibile. “Mi insulti, di nuovo, dicendo di avermi salvata perché ti ho fatto pena...”

Gli rivolse un'occhiata che avrebbe avuto dell'incredulo se non fosse stata ancora tanto debilitata dal sedativo. Se stava cercando di suscitarle gratitudine, comprensione, rispetto, allora era lontano anni luce dal suo obbiettivo. Adesso era arrabbiata, offesa, quasi indignata dal modo in cui sembrava aver liquidato il suo passato. Pretendeva di conoscerla, ma non sapeva un bel niente di lei. Niente.

 

“Dubito che qualcuno sappia realmente qualcosa sul tuo conto” ne ricevette non-richiesta conferma. “E la pena non è un sentimento così spregevole. Ho fatto pena a parecchia gente... e il risultato è che sono ancora vivo e posso fare le mie scelte” replicò, provocandole un moto di disgusto. Chi diavolo andava in giro a vantarsi di aver fatto pena a “parecchia gente”? Non riusciva capire se era molto stupido, o solo molto più aperto di mente di quanto lei potesse solo sognarsi.

“La pena è un sentimento che preferisco non suscitare in nessuno. Non sono una vittima”, ci tenne a sottolineare, incapace di comprendere che razza di assurdo ragionamento stesse seguendo.

“Quanto ti pagano?”, si ritrovò a chiedergli, ansiosa di portare la conversazione su un piano che le era decisamente più congeniale.

“La paga non è niente male e ho un sacco di gingilli carini da sfruttare”.

Gingilli... si fosse trovata davanti un qualsiasi altro uomo, avrebbe immediatamente pensato a macchine, donne. Ma con lui? La prima cosa che le venne in mente fu l'arco che aveva sfoggiato solo la sera prima. Esistevano arcieri fra i militari?

 

Si doveva essere persa in quell'inutile divagazione, perché un attimo dopo Francis aveva ripreso a parlare con tono pratico.

“Senti... la tua posizione è fortemente compromessa”, riattaccò per l'ennesima volta (pensava seriamente che non fosse già dolorosamente consapevole di quanto terribile fosse la sua posizione?). “Non sono ancora del tutto sicuro di sapere perché ho deciso di venir meno ai miei doveri”, proseguì. “Ma sono convinto che, se riuscissi miracolosamente a sfuggirmi, ti metterebbero alle calcagna un fila di assassini lunga un chilometro per rimediare al mio errore” (allora la sua missione consisteva solo nell'ucciderla? Che ne era dei piani di San Paolo?). “Le alternative non sono granché a tuo favore” (avrebbe potuto fare constatazioni più scontate? Dev'essere una dote tipica degli arcieri, pensò Natalia). “Potresti collaborare o aspettare di far compagnia ai pesci, prima che io possa trovare una spiegazione valida al fatto che sei ancora viva.”

 

Lo SHIELD o la compagnia dei pesci? In quel momento, propendeva senza ombra di dubbio verso la seconda opzione. Se aveva una vera certezza nella vita, era che non aveva intenzione di ripetere l'esperienza della Red Room. Mai. Sotto nessuna circostanza. Per nessun, dannatissimo motivo.

Chi le assicurava che lo SHIELD non l'avrebbe usata, cancellata e riprogrammata a loro uso e consumo? Chi le assicurava che non avrebbe perso ogni potere decisionale sulla propria persona? Non poteva permettersi di infilarsi nuovamente in una situazione del genere. E sì che gli Stati Uniti d'America erano famosi per le libertà che andavano sbandierando con orgoglio, ma Natalia sapeva che nel campo dei servizi segreti, ogni regola, ogni morale, ogni etica, andava a farsi benedire in nome di un obbiettivo più alto. Obbiettivo che raramente coincideva col benessere della popolazione mondiale, ben più spesso con gli interessi dei più ricchi, dei paesi occidentali, dei guerrafondai...

 

“Collaborare... arrendermi, lasciare che lo SHIELD faccia di me quello che più gli aggrada, che mi sezionino il cervello, che mi riplasmino a loro immagine e somiglianza... sperare di far pena anche a loro? E' questo che intendi? Perché se così fosse... preferirei di gran lunga essere morta”.

Voleva saperne di più – no, peggio: aveva bisogno di saperne di più. Lanciò l'amo e attese... invano.

“Lo SHIELD non seleziona persone che fanno pena, seleziona personale valido”, le rispose, ma non era quello che le interessava. “Ed io penso che il mondo perderebbe un personaggio interessante, se venissi liquidata a causa di scelte affrettate”, riprese, procurandole l'ennesimo attacco di nausea. “Di cadaveri è pieno il mondo. Le opportunità bussano raramente due volte alla stessa porta”.

In un'altra vita, forse, si sarebbe accorta che le sue intenzioni erano, in linea di massima, buone, anche se non presentate nel migliore dei modi, ma in quella – l'unica che avesse conosciuto – il sospetto la faceva da padrone, impedendole di prendere anche solo lontanamente in considerazione quella possibilità. Le appariva borioso, sfrontato, pieno di sé... voleva risparmiarla? Non si era fatto troppi problemi ad uccidere gli uomini di Billmann, ma adesso veniva a farle la ramanzina sul come non volesse eliminare altra gente? Era un assassino di professione e si faceva scrupoli ad ammazzare la gente? Se la cosa lo infastidiva tanto, non avrebbe potuto cambiare lavoro? Impiegato, tassista, giardiniere... si ricordò improvvisamente del loro primo incontro a Lisbona, dell'impressione che le aveva dato, provando un'infinita vergogna.

 

Scacciò prontamente il pensiero e tornò all'attacco.

“Supponiamo pure... ipoteticamente, che sia interessata. Cosa suggeriresti di fare?”, formulò molto attentamente, ma il modo in cui le spalle di lui si sollevarono – seppur impercettibilmente - la fecero pentire amaramente di avergli dato quell'impalpabile soddisfazione.

“Recuperare i piani che hai rubato all'aeroporto di San Paolo?”, ipotizzò l’uomo. “Scommetto che la tua posizione potrebbe migliorare sensibilmente...”

Lo SHIELD l'avrebbe accolta a braccia aperte se avesse consegnato loro il bottino della missione a San Paolo? E tutto quello che era venuto prima? Sarebbe stato tutto dimenticato per opera di quell'unica manifestazione di buone intenzioni? A chi credeva di darla a bere?

 

Lo vide scostarsi dalla parete alla quale era appoggiato, inforcare di nuovo le scalette che conducevano a quello che Natalia supponeva fosse il ponte dell'imbarcazione.

“Sono sicuro che Billmann questa mossa non se l'aspetta”, alluse lui, scomparendo dal suo campo visivo. Di nuovo, constatò Natalia, supponeva che la sua lealtà andasse all'uomo che l'aveva ingaggiata; di nuovo, si sbagliava. In quel momento, Billmann era l'ultimo dei suoi pensieri.

 

 

Collocazione sconosciuta
Ora non meglio identificata

 

Armeggiò con la coda di cavallo, ormai quasi completamente disfatta, finché non riuscì ad individuare la consistenza sottile e rigida della forcina che aveva avuto cura di nascondere tra i capelli. La sfilò dalle ciocche, adoperandosi immediatamente per liberarsi dalle manette con cui l'uomo l'aveva immobilizzata alla – aveva tenuto a specificarlo – sua branda.

Quella semplice operazione la riportò in un clima che le era, dopotutto, familiare. Ci mise meno di un minuto a liberare i polsi e a rimettersi seduta. Il suo corpo non fu troppo contento di tutti quegli spostamenti: le sembrava che ogni singolo muscolo, nervo, giuntura, si fosse messo ad urlare in protesta. Non era nelle condizioni migliori per farlo, ma si sforzò comunque di relegare tutto quel fastidio in un remoto angolo della sua mente.

 

Mentre raccoglieva le forze per alzarsi, prese sistematicamente in esame tutte le opzioni a sua disposizione.

 

Uno; mettere fuori uso il simpatico Robin Hood dello SHIELD era fuori discussione: non solo sarebbe stato praticamente impossibile avere la meglio senza un'arma adeguata – nei paraggi, dovette constatarlo, non c'era niente che facesse al caso suo -, ma non era neanche sicura che sarebbe riuscita ad ucciderlo a sangue freddo. Certo, era incredibilmente fastidioso e aveva l'aria di pensare in termini piuttosto semplicistici, ma l'aveva pur sempre risparmiata (Per i motivi sbagliati, ci tenne a ricordarsi). Magari avrebbe potuto buttarlo in mare con un salvagente e una bottiglia d'acqua dolce... i suoi amici dello SHIELD sarebbero sicuramente accorsi in suo soccorso. Ma gettarlo fuoribordo col semplice uso della forza fisica era ancora più improbabile che piantargli una pallottola in mezzo agli occhi.

 

Diede le spalle alla scaletta che portava all'aperto, deviando invece verso quello che supponeva essere il bagno. Aveva ragione.

 

Due; accettare la sua proposta, condurlo fino al luogo in cui aveva nascosto i piani di San Paolo – la sua assicurazione sulla vita – metterlo KO, riprendersi i piani, fuggire e andare a nascondersi per cinque anni in un eremo del Tibet in attesa che Billmann e lo SHIELD si dimenticassero di lei. Che cosa avrebbe fatto per tutto quel tempo? La possibilità di vivere una vita normale le suonava incredibilmente idiota. La verità era che fare la spia era ciò che le riusciva meglio, la faceva sentire utile, viva. Avrebbe sinceramente preferito morire che sparire dalla circolazione tanto a lungo per dedicarsi al punto croce, o all'ikebana, o alla meditazione.

 

Si richiuse la porta del piccolo bagno alle spalle, evitando accuratamente di guardare il proprio riflesso nello specchio sopra il lavandino, per puntare direttamente alla doccia. Fece scorrere l'acqua e cominciò a spogliarsi – operazione che richiese più tempo e concentrazione di quanto avesse immaginato.

 

Tre; accettare la proposta di Francis, condurlo al luogo in cui aveva nascosto i piani di San Paolo, consegnarglieli sul serio. A quel punto le possibilità erano altrettante: prima, quello era un enorme e complicatissimo inganno ordito per convincerla a collaborare, per poi ucciderla non appena avessero ottenuto ciò di cui avevano realmente bisogno; seconda, Francis era sincero, lo SHIELD sarebbe arrivato a recuperare sia lei che i suoi piani, si sarebbe accorta che non erano poi così male, avrebbe potuto rifarsi una vita; terza, Francis era sincero, ma lo SHIELD non era dello stesso parere e, ottenuti i piani, l'avrebbero uccisa o rapita per sperimentare su di lei.

 

Inspirò a fondo, entrando nella cabina doccia con passo incerto. Fu costretta ad appoggiarsi alla parete per non cadere quando la sua pelle entrò in contatto col getto d'acqua. Lo shock iniziale si dissipò in fretta, sostituito da una sempre meno vaga sensazione di sollievo.

 

Per quanto detestasse ammetterlo, l'opzione numero tre le sembrava la più fattibile. Certo, si sarebbe dovuta affidare a variabili totalmente fuori dal suo controllo – le vere intenzioni di Francis, le vere intenzioni dello SHIELD – ma, se non altro, avrebbe avuto un minuscolo margine di autonomia per riaggiustare l'operazione in corso d'opera se ce ne fosse stato bisogno. Senza contare che guadagnare tempo per riacquistare una forma fisica accettabile era nel suo interesse: nelle condizioni attuali non avrebbe potuto fare granché.

 

Liberò i capelli dalla stretta dell'elastico, lasciandolo cadere a terra insieme al sangue e allo sporco che vorticavano attorno ai suoi piedi prima di sparire nello scarico. Restò immobile, immersa nei suoi pensieri, per quella che le parve un'eternità. Aspettò di sentirsi pulita e di aver raggiunto una decisione prima di spegnere l'acqua e provare – tentativamente – ad uscirne indenne. Individuò una pila di asciugamani dall'aria nuova di zecca, recuperandone uno per avvolgerselo attorno al corpo.

 

Uscì dal bagno e poi dalla cambusa, coprendosi il viso con un braccio per schermarsi dalla luce accecante del ponte. Si riempì i polmoni dell'aria fresca e salata dell'oceano e rabbrividì quando il vento le colpì le spalle ancora bagnate. Mattina presto, constatò prima di individuare Francis poco distante. Il suo incedere decisamente poco stabile attirò la sua attenzione, costringendolo a voltarsi verso di lei per fronteggiarla.

 

“A meno che questa bagnarola non riesca a volare, ti conviene trovare un mezzo di trasporto alternativo. Ce ne andiamo a Varsavia.”

 

 

