Febbraio ha ventotto giorni.

di Euachkatzl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primo giorno. ***
Capitolo 2: *** Secondo giorno. ***
Capitolo 3: *** Terzo giorno. ***
Capitolo 4: *** Quarto giorno. ***
Capitolo 5: *** Quinto giorno. ***
Capitolo 6: *** Sesto giorno. ***
Capitolo 7: *** Settimo giorno. ***
Capitolo 8: *** Ottavo giorno. ***
Capitolo 9: *** Nono giorno. ***
Capitolo 10: *** Decimo giorno. ***
Capitolo 11: *** Undicesimo giorno. ***
Capitolo 12: *** Dodicesimo giorno. ***
Capitolo 13: *** Tredicesimo giorno. ***
Capitolo 14: *** Quattordicesimo giorno. ***
Capitolo 15: *** Quindicesimo giorno. ***
Capitolo 16: *** Sedicesimo giorno ***
Capitolo 17: *** Diciassettesimo giorno. ***
Capitolo 18: *** Diciottesimo giorno. ***
Capitolo 19: *** Diciannovesimo giorno. ***
Capitolo 20: *** Ventesimo giorno. ***



Capitolo 1
*** Primo giorno. ***


Dicono che la vita di una groupie sia una delle più eccitanti vite che si possano assaporare. Sei bella, sexy, amata da artisti famosi, cosa puoi chiedere di più? Viaggi, ascolti buona musica, vieni sbattuta fuori dalla porta perché il caro frontman del gruppo si è stancato di te. “Perché ormai ho visto tutto”. Fottiti.
E così ti ritrovi per strada, con una valigia che ti ha lanciato in malo modo sempre il caro frontman, con dentro qualche vestito che non è neppure tuo. È il 1986, i Bon Jovi sono appena diventati famosi con Slippery e io tento di chiamare disperatamente mio fratello da questo telefono sul ciglio della strada. Rispondi, Jeff, rispondi.
 
Dicono che vivere con gli amici sia una delle esperienza più belle della vita. E sì, in effetti lo è. Se poi siete cinque rockstar, con una carriera alle porte e varie fan eccitate nel letto, allora è davvero l’esperienza più bella della vita. Se vogliamo pure aggiungere che io sono Axl Rose, che ho una voce con cui posso fare tutto quello che voglio e un corpo che farebbe invidia a…. a chiunque, diciamo, posso dire di avere più o meno una vita perfetta. Vita perfetta cominciata quando me ne sono andato di casa. Forse è vero che dopo tanta sofferenza vieni sempre ripagato.
 
Dicono che essere una rockstar sia una delle cose più belle che tu possa vivere. E io, per questo motivo, a cinque anni ho cominciato a prendere lezioni di basso. Da mio fratello. Ed è sempre per questo motivo che a 19 anni ho mollato tutto e sono andato a Los Angeles, per rinchiudermi tra quattro mura con quattro animali, che chiamo amici, con cui suono e faccio casino tutte le sere. E devo dire che il tipo che mi ha raccontato quella roba sulla vita da rockstar, aveva una ragione fottuta.
 

“Pronto?”
“Jeff?”
“No, sono Slash”
“C’è Jeff?”
“Izzy, c’è una tipa che ti chiama. Mi sa che hai messo incinta qualcuna”
“Fottiti, Hudson. Pronto?”
“Da quand’è che hai cambiato nome?”
“Da quand’è che mi chiami? Ti manco?”
“Sono per strada, ho bisogno di un posto dove stare per un po’”
“E quindi chiami me?”
“Ti prego Jeff, sono tua sorella”
“Sì, me lo ricordo bene”
“Per favore. Non puoi lasciarmi su un marciapiede. Sai che figura ci fai, se muoio qua?”
“Non vedo perché”
“Ti prego, un paio di giorni”
“Basta che non rompi le palle. Ti ricordi dov’è la casa?”
“Sì, per stasera sono lì”
 
 
Stradlin rimette giù la cornetta. È piuttosto incazzato, brutta roba.
“L’ho detto io che ha messo incinta qualcuna” è il commento di uno Slash che fa appena in tempo a spostarsi per schivare una scarpa lanciata poco elegantemente dall’incazzato Izzy.
“Viene mia sorella per un po’” Sorella?
“Aspetta bello, da quand’è che hai una sorella?” Siamo amici da quando eravamo bambini e adesso vengo a scoprire che ha una sorella.
“Da quando sono nato, direi. Rose che cazzo di domande fai?”
“Ehi, calmati. Non sapevo che avevi una sorella”
Izzy si butta sul divano, scocciato. Non deve volerle molto bene.
“È di due anni più grande. L’hanno mandata in collegio quando aveva tipo dieci anni, è per quello che non la conosci”
“E quindi tu non la vedi da quando avevi otto anni?”
“Direi che l’ho vista anche per troppo tempo. Una del genere riesce a farti uscire di testa in un paio d’ore”
“E perché viene qui?”
“Non lo so, mi ha detto che non ha un posto dove andare”
Detto questo, va in camera nostra, sbattendo la porta.
“Ma che gli avrà fatto che la odia così tanto?” Le domande idiote di Steven, che ora mi fissa in cerca di una risposta.
“Non sapevo neanche che  esisteva, ti pare che so cosa gli ha fatto?”
Seguo Izzy in camera, non badando ai borbottii del biondo, che continua a chiedersi come mai nessuno lo caghi mai di striscio.
 
 

Axl ha avuto un lampo di genio, ad andare in camera. Io sono rimasto sul divano, di fianco a Steven, che straparla. Come sempre. Il giorno in cui starà zitto per tipo mezzo minuto di fila finirà il mondo.  E intantocontinua a ripetere a me e a Slash che non lo badiamo mai, che lui è sempre quello emarginato, che non gli va bene sta cosa.
“Se dici meno cazzate magari ti ascoltiamo più volentieri” è la risposta di Saul, evidentemente scocciato. Ed ecco un altro che si alza e se ne va in camera, abbandonandomi con questo disco che neppure lui è riuscito a zittire.

 
Sto parlando con Izzy quando la porta della camera sbatte. Ci voltiamo e ci troviamo di fronte a Slash, incazzato pure lui. Probabilmente è qualcosa di questa casa, nessuno può starci senza incazzarsi almeno un paio di volte al giorno.
“Fate come se non ci fossi, cercavo un posto dove non riesca a sentire Steven”
Poi si butta sul letto, il suo amato cilindro calato sugli occhi. Io e Izzy usciamo, trovandoci davanti la scena di un batterista che parla a nastro e un bassista che ci guarda con occhi disperati. Gli sorrido, ieri è toccato a me, oggi se lo sorbisce lui. Esco con Stradlin, ci facciamo un giro.
 

“Che poi, perché la casa si chiama Hell’s House?”
“Perché siamo pronti a darle fuoco, se tu continui a parlare” Tutto inutile. Se neppure le rispostacce di Slash riescono a scalfire Steven, i miei commenti cattivi sono acqua fresca. Mi alzo e vado in cucina, ho fame. Apro il frigo. Vuoto. Tipico.
“Il frigo è vuoto, vado a fare la spesa”
“Vengo anch’io” Ti pareva che non riuscivo a liberarmene.
 
Siamo in un supermercato grande tipo una tasca dei miei jeans, Steven dentro il carrello che io spingo mentre faccio appello a non so quali santi per farlo tacere. Sono arrivato a promettere a Gesù che andrò in chiesa tutte le domeniche, se mi lascia fare la spesa in pace. Invece no. Mi dispiace, Gesù, ma non mi vedrai seduto su un banco per un altro po’. Ma questo è niente. Il vero problema inizia quando il carrello è mezzo pieno.
“Steve, devi scendere”
“Perché?”
“Perché il carrello è pieno, non vedi?”
“Secondo me ce ne sta ancora, di roba”
“Solo se scendi tu”
“E se scendo compriamo i pop corn. Dillo Michael, dillo”
“Se scendi compriamo i pop corn”
Steven scende, tutto felice, e va a comprarsi sti benedetti pop corn. Finalmente solo. Finalmente silenzio. Aiuto, mi toccherà andare in chiesa tutte le domeniche.
“A che stai pensando?”
Mi giro: è tornato. Di già. Mi spiace Gesù, neppure tu puoi niente contro di lui.
“Ma come hai fatto così in fretta?”
“Sono piccolo e veloce, io” Mette i pop corn dentro al carrello, dove si accomoda pure lui. Salvatemi.
 

 
“Come mai hanno messo tua sorella in collegio?” Domanda a bruciapelo, posta distrattamente mentre guardiamo i dischi nel negozio vicino a casa nostra.
Izzy mi guarda, scocciato.
“Èuna storia troppo lunga”
“Avevi otto anni, come può essere lunga?”
Sospirone, mi da una risposta secca.
“Ha fatto una marea di cazzate, l’ultima è stata rincorrermi per casa con un pezzo di vetro”
Rabbrividisco, i pezzi di vetro mi fanno sempre un certo che: ho un paio di cicatrici che mi ricordano quanto facciano male, sulla pelle.
“E il resto di cazzate?”
Occhiataccia. Va bene, me le farò raccontare direttamente da lei.
 

 
Busso alla porta una, due volte. Nessuno. Giro un po’ intorno alla casa e spio attraverso le finestre. Forse sono usciti tutti. Guardo l’ora: le sette e mezza di sera. E sono già usciti alle sette e mezza di sera?
“Ehi, che fai?”
Mi volto. Due biondi, uno altissimo e uno che gli arriva tipo alle spalle mi fissano, con in mano un paio di borse della spesa.
“Sono la sorella di Jeff”
Mi sento osservata, entrambi mi squadrano da capo a piedi, come se fossi un alieno. Non hanno mai visto una ragazza?
 
Sì, devo dire che è decisamente la sorella di Stradlin. Occhi neri, come i capelli lunghissimi, legati in una coda. Le gambe magre fasciate da un paio di pantaloni neri, sopra una canottiera bianca che lascia intravedere il pizzo del reggiseno, che sostiene un paio di tette niente male. Ciao, sorella di Jeff, mi sa che diventeremo grandi amici.
 

“Avrete quanto tempo volete per fissarmi, possiamo entrare?”
Facciamo il giro dell’edificio fino alla porta d’entrata. Quello più alto tira fuori una chiave dalla tasca dei jeans e la infila nella toppa, mentre il più piccolo mi porge la mano.
“Io sono Steven, comunque”
“E preparati che non sta zitto un attimo”
“Non è vero, sono stato bravissimo al supermercato”
“L’unico momento di silenzio c’è stato quando sei andato a prenderti i pop corn”
La porta si apre ed entriamo. Mi trovo davanti a quello che dovrebbe essere il salotto, a giudicare dal divano al centro della stanza e dal televisore acceso di fronte a questo. In mezzo tra sofà e tv, una montagna di vestiti/bottiglie/oggetti che non voglio identificare. Rimango lì impalata, a fissare quel disastro di oggetti alquanto sconvolgente. Non che vivessi in un castello, ma un po’ d’ordine riuscivamo a mantenerlo.
“Ti piace?” mi chiede il biondo alto, comparendo di colpo dietro di me.
“No”
“Io sono Duff”
“Jeanette”
“Non sapevamo che Izzy avesse una sorella”
“Credo che se ne fosse dimenticato pure lui”
La porta di una camera si spalanca e ne esce un ragazzo riccioluto, a torso nudo. Non so dire che faccia abbia, quei capelli disordinati quanto la montagna di roba davanti al divano mi impediscono di vederla.
“Ciao”
“Ciao” è la mia risposta, mentre cerco ancora di scorgere un paio di occhi in mezzo a quella zazzera nera.
“Sei la sorella di Jeff?”
“Sì, sono Jeanette. Mi aspettavate tutti, vedo”
“No, è solo che Izzy ha piantato il muso quando ci ha detto che venivi, volevamo vederti”
Mi giro verso Steven, che intanto è tornato dalla cucina, e lo vedo annuire. Steven è quello che mi da più fiducia. Sempre meglio di questo riccio del quale non so ancora il colore degli occhi.
“C’è un letto per me?” chiedo, aspettando una risposta che non arriva. Si guardano l’un l’altro. Alla fine Slash risolve tutti i miei dubbi.
“C’è il divano”
“Ma dai, e la mettiamo a dormire sul divano?” Grazie, Duff, mi hai salvata.
“Dalle il tuo letto, allora”
“Sì, perché no?” si intromette Steven. Ho paura che abbiano la stessa camera.
“Dai, il mio fratellino sarà più che felice di lasciarmi il suo letto”
“Ti avverto che dovrai dormire con me, se proprio vuoi fregare il letto a Stradlin” Che è, una sfida, riccio?
“Vabbè, vediamo dopo dove dormo. Ce l’avete un bagno, almeno?”
“No, pisciamo in cortile” Fulmino con lo sguardo Slash. Si diverte tanto a prendermi per il culo? Duff mi mostra il bagno. Ringrazio e chiudo la porta a chiave. Manca solo che uno di questi tre mi apra mentre sono nuda. Mi levo i pantaloni, la canottiera e apro l’acqua della doccia. Gelida. La lascio scorrere per un po’, mentre guardo il mio riflesso sullo specchio, il tatuaggio sul fianco ancora arrossato. Dopo mezz’ora l’acqua è ancora fredda. Facendo appello a tutto il mio coraggio, vado sotto il getto, cercando di lavarmi il più velocemente possibile. La mia doccia dura qualcosa tipo mezzo minuto. Mi asciugo in un accappatoio nero e mi rimetto i vestiti che avevo prima. Lascio i capelli sciolti, mi arrivano quasi fino al sedere. Dio, quanto amo i miei capelli.
Esco e trovo mio fratello stravaccato sul divano, mentre suona qualcosa con la sua amata chitarra. Mi avvicino a lui e gli copro gli occhi.
“Buonasera, amore mio. Visto che sono arrivata?”
Lui si gira di scatto, un’espressione scocciata sul viso.
“Sì, e non vedo l’ora che te ne vada”
“Dai, non puoi odiarmi così tanto. Sono sedici anni che non ci vediamo”
Gli scocco un bacio sulla guancia, mi è sempre piaciuto prendere in giro Jeff. Peccato che sia un po’ fuori allenamento. Lui si gira e riprende a suonare quello che io avevo interrotto, tentando di non far caso a me. A far caso a me è invece un rosso che mi abbraccia da dietro.
“Benvenuta, sorella di Izzy”
“Ciao, amico di Izzy”
“Chiamami Axl”
“Io sono Jeanette”
Mi districo dall’abbraccio e guardo in faccia il ragazzo. Neanche male, l’amico di Izzy.
 
Se da dietro era bella, devo dire che da davanti è uno spettacolo. Jeff, spero che non ti dispiaccia se prima o poi mi faccio tua sorella.
 

“Ce l’avete un letto dove farmi dormire?”
“C’è il mio, piccola, ma devi condividere”
Lancio ad Axl l’occhiata più acida che riesco a fare.
“Oppure c’è quello di Jeff” propongo.
“Oppure c’è la cuccia del cane” risponde a tono mio fratello.
“Sei odioso, Izzy. Trattala bene”
L’interpellato si alza e recupera una coperta dalla montagna di roba davanti al televisore, per poi lanciarla sopra al divano
“Prego, signorina. Il suo letto è pronto”
Scocco un altro bacio sulla guancia di mio fratello e lo vedo allontanarsi con il rosso verso la porta di una camera. Ti farò morire Jeff, giuro.
Dopo qualche minuto sento riemergere dalla cucina gli altri tre che avevo abbandonato quando ero andata in bagno. Chiudo gli occhi e fingo di dormire, con tanto di abbraccio al cuscino.
 
“Com’è che è tutto spento?”
“Sta zitto, Steve. C’è Jeanette che dorme”
Steven si sporge sullo schienale del divano.
“Però è bella, no?”
“Da quand’è che sei così dolce? Di solito guardi solo quanto grandi sono le tette”
“Non è che le sue siano così male”
 
Oddio, mi viene troppo da ridere.
 
Mi sporgo anch’io, ad osservare la pelle pallida della ragazza. Cazzo, se è bella. Mi stupisce che Slash non abbia ancora fatto qualche commento. Mi volto verso di lui e gli lancio un’occhiata interrogativa.
“Bella quanto vuoi, ma èsempre la sorella di Stradlin. Non lo voglio come cognato”
“Non è che se te la scopi una volta lui diventa tuo cognato”
“Magari diventa lo zio di vostro figlio”
E così, dopo l’ennesimo commento stupido di Steven, lo trascino in camera nostra.
“Notte Steve”
“Notte”
 

 
Ciao, sono l’autrice:
Torno con un’altra storiella :)
Spero che l’idea di base vi piaccia, tra un po’ la trama comincerà ad articolarsi.
Ho voluto provare a cambiare un po’ stile rispetto all’altra storia che ho scritto (Be passionate. Always.). Ho provato a dar voce a più personaggi, distinguendoli tra loro con i colori diversi. Anche per i discorsi, spero che si capisca chi parla e chi no D:
Vabbè, se mi lasciate un commentino mi fate felice :)
 
Bacione, Euachkatzl <33

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Capitolo 2
*** Secondo giorno. ***


La luce che filtra dalle tende e punta direttamente sui miei occhi mi sveglia. Mi alzo, alla ricerca di un orologio. Dopo aver rovistato un po’ in salotto, vado in cucina, dove una piccola sveglia sopra il frigo mi informa che sono le otto. Apro un paio di credenze, sperando di trovare prima o poi un barattolo del caffè. La moca è sopra il fornello. Le do una risciacquata, giusto perché contro la malaria non sono mai stata vaccinata, e mi faccio sto caffè. Intanto che si prepara torno un attimo in salotto e apro la valigia che quell’amore del mio ex amante mi ha dolcemente lanciato dalla finestra del primo piano. Ci trovo dentro due paia di mutandine, i fuseaux blu di un’altra ragazza, dei jeans strappati e la mia maglietta dei Ramones. Oddio, mi ha messo in valigia la maglietta dei Ramones. Sarei andata al suo appartamento a Boston a piedi pur di riaverla. Mi tolgo la canottiera bianca che indosso già dal giorno prima e mi infilo la maglietta. Che bella sensazione, dio. Vado in bagno e mi lavo il viso con l’acqua gelata, visto che in questa casa di calda non ce ne sarà mai, temo. Mi lego i capelli in uno chignon improvvisato e torno in salotto. C’è odore di bruciato. Rifletto un attimo. I ragazzi stanno ancora tutti dormendo. Deve venire da fuori.
“Merda, il caffè”
Mi lancio in cucina, trovandomi davanti alla moca con il manico mezzo colato. Spengo il gas e osservo la mia opera. Magari almeno il caffè è venuto buono. Facendo attenzione a non scottarmi, lo verso in una tazza. Assaggio. No, è venuto uno schifo. Butto via tutto e rinuncio alla colazione.
 
“Non c’è odore di bruciato?”
“Massì, sarà Steven che ha tentato di fare la colazione”
“Michael, sono io Steven”
Apro pigramente gli occhi. Steve è in piedi che annusa l’aria manco fosse un cane.
“Esci e va a vedere, no?”
“Ma sei matto? E se c’è un incendio?”
“Se c’è un incendio moriamo lo stesso perché arriva pure qui”
“Non è che puoi andare tu? Io attendo la morte sul mio letto”
Mi alzo, contrariato. Però è vero, c’è un forte odore di bruciato. Di plastica bruciata. Do un’occhiata alle finestre: chiuse. Qualcuno deve aver fatto qualche disastro in cucina.

 
“Buongiorno”
Mi volto e vedo Duff che si strofina gli occhi. Cammina piano, un po’ barcollante.
“Sei una mattiniera?”
“Volevo farmi un caffè, ma ho fatto un leggero casino”
“Del tipo?”
Gli indico la moca sopra il fornello.
“Ah, credevo peggio”
“Ho fuso la caffettiera, non sono stata abbastanza brava?”
“Tu non hai neanche idea di cosa riesce a fare Steven da solo in cucina”
Ridiamo.
“Stamattina niente caffè, insomma?”
“Se non avete un’altra moca…”
“Tranquilla, tanto non lo beviamo mai. La moca ce l’aveva regalata il tipo del bar in fondo alla strada”
Mi da fiducia, questo Duff. È una pertica alta tipo due metri e mezzo, ma mi ispira dolcezza. Al contrario del rosso che sta entrando adesso, di cui manco mi ricordo il nome.
“Che cazzo avete bruciato?”
“La moca”
“Ah vabbè, per la moca..”
Devono essere tutti dipendenti dal caffè, insomma.
“Bella maglia” riprende Duff.
“È la mia preferita. Me l’ha regalata Joey”
“Joey? Joey dei Ramones?!”
Il biondo ha una faccia sconcertata, gli occhi spalancati che tra poco non stanno nemmeno più nelle orbite.
“Joey dei Ramones”
“E tu conosci Joey dei Ramones?”
“Diciamo che essere una groupie degli Aerosmith ti fa conoscere molta gente”
Prendo una tazza da un ripiano e me la faccio riempire di latte dal rosso.
“Com’è che ti chiami, scusa?”
“Ti sei già dimenticata il mio nome?”
“Ti offendi?”
Il ragazzo si gira e si appoggia al bancone, con un sorrisetto malizioso stampato in faccia.
“Se proprio vuoi saperlo, devi pagare”
“Ti chiamerò rosso per tutta la vita”
Bevo il mio latte e esco dalla stanza, voltandomi appena per fargli l’occhiolino.
 
Merda, non doveva andare così.
“Stai perdendo colpi, bello”
“Taci, McKagan. È solo il secondo giorno che è qua, non posso mica saltarle addosso”
“…com’è che con questa siete tutti dolci? Io me la farei subito, se non fosse la sorella di Stradlin” La frase stronza di Slash ci stava, sì.
“Izzy dorme ancora?”
“Sì, russa che sembra un trattore”
Mi guardo intorno.
“E Steven?”
“Ah sì, devo andare a dirgli che per oggi non moriremo”
Duff sparisce dietro la porta, diretto verso un batterista terrorizzato chissà perché dall’idea di morire in mattinata.

 
Ho visto Slash uscire dalla camera poco fa, l’unico che è rimasto dentro è Izzy. Socchiudo piano la porta, quel tanto che basta per vedere mio fratello schiantato sul letto che russa con la bocca spalancata. Notevole, la finezza che ha acquisito durante i sedici anni che non ci siamo visti. Ad un certo punto qualcuno mi prende i fianchi, facendomi sobbalzare.
“Dai, davvero soffri il solletico sui fianchi?”
“Vaffanculo, Steven. Non farlo mai più”
Sbircia dentro alla camera, rimanendo anche lui folgorato dall’eleganza di Jeff.
“Gli avete mai fatto lo scherzo del dentifricio?”
Steven mi guarda, i suoi occhioni che mi scrutano interrogativi. Ha una faccia troppo cucciolosa, sto ragazzo.
“Dai, vai a prendere il dentifricio”
Dopo pochi secondi Steve è di rotorno dal bagno, con in mano un tubetto blu. Lo avverto di fare silenzio con un gesto della mano e insieme entriamo in camera. Mi avvicino a Jeff e spalmo su una sua mano un bel po’ del contenuto del tubetto. Dopodichè mi allontano un po’ e comincio a grattargli il naso. Tempo un paio di secondi e Jeff si porta la mano in faccia, tentando di spiaccicare quell’insetto, tra l’altro inesistente, che gli rompe le palle di prima mattina.
“Ma che cazzo…”
Si alza, facendo in tempo a vedere me e Steven che schizziamo fuori dalla camera, ridendo come cretini. Ci insegue, tentando di pulirsi il viso dal dentifricio appiccicoso.
“Ma che gli avete fatto?” ci chiede Slash, stravaccato sul divano, mentre gli altri se le ridono di gusto con noi.
“Fottetevi. Tutti” è il commento di mio fratello, che entra in bagno sbattendo la porta, facendo sfoggio ancora una volta della sua infinita grazia.
Mi siedo anch’io sul divano, di fianco al rosso di cui non so ancora il nome. Lui mi avvolge un braccio attorno alle spalle.
“Sono Axl, comunque”
“E adesso vuoi il premio per avermelo detto?”
“Se proprio ti va”
Lo guardo intensamente, i miei occhi neri nei suoi verde smeraldo. Mi avvicino lentamente al suo orecchio, faccio aderire le nostra guance. La mia mano pettina i suoi capelli liscissimi. Gli bacio piano il lobo.
“No, non mi va”
Mi alzo e lo guardo, leccandomi il labbro superiore con fare provocante. La sua faccia è contorta in una smorfia tra il ‘Mi vuoi sfidare?’ e il ‘Vaffanculo, mi hai fregato’.
“Voi state tutto il giorno sul divano a non fare niente?”
“In generale, diciamo di sì”
“Io devo andare a fare shopping, in valigia non ho niente”
“Fossi te, indosserei sempre quella maglietta”
“Sì, anch’io Duff, ma dopo un po’ puzza”
Squadro i ragazzi uno a uno, cercando di capire quale possa avere almeno un po’ di gusto nel vestire.
Slash no, sono due giorni che lo vedo e due giorni che gira a torso nudo.
Steven nemmeno, ha una maglietta di un colore alquanto dubbio.
Mio fratello, che è appena uscito dal bagno. A parte il fatto che non uscirebbe mai con me, i suoi pantaloni rossi abbinati ad una camicia verde mi fanno intuire che scelga i vestiti al buio.
Rimangono Axl e Duff. Uno con un paio di pantaloncini e una canotta bianca, l’altro con dei jeans strappati e una maglietta nera.
Lancio uno sguardo complice a Duff, che però non coglie il significato. Mi risponde con una faccia stranita.
“Non è che hai voglia di fare spese?”
 
Sia chiaro, io odio fare spese. Le uniche magliette che ho sono quelle che ci regalano quando suoniamo in qualche locale o che trovo nei negozi di dischi. Ma in questo caso potrei fare un’eccezione.
“D’accordo, perché no?”
Mi alzo e mi dirigo con Jeanette verso il portone d’ingresso.
“Torniamo per stasera” urla lei, prima di uscire tutta felice. Stasera? Sono appena le dieci del mattino.

 
Sono ancora lì seduto sul divano, lo sguardo perso nel vuoto. Quella ragazzina è riuscita a fregarmi. A fregare me. A illudermi. Cazzo, io sono Axl Rose. Le donne mi saltano addosso. E questa invece ci gioca, con me. Preparati, bellezza, che non avrai vita facile qui.
“È il secondo giorno, Axl, non le salterai mica addosso” Slash ripete il discorso che avevo fatto in cucina.
“Se l’è cercata, Saul. Izzy, non ti dispiace…”
“Falle quello che vuoi, per quello che interessa a me”
“Vabbè, tanto anche se mi dicevi di no non ti ascoltavo”
Mi alzo e vado in camera, continuando a rimuginare su cosa potrei fare al ritorno a casa di quella ragazzetta malefica.

 
“Conosci posti dove andare?”
“Di sicuro non in questo quartiere, dobbiamo andare più verso il centro”
Ci appostiamo a una fermata del bus. Fermata costituita da un palo con appeso un cartello disegnato a mano, con tanto di scritta ‘A fanculo’ al posto dell’indicazione della destinazione. Bellalì, sono capitata in un quartiere di matti.
Il bus arriva dieci minuti dopo. Ci sediamo sui sedili in fondo.
“Come mai sei venuta a stare da noi?”
Guardo Duff prima di rispondere, non mi aspettavo una domanda così diretta.
“Mi hanno lasciato per strada. Letteralmente. E Jeff era l’unica persona che conoscevo in California”
“Ti hanno lasciata per strada”
Sospiro. Non è che mi vada di raccontargli tutta la storia. Tento di riassumere il più brevemente possibile.
“Ero una groupie, seguivo gli Aerosmith in giro per l’America. Finchè quell’amore di Tyler non si è stancato di scoparmi”
“Brutta roba”
“Direi che è stato un bene”
“Dobbiamo scendere qui”
Mi guardo intorno. Il quartiere è decisamente diverso. Non direi che siamo arrivati a Hollywood, ma non è neppure così male. Duff mi prende per mano.
“Andiamo”
Entriamo in un negozio che puzza di chiuso e polvere. A destra e sinistra ci sono file interminabili di vestiti, di tutti i colori possibili e immaginabili. Se non fosse per l’odore, direi che sono arrivata in paradiso. Forse questo è il purgatorio. Vado verso la fila di destra, è quella che mi ispira di più: ho già adocchiato un paio di pantaloncini niente male.
 
“Ciao, Michael”
Mi volto: un signore sulla cinquantina è appena comparso alle mie spalle.
“Ciao”
Lui mi da una pacca sulla spalla e indica Jeanette, che sta esaminando una canottiera viola.
“Te l’ho detto io, che la vita da rockstar frutta bene. Guarda che ragazze ti vengono dietro”
“È la sorella di un mio amico, non mi viene dietro proprio nessuno”
“Intanto te la stai portando in giro”
 
“Com’è, mi sta bene secondo te?”
Jeanette si è avvicinata a noi senza che ce ne accorgessimo, mi sbatte davanti agli occhi quella canotta che stava guardando poco fa.
“Secondo me ti starebbe bene tutto quello che c’è qua dentro, piccola”
“Duff, mi sa che qualcuno qui è più bravo di te, a flirtare” ride lei, facendo un occhiolino scherzoso al signore di fianco a me.
“I camerini?”
“In fondo, sulla sinistra”
Lei raccoglie il pacco di vestiti che aveva appoggiato su uno scaffale lì vicino e si dirige nella direzione che le ha indicato. Ad un tratto si gira.
“Non vieni? Devi dirmi come sto”
Il proprietario del negozio mi da un’altra pacca sulla spalla e mi sussurra, neanche troppo a bassa voce: “Non perdertela”.

 
“Buonasera, siamo tornati” urlo appena Duff spalanca il portone.
“Jeanette!” esclama tutto contento Axl, riemergendo dal divano. Jeff è seduto per terra, di fronte a lui, con davanti a sé un foglio di carta scarabocchiato.
“Ma se tipo, invece di dire ‘Baby maybe someday’ dici ‘No, baby, it’s Sunday’?” Questo il saluto di mio fratello, che mi accoglie in un modo decisamente caloroso.
“Ma perché, se è domenica non devi piangere? Lascia quello che ho detto io, tanto abbiamo quanto tempo vogliamo per fare quella canzone”
Jeff si alza e va in cucina, borbottando qualcosa.
“Gli altri?”
“Slash è in camera e Steve è sotto la doccia”
Tiro fuori da una borsa un vestitino rosso e lo mostro ad Axl.
“Allora?”
“Non male. Ma devo vedertelo addosso”
“Duff mi ha detto che suonate, domani sera. Mi vedrai quando sarà il momento”
Lui resta impalato lì mentre io vado in cucina.
“Ho fame!”
 