 

~~~~~~~~~

 

 

**NEL PROSSIMO CAPITOLO**

 

I giochi erano finiti.

Lo SHIELD sarebbe stato sulle sue tracce in poco tempo. Non era così ingenuo da pensare che le sue mosse non avrebbero corrisposto ad altrettante conseguenze.

 

**

 

Sperò che, a lungo andare, il suo religioso silenzio lo spingesse ad imitarla, ma quello non doveva proprio essere il suo giorno fortunato. Alzò gli occhi al soffitto della cabina di pilotaggio, chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi una rogna simile.

 

**

 

Non avremo molto tempo una volta atterrati”, il tono era cambiato, lo scherzo rimandato.

Paura di non essere abbastanza veloce?”, finalmente una risposta, dopo tutto quel silenzio.

E tu lo sei?”

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Insanity laughs under pressure we're cracking

Can't we give ourselves one more chance

(Under Pressure – David Bowie, Queen)

 

In volo verso Varsavia
Ore 22:13

 

Devi fidarti di me, Coulson.”

Ci sto provando, ma mi stai mettendo in una posizione difficile.”

Ti chiedo solo ventiquattr’ore. E poi tutto sarà finito.”

Sì ma… l’Alpha Jet?”

Avevo una certa fretta.”

Avrai molto meno di ventiquattr’ore.”

Me le farò bastare.”

 

I giochi erano finiti.

Lo SHIELD sarebbe stato sulle sue tracce in poco tempo. Non era così ingenuo da pensare che le sue mosse non avrebbero corrisposto ad altrettante conseguenze.

Doveva fare in fretta: avrebbe messo sotto un riflettore i suoi spostamenti, ma se non altro sarebbero arrivati a Varsavia molto più velocemente rispetto ai canali tradizionali.

Questa volta non trovava giustificazioni logiche ai suoi gesti, alle sue decisioni.

Sconsiderato, sciocco, impreciso. Non era così che svolgeva il suo lavoro, non così che si era guadagnato, con il tempo, la cieca fiducia dell’organizzazione.

Non quella delle persone che, per prime, avevano creduto in lui.

Come Phil Coulson. In anni di collaborazione ed amicizia, ancora non riuscivano a chiamarsi per nome, e forse quella sarebbe stata la disfatta definitiva dei loro rapporti.

Eppure ci aveva messo meno di dodici ore a prendere la decisione di imbarcarsi in quella follia.

Quali che fossero state le sue motivazioni, ormai era troppo tardi per i ripensamenti. Avevano le ore contate e, prima avrebbero provato a dimostrare di avere le migliori intenzioni, meglio si sarebbe conclusa per entrambi. Anche se la remota possibilità che lo SHIELD potesse decidere di perdonarli e dare alla Vedova Nera una possibilità di riscatto, gli sembrò ancora più improbabile, ora, a mente lucida.

Tuttavia le aveva presentato la possibilità su un piatto d’argento, sperando che ne venisse stuzzicata abbastanza da non sfuggirgli o provare mosse azzardate.

E straordinariamente aveva funzionato.

Nel migliore dei casi lui sarebbe stato licenziato, nel peggiore…

Cercò di spingere dubbi e senso di colpa da qualche parte, in un angolo del suo stomaco, affinché diventassero solo un sommesso fastidio. Aveva bisogno di tutta la sua concentrazione, lucidità e determinazione per concludere indenne quella lunghissima giornata.

Avrebbe avuto tempo dopo per lasciarsi massacrare dai massicci colpi dei suoi peccati.

 

Il cielo sopra le nuvole era sempre uno spettacolo che riusciva a calmarlo. Quella sensazione di ovattato straniamento, il cielo terso sopra la sua testa, la distesa piatta, irreale sotto di lui.

Il radar indicava campo libero. Tutti gli indicatori, privi di segnali significativi.

Il viaggio sarebbe stato tranquillo e veloce.

 

“Tutto bene là dietro?” domandò senza voltarsi.

Non era stata una decisione ponderata, ma Natalia era stata sistemata nel sedile retrostante, legata adeguatamente alla sua cintura di sicurezza, praticamente impossibilitata a muoversi.

Non era sicuro che anche lei fosse in grado di guidare un jet, ma - nella possibilità - aveva deciso di non rischiare.

“Ohi, non soffrirai di mal d’aria, vero?” s'interessò canzonatorio. “Ci sono dei sacchetti di carta, sotto il sedile.”

La sentì brontolare qualcosa, forse in russo. No, decisamente quella situazione non le era granché congeniale. E probabilmente lo aveva appena mandato al diavolo.

“Avevo un commilitone di San Pietroburgo”, le rivelò, senza nemmeno sapere il perché. “Mi insultava anche lui.”

Si concesse un misero sorriso, al ricordo.

“Le imprecazioni sono le prime cose che impari di una lingua straniera, mi spiego?” Le lanciò uno sguardo rapido, cogliendola nell'atto di osservare tragicamente il soffitto.

La cosa, inaspettatamente, lo divertì.

“Во пизду*” cominciò a elencare con un mediocre accento russo “В рот нассать, чтоб морем пахло?**”

La vide fare un movimento strano, ma la sua espressione non mutò granché.

Scosse la testa, rassegnato.

“Magari potresti darmi delle ripetizioni”, propose. “Sono un allievo modello, faccio anche i compiti a casa.”

 

Varsavia si faceva sempre meno lontana.

 

“Non avremo molto tempo una volta atterrati”, il tono era cambiato, lo scherzo rimandato.

“Paura di non essere abbastanza veloce?”, finalmente una risposta, dopo tutto quel silenzio.

“E tu lo sei?”

“Non ho mai avuto intralci di cui preoccuparmi, ma tu sembri una zavorra piuttosto pesante.”

“Dovresti mettermi alla prova almeno, prima di giudicare.”

“Mi sembrava di aver già cominciato a farlo.”

Clint le rivolse uno sguardo strano, prima di tornare a guardare il cielo di fronte a sé, le mani serrate alla cloche.

Sentiva i suoi occhi fissi su di lui. Era vero: Natalia non aveva mai smesso di valutarlo.

“E come sto andando?”

Il silenzio non preannunciava mai niente di buono, sicuro una risposta pungente.

“Per essere uno che decide di risparmiare la vita al suo bersaglio e le propone redenzione, mi sembra che tu non riponga granché fiducia nella tua decisione”, il tintinnio delle cinture a sottolineare la sua condizione.

“Sto solo cercando di tutelarmi.”

“E come farai a tutelarti quando saremo a Varsavia? Dovrai lasciarmi libera di agire.”

Non aveva tutti i torti. A quel punto erano entrambi sulla stessa barca – o nello specifico, sullo stesso velivolo – che senso aveva tenerla sotto chiave?

Se voleva che la situazione si risolvesse meno disastrosamente possibile, a quel punto avrebbe solo dovuto allentare la presa, doveva cominciare a fidarsi.

 

“Sai guidare un jet?” le chiese.

 

 

 

In volo verso Varsavia
Ore 22:18

 

Per quanto non fosse ancora del tutto convinta che quello non fosse un modo piuttosto complicato – anche se evidentemente efficace – per convincerla a condurre lo SHIELD ai piani di San Paolo, Natalia aveva la netta e preoccupante sensazione che il suo compagno di viaggio stesse più che altro improvvisando.

Era diventata paranoica fino al punto di chiedersi se anche quella non fosse una studiata messinscena per spingerla a sottovalutarlo tanto da commettere qualche madornale errore che le sarebbe, infine, stato fatale. Di una cosa era sicura: se stava recitando, era un attore impressionante.

 

Tutto bene? Una favola, pensò sarcastica, continuando a starsene zitta per evitare sia di scoprirsi in modo francamente inutile, sia perché meno Francis parlava e meglio sarebbe stato.

Più che altro per lei. Mantenere la sua solita facciata di gelida indifferenza si stava rivelando, dovette ammetterlo, più difficile del solito. Maledisse tutti i santi dell'universo a mezza voce.

Perché usare un sacchetto di carta quando ci sei tu là davanti?

Si crogiolò per un attimo nella scenetta mentale, decidendo che la vergogna di non poter reggere uno stupido volo sarebbe stata di gran lunga surclassata dalla soddisfazione che avrebbe provato nel vederlo ricoperto di vomito. Si soffermò un attimo sui propri pensieri, chiedendosi quando esattamente fosse diventata tanto disgustosa.

 

Eccolo che riattacca con la tiritera militare, si mosse nervosamente sul sedile, concentrandosi in tutti modi pur di ignorarlo.

Bè, il tuo commilitone russo ed io abbiamo qualcosa in comune.

Sperò che, a lungo andare, il suo religioso silenzio lo spingesse ad imitarla, ma quello non doveva proprio essere il suo giorno fortunato. Alzò gli occhi al soffitto della cabina di pilotaggio, chiedendosi che cosa avesse fatto di male per meritarsi una rogna simile. La lista, lo sapeva bene, era drammaticamente lunga. Riabbassò il capo alle poche parole di russo che Francis riuscì a spiccicare, per un attimo convinta che la stesse seriamente mandando a quel paese.

Si trattenne in ogni modo dal mostrare il minimo accenno di interesse, ma la seconda imprecazione suonò talmente assurda da renderle il compito praticamente impossibile. Finse di grattarsi il naso contro la spalla per nascondere, più o meno abilmente, la propria reazione.

 

Si rilassò di nuovo alla pausa che sembrò concederle... e che durò troppo poco per i suoi gusti. Il suo tono, però, era cambiato. Finalmente si cominciava a parlare di cose serie.

Sapeva che il tempo a disposizione non sarebbe stato molto: stavano volando su un velivolo che aveva tutta l'aria di appartenere allo SHIELD e, a meno che Francis e i suoi superiori non fossero d'accordo nel fregarla, temeva che non ci avrebbero messo comunque molto ad individuarli.

Questo posto dev'esser pieno di trasmittenti, GPS, radar e chissà che altra diavoleria.

Non era la ristretta finestra di tempo a preoccuparla, più che altro il dover lavorare in coppia: per quanto si stesse sforzando di studiarlo, di raccogliere anche la più piccola delle informazioni, non lo conosceva e non avrebbe potuto conoscerlo prima di entrare in azione.

Alla Red Room le era capitato di lavorare con dei partner, ma le occasioni erano rare e sporadiche, ed era piuttosto certa che questa missione in particolare non avrebbe avuto proprio niente a che fare con quelle che le venivano assegnate in passato.

 

“Certo che so pilotare un jet. Camion, furgoni, locomotive, il Titanic, l'Apollo 13... ho provato di tutto”, rispose senza preoccuparsi di nascondere il fastidio che trasudava dalle sue parole.

No, perché diavolo dovrei saper pilotare un jet? Finse di non essersi accorta del divertimento nel suo sguardo.

“Non credevo che aveste il sarcasmo in Russia.” Lo vide armeggiare con il pannello di comando, presumibilmente per inserire il pilota automatico, prima di alzarsi dal suo sedile e raggiungerla.

“Già, beviamo vodka, indossiamo colbacchi e ci rotoliamo nella neve per tutto l'anno.”

“Va bene, va bene, ho capito l'antifona. Niente stereotipi.” L'accontentò mentre la liberava dai complicati nodi con cui l'aveva immobilizzata alla cintura di sicurezza. La lasciò a finire il lavoro da sola, tornando immediatamente al suo posto.

 

E questo che doveva significarle? Di nuovo, non era sicura se quell'atteggiamento facesse parte di un piano preciso, o se era solo incredibilmente ingenuo.

Una parte di lei già stava valutando la possibilità di spezzargli il collo, prendere il comando del velivolo (quanto poteva essere difficile?) e dirigersi verso qualche sperduto atollo del Pacifico. L'altra le dovette ricordare che non solo non sapeva pilotare un jet, ma che lo SHIELD l'avrebbe trovata in un batter d'occhio con o senza Francis. Infine, decise di scambiare il suo sedile per quello del co-pilota. La vista, da quella postazione, era mozzafiato... non che da fuori la si sarebbe potuta dire impressionata.

 

Si sentì vagamente spiata ma non fece segno di essersene accorta.

“Non hai risposto alla mia domanda”, notò lui dopo qualche minuto di – per lei – idilliaco silenzio.

“Solo una?” Gli lanciò una rapida occhiata, vedendolo ridacchiare, il che finì per indispettirla ancora di più. Tornò accuratamente ad osservare alternativamente il cielo e la complicata serie di comandi che le si distendeva davanti agli occhi: magari avrebbe potuto imparare i fondamentali solo guardandolo all'opera.

“Non hai intenzione di farmene passare nemmeno una, ah?”

“Rendere le cose semplici alla gente non è il mio lavoro.”

“Giusto.”

Trattenne il respiro, chiedendosi se quella sarebbe stata la fine della conversazione. Sarebbe troppo bello per essere ver -

“Com'è che sto andando?” la voce dell'uomo interruppe nuovamente i suoi pensieri. Natalia lo fulminò con lo sguardo.

“Secondo te?”

“Secondo me sto andando alla grande”, dichiarò con ostentato e divertito orgoglio. “Non che questa per me sia una novità.”

“Per te no, per gli altri...”

“Ouch! Non ti sembra di essere un po' troppo dura? Dopotutto siamo ancora vivi.”

“Solo perché mi sto disperatamente trattenendo dall'ucciderti.”

“Ah!” esclamò lui, come se l'avesse colta in fallo. “Però ti stai trattenendo, direi che è un passo avanti.”

“Ieri sera ho cercato di ucciderti e oggi decidi di lasciarmi scorrazzare liberamente sul tuo jet solo perché te l'ho suggerito.”

“Bè, in effetti avresti potuto chiederlo più gentilmente...”

“Non ne ho bisogno, sei abbastanza ingenuo da fare tutto da solo.”

Si voltò per guardarlo malissimo.

“Se stai per dire che ingenuo non è un insulto, evita”, lo prevenne stizzosamente.

“Però non mi stai uccidendo”, puntualizzò dopo un attimo di silenzio.

Su quel frangente, Natalia non avrebbe proprio potuto contraddirlo: nonostante il suo cervello non smettesse di elencarle tutti i modi in cui avrebbe potuto metterlo KO, l'eventualità di farlo sul serio sembrava sempre più distante ed improbabile. La situazione era talmente paradossale da incuriosirla: si stava prendendo gioco di lei o era sincero? Era quasi del tutto certa che stesse andando a braccio, che lo SHIELD non avesse dato proprio nessun via libera a quell'improvvisata proposta di lavoro. Il che costituiva tutto un altro problema...

“Per ora”, sottolineò Natalia a sua volta.

“Dicono tutte così, all'inizio.”

“Prima di fuggire a gambe levate?”

L'occhiata che ricevette in risposta, le annunciò di aver colpito e affondato il bersaglio. Gli ci volle qualche attimo per riprendersi dalla sorpresa: “E questo da che cosa l'avresti intuito?”

Se qualcuno l'avesse osservata molto attentamente, si sarebbe accorto dell'impercettibile incresparsi delle sue labbra.

 

 

Varsavia, Polonia
Ore 8:00

 

Clint aveva appena scoperto che la precisione, in Natalia, doveva essere qualcosa di congenito, facente parte del suo patrimonio genetico.

Ogni azione, ogni mossa, corrispondeva esattamente a un calcolo mentale che, sicuro, avrebbe preceduto di svariati minuti i suoi.

La Bank Gospodarstwa Krajowego di Varsavia, apriva le porte della filiale nel preciso istante in cui ci si trovarono di fronte.

 

Un rapido cambio d'abiti, un travestimento essenziale ma convincente, una corsa in taxi ed ora ecco una Vedova Nera pronta a indossare l'ennesimo inganno. Ad interpretare la parte della sofisticata Yalena Ivanovna. Ricca imprenditrice.

Quasi irriconoscibile in quel tubino nero, parrucca bionda e trucco severo. Un paio di occhiali da vista a completare l'opera e ci sarebbe cascato perfino lui.

 

Di contro, Clint – cane da guardia, made un U.S.A, della ricca signora - si sentiva nudo. Non un'arma, non il suo arco, le sue frecce, non una fionda, un coltellino svizzero. Da che mondo e mondo in una banca non avrebbero avuto sistemi di sicurezza adatti ad individuare la benché minima minaccia?

Anche in quel frangente, avrebbero dovuto improvvisare.

Non che non si sentisse vagamente stimolato da quella nuova situazione. Tutt'altro.

L'incognita affatto trascurabile, però, era il tempo.
Sentiva ticchettare su di sé il furiosissimo sdegno dello SHIELD e gli sgraziati tentativi d'intralcio dei mandanti di Natalia.

 

La banca era ancora pressoché deserta. Un paio di mattinieri clienti alle casse e il pigro ticchettio di tastiere dei dipendenti all'opera, il trillo di un telefono e i loro passi sul pavimento in linoleum.

Natalia aveva rapidamente preso accordi per avere accesso alla propria cassetta di sicurezza, apposto una firma sul registro e verificato le sue credenziali su documenti, naturalmente falsi.

Il funzionario, un uomo sulla cinquantina dai capelli brizzolati e il viso aquilino, la studiò a lungo, interessandosi approssimativamente sulla sua salute, le motivazioni del suo ritorno a Varsavia. Una conversazione all'apparenza casuale ma che forse nascondeva qualcosa di più?

Clint non era tranquillo, sebbene all'esterno non avesse avvertito minacce di alcun tipo, le banche lo mettevano sempre in soggezione, forse più delle chiese.

Il dio denaro era altrettanto spietato. Quante le vittime, nel suo nome.

Una divagazione che lo colse di sorpresa quando Natalia si allontanò con il rapace funzionario.

“Ti aspetto qui?” domandò alla donna, senza ricevere risposta. “Ti aspetto qui.”

La voce si spense in un sussurro e, andatura dinoccolata, andò a frugare fra i volantini ordinatamente sistemati negli scaffali.

 

 

Varsavia, Polonia
Ore 8:23

 

Per quanto Bartlomiej le avesse assicurato (in codice, per non attirare attenzioni non richieste) che il trasferimento di file era andato a buon fine, c'era qualcosa nel modo in cui parlava e camminava che non la convinceva affatto. I suoi occhi sembravano costantemente rincorrere qualcosa di non meglio identificato, una scusa dopo l'altra per non dover ricambiare il suo sguardo indagatore.

Le bastò un minuto in sua presenza per accorgersi che qualcosa, decisamente, non andava.

 

Non sapeva granché sul suo conto, solo l'essenziale: l'aveva trovato prigioniero nel nascondiglio di una banda di trafficanti di droga polacchi che era stata pagata per eliminare.

L'aveva liberato. Tra una supplica, una promessa di smetterla con la cocaina e altro, le aveva promesso che l'avrebbe ripagata. Natalia non credeva che avrebbe mai avuto bisogno di un impiegato di banca, ma si era sbagliata.

 

Fece finta di niente e rimase in silenzio per tutto il percorso, dall'enorme hall della banca al secondo piano interrato a cui sapeva essere collocate le cassette di sicurezza.

L'uomo non smetteva di controllare l'orologio, allentarsi il colletto inamidato della camicia, guardare il soffitto con estremo interesse. La condusse fino alla saletta giusta, tirò fuori un pesante mazzo di chiavi, sbloccò la combinazione e aprì la massiccia porta che sbarrava loro la strada.

 

“Cassetta numero settecentoquarantacinque, come richiesto”, tornò a rivolgerle la parola, una forte nota di agitazione nel suo polacco. Le consegnò la sua chiave – un evidente violazione del protocollo – e la lasciò da sola.

 

Non perse tempo: trovò la cassetta, l'aprì, ne recuperò il contenuto, lo mise al sicuro e fu di nuovo fuori. Bartlomiej trasalì a tal punto da far cadere il telefono cellulare con cui stava armeggiando. Natalia si chinò a raccoglierlo con tutta la calma del mondo. Glielo restituì, rivolgendogli un'occhiata di vago disappunto: non aveva avuto bisogno di leggere quello che c'era scritto sul display per capire che era stata tradita.

 

“Spero ti abbiano pagato abbastanza”, alluse prima di dargli le spalle e allontanarsi senza aspettarlo.

 

 

Varsavia, Polonia
Ore 8:40

 

“Ma ne è proprio sicura? Zucchero nel sugo?”

“E' per toglierne l'acidità. Provi, vedrà che funzionerà.”

Clint si fece meditabondo, a valutare gli effetti dello zucchero nella preparazione del sugo di pomodoro. Non che fosse un grande esperto. Non aveva mai avuto tempo per imparare a cucinare. Figurarsi a capire i segreti di un buon sugo.

L'attesa si era fatta così lunga che attaccar bottone con una signora che aspettava il suo turno per una consultazione, era stato quasi un obbligo morale.

La cara Iris, ottant'anni anni suonati, l'aria di una ragazzina con gli occhi vispi, la pelle cadente, e una nuvola di capelli bianchi, tendenti al rosa. Era stata lei ad avvicinarlo, incuriosita dal suo accento.

 

Americano! Ho vissuto per tanti anni a Cincinnati.”

Sul serio? Io sono dell'Iowa.”

 

Natalia si stava attardando. Che ci fossero stati dei problemi a recuperare i file? O qualsiasi maledetta roba avesse nascosto in una cassetta di sicurezza a Varsavia.

Per un attimo fu sul punto di accertarsi che fosse ancora lì.

E se quella fosse stata tutta una scusa per allontanarlo e fuggire da qualche uscita secondaria?

Che lo avesse ingannato? Non del tutto improbabile.

Cercò di mantener fede alle proprie convinzioni e non lasciarsi giocare dal sospetto. Aveva deciso di fidarsi, stava spendendo così tante energie nel farlo che insinuarci anche l'ombra del dubbio, sarebbe stato deleterio, per la sua psiche.

Fu sul punto di interrogare Iris su una ricetta rapida per cucinare le uova, e distrarsi dalle sue paranoie d'attesa, quando qualcosa stimolò la sua attenzione. Stuzzicò il suo senso d'allerta.

Il suo sguardo raggiunse la vetrata d'ingresso della banca, e si spinse fuori, sulla strada.

SUV. Neri.

Nemmeno la decenza di essere originali. O quantomeno... furbi.

Cercò di non scomporsi e di non dare nell'occhio. Si alzò in piedi, fingendosi pacatamente annoiato, si congedò dalla dolce vecchina e raggiunse il bancone.

Stava ancora valutando come chiedere di Natalia, quando la vide spuntare dal retro, accompagnata ancora dal pronto funzionario.

Sentì il sollievo scivolargli addosso, ma non lo diede a vedere, c'erano altre priorità.

Lanciò a Natalia uno sguardo che lei, straordinariamente, riuscì a interpretare. La vide annuire impercettibilmente e al contempo rivolgersi nuovamente al funzionario per un congedo che si trasformò in una richiesta.

L'uomo parve turbato e sospettoso: “Temo di non poterla accontentare. Dovrete usare l'uscita principale. Si tratta di misure di sicurezza e...” sentenziò in polacco, prima di venir interrotto.

Non ebbe nemmeno il tempo di capire cosa aveva zittito l'uomo, che questo impallidì e si fece di pietra. Natalia gli stava sussurrando qualcosa all'orecchio e a giudicare dal tremolio diffuso che lo aveva colto non doveva essere stata un'informazione piacevole.

Poi la donna gli fece cenno di raggiungerlo e il funzionario si prodigò celermente a far loro strada.

“Che diavolo gli hai detto?” bisbigliò, seguendo a passo svelto i due.

“Segreto professionale.”

“Oh, andiamo, non si era detto di doverci fidare l'un dell'altro?”

Lei gli lanciò uno sguardo glaciale.

“Aggiornami”, e con quello Clint capì che la collaborazione valeva solo sul piano pratico dell'operazione in corso.

“Tre SUV, appostati fuori dall'edificio. Ne sono passati un altro paio mentre arrivavi. Potrebbero aver accerchiato la banca su entrambi i lati.”

“Gli uomini di Billmann.”

“Di certo non lo SHIELD.” Non con dei dozzinali SUV neri da gangster moderni.

La donna parve registrare l'informazione e deviarono verso le scale interne dell'edificio.

Il congedo fu rapido.

Natalia fece per dire qualcosa, ma infine furono le sue mani ad agire. L'attimo successivo il funzionario della banca era steso a terra, privo di sensi.

“Non sono nemmeno riuscito a capire con cosa lo hai colpito!” esclamò Clint, superando l'uomo riverso al suolo con un salto. “Sicura di non volermi dire che gli hai detto prima?”

“Risparmia il fiato e corri. Ci saranno addosso in pochi minuti.”

Le telecamere a circuito chiuso avevano sicuramente registrato le loro mosse.

 

Raggiunsero quella che aveva tutta l'aria di essere l'ultima tappa del loro viaggio. La porta che conduceva al tetto del palazzo.

“Almeno sei riuscita a recuperare quello che ci serve?”

“Secondo te?” un calcio ben assestato e la porta si aprì con un cigolio tutt'altro che rassicurante.

Clint la osservò, ancora una volta, impressionato.

“Potevi aspettare di vedere se era già aperta.”

Lei, per cavalleria, lo fece passare per primo.

 

Si appostò al davanzale, osservando i dintorni.

“Come previsto. La banca è circondata. Tre SUV all'entrata principale, due per gli altri lati dell'edificio”, il suono di una sirena attirò la sua attenzione. “E la polizia a completare l'opera.”

“Questo farà incazzare gli uomini di Billmann.” dichiarò Natalia, liberandosi di parrucca bionda e occhiali.

“A me sembravano già incazzati.”

 

~~~~~~~~
 

Note:

*Vaffanculo
** Devo pisciarti in bocca, perché tu senta il sapore del mare?

 

~~~~~~~~

 

**NEL PROSSIMO CAPITOLO**

 

Natalia non fece in tempo a passare in rassegna le automobili a loro disposizione che Francis già ne aveva scelta una.

Darà troppo nell'occhio”, non fece segreto del proprio disappunto, osservando la macchina rossa fiammante.

Nel caso non te ne fossi accorta”, ribatté lui, facendone saltare la serratura. “È l'unico modello di questo secolo.”

Va bene, ma guido io.”

Eh?”

Conosco Varsavia meglio di te! Levati di mezzo.”

 

**

Nat!” le lanciò una delle armi, correndo di nuovo nella sua direzione. Non ci sarebbe voluto molto prima che qualcun altro tornasse a romper loro le uova nel paniere.

Come mi hai chiamata?!” la sentì protestare indignata, ma non fecero in tempo ad arrivare alla macchina che l’uscita della via era già sbarrata da quella della polizia.

Evviva, sono arrivati i rinforzi.” Soffiò tutt’altro che divertito.

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Prima di lasciarvi alla lettura, ho una piccola premessa da fare. Dato che oggi, giorno della pubblicazione di questo capitolo, è il compleanno di una delle due autrici di questa fanfiction (sì siamo in due, non sono il mago Othelma, giuro!), la sua controparte anziana, cioè io, ha deciso di farle una sorpresa (cioè, si spera che sia una sorpresa, altrimenti faremo finta che un hacker impazzito abbia preso possesso del nostro account – Ommioddio guarda tu che pezzi di *beeeeep*), prima di tutto pubblicando il capitolo senza averla consultata (No, davvero, questi hacker ormai non hanno proprio rispetto di niente!) e poi regalandole una fanart ispirata alla storia. Che potrebbe altresì farne da copertina (meglio una trapunta) o una sottospecie di banner (Bruce) introduttivo.

Bene, dopo questa inutile sequela di battutacce, non mi resta che chiudere e, augurare a voi buona lettura, mentre alla mia socia di sventure/avventure/scleri sulle condizioni dei capelli di Jeremy Renner, un: BUON COMPLEANNO E CENTO, CENTO, CENTO... di questi giorni!

Smack, bambina, finalmente invecchi anche tu! (ecchè, solo io?)

 

 

 

La mia prima regola è: spera per il meglio e aspettati il peggio.”

(The Bourne Ultimatum)

 

 

Varsavia, Polonia

Ore 8:47

 

Abbandonò parrucca e occhiali mentre studiava il tetto della banca e degli edifici adiacenti per trovare una via di fuga. La cosa non sarebbe stata impossibile, ma neanche semplice. Il lamento assordante della sirena della polizia era sempre più vicina, a ricordarle che Billmann e i suoi uomini non erano gli unici ad avercela con lei. Si tolse le scarpe – troppo alte per un inseguimento -, afferrò l'orlo del tubino nero che indossava e – sentendosi un po' in colpa al gesto – strappò la gonna fino a metà coscia, assicurandosi di avere piena mobilità: la prossima fase sarebbe stata tutto fuorché comoda.

 

Studiò sommariamente il tetto del palazzo alla loro destra: la distanza tra i due era abbastanza ridotta da permettere di raggiungerlo con un salto. Individuò il punto in cui il parapetto si abbassava al livello del pavimento e ci si posizionò davanti, svariati metri più indietro, lo sguardo di Francis puntato addosso.

“Non guardarmi così”, lo redarguì immediatamente “i tetti non dovrebbero essere il tuo habitat naturale?” domandò, scoccandogli una rapida, fulminante occhiata.

Prese la rincorsa e spiccò un salto, dandosi tutto lo slancio possibile. Rimase sospesa per aria per quella che le parve un'eternità, prima di atterrare poco aggraziatamente dall'altra parte.

Attutì la caduta con le braccia, rotolando per un breve tratto. Si rimise in piedi proprio mentre Francis la raggiungeva, in modo ancora meno elegante del suo: se anche avesse voluto sfuggirgli, non avrebbe avuto vita facile. Bollò subito il pensiero come assurdo: c'era Billman, la polizia polacca, lo SHIELD ad inseguirla... aggiungere un quarto giocatore a quell'assurda corsa contro il tempo sarebbe stato semplicemente folle.

 

La porta che sbucava sul tetto della banca si aprì di schianto, riversando uno squadrone di uomini dall'aria poco raccomandabile. Natalia si tuffò dietro il muretto alle proprie spalle. Ebbe appena il tempo di accorgersi che Francis aveva fatto altrettanto, quando una raffica di spari si abbatté su di loro. Si coprì la testa con entrambe le braccia, scambiando una rapida occhiata con l'uomo al suo fianco.

 

“Salteranno anche loro”, gli comunicò a voce abbastanza alta perché riuscisse a sentirla al di sopra degli spari. Le sembrò di udire stralci di spicce contrattazioni in tedesco – salto io o salti tu? - dall'altra parte, lo strascicare di pesanti stivali sul cemento, e poi il tonfo dell'atterraggio.

Si portò un dito alle labbra, facendo cenno a Francis di stare zitto e fermo. Non sembrava affatto d'accordo, ma per qualche motivo la lasciò fare.

Ebbe cura di girarsi a fronteggiare il muretto piuttosto che dargli le spalle, restando accucciata per evitare di essere colpita dai proiettili che ancora imperversavano tutt'intorno. Inspirò ed espirò ad intervalli regolari finché il braccio armato dell'uomo che era saltato dalla loro parte non comparve sopra le loro teste.

Saltò in piedi prima che potesse guardare oltre la loro barriera di protezione: gli immobilizzò il polso con una mano, mentre con l'altra si preoccupò di assestargli un pugno in piena faccia.

L'afferrò per la cintura dei pantaloni e lo ribaltò dalla loro parte.

Era già morto. Fuoco amico, valutò rapidamente: gli uomini di Billmann avevano il grilletto facile e una pessima mira.

Gli sfilò la pistola di mano, controllando che non avesse munizioni nelle tasche del giubbotto di pelle. Realizzò di essersi distratta un po' troppo a lungo perché, un attimo dopo, un altro uomo comparve dalla loro parte: imbracciava un mitra.

Francis gli fu addosso prima che potesse avvertirlo del pericolo.

 

Se aveva pensato che tutti quei muscoli fossero solo un vanto estetico – a che servivano quei bicipiti ad un arciere? - Natalia dovette ricredersi: l'uomo fu messo KO nel giro di pochi istanti, la sua arma requisita. Francis indicò alla sua destra. Annuì in tacita risposta. Fu il primo a prendere iniziativa e a mettersi a correre restando basso, fino a raggiungere le scalette che – presumibilmente – li avrebbero condotti all'interno dell'edificio. Natalia lo seguì un attimo dopo, voltandosi e facendo fuoco: l'ennesimo uomo – a metà del salto da un edificio all'altro – sparì, inghiottito dal vuoto.

Scese in fretta i pochi gradini della scala che spariva sotto il livello del pavimento del tetto: erano protetti da entrambi i lati, ma non lo sarebbero stati per molto. Francis provò ad aprire la porta utilizzando la maniglia come ogni comune mortale: sfortunatamente per lui, era chiusa a chiave. Natalia lo incenerì con lo sguardo, costringendolo a farsi da parte. Prese la mira e fece fuoco contro la serratura: non doveva essere granché resistente perché si aprì come burro, lasciando passare il proiettile dalla parte opposta.

 

Non perse tempo e inforcò la lunga rampa di scale di servizio su cui si ritrovarono. Una rapida occhiata alla mappa delle uscite di sicurezza dell'edificio appesa ad ognuno dei piani che via via passavano, ed ebbe la conferma dell'esistenza di un parcheggio sotterraneo. Uscire a piedi dall'edificio e trovare un mezzo di trasporto prima che la polizia e i passeggeri di tutti quei SUV si accorgessero della loro presenza, sarebbe stato praticamente impossibile. Tornare in superficie già a bordo di un'auto, però, avrebbe cambiato sensibilmente le cose.

 

Francis doveva aver capito le sue intenzioni perché non obiettò e non mise in discussione la loro traiettoria. Scesero e scesero per un minuto intero, finché non si ritrovarono davanti ad una doppia porta di metallo. Spinsero un'anta ciascuno, sbucando in un ambiente piuttosto squallido, dal tetto basso, i neon grigiastri, pilastri di cemento a dividere le corsie. Natalia non fece in tempo a passare in rassegna le automobili a loro disposizione che Francis già ne aveva scelta una.

 

“Darà troppo nell'occhio”, non fece segreto del proprio disappunto, osservando la macchina rossa fiammante.

“Nel caso non te ne fossi accorta”, ribatté lui, facendone saltare la serratura. “È l'unico modello di questo secolo”.

“Va bene, ma guido io.”

“Eh?”

“Conosco Varsavia meglio di te! Levati di mezzo.”

In realtà non era affatto sicura che Francis non conoscesse Varsavia, ma, visto che l'uomo non ebbe niente da ridire, suppose di aver fatto centro.

 

Salì al posto del guidatore, lanciò la pistola sul sedile del passeggero e si mise ad armeggiare coi cavi sotto al cruscotto per metterla in moto. Frizione, acceleratore, cambio e un attimo dopo stavano già sfrecciando attraverso il parcheggio, diretti alla rampa d'uscita.

“Ovviamente guida come una pazza”, lo sentì commentare, rivolto più a se stesso che a lei.

Accelerò non appena il gabbiotto del guardiano del parcheggio comparve in fondo alla loro strada: l'urto con la sbarra bianca e rossa fu minimo (non per la sbarra). Risalì la rampa d'asfalto e ricomparve nella strada sul retro della banca, i SUV neri ancora parcheggiati alle loro spalle.

“Tu spara, ce la fai?” gli domandò, abbassando i finestrini senza aspettare di ricevere una risposta.

Notò del movimento nello specchietto retrovisore: gli uomini di Billmann dovevano essersi accorti del loro passaggio.

“Reggiti forte”, l'avvertì, premendo sull'acceleratore.

 

 

Varsavia, Polonia

Ore 9.10

 

Chissà come, gli tornò alla mente il movimento ipnotizzante, rotatorio dei suoi vestiti sporchi in lavanderia.

Ora era certo di capire cosa provassero al momento della centrifuga. E di questo doveva solamente ringraziare Natalia.

“E meno male non abbiamo fatto colazione, stamattina”, smozzicò, prima di guardarsi alle spalle, sentendosi sballottato alla portiera a una curva troppo ardita.

“Gesù!” esclamò. Chissà come mai i santi uscivano fuori sempre nei momenti meno opportuni.

Si era accorto però che, alle loro spalle, tutto li inseguiva fuorché una schiera di angeli; più forse uno sciame di pipistrelli ubriachi.

Le lanciò uno sguardo rapido e senza doverle realmente rispondere, si accertò che la pistola sottratta ad uno dei tirapiedi di Billmann - SIG Sauer P220, semi-automatica - fosse ancora carica. Fece lo stesso con quella abbandonata dalla donna e sbuffò qualcosa.

“Non si può dire che non siano nazionalisti.”

Prese un profondo respiro e in un attimo fu seduto in bilico sul finestrino, solo le gambe all’interno dell’autovettura, agganciate alla cintura di sicurezza che fungeva da cappio anti caduta. Non una posizione comoda.

Si sentì trascinare all’esterno dall’ennesimo sorpasso azzardato: “Naaaaaaat-” alia. Gridò, la voce che si spense come quella di una sirena in allontanamento, cercando di assestare la mira.

Con il primo colpo fece fuori la ruota davanti del grosso SUV, con il secondo centrò il finestrino, scalfendolo solamente.

“Brutti figli di puttana.” Vetri antiproiettile.

La sua imprecazione andò a disperdersi nel vento e sotto una scarica di munizioni.

Si ritirò il tempo di sentire il vetro posteriore della loro vettura andare in frantumi. Non si lasciò scoraggiare. Di fatto, gli avevano facilitato il compito.

“Danke schön, Fledermäuse.*” si arrampicò sul retro della macchina, e con un calcio si libero di quello che restava. Prese la mira, sbandò su un lato ma il colpo in canna andò a buon fine: anche l’altra ruota anteriore del SUV era fuori uso.

Il grosso macchinone zigzagò per un breve tratto, prima di schiantarsi contro un muro, sbarrando la strada agli altri veicoli all’inseguimento.

Fuori uno, pensò solamente, affacciandosi al sedile dove Natalia ancora concentrata sulla strada, si allontanava il più possibile dalle vie trafficate.

Si concesse un solo attimo di respiro.

“Dì un po’, dov’è che hai imparato a guidare?”, le chiese, senza ricevere risposta. “Guarda che non era un complimento.”

Trascinò via con il piede i vetri rotti, sparsi sul sedile posteriore, prima di veder spuntare l’ennesima brigata di SUV.

“E andiamo.” Riprese a sparare, e a mettere fuori uso un paio di macchine, prima di rendersi conto che quelle che intravide dal finestrini non erano altro che canne di mitra.

“Merda…” esalò facendo retrofront.

“Ricordi che ti ho detto prima?” le chiese, prendendo mira e andando di nuovo a rete. Il terzo SUV sbandò. “Ecco, sarebbe gradito vedere qualcosa… di peggio.”

La donna non si fece pregare, deviò un paio di vetture, prima di inforcare una traversa tutt’altro che agile.

“Non andremo lontano con due pistole.” Le fece presente.

“Dimmi di che hai bisogno.”

“Un paio di quei mitra.”

E come a rispondere alla sua domanda, non appena il SUV si rifece vivo, la donna deviò a sorpresa in una viuzza che, Clint notò, andava a finire in una strettoia.

“Non ci passiamo!” ebbe appena il tempo di esclamare, prima che Natalia prendesse con la ruota anteriore un muretto e inclinasse la macchina quel tanto che bastava per permetter loro di proseguire. Procedettero così per un paio di metri, prima di crollare non appena la strettoia fu finita.

Lo sguardo attonito di Clint si spostò dalla strada alla donna.

“Da che razza di remake di Fast and Furious sei uscita?”

“Di che diavolo stai parlando?”

“Non conosci Fast and Furious? Vin Diesel, l’uomo che ha un passaporto anche per il suo bicipite.”

Natalia fermò la macchina e, dietro di loro, il rumore di uno schianto fece presente che il SUV si era andato a incastrare a grossa velocità. Accartocciato come una scatola di sardine.

“Vuoi continuare a parlare di assurdità o ti dai una mossa?” la sentì criticare, ma lui le passò una delle pistole ed era già fuori dal retro.

“Coprimi!” le gridò ma non ci fu bisogno di grandi manifestazioni belliche, gli uomini sul SUV erano abbastanza storditi dallo schianto dell’airbag, da non rendersi quasi conto dell’arrivo di Clint. Uno strattone un paio di cazzotti ben assestati e i mitra erano suoi.

“Nat!” le lanciò una delle armi, correndo di nuovo nella sua direzione. Non ci sarebbe voluto molto prima che qualcun altro tornasse a romper loro le uova nel paniere.

“Come mi hai chiamata?!” la sentì protestare indignata, ma non fecero in tempo ad arrivare alla macchina che l’uscita della via era già sbarrata da una macchina della polizia.

“Evviva, sono arrivati i rinforzi.” Soffiò tutt’altro che divertito.

Gli intimarono di restare fermi con le mani alzate ma, prima che Natalia decidesse di scatenare una guerra, notò una porta sul lato e odore di fritto.

Cucine. Fu tutto quello che riuscì a pensare.

Prese la donna per mano, strattonandola in quella direzione. Memore di lezioni passate, con un calcio ben assestato aprì la porta e ce la trascinò letteralmente dentro.

 

Un gruppo di cinesi, affaccendati ai fornelli, arrestarono le proprie attività, per fissarli con aria instupidita.

“Chūnjuǎn dài zǒu?**” disse, prima di ricominciare a correre

 

 

Varsavia, Polonia

Ore 9:29

 

 

Non era esattamente né il momento né l'ora più adatta per pensare agli involtini primavera, ma la fame si fece sentire comunque. Da quanto non faceva un pasto degno di quel nome? Accantonò rapidamente il pensiero, strattonò via la mano dalla presa di Francis e sgomitò tra i cuochi che affollavano la cucina per farsi strada attraverso il ristorante.

Per raggiungerli, la polizia avrebbe dovuto fare il giro dell'isolato in macchina, o attraversare la stradina bloccata da non uno, ma ben due SUV. In ogni caso, era sicura che stessero guadagnando un po' di tempo.

 

“выйти с дороги!***”, gridò, irrompendo nella sala principale. Fece lo slalom tra i tavoli, le urla dei clienti terrorizzati ad accompagnarla fino alla porta a vetri. Controllò sommariamente la situazione all'esterno, voltandosi per trovarsi faccia a faccia con Francis.

“Al tre”, l'informò a mezza voce. “Uno, due -” spinse la porta e sfrecciò fuori dal locale prima ancora di poter pronunciare il tre.

Scansò i pedoni sul marciapiede, lanciandosi in mezzo alla strada incurante delle auto e dei mezzi di trasporto pubblici attualmente in transito. Approdò sul lato opposto, imboccando una stradina secondaria e poi un'altra ancora, districandosi nel dedalo di vicoli e traverse con apparente sicurezza.

 

Svoltò sulla sinistra, ritrovandosi una piazzetta minuscola e maleodorante. Invece che continuare a tirar dritto, si nascose dietro una pila di scatoloni e rifiuti di vario genere accatastati accanto a due cassonetti messi in fila contro al marciapiede. Si accucciò sulle ginocchia, portandosi l'indice alle labbra quando Francis l'ebbe raggiunta, il fiato corto e un'ombra di sudore sulla fronte.

 

Niente commenti stupidi, lo redarguì con lo sguardo prima di afferrarlo per il colletto della camicia di malo modo.

“Toccami o chiamami Nat di nuovo e te ne farò pentire”, lo minacciò a voce bassissima, ma assolutamente seria. Lo lasciò andare e si fece muta come una tomba quando i passi degli agenti – e prevedibilmente gli uomini di Billmann ancora in grado di sostenere un inseguimento – si fecero via via più chiari e vicini. Erano molto più lenti di quanto avrebbe mai osato sperare: passarono davanti alla catasta d'immondizia e procedettero attraverso la piazza e oltre, lungo la viuzza che da quella aveva origine. Suppose che fossero troppo impegnati a ricordarsi di respirare e a sopportare il dolore lancinante alla milza per prestare realmente attenzione ai dintorni.

 

Trascorsero cinque minuti buoni prima che le vicinanze tornassero a farsi silenziose e semi-deserte. Si rimise in piedi, sbirciando oltre una cassa piena di bottiglie vuote per assicurarsi che non ci fosse più nessuno.

“Via libera”, decretò infine, valutando se abbandonare il mitra nel cassonetto o portarselo dietro a costo di attirare inevitabilmente l'attenzione. Considerate le condizioni dei suoi abiti, l'arma sarebbe stata l'ultimo dei suoi problemi...

Vide Francis spolverarsi distrattamente i vestiti.

“Per un attimo ho temuto che volessi rubare un'altra auto”, le confessò, fingendo di rabbrividire solo al pensiero. O almeno credeva che stesse facendo finta.

“Piantala”, tagliò corto lei, controllando che la chiavetta recuperata alla banca fosse ancora al suo posto, nascosta nell'imbottitura del reggiseno. “Abbiamo bisogno di un mezzo di trasporto”, ragionò tra sé, sovrappensiero.

“Basta che non sia tu a guidare.”

“Sei vivo, mi pare.”

“Solo perché ho un ottimo controllo del mio apparato digerente.”

Natalia lo ignorò, decidendo di buttare il mitra nel cassonetto dopo aver inserito la sicura.

“Ci serve un autobus o un taxi”, deviò il discorso, avviandosi nella direzione dalla quale erano arrivati solo pochi minuti prima. Si scompigliò i capelli con una mano, già pronta ad interpretare la parte della reduce da una lunga nottata in discoteca, completamente sbronza e in evidente stato confusionario. Quella, o qualsiasi altra storia che avrebbe spiegato il suo aspetto. Francis l'affiancò un attimo dopo, sbadigliando sonoramente. Avanzarono in silenzio, come per tacito accordo.

 

La situazione cominciava a farsi un po' troppo surreale per i suoi gusti: prima sarebbero arrivati al jet, meglio sarebbe stato. La buona (anche se aveva ancora qualche riserva a riguardo) notizia era che non l'aveva ancora uccisa, né aveva accennato a farlo. O, se l'aveva fatto, non se n'era minimamente accorta. Dovette arrendersi all'evidenza: aveva disobbedito agli ordini, aveva preso un'altra direzione, aveva improvvisato...

Le sfuggì un mezzo sospiro mentre tirava fuori la chiavetta per porgergliela. Immagino sia meglio che la tenga tu. L'espressione che gli lesse sul viso le parve vagamente sorpresa, ma decise di non farci caso.

“Dubito che tu abbia la più pallida idea di cosa succede dopo, vero?” gli chiese, un'impercettibile nota di ansia nella voce.

Detestava gli imprevisti, dover andare avanti alla cieca, affidarsi agli altri, non avere il controllo assoluto degli eventi: le sembrava la ricetta per una catastrofe perfetta. Lo stomaco si contrasse al pensiero e, per un attimo, si sentì immensamente stupida: aveva davvero intenzione di consegnarsi allo SHIELD?

“Direi di tornare al jet”, propose lui, senza capire od evitando di farlo.

Natalia non rispose, preoccupandosi adesso di deviare dal percorso che avevano fatto all'andata.

Camminarono ancora per svariati minuti, Francis indietro di un paio di passi rispetto a lei, il ronzio delle strade meno trafficate di Varsavia a far loro da sfondo.

 

Il suo cervello aveva già ricominciato a presentarle infiniti scenari e vie d'uscita da quell'assurda situazione, uno meno probabile dell'altro. Non era stato poi così male, lavorare in coppia. Il pensiero, invece che rallegrarla, la fece sprofondare in un nervosismo ancora peggiore.

 

Si fermò di colpo in mezzo ad una strada bloccata per lavori in corso. Un silenzio fin troppo innaturale li circondava: nessun rumore dal cantiere, nessun operaio o passante nei paraggi. L'unica figura che riuscì ad individuare era un uomo in completo elegante, non molto alto, non molto prestante. Un paio di occhiali scuri a schermargli gli occhi.

Sentì Francis trattenere il respiro alle sue spalle: per qualche assurda ragione era convinta che l'avesse riconosciuto.

 

Qualcuno ci sta osservando, realizzò, sollevando lo sguardo sui palazzi circostanti. Avvertì i passi silenziosi un attimo dopo. Socchiuse gli occhi. Inspirò lentamente. Tentò inutilmente di rilassare i muscoli già tesi e pronti all'azione.

Sta' calma, si impose prima di tornare a guardare davanti a sé: una decina d'uomini in nero li circondava, armi e occhiate che andavano dal gelido al confuso, puntate nella loro direzione.

Il cerchio si aprì, lasciando passare l'uomo elegante con gli occhiali da sole. Quando parlò, la delusione, la preoccupazione e la stanchezza risuonarono nella sua voce.

“Agente Barton, signorina Romanova... temo dobbiate venire con me.”

 

~~~~~~~~

Note:

*Grazie mille, pipistrelli

**Involtini primavera a portar via?

***Levatevi di mezzo!

 

~~~~~~~~

**NEL PROSSIMO CAPITOLO**

 

Violazione del protocollo, negligenza, insubordinazione, insufficienti spiegazioni riguardo l’impiego di mezzi specifici dello SHIELD…”, l’elenco sembrava piuttosto lungo. “Le prove sembrano essere sufficienti per assicurarle una sospensione immediata.”

Se quella era una minaccia la faccia della Hill la rendeva anche peggio.

 

~~~~~~~~

Per quanto si stesse impegnando a mantenere la solita facciata gelida, Natalia fu costretta a trattenere il respiro: davanti ai suoi occhi si stendeva un mare di rosso, un macabro collage fatto di sangue, occhi vitrei, corpi rigidi. Le sue vittime.

Si è tenuta occupata, signorina Romanova”, esordì, lo sguardo placido, il tono tranquillo, quasi amichevole. Credevano seriamente che mandarle un ometto dall'aria simpatica l'avrebbe resa più incline a parlare?

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Dovunque tu vada, ti sarà richiesto di fare cose che ritieni sbagliate. È una condizione costante della vita quella di essere costretti a violare la propria identità. Una volta o l'altra, ogni creatura vivente si trova costretta ad agire così. È l'ultima ombra, la disfatta della creazione. Questa è una maledizione che alimenta tutta la vita. Dappertutto nell'universo.

(Philip K. Dick - "Ma gli androidi sognano pecore elettriche?")

 

 

 

New York City, USA
S.H.I.E.L.D. Central
Ore 13:52

 

Le luci al neon della stanza cominciavano a dargli fastidio.

Non un angolo buio, non un’ombra in cui trovare riposo. Si chiese se quello non fosse che l’inizio delle sue punizioni.

Valutò se gli fosse almeno concesso alzarsi, abbandonare quella scrivania asettica e muoversi per la stanza. Se non altro, gli avevano risparmiato la gabbia degli interrogatori.

Non era però del tutto certo che quello fosse un vantaggio o un buon segno.

Aveva visto uscire da lì persone che allo SHIELD non avevano più messo piede: ragazzoni integerrimi e donne d’acciaio, spezzati, screditati, ricollocati, rimossi.

Socchiuse gli occhi, sentendosi solo estremamente esausto. Jat lag, ore di sonno perse, scarsa alimentazione, eccessivo esercizio fisico. Gli stessi sintomi che lo affliggevano alla fine di ogni missione. Solo che stavolta non avvertiva lo stesso vago sentimento di stanca soddisfazione. Non si pentiva di quello che aveva fatto, quello no, ma il mal di stomaco che lo aveva tormentato a Lisbona, a Varsavia e che era riuscito a sedare per più di quarantotto ore, adesso era tornato, impietoso e dolorosamente familiare.

Non riusciva a contare solo sulle dita di una mano le volte che aveva riconosciuto in quel disagio fisico, il suo disagio mentale. Sperava di averlo recluso per sempre, ma si trovò a constatare che forse, non se ne sarebbe andato mai.

Presto si trovò a ripercorrere tutti gli avvenimenti che lo avevano condotto fin lì, su quella sedia, in quella stanza, di nuovo a New York.

 

Coulson non gli aveva rivolto la parola nemmeno una volta durante il trasferimento. E l’ultimo stralcio che aveva intravisto di Natalia era stato all’atterraggio del volo; la stavano scortando da qualche parte, lontano da occhi indiscreti.

Cercò di nuovo di comprendere le motivazioni del proprio gesto, di trovare le parole adatte per spiegare formalmente la sua decisione, ma sebbene si sforzasse, nulla riusciva a smuoverlo dalla convinzione che avesse agito per puro istinto. A causa di una sensazione.

E valla a spiegare quella sensazione al capo. Vagli a raccontare che Natalia gli ricordava te stesso, anni prima.

Fury non si faceva incantare da storielle emotive. O da presentimenti insensati.

 

La porta si aprì nel momento stesso in cui la luce tornò a ferire i suoi occhi.

Fecero il loro trionfale ingresso il direttore Fury e l’agente Maria Hill.