Duff mi posa una mano sulla spalla.
“Lo sai che è un’impresa difficile, vero?”
“Ho già un’idea, Michael. Ho già un’idea”

 
Jeff si gira, fissandomi scocciato.
“Lo fai apposta a seguirmi?”
“Mi dispiace se avete una casa grande quanto un francobollo”
Apro il frigo e lo fisso, aspettando che mi salti addosso un piatto di qualcosa già pronto. Invece niente, tutto resta fermo al suo posto. Prendo una carota, due pomodori, un sacchetto di insalata. Stasera verdura.
 
“Non è che puoi farla anche a me, la cena?”
Steven arriva da dietro e appoggia la testa sulla mia spalla, sperando in una risposta positiva.
“Trovami un buon motivo”
“Sai cosa succede se quest’asciugamano che ho addosso casualmente cade?”
“Ti sbatto fuori a pedate?”
Mi giro appena e lo guardo. Maledetta sua madre che gli ha fatto sta faccia da cucciolo.
“Va bene, ma è un’insalata, non è sta gran roba”
“Mi accontenterò”
E se ne va in camera, tutto felice di aver rimediato la cena.
 
È mezzanotte e mezza. Tutti dovrebbero dormire. Mi alzo piano dal letto, attento a non far rumore, e vado verso il salotto, dove una Jeanette ignara del mio diabolico piano dorme tranquilla.
“Buona fortuna”
“Non urlare, stronzo”
Slash mi compare alle spalle, ha appena finito di farsi la doccia e i suoi capelli gocciolanti stanno inondando il salotto.
“Da quand’è che ti fai la doccia a mezzanotte e mezza?”
“Da quando viviamo con una ragazza che sta due ore in bagno”
“Ok, adesso vattene”
“Buona fortuna”
“Sì, me l’hai già detto”
Sento la porta della camera chiudersi. Posso attuare il mio piano. Mi avvicino al divano e mi piego sulle gambe, per arrivare al livello del viso di Jeanette. Dorme. Respira piano, appena un soffio. La coperta è tirata su fino ai fianchi, lasciando scoperto il punto vita incredibilmente sottile. Poso una mano lì, poi la faccio salire sempre di più, sempre più su. Mi soffermo quando arrivo alle costole, che si vedono bene sotto la pelle pallida. La accarezzo, sto solo aspettando che si svegli.

 
Merda, che cazzo è che mi sta camminando su per la pancia? Mi tiro su di colpo, mettendomi seduta e trovandomi davanti Axl che mi fissa, i suoi occhi persi nel buio della stanza.
“Che cazzo fai? Mi hai fatto prendere un colpo”
“Devo ancora avere la ricompensa per averti detto il mio nome”
“Ancora con questa storia? Ti avevo detto che non l’avresti avuta”
“Eddai, Isbell”
 
È strano chiamarla Isbell, mi sembra di parlare con Izzy. Facciamo che la chiamerò Jeanette e basta.
“Senti, facciamo così”
Appoggia due dita sotto al mio mento, costringendomi a guardarla negli occhi. Peccato, avevo trovato di meglio da vedere. Non che i suoi occhi non siano belli, per carità, ma sono un uomo, cazzo. Lasciatemi guardare quello che voglio.
“Sì?” le chiedo, assaporando il tocco dolce che ha sulla mia pelle.
“Facciamo una sfida. Ti piacciono le sfide, Rose?”
“Sì”
“Siamo il due febbraio, giusto?”
“Sì”

 
È troppo divertente sentirlo rispondere sempre ‘Sì’.
 
Che è, mi sono rincoglionito che continuo a risponderle sempre sì? Dovevo condurlo io il gioco.
“Ti do ventotto giorni. Devi riuscire a portarmi a letto entro il primo di marzo, d’accordo?”
“Ventotto giorni sono anche troppi, perché non abbassiamo?”
“Sei così convinto di vincere, Rose?”
Mi accorgo che i nostri visi si sono sempre più avvicinati. Ventotto giorni, non sono mica un dilettante, io. Lei appoggia la sua fronte contro la mia.
“Sono più che convinto, bellezza”
“Vedremo rosso, vedremo”
Mi lascia un bacio a stampo sulle labbra e poi, lentamente, si allontana dal mio viso.
“Buonanotte”
“Buonanotte”
Torno in camera, il mio cervello lavora forsennatamente per elaborare una strategia per farla mia al più presto.
 

Ciao, sono l’autrice:
papappapaaaaaaaaa! Si accettano scommesse su quanti giorni impiegherà Axl a vincere. Sempre se vince.
 
Oooook, ciao amori miei <33
Euachkatzl
 

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Capitolo 3
*** Terzo giorno. ***


Suona il campanello. Chiunque sia, io non vado ad aprire; sono pur sempre un ospite. Abbraccio il cuscino più forte e mi inabisso sotto la coperta, sperando che quel concertino finisca in fretta.
“Chi è che rompe le palle di mattina, perchè non si può venire a un orario decente. E poi devo andare io ad aprire, sì, Steven vai tu, che sei quello che deve sempre fare le cose che gli altri non vogliono fare…”
Decido di restare ferma sotto le coperte. Mi fa troppo ridere.
Steven apre la porta incazzato.
“Buongiorno”
“Buongiorno”
“Devo consegnare un pacco per Jeffrey Isbell”
“D’accordo. Grazie”
“No, deve firmare lui”
“Jeeeeeeeeeff, vieni qua” Anche Steve brilla per la finezza, insomma.
Si sente una porta aprirsi e i passi pesanti di mio fratello dirigersi verso il portone, accompagnati da vari borbottii.
“Grazie, arrivederci”
“Sì, si, arrivederci”
Il portone sbatte e, tra altri borbottii e lamentele anche gli altri escono dalle camere.
“Chi era?”
“Non urlare Saul, c’è Jeanette che dorme”
“Sarebbe anche ora di svegliarla”
“Se continui così, la svegli sicuro”
“Fermi, so io come fare”
Ho una bruttissima impressione. Forse l’ho capita l’idea di Steven. E infatti, mezzo secondo dopo, mi ritrovo due mani addosso intente a farmi il solletico sulla pancia. Scalcio, sperando di farlo smettere, ma non c’è niente da fare.
“Basta, sono sveglia”
“L’ho detto io che sapevo come fare”
“Chi era che bussava?”
“Il postino. Ma non era niente di importante” chiude il discorso Jeff, che ha già aperto il pacchetto e messo al sicuro il suo contenuto.
Faccio spallucce e mi alzo, accorgendomi dopo un po’ che sono in reggiseno di fronte a cinque ragazzi che mi fissano. Quattro, mio fratello non conta.
“Giratevi, che diventate ciechi a guardare certe cose”
“Ah bè, allora io sono un caso perso” commenta Slash, divertito. Gli altri annuiscono, segno che anche loro, impavidi e coraggiosi, hanno spesso giocato sulle porte della cecità.
Frugo dentro ad una delle borse comprate durante il giro di shopping del giorno prima e ne estraggo una maglietta blu, con sopra disegnata una grande farfalla nera.
“Che ore sono?”
“Quasi mezzogiorno” sento Axl urlare dalla cucina.
“E dov’è che suonate stasera?”
“Al Roxy, ma dobbiamo essere lì tipo per le sette”
Axl torna in salotto e lancia una birra a Slash, che si siede per terra a bere.
“Sette ore per prepararvi e siete così tranquilli?”
“Non so se hai notato, ma non siamo ragazze. Cinque minuti e siamo pronti” mi prende in giro Duff, sedendosi sul divano di fronte a me, che sono in piedi dietro allo schienale. Gli accarezzo un po’ i capelli.
“E questa ricrescita, ci metti cinque minuti anche per questa?”
Il biondo, che ora ho scoperto non essere così biondo, si volta di scatto.
“Si nota tanto?”
“Tantissimo” gli sussurro annuendo.
 
Merda, non posso farmi un concerto con i capelli bicolor. E il colore a casa non ce l’abbiamo. Ma è l’una, non ci sono parrucchieri aperti all’una.
 
“Se vuoi farti la tinta vai fuori, l’ultima volta c’è stata un tanfo assurdo per una settimana” informa gentilmente Slash, indicando la porta d’ingresso.
Duff mi guarda.
“Dobbiamo andare a comprare il colore”
“Andiamo”
Prima di uscire, mi volto verso gli altri.
“Non è che c’è qualche altro falso qua dentro?” Fisso Axl.
“Nah, i miei capelli sono puri e naturali”
“Ci credo, chi è che si farebbe i capelli di quel colore apposta?”
“Stai zitto, biondone”
“Buongiorno, vorrei quella tinta color carota”
Esco e chiudo la porta, appena in tempo per vedere Axl che lancia un cuscino in piena faccia a Steven.
 
“Ma che, sei deficiente? Mi serve, la faccia”
“Magari te la abbellivo un po’, chissà. Non toccare mai più i miei capelli”
Steven mi fa una linguaccia, mentre Izzy continua a ridere.
“La tinta color carota…”
“Taci anche tu, Stradlin”
Mi chiudo in camera e mi butto sul letto. Ho sette ore, e non ho intenzione di tornare in quel salotto. Fisso il soffitto. Ho paura che per sette ore farò questo.

 
“C’è un supermercato qua vicino, di solito vado là”
Entriamo e andiamo verso il reparto delle creme/shampi/cose che dovrebbero servire solo all’universo femminile ma di cui faccio largo uso anch’io.
“Senti, Jeanette… puoi dire che la tinta è per te?”
Lei mi guarda storto, un sorrisetto divertito sulle labbra.
“Non so se ci hai fatto caso, ma i miei capelli sono neri. E naturali”
“Mi prenderai per il culo per tutta la vita?”
“Non per  tutta, no. Per gran parte”
Ci viene incontro una signora grassa, sulla quarantina, pesantemente truccata e con i capelli più falsi dei miei.
“Buongiorno. Posso esservi utile?”
“Sì, mi serviva la decolorazione per i capelli”
Grazie, Jeanette, grazie.
“Ce li hai scurissimi, che colore hai idea di raggiungere?”
“Il suo” Mi indica.
“Ah bè, allora abbiamo bisogno di qualcosa di forte”
“No, senta… veramente è per lui”
La signora mi squadra, da capo a piedi.
“Ah. D’accordo” E mi porge un barattolo bianco.
 
“Vaffanculo, mi avevi promesso che non dicevi niente alla tipa”
“Ho dovuto. Dopo magari ci dava una roba talmente forte che ti diventavano bianchi”
Tento di fare lo sguardo più truce possibile, ma riesco soltanto a farla ridere.
“Dai, per farmi perdonare te la faccio io la tinta”
“Sei capace?”
“Secondo te Joe Perry c’è nato, con quel ciuffo biondo?”
 

Rientriamo in casa, sono ancora tutti sul divano. Tutti a parte Axl.
“La carotina?”
“Shhhh, non dire niente sui suoi capelli, che dopo s’incazza” mi avvisa Steven.
“Vabbè, a noi serve il bagno per un po’”
Trascino Duff nella stanza appena citata e spalanco la finestra.
“Vuoi che tutto il vicinato venga a sapere che mi tingo?” E chiude la finestra.
“No, ma crepiamo se non facciamo passare un po’ d’aria” E la riapro. Ho vinto io.
Duff prende in mano la bottiglia.
“Allora, c’è scritto che deve stare in posa venti minuti, poi si risciacqua con acqua calda”
“Non ce l’hai la mantellina?” Apro un paio di armadietti, alla ricerca di quel pezzo di nylon.
“La cosa?”
“Quella che ti metti sulle spalle. Metti che mi cola il colore e ti sporco la maglietta”
“Facciamo così” propone Duff, e si toglie la maglietta, restando a torso nudo e pentendosene subito. In fondo, siamo a febbraio e con una finestra spalancata di fianco.
“No, l’ho trovata. Però devi sederti, non ci arrivo fin lassù io”
Lui si siede sul water avvolgendosi la mantellina attorno alle spalle, psicologicamente pronto per quello che sta per succedere. Sembra quasi che debba partire per la guerra. Preparo un po’ di colore, sorridendo all’idea che un ragazzo del genere nasconda un segreto così imbarazzante.
“Da quanto tempo è che ti tingi?”
“Non tantissimo, ho cominciato quando sono venuto qua con gli altri”
“E come mai?”
“Bellezza, io sono un punkettone. Non posso mica avere dei capelli normali” Allarga le braccia, soddisfatto della frase appena detta. Lo fisso.
“Faccio finta di non aver sentito”
 
Sono tre ore che guardo il soffitto. Ho fatto in tempo persino a scoprire un ragno piuttosto intraprendente che è riuscito a creare una ragnatela che va da un lato all’altro della stanza. E ho scoperto pure un paio di mosche incastrate in quella trappola mortale. Affascinanti, i ragni. Diabolici.
Mi tiro su di colpo, barcollando leggermente ai giramenti di testa. Mi appoggio sul il comodino, aspettando di riconnettere il cervello. Vado in salotto e un altro giramento di testa mi assale alla vista di Duff a torso nudo con i capelli sparati e un pezzo di nylon sulle spalle che Steven sta simpaticamente facendo svolazzare a mo’ di mantello.
“Dai, fammi un’altra volta Superman”
“Fottiti, adesso mi tolgo questa merda dalla testa”
“Sono passati solo dieci minuti. Aspetta ancora un po’”
Mi guardo intorno, alla ricerca della proprietaria di quella voce, che sembra provenire dalla cucina. Entro nella stanza e trovo Jeanette intenta a mangiare una carota.
“Ma tu mangi solo verdura?”
“Il vegetarianismo è una religione dura, mio caro. E poi le carote mi fanno tenerezza, mi fanno pensare a te”

 
La provocazione perfetta, sto solo aspettando che si incazzi. Se a Steve ha lanciato un cuscino, chissà cosa potrebbe lanciare a me.
 
Vogliamo provocare? Non sai cosa ti aspetta, bellezza.
“Non una parola sui miei capelli, sono bellissimi” Apro il frigo e sento Jeanette abbracciarmi da dietro, sussurrandomi qualcosa all’orecchio.
“Ho visto di meglio”
Mi volto appena, il mio viso a pochi centimetri da quello della ragazza.
“Di meglio?”
“Di molto meglio” E poi si stacca da me e torna in salotto.
“Duff, è ora di togliere la tinta!”
“Alleluia, sto coglione mi sta rompendo le palle da mezz’ora”
“Non è mezz’ora, sono venti minuti. E io non rompo mai le palle, sfogo la mia vena giocosa”

 
Io e Duff torniamo in bagno. Mentre sto per chiudere la porta, ci ripenso.
“Puoi lavarteli anche da solo, no?”
Lui fa spallucce e io prendo un pettine e la lacca, per poi uscire dalla stanza.
“Axl?”
Slash mi indica la porta della camera.
 
Un altro abbraccio da dietro, un altro sussurro all’orecchio.
“Mi lasci torturare un po’ i tuoi capelli?”
“Che idea hai?”
“Cotonatura. Mai sentito parlare?”
Solo una volta mi sono lasciato cotonare i capelli. Dalla mia ex ragazza. È stata un’ora e mezza di tortura, conclusasi con una scopata. Mi passa un’ideona per la mente.
“Va bene, sono tutto tuo”

 
Mi inginocchio sul letto, dietro di lui. Prendo una ciocca e comincio a pettinarla, per poi fare lo stesso con un’altra, e un’altra ancora. Una spruzzata di lacca e ricomincio tutto da capo con un altro ciuffo di capelli. Ad un certo punto Axl si volta e mi ferma.
“Vogliamo divertirci un po’?”
“Non so te, ma io mi sto divertendo”
“Io no”
Alzo un sopracciglio. Il ragazzo vuole giocare? Mi bacia prepotentemente, spingendomi indietro, fino a farmi distendere. Bacia bene, lui. Un movimento fluido, lento e preciso. Niente nasi che sbattono, niente menti invadenti. Le nostre lingue si cercano, si toccano, si allontanano, per poi cercarsi di nuovo. Appoggio una mano dietro la sua testa, schiacciando quel ciuffo di capelli che avevo cotonato perfettamente. Sento le sue labbra abbandonare le mie, che però, bramose di un altro bacio, le ritrovano subito, facendomi tornare in quel bel mondo.
Finchè la porta si apre.
“Però non ho capito se posso farmi subito lo shampoo o devo aspettare”
 
Strabuzzo un attimo gli occhi. Axl e Jeanette sono distesi sul letto, impegnati in una seduta di hair-styling alquanto dubbia.
“Interrompo?”

 
Sì che interrompi, cazzo, esci da qua e non rompere.
 

No che non interrompi, stavo per perdere proprio al primo giorno perché sto qua bacia così bene.
Mi alzo e prendo la bottiglietta che Duff ha in mano.
“Non c’è scritto niente, secondo me lo shampoo te lo puoi fare”
“Ok, grazie”
Il finto biondo esce e lascia di nuovo me e Axl soli.
“Vogliamo riprendere l’acconciatura?” Un velo di malizia nel suo sguardo.
“Sì, carotina, ma la riprendiamo in salotto. Sono le tre e mezzo e non c’è tempo da perdere”
 
Sono seduto sul divano con Jeanette che mi spulcia, insieme ad uno Steven che, a quanto pare, non ha ancora esaurito la sua vena giocosa. Slash e Izzy intanto se la ridono. Ridete voi, ridete, più tardi vediamo, quando siamo sul palco.
 
“Non è che li puoi cotonare anche a me, un giorno?”
Squadro Slash, immaginandomelo con i capelli cotonati, ma la mia mente riesce solo a formulare l’immagine di un barboncino con tanto pelo.
“Un giorno forse, mi serve tempo”
“Ma non puoi fare l’acconciatura solo a Axl e a Duff, anch’io ho bisogno di attenzioni, insomma”
Izzy ficca sulla testa di Slash il suo cilindro.
“Fatto”
“Però, man, hai lo stesso talento di tua sorella. Si vede che siete parenti”
“No, non si vede affatto” dico, mentre pettino in fretta i capelli del rosso.
Finisco la cotonatura di Axl che sono le cinque e mezzo. È venuta un’opera d’arte, se potessi gli farei una foto. Se potessi. Ma una polaroid in questa casa è come un violino in Walk this way. Insomma, non c’è. Vado in bagno per l’ennesima volta della giornata. Ho un’oretta e mezza tutta per me e intendo sfruttarla al massimo.
 
Il Roxy è sulla Sunset Sstrip, a West Hollywood. E come locale non è niente male. Non che sia un posto di classe, ma mi piace. Mi da un senso di calore. Sempre meglio di certi bordelli dove andavo con gli Aerosmith.
Sono in camerino con i ragazzi, addosso ho il vestitino rosso comprato il giorno prima, che ha già strappato qualche fischio a un paio di ragazzi già sbronzi.
“Mi si sono afflosciati i capelli” urla Axl, venendo verso di me.
“Mannò, sembra a te. Ti ho messo talmente tanta lacca che per farli tornare lisci dovremo usare l’acido”
Lui mi porge una bottiglia di Jack Daniel’s.
“Ma come fate ad avere questa roba? Costa un sacco”
Ne bevo un sorso. L’ho assaggiato una volta sola, anni fa, ma il sapore me lo ricordo bene. Cazzo quant’è buono.
“Piccina, siamo star”
Rido in faccia ad Axl, giusto per farlo incazzare un po’.
“Vai a farti il concerto, va”
“Ne parliamo dopo”
E sparisce nel lungo corridoio che conduce al palco, mentre io prendo un’altra sorsata di Jack.
Sto andando anch’io verso il palco, ascoltando la chitarra di mio fratello che ha già cominciato a suonare una qualche canzone che non conosco. Ad un tratto, tutte le luci si spengono di colpo, ogni suono se ne va. Ma che cazzo…
Riesco ad arrivare alla fine del corridoio seguendo le luci di emergenza, giusto in tempo per sentire un tipo che urla che è saltata la corrente. Perspicace, il tipo.
“Meglio se vi trovate un altro posto dove andare, dobbiamo capire come mai è successo”
“E noi?” Giusto Steve, domanda più che lecita.
“E voi mi dispiace ma dovete sloggiare anche voi”
 
“Non è che possiamo andare da qualche altra parte?”
“No Izzy, torniamo a casa e basta”
Si fotta il Roxy. Si fotta il concerto. Si fotta sta cotonatura di merda. Mi ha fatto incazzare da morire, sto tipo che ci dice ‘Sloggiate anche voi’. Non è che io mi diverta, a organizzare concerti che poi non mi lasciano nemmeno fare. Qualcuno mi prende per mano. Jeanette.
“Perché dobbiamo andare per forza a casa? Non possiamo andare da qualche altra parte?”
“Se vuoi vacci tu, io per stasera ho chiuso”

 
 E così, tra i borbottii generali e gli insulti a chiunque non riesca a tenere accese le luci di un singolo locale, torniamo a casa. Mi tolgo il vestito e mi lancio sul divano.
“Buonanotte ragazzi”
“Notte”
 
Ciao, sono l’autrice:
…no, non siamo ancora nel vivo della vicenda. No no no no ù.ù
Vi faccio aspettare ancora un po’ ;)
 
Bacione, Euachkatzl <33

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Capitolo 4
*** Quarto giorno. ***


Non riesco a prendere sonno. Proprio, tengo gli occhi chiusi ma i pensieri non se ne vanno. Che pensieri, poi? Niente, cazzate varie che mi tengono sveglia. E un senso di nausea che non se ne vuole andare. Mi alzo piano, stiracchiandomi un po’. Dormire sul divano non è la cosa più comoda del mondo. Vado in cucina e mi verso un bicchiere d’acqua, mangio un paio di biscotti. Dio, fa freddo. Noto una felpa viola vicino al fornello. Bè, tutto fa brodo. Dev’essere di Duff, mi arriva tipo a metà coscia. Torno in salotto e accendo la tv, tenendo il volume al minimo per non svegliare i ragazzi, dubito che abbiamo voglia di essere svegliati alle quattro del mattino.
“Non dormi?”
Alzo la testa, Axl è appoggiato al muro.
“Ti ho svegliato io?”
“No, non riesco a prendere sonno. Sono ancora incazzato per ieri sera”
Si siede sul divano accanto a me, mentre alla tv trasmettono il telegiornale.
“Non suoneremo mai più al Roxy, ci hanno sbattuto fuori come se fosse stata colpa nostra”
Non lo ascolto, una notizia ha attirato la mia attenzione. Un padre che ha violentato suo figlio. L’ennesimo, dice la voce della giornalista.
“Stronzo…”
“Stronzo chi?”
Faccio cenno con il capo al televisore. Axl legge le scritte che scorrono veloci in basso sullo schermo.
“Ce ne sono talmente tanti…”
“Che gente di merda. Che poi, ti immagini come cresce un bambino che ha subito delle cose del genere?”
“Sì, lo so bene”
Mi volto verso di lui. Ha assunto un’aria triste.
“Lo sai bene?”
“Il mio patrigno”
Continuo a fissarlo. Non riesco a dire nulla.
“Mi dispiace, non pensavo…”
“Tranquilla. Non potevi neanche immaginarlo”
“Ma… com’era? Cioè, insomma…”
Non ho idea di come porgli la domanda, è un argomento talmente delicato.
“Non parliamone, d’accordo?”
 
Sì, Jeanette, non parliamone. Già non riesco a dormire per ieri sera, figurati se tiriamo fuori anche la mia infanzia. Non chiudo occhio per una settimana.
 
“E comunque, tu sei stata in collegio. Non dev’essere stato facile neanche per te”
“Scherzi? Quel collegio era il paradiso. Bastava che ti facessi metà delle ore in programma e venivi promosso. Vivevo con i miei amici, facevo quello che volevo senza regole, senza limiti… una figata”
“Perché ti hanno mandata lì?”
Abbasso improvvisamente lo sguardo. Nella mia testa ricordo di Jeff che piangeva, con un polso sanguinante.
“Jeanette, che cazzo hai fatto a tuo fratello?”
“Niente, è scivolato da solo”
“E come mai hai un pezzo di vetro in mano?”
“Jeff è scivolato su questo”
E intanto mia madre che chiamava un’ambulanza, mio padre che mi urlava contro, io che avevo solo dieci anni e non potevo capire cosa avessi combinato. Quanto fossi riuscita a torturare Jeff solo per gelosia, perché lui era arrivato e io avevo perso l’attenzione di tutti. Quanto male ho fatto, a Jeff. Cazzo, quanto mi dispiace, a volte.
“Jeanette?”
Le iridi verdi di Axl mi scrutano, mi hanno controllata durante tutto il flusso dei miei ricordi. Mi ricompongo velocemente, imbarazzata. Non posso mostrarmi debole.
“Non lo so, perché mi hanno mandata lì. E adesso scusa, ma ho tanto sonno”
Axl si alza e se ne torna in camera, un velo di preoccupazione sul suo viso.
 
Davvero, non riesco a immaginare cosa possa aver fatto di così terribile una bambina di dieci anni, tanto da essere mandata in collegio. E per essere ancora odiata da suo fratello, dopo sedici anni che non si vedono. Mi torna in mente tutto quello che è riuscito a fare il mio patrigno a me e a mia sorella, ma Jeanette non avrebbe mai potuto fare certe cose. Sono così stanco. Ma non riesco comunque a lasciarmi andare. Se mi addormento, di sicuro sogno di lui. Non posso prendere sonno.
“Jeff…”
Niente.
“Jeff…”
Dai cazzo, svegliati. Non posso mica urlare, che se sveglio Slash questo mi mena. Izzy mugugna qualcosa, prima di spalancare la bocca in un gigantesco sbadiglio.
“Che ore sono?”
“Non ha importanza. Devo parlarti”
Lui si mette seduto, ha gli occhi assonati, mezzi chiusi.
“Che c’è?”
“Cosa ha fatto tua sorella per essere mandata in collegio?”
Collegio. Mi fa quasi paura, questa parola.
“Te l’ho già spiegato, ha fatto tante cose. E non ho voglia di raccontartele”
“Almeno una. Ti prego”
Izzy sbuffa, scocciato.
“Non mi ricordo bene, ero piccolo. Mi hanno raccontato che ha cominciato quando avevo tipo due anni, lei ne aveva quattro. Ha tentato di annegarmi, in piscina”
“Dai, era piccola, magari è successo per sbaglio”
“Ci ha provato tre volte, non credo che siano successe tutte per sbaglio”
Anche il volto di Izzy si intristisce, esattamente la stessa espressione che aveva assunto Jeanette.
“Vabbè, lascia stare. Buonanotte”
“Notte Axl”
 

Sì, sono ancora sveglia. E sto pensando a tutte le cattiverie che ho fatto a Jeff. Me le ricordo perfettamente, una per una, nel preciso ordine in cui le ho commesse.
“Ti mandiamo in collegio, magari lì riusciranno a darti un po’ d’educazione”
E invece. E invece nemmeno lì ci sono riusciti, forse perché ho frequentato metà delle lezioni, forse perché sono scappata due anni prima di finire il corso di studi. Sempre che si possano chiamare studi. Sono fuggita con il mio ragazzo. Perché a quindici anni sei convinto che il primo che ti dice ‘Ti amo’ sia la tua anima gemella. La vita a volte fa proprio schifo.
 
Mi stiracchio le gambe, stendo per bene le punte dei piedi.
“Merda!”
Steven si sveglia di botto, ho urlato talmente forte che mi avranno sentito fino a Boston.
“Che hai, man?”
Intanto io mi giro e mi rigiro sul letto. Cazzo, che male. Che male! Tento di stendere la gamba il più possibile, ma niente, non riesco a comandarla.
“Ho… un crampo!”
“Solo un crampo? Cazzo, mi hai fatto preoccupare”
E si distende, riprendendo a russare poco dopo. E intanto io sono qua a morire di male.
“Ehi, che succede?”
Vedo in controluce una figura sull’uscio della porta, con addosso la mia felpa. Aiuto, ho addirittura le allucinazioni.
“Duff!”
No, forse non è un’allucinazione. No, mi sta schiaffeggiando.
“Ci sei?”
“Ho un crampo, porca merda”
E ride. È Jeanette.
“Non ridere, dammi una mano!”
“Dai, è un crampo. Mettiti in piedi”
“Non riesco manco a distendere la gamba, ti pare che possa mettermi in piedi?”
“Cazzo, ma quanti anni hai? Tirati su, piattola”
“Mi insulti pure, adesso?”
Jeanette mi tende la mano. La afferro e, con una gamba sola, mi tiro su.
“Devi appoggiarla, la gamba”
Faccio come mi dice. E il dolore se ne va. Per magia.
“È vero. È passato”
Lei scuote la testa e fa per andarsene.
“Comunque, compio ventidue anni domani”
“E urli per un crampo? Però, che uomo”

 
Squilla il telefono. Stesso discorso della porta, io a rispondere non vado. E infatti, arriva Steven, borbottando esattamente come il giorno prima. Stamattina però è seguito a ruota da tutti gli altri. In fondo sono le dieci, era comunque ora di svegliarsi.
“Sì, le passo la primadonna. È lui che prende le decisioni”
Porge il telefono a Axl, che con uno sguardo gli dichiara vendetta per quello che ha appena detto.
“Sì? Domani sera? Sì, d’accordo”
Riappoggia la cornetta al suo posto. Tutti lo guardiamo con aria interrogativa.
“Domani sera Roxy”
“Non suoneremo mai più al Roxy, ci hanno sbattuto fuori come se fosse stata colpa nostra” gli faccio il verso, meritandomi un’occhiataccia come quella appena toccata a Steven.
Vado in cucina a mangiare qualcosa. Riempio una tazza di cereali e torno in salotto.
“No, ma domani è il mio compleanno. Ero convinto che avevate organizzato qualcosa”
“E invece. E comunque il sei è il mio, a me cosa avete organizzato?”
Silenzio.
“E il ventinove è il mio, pensato a niente?”
Mi becco una squadrata da quei ragazzi ancora mezzi assonnati.
“Non c’è il ventinove febbraio quest’anno”
“E quindi non festeggiamo?”
Faccio una faccia da cucciolo triste, conquistando un abbraccio di Steven.
“Ma certo che festeggeremo, bellezza. Sarà la festa più figa dell’anno”
Sorrido felice, ma intanto devo pensare a qualcosa da regalare a Duff. E pure a carotina.
“E comunque, oggi pomeriggio dobbiamo andare a provare al Roxy. Hanno detto che forse è stata la chitarra di Stradlin a far saltare tutto”
Tra sbuffi e borbottii generali, ognuno passa la mattinata come gli gira, chi sul divano a guardare la tv, chi a ‘esprimere la propria creatività’. Ad essere sinceri, la seconda opzione è stata scelta solo da me e Steven, che in qualcosa come due ore e mezza di lavoro siamo riusciti a creare un castello di carte a otto piani. Un’altra occasione in cui una polaroid sarebbe stata utile.
 