Non gli era andata poi tanto male, si trovò a pensare con sarcasmo. Non v’era traccia di Coulson. Troppa grazia sperare che inviassero una delle poche persone con cui aveva reale confidenza all’interno dell’organizzazione. Sciocco anche solo sperarlo: sapeva come andavano le cose nell’ambiente. Il fatto che fossero proprio le due maggiori autorità dello SHIELD a presenziale al cordiale dialogo lo lanciò nello sconforto. Difficile però che fosse percepito.

 

“Agente Barton.” Esordì Fury, voce all’apparenza pacata, ma sguardo duro, severo, animato da qualcosa di indefinibile. Nemmeno il minimo cenno a mettersi comodo. Altro segnale negativo.

Cercò di smettere di farne la somma.

“Signore.” Fu la secca risposta, mentre si rimetteva in piedi.

“Stia comodo, Barton”, fu la voce della Hill ad interrompere l’idillio. “Abbiamo diverse cose da chiarire.”

Davvero? Pensavo fossimo qui per giocare all’impiccato.

Fece quello che gli era stato chiesto, senza una protesta. Un po’ in attesa d’impiccagione, però, ci si sentiva davvero.

“Violazione del protocollo, negligenza, insubordinazione, insufficienti spiegazioni riguardo l’impiego di mezzi specifici dello SHIELD…”, l’elenco sembrava piuttosto lungo. “Le prove sembrano essere sufficienti per assicurarle una sospensione immediata.”

Se quella era una minaccia la faccia della Hill la rendeva anche peggio.

“Per non parlare del sospetto di un presunto tradimento ai danni dello SHIELD, che si concretizza con la collaborazione del soggetto che le era stato ordinato di eliminare.”

Gli ci volle un enorme sforzo di volontà per non contraddire quell’ultima affermazione.
Tradimento. Il mal di stomaco non fece che aumentare.

Si concentrò sulla parola soggetto. Si sorprese a pensare che Natalia tutto era, fuorché un semplice soggetto.

“Dovrà fornirci spiegazioni molto più che convincenti per evitare l’espulsione dall’organizzazione o… il carcere.”

Se non altro la gelida Hill gli aveva presentato le opzioni su un vassoio, in bella vista. Nessun giro di parole o false promesse.

Sentiva su di sé l’opprimente sguardo di Fury e, probabilmente, quello spietato e meccanico delle telecamere.

Non era sicuro di avere il permesso di parlare e tacque finché la donna non riprese.

“Qualsiasi informazione possa esserci utile a chiarire questa spiacevole situazione sarà apprezzata.”

Spiacevole situazione? Apprezzata? Si stava rivolgendo a lui così come ci si rivolge al cospetto di un misero testimone oculare? Con la differenza che, nel suo caso, non ci sarebbe stato alcun rilascio con tanto di pacche sulle spalle.

Lanciò uno sguardo a Fury e si pentì di averlo fatto. Parlare ora, sarebbe stato ancor più arduo.

“Si limiti a raccontare i fatti.”

I fatti… già, quali erano i fatti?

Si schiarì la voce e cercò una sistemazione meno scomoda sulla sedia. Cercò un punto nella stanza che non lo costringesse a guardare i suoi castigatori, senza darne l’impressione e recuperò il contengo.

“Ero stato incaricato di raggiungere Lisbona, dopo la comunicazione che la Vedova Nera aveva cambiato destinazione”, cominciò. “Sono riuscito a individuarla rapidamente, a pedinarla. Studiavo le sue mosse per evitare di commettere errori. Mi è sembrata stanca e sospettosa, ho immaginato ci fosse qualcosa di molto più concreto di un depistaggio per un così repentino cambio di rotta.”

Inspirò a fondo, sentendo il peso di quella confessione incombere su di lui. Le conseguenze avrebbero potuto rivelarsi molto più che disastrose. Stava mettendo in gioco non solo la sua carriera, ma la sua redenzione, la sua esistenza.

“Ho temuto di esser stato scoperto, ma le mie sensazioni si sono concretizzate con l’arrivo di una squadra di uomini. Probabilmente emissari dello stesso mandante che aveva incaricato Natalia di rubare i piani di San Paolo.” Deglutì a fatica, sentiva la gola secca. “E’ stata attaccata da una quindicina di uomini, ho pensato che forse non sarebbe stato necessario il mio intervento ma la donna è riuscita a sbaragliarli tutti. Non senza conseguenze, ma ancora abbastanza in forze per recuperare una macchina e scappare a Sintra.”

La Hill non sembrava impressionata, Fury manteneva il suo silenzioso, freddo contegno.

“Mi sono lanciato all’inseguimento, pronto a concludere la missione. Ammetto di essere rimasto impressionato. Ero curioso. Erano anni che non mi capitava di osservare un soggetto tanto preparato al combattimento corpo a corpo che possedesse una tale dimestichezza con le armi. Questo ha rallentato le mie mosse.”

“Sta dicendo, agente Barton, che le ha risparmiato la vita solo perché è rimasto colpito dai suoi talenti?” intervenne la Hill, frenando il suo fiume di parole. “Sarebbe servito ricordarle che si trovava al cospetto di una ex spia, che offriva le sue prestazioni ai servizi segreti russi?”

Se voleva farlo passare per uno stupido… ci stava riuscendo alla perfezione.

“Non ho detto questo, agente.”

“E allora cosa? Cosa le ha dato l’idea di prendere l’iniziativa e trasgredire un compito che le era stato assegnato?”

Il ronzio che avvertiva alle orecchie non era sufficiente a fornirgli una risposta soddisfacente.

Sospirò qualcosa, sentendosi completamente sopraffatto dagli eventi.

“Nondimeno a imbarcarsi in una missione parallela che prevedeva il recupero dei file sottratti a San Paolo.”

“Se sta insinuando che le mie intenzioni erano quelli di agevolare Natalia Romanova nella realizzazione del suo lavoro…”

“Non sto insinuando niente, agente Barton. Sto chiedendo. Avanti allora, mi spieghi. Mi spieghi perché non ha portato a termine il suo compito, mi spieghi perché si è lasciato coinvolgere nel recupero di quei piani.”

Di nuovo quel mal di stomaco, quel sentore di nausea, quello schiacciante senso di colpa e quella paura. Rialzò inaspettatamente lo sguardo su Fury. Il suo unico occhio, un dardo puntato nella sua direzione. Divertente associazione per un arciere.

“Perché Natalia Romanova potrebbe essere un valido elemento al servizio dello SHIELD. Perché recuperare quei piani per poi riconsegnarli alla nostra organizzazione avrebbe potuto rappresentare il primo passo per dimostrare le sue intenzioni. Non si è sottratta alla mia proposta.”

“Oh, capisco, una ladra, un’assassina, un sassolino nello stivale degli Stati Uniti… considerato un valido elemento al servizio dello SHIELD”, si intromise la donna. Il suo tono era volutamente canzonatorio. “E non ha pensato, che il fatto di mettersi nelle sue mani sia stato solo un modo per liberarsi degli uomini che la braccavano? La certezza di poter quantomeno sopravvivere all’ombra della promessa dello SHIELD?”

Lanciò alla donna uno sguardo ostile: “Magari sì. Sebbene proprio lo SHIELD le abbia sguinzagliato dietro un sicario. Magari si è sentita messa alle strette. Magari ha trovato l’alternativa più succulenta di una facile morte. Quali che siano le motivazioni che l’hanno spinta a farlo, non sta a me giudicarle, quello dovete chiederlo a lei.”

La Hill, per la prima volta, apparve confusa.

“Posso rispondere per quello che riguarda me solo.” Incalzò. “Vuole sapere perché l’ho risparmiata? Per gli stessi motivi per cui lo SHIELD ha pensato che io stesso fossi un elemento abbastanza valido da correre il rischio. Perché a volte qualcuno ha bisogno che gli vengano offerte seconde possibilità.”

“Oh, per l’amor del cielo, non siamo un’associazione di beneficienza, agente Barton!”

“Non sto parlando di beneficienza, agente Hill. Sto parlando della possibilità di reintegrare una persona che ha già lavorato per i servizi segreti. Sto parlando di una persona che ora è allo sbaraglio e, a causa di alcuni evidenti errori, si è inimicata troppi pezzi grossi. Che non è al servizio di nessuno e che probabilmente è attaccata alla vita più di quanto pensiate se ha deciso di non spezzarmi il collo e rinunciare a cedervi quei files, frutto del suo lavoro.”

“Il suo datore di lavoro l’ha tradita. Quei progetti sarebbero comunque andati persi.”

“Quei progetti avrebbero potuto essere valida merce di scambio per altri acquirenti, altrettanto interessati allo sviluppo di armi di nuova generazione”, la zittì e poi prese fiato.

Era esausto e il mal di stomaco si era tramutato in un malessere diffuso che ora gli comprimeva anche le tempie in una morsa nauseabonda.

“Non intendo continuare a difendere Natalia Romanova. Avete abbastanza elementi per valutare quali siano state le mie di motivazioni. Il resto sta a voi.”

Maria Hill serrò le labbra in una smorfia severa.

Il diretto Nick Fury non aveva smesso un solo istante di guardarlo.

 

 

Collocazione sconosciuta
Base dello S.H.I.E.L.D.
Ora indefinita

 

La luce al neon continuava a tremolare sopra la sua testa. La stanza era piccola, soffitto scuro, falsi specchi su ogni parete, mura isolanti: fuori, lontano dal suo sguardo, fuori dalla portata dei suoi orecchi, il mondo dello SHIELD si muoveva.

Non sapeva quanto tempo fosse trascorso dalla brusca conclusione della missione improvvisata a Varsavia: le ore si erano confusamente susseguite le une alle altre. Era quasi del tutto certa che le avessero somministrato un leggero sedativo, probabilmente per prevenire una qualsiasi ritorsione azzardata, per impedirle di capire dove fossero diretti. La paura e l'ansia stavano facendo il resto: la stretta allo stomaco non accennava a lasciarla andare, mentre scenari più o meno catastrofici si delineavano davanti ai suoi occhi.

La consapevolezza che non l'avrebbero uccisa – le pareva improbabile che lo SHIELD avrebbe optato per giustiziarla quando ormai l'avevano in custodia – invece che consolarla, finì solo per agitarla di più: se toglierla di mezzo non era più un'opzione, le alternative rimaste erano solo tre. Una, tenerla prigioniera e lontana dal mondo per evitare che tornasse a crear loro problemi; due, riprogrammarla per renderla più adatta ai loro scopi e assicurarsi la sua cieca lealtà, prima di rimandarla sul campo; tre, fidarsi di lei a prescindere, valutare la sua affidabilità, offrirle un lavoro.

Più pensava alla seconda, più rapidamente il panico le serpeggiava in petto.

A peggiorare le cose c'era il pensiero dell'agente Barton – così l'aveva chiamato l'ometto in completo elegante – al quale, per quanto avesse potuto constatare, non era stato riservato nessun trattamento preferenziale. L'avevano portato via proprio come avevano fatto con lei, con la sola differenza che uno era un loro agente, l'altra una spia nemica.

Si sentì terribilmente stupida per aver dubitato di lui. Fino all'ultimo minuto, aveva preso in considerazione ogni eventualità, rifiutando con ostinazione la più semplice di tutte: Barton era sincero, aveva disobbedito agli ordini, le aveva offerto un lavoro senza il permesso dei suoi superiori, e adesso ne avrebbe pagato le conseguenze.

Non importava quante volte si ripetesse che non era colpa sua, che l’uomo aveva agito di testa sua, che non era stata lei a supplicarlo di risparmiarla... il senso di colpa era lì, e nemmeno tutta l'angoscia che provava in quell'istante riusciva a soffocarlo.

Trasalì impercettibilmente quando la porta della stanza si aprì, lasciando entrare l'uomo che li aveva intercettati a Varsavia. Visto da vicino, gli occhi cerchiati al posto degli occhiali da sole, sembrava ancora meno offensivo. Portava con sé un grosso fascicolo. Natalia si mosse nervosamente sulla sedia alla quale le avevano immobilizzato le gambe, i polsi ammanettati ad una sbarra fissata sul tavolo che le stava davanti.

L'uomo non disse niente: scostò la sedia libera dall'altra parte, ma rimase in piedi. Aprì il fascicolo, cominciò a tirarne fuori una foto dopo l'altra, disponendole ordinatamente sul tavolo. Fu chiaro ad entrambi che ce ne sarebbe voluto uno molto più grande per contenere tutti quegli scatti. Prese, allora, a sistemare le foto le une sulle altre, finché il fascicolo non fu svuotato. Solo quando ebbe finito, l'agente prese posto davanti a lei.

Per quanto si stesse impegnando a mantenere la solita facciata gelida, Natalia fu costretta a trattenere il respiro: davanti ai suoi occhi si stendeva un mare di rosso, un macabro collage fatto di sangue, pupille pallide, corpi rigidi. Le sue vittime.

“Si è tenuta occupata, signorina Romanova”, esordì, lo sguardo placido, il tono tranquillo, quasi amichevole. Credevano seriamente che mandarle un ometto dall'aria simpatica l'avrebbe resa più incline a parlare? Gli rivolse un'occhiata vacua, rifiutandosi di commentare. Pensavano di destabilizzarla, forse, mettendola faccia a faccia col grottesco frutto delle sue azioni? Nessuno conosceva e ricordava quelle facce meglio di lei. Nessuno.

“Sappiamo che è in possesso di capacità ben precise”, riprese l'uomo. Una ruga di disappunto gli si aprì sulla fronte, i tendini del collo si tesero, chiaro segno che ciò che stava per dire lo repelleva. “Ci chiedevamo se non avesse utilizzato queste capacità sull'agente Barton”, riuscì a formulare, senza smettere di guardarla negli occhi. Non era uno sguardo sfrontato, solo... fastidiosamente calmo e cortese. Il che, considerata la domanda che le aveva appena fatto, era piuttosto impressionante.

Natalia fu sul punto di ribattere che l'agente Barton era vivo e vegeto quando li avevano trovati a Varsavia, ma si interruppe prima ancora di poter aprire bocca: non era questo che volevano sapere. Le venne inspiegabilmente da ridere.

“Mi stai chiedendo se ho corrotto l'agente Barton col sesso?”, non nascose né la nota di derisione nella voce, né rinunciò al dargli del tu, giusto per mettere in chiaro cosa ne pensasse esattamente di quella ridicola situazione e degli equilibri di potere in atto. L'uomo si limitò a guardarla, confermando tacitamente i suoi sospetti. Si rifece seria, sforzandosi di non dare a vedere quanto agitata e preoccupata fosse realmente.

“Se l'avessi fatto”, pronunciò a voce bassa. “A quest'ora non sarei qui a parlare con te.”

Il sesso – e soprattutto la promessa di quello – era uno strumento potente: da quando si era lasciata alle spalle gli anni della Red Room, anni in cui non aveva avuto voce in capitolo riguardo alle tecniche da usare per raggiungere gli scopi prefissatele da altri, era riuscita a farne a meno. Non era contraria al suo uso, tutt'altro: il suo corpo, ogni sua parte, era un'arma. Ciascuna con una funzione precisa. Per Natalia non c'era molta differenza tra il prendere a calci un uomo, o ingannarne un altro con la promessa del proprio corpo. In entrambi i casi, però, pretendeva di fare le proprie scelte, assecondare le proprie intuizioni.

“Agente Phil Coulson”, rispose l'uomo. “E' il mio nome”, specificò a titolo informativo, sovrappensiero, come per farle capire che sapeva che non le sarebbe interessato, ma che ci teneva a farglielo sapere comunque.

Coulson riprese il fascicolo, adesso semivuoto, sfogliandolo distrattamente.

“La sua è una situazione piuttosto singolare, signorina Romanova”, confessò. “Se decidesse di collaborare, sono sicuro che migliorerebbe sensibilmente.” Fece una breve pausa. “Sia per lei che per l'agente Barton.”

L'espressione disinteressata di Natalia mutò impercettibilmente alla menzione di Barton. Che ne avevano fatto? E in quanti guai si trovava, esattamente? Le pareva impossibile che fossero tanto duri con uno dei loro, di un uomo di cui evidentemente si fidavano a tal punto da affidargli un compito tanto delicato.

“Il comportamento di Barton confonde tanto me quanto voi”, decise di dire, ricacciando indietro quel principio di preoccupazione che non faceva altro che aggravare il suo stato mentale, già terribilmente precario. Continuava a lanciare occhiate sospette alla porta, come aspettandosi che, da un momento all'altro, uno squadrone di camici bianchi sarebbe arrivato a portarla via per farle dimenticare chi fosse, per renderla un'altra. Di nuovo.

Quando tornò su Coulson, l'uomo la stava osservando con espressione curiosa, il che non fece altro che agitarla di più.

“L'agente Barton tende ad essere imprevedibile”, sembrò concordare con lei, rivolgendole un vago sorriso.

“Non è un problema mio, se non riuscite a controllare i vostri”, si sentì dire, inorridendo al principio di terrore che riusciva a sentire, chiaro e lampante, nella propria voce.

Coulson fissò il suo sguardo su di lei: più che uno che scavava per trovare ciò di cui aveva bisogno, sembrava il tipo che aspettava che la verità venisse fuori da sola, pazientemente, quando meno te l'aspettavi.

“Qual è stata l'ultima volta che qualcuno ha fatto qualcosa per lei, signorina Romanova?”

Natalia sentì il proprio cuore perdere un battito. Mosse rabbiosamente i polsi, riempiendo la stanza del tintinnio metallico delle manette fissate alla sbarra.

“L'agente Barton ha agito per sedare la propria coscienza, non per salvare la mia”, sibilò, contenendo a malapena il nervosismo. Non l'aveva fatto per lei. Non l'ha fatto per me, si ripeté quasi ossessivamente.

“Posso assicurarle che l'agente Barton è perfettamente in grado di mettere da parte la propria coscienza quando le circostanze lo richiedono”, insistette lui, con calma, come se la situazione non lo turbasse minimamente.

“Che cosa vorrebbe dire?”

“Che quello che ha fatto, l'ha fatto per lei.”

“Non ho bisogno che mi si faccia alcun favore”, stabilì, assumendo un tono petulante che la fece suonare pericolosamente come una bambina.

“La situazione attuale racconta una storia diversa, signorina Romanova.” La mise di fronte alla verità con assoluta padronanza di sé. La cosa cominciava a darle sinceramente sui nervi. “Se è arrivata fin qui è perché si è fidata dell'agente Barton.”

Natalia si mise a ridere. Una risata scomoda, piena di disagio, che si spense subito.

“Non esiste un solo uomo su questa terra di cui mi fidi”, sputò le parole con rabbia e risentimento.

Coulson fece una breve pausa, muovendosi appena contro lo schienale della sedia.

“Mi rendo conto che il suo trascorso dev’essere stato piuttosto difficile, signorina Romanova. La prego di credermi quando le dico che non la biasimo affatto.”

Stavolta strattonò le manette con una foga tale da far cigolare i bulloni con cui la sbarra era fissata al tavolo.

“Il mio passato non la riguarda affatto”, ribatté.

L'agente non parve particolarmente impressionato dallo scoppio di rabbia.

“Quanti anni ha, signorina Romanova?” le chiese invece.

“Ha importanza?”

“A dir la verità no, non ne ha. Le confesso che ero solo curioso.”

Gli rivolse un'occhiata perplessa, trovando sempre più difficile nascondere il proprio nervosismo. Non aiutava il fatto che l'uomo le paresse sincero.

Piombò il silenzio per un lunghissimo attimo, durante il quale Natalia osservava le proprie mani con ossessiva attenzione, e Coulson rifletteva, prendendo in considerazione qualcosa di non meglio specificato.

“Non è troppo tardi per cambiare vita. Non dev'essere per forza così.” Fu lui a parlare per primo, un cambiamento appena riconoscibile nel suo modo di parlare. “Lo so che fa paura, ma non è impossibile.”

“Non ho paura”, sentì se stessa ribattere con urgenza. Una menzogna talmente evidente da farle provare una vergogna infinita. Coulson sorrise.

“Sarebbe un assetto interessante al servizio dell'organizzazione, signorina Romanova. Il suo curriculum è impressionante. Il reintegro, però, non è possibile se lei non decide di collaborare.”

Reintegro, pensò, come un malato mentale che viene rispedito in società?

“Senza contare che la sua collaborazione, come le ho già detto, dimostrerebbe che l'agente Barton non si è sbagliato sul suo conto... che non si è lasciato guidare da motivazioni meno valide.” Inspirò a fondo, intrecciando le braccia al petto. “Mi fido ciecamente dell'agente Barton, e non sono il solo a farlo. Purtroppo, però, c'è anche gente che la pensa diversamente.”

Si sporse leggermente sul tavolo, verso di lei: “Mi aiuti a convincerli che si sbagliano. Mi aiuti ad aiutarla, signorina Romanova.”

Tutte quelle offerte di aiuto nel giro di pochi giorni, la confondevano e insospettivano fino a farla sprofondare nella paranoia più assoluta. Aveva sempre dovuto fare tutto da sola: la cieca obbedienza alla Red Room prima, il dover pensare a tutto quando aveva deciso di liberarsene, il peso e la pressione di un gioco troppo difficile da giocare da sola. Non c'era molto lavoro per una spia provetta a cui piaceva lavorare in proprio. Avrebbe avuto bisogno di soldi e aiuto, avrebbe avuto bisogno di un sostegno, avrebbe avuto bisogno di informatori, avrebbe avuto bisogno di cose drasticamente fuori dalla sua portata. E se non avesse fatto quello, allora che altro?

Si torturò il labbro inferiore fino a sentire il sapore del sangue. Restò in silenzio a tormentarsi con mille possibilità e una sola via d'uscita, finché non fu troppo.

“Va bene”, esalò a voce bassissima, esausta, inudibile. “Ma alle mie condizioni.”

L'agente Phil Coulson sorrise.

 

 

 

New York, USA
S.H.I.E.L.D. Central
Ora indefinita

 

La stanza che gli avevano affibbiato gli ricordava una cella. Le guardie all’esterno facevano da cornice alla sua perversa quanto profetica fantasia.

Non aveva la più pallida idea di quanto tempo fosse passato dall’interrogatorio e forse nemmeno lo voleva sapere. Si era sdraiato sulla branda in preda a una spossatezza che non lo accoglieva da tanto, ed era crollato in un sonno senza sogni.

Ora fissava il soffitto, cercando di impedirsi di ripercorrere tutte le tappe più o meno scomode del suo colloquio.

L’implacabile rigore della Hill, il silenzio critico di Fury e le parole che gli uscivano, una dopo l’altra senza che fosse totalmente padrone della conversazione.

Sospirò qualcosa, domandandosi che cosa ne sarebbe stato di lui. Per ora, la staticità asettica della camera gli pareva perfetta per descrivere la sua situazione.

 

Era già successo che si trovasse in una situazione del genere. Anni prima, dopo che lo SHIELD aveva deciso di testare le sue capacità, la sua tolleranza alle regole, il suo equilibrio mentale.

In attesa di una valutazione. Sotto suggerimento dell’agente dello SHIELD che lo aveva ripulito dalla bassezza in cui era precipitato e riportato di nuovo alla luce.

 

I suoi ricordi furono interrotti dal rumore del chiavistello. La maniglia che veniva abbassata, la porta che si apriva.

Rialzò pigramente la testa, ancora abbastanza stordito da non registrare immediatamente chi era venuto a disturbare il riposo del guerriero.

Coulson.

Si issò sui gomiti, e non seppe dire per quanto tempo rimasero a fissarsi l’un l’altro, prima che uno dei due si decidesse a interrompere quella spessa coltre di silenzio.

“Ti hanno strappato la lingua, Barton?” esordì all’improvviso Coulson, mentre la porta si richiudeva silenziosamente alle sue spalle.

“Non ancora”, Clint scoprì di avere la voce ancora impastata di sonno. “Fosse stato per la Hill sarei passato direttamente alla gogna.”

Coulson non sorrise, ma si avvicinò di un passo, sistemando gli occhiali da sole, che ancora stringeva in mano, nel taschino della giacca.

Il silenzio dell’uomo era forse peggio di qualsiasi tortura avessero in mente per lui.

“Non giudicherei così duramente i tuoi superiori”, rispose dopo un lungo attimo d’attesa.

Era venuto a fargli la predica o a dargli la notizia che avrebbe passato il resto dei suoi giorni fra le quattro mura di una cella?

 

“Sei stato scagionato dai principali capi d’accusa.”

Clint si trovò a rimettersi seduto e lanciare a Coulson uno sguardo incredulo.

“Chi… ?”

“Fury.” Fu la secca risposta. “Ha appoggiato la tua versione con tanta convinzione che il consiglio ha ceduto.”

Il mal di stomaco, la spossatezza, il groviglio spasmodico che gli attanagliava le membra sembrò sciogliersi, allentare la presa.

“Come… ?”

“Hanno creduto alle tue motivazioni.”

“E… Natalia?”

“E’ entrata nel programma di reintegro. Previo accertamento.”

“S-Stai scherzando?”

“Ti sembro uno che ha l’aria di scherzare?”

“Tu non hai… mai l’aria di uno che scherza, anche quando lo fa.” Si concesse la prima battuta.

“Questo è un colpo basso.”

Barton scorse il primo baluginio d’intesa dall’inizio della loro conversazione, e si concesse un sorriso esausto.

“Coulson…” doveva dire qualcosa, e possibilmente qualcosa che non fosse una mezza frase stordita dall’incredulità. “Mi…”

“No.” Venne bruscamente interrotto “Non voglio sentire niente che assomigli a delle scuse.”

“Ma devo. Ho approfittato della tua fiducia e…”

“E il risultato è stato più che soddisfacente.”

Clint non poté far altro che rivolgergli l’ennesima occhiata colpita.

“Ho rischiato di venire espulso. Arrestato. Avrebbero potuto accusarti di complicità.”

“Ma non è successo.”

“Ce la stai mettendo tutta per zittirmi.”

“Sarebbe anche ora. Siamo qui per svolgere il nostro lavoro, Barton. Tu non hai fatto altro che portare a termine il tuo. Non con le direttive imposte dallo SHIELD, ma lo hai fatto. Abbiamo portato a casa capra e cavoli senza morti sulla coscienza, recuperato forse una pecorella smarrita, mi spieghi di che cosa vuoi incolparti ora?”

Clint ci mise un po’ troppo a rispondere ma alla fine lo fece: “Di nulla.”

“Bene”, concesse Coulson. Per la prima volta dal suo ingresso, anche lui apparve stanco. Clint era convinto che non solo Fury si fosse schierato a suo favore, in quella faccenda. “Sei libero di andare adesso. Ti hanno concesso tre settimane di congedo, c’è bisogno che gli animi si plachino allo SHIELD e che tu recuperi forze e lucidità mentale.”

Clint si rimise stancamente in piedi, recuperò la giacca, abbandonata sull’unica sedia della stanza e fece per seguire Coulson.

“Ehi Phil…”, l’uomo si voltò un po’ sorpreso da quell’attimo di improvvisa familiarità “Grazie.”

Gli lanciò uno sguardo interrogativo.

“E di cosa?”

“Per essere stato un buon maestro.”

 

 

 

 