“Gente, è ora di andare al Roxy”
Ci alziamo tutti controvoglia, a parte Jeanette che resta ferma per terra, davanti a quel gigantesco castello di carte che hanno fatto lei e Steven.
“Non vieni?”
“No, sto ancora pensando al regalo da fare a te e a Duff”
“Buona fortuna. E scegli bene, che sennò mi offendo”
“Sì sì, voi intanto cominciate a pensare al mio”
 

Un lampo di genio mi folgora mezz’ora dopo. Ho trovato il regalo perfetto per il biondone. Cerco dentro il portafoglio quel pezzo di carta dove segno tutti i numeri di telefono. Li scorro uno dopo l’altro, finchè non mi balza agli occhi quello giusto.
“Pronto?”
“Ciao, sono Jeanette. Ti ricordi di me?”
“Jeanette? Quella che sta con Steven?”
“È meglio se parli al passato. Comunque, non è che avete voglia di venire a Los Angeles, un giorno? Devo fare un regalo a un amico”
“Mi sa che dovrai aspettare un po’, piccola, adesso siamo a Miami. Se tipo veniamo per l’otto, va bene?”
“No problem. Grazie”
“Scherzi, stellina? Ci vediamo”
Mi sento un maledetto genio. Ho trovato il regalo perfetto. E anche per quanto riguarda Axl, mi è passata un’ideuzza niente male per la testa. Soddisfatta di me stessa esco e prendo l’autobus per andare in centro. Me lo merito, un pomeriggio di shopping.
 
È un’ora che parliamo con il proprietario del Roxy, che ci sta spiegando come mai sia saltata la corrente ieri sera. Parla di cavi, di contatti, di fili che non devono stare vicini e roba del genere.
“Adesso controlliamo quale degli strumenti ha fatto contatto l’altra sera. Suonate un paio di note, uno alla volta”
Strimpello un po’ il mio basso, temendo di venire fulminato da un momento all’altro. Ho già rischiato la vita stamattina, e proprio non mi va di morire a ventun anni. Morte, aspetta i ventidue, almeno. Ma non succede niente. Suono ancora un po’, giusto perché ci sto prendendo gusto. Niente. Lo sapevo che non poteva essere il mio basso, a creare problemi.
“Ok, Izzy, prova tu”
Appena Jeff da una pennata, si sente un rumore sordo, il microfono fischia e si accendono tutte le luci di emergenza.
“Abbiamo trovato il colpevole”
“No, la mia chitarra va benissimo”
“Hai appena fatto saltare il locale per la seconda volta, non credo vada così bene. O cambi chitarra o non ti lascio suonare qui”
“E dove cazzo la trovo una chitarra in un giorno? Non ce l’ho, l’albero dei soldi”
“Calmati, Jeff, troveremo una soluzione”
Strano, che Axl si riveli così saggio. Di solito è il primo a uscire di testa.
Salutiamo il proprietario del locale e torniamo a casa.

 
“Noi ci fermiamo in centro, dobbiamo trovare la chitarra”
“D’accordo, a dopo”
Jeff mi squadra.
“Che idea hai?”
“Conosco un paio di persone…”

 
Sono dentro ad un negozio di dischi gigantesco. Ma che gigantesco, immenso. File e file di dischi, di vinili, di cassette, una roba assurda. Una parete ricoperta di chitarre, un pianoforte bianco in un angolo del negozio.
“Ciao bello, come stai?”
Alzo la testa, questa voce la conosco. E infatti, alla cassa c’è Axl che sta salutando un tizio, insieme a mio fratello. Mi avvicino.
“Già finite le prove?”
“Salve, piccola. Già finito di pensare ai regali?”
“Certo. Vedrai il tuo, ti piacerà”
“Basta che ci sia tu, mi piacerebbe qualsiasi cosa”
“Io torno a casa, si sta facendo tardi”
“Va bene, ci vediamo dopo”
“Ciao ragazzi”
 
“Vado io a farmi la doccia per primo”
“Col cazzo, Hudson. Tu riempi la doccia di capelli ogni volta, e mi fa schifo avere i piedi impantanati in quella merda ogni volta che mi lavo. Vado io”
“No, biondone, ieri tu sei andato per primo, oggi vado io. E cerco pure di perdere più capelli del solito”
Steven esce dalla cucina con una banana in mano.
“Ragazzi, basta. Vado io”
Io e Slash lo squadriamo un attimo, per poi ricominciare a litigare.
“E comunque, non è che tu ne perda pochi. Ieri c’era la doccia invasa dai tuoi capelli bicolor”
“Mi ero appena fatto la tinta, non potevano essere bicolor”
Il portone sbatte. Ci voltiamo tutti a guardare chi osa interrompere un momento così delicato. Jeanette.
 

Mi fissando tutti. Forse ho scelto il momento sbagliato per tornare a casa.
 
“Interrompo?”
“No, stavamo decidendo chi va per primo a farsi la doccia”
“Vado io”
E sguscia velocemente in bagno, lasciando all’entrata un paio di borse.
“Ma perché quando ho detto ‘vado io’ nessuno mi ha cagato e invece quando l’ha detto lei l’avete lasciata?”
“Sta zitto, Steve”
 

Doccia gelida anche oggi, terminata in due secondi. Mi asciugo i capelli e inizio la disperata ricerca di una piastra per i capelli, che dubito di trovare in questa casa. Invece eccola lì, incastrata tra il muro e il termosifone. Allora anche Axl ha i suoi piccoli segreti, in fatto di capelli.
Esco dal bagno che i ragazzi stanno cenando, qualcuno è stato talmente magnanimo da preparare un piatto di pasta anche per me.
“Come sono andate le prove?”
“È stata la chitarra di Stradlin a far saltare tutto, l’altra sera. Abbiamo dovuto farcene prestare una”
“Ah, per quello eravate in quel negozio oggi”
Axl annuisce.
“E che vi hanno dato?”
“Jeff l’ha già messa al sicuro in camera, non credo che te la lascerà toccare facilmente”
Faccio gli occhioni dolci a  mio fratello, che però non ne vuol sapere di mostrarmi il suo nuovo giocattolo.
“E per i regali, invece?”
“Curioso, Duff?”
Il biondo fa spallucce, come se la mia fosse stata una domanda retorica.
“Dovrai aspettare un po’ di giorni per il tuo, deve arrivare da Miami”
Un sguardo interrogativo si fa strada sul viso di Duff, ma non gli rivelerò mai la sua sorpresa prima del tempo. Finisco la mia pasta e mi lancio sul divano. Stasera fanno Camera con vista, non posso non guardarlo.
 
Il film finisce con Lucy e George in viaggio di nozze a Firenze, uno Steven in stato comatoso di fianco a me e un Duff che ha preso sonno da un pezzo sul tappeto.
“Lo lasciamo lì?”
“Io non lo trascino fino in camera nostra”
“Lo lasciamo lì. Notte Steve”
“Notte piccola”
 
Ciao, sono l’autrice:
non dico niente. Il signor Tyler mi sta cantando What it takes e sono in uno stato comatoso peggio di Steven.
Grazie a tutti quelli che mi recensiscono, che hanno messo la storia tra le preferite o le seguite.
Un bacio, Euachkatzl <33

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Capitolo 5
*** Quinto giorno. ***


“Buongiorno”
Una puzza schifosa mi invade le narici. Sembra quell’odore che resta in una stanza dopo che ci hai dormito, l’odore da sonno, lo chiamo io.
“Hai un alito osceno”
“Eh mi dispiace, mi sono appena svegliato”
Non apro gli occhi, non ne ho voglia. Semplicemente allungo una mano e la appoggio sopra la testa di questo tipo che mi ha svegliata in modo decisamente brusco. I capelli sono morbidi, arruffati, lunghi. Sai che indizio. Tutti in questa casa abbiamo i capelli morbidi, arruffati e lunghi.
“Chi sei?”
“Sono il neo ventiduenne”
Mi giro su un fianco, trovandomi faccia a faccia con lo schienale del divano. Sprofondo il viso nel cuscino.
“Mi sento vecchia”
“Eddai, quanti anni puoi avere?”
“Vergognati, Duff, non si chiede”
“Scusa, mi è scappato”
 
Silenzio. Jeanette è ancora immersa nel cuscino, a pensare alla sua vecchiaia. Avrà ventiquattro anni al massimo.
 
“Ne ho quasi ventisei, comunque”
 
Ho sbagliato. Avvicino il mio viso al suo, le lascio un piccolo bacio sulla guancia.
“Non è che posso rapirti per un po’?”
Lei si gira, mi guarda.
“È il tuo compleanno. Puoi fare tutto quello che vuoi”

 
Mi lavo il viso velocemente, mi passo la spazzola tra i capelli e sono pronta per uscire.
“Dov’è che andiamo?”
“Vedrai”
 
Arriviamo a piedi a una spiaggetta lì vicino. Ci togliamo le scarpe e ci dirigiamo verso l’acqua chiara.
“Com’è essere una groupie?”
Guardo Duff. Così, di mattina, con i piedi a mollo nell’oceano gelato mi vieni a chiedere com’è essere una groupie?
“Cioè… non so niente di te, se ci penso. Conviviamo da quasi una settimana e so solo che Steven Tyler ti ha lasciata per strada e tu sei venuta qui”
Guarda davanti a sè. Il vento che arriva dal mare gli fa svolazzare i capelli indomati. Quanto sei bello, ragazzo. Mi piego sulle ginocchia, guardo anch’io nella stessa direzione.
“Fa schifo. Sei un oggetto in mano a un gruppo di drogati”
Si gira, mi fissa.
“E perché l’hai fatto?”
“Non l’ho deciso io. A quindici anni io e un ragazzo siamo scappati dal collegio insieme. È stato divertente, per qualche anno”
Sorrido amara. Altrochè, se è stato divertente. Feste ogni sera, sbronze varie, gente che conoscevamo in giro che ci ospitavano perché eravamo simpatici. Era bello. Eravamo piccoli, convinti che tutto il mondo fosse a nostra disposizione. Che ogni porta fosse aperta per noi e che la gente non fosse cattiva. Infatti non è la gente, quella di cui devi aver paura. Sono le persone di cui ti fidi di più, che ti accoltellano alle spalle.
“E poi?”
“E poi niente, non avevamo soldi e ce ne servivano urgentemente. Abbiamo cercato lavori in lungo e in largo, poi una sera siamo arrivati a Los Angeles. La città dei sogni. E abbiamo scoperto che le partitelle a poker fruttavano bene. Ci siamo mantenuti così per un paio di mesi”
Avevo 19 anni. Avevo già buttato quattro anni della mia vita a puttane, inseguendo quello scemo di ragazzo. Quattro anni convinta di saper vivere. E invece mi stavo scavando la fossa da sola.
“Solo che un giorno i soldi erano finiti. E al poker devi sempre puntare qualcosa. Quel deficiente puntò me. E Joe Perry aveva una mano fortunata”
“E per cinque anni sei andata dietro agli Aerosmith?”
“Non funziona proprio così. Te l’ho detto, sei un oggetto. Una sera sei con un gruppo e la sera dopo ti prestano a qualcun altro, per poi rivolerti qualche settimana dopo. E poi ricomincia tutto da capo, è una merda”
Apriamo una sdraio e ci sediamo lì. Fa freddo; il vento si sta facendo più forte. Mi avvicino a lui, mi avvolge un braccio attorno alle spalle, mi stringe forte.
“Di solito le groupie sembrano tutte allegre”
“Sei allegra perché scopi col più figo del gruppo. O perché sei talmente ubriaca che non ti accorgi di quello che ti stanno facendo”
“Vedendoti, non avrei mai detto che sei una di loro”
“Lo prendo come un complimento”
Guardo Duff, e mi accorgo che lui mi sta fissando già da un bel pezzo. Mi perdo dentro a quegli occhi, vorrei restarci per sempre. Ho il suo braccio ancora intorno a me, che mi tiene, quasi come non volesse lasciarmi scappare. Siamo seduti così, su una cazzo di sdraio su una spiaggia deserta. In fondo, a chi verrebbe in mente di andare in spiaggia a febbraio? Di mattina, poi. Eppure è bellissimo. Il profumo del mare che fa a pugni con quello di Duff. Il vento che si intromette tra i nostri visi, sempre più vicini. Le sue labbra rosee schiuse, i miei occhi che non si staccano dai suoi.
 
“Nessuno ha visto Duff?”
Steven fa capolino in cucina, dove io, Saul e Jeff stiamo facendo colazione. Colazione. È mezzogiorno ormai, ma stiamo mangiando biscotti, quindi tecnicamente è colazione. Scuotiamo tutti la testa.
“Non c’è neanche Jeanette”
“Ho un brutto presentimento sul regalo di compleanno”
Tutti mi fissano.
“Ti ha fottuto la donna, bello mio”
“Mckagan che mi frega una donna? Nah, cazzate”
Mckagan che mi frega una donna? Sai che figura ci faccio, se è vero?
“Vabbè, prima o poi torneranno. Prepariamoci un po’ per stasera”
“Che è Izzy, mi vuoi cotonare pure tu?”
“Intendevo ripassiamo qualche canzone”
Non ho voglia di ripassare canzoni. Jeanette è fuori da qualche parte con Duff e io sono qui a girarmi i pollici. E se poi si innamora di lui? Ma perché mi sto facendo tutti questi problemi, poi? Tanto me la scopo e basta. Stop.
“Ok, ripassiamo qualcosa”

 
“Te l’ha mai detto nessuno che sei dolcissimo?”
“Qualcuno, un paio di volte”
Si accoccola meglio contro il mio petto, di fronte a noi ancora l’oceano.
“Ti amo” Un ‘ti amo’ timido, sussurrato piano.
“Anch’io ti amo”

 
“Cazzo, hai suonato Think about you tre volte. Ce la fai a fare un assolo decente? Che sennò Slash suona pure quello”
“Taci, devo farlo bene e mi prendo quanto tempo voglio”
E per la quarta volta, quelle note girano per il salotto. E per la quarta volta, una nota si perde per strada.
“Hai sbagliato di nuovo”
“Sì, ce le ho anch’io le orecchie”
“Calmati, cazzo. Se sei così isterico per forza che non riesci a suonare niente”
“Va a farti fottere, Rose”
E se ne va in camera, incazzato nero.
“Ma che ho detto io?”
“Lascia perdere, tra un po’ gli passa”
Steve mi porge la ciotola da cui sta mangiando pop corn a nastro.
“Sai che mi fanno schifo”
“Era solo per mostrarmi gentile”
Si apre la porta.

 
Saluto, poi io e Duff andiamo subito in cucina, con la scusa della spiaggia non abbiamo mangiato niente per tutto il giorno.
“Oh, allora siete vivi”
La mia testa fa capolino dalla porta.
“Paura, Axl?”
“Tra tre ore dobbiamo essere al Roxy, senza bassista siamo nella merda”
“Non credevo mi volessi così tanto bene. Sono commosso”
Duff torna in salotto e si piazza sul divano in mezzo tra Steve e Axl.
“Non dimenticate niente?”
 
Mi guardano interrogativi. Di sicuro stanno fingendo. Devono aver organizzato qualcosa per stasera.
 
Mi volto verso Jeanette, ignorando la pertica.
“Mi fai i capelli anche oggi?”
Lei si avvicina, ancheggiando in modo sexy. Comincio a farmi un paio di filmini mentali alquanto osceni, ma ho paura di sapere già la risposta che mi darà.
“No”
Ormai ho imparato a leggerti nella mente, piccina.
“È libero il bagno?”
“C’è Saul”
“Saul?”
“Slash”
“Ma nessuno usa il suo nome vero, qui dentro?”
“Io sì!”
Steven alza la mano tutto soddisfatto, contento del fatto che il suo vero nome sia figo e che lui non abbia bisogno di un nome d’arte.
“Siamo artisti, non possiamo avere un nome normale”
“Sì, è la stessa storia dei capelli da punkettone”

 
Non tirare fuori quella storia, Jeanette. Per favore.

 
“E com’è che vi chiamereste veramente?”
“Io mi chiamo Michael”
“E perché l’hai cambiato? È un bel nome”
“Perché Duff è… è Duff. Cioè, hai capito. Fa più… Duff”
Squadriamo tutti il biondo.
“Cazzo amico, tu sì che sei Duff” commenta Slash, che è appena uscito dal bagno e ha sentito solo l’ultima frase del nostro discorso.
Tiro su la testa e guardo la Jeanette, in piedi dietro di me.
“Il mio vero nome non te lo dirò mai”
“Non dovevi neanche dirmi quello finto, tempo fa. E invece magicamente l’hai fatto”
“Stavolta non cederò così facilmente”
“Sicuro?”

 
Mi abbasso piano verso il viso di Axl/nome che non so. Sento già uno sbuffo soddisfatto da parte sua, quello che voleva era proprio provocarmi.
“No, ho troppa fretta, non ho tempo di stare qua a giocherellare”
Mi alzo di colpo e vado in bagno. Ragazzo, ne hai da imparare, se vuoi giocare con me.
 
“Riesce a fartela ogni volta, eh?”
“Fanculo, Duff”

 
Arriviamo al Roxy più tardi dell’altra volta, sono tipo le otto e mezza.
Entriamo e vengo investita da una puzza oscena per la seconda volta nella giornata. Perché gli odori mi danno di colpo così tanto fastidio?
“Ehi, piccola”
Steven si avvicina ad una ragazza al bancone e la bacia. Bacio molto poco casto, devo sottolineare. Domani faremo una lunga chiacchierata, caro mio.
“Lei è Jeanette” mi prende per mano e mi trascina verso la ragazza.
“Ciao”
“Ciao. Io sono Nicole”
“Te la lasciamo qui per stasera, non può venire con noi in camerino”
Lo guardo confusa.
“Davvero?”
“Il proprietario non vuole più gente nei camerini durante lo spettacolo”
“Per me non è un problema, mi serviva una mano. Ci sai fare, come barista?”
“Ho una certa esperienza con l’alcol, diciamo”
Vado dietro al bancone e Nicole mi piazza in testa una specie di cerchietto, che hanno tutte le cameriere. È bello, dorato. Da un lato parte una fila di piume colorate, che scendono fino ad una spalla. Tutti mi fissano, con quel coso in testa mi sento un po’ ridicola.
“Andate a farvi il concerto, siete già in ritardo”
 
“Da quanto tempo conosci i ragazzi?”
Questa domanda mi prende un po’ alla sprovvista, ero impegnata a misurare la tequila che mi serviva per il cocktail.
“Non serve che la misuri così precisa. Tanto sono tutti talmente ubriachi che anche se dai loro acqua pura sono felici”
“Ah, d’accordo. Comunque sto da loro da un po’ di giorni, sono la sorella di Izzy”
“Seriamente? Non sapevo che avesse una sorella”
Non sono sicura che mi stia davvero cagando, questa Nicole. Gira su e giù per il bancone, servendo da bere alla velocità della luce.
“E dimmi, li hai mai sentiti suonare?”
“No, non sapevo neanche che esistevano. Sono stata in giro con gli Aerosmith per un po’ di tempo”
“Steven Tyler e compagnia bella?”
“Sì, loro”
“Fortunata. Comunque, devi assolutamente sentire i ragazzi. Sono bravissimi”
“Davvero?”
“Sì, guarda, stanno salendo sul palco”
 
È maledettamente bello salire sul palco. Sentire la gente che comincia a urlare semplicemente vedendoti.
“Buonasera gente, siamo sempre noi”
E via un altro boato. Quanto amo farmi guardare.

 
“Di solito la prima è sempre qualcosa di forte”
“Quanto tempo è che suonano?”
“Non lo so di preciso, qui al Roxy da qualche mese”
 
“Sì, gente, sì, urlate. Perché stiamo entrando nella giungla, ci siamo già fino al collo nella giungla”

 
Mio fratello comincia a suonare, poi si uniscono a lui la batteria, il basso, la chitarra di Slash. E in ultima, la voce di Axl. Strabuzzo gli occhi.
“Ma che cazzo di voce ha?”
“Bella, vero?”
Non so dire se è bella oppure no. Ero abituata alla voce roca di Steven, e adesso arriva questo con un suono pulito, preciso, chiaro. Questa non me l’aspettavo.
“Ehi bella, arriva la birra o no?”
Mi volto, un tipo mi sta squadrando. Mi ero pure dimenticata di dov’ero, ci sono rimasta davvero basita di fronte a quella voce. A parlarci, non sembra così particolare. Così bella.
 
“D’accordo, d’accordo. È passata quasi un’ora e voglio cambiare un po’. Questa la voglio dedicare a una persona speciale…”
 
Lo sapevo che non poteva dimenticarsi del mio compleanno, in fondo.
 
“…che ho conosciuto da poco…”

 
Vabbè, sono tre anni, possono essere considerati come ‘poco’, in confronto all’amicizia tra Axl e Izzy.

 
“…ma a cui voglio davvero un gran bene”
 

Sì Axl, sei insopportabile la maggior parte delle volte. Sei isterico, incazzato, egocentrico, narcisista, stronzo. Ma anch’io ti voglio bene.
 
“Jeanette, questa è per te”

 
Mi sento gli occhi di Nicole addosso, mentre dalla chitarra di Slash parte un riff lunghissimo. Vorrei sprofondare.
 
“She’s got a smile it seems to me
Reminds me of childhood memories”
 

E dopo tre minuti, finisce la canzone. E per tre minuti io sono rimasta a ascoltarla, in trance. Alla fine devo ammetterlo, sono bravi.
 
“E adesso torniamo al rock, sì, il signor Brownstone è tornato a trovarci”
 

Appena vedo i ragazzi scendere dal palco, saluto Nicole e abbandono il bancone. Spintonando un po’ di gente, pestando qualche piede, tento di andare verso i camerini.
 
“Una persona speciale, che conosco da poco ma a cui voglio tanto bene”
“Taci, Mckagan, almeno io ce l’ho qualcuno a cui dedicare la canzone”
“No, tu hai qualcuno con cui fare il ruffiano. Tanto lo sa pure lei che sei uno stronzo, non si impiega tanto a capirlo”
“Ripetilo, Duff, ripetilo”
Viene verso di me, incazzato. Vuoi fare rissa, tappo? Ti supero di venti centimetri, che cazzo vuoi farmi?
“È inutile che fai tanto il romantico, dì semplicemente che te la vuoi scopare e basta”
“Sì, me la voglio scopare e basta. E devo farcela in venticinque giorni, quindi faccio anche il romantico, per portarmela a letto”
“Venticinque giorni. Io ce la faccio in neanche la metà”
“Ah sì, Mckagan? Dai, voglio proprio vederti”
“Per quanto ne sai, posso anche aver già vinto. Secondo te che abbiamo fatto io e Jeanette stamattina?”
“Non avete fatto niente, ne sono sicuro. Cosa vuoi che faccia lei, con uno come te?”
“Venticinque giorni, dopo potrai parlare”
 

“Ragazzi, che avete da urlare? Vi sentivo già dall’inizio del corridoio”
Mi fissano tutti. Ho paura di essere arrivata in un momento delicato.
“Io torno a casa”
Duff prende e se ne va, si ferma di fianco a me.
“Ti va di venire?”
“Te l’ho detto, è il tuo compleanno. Decidi tu”
Lo seguo, sempre più incasinata.
 
Apro la porta ed entro, seguito da Jeanette.
“Davvero posso fare tutto quello che voglio oggi?”
“Nei limiti del legale”
“E nei limiti del pudore?”
Lei si avvicina a me, mi prende il viso tra le mani.
“Conosci il significato della parola pudore?”
La bacio, prendendola alla sprovvista. Le mie braccia passano attorno alla sua vita sottile, tirando Jeanette verso di me. Il suo vestito nero contro la mia maglietta blu.

 
Guardo l’orologio appoggiato sopra il comò. Mezzanotte. Il mio sesto giorno in casa Guns.
 
Ciao, sono l’autrice:
Mi dispiace, ma è cominciato il sesto giorno, io vi stavo raccontando solo il quinto ù.ù Non odiatemi.
Faccio partire un giro di scommesse, votate in favore di Duffone (che sembra si stia già dando da fare) o di carotina.
 
Un bacio, Euachkatzl <33

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Capitolo 6
*** Sesto giorno. ***


Siamo vicini. Vicinissimi. Ci baciamo lentamente, è una cosa complice. Un’empatia fortissima, un senso di sollievo nel sapere perfettamente cosa ha idea di fare l’altro. Forse non è sollievo. Forse è solo sicurezza. Mi sento sicura. So che di colpo non finirà tutto, o che di colpo non mi troverò schiantata per terra, sotto un uomo che conosco a malapena. So solo che sono stretta tra le braccia di Duff, le sue labbra che torturano le mie. Niente giochini, niente voglia di prevalere. Solo il desiderio di sentirsi uno accanto all’altro, di sentire il calore di una pelle diversa sulla propria. Sento un tocco morbido partire dalla nuca, per poi scendere, scendere insieme alla zip del mio vestito, scendere insieme al tessuto nero che fasciava il mio corpo. Fa freddo. Ma i brividi che sento non sono di freddo, no. Chi lo sente il freddo, così stretta ad un uomo del genere, che emana calore anche solo con un sorriso? Appoggio le mie mani sui suoi fianchi spigolosi. Afferro l’orlo della sua maglietta blu e lo alzo velocemente. Sì, velocemente. La sua lentezza comincia già a esasperarmi. Non fare il prezioso, ragazzo, non cominciare a voler prevalere. È così bello, essere alla pari. Ti senti nudo anche se hai tutti i vestiti addosso. Ma invece i nostri, di vestiti se ne sono andati. A parte i jeans di Duff. Le sue labbra incontrano di nuovo le mie. Siamo sempre nello stesso punto, davanti al portone d’ingresso. E siamo ancora a baciarci. A sentire la bocca morbida dell’altro sulla propria, la lingua umida che cerca di spingersi sempre più in là, che vuole sentire tutto, che vuole abbattere qualsiasi barriera che ci allontana. Le mie mani sepolte tra i suoi capelli, le sue che esplorano la curva della mia schiena. Mi avvicino di più, la mia pancia a contatto con la sua. Con un’unica mossa un po’ impacciata se ne vanno le scarpe col tacco, che mi stavano uccidendo. Il pavimento è freddo. Non me ne ero mai accorta. Duff muove qualche passo. Le mie gambe, ormai intrecciate alle sue, seguono tutti i suoi movimenti. Mi trovo appoggiata contro lo schienale del divano. Faccio scendere le mie mani dai capelli di Duff fino alla sua schiena, sentendo le scapole sotto la pelle, sempre più giù, contando una ad una le costole finchè non arrivo alla curva della schiena. E là mi fermo. La mia stretta si fa più forte, mi piace quel punto. Mi piace esplorarlo, perdere lì le mie mani, mentre le mie labbra sono ancora impegnate in un lungo bacio che non ne vuol sapere di finire. E invece no, la bocca di Duff smette di torturare la mia e si dirige verso il collo, lasciando baci ad ogni centimetro di pelle che trova. Affonda il viso tra i miei capelli, le sue labbra che continuano la loro strada verso la spalla. Lascio la presa su quella parte di schiena che stavo lentamente scoprendo e in un movimento veloce mi sgancio il reggiseno, che cade a terra obbediente. E Duff un’occasione del genere non se la fa scappare. Lo sento sorridere, interrompere quello che stava facendo sulla mia spalla per dirigersi verso mete più appetibili.
“Venticinque giorni”
Uno sbuffo, un sussurro impercettibile, che però nel silenzio della stanza risuona chiaro, rimbombando sulle pareti, sui pochi mobili presenti.
“Cosa?”
Le mani di Duff si erano già appoggiate sui miei seni, pronte a far spazio ad un bacio bollente, ma la mia risposta stravolge i piani del ragazzo. Il suo viso torna vicino al mio, le nostre fronti appoggiate una contro l’altra.
“Rose mi ha detto della vostra sfida”
“E hai voluto provarci anche tu”
“Non mi sembra che ti dispiaccia, dopotutto”
Le sue labbra di nuovo a contatto con le mie.
“Non avresti dovuto. Adesso mi tocca fare la preziosa pure con te”
Si allontana un po’, malizioso.
“Proprio non mi lasci vincere così facilmente?”
“La vittoria è una cosa che si deve guadagnare”
Tutte queste parole sussurrate hanno un che di eccitante, l’attesa mi fa impazzire. L’attesa che sto creando io, poi. Torna verso di me, nasconde il suo viso tra i miei capelli, mi bacia piano il lobo dell’orecchio.
“Sono pronto a combattere”
Combattere. Tu non sai cosa voglia dire combattere con me. Velocemente, in una mossa fluida, inverto le posizioni. Adesso ci sei tu, imprigionato tra lo schienale e me, piccino. Comincio a far vagare le mani su di lui, sul suo torace nudo, senza un percorso preciso. Semplicemente, voglio sentire tutto, ogni curva del suo corpo, ogni muscolo teso. E vago, vago, fino ad incontrare l’orlo dei suoi jeans, i due bottoncini che li tengono chiusi. Ci giocherello un po’, lasciando scorrere il tempo, uno dei miei alleati più preziosi. E a forza di giocherellare i bottoni si slacciano. Con un gesto secco, mi piego sulle gambe, trascinando giù con me i jeans, lasciando Duff con addosso l’intimo e un velo di eccitazione che si fa sempre più insopportabile. Accarezzo un po’ le caviglie del ragazzo, prima di decidermi a giocare sul serio. Le mie labbra si appoggiano su un fianco, appena sopra i boxer. Lascio un bacio lì. Mi sposto un po’, lascio un altro bacio. Sento il respiro di Duff farsi affannoso. Non mi basta un respiro affannoso, io voglio le scintille. E così, per magia, anche quel poco di stoffa rimastogli addosso cade a terra. E i baci si avvicinano sempre di più alla sua intimità, facendosi sempre più lunghi e caldi. Le mie mani completano l’opera, risalendo le gambe e appoggiandosi proprio lì, dove poche mani hanno osato arrivare. Un gemito.
“Che cosa, Duff?”
“Jeanette, ti prego”
Mi rialzo, di nuovo vicina al suo viso perfetto.
“Te l’ho detto, che era meglio se non facevo la preziosa”
Gli lascio un ultimo bacio a stampo, mi volto e raccolgo la sua maglietta, indossandola con fare provocante, mentre lui è ancora fermo a fissarmi.
 
Non ho mai sopportato fare la guerra. Ma se la guerra è proprio quello che vuoi, mi sa che non ho scampo.

 
Vado in camera di mio fratello e chiudo la porta a chiave. Mi butto su un letto a caso, non so di chi sia. Anche Duff ha voluto partecipare a quella ridicola sfida. Peccato. Chiudo gli occhi, respirando il profumo della sua maglietta, che fino a pochi secondi fa potevo sentire direttamente dalla sua pelle.
 
Mi rivesto e mi butto sul divano. Resto a torso nudo, un’altra maglietta non ho voglia di andarla a prendere. Mi rialzo e vado in cucina a prendere una birra, per poi tornare lì sul sofà e accendere la tv. Bevo una lunga sorsata dalla lattina, ripenso a quella ragazza. Chissà cosa sta facendo, dall’altra parte del muro che ho di fronte. Mi ha fregato di brutto. Forse venticinque giorni sono un numero ragionevole, dopotutto.
 
Sto guardando i cartoni animati (sì, i cartoni animati) quando la porta d’ingresso si spalanca ed entrano Axl e Slash, accompagnati da un paio di ragazzine e risate varie. Vanno tutti verso la porta della camera da letto di Axl ma, trovandola chiusa, non si pongono problemi ad andare nella mia. Ho paura che per stanotte a me tocca il divano
.
 
Mi sveglio abbracciato ad una tipa di cui non mi ricordo il nome, la provenienza, l’età. Forse non li ho mai saputi. Siamo sul letto di Steven, su quello di Duff Slash con un’altra ragazza, un’altra di cui non ho nessun ricordo. Mi alzo e vado in bagno, trovando sul divano il biondone a torso nudo che dorme della grossa. Deve essersi divertito anche lui, questa notte. Mi sciacquo il viso con l’acqua fredda e connetto il cervello di colpo. No, Duff non può aver fatto baldoria questa notte. È tornato a casa con Jeanette. Riapro la porta del bagno e spio il mio bassista. Dorme. A torso nudo. Senza ragazze intorno. Dove cazzo è andata quella bambina malefica? Faccio un giro in cucina, ma non la trovo. Tento di entrare in camera mia ma la porta è chiusa. Busso. Un brontolio si leva dall’interno della stanza, poi qualche passo si dirige verso la porta.
 
Abbasso la maniglia e tiro la porta verso di me, ma niente. Non si muove. Ci riprovo un paio di volte, prima di ricordarmi che ho chiuso a chiave. Giro la chiavetta nella serratura e finalmente riesco ad aprire.
“Ciao”
Caccio uno sbadiglio gigantesco in faccia ad Axl, poi mi decido a rispondere.
“Ciao”
“Come te la sei passata, stanotte?”
Apro la bocca per rispondere, ma una rossa mezza nuda arriva alle spalle di Axl e lo trascina in camera di Duff.
 
“Ehi, rossa, basta così. Non ti è bastato stanotte?”
Lei fa una faccia da cucciolo bastonato, tentando di rimediare un’altra scopata. Non ci faccio caso e butto l’occhio sul letto di fianco a quello sul quale mi ha trascinato questa pazza. Vuoto, Slash si è alzato e io non me ne sono manco accorto.
“Senti, bella, vattene”
“E mi tratti così dopo che ho fatto tutto quello che volevi? Non sono una troia”
“No, per carità, sei solo andata a letto con il primo che ti passava davanti. E adesso vattene, ho di meglio a cui pensare”
Mi rialzo e torno nella mia stanza, ma di Jeanette neanche l’ombra. Ma perché spariscono tutti, oggi?
Vado in cucina e trovo Slash e Duff intenti a prepararsi la colazione. Per la prima volta nella mia vita li vedo scaldarsi il latte. Sta succedendo qualcosa.
“Eccoti! Buon compleanno bello”
Vengo stritolato da un abbraccio di Slash. Appena riesco a liberarmene guardo il bassista, che è rimasto in silenzio a controllare il pentolino sopra il fornello. Gira la testa e mi guarda.
“Tanti auguri”
“Grazie, Mckagan. Jeanette?”
“È uscita, ha detto che doveva sistemare un paio di cose per il tuo regalo”
 
Sono circa le tre quando tornano a casa anche Izzy e Steven, reduci da una nottata durata fino al primo pomeriggio.
“Bentornati. Dove siete stati di bello?”
“Da Nicole” urla la vocetta allegra di Steven. Mi pare incredibilmente sobrio rispetto al solito. Tra Slash che si scalda il latte e Steven sobrio dopo una notte passata in giro, ho seriamente paura che stia per accadere qualcosa.
“Tanti auguri bello”
Izzy, al contrario di Steven, è ancora mezzo rincoglionito dalla sbronza. Si accascia sul divano sopra di me, in un tentativo di abbraccio. Steve si limita a darmi una pacca sulla spalla, consigliandomi di vivere intensamente quest’ultimo anno di giovinezza che mi rimane.
“Fottiti, tanto sono sicuro che tu salti prima di me”
“Sei il più vecchio in questa casa, sta attento”
 
Dopo un altro paio d’ore, di Jeanette nessuna traccia.
“Io vado a cercare Jeanette”
Gli altri annuiscono, intenti ad ascoltare le prodezze di Steven con la sua ragazza, cosa di cui a me non frega poi molto. Prendo il mio giubbotto di pelle ed esco. Mi incammino verso il centro, sperando di trovare prima o poi la ragazza lungo la strada. E infatti, in lontananza, vedo un profilo inconfondibile, contro il sole che sta già cominciando a colorarsi di rosso.
“Carotina!”

 
Corro incontro ad Axl, che mi ha fulminato con lo sguardo ad una distanza di metri. Lo abbraccio.
“Tanti auguri”
Ho ancora il fiatone, lui è eccitato come un bambino all’idea del regalo che ho pensato. Dovrai aspettare un bel po’, amore mio.
“Allora? Che facciamo?”
Mi guardo intorno, vaga.
“Jeanette!”
“Per adesso ci facciamo un giro, la sorpresa devo mostrartela al momento giusto”
“So io un paio di posti dove andare”
 
Mi ritrovo in un locale di nome Rainbow, a due passi dal Roxy dove i ragazzi hanno suonato l’altra sera. Sembra un po’ squallido, a vederlo da fuori, ma all’interno dà un senso di familiarità. Sembra uno di quei locali dove ambientano le fiction, quelli dove i protagonisti si recano sempre a bere.
“Ci veniamo sempre, io e gli altri”
Come volevasi dimostrare. Ordiniamo un paio di cocktail al bancone. O meglio, Axl ordina un paio di cocktail al bancone.
“Hai idea di farmi ubriacare per poi portarmi a letto?”
“Può essere”
“Vivevo con gli Aerosmith, bello mio. Ormai l’alcol non mi fa più effetto”
“Non importa, conquistarti da sobria sarà più soddisfacente”
 
Restiamo al Rainbow per un pezzo, un drink dopo l’altro e arriva la sera. Arriva l’ora di cena. E io non mangio da colazione, a parte le noccioline che ci hanno dato con l’aperitivo.
“Andiamo, è ora di mostrarti il tuo regalo”
Axl si alza e va a pagare, tutto felice, mentre io esco in strada a cercare un taxi. Dico velocemente l’indirizzo all’autista, che parte appena Axl sale in auto.
“Allora?”
“Allora niente, io non te lo dico”
Un quarto d’ora dopo, il taxi accosta sul marciapiede, di fronte ad una casa gigantesca. Ringrazio e pago, per poi far cenno al rosso di scendere.
“Niente male, come casa” commenta, mentre io frugo nella borsa.
Rimane un po’ basito quando mi avvio verso il cancello con una chiave in mano e, come se fosse tutto normale, lo apro, addentrandomi nel giardino buio.
“Adesso vieni a dirmi che è casa tua?”
“Per stanotte”
Mi guarda interrogativo, mentre camminiamo vicini, diretti verso il portone in mogano dell’ingresso.
 
Jeanette tira fuori un’altra chiave dalla borsa e apre la porta della casa. Una casa tutta per noi. Per stanotte. Ragazza, l’hai proprio azzeccato, il regalo.
Entriamo. La casa è vuota, non ci sono mobili. Solo un pianoforte nero al centro del salotto, che si intravede da una porta socchiusa.
“Ma è abbandonata, questa casa?”
“Mi hanno detto così. Spero che non ci sia qualche barbone in giro”
Mi guardo un attimo intorno, Jeanette è già sparita.
“Dove sei andata?”
La vedo fare capolino da una porta sulla mia destra.
“Se non stai attento mi perdi, qua dentro. E non ti conviene”
Forse sarebbe l’opzione più conveniente per te, piccina. Perché ho il presentimento che stasera perderai.
La seguo nella stanza, dove c’è un piccolo tavolo apparecchiato, con una candela al centro.
“Mi dispiace di aver preparato solo panini, ma non avevo i soldi per una cena decente”
“Non credo che mangeremo molto”
Mi avvicino velocemente a Jeanette, abbracciando la sua vita sottile.
“Che è Rose, hai già voglia di impegnarti?”
La bacio prepotentemente, lo stesso bacio che l’aveva fatta cedere l’altro giorno. E stavolta non arriverà Duff con il suo shampoo a interrompere le cose.
“Shhhhhhhh, non puoi scoparmi così e basta, non c’è divertimento”
Allontana il suo viso dal mio.
“Sentiamo, come ti diverti tu, di solito?”
“Facciamo un gioco”
“Stiamo già giocando. Da troppo tempo”
“Facciamo così, facciamo uno di quei giochi di ruolo”
La guardo malizioso. I giochi di ruolo sono adorabili.
“Tu sei il cacciatore e io sono la preda. Che te ne pare, Rose?”
“Che ti ho già intrappolata, cara la mia preda”
“Peccato che le prede abbiano la cattiva abitudine di scappare”
E in un gesto veloce riesce a divincolarsi dalla mia stretta e a scappare attraverso una porta alle mie spalle. Resto fermo. Non posso mettermi a rincorrerla per tutta la casa, mi perdo. Di sicuro tra un po’ mi darà un indizio, il suo obiettivo non è certo quello di nascondersi.
E infatti, un attimo dopo, le note di un pianoforte arrivano alle mie orecchie. Mi dirigo verso il salotto, dove trovo la ragazza seduta al pianoforte, con addosso solo una sottoveste dall’aria alquanto sexy.
“Perspicace, il ragazzo”
“Imprudente, la ragazza”
Vado incontro a lei, mi tolgo la maglietta. Lei intanto si alza. Con un gesto rapido la rimetto seduta sullo sgabello nero, mi sporgo su di lei. La scruto, osservo qualsiasi cambiamento nei suoi occhi, che si ostinano a mostrare solo malizia. Malizia pura. Voglia di vincere. Di sfottermi di nuovo. E invece no, bella mia, stasera non mi faccio prendere per il culo da te.
Mi sporgo di più, lei è costretta ad abbassarsi, finchè non arriva alla tastiera del pianoforte. Lo strumento emette un rumore sgraziato quando la sua schiena si appoggia sui tasti bianchi. Un accordo suonato male. Ma non c’è nessuno a giudicare quella nota indisponente, ci siamo solo io e lei. Io sopra di lei. Il suo respiro sulla mia pelle. Respiro che si ostina a mantenere calmo e regolare. Spezzo quel respiro, poso le mie labbra sulle sue un’altra volta. Sento le sue braccia avvolgersi attorno alla mia nuca, una mano accarezzarmi i capelli lisci. Non vuole lasciarmi scappare. Ammettilo, che mi vuoi. Ammettilo e lasciati andare, cazzo. E invece no, la sento sorridere sulle mie labbra.
“Non puoi scappare adesso, piccolina”
“Ah no?”
“No”
Riprendo a baciarla, ma voglio chiudere tutto subito. Non mi sono mai piaciuti i preliminari. Pure questo gioco, mi ha già stancato. Voglio essere dentro di te, ragazza, voglio sentirti urlare, voglio che mi preghi di continuare.
Appoggio una mano sulla sua coscia, mentre le nostre labbra sono ancora unite, ancora intente a mordersi, a molestarsi. La mia mano sale sempre di più, solleva come può quella gonna già corta, ma nonostante tutto ancora troppo lunga. Vado sempre più su, accorgendomi di un particolare che mi strappa un ghigno di soddisfazione.
“Dove sono le mutandine, Jeanette?”
Mi guarda, i suoi occhioni neri si piantano nei miei.
“Secondo cassetto del comò, in salotto”
Non aspettavo altro. La mia mano si intrufola tra le sue gambe, proprio dove sapevo che sarei arrivato, prima o poi. Stai perdendo, bellezza. E non stai facendo niente per impedirmelo.
Accarezzo lentamente il monte di Venere, per poi andare più giù, a toccare la sua intimità. Il respiro di Jeanette si fa sempre più rapido, un gemito scappa dalla sua gola per arrivare alle mie orecchie. Ma uno è poco. Continuo a tormentare il piacere della ragazza, fino a che lei non cerca di fermarmi.
“Axl…”
Ma non la ascolto. Voglio farti impazzire, bambina. Un dito curioso si intrufola sempre più a fondo.
“Mi stai facendo male, Axl”
Mi blocco, sul suo viso un’espressione sofferente.
Mi scosto un po’ da lei, che si mette a sedere dritta, imbarazzata. Scuote la testa.
“Non lo so, fa male”
Si alza e raccoglie il vestito che aveva lanciato sul pavimento quando stava ancora scappando da me. La raggiungo e la abbraccio.
“Dove vai?”
“Ti prego, basta. Non sto bene”
La lascio andare, un po’ deluso. Non so se è solo perché non vuole darmela vinta o se sta male veramente, ma sono più incline alla seconda opzione. La seguo fuori dall’edificio. In fondo è tardi, a casa ci devo tornare comunque.

 
Ho un senso di nausea che non mi lascia tregua. In taxi apro il finestrino, congelandomi con l’aria fredda di febbraio.
Appena io e Axl arriviamo a casa vado in bagno, vomito anche l’anima. Lasciatemi morire qui, sto una merda. Dopo qualche minuto sento la porta aprirsi.
“Come stai?” È Axl.
“Da schifo”
“Fortuna che lo reggevi bene, l’alcol”
Lo guardo, un mezzo sorrisetto in faccia. Mi rialzo, mi rinfresco il viso e torno in salotto, per buttarmi sul divano. Dalla cucina spunta tutto il resto di ragazzi, curiosi.
“Axl, vergognati. Che cazzo le hai dato?” scherza Slash.
“Ma no, ho solo senso di nausea. Avrò mangiato qualcosa che non avrei dovuto”
“Sempre detto, che le fragole che ti mettono sui cocktail al Rainbow fanno cagare”
“Ridi, ridi, Rose. Intanto mi stai facendo morire”
Lui si china e mi posa un bacio dolce sulla fronte.
“Domani mattina vengo a vedere se sei morta. Buonanotte”
“Notte”
 
Ciao, sono l’autrice:
questo capitolo lo vedo un po’ come il riassunto della parte centrale della storia. Due personalità diverse che si esprimono nello stesso contesto.
 
Spero di non aver scritto una cosa ridicola, un bacio.
Euachkatzl.

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Capitolo 7
*** Settimo giorno. ***


Mi alzo dal divano contenta che quella schifosa nausea della sera prima se ne sia andata. Alzo le braccia e mi stiracchio un po’, la schiena scricchiola. Dormire per una notte intera nella stessa posizione, per di più sul divano, ti incalca tutte le ossa. Vado in cucina, dove la luce è già accesa e qualcuno sta armeggiando frenetico.
“Buongiorno” Entro e saluto senza neppure guardare chi ci sia nella stanza, sono concentrata sulla ricerca di quei biscotti al cioccolato che avevo adocchiato l’altro giorno.
“Ciao”
È la voce di mio fratello. Mi giro e lo trovo accucciato a guardare dentro ad una credenza.
“Che stai facendo?”
“Cerco i biscotti”
Biscotti che intanto io ho già trovato e che sto gustando soddisfatta. Mi passa per la testa l’ideuzza sadica di stare a guardare Jeff che cerca il pacchetto mentre io continuo a mangiare, ma un lampo di dolcezza mi attraversa e gli porgo i frollini.
“Grazie” risponde lui, un po’ colpito dalla mia delicatezza. Mai gli avevo dato un biscotto. E da bambini, negare un biscotto al proprio fratellino, è una cattiveria bella e buona.
“Ti dovevo parlare, comunque”
Mi blocco. Parlarmi.
“Parlarmi?”
“Il pacco che è arrivato qualche giorno fa… l’aveva mandato la mamma”
“Che voleva?”
“È morto lo zio Chris”
“Ah. Ti toccherà difenderti da solo, insomma”
Sinceramente, non è che mi dispiaccia tanto. Anzi. Dal momento che sono andata via di casa a dieci anni per non rimetterci più piede, non ho un grande rapporto con i membri della famiglia. Non ce l’ho con i miei genitori, figurarsi con gli zii. È che lo zio Chris non era uno zio normale, uno di quelli che incontri la domenica sera dai nonni o che ti fa un regalo giusto al tuo compleanno. Lo zio Chris era onnipresente in casa nostra, aprivi gli occhi e lui c’era, per poi andarsene la sera e ricomparire la mattina dopo come per magia. Era vedovo, sua moglie (di cui non ho neppure mai saputo il nome) era morta a vent’anni per un tumore che la perseguitava da quando era giovanissima. E quindi lo zio Chris stava con noi. Era il fratello di nostra madre, avevano sempre avuto un bellissimo rapporto, perciò era sempre il benvenuto. Aveva una fissa per Jeff. Così, senza motivo. Lui amava alla follia Jeff. Come ogni altro membro della famiglia, dopotutto. Tutti a fissare Jeff, a dire quanto fosse bravo, quanto fosse bello, quanto fosse migliore della sorella maggiore. Quando cominciai a fare i dispetti a mio fratello, lo zio Chris lo difendeva sempre. E non perdeva occasione per mollarmi uno schiaffo. Ho paura che sia stato lui il maggiore sostenitore del collegio.
“Dobbiamo andare al funerale oggi pomeriggio”
“Vacci tu, a me non ne può interessare di meno”
“Jenn”
Mi ero già voltata per andarmene, ma il nomignolo con il quale mi ha chiamata mio fratello mi costringe a guardarlo negli occhi.
“Non chiamarmi così”
“Invece lo faccio, perché è l’unico modo per farmi ascoltare”
Jenn era l’appellativo con il quale mi chiamava mio zio, i miei genitori, i nonni prima di farmela pagare. E il prezzo era sempre piuttosto doloroso. Non che mi picchiassero, ma le sberle in pieno viso fanno sempre male.
“Che vuoi? Io non vengo, sono più di sedici anni che non vedo questo qua o qualcuno della famiglia. Non c’entro niente”
“Lo zio voleva che io e te suonassimo al suo funerale”
Mi passo una mano sul viso, mettendo in ordine le idee. È vero, lo zio ci ha insegnato a suonare la chitarra, e ogni volta che la prendeva in mano ci diceva ‘Voi suonerete per me quando non ci sarò più’. Per anni avevo sperato che quella data arrivasse in fretta, e adesso che era finalmente ora del suo funerale, io non ho la minima voglia di andarci. Anche perché non mi ricordo neanche da che parte si tiene il manico della chitarra.
“Salve stellina, vedo che sei viva”
Un Axl decisamente raggiante entra in cucina e mi stampa un bacio sulla guancia, per poi prendere il pacco di biscotti dalle mani di Jeff e una bottiglia di latte dal frigo. Dopo essersi preparato la colazione, si accorge finalmente che lo stiamo fissando storto.
“Ho interrotto qualcosa?”
Mio fratello sospira, prima di andarsene dalla stanza.
“Vieni, Jenn, devo darti una cosa”
Lo seguo fino in camera sua, dove Slash sta ancora dormendo beato, un braccio a penzoloni dal letto e la zazzera nera che si ritrova in testa sparsa per tutto il cuscino. Jeff tira fuori da sotto il letto il pacchetto che gli aveva portato il postino qualche giorno fa e me lo porge.
“Sulla lettera c’era scritto che era per te”
“L’hai aperto?”
“No, non mi interessa”
Lentamente, levo il nastro adesivo che circonda la scatola. E solo a fare questo ci metto cinque minuti buoni. In fondo, arriva da Lafayette. Ha dovuto affrontare un viaggio di qualcosa come duemila chilometri, doveva essere protetto, in qualche modo. Finalmente riesco a togliere tutto quel groviglio di nastro e apro il coperchio della scatola. Ci trovo dentro un paio di videocassette, una maglietta lilla e un cappellino. Sepolto sotto tutto questo, una foto piegata a metà. Una mia foto, di quando avevo dieci anni, con in mano un paio di valigie e un’espressione a dir poco incazzata stampata sul viso. Era il giorno in cui partii per il collegio. Sorrido amara di fronte alla mia faccia imbronciata, per poi richiudere la scatola e rimetterla sotto al letto.
“È tua, tienila”
“Dalle pure fuoco, se vuoi. La mamma si è voluta disfare delle ultime cose che avevo dimenticato a casa”
“Ci vieni al funerale, oggi pomeriggio?”
“Non lo so. Vedrò”
“Devi”
Sbuffo. Devo. Cosa devo, a quegli stronzi dei miei parenti? A loro non devo un bel niente. Mi hanno cacciata che ero ancora una bambina, dopo avermi presa in giro per dieci anni. Cosa devo loro?
“Va bene, allora vengo”
“Ti ricordi come si suona la chitarra?”
Ah, e dovrei pure suonare? Col cazzo, è già tanto se vengo.
“No, non mi ricordo. E neanche lo voglio fare”
Vedo Jeff raccogliere una chitarra classica da terra, per poi porgermela. La afferro, scocciata, e torno in salotto, seguita da lui che intanto ha preso un’altra chitarra. Ci sediamo entrambi sul divano e imbracciamo gli strumenti.
“Non ti ricordi neanche il do?”
Spremendo le meningi, appoggio indice, medio e anulare sulle corde.
“È così, no?”
“L’anulare va sulla corda sopra”
Bellalì, devo imparare a suonare da zero in una mattina.
 
Sono ancora in cucina a fare colazione, intanto mi hanno raggiunto pure Duff e Steven. Sento arrivare dal salotto le voci di Jeanette e Izzy, seguiti da qualche strimpellamento di chitarra. Cosa abbiano in mente quei due, non lo so. Ma ho paura che se Jeff continua a correggere sua sorella con questo tono da sapientino, gli arriva una chitarra in testa senza troppe cerimonie.
Decido di raggiungerli, così magari riesco a salvare il mio migliore amico dallo schizzo omicida di una sorella esasperata.
“Che state facendo?”
Si voltano entrambi, due occhiate scocciate mi fulminano.
“Dobbiamo suonare al funerale di nostro zio e non mi ricordo una mazza”
Spiegazione perfetta, Jeanette. Rapida, coincisa, completa.
“D’accordo, allora vi lascio da soli”

 
“Jeanette deve imparare a suonare, lei e Jeff devono fare qualcosa al funerale di un loro zio” ci spiega Axl appena torna in cucina.
“Meglio se li lasciamo da soli?”
“Non so, Steve, magari la cara sorellina si incazza e prende Izzy a chitarrate”
Mi immagino la scena di Jeanette in piedi sul divano, intenta a colpire suo fratello con una chitarra. Dovrebbe essere un momento drammatico, invece riesce soltanto a farmi ridere come un cretino. Gli altri due mi fissano.
“Che hai?”
“Niente, stavo pensando. Ho voglia di farmi un giro, voi venite?”
“Ho appena detto che è meglio non lasciarli da soli”
“Vabbè, allora vado da solo”
Esco in strada, mi incammino verso la spiaggia. Mi piace il mare, soprattutto d’inverno. È deserto. E puoi starci quanto vuoi, senza urla di gente esaltata e senza scottature di vario grado per il corpo. Stai lì, ad ascoltarti le onde, a farti le tue seghe mentali in santa pace.
Mi sdraio sulla sabbia fredda, guardo il cielo. Nuvole nere avanzano sempre di più. Sta arrivando un temporale. E non mi interessa.

 
“Ma ce la fai a fare sto benedetto accordo? Sono due ore che te lo spiego”
“No, sono due ore che tento di capire come suonare sta merda di chitarra che ho in mano, perché dobbiamo andare a un funerale di uno che non vedo da sedici anni e che mi ha tirato sberle per dieci. Questo stiamo facendo da due ore, cazzo”
Mi alzo, lascio la chitarra sul divano ed esco.
“Dove cazzo vai?” sento urlare mio fratello. Il portone che sbatte gli fornisce una risposta decisamente molto più gentile di quella che gli avrei dato io. Vado dove voglio.
Mentre cammino senza una meta, comincia a piovere. Ci mancava solo la pioggia. Mi metto a correre, senza neanche un motivo. Non sto tornando a casa. Anche perché ormai mi sono persa, non saprei come arrivarci. Vedo da lontano l’oceano e decido di andare in spiaggia. Mi piace il mare, soprattutto d’inverno.
Cammino sul bagnasciuga per un po’, scalza. L’acqua gelida lambisce le mie caviglie, i miei piedi lasciano impronte sulla sabbia umida, subito cancellate dalle onde che continuano a susseguirsi. C’è un uomo, disteso a qualche metro dalla riva. Un ragazzo. Sorrido quando lo riconosco, non è un ragazzo qualunque. Mi avvicino e mi distendo vicino a lui. Chiudo gli occhi, lasciando che la pioggia cada incurante sulla pelle pallida del mio viso, sulla felpa blu che indosso, sui jeans aderenti che mi fasciano le gambe.
 
Sento qualcuno sdraiarsi di fianco a me.
“Ciao” saluto, riflettendo su chi possa essere.
“Ciao” È Jeanette.
“Finita la lezione?”
“Non so neanche perché sia cominciata”
“Mi dispiace per tuo zio”
“A me no”

 
Mi giro sulla pancia, guardo Duff. Ha gli occhi chiusi, i capelli bagnati, così come la bandana legata attorno alla fronte. Fradicia. Mi ricorda me, quando da piccola uscivo ogni volta che pioveva. E non rientravo finchè non smetteva. Restavo a bagnarmi, stesa per terra o in piedi. Sta di fatto che guardavo sempre il cielo, le nuvole che restavano immobili sopra di me.
 
“Ho paura che ti toccherà suonare da solo”
Izzy è ancora sul divano, incazzato come non mai.
“E io che provo a fare il gentile, ma lei rimane stronza” è il suo sfogo.
“Non è che sia stronza. È che quando non vuole fare qualcosa lo fa notare senza mezzi termini. È un po’ come me”
Stradlin si alza e se ne va in camera, dalla quale esce Slash, che si è appena svegliato.
“Chi è che suonava prima?”
“Izzy e Jeanette. Devono suonare a un funerale oggi pomeriggio, ma non è che lei ne abbia tanta voglia”
“E dov’è adesso?”
“Boh, è uscita”
Saul accenna un mezzo sorriso.
“Ha le palle, quella ragazza”
Si siede sul divano con Steven, che imbraccia una chitarra.
“Ma è così difficile da suonare?”
Appoggia le dita a caso sulla tastiera e pizzica qualche corda, ottenendo di rimando un suono stridulo e innaturale.
“Diciamo che non è neanche facile” gli risponde Saul.
“Non è che hai voglia di insegnarmi?”
“Lascia perdere, Steve”

 
Ormai ha smesso di piovere. Sono bagnato fradicio, con un freddo cane e mezzo corpo insabbiato. E Jeanette sdraiata di fianco a me.
“Proprio non vuoi andarci, a salutare tuo zio?”
Non riesco a dire ‘al funerale’. Mi pare così tragico.
“Ci sarà tutta la famiglia, tutti pronti a parlar male di me”
Sospiro e mi alzo, le tendo la mano.
“Andiamo a casa, almeno”
Lei afferra la mia mano e si tira su. Anche lei con i vestiti inzuppati, la sabbia bagnata appiccicata dappertutto. Ce ne andiamo a casa così, sembriamo due barboni appena usciti da sotto un ponte. Lungo la strada, un paio di persone si voltano a guardarci, borbottano qualcosa senza smettere di fissarci.
“Che è, volete una foto?” urla Jeanette, già scocciata per tutto quello che è successo quella mattina.

 
Rientriamo e mi rintano in bagno, dove mi faccio una doccia, giusto per levare tutta lo schifo che mi è rimasta addosso. Mi asciugo i capelli velocemente ed esco dalla stanza, per buttarmi sul divano, dove Slash sta spiegando a Steve come suonare qualche accordo con la chitarra.
“Hai idea di cambiare lavoro, Steve?”
“No, è che non credevo fosse così difficile”
“Non è difficile, devi solo prenderci la mano” commenta Saul.
“Senti chi parla” sbuffa il biondo, intento a provare un barrè.
“Ma come cazzo fai a tenere il dito su tutte le corde? O me lo ingessano o non ce la faccio”
Rido, guardo Slash.
“Jeff è in cucina?”
“È in camera sua, si è incazzato nero dopo che te ne sei andata”
Vado da mio fratello, che si sta cambiando i vestiti per andare a questo benedetto funerale. In un certo senso, mi fa pure un po’ di pena il fatto che ci vada da solo.
“Dov’è che la fanno, la cerimonia?”
Lui si gira, sorpreso. Non mi aveva sentito arrivare.
“In una chiesa sulla Vermont Avenue, lo zio stava lì vicino”
“Dammi cinque minuti, mi metto qualcosa di decente”
 
“Che fai, ti cambi?”
Axl mi sta fissando, come d’altronde tutti i presenti in salotto. Sono mezza nuda, mi sto cambiando lì, in fondo è quella la mia stanza. Non è che abbia molta privacy.
“Vado al funerale”
“Viva la coerenza, insomma” E se ne va prima che riesca a lanciargli qualcosa.
Mi infilo il giubbino di pelle e raggiungo mio fratello al portone.
“Andiamo”
 
La chiesa è piuttosto grande e, cosa che mi colpisce, è piena.
“Cosa faceva lo zio a Los Angeles?”
“Si è trasferito dopo che te ne sei andata, non so cosa facesse”
Mentre percorriamo la navata centrale, diretti verso i primi banchi, la gente si volta, parlotta sottovoce. Spettegola. Di me. Peggio di quando andavo in giro coperta di sabbia dalla testa ai piedi. Arriviamo al nostro posto e ci sediamo. Mi guardo intorno, alla ricerca dei miei genitori. Spero solo di essermi seduta lontano da loro.
“Mamma e papà non vengono, hanno detto che era un viaggio troppo lungo”
Jeff mi ha letto nel pensiero. Annuisco al suo commento, quando noto un pianoforte nero posizionato in uno spiazzo tra un gruppo di sedie.
“Posso suonare qualcosa al pianoforte, visto che con la chitarra non so fare niente”
“Sai suonare il pianoforte?”
“No, so solo una canzone. La so a memoria”
“Per me fa lo stesso. È già tanto che sei venuta”
Quando il prete comincia la predica, a metà cerimonia, mi alzo e vado verso lo strumento, seguita da Jeff, che ha a tracolla la sua amata chitarra. Mi siedo sullo sgabello e ripasso mentalmente i movimenti delle mani, visto che le note non le so. Il sacerdote finisce il suo discorso, e io parto a suonare. E a cantare qualche strofa ogni tanto, giusto per far felice quella marmaglia di parenti seduti tra i banchi, che spettegolano della figlia di Isbell, quella che è stata mandata in collegio e che adesso sta suonando al funerale di suo zio. Che sfacciata, la ragazza.
Finisco la canzone, della durata di quasi dieci minuti, e noto che hanno già iniziato a portare fuori la bara.
“Non vengo in cimitero” sussurro a Jeff. Lui annuisce.
Usciamo entrambi, ma prendiamo strade diverse. Torno a casa.
 