 

~~~~~~~~~

 

 

**NEL PROSSIMO CAPITOLO**

 

Dagli stralci di conversazioni che aveva colto durante quel mese trascorso allo SHIELD Central, Natasha aveva capito che la maggior parte degli agenti credeva che fosse arrivata fin lì semplicemente perché aveva sedotto, ammaliato e manipolato l'agente Barton, con grande sorpresa e delusione dei sostenitori di lui: come poteva un agente tanto competente essersi lasciato giocare così da una ragazzina?

 

**

 

Ti diverti a spaventare le matricole?” l’arrivo di Coulson gli strappò un sorriso.

Non ho potuto farlo al liceo...”

Non starli ad ascoltare.”

 

**

 

Credo che tu gli piaccia”, riprese lui, girando il suo caffè con una lunga palettina di legno. “A Fury, intendo. Avete entrambi questo sguardo un po'...” Provò a mostrarle che razza di espressione avesse in mente. Fallì miseramente. “Solo che lui ha un occhio solo.”

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Ma sia quel che sia, quelli che tra noi l'hanno scampata hanno l'obbligo di ricominciare a costruire, insegnare agli altri ciò che sappiamo, e tentare, con quel che rimane delle nostre vite, di cercare la bontà e un significato in quest'esistenza.
(dal film “Platoon”)

 

6 SETTIMANE DOPO
New York City, USA
S.H.I.E.L.D. Central

Ore 17:34

 

Avrebbe volentieri evitato di farsi un giro nella palestra a quell'ora del pomeriggio – aveva imparato che era particolarmente affollata in tarda mattinata e subito dopo le 14:00 – ma la stanzetta che le avevano assegnato, nei dormitori temporanei della base operativa, cominciava ad andarle decisamente troppo stretta, quasi claustrofobica.

 

Evitava di restarsene chiusa lì dentro se non per dormire. Tutto sommato, però, considerata la cella in cui aveva trascorso le sue prime due settimane allo SHIELD, non le sembrava proprio il caso di lamentarsi. Il bagno era piccolo ma pulito, il letto stretto ma comodo: aveva passato notti in luoghi e condizioni ben peggiori di quella. Certo, sapeva di essere spiata ventiquattr'ore su ventiquattro, che agenti dell'organizzazione studiavano il suo comportamento giorno e notte, prendendo freneticamente appunti da mostrare ai superiori il giorno successivo. Non era stato semplice, ma ci aveva fatto l'abitudine.

 

Prima del trasferimento a New York, era stata sottoposta ad un check-up completo e a svariati esami medici non invasivi, l'unica concessione che aveva fatto in materia. L'angoscia non l'aveva lasciata finché non le fu comunicato che avrebbe presto scambiato quell'asettica cella per una sistemazione più confortevole. Non ci aveva creduto del tutto finché una squadra di sei agenti non era arrivata a prelevarla con un nuovo cambio d'abiti e una mappa dello SHIELD Central per aiutarla ad ambientarsi.

 

Da lì in poi, i giorni erano trascorsi senza che quasi se ne accorgesse. Quasi tutte le sue energie sprecate nel convincersi a smetterla di essere paranoica. Operazione che le era risultata via via meno complicata, alcuni giorni migliori di altri. Ad un certo punto della quarta settimana riuscì a dormire otto ore consecutive: a parte la fastidiosa sensazione di smarrimento che la colse al risveglio, la considerò niente di meno che una conquista.

 

Con New York erano cominciati anche i test fisici, della memoria e delle abilità con le armi, nessuno dei quali costituì un ostacolo degno di questo nome. Non era sicura di cavarsela altrettanto bene con quelli psicologici: per quanto avesse cercato di aggirarli, lo SHIELD era stato irremovibile. L'avevano condotta nell'elegante studio di una psicologa dell'organizzazione, all'ultimo piano dell'enorme edificio; un mare di beige e pannelli di legno lucido, disegni ad inchiostro incorniciati e appesi su ogni parete. Pretenziosa, fu la prima parola che le venne in mente quando incontrò la donna. Avevano cominciato con un semplice – o così le venne presentato – test di associazione di parole che l'aveva lasciata estremamente perplessa.

 

Le dirò una parola, lei mi dovrà rispondere con la prima che le viene in mente. Va bene? Lo prenderò per un sì. Cominciamo. Festa.”

Vestito.”

Russia.” “Ermitage.” “Vedova Nera.” “Ragno.” “Pistola.” “Arma.” “Sangue.” “Rosso.” “Omicidio.” “Lavoro.” “Cielo.” “Grigio.” “Famiglia.” “No.” “Occhio di Falco.” “Chi?”

 

Non aveva potuto sottrarsi alle tre sedute di terapia alla settimana che lo SHIELD aveva imposto. Inizialmente si era rifiutata di parlare ma, in seguito, aveva deciso che ascoltare i sermoni della dottoressa sui benefici di quegli incontri, era mille volte peggio che raccontarle quello che voleva sentirsi dire. Fece quello che le riusciva meglio: mentì per tre ore la settimana, illustrando eventi mai accaduti, esponendo di sogni che non aveva mai fatto, facendo il resoconto di incontri inventati. La terapista sapeva che non si trattava d'altro che di menzogne (e Natasha sapeva che lei sapeva), ma ascoltava diligentemente e scribacchiava sul suo blocco, azzardando qualche domanda di tanto in tanto.

 

Le piace come la fa sentire, uccidere?”

Chiunque le abbia detto il contrario mentiva.”

Perché? Com'è che la fa sentire?”

Reale.”

 

Tutte le volte che lasciava la sua stanza, due agenti la seguivano ovunque andasse. Le sue ombre. Non era del tutto sicura che lo SHIELD si rendesse conto che, se davvero avesse voluto andarsene, quei due non avrebbero potuto fare granché per impedirglielo. Ogni tanto le rivolgevano la parola, ma non rispondeva mai se non per qualche osservazione sarcastica o insulto in una lingua a scelta, a seconda di come le girava la giornata.

 

Se non era diretta dalla dottoressa, le capitava di andare in palestra ad allenarsi, di fare un salto alla mensa per recuperare pasti che consumava da sola nella sua stanza, o a riunioni su missioni in corso con persone e organizzazioni con cui Natasha aveva avuto a che fare in passato. Sedeva attorno al grosso tavolo, sosteneva gli sguardi dei presenti, dava loro informazioni che – lo sapeva bene – avrebbero controllato e ricontrollato almeno cinque volte prima di prenderle per buone.

 

Le interazioni con il personale e gli altri agenti erano ridotte al minimo. Nonostante tutto, però, conosceva tutti i nomi e tutte le facce. Ascoltava le loro conversazioni, ignorava i commenti fatti sotto voce sul suo conto, pretendeva di non essersi accorta delle occhiatacce che le lanciavano quando passava per i corridoi con una pila di libri sottobraccio e i suoi cani da guardia alle calcagna.

 

Solo qualche giorno prima l'agente Phil Coulson era andato a prenderla per un incontro con il Direttore Nick Fury, durante il quale, quest'ultimo, si era limitato a squadrarla per circa un'ora, mentre Coulson faceva il resto, congratulandosi per gli eccezionali risultati dei test fisici, ringraziandola per la collaborazione dimostrata e sorprendendola con un commento su presunte doti narrative che aveva scoperto leggendo le trascrizioni delle sue sedute di terapia.

Immaginò che il pericolo di essere presa per una pazza instabile fosse scampato, ma – come al solito – si impedì di concedersi anche il più cauto degli ottimismi. Coulson le aveva, infine, annunciato che c'era bisogno di lei in una stanza al terzo piano interrato – questione di pochi minuti, aveva promesso – al che Fury, che era rimasto in silenzio e in piedi per tutto il tempo, guardando il panorama di cui si godeva dall'ampia finestra del suo ufficio, senza guardarla aveva detto: “Non me ne faccia pentire”.

 

Nonostante l'aspetto inquietante, il direttore le piaceva. Le dava un senso di stabilità, ordine e dovere, e – soprattutto – non si dilungava in discorsi inutili, qualità che Natasha apprezzava sopra ogni altra.

 

L'incontro ai piani sotterranei si era rivelato una specie di seduta sartoriale. Le presero le misure (altezza, girovita, fianchi, seno, lunghezza delle braccia e delle gambe, numero di piede) e la rispedirono alla sua stanza.

A meno che non le stessero costruendo la bara perfetta, decise che non doveva essere nei guai.

 

Occupava il tempo libero leggendo, dormendo o allenandosi in palestra. Palestra ancora troppo affollata per i suoi gusti. Aveva provato a prender sonno dopo aver finito il quindicesimo libro in un mese e mezzo – Belli e dannati di Fitzgerald – ma aveva rinunciato dopo essere sprofondata nuovamente in assurde meditazioni che non la portavano da nessuna parte. Non aveva bisogno di pensare, aveva bisogno di fare.

Gli occupanti della palestra si erano tutti voltati verso di lei quando aveva fatto il suo ingresso: Natasha li aveva ignorati come meglio poteva. Ciò di cui necessitava era mettere in moto i muscoli, far lavorare braccia, gambe, impedire alla sua testa di divagare; se avevano voglia di starla a guardare, che si accomodassero pure. Magari avrebbero imparato qualcosa di nuovo.

Si era bendata accuratamente le mani, e aveva scaricato i suoi pugni e la sua frustrazione sul primo saccone libero che aveva individuato. Inutili erano stati i tentativi di colpirlo con più forza per coprire le chiacchiere di un gruppetto di agenti assiepati attorno al ring al centro della stanza. Si sentiva i loro sguardi addosso e sapeva fin troppo bene che le risatine e le occhiate che si scambiavano erano tutti rivolti a lei.

 

Dagli stralci di conversazioni che aveva colto durante quel mese trascorso allo SHIELD Central, Natasha aveva capito che la maggior parte degli agenti credeva che fosse arrivata fin lì semplicemente perché aveva sedotto, ammaliato e manipolato l'agente Barton, con grande sorpresa e delusione dei sostenitori di lui: come poteva un agente tanto competente essersi lasciato giocare così da una ragazzina? Lo sgomento si estendeva anche ai danni del Direttore Fury: perché non la lanciavano in una cella super sicura nella loro base in Alaska, magari dopo aver buttato la chiave nell'oceano?

Altri erano convinti che il suo aspetto avesse ingannato i loro superiori al punto da decidere di risparmiarla contro ogni buon senso. E se fosse stata ancora in contatto coi servizi segreti russi? E se li avesse uccisi tutti nel sonno? E se fosse riuscita ad infilarsi nel letto di tutti gli agenti maschi che vivevano alla base? Non si chiamava Vedova Nera per niente! E se tutti i suoi successi lavorativi fossero dovuti ad aiuti esterni? Se si fosse rivelata per quello che era, cioè un’incompetente? Sentì qualcuno suggerire di insegnarle a usare la macchinetta del caffè: male che andasse, avrebbe potuto servire la colazione durante i briefing del mattino.

 

Hai sentito? Gira voce che l'agente Barton sia stato mandato in missione in Colombia perché quei due non riuscivano a togliersi le mani di dosso.”

L'agente Coulson ha chiesto a Fury di tenerlo occupato per i prossimi sei mesi.”

Magari Fury, d'ora in avanti, ha intenzione di liberarsi dei suoi nemici in camera da letto.”

Dicono che le abbiano cambiato nome per non alienare i capi del consigli, per farla suonare meno russa.”

Possibile che la Guerra Fredda non ci abbia insegnato niente?”

 

Quel genere di chiacchiere, di solito, più che infastidirla, la divertivano. Ma non quel giorno.

Colpì il saccone con un calcio tanto forte da far saltare il gancio che lo teneva appeso al soffitto. Il capogruppo si fece avanti, cogliendo al volo l'occasione per tormentarla un po'.

“Ehi, Anastasia, hai intenzione di sistemarlo quello?”

Natasha si allontanò di qualche passo dalla sua inanimata vittima, passandosi il dorso della mano sulla fronte umida. Gli rivolse uno dei suoi sorrisi canzonatori e un'occhiata divertita.

“Perché non provi a chiedermelo per favore?”

L'uomo, alto, ampio di spalle, capelli scuri e mascella squadrata, si mise a ridere – i suoi amici, tre uomini e una donna, fecero altrettanto – prima di avvicinarla a sua volta con aria sfacciata.

“Non ti sembra che ti abbiano fatto già abbastanza favori, principessina?”

“Hai ragione. Magari è il momento che cominci a restituirli.”

“Scommetto che concedere favori è il tuo forte.”

“Oh, non sai nemmeno quanto”, aveva sorriso ancora più ampiamente. “Perché non lasci che ti mostri esattamente cosa so fare?”

L'agente si voltò verso i compagni, con lo sguardo di chi ha appena conquistato il primo posto con il minimo sforzo e una sana dose d'astuzia. Gli tornarono indietro occhiate ammirate dai ragazzi, mentre l'unica donna stava già guardando altrove, i segni della gelosia chiari come il sole sul suo viso, nella sua postura.

“Mi dispiace, Anastasia, io non picchio le donne”, si scusò infine con una scrollata di spalle.

“Wow, un gentiluomo tra noi”, commentò sarcasticamente, avvicinandolo ancora di qualche passo, con nonchalance, senza smettere di fissarlo negli occhi, ipnotizzandolo senza che lui nemmeno se ne accorgesse. “Sfortunatamente per te, Big Jim, io adoro picchiare gli stronzi.”

Il primo pugno lo colpì in pieno viso, il secondo nello stomaco, la ginocchiata tra le gambe, poi lo mandò definitivamente al tappeto. Non ebbe il tempo di pensare, che la donna vicino al ring le si scagliò contro, bellicosa, subito seguita dai tre compagni.

Il resto dei presenti si fermò ad osservare.


New York, USA
S.H.I.E.L.D. Central

Ore 17.40

 

Gli erano state sufficienti sei settimane per dimenticare quanto fosse terribile il caffè offerto dallo SHIELD. Un’organizzazione di gran fama, ma che non sapeva procurarsi una buona marca di espresso. Ci aggiunse almeno un paio di dosi di panna, prima di decidere che non avrebbe potuto migliorarlo ancora.

 

L’accoglienza, quel pomeriggio, non era stata esattamente una delle più calorose. Non che si aspettasse qualcosa di meglio. Immaginò che la voce della sua bravata si fosse già ampiamente diffusa. Lo SHIELD era come una piccola comunità, le notizie scivolavano di bocca in bocca e prendevano pieghe inaspettate a volte fastidiose, tutt’altro che attendibili. Perciò non si era stupito di ricevere occhiate che andavano dal curioso, all’ostile, e di rispondere a timidi saluti a volte appena abbozzati.

La gente era strana: tanto rapida a metterti su un piedistallo quanto a spingerti di sotto, per vederti precipitare impietosamente.

Clint non aveva mai chiesto di salirci e nemmeno si considerava una persona di grande popolarità all’interno dell’organizzazione. Non era di gran compagnia, quando si trattava di rapporti fra colleghi, ma negli anni aveva acquisito un solido rispetto, e si era sorpreso di suscitare un timore quasi reverenziale fra le nuove leve.

Il clima però non lo turbò, né lo fece precipitare in qualche sorta di ridicola paranoia. Aveva sul groppone diversi documenti da esaminare e un numero ancor più spaventoso di rapporti da redigere, per potersi preoccupare delle voci di corridoio.

 

Dopo le tre settimane di congedo, che gli avevano permesso di riallacciare i rapporti con i vicini di casa e i singolari personaggi del suo quartiere (Ehi, Colin, sei tornato!), aveva accettato di collaborare con l’ufficio personale per esame e reclutamento di alcuni soggetti da integrare nel nuovo organico.