La porta sbatte. Non mi giro neanche, so che è Jeanette. Solo lei sbatte la porta in quel modo così incazzato. Anche quando è tranquilla, sbatte la porta. Si siede di fianco a me sul divano, lo sguardo perso nel vuoto.
“Che hai?”
Nessuna riposta per un paio di minuti, finchè non si decide a parlare.
“Ci pensi mai, alla morte?”
La fisso, sbigottito da quella domanda. Ho ventiquattro anni, una vita fantastica, come mi viene in mente di pensare alla morte? Lei riprende il suo discorso.
“Nel senso, tu e gli altri state diventando famosi, ma ti immagini se muori così, di colpo? Cioè, se morissi io non importerebbe a nessuno. Sono solo io. Cioè, ho sempre voluto fare qualcosa di grande nella vita, farmi conoscere, e invece sono ospitata in casa di un fratello che non vedo da sedici anni perché il leader degli Aerosmith si è trovato una puttana più bella di me. E basta. Non ho concluso niente, nella mia vita”
“Hai ventisei anni, cosa vuoi aver fatto?”
“Tu ne hai ventiquattro, e stai già facendo tanto”
Le avvolgo un braccio intorno alle spalle, la stringo a me.
“Che ore sono?” mi chiede.
“Quasi le otto”
“Ho sonno. Posso andare a dormire in camera tua?”
“Certo”
Si alza e se ne va, lasciandomi impresso negli occhi il suo viso triste.

 
Di colpo mi è venuta sta depressione. Sto pensiero che se morissi domani, non avrei combinato niente nella mia vita. È un po’ come quella tristezza che ti viene la domenica sera, all’idea che la mattina dopo devi tornare a scuola. È quella tristezza che se ne va solo con il tempo. Mi addormento tra le lenzuola nere di Axl. Profumano di buono.
 
“Che aveva Jeanette?”
Porgo un piatto di pasta al rosso e mi siedo su un bracciolo del divano.
“Hai presente i miei sbalzi d’umore?”
“Brutta roba, avere due persone con questi ‘sbalzi d’umore’ nella stessa casa”
“Male che vada, abbiamo due persone ciascuno per consolarci”
Rido, sperando che non accada mai che sia Axl che Jeanette si incazzino nello stesso momento. Sarebbe la fine del mondo.
Izzy rientra, bagnato dalla testa ai piedi.
“Piove?” chiedo sarcastico.
Jeff borbotta qualcosa e va in camera a cambiarsi.
“Perché Jeanette è in camera nostra?” chiede quando torna in salotto.
“Aveva sonno, voleva stare tranquilla”
“Sai che a te tocca il divano, vero Rose?”
Axl annuisce.
“Vado a farmi la doccia” dico non appena vedo Steven uscire dal bagno.

 
“Com’è stato il funerale?”
“Normale. Gente che piange, gente a cui non ne può fregar di meno”
“Avete suonato?”
“Jeanette ha suonato qualcosa al pianoforte, ha detto che sapeva solo quella canzone”
“E com’era?”
“Bella. Non l’avevo mai sentita”
Annuisco, poco interessato a quello che ha fatto Jeanette durante il funerale. È riuscita ad attaccarmi la depressione, con quel discorso sulla morte.
“Tra qualche giorno i miei vengono a trovarci”
Alzo la testa.
“Qua?”
“Qua”
“Dobbiamo riordinare?”
“Non lo so, magari il salotto”
Mi stendo sul divano.
“Riordineremo domani. Notte Jeff”
“Notte”
“C’è un piatto di pasta per te in cucina” dice Duff, uscito dal bagno poco fa.
“Grazie”
“Spegni la luce” urlo a Jeff. L’interruttore scatta e il salotto cala nel buio, rotto solo dalla luce che arriva dalla cucina. Chiudo gli occhi e provo non tanto a prendere sonno, piuttosto a rilassarmi e scacciare i pensieri confusi dalla mia testa.

 
Ciao, sono l’autrice:
sono tornata :33
E non ho niente da dire, se non grazie a tutti quelli che hanno recensito o messo la storia tra preferite, seguite ecc o che l’hanno solo letta.
Un bacione, Euachkatzl <33

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Capitolo 8
*** Ottavo giorno. ***


“Jeanette, c’è qualcuno al telefono per te”
Apro pigramente gli occhi, mettendo faticosamente a fuoco la figura che ho davanti, anche se immaginavo già di chi potesse trattarsi.
“Perché sei sempre tu quello che risponde al telefono, Steve?”
“Non me ne parlare, va a rispondere”
Mi metto  a sedere, mi passo le mani sul viso e finalmente mi alzo in piedi. Vado in salotto, dove tutti i ragazzi sono beatamente stravaccati sul divano o sul tappeto, con un mucchietto di fogli accartocciati a fianco. Do un’occhiata alla piccola sveglia sopra il comò e scopro che sono già le undici e mezza. Quanto cazzo ho dormito?
Afferro la cornetta e la porto all’orecchio.
“Pronto?”
“Jeanette?”
“Sì, sono io”
“Ti ricordi che dovevamo venire per il regalo del tuo amico?”
Merda, il regalo di Duff! Me n’ero pure dimenticata, io.
“Certo. Perché, c’è qualche problema?”
“No no, era solo per dirti che suoniamo al Roxy stasera, per le 10”
“Perfetto. Ci vediamo là”
“Ci vediamo, stella. Un bacio”
Metto giù il telefono e vedo Duff che mi sta fissando esasperato.
“Diglielo pure tu a sto coglione che ‘The grass is green and the girls are pretty’ è meglio di quella roba che dice Slash”
“Dipende, cosa dice Slash?”
Mi appoggio allo schienale del divano, sbirciando il foglio che tiene in mano il bassista. Scarabocchi ovunque, parole cancellate, cerchiate, con una linea sopra, un omino stilizzato disegnato in un angolo del foglio.
“Where the girls are fat and they’ve got big titties”
“Dove le ragazze sono grasse e hanno le tette grandi?”
“Se non ti pare il paradiso quello” commenta il riccio.
“Lascia perdere Slash, non ve la fanno neanche cantare se dite così”
Il chitarrista sbuffa, mentre Duff tutto soddisfatto depenna l’idea dell’amico.
“Chi era al telefono?”
“Il tuo regalo di compleanno”
Scompiglio un po’ i capelli al biondone prima di voltarmi e andare in cucina.
“Comunque dobbiamo essere al Roxy alle dieci” urlo, prima di dedicarmi all’ardua impresa di cucinare un buon pranzetto.
 
“Il primo giorno che eri qui hai fuso la moca, non è che hai bisogno di una mano?”
Steven è appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto.
“Mi hanno detto che anche tu sei un pericolo in cucina”
“Naaaah, balle”
Prende una pentola da un mobile, la riempie d’acqua e ci butta dentro un pacco di pasta.
“Non è che se facciamo bollire l’acqua facciamo prima?”
Steve si gratta la testa un attimo.
“Cottura lenta, è sempre l’ideale”
Scuoto il capo e scolo la pasta, per poi riempire di nuovo la pentola e metterla sopra al fornello.
“Non stai con gli altri a fare le canzoni?”
“No, tanto le mie idee fanno sempre schifo a tutti”
Ignorando completamente Steve, torno in salotto e mi accomodo sul tappeto di fianco ad Axl, che ha in mano un foglio bianco. Immacolato. Glielo strappo dalle mani e prendo una penna, disegno un cuoricino.
“Sei felice, ora?”
“Immensamente”
Rivolgo al rosso un sorriso a trentadue denti.
“Niente idee?”
Tutti sbuffano, roteano gli occhi verso l’alto. Niente idee.
“La cosa che hai suonato ieri era bella, come si chiama?” mi chiede Jeff. Sorrido, abbassando lo sguardo.
“Lascia perdere, è una cazzata”
“No, davvero”
Sospiro, ripensando a come sia venuta fuori quella canzone.
“L’abbiamo scritta io e Steven una sera, in un bordello. Tutti erano impegnati a fare… altre cose, diciamo, e lui si è messo al pianoforte e si è inventato sta roba”
Tutti si voltano verso Steve, ancora fermo sull’uscio della cucina.
“Da quand’è che suoni il pianoforte?” gli chiede scioccato Izzy.
“Ma non Steven lui! Steven Tyler” mi affretto a correggere. Tutti tirano un sospiro di sollievo.
“E com’è che si intitola?”
“Non ha un titolo, è già tanto che abbia un testo”
“E faccelo sentire” mi incoraggia Axl.
“Che è, devo cantare qua davanti a tutti?”
I ragazzi annuiscono, incuriositi dalla canzone. Inizio.
“Bè… all’inizio c’è l’introduzione con il pianoforte… Dopo fa più o meno…”
Mi blocco. Dalla cucina arrivano schiocchi alquanto inquietanti.
“L’acqua della pasta, Steve!”
Corriamo entrambi in cucina a spegnere il gas prima che succeda qualche casino. Di acqua ne è rimasta ben poca. Guardo il biondo, sospiro.
“Non è che possiamo ordinare una pizza?”
“Non vedo perché no”
Mentre Steve ordina le pizze, io torno a sedermi di fianco al rosso.
“Però non sembrava male, parti tutta dolce con il pianoforte e poi dai un attacco più aggressivo. Ti immagini se proprio lo dici urlando? ‘L’acqua della pasta, Steve!’ Secondo me diventerà il nostro miglior singolo”
Ridiamo tutti, Steve incluso.
“No, scusi, non sto ridendo a lei, va bene tra dieci minuti, non c’è problema”
Riaggancia e ci guarda.
“Chi viene con me?”
“Vengo io”
Duff si alza e prende il suo giubbotto dall’attaccapanni.
“Torniamo tra un quarto d’ora, non fate casini amori miei”
“D’accordo papà”
 
La pizzeria è piuttosto vicina a casa nostra, per fortuna. Non avrei sopportato l’idea di farmi chilometri per avere una pizza.
“Però hai visto che sono migliorato? L’ultima volta che ho fatto la pasta ho bruciato la pentola”
“Sì Steve, sei stato bravissimo”
Arriviamo al locale ed entriamo, veniamo subito investiti da un profumo di pizza incredibile. Ci sediamo su un divanetto e aspettiamo placidamente il nostro turno, ascoltando Stairway to Heaven alla radio. Di colpo, Steve si porta una mano alla fronte e si alza in fretta.
“Merda, mi sono dimenticato di fare una cosa. Non è che puoi portarle a casa da solo, le pizze?”
Lo guardo strano, alzo un sopracciglio.
“Ti prego Michael, è importante”
“Va bene, che nome hai dato?”
Vedo Steven ridere sotto i baffi, mi sta venendo un dubbio.
 “Culetto Rosa”
Sbarro gli occhi, ma lui se n’è già andato prima che io possa pensare a qualcosa da lanciargli. E così, mi tocca stare qui, seduto su questo cazzo di divanetto, ad attendere solo che quella cameriera dica il mio nome. O meglio, il nome idiota che Steve ha lasciato. Intanto è partita Bohemian Rhapsody.
‘Mama, just killed a man…’ Freddie, tu mi istighi.
La cameriera si mette a ridere, ho paura che sia arrivato il mio turno.
“Culetto rosa?”
Facendo appello a tutto il mio coraggio, a tutto il mio autocontrollo, a tutta la mia autostima e la mia aria da macho, mi alzo, faccio un cenno con la mano alla ragazza e, senza dire una parola, pago.
“Grazie e arrivederci”
“Arrivederci” mormoro a denti stretti, prima di uscire alla velocità della luce da quella pizzeria dove non metterò mai più piede.

 
Steve entra ridendo e chiude la porta. Lo squadriamo tutti interrogativi.
“Le pizze?”
“Tra un po’ arriva Duff” e, ridendo ancora come un cretino, si lancia sul divano, tra Izzy e Slash. Ci guardiamo tutti l’un l’altro, facciamo spallucce. Poi la porta si apre di nuovo ed entra il biondone, con una pila di scatole in mano. Jeanette si alza e gli da una mano, mentre Steven lo saluta con un appellativo alquanto strano.
“Bentornato, Culetto rosa”
“Fottiti, Adler. Fottiti”
Un altro scambio di sguardi, ma nessuno ha ancora capito nulla del perché Duff sia incazzato nero o del perché quel nomignolo da parte di Steve. E nessuno dei due intende degnarci di una spiegazione.
“Comunque io devo trovarmi un vestito per stasera, e tu devi accompagnarmi” comunica Jeanette a Duffone, che per tutta risposta fa un cenno del capo, mentre si gusta la sua pizza.
 

Finito di mangiare, mi infilo le converse e prendo Duff per mano.
“Andiamo”
“Subito?”
“Sì, andiamo a comprarci quello che mi serve e poi andiamo al Roxy”
Mi fissa stralunato.
“Hai idea di fare shopping fino alle dieci?”
“Ma che, sei scemo? Ci fermiamo a mangiare da qualche parte”
Finalmente si alza e si decide a seguirmi.
“Dove andiamo?”
“Hai presente il posto dove mi hai portato giorni fa? Torniamo lì”
 
Stiamo guardando Shining alla tv. Dico stiamo guardando perché non riusciamo a sentire niente, c’è Slash che continua a rompere le palle.
“Ma non si può guardare qualcos’altro?”
Con un gesto fulmineo mi sfila il telecomando dalle mani e cambia canale. La partita di baseball.
“Ecco, guardiamo qui”
Sbuffo e vado in camera, seguito da Izzy. Mi lancio sul letto, profuma di Jeanette. E la cosa non mi dispiace.
“Com’era la canzone che ha fatto tua sorella ieri?”
Anche Jeff si lancia sul letto, sul suo, che di sicuro non ha quel buon profumo che ha il mio.
“Bo, non mi ricordo. È durata tipo dieci minuti. Secondo me un po’ di chitarra in mezzo ci stava”
“Vabbè, ma le parole?”
“Non ricordo. C’era una specie di ritornello, che però non era sempre uguale, chiedeva tipo se quello a cui era rivolta la canzone non avesse bisogno di un po’ di tempo da solo, perché tutti ne hanno bisogno, di stare per conto proprio… roba così”
Bisogno di stare per conto proprio. Accidenti, se ne ho bisogno. Convivere con cinque persone non ti procura certo molto tempo per conto tuo. L’unico posto dove si ha un minimo di privacy in questa casa è il bagno. Che poi non è che sia così tanta, la privacy. C’è sempre il rischio che mentre ti fai la doccia arrivi qualcuno che deve pisciare. E così si fotte pure quella poca intimità che credevi di avere.
 

“E questo?”
Esco dal camerino con un tubino nero, attillato, che mi arriva al ginocchio.
“Nah”
Duff boccia anche questo vestito, con un ‘Nah’ annoiato. Sbuffo e richiudo la tendina, indosso dei pantaloni neri e un top dorato. Tiro nuovamente la tendina.
“Nah”
E via a chiudere di nuovo questo benedetto camerino. Mi sfilo il top e chiudo gli occhi, mi passo una mano sul viso. Questo giro di shopping sta diventando impossibile. All’improvviso sento un braccio circondarmi la vita, un respiro caldo avvicinarsi al mio orecchio. Sorrido.
“Hai trovato un bel modo di passare il tempo, Duff?”
“Non dirmi che non piace anche a te”
Mi volto velocemente, trovandomi faccia a faccia col viso perfetto del biondone. Struscio il mio naso contro il suo, faccio passare le mie mani attorno alla sua nuca. Lo bacio prepotentemente. Sì, mi piace questo modo di ammazzare il tempo. In fondo non sono nemmeno le quattro, dobbiamo arrivare alle dieci di sera. Le nostre labbra continuano a scoprirsi, le nostre lingue ad andare sempre più a fondo, curiose ed insaziabili. Separiamo le labbra quando ormai entrambi non abbiamo più fiato, ci guardiamo negli occhi per un secondo prima di cadere in un altro bacio. Le sue mani vagano per il mio corpo, toccando ed esplorando qualsiasi curva possa offrire. Senza che me ne accorga, riesce a spingermi contro lo specchio del camerino. Rabbrividisco quando la mia schiena nuda tocca il vetro freddo, ma non ci bado troppo. La mia mente è persa a percepire più emozioni possibili, ad assaporare tutto il piacere che Duff vuole darmi. O che vuole semplicemente dare a sé stesso. Si allontana da me di un passo, giusto il tempo per togliersi la maglietta e farla cadere incurante a terra. Mi stacco dallo specchio e torno da lui. Poso le mie mani sul suo petto scolpito, mentre le sue si avvolgono attorno alla mia schiena e mi attirano ancora più vicina a lui. E poi, curiose e intriganti, scendono, si intrufolano nei pantaloni aderenti che indosso. Appoggio la mia testa su una sua spalla e mi stringo ancora di più a lui. Faccio scorrere un dito sulla sua schiena, lasciando un graffio non indifferente.
“Signorina?”
Alzo la testa di scatto, mi stacco da Duff. Apro un pochino la tendina e metto la testa fuori dal camerino, dove una ragazza con un sorriso gentile mi porge un vestito blu.
“Forse questo le piacerà”
“Non fa niente, prendo questa roba che ho addosso”
“D’accordo, la aspetto in cassa”
Richiudo la tendina e guardo Duff appoggiato allo specchio, ancora a torso nudo. Un lampo di malizia attraversa i suoi occhi.
“Non ci provare, mancava solo che ci scoprissero”
 
“Che ore sono?” chiedo, con la bocca impastata dal sonno. I pisolini pomeridiani ti uccidono, sei convinto di rilassarti e ti alzi che non capisci niente.
“Che ore sono?” ripeto più forte. Odio essere ignorato.
Alzo la testa e mi guardo intorno, in camera non c’è nessuno. Stavo parlando con il muro. O con quel ragno che sta ancora portando avanti il suo ambizioso progetto di ricoprirci il soffitto con la sua bava. Vado in salotto, nessuno nemmeno lì. In cucina, il vuoto. A meno che non siano tutti in camera di Steven a farsi le unghie, devono essere usciti. Giusto per essere sicuro, do un’occhiata nella stanza dei biondoni, ma niente nemmeno lì. Eccola, la privacy che tanto volevo. Faccio schioccare le dita una ad una, soddisfatto. Mi spoglio, lasciando i vestiti per tutto il salotto, e vado in bagno. Una doccia in santa pace, cantando qualsiasi cosa voglia senza nessuno ad interrompermi o registrarmi, è un’esperienza divina.
Dopo tre quarti d’ora di tributo a un po’ di gente, spengo l’acqua e scosto la tendina, guardando soddisfatto l’umidità che appanna lo specchio: non ero mai riuscito a farmi una doccia calda in questo appartamento.
 

Guardo l’orologio che Jeanette porta al polso. Le nove e mezza.
“Non è che dobbiamo andare al Roxy?” Domandina che nasconde l’affermazione ‘Sto congelando su questa cazzo di panchina perché ti ho dato la mia giacca, non me ne può fregare di meno della luna sul mare e voglio avere il mio benedetto regalo’.
“Altri dieci minuti”
Vaffanculo, io non ci sto qua altri dieci minuti.
“Va bene stellina, dieci minuti”
Resto a morire di freddo per questi dieci minuti, che si allungano fino a un quarto d’ora, per poi scivolare a venti minuti, e si sarebbero espansi ancora a lungo se non avessi trascinato via Jeanette di peso da quella panchina.
“Tu non sai cos’è il romanticismo. Mi deludi” si lamenta lei mentre attraversiamo le strisce.
Mi fermo in mezzo alla strada e la bacio. Un’auto inchioda di colpo, illuminandoci con i fari. Sento il guidatore che ci lancia qualche maledizione, Jeanette che vuole andarsene. La stringo più forte e la costringo lì, tra le mie braccia, mentre un’altra auto si ferma ad aspettarci. Quando finalmente concludo il mio schizzo romantico, guardo la ragazza. Le guance arrossate, un sorrisetto timido.
“Andiamo” mi sussurra, ricevendo qualche applauso dai guidatori che stavano solo aspettando che ci levassimo dalle palle.
 

Arriviamo al Roxy alle dieci e tre quarti. Sul palco ancora il gruppo di spalla che suona. Sorrido. Me l’aspettavo.
“Vieni” urlo a Duff, per riuscire a farmi sentire sopra la musica altissima. Lo prendo per mano e lo trascino sul retro del locale, nella zona dei camerini.
Arriviamo ad una porta con attaccato sopra un foglio scritto a mano.
“Ramones” legge Duff, per poi strabuzzare gli occhi quando riesce a connettere il cervello. “Ramones?”
“Ramones” confermo io, aprendo la porta ed entrando in un camerino che, incredibile ma vero, non puzza né di alcol, né di fumo, né di qualche sostanza non identificata. Joey è riuscito ad imporre la sua condotta ferrea, alla fine.
“Jeanette!” mi viene incontro il vocalist del gruppo, stringendomi in un abbraccio e lasciandomi un bacio a stampo sulle labbra.
“Giù le mani, amore mio, non sono più tua”
“Non lo sei mai stata”
Rido e indico Duff.
“Lui è il mio amico, quello che ha compiuto gli anni”
I quattro ragazzi fissano Duff, che sorride con la sua aria da ‘quanto sono figo’, presumibilmente insegnatagli da Axl.
“Mi piace, l’amico” commenta Joey facendo schioccare la lingua, per poi tornare a guardarmi. “Cos’è sta storia che Steven ti ha mollata?”
“Ma niente, mi ha buttata per strada dicendo che ormai aveva visto tutto”
Il cantante ride amaro.
“Mi piacerebbe poter dire la stessa cosa, sai?”
“A tanta gente piacerebbe”
“Quarantacinque giorni, eh?”
Fulmino Joey con lo sguardo.
“Non parliamone” sussurro, facendogli l’occhiolino. “Andate a suonare, adesso”
Gli do una leggera spinta verso la porta. Lui si volta un attimo, prima di andarsene.
“È cambiato?”
“Steven c’è riuscito”
Lo vedo sorridere scuotendo la testa, poi scompare nel corridoio, diretto al palco.
 
“Di cosa parlavate prima, tu e Joey?”
Jeanette mi rivolge una faccia perplessa.
“Della cosa dei quarantacinque giorni…”
“Lascia perdere, è una storia di tanto tempo fa” è la sua risposta. Non me la racconti giusta, stellina.
“Hanno cambiato di nuovo batterista” commenta lei, per deviare il discorso.
“Come mai?” chiedo. Magari l’argomento ‘quarantacinque giorni’ lo riprendiamo più tardi.
“Joey è contrario alla droga. Totalmente. E se qualcuno fa il furbo, peggio per lui”
“Li conosci bene”
“Nah, è una cosa risaputa”
Finisce di bere la sua bottiglia di birra e si alza, mi tende la mano.
“Vieni a ballare?”
“Certo”

 
“Che ore sono?” mi chiede Duff, che è appena crollato su un divanetto.
“Quasi mezzanotte. Non sarai mica stanco”
“È un’ora che saltiamo, sono stanco sì”
Gli lascio un bacio dolce sulla punta del naso, per poi tornare sulla pista.
“Ti do mezz’ora” gli urlo, prima di sparire tra la folla.
 
 
Ciao, sono l’autrice:
Ok, ci ho messo un po’ ad aggiornare, ho fatto un capitolo più o meno osceno, mi beccherò parolacce in turco sulle recensioni, ma vabbè. In fondo, capitemi, una settimana di vacanze dalla nonna ti fanno dimenticare la tua vita reale :33
 
Aggiorno presto, prooooooometto.
Un bacio, Euachkatzl <33

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Capitolo 9
*** Nono giorno. ***


Quando sono ormai le due di notte, i Ramones finiscono finalmente di suonare e si rinchiudono nei camerini, pronti a dare il via alla vera festa. Prendo Duff per mano e li seguo, chiudendo la porta alle mie spalle.
“Avete presente quella sfida di bevute che abbiamo fatto tanto tempo fa?” si illumina Joey, che ha sulle ginocchia una biondina assai poco interessata a quello che sta dicendo.
“Certo, l’ho vinta io” dico alzando la mano.
“Solo perché io avevo bevuto già da prima”
“Non è vero, è perché io reggo l’alcol meglio di chiunque”
“Meglio di me?”
Mi volto verso Duff, che è seduto al mio fianco sul divanetto mezzo sfondato del camerino.
“È una sfida?”
Joey non poteva sperare di meglio.
“Signori, si va al bancone”
Tutti insieme usciamo dal camerino e torniamo nel locale vero e proprio, dove un altro gruppo si sta esibendo, tra l’indifferenza del pubblico, ubriaco o strafatto.
“Non ne ho mai perso una, di queste sfide. Non vorrei mandarti in coma etilico, ci tengo a te”
Il biondo mi fa l’occhiolino.
“Il mio soprannome è ‘il re della birra’, non so se hai afferrato”
“Andiamo giù pesanti in queste sfide, niente birra amore mio” se la ride Joey mentre mi siedo su uno degli sgabelli davanti al bancone nero.
“Allora, funziona così” si mette a spiegare il cantante “a ogni bicchiere, vi faccio una domanda personale, che sapete per forza. Il primo che risponde sbagliato, ha perso. Tutto chiaro?”
“Chiarissimo”
“Ma come fai a sapere se lui dice la verità?” chiedo, indicando Duff.
“Controlliamo noi”
Mi volto e vedo che alle nostre spalle ci sono Izzy, Slash e Steven, che a quanto pare ci stavano ascoltando da un bel pezzo.
“Che ci fate qua?”
Steven si gratta la testa.
“È una mia idea. Volevo vedere il regalo di Duff”
Ridiamo. Arriva il primo cocktail. Duff lo butta giù tutto d’un fiato, io lo bevo lentamente.
“È una tattica?”
“Io me le gusto, le cose che bevo”
“Oooook, prima domanda” comincia Joey “Visto che siamo al primo bicchiere una difficile. Nome dell’ospedale dove siete nati”
“Ehi, io non la so questa” si lamenta Duff.
“Hai perso” sorrido soddisfatta.
“No, vabbè, cambiamo domanda. Non possiamo buttarlo fuori alla prima” Joey ci riflette un attimo su “Canzone preferita? Mi dovete cantare la prima strofa”
“She was a girl from Birmingham, she just had an abortion, she was a case of insanity, her name was Pauline she lived in a tree… Se volete ve la canto tutta”
“Bodies” decreta il cantante. Batte la mano sulla spalla di Duff. “Biondone, mi piaci sempre di più. Jeanette?”
“Every time I look in the mirror, all these lines on my face getting clearer, the past is gone, it went by, like dusk to dawn, isn’t that the way, everybody’s got the dues in life to pay”
“Dream on”
“Dream on” confermo, sospirando. Fottiti, Steven Tyler, mi lasci per strada e io continuo ad amare le tue canzoni.
Secondo giro di cocktail, seconda domanda.
“Voto con cui siete usciti dal liceo”
“63, e un calcio in culo per farmi uscire più velocemente”
Io rido.
“Io non sono uscita dal liceo”
“Tu non ci sei neanche entrata, al liceo” mi sfotte Joey.
Continuiamo così per non so quanto tempo, non so quanti cocktail, non so quante rivelazioni piuttosto scomode che tanto non ricorderò. Fatto sta che l’ultima domanda è stata: il vostro cognome?
“Isbell” urlo io, scaldata da tutta quella roba che ho bevuto. Riesco ancora a connettere cervello e lingua, ammirevole.
“Ottantatrè” dice Duff, appoggiando poi la testa sul bancone per cercare un po’ di refrigerio.
“Hai peeeeeeeerso”
 
Cazzo, ma questo bancone non è per niente fresco. Mi alzo, barcollante, Jeanette si appoggia a me e mi dice che vuole seguirmi. Con una mano costantemente sul bancone, giusto per non schiantarmi a terra, arrivo alla porta sul retro. Sono andato nella direzione sbagliata. Ma chissenefrega, è una porta, ed è aperta. Va più che bene. Jeanette mi lascia e fa per uscire, ma non si accorge dello scalino appena oltre l’uscio. Stramazza faccia a terra, ridendo come una cretina.
“Che cazzo fai?” le chiedo. Mi sembra la domanda più adatta. O forse no. Forse dovrei aiutarla a rialzarsi. Forse si è fatta male. Ma sta ridendo, non può essersi fatta male. Ma non si muove, forse è perché si è fatta male.
“Sto abbracciando il pavimento” urla lei, e si gira sulla schiena, tendendo le braccia verso di me. Afferro le sue mani graffiate e la tiro in piedi. Forse troppo velocemente. Perde l’equilibrio e si appoggia su di me, che come stabilità sono messo peggio di lei. Sento il cemento duro sotto la mia schiena, per un attimo mi manca il fiato. Jeanette è sopra di me, beatamente accoccolata sul mio petto.
“Sento il tuo respiro” mi sussurra. Porto le mani dietro la testa, visto che il cemento è davvero scomodo, e mi metto a fissare le stelle. Un giorno che non mi ricordo, ad un’ora che non so, in un anno a me sconosciuto, mi metto a fissare le stelle.
“Sono belle le stelle stasera, no?”
Sento Jeanette voltare la testa.
“Non vedo un cazzo” si rialza e si appoggia al muro, giusto per non cadere di nuovo. Dopo due voli, ha capito di aver bisogno di un appoggio. Cammina lenta, rasente al muro.
“Dove vai?” le urlo. Non mi risponde. Mi alzo anch’io e la raggiungo.
 

Finalmente sono riuscito a guardarmi Shining in santa pace. Senza Slash che chiede di vedere qualcos’altro ogni cinque secondi, senza gente che commenta ogni scena o chiede quando arriva il momento più pauroso. Mi alzo dal divano e faccio per andare in camera, quando sento la porta aprirsi e tre ragazzi piuttosto allegri entrare.
“Finalmente! Dove cazzo eravate andati?”
Izzy, Steven e Slash si buttano a peso morto sul divano.
“A vedere il regalo di Duff”
“E cos’era?”
“Concerto dei Ramones”
“E sfida di bevute” aggiunge Slash divertito. Lo guardo storto.
“Ha vinto Jeanette. Duff non fa di cognome ottantatrè” spiega Steven, convinto che adesso io abbia capito tutto.
“E adesso dove sono?” chiedo.
“Bo, in giro” il biondo fa spallucce e va in bagno.
Duff e Jeanette sono in giro. Ubriachi. Duff più ubriaco di Jeanette. Jeanette che riesce a malapena a biascicare il suo cognome.
“Vado a farmi un giro” dico con più naturalezza possibile, sperando che nessuno noti che sono le cinque di mattina.
 

“Guarda, c’è carotina” urlo indicando un’ombra che avanza verso di noi.
Siamo in un parco pubblico, Duff seduto a gambe aperte a dormire contro un albero e io accoccolata addosso a lui. Abbiamo una panchina di fianco. Ma noi siamo seduti contro quest’albero, con i pantaloni fradici a causa dell’erba bagnata. Viva le sbronze, insomma.
“Buongiorno, eh” saluta Axl fermandosi di fronte a noi. Mi alzo in fretta e mi appoggio a lui per non cadere.
“Macciao”
Appoggio la testa su una sua spalla, chiudo gli occhi.
“Mi gira la testa”
“Tranquilla, adesso ti porto a casa”
E dimenticandoci completamente di un Duff in coma profondo, ci avviamo verso casa.
 
Mi sveglio e mi ritrovo contro un albero, in un parco di non so che quartiere, con davanti a me le scarpe di Jeanette. Di vernice rossa, aperte sul davanti. Alte qualcosa come otto metri e mezzo. Mi guardo un po’ in giro, la moretta dev’essere qua intorno. Ho un giramento di testa piuttosto forte, un senso di nausea mi assale. Appoggio il capo all’indietro contro il tronco, lentamente. Chiudo gli occhi. No, pessima idea. Li riapro. Respiro lentamente, prendo grandi boccate d’aria e le butto fuori. Manco stessi partorendo. Mi rialzo, raccolgo le scarpe rosse e con tutta la calma del mondo, tenendo la testa più ferma possibile, esco dal parco e giro a sinistra, sperando che sia la strada giusta per casa.

 
“Ma stiamo davvero andando a casa?” mi chiede Jeanette, che cammina piano, appoggiata a me.
“No”
“E dove stiamo andando?”
“In un bel posto”
“Tu ci credi nel paradiso?”
La guardo storto.
“Che?”
Lei, per tutta risposta, si mette a ridere. Una risata ubriaca. È andata, ormai.
Arriviamo nella vecchia zona industriale di Los Angeles. Piena di capannoni abbandonati e vuota di gente. Mi è sempre piaciuta.
Entriamo in un edificio con una gigantesca vetrata sul soffitto. Qualche vetro non c’è più, qualcuno giace a terra in mille pezzi. Spingo Jeanette contro una parete, faccio scorrere le mie mani lungo la sua vita, i suoi fianchi. Le bacio l’ombelico che il top dorato lascia scoperto. Afferro con decisione l’orlo dei pantaloni aderenti che indossa e lo faccio scendere sempre di più, accompagnato dalle mie mani. Mi piego sulle ginocchia, faccio arrivare i pantaloni ai piedi minuti della ragazza. Lei, collaborativa, li alza uno alla volta, permettendomi di sfilarle facilmente i fuseaux. Non porta le scarpe. Non l’avevo notato. Qualche filo d’erba è intrappolato tra le sue dita. Mi rialzo, sul volto di Jeanette un sorriso enigmatico, qualcosa tra la malizia, la soddisfazione, la sottomissione, la sbronza. Sei strana, ragazza. Infilo una mano nelle sue mutandine, strappandole un sussulto. Comincio a massaggiarle il monte di venere, mentre l’altra mano si appoggia su un suo seno, coperto dal top che non ho pensato di togliere. Jeanette piega la testa all’indietro, inarca la schiena, avvicina i suoi fianchi ai miei. Il suo respiro è affannoso, e resta tale anche quando porto le mie labbra sulle sue, facendo scivolare la mano appoggiata sul suo seno fino alla schiena, avvicinandola ancora di più a me. L’eccitazione sale velocemente, muovo più veloce le dita sulla sua intimità, cerco di andare più a fondo. Jeanette non fa nulla. Si lascia baciare, si lascia usare. Usare. Io la sto usando. È ubriaca, mi sta lasciando fare. È inerme. La allontano da me. Lei mi guarda con uno sguardo smarrito.
“Dai rivestiti, andiamo davvero a casa”
Lei, obbediente, indossa i pantaloni e mi segue fuori dall’edificio, fuori dalla vecchia zona industriale, fino a casa.
Mi sento una merda.

 
“Alleluia, siete tornati” è lo pseudo saluto di Steven, che guarda la tv con una terrina di pop corn in mano.
“Ho sonno” dico, e vado verso la stanza di Steve e Duff, trovando la pertica addormentato beatamente sul suo letto. Sorrido e mi lancio sull’altro letto. Mi gira la testa, mi viene da vomitare, ho voglia di cioccolato. Anzi no, ho voglia di fragole. Di frullato alle fragole.
“Axl…” muguno.
“Axl…” chiamo più forte. Il rosso arriva in camera, con una faccia mogia.
“Ho voglia di frullato alle fragole. E di cioccolata. E di un biscotto”
Mi guarda allampanato, come se gli avessi chiesto la luna.
“E di tanto sonno” aggiunge lui, uscendo dalla stanza chiudendo la porta alle sue spalle.
 
Mi butto sul divano, che strano ma vero non è occupato da nessuno. Steven è appena sloggiato, è andato in cucina. Chiudo gli occhi e ascolto pigramente la musica che danno alla tv. Mi rigiro sul sofà un paio di volte, prima di addormentarmi, ascoltando una canzone che non conosco ma che mi piace davvero molto.
 
Il mal di testa è passato. Sparito. E con il mal di testa tutto il resto di dolorini vari. Guardo fuori dalla finestra della mia stanza. Il sole ormai è tramontato. Saranno le sei, le sei e mezza. Mi volto per andare in cucina a mangiare qualcosa e mi accorgo di Jeanette sul letto di Steven, che dorme tranquilla. È bellissima. I capelli neri sparsi sul cuscino bianco, un sorriso pacifico sulle labbra. Le braccia raccolte vicino al viso, le gambe piegate al petto. Come faccia a dormire in una posizione del genere non lo so.
Nel mio tragitto verso un panino, o un piatto di pasta, o qualsiasi tipo di cibo presente in cucina, mi imbatto in Axl sul divano, anche lui addormentato beato. Che è, che in questa casa dormono tutti già alle sei?
Dalla cucina arriva un rumore di vetri rotti, un paio di parolacce e un’imprecazione, il tutto accompagnato da Steven che esce incazzato borbottando qualcosa. Entro nella stanza e vedo Slash che mi guarda disperato.
“Le bende?”
“Bende?”
Lo guardo storto, poi velocemente esamino la situazione in cucina. Vetri rotti per terra, Saul che schizza male e Izzy che si tiene un polso, che sta sanguinando in modo alquanto preoccupante.
“Va bene Saul, tu esci, ci penso io” tento di prendere in mano la situazione, nonostante mi sia appena svegliato, mi sia appena ripreso da una sbronza assurda e abbia una fame da lupi. So quanto Slash abbia paura del sangue, meglio non farlo rimanere troppo tempo vicino al polso di Jeff.
Visto che di bende, cerotti, disinfettante o qualsiasi cosa utile in casa nostra non c’è ombra, prendo la prima maglietta che trovo in salotto e improvviso una fasciatura. Potevo fare il medico del pronto soccorso, non il bassista.

 
La porta della camera sbatte molto poco elegantemente e mi fa svegliare di colpo.
“Scusa. Non sapevo che eri qui” si affretta a dire Steve, il più dolcemente possibile, ma si vede perfettamente che è incazzato nero.
“Che è successo?”
Mi strofino un occhio, ritrovandomi con le dita sporche di mascara, eyeliner e qualsiasi schifezza mi ero messa in faccia.
“Ma niente, stavo prendendo un bicchiere ed è arrivato Izzy, mi sono spaventato e mi è scivolato e poi bo, si è rotto, Izzy si è tagliato e poi è arrivato pure Slash e mi ha detto su come al solito”
“Ma niente di grave? Cioè, non è che mio fratello ci resta secco, vero?” tento di buttarla sullo scherzoso. In fondo è solo un bicchiere rotto, che cazzo può aver fatto ad un ragazzo come Jeff? La testa di Duff fa capolino dalla porta aperta.
“Ci serve qualcuno che ci accompagni in ospedale”   
Confusa, seguo il biondo fuori da casa, fino all’auto.
“Stacci tu vicino a lui, io guido”
Mi siedo sui sedili posteriori, di fianco a Jeff. Ha una maglietta legata alla buona intorno ad un polso. Una maglietta bianca. Che lascia intuire perfettamente che un bicchiere rotto può far molto male anche ad un ragazzo come Jeff.
“Jeanette, che cazzo hai fatto a tuo fratello?”
“Niente, è scivolato da solo”
“E come mai hai un pezzo di vetro in mano?”
“Jeff è scivolato su questo”
È lo stesso polso, cazzo. Lo stesso. Nello stesso identico punto. Slaccio delicatamente la maglietta, mio fratello fa una smorfia di dolore.
“Che cazzo fai?”
“Lascia, te la metto meglio”
Un segno netto, profondo, che prende di taglio un paio di vene. Appena sotto, la cicatrice che Jeff porta da quando aveva otto anni. Da quando gliel’ho fatta io.
 
Arriviamo in ospedale e ci fiondiamo al pronto soccorso, dove una ventina di persone sta aspettando il proprio turno.
“Ne abbiamo qua, di tempo da perdere” commenta Duff. Io intanto sono in preda al panico. Non che abbia la fobia del sangue o cose simili, ma ho una specie di paura che mi ha preso e mi fa stare sempre più male. Potrei spiegarla come paura di essere di nuovo mandata in collegio. Solo che questa volta mi peserebbe tanto. Tantissimo. Perché questa volta ho una famiglia, o degli amici, o come cazzo li voglio chiamare, che mi vogliono bene. O almeno, a cui io voglio bene. Che poi non so perché mi sto facendo questi problemi, non sono stata io a far male a Jeff. Ma è una situazione così simile.
Un medico passa di fianco a me, lo prendo per un braccio e lo prego di fermarsi. Tento di spiegargli rapidamente la situazione, ma ne viene fuori un racconto confuso e distorto, che mi fa ottenere solo la compassione del dottore.
“Stia tranquilla, signorina. Si sieda e aspetti il proprio turno”
“Ma gli dia almeno un’occhiata. Che cazzo ci fa qui, ci gioca? Non sono al pronto soccorso per aspettare il mio turno”
Esasperato, il medico slaccia la maglietta intorno al polso di Jeff e osserva la ferita per circa un millisecondo.
“Codice bianco, secondo reparto sulla destra”
Sospiro, stanca, mi porto una mano sul viso. Duff mi passa un braccio intorno alla vita e insieme a Jeff andiamo dove ci ha indicato il dottore. Un’altra ventina di persone ci fissa.
 
Non c’è nessuno. Di nuovo. O forse no. No, da camera mia arriva una melodia, suonata con la chitarra. Sorrido. Jeff. Apro la porta e invece trovo Slash seduto sul suo letto, la schiena appoggiata al muro, che strimpella la sua chitarra classica.
“Ci sei solo tu?”
Scuote la testa.
“Steve è in camera sua. Ha fatto cadere un bicchiere e Jeff si è tagliato. L’hanno portato in ospedale”
Faccio di sì con il capo, poi vado in cucina, dove dei vetri rotti sono sparsi per il pavimento. In fretta, prendo la scopa e li elimino. Non è mai bello avere vetri rotti per casa. Dopo essermi assicurato di aver ripulito tutto per bene, mangio un paio di biscotti, l’unica cosa pronta in cucina, e vado a farmi una doccia. Chissà che tornino presto, quei matti.
 

Sono ore che aspettiamo in questo cazzo di reparto. Sono ore che ste venti persone sono ancora davanti a noi. O non c’è un dottore o il tizio che stanno medicando è davvero messo male. Ad un certo punto, un uomo in camice bianco dall’aria un po’ stravolta fa capolino dalla porta alla fine della sala.
“Il prossimo?”
Una signora, che tiene in braccio una bambina bianca come un lenzuolo, si dirige verso la porta ed entra nella stanza, dalla quale esce subito dopo una ragazza bionda, sulla ventina, con la faccia stravolta tanto quanto quella del dottore e i capelli arruffati. Tranquilla, ci sfila davanti. Dalla borsetta rossa si intravedono un paio di collant. Il suo perfetto equilibrio su un paio di tacchi vertiginosi mi fa intuire che non si trovasse lì per un’emergenza. Un’emergenza del dottore, casomai. Ci saluta, con tanto di occhiolino a Duff, e se ne va, beata e pacifica.
Troia.
 

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Capitolo 10
*** Decimo giorno. ***


È passato un sacco di tempo. Non so quanto, ma tanto. Il prossimo turno è il nostro. Un dottore dall’aria annoiata ci sfila davanti, il camice bianco svolazzante davanti a noi. Apre la porta alla fine della sala, quella da dove era uscita quella biondina che mi sta immensamente in culo, ed entra. Lo sentiamo scambiare quattro chiacchiere con il medico già in servizio, un paio di risatine, poi uno dei due fa capolino dalla porta.
“Il prossimo” dice, ridendo ancora per la battutina del collega.
Ci alziamo tutti e tre e ci dirigiamo alla fine della sala.
“Vado da solo” dice Jeff prima di entrare. Annuiamo. Appoggio le spalle al muro, Duff resta in piedi di fronte a me, guardando i cartelloni appesi ai muri bianchi. ‘Sex, drug, rock n’ roll. Just coffee for me, please’ recita un manifesto.
“Il problema è che noi la caffettiera non ce l’abbiamo più, dobbiamo ripiegare sul resto” commenta Duff.
“Quindi sono stata io a rovinarvi?”
Lui fa spallucce.
“Ci hai rovinato bene”
Sospiro. Quanto cazzo ci mette Jeff?
“Signorina?” Mi volto di scatto nel sentire il dottore che mi chiama, non mi ero neppure accorta che si fosse aperta la porta.
“Sì?”
“Le dispiacerebbe venire dentro un attimo? Anche il suo amico”
Io e Duff entriamo nello studio, mi guardo intorno un po’ nervosa. Diecimila quadri tra attestati o semplici foto sono appesi lungo le pareti, un grande armadio in un angolo della stanza. Di fianco alla porta, un lettino nero dove è seduto Jeff, con il polso fasciato e gli occhi lucidi.
“Come stai?”
“Mi hanno dato i punti così, a secco, secondo te come sto?”
Rispostaccia. Ma me l’aspettavo. In fondo non sono io quella che ha dovuto farsi mettere i punti una seconda volta sullo stesso polso.
“Volevo fare un discorsetto a tutti e tre” inizia il dottore seduto alla scrivania, mentre l’altro sta sistemando l’armadio. “Ogni notte ne arrivano davvero tanti, di giovani come voi. Io mi chiedo perché dovete andare a farvi male per un po’ di divertimento. Perché alle feste dovete ubriacarvi fino a finire in coma. Perché dovete farvi di quella merda che neanche Dio sa cos’è. L’ho visto il tuo polso, ragazzo, non è la prima volta che ti ritrovi con un taglio del genere. Vedete di smetterla di fare cazzate, perché a me passa la voglia di curarvi ogni sera”
“Veramente…” tenta Duff, ma viene prontamente fermato dal dottore.
“Non cominciate col discorso che voi siete santi o chissà cosa. Non attacca”
“Stavamo facendo la cena e a un mio amico è scivolato un bicchiere. E l’altro taglio me lo sono fatto a otto anni. E non sopporto che la gente mi dica che sono un drogato” taglia corto Jeff, scendendo dal lettino. Esce dalla stanza seguito da me e Duff, che in segno di saluto fa sbattere la porta il più violentemente possibile.
 
Il portone si apre e vedo entrare Duff, Jeanette e Izzy.
“Come stai?” chiedo subito, osservando il polso fasciato di Jeff. Per tutta risposta, lui scuote la testa e se ne va in camera. Rivolgo un’occhiata interrogativa agli altri. Anche loro scuotono la testa.
“Gli passerà” è l’unico commento di Jeanette, che si siede sul divano di fianco a me. Appoggia i gomiti sulle ginocchia, si nasconde il viso tra le mani.

 
Rimango a fissare il pavimento per un po’. Penso. Penso a tutte le cattiverie che ho fatto a Jeff. Di nuovo. Ci penso troppo, ultimamente. E ci sto male ogni volta di più.
 
“Ma guardate quant’è bello”
Eravamo in ospedale, reparto maternità. Ero una nanetta, avevo due anni. Tiravo i pantaloni di papà in modo che si accorgesse di me. Tirami su, papà, voglio vedere il mio fratellino. Ma papà non mi badava.
“Somiglia a Jeanette”
“Anche lui diverso dai genitori, insomma”
“Forse alla fine è un bene”
Ho visto Jeff per la prima volta quando la mamma è tornata dall’ospedale. Cinque giorni dopo che era nato.
“Allora, è bello, il tuo fratellino?”
Osservai quell’esserino che la mamma teneva in braccio. No, non era per niente bello. I miei occhioni neri passarono da Jeff a papà, alla mamma.
“Potresti anche dire qualcosa, hai due anni, sarebbe ora”
Non parlavo. Guardavo la mamma, Jeff, papà, Jeff, la mamma. Lui non era bello. Io ero più bella.
 
Sento un singhiozzo. Mi volto verso Jeanette. Piange.
“Ehi, che c’è?”
Lei continua a piangere, senza badarmi. Le sue lacrime bagnano il pavimento. La sue spalle si alzano e si abbassano seguendo il ritmo dei singhiozzi. Faccio per avvicinarmi a lei, ma si alza di scatto.
“Vado in bagno” mi dice, senza neppure guardarmi, senza girarsi. Va velocemente verso la porta scura e la chiude alle sue spalle.

 
Mi appoggio al legno scuro e mi lascio scivolare fino a terra. Alzo la testa, fino a vedere la lampadina appesa al soffitto. Stringo forte gli occhi, per far uscire le ultime lacrime. Ma non sono le ultime, ce ne sono ancora altre. Molte altre, che premono per uscire. Ricaccio indietro i singhiozzi, non permetto loro di venire fuori. Di uscire dal mio cuore. Rimangono lì fermi, a ristagnare insieme ai sensi di colpa, che per sedici anni sono rimasti zitti zitti, per poi esplodere e uccidermi. Mi alzo e mi sciacquo il viso, senza neppure guardarmi allo specchio. Devo avere un aspetto osceno. Vedo la mia maglietta dei Ramones appesa alla maniglia della finestra. Mi spoglio e indosso solo quella, tanto è talmente enorme che mi arriva a metà coscia. Prima di infilarmela, guardo il piccolo tatuaggio che ho sul fianco sinistro. Sorrido amara. Quello sì che ha fatto male, altro che un pezzo di vetro sul polso. Taci, Jeff, tu non hai neppure la lontana idea di cosa sia il dolore.
 
Jeanette esce dal bagno con addosso solo una maglietta e un sorriso timido.
“Che è successo?”
“Niente. Un momento di depressione” mi sorride, i suoi occhi sono ancora arrossati. Non me la racconta giusta.
“Avete altri concerti in programma?” tenta di deviare il discorso. E ci riesce.
“Proverò a chiedere in giro, non è che ci chiamano loro per  fare un concerto. E poi devo sentire se Jeff può suonare, con il polso ridotto così”
Lei annuisce. Abbiamo esaurito l’argomento ‘concerto’. Abbiamo esaurito qualsiasi argomento.
“Vado a dormire”
Lei annuisce di nuovo, lo sguardo perso nel vuoto.
“Buonanotte”
 

Sono sola. Mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Dopo qualche minuto, o ora, una melodia con la chitarra mi riempie le orecchie. È dolce, tranquilla, non quel rock duro che ero abituata a sentire. È bellissima.
 
Sono seduto per terra, appoggiato al muro, a strimpellare una chitarra che ho trovato qua in salotto. Non so di chi sia, non l’ho mai vista prima. Suono piano, credo che Jeanette stia dormendo. Note a caso, accordi usciti male, che le fanno spuntare un sorriso beato. Sorrido anch’io. Piego la testa all’indietro, continuando in quella sequenza di note assurda e disordinata. Steve esce dalla nostra stanza e si dirige verso la cucina. Si ferma a metà strada, guardando la scena che gli si presenta davanti. Una ragazza mezza nuda addormentata sul divano e un ragazzo che, contrariamente a qualsiasi legge naturale, resta seduto per terra a suonare, senza nemmeno degnare di uno sguardo lo spettacolo che ha davanti.
Qualche minuto dopo, anche Slash esce dalla sua stanza. Anche lui va verso la cucina, anche lui a metà strada si ferma e ci guarda. Poi va a farsi la colazione. Sento un vociare concitato provenire dalla cucina. Tento di seguire la conversazione, ma continuo a pensare a mille cose, a quali corde schiacciare, a come diavolo era il testo di Paradise City, alle gambe magre di Jeanette appoggiate delicatamente sul divano, alla voglia che ho di una doccia calda, o di un letto caldo, alla scaletta del prossimo concerto, al locale dove faremo il prossimo concerto. Ci sarà, un prossimo concerto?
“Però potevi stare attento cazzo, è ridotto davvero male”
“Ma stare attento cosa? Dio, sono cose che capitano. Mica l’ho ucciso”
“Non può suonare ridotto così”
“Massì che può suonare, io ho suonato con due dita rotte, può anche lui”
“Speralo, sennò mi incazzo davvero”
“Taci, Saul”
Steve e Slash escono dalla stanza, incazzati. Steven si chiude in bagno, mentre Slash mi passa di fianco senza badarmi, diretto verso la sua stanza. Lo blocco.
“Che è successo?”
“Spero per Steve che Jeff possa suonare anche con un polso del genere, altrimenti lo meno forte”

 
Apro gli occhi e vedo Duff che sonnecchia appoggiato al muro con una chitarra bianca abbandonata davanti ai suoi piedi. Di fianco a me, seduto su un bracciolo del divano, Steven, che fissa il tappeto. Dalla cucina la voce di Slash, che chiacchiera con Axl.
La porta della stanza di Jeff si apre e ne esce mio fratello con un’aria mogia. Duff si sveglia, Steve alza la testa, Axl e Saul fanno capolino dalla cucina. Fisso anch’io Jeff. Siamo in cinque a guardarlo. Neanche dovesse dirci se è incinto o meno.
“Allora?” è il rosso a rompere il silenzio.
“Allora cosa?” Jeff sembra cadere dalle nuvole, come se non sapesse il motivo per il quale tutti ci siamo fermati a fissarlo. O vuole fare il prezioso o è una brutta notizia. E ho paura che l’opzione più plausibile sia la seconda.
“Cosa ha detto il dottore?” taglio corto io.
“A parte il discorso che siamo tutti dei drogati e roba così? Per almeno dieci giorni ho il polso steccato”
“Quindi per dieci giorni non suoni” conclude Axl. Jeff annuisce.
“Hai visto, Steven? È tutta colpa tua, questo casino. Adesso per due settimane non suoniamo più” si arrabbia Slash.
“Ehi, sta calmo. Tanto non suonavamo comunque” tenta di difendersi il biondo. Guarda Axl, in cerca di un appoggio. Lui scuote la testa.
“Tra tre giorni c’è un concorso per gruppi emergenti. E andarci non sarebbe stata una brutta idea”
“Ecco, vedi? E noi non ci andiamo. Per colpa tua. Perché tu non puoi stare un attimo attento, devi fare un casino ogni volta che tocchi qualcosa”
“Cazzo, non è la fine del mondo. Calmati un attimo” Steve si alza, giusto per avere una posizione più autoritaria in quella discussione. Ma alla fine lui resta sempre l’accusato. Accusato da Slash.
“Ma Dio, non capisci? Noi quel concorso lo vincevamo, qualcuno ci notava e partivamo, e chissà cosa potevamo fare. E invece tra tre giorni saremo qui dentro, a cambiare le fasciature a Izzy perché tu non riesci a comportarti da adulto. Sei sempre quello che combina casini. Vedi di crescere un po’, perché ormai sarebbe ora”
“Sì, devo crescere? Sbaglio o eri tu quello che mi ha chiamato quella sera dicendomi ‘Adler abbiamo bisogno di te’? Che è, sono retrocesso col tempo?”
“Non ti vedevo da mesi, non mi ricordavo che fossi così coglione”
“Allora forse è meglio che me ne vado, tanto di coglioni in questa casa ce ne sono già abbastanza”
E Steve, coerente col suo discorso, prende e se ne va. Guardiamo tutti la porta, aspettando che da un momento all’altro si riapra,  invece resta chiusa. Chiusa. Stanchi di fissare quella porta, il nostro sguardo si posa su Slash.
“Ma bravo. Magari senza la chitarra ritmica qualcosa potevamo combinare, adesso siamo pure senza batteria” lo sgrida Duff, per poi uscire pure lui.
Axl, che strano ma vero non dice niente, se ne va in camera sua, seguito da Jeff. Io resto ancora lì sul divano, a guardare Saul.
“Dai, tirami su merda anche tu, così sono soddisfatto”
Scuoto la testa.
“Ormai l’hai fatto. Non c’è più niente da dire”
 
Mi butto sul letto a fissare il soffitto, Jeff è sul suo, con la schiena appoggiata al muro, che giocherella con un accendino.
“Dieci giorni?” chiedo. Giusto per essere sicuro di aver capito bene.
“Se non di più, dipende quanto ci metto a guarire”
“E non riesci a suonare proprio niente?”
“Non riesco neanche a piegare il polso, figurati a suonare”
Devo trovare una soluzione. Non tanto per Steven, tornerà prima di cena, ma piuttosto devo trovare un altro chitarrista per quel cazzo di concorso. Magari la signorina di là conosce qualcuno. Mi alzo e vado in salotto, dove Jeanette è seduta sul divano.
“Non è che conosci un chitarrista che può sostituire Jeff?”
Lei non alza nemmeno la testa. Pensa.
“Non è che posso chiamare qualcuno e dirgli ‘Ehi ciao, ti va di essere il chitarrista di una band sconosciuta per una sera?’ Cioè, non è così facile”
Mi siedo sul divano di fianco a lei.
“E poi dovete trovarvi pure un batterista” aggiunge.
“Steven torna tra qualche ora, non è la prima volta che se ne va”
“Io vado a farmi un giro” conclude lei. Si alza e fa per andare verso la porta.
“Vuoi che vengo anch’io?”
Scuote la testa.
“Voglio stare un po’ da sola”

 
E sono di nuovo in spiaggia. In pieno inverno. A guardare il cielo che promette pioggia. C’è un tempo di merda, ultimamente. Dopo aver cercato Steven per quella che mi è parsa un’eternità, e dopo non averne visto neanche l’ombra, sono venuto qui in spiaggia. Su una sdraio, stavolta. Perché di insabbiarmi dalla testa ai piedi non ne ho proprio voglia.
 
Guardo il cielo un’altra volta. Sono ormai quasi due ore che cammino. E mi sono persa di nuovo. La prossima volta che esco devo ricordarmi che girare per Los Angeles non è così semplice. Ma un giro da soli ogni tanto serve. A schiarirsi le idee. A farsi venire ancora più depressione. Noto un negozio di dischi all’altro lato della strada. Velocemente, entro. Giusto prima che cominci a piovere. Vago da un lato all’altro del negozio, spulciando tra i vinili e le cassette, cercando i nomi dei gruppi che conosco, degli album che mi piacciono di più, fermandomi davanti alle foto sulle copertine. Quanto belli sono i negozi di dischi?
 
Entro in un negozio di dischi bagnato fradicio, beccandomi qualche occhiataccia dai clienti e dal tizio alla cassa. Ma che ci posso fare, non sono mica io che decido quando far piovere. E quello che ha il potere di sceglierlo, deve farlo proprio quando io sono fuori. Mi guardo un po’ intorno. Dietro una corsia, una figura che conosco molto bene.
“Salve”
Lei si volta di scatto, spaventata.
“Ciao. Che fai qui?”
“Quello che fai tu” rispondo, mettendomi a curiosare tra i dischi.
“Cioè ti sei perso anche tu?”
“Più che altro ho perso Steve”
“Axl dice che tra un po’ torna a casa”
“Speriamo. Intanto torniamoci noi, a casa, che dici?”
Lei guarda fuori.
“Piove a dirotto. Aspettiamo un po’”

 
Guardo fuori dalla finestra. Finalmente ha smesso di piovere. E di Steve, Duff o Jeanette nessuna traccia.
“Però potevi essere più delicato. Lo sai che Steven se la prende per tutto” commenta Jeff.
Slash fa spallucce.
“Tanto torna”
La porta si spalanca. Tutti e tre guardiamo curiosi chi è tornato. Duff e Jeanette. Sempre meglio di niente. Loro si guardano un po’ intorno.
“Steven?”
Tutti scuotiamo la testa o facciamo spallucce. Steven non è tornato. E il dubbio che non torni si allarga sempre di più nella testa di tutti. Jeanette appoggia un sacchetto di plastica bianco sul comò e ne estrae un paio di scatoline.
“La cena” sorride soddisfatta.