Sapeva di non essere stato scelto grazie a particolari referenze per quel compito, ma ci vedeva lo zampino di Coulson in quella trama. Doveva aver deciso che gli sarebbe servito ancora del tempo, e un incarico che gli tenesse impegnata la mente e lo allontanasse ancora per un po’ dai polveroni pettegoli dello SHIELD.

Clint non sentiva la necessità di venir protetto, ma lo lasciò fare. E poi non gli era spiaciuto cambiare aria. La burocrazia però lo schiacciava. Non si era reso conto di quanta ne avrebbe dovuta smaltire, finché quel pomeriggio, l’agente Smith, non gli aveva sganciato sulla scrivania una quantità improponibile di cartellette cariche di documenti.

“Buon lavoro”, lo aveva schernito, prima di uscire dall’ufficio con un ghigno. Clint gli aveva lanciato in testa una gomma.

Era stato allora che aveva deciso che proprio non avrebbe potuto cominciare il lavoro, se non si fosse concesso un po’ di sana caffeina.

 

Avvertì però, per una volta di troppo, sguardi insistenti alle sue spalle.

“Cos’è, mi è improvvisamente cresciuta la gobba?” commentò, senza nemmeno voltarsi, sentendo i bisbigli sedarsi all’istante. Non era tanto quello che avevano da dire su di lui, ma il fatto che gli ronzassero attorno come fastidiose zanzare a dargli sui nervi.

“N-no, eravamo solo stupiti di trovarla qui, signore. Ci avevano d-detto che era in missione.” Si sentì rispondere, forse per non dare l’impressione sbagliata.

Clint si voltò, sorseggiando il suo pessimo caffè. Magari era arrivato il momento di chiarire qualche punto.

“Se così volete chiamarla…”, iniziò, lanciando loro sguardi ambigui. Non era che un gruppo di dipendenti ancora troppo giovani per aver imparato l’arte dell’imparzialità. “Ci saranno tagli al personale, sapete. Non so se ne siete stati informati. La riesamina di qualche curriculum, accertamenti lavorativi.” Lasciò la frase in sospeso, aspettando che attecchisse. “Il pettegolezzo non credo sia un punto a favore della produttività.”

Vide un’ombra di dubbio vagare nei loro sguardi.

“Potrei avere i vostri nomi, signori?”

“E-eravamo qui solo per prendere un caffè.” Sentì balbettare quello che sembrava il meno giovane della combriccola.

Clint fece schioccare la lingua con aria contraria: “Non credo sia una buona idea”, lasciò intendere qualcos’altro. “E’ pessimo”.

Li guardò sciamare lontano, investito da una mielosa soddisfazione. Quando tornò assaggiare la sua bevanda, per poco non sputò per brusco contrasto.

“Ti diverti a spaventare le matricole?” l’arrivo di Coulson gli strappò un sorriso.

“Non ho potuto farlo al liceo...”

“Non starli ad ascoltare.”

“Non lo faccio, ma è un po’ difficile non accorgersene. Dovrei averli smorzati per un po’.”

Coulson parve capire, ma non insistette. Al contrario si versò una generosa tazza di caffè.

“Mi hanno detto che hai un bel po’ di lavoro da digerire…” lo sentì dire, prima di rendersi conto che c’era un po’ troppo movimento nei corridoi.

“Coulson…”, lo richiamò all’attenzione, prima di intuire, fra le chiacchiere concitate, che sembrava esserci in atto uno scontro in palestra.

I due si scambiarono un rapido sguardo, prima di abbandonare la postazione e seguire i gruppetti di curiosi che si stavano spostando in quella direzione.

 

Fuori dalla palestra si era già assiepato un discreto capannello di persone. Coulson dovette sgomitare per farsi strada e lanciare sguardi severi che suggerissero la ritirata.

Quando l’invasione fu in parte dissipata anche Clint poté dare un’occhiata, ma quello che vide più che sorprenderlo, lo divertì: un quartetto di ragazzoni delle truppe speciali dello SHIELD era steso al suolo, in condizioni tutt’altro che rassicuranti. Mentre due donne si stavano amorevolmente scannando ai piedi del ring.

Non fece fatica a riconoscere Natasha in uno dei due avversari. E nemmeno si sorprese della sua indubbia condizione di superiorità. A parte qualche scomposto ciuffo di capelli, la donna non sembrava aver risentito granché dello scontro. L’altra, sudata e ansante, costretta in un angolo, la guardava come un animale braccato, spacciato.

“Che sta succedendo qui?” la voce di Coulson a sciogliere quel conflittuale idillio. “Che significa? A meno che non abbiate spiegazioni soddisfacenti per questo, mi vedrò costretto a prendere seri provvedimenti disciplinari.”

Sul volto della giovane agente dello SHIELD si verificò il panico, in quello di Natasha, solo una punta di fastidio. Come se l’interruzione del combattimento fosse arrivata assolutamente inopportuna.

Visto che nessuno parlava, allora lo fece lei: “Un allenamento che ci è solo un po’ sfuggito di mano.”

Coulson la squadrò, valutandone la sincerità. Non ci mise poi molto a concederle il beneficio del dubbio. O forse intuendo, fra le righe, quale fosse la verità.

Lanciò al resto del gruppo uno sguardo severo. Cosa che non sfuggì a nessuno di loro. Abbassarono gli occhi colpevoli, senza dire una parola.

“Direi che per oggi vi siete sfogati abbastanza allora.” Decretò, guardandoli raccogliere stancamente le proprie carcasse e prendere l’uscita.
Clint non poté fare a meno di notare come fossero diversi gli sguardi che ora rivolgevano alla donna. Confusione sicuro, e una punta di… gratitudine?

L’agente Coulson lanciò uno sguardo a Natasha che stava bruscamente sciogliendo le bende alle mani e tornò sui suoi passi, affiancando Clint alla porta. Non disse assolutamente nulla, ma capì che gli stava suggerendo che se mai avesse cercato un’occasione per parlare con la donna, dopo gli ultimi avvenimenti, quella sarebbe stata la volta buona.

Non ebbe tempo né voglia di ribattere qualsiasi cosa, che Coulson fu andato.

E dal pizzicore che avvertiva alla nuca, improvvisamente fu certo che Natasha lo stava guardando.

 

Si fece avanti, solo dopo un misero attimo di tentennamento. Non si era forse chiesto in continuazione come se la stessa passando?

Valutando la situazione e l’aspetto, avrebbe detto: straordinariamente.

“Mi avevano detto che eri costretta a indossare una maschera alla Hannibal Lecter.” Esordì. Non uno dei migliori approcci ma era l’unico modo in cui si sentiva di rompere il ghiaccio.

“E a me avevano detto che avevi deciso di astenerti dal parlare di cose insensate”, la sentì ribattere, mentre recuperava un asciugano fra quelli ordinatamente sistemati su una delle panche. “Evidentemente dicevano sciocchezze in entrambi i casi.”

Si sorprese a sorridere. Se non altro, non erano riusciti a spezzare il suo pungente sarcasmo.

“Già. Ne girano di stupidaggini, di questi tempi.” Alluse.

“Te ne curi?”

“Giusto il tempo di un caffè.”

“Quello qui fa schifo.”

“Touché.”

La vide voltarsi e rivolgergli improvvisamente tutta la sua attenzione, solo la maglia inumidita dal sudore ad indicare le sue recenti fatiche.

“A quanto pare non mentivi.” Decretò composta, senza dare l’idea di essere particolarmente colpita dalla rivelazione.

“Mentire è uno spreco di energie.” Le rispose placidamente.

“Mentire può scoprirsi fondamentale in un lavoro come il nostro.”

“Tu non eri più un mio lavoro.”

Vide, nel suo sguardo - per un attimo certo, ma lo vide - un guizzo di consapevolezza. Una lieve tensione nei muscoli del collo a suggerirgli che l’aveva disorientata, sorpresa.

“Spiegami perché.” Gli chiese allora, la voce vagamente più mansueta. Riusciva ad intuire il resto della domanda. La tacita confusione di chi non comprende perché mettere a rischio una carriera, un’esistenza, per una perfetta sconosciuta.

“Ho visto che avevi paura.”

La sentì sbuffare una risata: “Stronzate.”

“Dici? Riesci a dormire la notte, ora?”

Di nuovo quel guizzo disorientato.

“E tu ci riesci?” non si scompose a sentirsi rispondere con un’altra domanda.

“Da qualche anno come un bambino.”

“I letti dello SHIELD sono comodi.”

“Certo, e i muri sono rassicuranti.”

“Non le persone.”

“Alcune sì…”

Su questo Natasha non aveva avuto niente da ribattere.

 

New York, USA

Ore 18:10


Oltre la vetrata della tavola calda, le sue due ombre si stavano guardando freneticamente attorno, tornando continuamente su di lei a più riprese, le mani in tasca, la fronte coperta da un leggero strato di sudore.

 

“Fury deve aver promesso di staccar loro le palle se qualcosa va storto.”

Natasha si voltò verso l'agente Barton che, sedutole di fronte, come intuendo i suoi pensieri, aveva parlato. Lo guardò armeggiare col suo caffè, la scusa con cui era riuscito a convincere i suoi due carcerieri a permetterle di uscire dallo SHIELD Center per la prima volta da quando era arrivata a New York.

“Fury ha l'aria di esserne capace”, commentò in risposta, lanciando un'occhiata critica alla tazza piena di liquido scuro che la cameriera le aveva messo davanti, ma non prima d'averla squadrata per bene. Qualcosa le diceva che quella, per lui, era una meta abituale... non altrettanto per le sue presunte accompagnatrici, a giudicare dallo sguardo allarmato che Betsy – o così diceva la targhetta appuntata sulla sua divisa – aveva rivolto nella loro direzione quando avevano fatto il loro ingresso nel locale.

“Non sai nemmeno quanto”, confermò Barton con una risata repressa nella voce.

“Se ci metti altra panna, là dentro, corri il rischio di veder scritto 'colesterolo' tra le tue cause di morte”, non riuscì a trattenersi dal dire, vedendolo arraffare l'ennesima micro-confezione dal cestino sistemato al centro del tavolo.

L'uomo rialzò uno sguardo perplesso su di lei, evidentemente poco preoccupato della prospettiva: “Fai la dietologa nel tempo libero?”

Natasha ribatté con un'occhiata che si sarebbe potuta tradurre in: Fa' un po' come ti pare.

“Credo che tu gli piaccia”, riprese lui, girando il suo caffè con una lunga palettina di legno. “A Fury, intendo. Avete entrambi questo sguardo un po'...” Provò a mostrarle che razza di espressione avesse in mente. Fallì miseramente. “Solo che lui ha un occhio solo.”

“Sei molto perspicace. Sono ufficialmente impressionata.” Il suo tono era asettico, monocorde, un sopracciglio alzato con aria interrogativa.

“Comincio a chiedermi se tu sia mai stata impressionata in vita tua. Sul serio, intendo”, alluse in tono canzonatorio, come a sminuire il peso della sua risposta.

“Non capita spesso... ma capita”, gli concesse.

“Potresti cominciare assaggiando quel caffè. Ti porto a bere il miglior caffè americano di New York, e non accenni neanche a volerlo provare?” Indicò la sua tazza ancora intatta.

“Non bevo caffè.”

“Stai scherzando.”

Le bastò un'occhiata per fargli capire che, no, non scherzava affatto. Barton si agitò sulla panca, attirando l'attenzione di Betsy che non smetteva di guardare nella loro direzione.

“Ehi, Bess!” la richiamò. “Ti dispiace portare un...” si voltò verso Natasha, una tacita domanda negli occhi.

“Tè.”

L'uomo parve avere un rigetto solo a sentirne pronunciare il nome, ma non disse niente. “... un tè per la Regina dei Ghiacci?”

La cameriera annuì con aria riluttante e Natasha si chiese se non le avrebbe sputato nella tazza, tanto per gradire. Non era neppure sicura che Barton si fosse accorto della cotta che la ragazza – minuta, bionda, esile – sembrava avere per lui.

“Dovresti pensare a metterlo nel curriculum”, le suggerì.

“Ho già un nome in codice di dubbio gusto.”

“Giusto... sei stata tu a sceglierlo o... ?”

“E tu?”, rilanciò lei. “Sei stato tu a scegliere il tuo?”

Ci aveva messo un po' a capire chi diavolo fosse quell'Occhio di Falco di cui tutti andavano parlando. Inizialmente pensava si trattasse di un dolce, poi di una canzone: in entrambi i casi aveva scoperto di avere torto.

“Va bene, va bene. Ho capito l'antifona.”

Betsy tornò col suo tè e un sorriso imbarazzato in direzione di Barton. Per essere uno che osservava la gente per lavoro, non le sembrava che fosse molto sveglio. Magari i suoi talenti si rivelavano solo da una certa distanza. Magari era metaforicamente presbite. Magari lo era davvero.

“Hai visto? Stai distruggendo la mia reputazione. Sembra che una ragazzina mi stia facendo verbalmente a pezzi.” Le fece notare, fintamente compito.

“Non sono una ragazzina”, fu la pronta risposta, mentre zuccherava il suo tè.

“Non so nemmeno quanti anni hai.”

“Neanche io.”

Evitò di guardarlo, ma si sentì addosso il suo sguardo comunque. Si chiese se si fosse accorto che non stava scherzando. Rimasero in silenzio per un paio di scomodi istanti durante i quali Natasha prese in seria considerazione la possibilità di farsi portare via dai suoi cani da guardia.

“Ti hanno già detto quando ti daranno il via libera per le missioni sul campo?”

Natasha scosse il capo. Aveva la netta sensazione che quella era una conquista che avrebbe dovuto sudare per ottenere.

“Parlerò con Fury”, suggerì allora lui.

“No.” Il monosillabo le sfuggì di bocca con decisione tale da sorprendere persino se stessa. “No, non parlare con Fury.” Aggiunse in tono meno ostile, evitando di nuovo di guardarlo.

 

Percepì una risposta sospesa nell'aria, ma un attimo dopo un bussare alla vetrata arrivò a distrarre entrambi. Natasha riconobbe una delle sue ombre, sempre più pallida ed agitata. Indicò nervosamente all'orologio che aveva al polso, come a dirle di darsi una mossa.

“Devo andare”, annunciò allora, rimettendosi in piedi. Accennò alle due bevande a malapena toccate. “Dovresti offrirne una a Betsy.”

Se aveva capito, Barton non lo diede a vedere.

Natasha tirò fuori una banconota da venti dollari, poggiandola sul tavolo: “Lasciale la mancia”, aggiunse, scivolando tra la panca e il tavolo per rimettersi in piedi.

 

Fece per andarsene e basta, ma - per quanto s'impegnasse per convincersi che non gli doveva proprio niente, che tutto quello che aveva fatto l'aveva fatto di testa sua - qualcosa la tenne bloccata lì. Una parte di lei avrebbe voluto ringraziarlo, un'altra voleva dirgli di farsi gli affari suoi, un'altra ancora assicurargli che non aveva bisogno di nessun aiuto, che non ne aveva mai avuto.

Nessuna delle tre ebbe la meglio.

“Non so ancora il tuo nome”, disse invece, un'espressione indecifrabile dipinta sul volto.

L'uomo parve sorpreso, ma non si scompose più di tanto.

“Clint. Clint Barton.”

Natasha annuì, come a prenderne atto.

“Natasha Romanoff”, dichiarò in risposta, prima di scrollare leggermente le spalle. “Per adesso, almeno.” Ci tenne ad aggiungere.

Non che avesse una qualche importanza... non era neppure sicura che Natalia fosse il suo vero nome.

Si trattenne ancora per qualche istante, quel tanto che le bastò per rendersi conto di non ricordare quando fosse stata l'ultima volta che aveva salutato qualcuno che avrebbe rivisto.

“Allora... ci vediamo in giro, Barton.”

Clint abbozzò un sorriso.

“Ci vediamo in giro... Regina dei Ghiacci.”

Mentre se ne andava, Natasha alzò gli occhi al soffitto con una velocità tale da procurarsi un fulmineo mal di testa.




Note:

Il passo sul test di associazione di parole si ispira ad una scena del film Skyfall.

 