 
“Non è che vuoi un letto decente almeno per stanotte?” mi chiede Duff mentre puliamo i pochi piatti che abbiamo usato per cenare.
“Il tuo, magari?”
“Quello di Steve. Tanto io non russo, tranquilla”
“Mi faccio la doccia e arrivo” sorrido io, dirigendomi poi verso il bagno.
Attacco l’acqua e mi spoglio, aspettando che prima o poi diventi calda. Speranza vana. Mi lavo velocemente, per poi uscire dalla doccia infreddolita. Cerco un accappatoio, un asciugamano, un fazzoletto pulito ma di questi non c’è traccia. Ora di pulizie, qui. Ho trovato cosa fare domani. Prendo un asciugamano bianco lanciato in malo modo sul ripiano del lavandino e lo avvolgo intorno al mio corpo. Esamino il mio viso allo specchio per un quarto d’ora buono, fino ad arrivare alla stessa conclusione di tutti i giorni.
“Sei figa, Jeanette” sussurro al mio riflesso.
Mi spazzolo i capelli ancora umidi ed esco in salotto, prendo l’intimo dalla mia valigia e vado nella camera di Duff e Steve. Senza nemmeno controllare se c’è qualcun altro in camera, lascio cadere l’asciugamano a terra e mi infilo gli slip. Sento un movimento di lenzuola dietro di me. Sorrido. Lascio cadere apposta il reggiseno davanti a me, mi piego a novanta a raccoglierlo, lasciando al biondone lo spettacolo del mio fondoschiena davanti a lui. Lancio il reggiseno sul letto di Steve e vado verso la finestra, passando il più lentamente possibile davanti al letto di Duff. Mi pettino i capelli con le mani, chiudo la finestra e torno sul letto vuoto del batterista.
“Posso continuare, se vuoi” sussurro.
“Se ti diverte tanto…”
“Direi che quello che si diverte di più sei tu”
Il biondo ride.
“Continuiamo questo discorso domani, ok?”
Ridiamo un po’, poi torno seria.
“Secondo te Steve torna?”
“Ma certo che torna, che domande”
“…d’accordo. Notte Duff”
“Notte”
 
Ciao, sono l’autrice:
e finalmente sono tornata .-. Era anche ora :)
Vabbè, sono venuti fuori un po’ di casini, un po’ di sentimenti, un po’ di sensi di colpa, un po’ di ricordi.
Ma il tempo risolve tutto.
Un bacio, Euachkatzl <3  

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Capitolo 11
*** Undicesimo giorno. ***


La camera dei biondoni è rivolta ad est, ovviamente le tapparelle sono aperte e di tende non c’è nemmeno l’ombra. Un raggio di sole mi investe in pieno viso, costringendomi ad aprire gli occhi. Mugugno qualcosa che neppure io so cosa sia e mi volto dall’altra parte, tentando di riprendere sonno. Ma niente. Scocciata, mi alzo e vedo Duff che dorme beato, nonostante il sole gli punti sugli occhi in un modo indecente. Faccio spallucce e vado in cucina. Ho una maledetta voglia di caffè. E di cioccolato, ucciderei per un pezzo di cioccolato.
In cucina trovo Jeff e Axl. Il primo, seduto tranquillo su una sedia, che se la ride godendosi lo spettacolo del secondo che gli prepara la colazione. Cioè che mette un po’ di latte e cereali in una tazza, ma è già qualcosa.
“Non è che ne stai approfittando, Jeff?” rido, ma lui mi degna soltanto di un’occhiataccia e una risposta acida.
“Non sei tu quella che ha un polso a pezzi per la seconda volta, puoi solo tacere”
“Ehi, ma che hai? Neanche fosse stata colpa mia, calmati bello”
“Mi sembra di ricordare che la prima volta è stata colpa tua. O sbaglio?”
Sbuffo e torno in camera, dove Duff si è finalmente accorto che è mattina inoltrata e che il sole sta tentando di svegliarlo da non so quanto tempo.
“Ma buongiorno” mi saluta, con gli occhi socchiusi e la bocca ancora impasticciata dal sonno.
Mi siedo sul bordo del letto, accanto a lui, che riaffonda la testa nel cuscino. Fisso per un po’ i suoi capelli biondi, sparati da tutte le parti. Li pettino con le mani, sciolgo delicatamente tutti i nodi che si sono formati durante la notte.
“Mi spulci ancora per molto?”
“Era un momento romantico, l’hai rovinato”
Lui si volta, facendo finalmente riemergere il suo viso assonnato dal cuscino, mi guarda. Sorride.
“Ma che ridi adesso?”
“Lascia perdere” scuote la testa e si alza, si guarda in giro finchè non adocchia un paio di pantaloni di felpa, che indossa, e poi, con molta nonchalance, va in cucina, a torso nudo a neanche metà febbraio. Il giorno in cui gli verrà una polmonite riderò. Mentre gli darò lo sciroppo, ovvio, non posso mica lasciarlo morire.
 
Però sono scemo anch’io, che devo fare il figo andando in giro a torso nudo. È metà febbraio, fa un freddo cane.
“Buongiorno” saluto Axl e Izzy in cucina.
“Ciao”
“Buongiorno…”
Prendo la bottiglia di latte dal frigo e me ne verso un po’ nella tazza. Ne esce tipo uno sputo. Fisso la mia tazza verde, poi il mio sguardo passa ai due seduti accanto al bancone.
“È finito” commenta Axl.
“Fortuna che ci sei tu, sennò stasera ero ancora qui a tentare di far uscire il latte dalla bottiglia”
“Di niente, scherzi?” mi risponde, per poi andarsene con Jeff in camera.
“Ciao Slash”
“Ciao ragazzi” sento le voci arrivare dal salotto e infatti, due secondi dopo, Saul si presenta in cucina.
“Ho fame” dichiara, prendendo il pacco dei biscotti. Dopo un po’ anche Jeanette fa capolino nella stanza.
“È andato via Jeff?” ci chiede prima di entrare. Annuiamo e lei si siede tranquilla sul bancone, prendendo il biscotto dalla mano di Saul, che non ne rimane molto contento.
“Era il mio” puntualizza lui.
“Era” fa eco lei, addentando soddisfatta il frollino.
“Comunque oggi dobbiamo andare a fare la spesa” informo gentilmente io, sperando che uno dei due mi risponda con un ‘Va bene, vado io’.
“Divertiti” è invece la risposta del riccio.
“Vengo io con te” mi sorride Jeanette, prendendo per la seconda volta un biscotto dalle mani di Slash. Poi, saggiamente, decide di darsela a gambe.

 
“Devo cambiarmi la fasciatura”
Alzo la testa dal foglio che tenevo in mano e guardo Jeff di sbieco.
“Seriamente?”
Lui annuisce.
“Ogni mattina”
“Buona fortuna. E non sporcarmi il letto” mi raccomando, alzandomi e facendo per andarmene.
“No, aspetta, mi serve una mano”
Ero quasi arrivato alla porta. Ce l’avevo quasi fatta a scamparla. Mi dispiace Jeff, ma mi fa schifetto l’idea di cambiarti le fasciature. Non so, vedere i punti, il sangue rappreso, la pelle tirata… vabbè, fa schifo a tutti.
“Che devo fare?” chiedo rassegnato, riavvicinandomi a lui, che ha già cominciato a sfasciare le bende.
“Sopra la scrivania ci sono quelle pulite. Devi solo girarmele un po’ intorno al polso, non è una cosa così traumatica”
Srotolo uno dei gomitoli di fasciatura che sono sopra la scrivania e comincio ad avvolgerlo intono al polso di Jeff, tentando di guardarlo il meno possibile. Sì, era come me l’ero immaginato.
“Ti fa male?” chiedo, tanto per distrarmi. Ma avrei potuto trovare un argomento migliore.
“Non molto, ogni tanto tira. Ma niente di che”
“Hai già provato a…”
Lui mi guarda storto.
“No. E non tocco la chitarra finchè non sono guarito”
“Maddai Jeff, uno sforzo”
“Uno sforzo? Cazzo, ospito in casa una che non sopporto, ho un polso a pezzi, sto tutto il tempo con te a scrivere canzoni, cucino ogni pasto, sono l’unico che tiene un minimo d’ordine e tu mi dici di fare uno sforzo?”
“Senti, non fare la vittima adesso. Ci viviamo in cinque in questa casa. In sei. E tutti diamo una mano. Non lamentarti”
Jeff conclude la conversazione con un sonoro sbuffo. Odio quando fa così. Dio, urlami contro tutto quello che vuoi e sfogati. E invece no, si tiene tutto dentro. E non permette neanche a me di sfogarmi. Lo prenderei a schiaffi, Dio.

 
“Andiamo?” mi chiede Jeanette, dopo essersi infilata le converse ai piedi.
“Andiamo” rispondo io.
Usciamo in strada e veniamo investiti da un odore di umidità fortissimo.
“Piove anche oggi, insomma”
Annuisco. Che tempo di merda.
Arriviamo al supermercato che ha già iniziato a piovere. Ovviamente. Nella lista della spesa aggiungeremo anche un ombrello. O due.
“La lista?”
Porgo a Jeanette il pezzo di carta che ho compilato personalmente prima di uscire. Lei gli da un’occhiata, per poi guardarmi con una faccia come a dire ‘Mi prendi per il culo?’
“Mi prendi per il culo?”
“Perché? C’è tutto”
Lei scuote la testa e si avvia verso la prima corsia. Guardo un’ultima volta la mia lista, sulla quale campeggia una sola parola, scritta pure in grassetto. ‘Tutto’.

 
“Comunque avevo idea di fare un po’ di pulizie oggi, ce li avete i detersivi a casa o tra il ‘tutto’ ci sono anche quelli?”
Nessuna risposta. Mi volto, scoprendo che sono da sola. Stavo parlando con il carrello.
La zazzera bionda di Duff spunta dal fondo della corsia.
“Dammi una mano a orientarmi in questo posto, che io mi perdo” gli faccio cenno di tornare da me.
“Ma cosa vuoi perderti? È più piccolo di casa nostra”
Duff prende il carrello e si avventura nella grande impresa della spesa, fermandosi ogni due passi a mettere qualcosa nel carrello. Finchè arriviamo alla corsia dei dolciumi.
“Oddio oddio oddio c’è la cioccolata con i pop corn”
Il biondo la guarda storto per un po’.
“Che schifo” conclude poi.
“Ma cosa che schifo? È la cosa più buona del mondo”
“Vabbè, butta dentro”
Soddisfatta, appoggio nel carrello la stecca di cioccolata, insieme ad una di cioccolato fondente e ad una di cioccolato bianco.
“Avevi voglia di cioccolato?”
“Secondo te le troviamo le fragole?” chiedo, ignorando completamente la battutina di Duff.
“Siamo a febbraio!”
“Siamo a Los Angeles! La città dei sogni!”
“E tu sogni fragole?”
“No. Ho solo tanta voglia” ammetto.
Lui scuote la testa.
“Te le prederei solo se fossi incinta”
E qua mi parte l’idea balzana nella mente.
“E se lo fossi? Che ne sai tu?”
“Dai, non cominciare con sto discorso”
“Se mio figlio nascerà con qualcosa fuori posto darò la colpa a te”
“D’accordo, mi sentirò in colpa per tutta la vita”
 
Corsia detersivi.
“Comunque prima volevo dirti che avevo idea di fare un po’ di pulizie oggi, un po’ di lavatrici… voi avete la roba o dobbiamo prenderla?”
“Sulla lista c’era scritto ‘tutto’, direi che dobbiamo prenderla” mi risponde Duff, masticando svogliato una gomma che ha appena fregato da un pacchetto.
Mentre tento di capire a cosa diavolo serva un flacone contenente qualcosa di molto simile a jack daniel’s, una coppia passa dietro di me, mormorando concitata. Mi volto a fissarli, perché una coppietta di cinquantenni dovrebbe mormorare nella corsia detersivi di un supermercato? Neanche fossimo controllati. La donna è bassina, con dei capelli castani tagliati di fresco in un sobrio caschetto. L’uomo, molto più alto di lei, è stempiato, ma i pochi capelli rimasti sono inconfondibili: dove lo trovi un altro uomo con i capelli di un biondo così chiaro? Istintivamente, mi nascondo dietro a Duff, facendo finta di niente. Tentando di fare finta di niente.
“Che c’è?” mi chiede lui.
“Sono i miei” sussurro, seguendo con lo sguardo l’uomo e la donna che si aggirano spaesati per il supermercato, continuando a parlottare. Ogni tanto si voltano a guardare indietro, come se volessero fissarsi nella mente un’immagine, come se avessero paura di non ricordarla abbastanza vividamente. E quell’immagine sono io. I miei jeans strappati sulle cosce, la felpa nera, i capelli scuri lasciati liberi sulle spalle.
“Sei sicura? Cioè, guardali”
“Ma ti pare che non riconosco i miei?”
“Sai, sono sedici anni che non li vedi”
“Andiamo a pagare e torniamo a casa” chiudo la discussione, sperando vivamente di avere torto. La prima volta nella mia vita che voglio aver torto.
 
“Saaaaaalve” Jeanette e Duff tornano a casa con tre borse della spesa ciascuno.
“Comunque abbiamo un sacco di cose da fare, quindi preparatevi che sarà un lungo pomeriggio” ci informa gentilmente la signorina, che comincia a tirare fuori dalle borse flaconi su flaconi.
Ne prendo uno e leggo l’etichetta.
“WC brillante?”
“Ecco, visto che l’hai preso tu a te tocca quello. Prendine uno pure tu, Saul”
No, col cazzo che io pulisco il cesso.
“D’accordo” abbasso la testa e mi dirigo verso il bagno, preparandomi psicologicamente alla grande sfida che devo affrontare.
“Prenditi una spugna. E un paio di guanti!” mi urla Jeanette.
Torno indietro e prendo quello che mi ha consigliato lei, mentre Slash si lamenta, visto che a lui è toccato il detersivo dei piatti. E di piatti ce ne sono, altrochè se ce ne sono.

 
“Tu puoi fare qualcosa o…” chiedo incerta a Jeff. Meglio essere il più delicati possibile con il signorino, non mi va un’altra rispostaccia.
Lui fa spallucce.
“Dipende cosa”
Rifletto un attimo su cosa potrebbe fare un ventiquattrenne con un polso steccato.
“…bo, non puoi fare niente. Siediti sul divano e non stare in mezzo alle palle”
Lui accetta di buon grado la mia proposta, lasciandosi cadere a peso morto sul sofà e accendendo la tv.
“Io vado dalla lavanderia a fare un po’ di lavatrici, va bene?” mi chiede Duff.
“Va bene, va bene” rispondo distrattamente io, incasinata a tentare di mantenere un minimo d’ordine nella grande impresa delle pulizie di casa Guns.
 
Trovo una borsa piuttosto grande in un mobile della cucina, ci ficco dentro tutti i vestiti che mi capitano sottomano ed esco in strada. Cammino veloce fino alla lavanderia a gettoni alla fine della via. Tento di fare le lavatrici separando i colori più o meno ordinatamente, bianchi con bianchi, neri con neri, grigetti con grigetti. Ad un certo punto spunta una maglietta verde. E questa dove cazzo la metto?
 
“Ti diverti?” mi chiede sarcastica la moretta, vedendomi chinato sul cesso. Le rivolgo lo sguardo più acido che mi è permesso e continuo imperterrito nella mia mansione. Lei si dedica alla doccia. Mi passa una pessima, o geniale, idea nella mente.
 
Un getto d’acqua gelida mi investe in pieno.
“Ma che cazzo…” urlo, spaventata.
“Paura?” mi chiede Axl, chiudendo la porta della doccia dietro di sé e spingendomi contro le piastrelle bianche.
“Ma sei scemo?”
Chiudo l’acqua fredda, di cui ormai sono impregnati tutti i vestiti. Il rosso appoggia le sue mani sulla parete affianco a me, bloccandomi.
“Eddai, sotto la doccia”
“Avete una doccia gelida, voi. E poi dobbiamo finire con le pulizie”
Lui sbuffa.
“Ci metto un attimo, a farti felice”
Gli rido in faccia. Farmi felice.
“Sono dieci giorni che ci provi e ancora non ci sei riuscito”
Forse un po’ deluso, forse un po’ basito dalla mia constatazione, Axl mi lascia andare. Piuttosto rapida, la cosa.
“Comunque non è finita”
“No che non è finita. Ti ho lasciato il detersivo là in doccia, dalle una pulita”
 
“Ma chi è quest’idiota che ha occupato una lavatrice per una sola maglietta?” si lamenta una vecchina che sta cercando una lavatrice libera per farsi il bucato. Lavatrici tutte occupate da me, che sono l’idiota di cui parlava prima. La tizia se ne va brontolando, lasciando il posto ad una ragazza decisamente più piacevole. Da un’occhiata a tutte le lavatrici, per poi sbuffare e ripetere esattamente le stesse parole della signora.
“Ma chi è quest’idiota che ha occupato una lavatrice per una sola maglietta?”
“Sono io” rispondo, scoprendo poi che la mia interlocutrice, alla quale stavo fissando il culo da quando è entrata, è Nicole. Gran bel culo, non c’è che dire. Steven sa scegliere.
“Duff!” mi saluta lei, avvicinandosi a me con un sorrisone e stampandomi un bacio sulla guancia.
“Steven è da te?” le chiedo subito. Lei fa cenno di sì con la testa.
“E non ha idea di tornare”
Sbuffo. Che testa di cazzo.
“Vabbè, tanto tornerà presto comunque”
“Vuoi che gli parlo io?”
“Se ti va, ma sta tranquilla, non è la prima volta che minaccia di abbandonarci”
Lei annuisce di nuovo.
“Bè, io allora vado… visto che le lavatrici sono tutte occupate”
Mi fa l’occhiolino e se ne va, proprio quando lo sportello della prima lavatrice scatta, seguito ordinatamente da tutti gli altri. Finalmente ho finito sto benedetto bucato.

 
“Finito!” irrompe Axl in cucina con un viso soddisfatto fuori dai modi.
“Ma bravo” gli sorrido io, che sto preparando un’insalata. Saul assaggia la pasta e, dopo aver decretato che è pronta, la scola dentro al lavello.
“È pronto!” urla, e la sua voce viene seguita dallo sbattere del portone e da quella di Duff che ci annuncia che lui, a fare le lavatrici, non ci tornerà mai più.
 
“Dormi in camera mia anche stanotte?” mi chiede il biondone, gustandosi la sua pasta al pomodoro. Io annuisco.
“E la cosa dei tuoi…” inizia innocente, facendo però calare il gelo nella stanza.
Sento gli occhi di Jeff puntati addosso. Mangio l’ultima forchettata di pasta e lo guardo.
“C’erano mamma e papà al supermercato oggi”
“Che ti hanno detto?”
“Niente, non sono neanche sicura che mi abbiano vista. Tu ne sai qualcosa?”
“Tranquilla, non ho detto a nessuno che ti tengo nascosta qui”
Si alza e se ne va in camera, lasciandomi con un palmo di muso. Axl si alza e fa per seguirlo, ma prima di richiudere la porta mi dice che i miei avevano in programma di venire a trovare Jeff. E a me la cosa non piace affatto.
“Tu va a dormire, finiamo io e Saul qui” mi sussurra Duff.
“Sì, tranquilla Jeanette, finisce Duff qui” è la gentile risposta del chitarrista, che si accomoda in camera sua insieme agli altri due.
“Sicuro che non vuoi una mano?” chiedo al biondo.
“Sicuro”
“Grazie. Notte Duff”
“Notte Jeanette”

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Capitolo 12
*** Dodicesimo giorno. ***


Mi sono dimenticata di nuovo di chiudere le tapparelle. E di tirare le tende. Ho chiuso la finestra giusto perchè stavo morendo di freddo, altrimenti anche quella sarebbe rimasta aperta. E il sole punta di nuovo sui miei occhi in un modo appena appena scocciante. Mi giro su un fianco e mi accoccolo meglio tra le coperte, non ho alcuna voglia di alzarmi. Anche perchè ho di nuovo la nausea. La cioccolata con i pop corn non è la cosa più salutare del mondo. Mi giro e mi rigiro nel letto, scompiglio le lenzuola, mi aggroviglio nel tessuto morbido. Cerco qualcosa a cui pensare, sul quale riflettere, sul quale perdere un po' di tempo, ma non mi viene in mente nulla. 
"A che pensi?"
Mi giro di scatto. Axl è in piedi di fronte al letto, si stropiccia gli occhi aspettando una mia risposta. Prima di parlare, butto un occhio sul letto affianco al mio. Duff si è già svegliato.
"Sei mai stato innamorato?" chiedo di getto. E' la prima domanda che la mia mente assonnata sia riuscita ad elaborare.
Lui sbuffa, sorride.
"L'amore è per le persone deboli"
Mi metto seduta e lo guardo interrogativa.
"Secondo me è per quelle forti. Cioè, ti fa stare malissimo, non puoi essere debole"
"Se una persona è forte l'amore finisce. Perchè non vuole farsi mettere i piedi in testa, o perchè vuole essere libera. Sono i deboli che riescono a portare avanti una storia. Perchè accettano i compromessi"
Annuisco, ripetendomi quelle parole in testa. I deboli accettano i compromessi. 
"E tu, sei mai stata innamorata?"
La domanda del rosso mi riporta sulla terra.
"No" rispondo piano. Questo vuol dire che sono forte? O che sono fin troppo debole?
Mi alzo e vado in cucina, dove tutti stanno pasteggiando allegri. 
"Comunque io non laverò mai più i piatti, signorina. Ho i calli sulle mani per colpa tua e delle tue pulizie" mi informa gentilmente Slash appena metto un piede nella stanza. Lo guardo storto.
"Ma i calli ce li hai perchè suoni, mica perchè hai lavato i piatti"
Lui fa cenno di sì con il capo.
"Lo so, stavo solo cercando una scusa"
Mi siedo su una delle due sedie affianco al tavolo. Perchè poi, questa casa non ha senso. Ci viviamo in sei e abbiamo solo due sedie. Sedie che, tra l'altro, non vengono mai usate. Adesso, per esempio, siamo in cinque incastrati in una cucina grande quanto un fazzoletto. Due di noi seduti sul bancone, uno sul tavolo, uno appoggiato contro il muro. Questa casa non ha senso. Appoggio i gomiti sul legno chiaro e affondo le mani tra i capelli. Chiudo gli occhi e respiro a fondo, cercando un po' di sollievo dalla nausea.
"Non mangi?" mi chiede premuroso Duff.
 Scuoto la testa.
"Se mangio butto fuori tutto"
"Sai cosa, Jenn? Dovresti trovarti un lavoro"
Simpatico, Jeff. Mi vedi qua a star male di fronte a te e mi dici che devo trovarmi un lavoro. Alzo piano la testa e lo guardo negli occhi.
"Oggi è arrivato l'affitto" mi fa la cortesia di spiegarmi Duff "e non abbiamo abbastanza soldi"
"E visto che non possiamo guadagnare suonando dobbiamo trovarci qualcos'altro da fare" conclude mio fratello. Facile da dire, per lui, che di sicuro un lavoro non lo cercherà neanche. Ho paura che ci stia un po' giocando, con questa storia del polso.
"Se vinciamo il concorso di domani ci danno mille dollari" commenta Axl, che sembra più perso in un altro mondo che in questo.
"E ce lo dici adesso? Cazzo, è tutta la mattina che parliamo di cosa potremmo fare" sbotta Slash, tirando una pacca al rosso.
"Non so se ti ricordi, ma qualcuno ha fatto scappare il batterista"
"Solo perchè qualcuno ha staccato un polso al chitarrista"
"Non vedo il problema, suoniamo in playback. Mettiamo un batterista a caso solo per far vedere che c'è"
Fissiamo Jeff, sconvolti dalla sua proposta. Anche se, in realtà, l'unica sconvolta sono io. Perchè gli altri sembrano vederla come una buona idea.
"Perchè no?" è infatti il commento di Axl, seguito da un gesto del capo da parte di Slash.
"Ma vi sembra serio?" Ora sono io, quella osservata da tutti.
"La gente che suona in playback mi fa schifo. E' come imbrogliare. Gli impediti suonano in playback, non voi"
"Ma noi abbiamo un buon motivo per farlo" mi spiega Jeff, compiaciuto che la sua proposta sia stata approvata praticamente all'unanimità.
"Dobbiamo trovare un batterista" conviene Axl, pensando già ad un paio di nomi.
Sbuffo di nuovo.
"Ma che hai? Non sei tu quella che deve suonare, non vedo che problemi ti crea"
"Chiamate Steven almeno. Sembra che non ve ne freghi niente di lui"
"Jeanette ha ragione. Almeno proporgli di tornare. Poi se non vuole è un problema suo" grazie Duff, sembra che tu sia l'unico a tenerci.
Axl fa spallucce, così come Slash e Jeff.
"Ha sempre combinato casini, prima o poi doveva andarsene. E non è neanche così bravo"
E dopo questa, mi alzo e vado in camera.

Axl fa capolino nella stanza qualche minuto dopo.
"Eddai, te la sei presa?"
Non mi volto neanche a guardarlo, continuo a fissare fuori dalla finestra, seduta a gambe incrociate sul letto di Duff.
"Sì, me la sono presa. Perchè gli avete dato la colpa di un incidente. Poteva esserci chiunque al posto suo e succedeva comunque"
"Te l'ho detto, non è solo per questo. E' da quando si è unito al gruppo che combina casini e tutto il resto. E questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Punto"
Finalmente mi decido a girarmi e parlargli faccia a faccia.
"Non è che tu sia un santo. E neanche gli altri. Se continuate con questa logica tempo qualche anno e i Guns non esistono più"
Liu sbuffa, prima di andarsene.
"Fottiti"
"Fottiti tu" gli rispondo, prima di infilmarmi le converse nere e uscire di casa, con i pantaloni del pigiama ancora addosso. Voglio solo stare il più lontana possibile da quella testa di cazzo.

"Non è che ti conviene, mandarla a farsi fottere. Magari dopo viene da me e vinco la scommessa"
Sorrido alla battuta di Duff. 
"Falle quello che vuoi. Già non la sopporto più"
"Finalmente qualcuno ha capito" commenta Jeff, in piedi vicino alla finestra aperta, intento a fumarsi una sigaretta.
"Ha detto che tra qualche anno i Guns non ci saranno più se continuiamo così"
"Bè, qua ha ragione. Abbiamo già perso un pezzo" commenta Duff, prendendo anche lui una sigaretta dal pacchetto sopra il comò.
"Abbiamo perso il pezzo marcio. Niente di che" rispondo. L'unico problema è che adesso dobbiamo rimpiazzare il pezzo marcio con uno buono.


Cammino veloce. A caso. Devo togliermi sto vizio, Dio. Me lo ripeto ogni giorno e puntualmente lo rifaccio. Non so quanto abbia camminato, ma mi ritrovo al Roxy. E il problema è che lo ricordavo piuttosto distante da casa.
"Ciao" mi saluta una voce femminile. Mi giro e osservo la brunetta che mi sorride, mentre si avvicina a me. Ha i capelli corti, una faccia che ho già visto. Magari faceva la groupie con me.
"Ciao" le rispondo sorridente, fingendo di conoscerla.
"Non ti ricordi di me, vero?" Ok, non sono molto brava a mentire.
"Sono la ragazza di Steve" continua lei, con quel suo sorrisone perenemmente stampato in faccia.
"Ah, sì! Nicole!" Ecco dove l'avevo già vista, la ragazza.
"Stavi venendo a casa mia?"
"Non so neanche dove sia, casa tua" rispondo. Che poi, perchè dovrei andarla a trovare?
"Ah. No, perchè sto qua vicino... e Steve è venuto da me dopo che se n'è andato..."
Spalanco gli occhi.
"Seriamente? Potrei andare a parlargli?" 
Il suo sorriso si allarga ancora di più.
"Sì, stavo per chiedertelo io. Ci sta davvero male, per questa cosa del gruppo e tutto..."
Annuisco.
"Vedi quel condominio blu in fondo? Quinto piano, sulla destra" Nicole mi indica l'edificio.
"E comunque non ammetterà mai che ci sta male" aggiunge scuotendo la testa. Sbuffo.
"E' Steve, non Axl. Vedrò di farlo tornare da noi. Grazie"
"Ciao bella, io vi raggiungo tra un paio d'ore"

"Ma se tipo a Don't cry cambiamo le parole?"
Tutti mi guardano male. Durante un'accesa discussione sul fatto che dire 'fottiti' non abbia alcun senso, io esco con sta sparata. E tutti mi fissano come se la mia proposta sia più stupida dell'argomento di cui stavamo parlando.
"Continuiamo dopo, Axl. Comunque io continuo a dire che non ha senso dire 'fottiti'. Cioè, o fotti o ti fai fottere. Fottiti è come dire che lo devi fare da solo. E' come se ti dicessi 'masturbati'" è l'opinione di uno Slash fermamente convinto delle sue idee.
"Ma non è vero. Ma poi perchè dobbiamo cambiare il testo? Non è male"
"Non lo so. Di colpo mi sembra stupido"
Axl abbassa la testa, guarda per un attimo il tappeto, per poi tornare a fissarmi.
"E cosa vorresti cambiare?"
"Tutto. Lasciamo solo il ritornello"
"Tu sei fumato" conclude il rosso, alzandosi e andando in camera.


Spero che quella matta torni presto. Si sarà persa per Los Angeles. Ma di cercarla non ne ho voglia. O si trova la strada da sola o va a cercarla qualcun altro, un bello spavento può solo farle bene.
"Insomma Jeanette adesso sta sulle palle anche a te"
"Sì Jeff, sì. Perchè è qua da neanche due settimane ed è convinta di conoscerci perfettamente. Odio la gente che fa così. Che cazzo vuole saperne di me?"
"Ti sei incazzato solo perchè ti ha detto che hai un carattere di merda, ammettilo"
"Anche. Ma sempre per il discorso di prima. Lei non mi può giudicare. Neanche tu mi puoi giudicare, che mi conosci da sempre. Figuriamoci una che è arrivata in casa nostra perchè l'avevano lasciata per strada"
Jeff sbuffa. Se la ride, lui. 
"Buttiamola fuori di casa"
"Ho detto che mis ta in culo, ma non che la voglio morta"
"Mica muore"
"Lascia perdere, Jeff"


Busso incerta sul portone numero 532. Nessun segno di vita. Forse Steve è uscito. Forse ho sbagliato porta. Dondolo un po' sui piedi, sposto il peso da una gamba all'altra, in attesa di una risposta. Riprovo a bussare. Niente. Forse ho sbagliato davvero, non c'è nemmeno lo zerbino fuori dal portone.
"Jeanette?" mi chiede una voce alle mie spalle. Mi volto spaventata e trovo Steve che mi osserva sorpreso dall'uscio di una porta esattamente al lato opposto del pianerottolo.
"Ciao" saluto a bassa voce.
"Sei... in pigiama?" mi chiede lui, fissando i pantaloni di felpa enormi. Me n'ero pure dimenticata, io. Ma non è che lui sia preso tanto meglio, a giudicare dalla vestaglia decisamente femminile che indossa, che gli lascia scoperte le gambe fino a sopra il ginocchio. Sexy, il ragazzo.
"Sì, non farci caso, non avevo vestiti qua" commenta imbarazzato lui, invitandomi ad entrare prima che il vicino che sta salendo le scale lo veda con addosso quellaa mise alquanto eccentrica.
"Non è che avevi idea di tornare?" gli chiedo senza mezzi termini appena verco la soglia della casa di Nicole. 
"No. Argomento chiuso"
"Manchi, a casa" 
Gli occhioni blu di Steve mi fissano con quell'espressione tipica del 'Mi prendi per il culo?'.
"Al massimo manco perchè hanno bisogno di qualcuno che suoni domani. Lo fanno lo stesso il concorso? Magari li vado a vedere"
"Dai, non può non fregartene niente. Sono i tuoi migliori amici"
"Non mi interessa. Hanno sempre fatto di tutto per mandarmi via e finalmente ci sono riusciti. Un altro batterista se lo troveranno facilmente"
"Non farmi incazzare, ho già le palle girate"
"Allora è meglio se te ne vai"
E come mi ha consigliato Steven, torno sul pianerottolo e scendo le scale velocemente, il tutto ovviamente dopo aver sbattuto la porta il più forte possibile. Prima o poi butterò giù qualche porta, sicuro.