~~~~~~~~~

Arrivederci al prossimo capitolo per l'epilogo della storia... :)

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Capitolo 10
*** Epilogo ***


Still this pulsing night, a plague I call a heartbeat

Just be still with me, ya wouldn't believe what I've been thru

You've been so long, well it's been so long

And I've been putting out fire with gasoline.

(Cat People (Putting Out The Fire) – David Bowie)

 

 

5 MESI DOPO
New York, USA
S.H.I.E.L.D. Central
Ore 6:00

 

“Di' la verità, ti sei messa nei guai”, Clint nemmeno guardava in direzione di Natasha, fissava le porte dell’ufficio del direttore Nick Fury con aria perplessa.

“Pensavo la stessa cosa di te.”

Sembravano usciti entrambi da una situazione mattutina affatto condannabile. L’uno con un ciuffo di capelli evidentemente in disaccordo con la linea che aveva tentato di dar loro con il pettine, il segno delle cuciture del cuscino ancora visibili sulla guancia rasata di fresco. L’altra con addosso una t-shirt dello SHIELD, appena accaldata, di ritorno dalla sua seduta di jogging mattutino, probabilmente nemmeno a metà strada.

A entrambi una telefonata senza spiegazioni. Un richiamo urgente alla centrale, l’alba che si affacciava timida.

I clamori della loro complicità europea si erano placati, anche se non del tutto estinti. Clint era tornato alle sue attività con la stessa professionalità di prima, a Natasha avevano cominciato ad affidare incarichi di limitata importanza ma che aveva permesso all’organizzazione di valutare le sue qualità sul campo. Non aveva mai dato loro motivo di credere che fosse mossa da doppi giochi. O da scarse motivazioni.

Il fatto che ora si trovassero lì entrambi, richiamati con la stessa urgenza, non fece che scatenare una certa dose di curiosità e aspettativa.

“Ho sentito che ti sei trasferita.”

“Un bilocale, nel Queens.”

“Una conquista.”

“Un posto vale l’altro.” La serafica risposta. “Sono almeno libera di scegliere come muovermi.”

“Qualsiasi cosa tu abbia bisogno... New York la conosco bene.”

Natasha gli scoccò uno sguardo valutativo. “Me la cavo benissimo da sola.”

L’uomo si limitò ad alzare le mani a mo’ di resa. Come non detto, sembrava dire.

La porta dell’ufficio di Fury si aprì e ne fece capolino il viso severo di Maria Hill. I due si guardarono l’un l’altro, affatto rassicurati dalla prospettiva della donna ad assistere al colloquio, quale che fosse la motivazione della sua presenza.

Il direttore li aspettava, sovrastando scrivania e terminali con la sua inconfondibile postura.

“Agente Barton, agente Romanoff.” Scese i due gradini che lo separavano dal resto del gruppo. “Credo sia arrivato il momento di testare quanto proficua sia stata la vostra precedente collaborazione.”

Nessuno dei due capì all’istante.

“Ci sono dei problemi a Berlino. Billmann vi dice niente?”

Capì, dalle loro espressioni, di averli quantomeno impressionati.

 

***

 

Erano diretti ai camerini per recuperare divise e attrezzature, e ancora non si capacitavano del fatto che Fury aveva affidato loro una missione. Insieme. O almeno non se ne capacitava Clint. Natasha non aveva fatto una piega alla faccenda. Spinta forse dalla prospettiva di avere fra le sue grinfie l’uomo che le aveva scaricato addosso quel mostruoso ammasso di guai.

Berlino, una copertura e una moltitudine di documenti sui quali studiare un piano d’attacco.

La Hill sarebbe stato il loro contatto. Questa volta, potevano giurarci, non avrebbero avuto nessun privilegio.

“Hai intenzione di portare quel tuo arco?” Natasha si stava spogliando, senza dare a vedere di preoccuparsene.

Lui le diede una sbirciata rapida, recuperando la giacca della divisa.

Quel mio arco è un’arma.”

“Un’arma vistosa.”

“Tu non hai la più pallida idea… di cosa sappia fare con il mio arco.”

Lei gli lanciò uno sguardo obliquo, mentre si rivestiva. “Se stavi cercando di farla suonare erotica, ci sei riuscito poco.”

Clint chiuse l’anta dell’armadietto senza darle la soddisfazione di vederlo sorridere.

“La lavatrice.” Esalò Natasha, prima di lasciarlo andare.

“Come?” Clint la osservò confuso, un passo già fuori dagli spogliatoi.

“C’è una lavatrice nel mio appartamento”, dal tono sembrava stesse parlando di qualche repellente mostro a tre teste. “Sai usarne una?”

“Uhm… sì?” le rispose, un po’ disorientato dalla domanda.

“Ti eri offerto per qualsiasi cosa avessi bisogno”, fece scontrosa “ti rimangi la parola data?”

Stava chiudendo la zip della tuta con un po’ troppa foga. Non sembrava affatto abituata a chiedere favori. Si stava sforzando.

“Di ritorno da Berlino?” fu tutto ciò che lui le chiese.

Lei si rilassò.

“Di ritorno da Berlino.”

 

End.

 

N.d.A:

E siamo alfin giunte alla conclusione di questa piccola avventura.

Siamo due autrici che da anni non prendevano più in seria considerazione l’idea di scrivere una fanfiction (almeno una delle due). Convinte che niente avrebbe mai schiodato questa granitica convinzione, abbiamo dovuto smentirci clamorosamente.

Il fatto di avventurarci a quattro mani in questo fandom, prendere le redini di una storia che vedeva come protagonisti i due “Avengers” che più ci sono rimasti nel cuore, ci ha spronato a scriverla e concluderla; siamo felici di constatare di esserci anche divertite molto nel farlo.

Chiediamo scusa a chi non si rispecchia con questa nostra visione dei personaggi o della storia, ma ne abbiamo voluto dare una nostra versione.

Ringraziamo chi si è fermato a leggerla, anche solo per dargli una sbirciatina. Ringraziamo chi ha voluto farci sapere che non stavamo proprio andando nella direzione sbagliata e, infine, ringraziamo Joss Whedon per averci fottuto definitivamente il cervello.

 

Il titolo della fanfiction (A Plague I Call a Heartbeat) si rifà a una frase della canzone "Cat People (Putting Out Fire)" del Duca Bianco - David Bowie - canzone che tanto ci ricorda, per testo e musica, i nostri due. (Ascoltatela!) Il copyright va tutto a lui.

Come ai rispettivi proprietari va quello di tutte le citazioni che trovate all'inizio di ogni capitolo.

 

Ora non resta che minacciarvi che siamo tornate per restare. E che molto probabilmente vedrete presto altre storie con inciso, a fuoco, il nostro nome sopra.

Tutto il resto… è nebbia.

 

Sere & Eli.

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