"Ma dove diavolo si è andata a perdere quella scema? E' da stamattina che se n'è andata"
"Ma sta tranquillo, cosa vuoi che le succeda?"
"Non so, si è pesa in una città che non conosce minimamente, con tipo 3 milioni di abitanti. Cosa vuoi che le succeda?"
"Chiederà a uno di quei tre milioni di persone come tornare a casa e tra dieci miunti sarà qui"
"Viva l'ottimismo, eh Axl?"
"Taci Michael, adesso arriva. E comunque anche se qualcuno cerca di stuprarla basta che apra bocca e la lasciano lì senza averla neppure toccata"
Mai tentare una discussione con Axl quando è di pessimo umore. Rischieresti una condanna a tempo indeterminato per omicidio.
"Non è ancora tornata la signorina?" chiede Slash uscendo dalla cucina.
"Non so, la vedi?" rispondo scorbutico, ricevendo di rimando qualche borbottio di Saul, che si chiude in bagno.


Sto ancora pensando a chi potrebbe farci da batterista domani. Magari uno che non sa neanche suonare, basta che faccia presenza. Mi passa l'ennesimo nome per la testa, ma scarto pure quello. Ci ho litigato tempo fa. Quasi tutti quelli che ho scartato è perchè ci ho litigato tempo fa. Non sono molto bravo a mantenere i rapporti.
"Ma Jeanette non ha quel fogliettino nel portafoglio dove segna tutti i numeri di telefono di quelli che conosce?" chiede Jeff annoiato, mentre giocherella con una palla da baseball che ha trovato chissà dove.
Senza pensarci due volte apro la borsa di pelle nera della ragazza e frugo nel portafoglio alla ricerca di quel famoso foglio. Lo trovo in una tasca laterale, spiegazzato e scarabocchiato.
"Ma com'è, chiamo qualcuno a caso e gli chiedo se ha voglia di fare da batterista a un gruppo che nessuno conosce?"
Jeff si avvicina a me e sbricia il foglietto con evidente curiosità. 
"Perchè Jeanette ha il numero di Tom Zutaut?" chiede, ignorando completamente la mia domanda.
"Chi è Tom Zutaut?" chiedo, scorrendo velocemente l'elenco dei nomi e arrivando a lui.
"E' un agente della Geffen. Ci farebbe comodo il suo numero"
Copio velocemente le dieci cifre sul foglio dove Duff aveva scritto la sua versione di Don't cry questo pomeriggio, per poi tornare a dedicarmi alla ricerca di quel benedetto batterista che mi sta facendo andare fuori di testa.


Quando intravedo da distante il palazzone grigio dove viviamo, un sorriso si allarga involontariamente sul mio viso. Salgo le scale con passo pesante e trascino faticosamente i piedi fino al portone di casa, che apro con una notevole dose di noncuranza.
"Allora sei viva" commenta Axl, che insieme a mio fratello sta esaminando attentamente un foglio. Passo velocemente vicino a loro e butto un occhio sul pezzo di carta che tiene in mano il rosso, per poi realizzare che è il foglio sul quale ho segnati i numeri di telefono della gente che ho conosciuto durante quei dieci anni in cui ho fatto la groupie in giro per l'America.
"Che diavolo state facendo?" chiedo strappando il pezzo di carta dalle mani di Axl.
"Dai, ridammelo. Stiamo cercando un batterista per domani"
"Arrangiatevi, l'avete voluto voi. E non azzardatevi più a toccare le mie cose"
Ripiego il foglio e lo infilo dentro alla mia borsa, che porto con me nella camera dei biondoni.

Afferro il telefono e compongo uno dei numeri che mi ero già trascritto dalla lista di Jeanette.
"Lo sai che potrebbe essere l'ultima cosa che fai, vero?" mi chiede sarcastico Duff mentre si dirige in camera sua, dove è appena entrata la signorina.
"Taci, McKagan" lo zittisco mentre sento qualcuno sollevare il ricevitore dall'altra parte del filo.


"Steven non torna, eh?" chiedo a Jeanette, già accoccolata nel letto del batterista. Ex batterista, ormai.
"Mi ha fatto girare le palle in un modo assurdo oggi. Tutti mi avete fatto girare le palle in un modo assurdo oggi"
"Anch'io?" 
Nessuna risposta. Lo prendo come un sì.
"Buonanotte Jeanette" 
Lei si volta sul letto, dandomi le spalle. Buonanotte.   


Ciao, sono l'autrice:
ok ok ok mi dispiace tantissimo per tutto il tempo che vi ho fatto aspettare, tre settimane più o meno D: è che il mio computer ogni tanto decide di scioperare o di far scomparire word. E il mio cervellino si unisce allo sciopero (ho riscritto questo capitolo tre volte e ancora non ne sono così soddisfatta :/)
Vabbè, spero vi sia piaciuto lo stesso questo dodicesimo giorno. Grazie per la pazienza, un bacione <33
Euachkatzl

   

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Capitolo 13
*** Tredicesimo giorno. ***


Mi inabisso sotto le coperte, fa più freddo del solito stamattina. O forse è solo pigrizia cronica.
"Duff..." mugolo da dentro quel piccolo e caldo rifugio in cui si sta da Dio. Nessuna risposta.
"Duff..." ripeto più forte. Ma ancora niente. Sollevo un lato della coperta e sbircio sul letto dell'interpellato. Vuoto. Vorrà dire che il biscotto che volevo tanto lo andrò a prendere da sola. Lentamente, tolgo le coperte, una ad una, da sopra di me. Un brivido mi percorre da capo a piedi quando resta solo il lenzuolo. Tolgo pure quello e appoggio i piedi sul pavimento. Freddo.
Dopo aver recuperato un paio di calzini dal comò in salotto, vado in cucina. Deserta. Cerco gli altri nella camera da letto di Axl e company. Niente. Controllo pure in bagno, non si sa mai che magari stanno facendo un festino abusivo nel nostro bagno. E invece non c'è nessuno pure lì. Sono a casa da sola. Completamente sola.
 
Ora, sta di fatto che io non ho la minima idea di cosa faccia o che cosa provi la gente normale quando si ritrova di colpo a casa da sola. Ansia? Preoccupazione? Un senso di solitudine? Fame? Io, dal canto mio, fregandomene totalmente del motivo che spinge quattro ragazzi a svegliarsi prima delle nove di mattina e uscire di casa, prendo il pacchetto dei biscotti e mi lancio beata sul divano, accendendo la tv e notando con orrore che, dentro al videoregistratore, c’è la videocassetta di Shining. E che, guarda caso, il videoregistratore è accesso. Con un balzo degno di una ginnasta, salto giù dal divano e stacco il cavo dell’apparecchio, giusto per essere sicura che non gli parta qualche schizzo e si accenda di nuovo. I film horror mi inquietano un pochino. Ma poco poco. L’unica volta che ne ho guardato uno non ho dormito per giorni. E dire che ne avevo visto solo metà.
Tentando di non pensare a quel film che mi ha segnato a vita, riprendo il pacco dei biscotti e comincio a fare zapping tra i vari canali.
 
Dopo vari spezzoni di soap operas, di film strappalacrime e di telegiornali, Axl apre il portone e, con la sua vocetta che stamattina avrei preferito non sentire, mi augura il buongiorno. Fanno lo stesso tutto gli altri, mentre entrano in casa uno alla volta. Ordinatamente. Incredibile.
“Com’è che siete andati via presto stamattina?” chiedo con la voce più piatta possibile: sono ancora incazzata con loro, dopotutto.
“Siamo andati a iscriverci alla cosa di stasera” mi risponde il rosso, che evidentemente si è già dimenticato di tutto quello che è successo ieri riguardo il migliorare il carattere, i rapporti, di non toccare le mie cose, di non far finta di suonare solo per tirare su un po’ di soldi.
“E quindi suonate senza un batterista, con un chitarrista con il polso rotto, in playback. Per me vincete di sicuro” commento ironica, alzando le braccia e stiracchiandomi la schiena, prima di chiudermi in bagno.
“Aspetta, devo andare a pisciare” mi urla Slash dalla cucina.
Non rispondo nemmeno. Anzi, starò in bagno più tempo possibile, giusto per fargli un dispetto.
 
“Com’è che si chiama, il batterista?” mi chiede Duff porgendomi una lattina di birra e sedendosi sul divano di fianco a me.
“Vince. Ha detto che ci troviamo stasera fuori dal locale”
“Ma con la cosa del playback come facciamo?”
“Diamo il disco a qualcuno e diciamo che è solo una base, poi ci inventeremo qualcosa al momento”
Michael sbuffa, guarda per un po’ il tappeto.
“Che è, non lo vuoi più fare?” gli chiedo. Non che me ne freghi molto, ma se non finge bene e stasera ci scoprono siamo fregati.
“Non lo so, mi sembra una cosa stupida, a pensarci. Piuttosto di fare tutto sto casino basterebbe cercare un altro batterista e aspettare che Jeff guarisca. E poi siamo a posto, tanto di concorsi ne fanno quanti ne vogliamo”
“Troppo tardi” chiudo il discorso, alzandomi e andando verso la porta del bagno, mentre il bassista si dirige in camera sua.
Abbasso la maniglia, ma la signorina ha chiuso a chiave.
“Jeanette apri!”
“Rose fottiti” mi urla di rimando lei dall’altro lato della porta.
“Che cazzo hai adesso? Hai le tue cose?” alzo la voce. Non sono mai stato molto paziente.
“Vattene”
“Ti ricordo che è casa mia, sei tu che devi andartene se non vuoi vedermi”
“Ti ricordo che hai già mandato via di casa qualcuno, quanta gente hai idea di buttare per strada?”
“Non so, ma tanto tu ci sei già abituata. Troverai qualcun altro con cui fare la puttana, tranquilla”
Sento la serratura scattare e la mano appoggiata sulla maniglia abbassarsi con lei. La porta si apre e mi ritrovo davanti Jeanette, con una faccia molto poco rassicurante. Forse l’ultima frase avrei dovuto evitare di dirla.
Senza nemmeno fiatare, lei mi sorpassa, entra in camera di Duff, che ormai è diventata la sua camera, e chiude la porta con talmente tanta violenza che ho paura venga giù il muro.
 

Jeanette entra in camera e richiude la porta come suo solito. Un giorno le spiegherò che le porte riescono a chiudersi bene anche se non le si sbatte. Un giorno in cui sarà meno incazzata, magari.
Mi volto e le rivolgo un sorriso il più paziente possibile, uno di quelli ai quali ti viene da raccontare tutto.
“Che è, vuoi tirarmi su merda pure tu?” chiede lei, quasi urlando, allargando le braccia.
“No no” rispondo semplicemente io, voltandomi nuovamente verso la finestra e concentrandomi sulle corde del mio basso.
Sento Jeanette buttarsi sul materasso e aggrovigliarsi un po’ nel letto. Dopo cinque secondi, è di nuovo a girarsi tra le coperte. Dopo altri cinque secondi, scalcia via il lenzuolo celeste di Steve.
“Se vuoi parlare basta che me lo chiedi, non fai brutta figura”
“Sta zitto” sibila lei, dall’alto del suo orgoglio.
 

Non ammetterò mai che voglio parlare. Non ammetterò mai che ci sto male, per quello che mi ha appena detto Axl. E soprattutto, non ammetterò mai che è fottutamente vero.
“Io mi faccio il pranzo, tu vuoi qualcosa?” mi chiede Duff alzandosi dal letto. Non gli rispondo, resto con la testa piantata nel cuscino.
“E allora arrangiati” sbuffa lui, uscendo e sbattendo la porta pure lui, mentre una lacrima bagna la fodera del cuscino.
 
“Ma se tipo tieni il polso fermo e muovi solo il braccio? Cioè, tipo… fai partire il movimento dal gomito…”
Jeff mi squadra come se gli avessi appena chiesto di profanare una tomba.
“Te lo spiegano alla prima lezione di chitarra, che è tutta una cosa di polso” mi spiega Slash, che si gode i tentativi di Izzy di suonare la chitarra in modo convincente con un polso steccato. O meglio, di fingere di suonare.
Di colpo, una porta sbatte e Duff va in cucina con passo svelto, il viso visibilmente incazzato.
“Io farei un monumento a quello che ha costruito questa casa, ha fatto dei muri resistentissimi” ironizza Slash, ma non viene cagato di striscio da nessuno. Sia io che Jeff stiamo a pensare che, se la signorina è riuscita a far incazzare pure Michael, forse è ora di porre qualche regola.
Ma ci penseremo più tardi. Adesso la cosa più importante è che Izzy si capisca con la chitarra. Il problema è che lui non ne ha tanta voglia.
“Io la butto fuori di casa, quella” commenta togliendosi lo strumento di dosso e appoggiandolo al muro, per poi andare a dirne quattro a Jeanette. Mi viene l’impulso di fermarlo, e invece lo lascio fare. Lascio che sia lui, ad occuparsi del lavoro sporco. Anche se devo ammettere che urlare a Jeanette di andarsene mi avrebbe fatto molto piacere.
 

Qualcuno entra. Di nuovo. Questa non è una camera, è un porto. Non alzo nemmeno la testa dal cuscino, non mi interessa né chi sia né cosa voglia.
“Guardami”
E’ Jeff.
Alzo piano la testa e guardo mio fratello negli occhi. Dalla sua faccia si prevede un lungo discorso. O breve e violento, dipende. Giusto per essere pronta a tutte le eventualità, mi alzo in piedi di fronte a lui. Mai affrontare una conversazione in una posizione di inferiorità.
“Dimmi” comincio io gentilmente, in un tono che darebbe sui nervi anche a Gesù Cristo in persona.
“Avevi idea di stare qua ancora per molto?” mi chiede lui, tentando di mantenersi il più calmo possibile.
“Non lo so” rispondo sinceramente io. “Dipende da quanto tempo ci mette Axl a portarmi a letto”
Tutta la famiglia mi crede una puttana? E allora mi comporto come una puttana.
“Senti, è già tanto che ti ho fatta venire qua. Non so neanche come sei riuscita a convincermi”
“Perché sono più vecchia di te. Perché so come convincere la gente. E comunque non vincerai mai una discussione con me, quindi dimmi quello che devi dirmi e basta” lo interrompo.
“Fatti la valigia e vattene. Subito”
Rimango di merda di fronte a quella frase. Sapevo che fare la stronza non avrebbe fatto bene, ma non mi aspettavo di essere buttata per strada una seconda volta. In così poco tempo, poi.
“Subito” rimarca il concetto mio fratello, girando i tacchi e tornando in salotto.
Mi siedo sul letto e, fissando il vuoto, rifletto un attimo su quello che posso fare ora. Dove posso andare. Tornare da Steven e ricominciare la vita che facevo prima. Fuori discussione. Non perché non mi vogliano più, anzi ho il terrore che vengano a prendermi da un momento all’altro, piuttosto perché non voglio tornare a tutto quello che facevo prima di venire qui. Tornare a significare meno di zero per tutti, ad essere usata come un passatempo o un antistress. Tornare a casa, a Lafayette. Ok, non scherziamo. Un’amica? Rifletto un attimo sulle amiche che sono riuscita a mantenermi in tutto questo tempo. Poche e tutte troppo distanti.
“Allora, stai riflettendo su dove puoi andare?” mi chiede Axl, che è entrato in camera senza che me ne accorgessi. Si siede vicino a me.
Ma in fondo, perché dovrei andarmene? L’ho appena detto, che sono molto brava a convincere la gente.
 
Dopo avermi osservato per qualche secondo con uno sguardo perso, Jeanette torna a guardare il vuoto. Una lacrima corre giù per la sua guancia, disegnando una scia umida sulla pelle e soffermandosi sotto il mento, prima di cadere a terra. Un singhiozzo scuote il suo corpo magro, le spalle si alzano di colpo. Si passa una mano sugli occhi e si mette a gambe incrociate sopra il letto, per poi fissarmi di nuovo per un po’. Appoggia la testa sulla curva del mio collo, mi abbraccia.
“Non so che fare” sussurra tra i deboli singhiozzi.
No, neanch’io so che fare, sinceramente. Se lasciar perdere e lasciarla là a piangere o se darle corda. Non mi sono mai piaciute le ragazze che piangono, cazzo. Annientano tutte le mie difese. Mi ricordano mia sorella. Mi ricordano brutte storie.
Stringo Jeanette forte a me, sento il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo dei singhiozzi.
“Tranquilla” le sussurro, passando le dita tra i suoi capelli neri. “Non piangere. Tranquilla”
Piano piano, il suo respiro torna lento. Regolare. Sento il suo alito caldo sfiorarmi il collo, le sue braccia ancora strette al mio corpo. E non voglio che mi lascino.

 
Non so per quanto tempo dovrò restare ancora così per convincere Axl. Forse ci sono già riuscita. Ma devo ammettere che si sta maledettamente bene tra le sue braccia. Gli bacio piano il collo, forse spaventandolo, forse facendogli piacere. So solo che l’ho fatto tremare. E la cosa non mi dispiace. Alzo la testa e lo guardo, gli sorrido. E lo bacio. E ho come l’impressione che lui non aspettava altro.
 
Le mani di Jeanette lasciano le mie spalle e si dirigono verso il mio viso. Mi accarezzano le guance, mentre sono perso a pensare a baciare questa matta che mi sono ritrovato di colpo in casa, per uno scherzo del destino o della fortuna. Questa ragazzetta che neanche mezz’ora fa volevo prendere a schiaffi e che ora sto tenendo tra le mie braccia, senza aver la minima intenzione di lasciarla andare. Sorrido. La vita è una merda.
“Mi piace quando sorridi, sai?” mi sussurra lei, lasciando per un attimo le mie labbra.
“Ah, sì?” commento, sperando che quella discussione non duri a lungo.
“A guardarti senza conoscerti sembra che tu non lo sappia fare” mi spiega lei, riprendendo poi a mordermi un labbro.
Quanto belli sono i morsi. Quando fanno pure male, poi, è qualcosa di divino. E sembra che lei lo sappia bene.
Fa scivolare le mani sul mio petto, giocherella un po’ col tessuto bianco della felpa. Posa la sua fronte sulla mia, pianta i suoi occhi neri nei miei. Ha gli stessi occhi di Jeff. Identici. Grandi, neri, dove non riesci a distinguere quale sia l’iride. Due pupille enormi, insomma, capaci di guardarti pure dentro alla carne.
“Vi somigliate tantissimo” mi lascio sfuggire, forse più per sbaglio che apposta.
“Vi somigliate… chi?”
“Tu e Jeff. Si vede che siete fratelli”
Lei sospira, abbassa gli occhi. Quando torna a guardarmi, la sua mano ha già lasciato il mio petto e ha cominciato una pericolosa discesa verso l’orlo della felpa.
“Non parliamone, ok?” propone, per poi togliermi con decisione la felpa, trascinando con lei anche la maglietta che portavo sotto.
Mi accarezza piano la schiena, quel tocco leggero che all’inizio è solo un fastidioso solletico, ma che con un po’ di pazienza riesce a scaldarti da capo a piedi.
E senza che me ne accorga, mi ritrovo disteso sul letto del mio ex batterista, con Jeanette a cavalcioni sopra di me. Allungo le mani, cercando di arrivare alla maglietta che indossa, ma lei non si lascia toccare. Mi afferra i polsi e, senza lasciarli, si china su di me, mi bacia di nuovo. Mi libera dalla sua presa quando ormai sono perso in quel bacio, quando ormai è sicura che non la lascerei staccarsi dalle mie labbra per nulla al mondo.
 

“Ma quindi va via davvero?” chiedo a Jeff, che tenta ancora una volta di fingere di suonare la chitarra in modo più o meno convincente.
“Ok, guardami bene. Se faccio così si nota?”
Improvvisa qualche movimento col polso, molleggia un po’ sulle gambe, fa scorrere la mano sana per la tastiera.
“Se ti muovi tanto la gente non fa caso al polso, anche se sta fermo” commento. “La risposta alla mia domanda?”
“Axl ha detto che voleva parlarle un attimo, ma è tipo tre quarti d’ora che è in quella stanza”
“Vado a dirle due parole anch’io”
Entro in camera e trovo Jeanette lunga distesa sul letto di Steve, intenta a baciare un Axl che, a quanto pare, ha fallito nel suo tentativo di ‘discorso’. Ho paura che la signorina resterà qui per un altro po’.
 
Dopo qualche secondo passato a fissarli, i due si accorgono finalmente che non sono più soli.
“Dobbiamo andare?” chiede Axl, tirandosi su di scatto.
“Sarebbe meglio, l’organizzatore aveva detto che era meglio se arrivavamo presto. Per provare e tutto il resto”
“Non so se ti ricordi, ma stasera suoniamo in playback” ironizza lui.
“Suoniamo…” lo interrompe Jeanette, alla quale proprio non va giù il discorso di questo playback.
“Se ti urta tanto non venirci a vedere e basta” le sibilo io. “Vadoa farmi un giro, ci vediamo là più tardi. Portatemi il basso”
Esco dalla camera, da casa, da quella specie di condominio dove viviamo.

 
“E’ tanto incazzato con me?” chiedo piano ad Axl. Lui annuisce.
“Sei l’unica ragazza che è riuscita a far incazzare Michael, per ora”
Il rosso si sporge di nuovo verso di me, pronto a concludere quello che avevamo iniziato. Il problema è che non abbiamo iniziato proprio niente. A me bastava avere il permesso di restare a casa, e l’ho ottenuto. E’ che mi dispiace davvero per Duff.
Mi alzo dal letto e, ignorando completamente Axl, raccolgo una felpa da terra e me la infilo di corsa, mentre esco velocemente dal portone di casa e mi metto a correre per la strada umida. Vedo il profilo di Duff in lontananza, cammina a testa bassa contro il cielo di Los Angeles, verso chissà dove.
“Duff” urlo forte per farlo fermare. Lui alza la testa, ma preferisce ignorarmi. Continua imperterrito la sua passeggiata, tentando di guardarsi alle spalle senza farsi notare. Corro più veloce, finchè non riesco a raggiungerlo e prendergli la mano. Lui si ferma bruscamente, mi guarda con uno sguardo scocciato.
“Scusa. Davvero” tento di formulare un discorso coerente nonostante il fiatone. “Non dovevo incazzarmi pure con te, sei l’unico che non ha colpe. Scusa”
Non mi è mai piaciuto chiedere scusa. E neanche riceverle, le scuse. Mi sembra una cosa tanto falsa. Una montatura per mascherare la frase ‘Tanto sai che lo rifarò di nuovo’. Una frase fatta, di quelle che ti insegna la mamma quando hai cinque anni. Però stavolta mi suona diverso. Forse perché sono davvero dispiaciuta. Perché Duff è diverso. Non se la tira come gli altri. Mi considera più per il mio carattere che per le mie tette. E non sopporto il fatto di restare incazzata con le persone, soprattutto con persone del genere.
Lui è ancora a fissarmi, mi squadra da capo a piedi.
“Sei in calzini” mi fa notare, con un sorrisetto.
“Sei andato via come un razzo, non ho avuto il tempo di mettermi le scarpe” rido io. Lo guardo negli occhi, il suo sguardo è meno duro. O forse è sempre stato così, sono io che mi sono immaginata tutto.
“Stasera vieni a vederci?” mi chiede lui.
“Se torniamo a casa adesso sì”
E, senza aspettare una risposta, mi volto e prendo la strada verso casa, seguita a ruota dal ragazzo.
Alla fine non è stato così difficile fare pace. Né fisicamente né emotivamente. E’ bastato scendere da quel piedistallo che l’orgoglio ti costruisce sotto ai piedi. Semplice, dopotutto.
 
“Io mi faccio una doccia” mi sussurra Jeanette dopo che siamo rientrati in casa e dopo che lei si è presa un’occhiataccia fulminante da Jeff.
“Vedo che mi ascoltate tutti qua” commenta lui appena la porta del bagno si chiude alle spalle della ragazza.
“Un’altra possibilità la possono avere tutti. E poi si è scusata, non vedo perché tenere il muso” rispondo io, andando in cucina, verso un pasto o qualcosa che possa somigliarvi.
“Un’altra possibilità la possono avere tutti” fa il verso Jeff dalla stanza di fianco, ma non ci faccio caso. Non ho mai dato tanto peso alla gente che fa il verso alle altre persone, mi sembra una cosa talmente infantile che è inutile farci polemica.
“Allora ha convinto anche te?” se la ride Axl entrando in cucina e sbirciando dentro al frigo, anche lui alla ricerca di qualcosa da mangiare.
“Sì, ed è bastato molto meno di te” commento.
“E’ una pazza, quella ragazza” il rosso sorride scotendo la testa e tornando in salotto con un pezzo di cioccolato in mano, annunciando a tutti che tra un’ora si parte.
 

“Ma tu l’hai mai visto, il tizio?” mi chiede distrattamente Duff, più interessato a fissare Jeanette che altro. In effetti, devo ammettere che anch’io mi sono fatto un paio di filmini mentali poco casti, osservando quel vestitino nero che sembra più una fasciatura che un indumento.
“Mi ha detto si vestiva di nero e che ci aspettava fuori dal locale, tutto qua”
Ma spero che prima o poi arrivi, ormai sono le undici e di questo tipo nessuna traccia.
“Sai che roba. Potrei essere io, allora” sbuffa la ragazzina. Che poi non so perché la chiamo ragazzina, se è pure più grande di me. Forse perché mi piace pensare di essere superiore a qualsiasi persona conosca. Sia benedetto l'egocentrismo.
“E’ quello?”
Jeff mi indica un ragazzo della nostra età, capelli biondo platino che fanno a gara con quelli di Duff su quali siano più finti. Tutto vestito di nero, si guarda intorno come se stesse cercando qualcuno. E’ quello.
“No, non è quello” commenta Jeanette, rimasta impalata a fissare il ragazzo.
“Eddai, solo perché è un po’ particolare non lo puoi bocciare così. Prendi Axl, lui è messo peggio”
“Fottiti, Saul” è la mia elegante risposta. Faccio cenno a Jeanette di seguirci. “Dai, magari è pure simpatico”
Come se me ne fregasse qualcosa, basta che ci regga il gioco per stasera.
“Isbell!” saluta lui allargando le braccia appena ci nota, come ad aspettarsi che qualcuno lo voglia salutare con altrettanto calore. Fissiamo tutti Jeff.
“Vi… conoscete?” chiedo, ma la mia domanda non viene minimamente considerata da nessuno, visto che il nostro neo batterista stampa un bacio sulle labbra di Jeanette che, piuttosto contrariata, gli lascia uno schiaffo sulla guancia senza troppi ripensamenti.
“Sei sempre uguale, sai? Steven non ti ha insegnato abbastanza bene” alza la voce lui. Lo conosciamo da mezzo secondo e già cominciamo a litigare.
“Ma da che pulpito! Neanche dopo aver ucciso un tuo amico sei riuscito a cambiare
, tu”
“Ehi ehi ehi, calma” cerco di ristabilire un po’ d’ordine io.
“Ma calma un cazzo. Te l’avevo detto di non toccare le mie cose. Vedi dopo che gente arriva?”
Guardo negli occhi il biondo, aspettandomi una spiegazione.
“Ci dici come ti chiami, almeno?”
“Vince. Neil. Ho conosciuto Jeanette perché faceva la puttana dagli Aerosmith. Ma vedo che ha già trovato qualcun altro”
“Vai a fanculo” risponde a tono lei.
“Ok, allora per stasera va così, fai finta di farci da batterista, poi vedremo se la cosa continuerà” taglio corto io, trascinando via la ragazza con me. “Vai a dare questo disco al tipo dietro le quinte, spiegagli che è solo una base e speriamo che ce la mandi buona” le mormoro porgendole il cd.
“Spero vi sgamino” è il suo augurio, prima di sparire dietro le pesanti tende nere.
“Che ore sono, pel di carota?” mi urla Vince.
“Quasi mezzanotte” gli rispondo distrattamente “E chiamami un’altra volta così e ti uccido” 


Ciao, sono l'autrice:
ok, è successo. Ci sono riuscita. Ho pubblicato il tredicesimo giorno. Verrà giù l'apocalisse, un altro diluvio universale, non lo so. 
Devo dire che sono la prima a odiare gli autori che impiegano anni ad aggiornare, ma dopo questa li posso compatire D: 
Non incazzatevi, pleaaaaaaaase <3 

Volevo ringraziare tutti quelli che m recensiscono con pazienza e tutto il resto ogni benedetto capitolo, perchè 52 recensioni al dodicesimo capitolo sono davvero tante.
Un bacione a tutte, Euachkatzl <3

 

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Capitolo 14
*** Quattordicesimo giorno. ***


 
Appoggio le mani sulla pancia nuda della ragazza. I vestiti sparsi nel tragitto tra il portone di casa e la camera, il mio letto sfatto. Le lenzuola lanciate malamente sul pavimento, per quanto dobbiamo fare sono solo un intralcio. Sospiro, fermandomi ad ammirare quella piccola bellezza sotto di me. Pallida, piccola, innocente. Tutta apparenza. Mi levo velocemente dalla testa tutti i pensieri che cominciano a scorrere disordinatamente e torno a concentrarmi su quello che sentono i palmi delle mie mani. Ogni muscolo teso, ogni graffio che ho lasciato sul corpo di quella povera brunetta.
Il concerto è andato bene. Credo. Non è che me ne sia molto interessato, la prima cosa a cui ho pensato appena è finito è stata portarmi a casa quella ragazza che continuavo a fissare da tempo. Troppo tempo. Mi ripassa in mente tutta l’eccitazione che mi era salita solo guardandola, mentre le corde del mio basso tremavano sotto le mie mani. Esattamente come sta tremando lei adesso. Le mie mani possono tutto. Mi sento un Dio, cazzo.
Entro dentro di lei senza troppe cerimonie, senza sussurri del tipo ‘Sei pronta?’ o roba del genere. Il sesso non ha niente di dolce, il sesso lo fanno pure gli animali.
Lei urla forte, continua a gemere mandando a fanculo tutta l’aura di innocenza che si era costruita. Mi manda su di giri, sentire le donne gemere. Ansimare. Pregarmi di continuare. Comincio ad andarle dietro anch’io, a seguire quegli urletti eccitati, a ripetere quelle parole sconnesse. Un discorso senza senso si può ascoltare dalla mia camera. Un discorso che spero tutti ascoltino. Sì, sono io, e mi sto scopando la ragazza a cui tutti hanno sbavato dietro per tutta la sera. Sì, è lei, ed è esattamente sotto di me, e non le dispiace neanche tanto. Anzi, non le dispiace affatto.
 

“Mi fanno venire una voglia matta di scopare, quei due” commento, accendendomi l’ennesima sigaretta, seduta scomodamente sul pavimento del salotto. Axl, seduto sempre sul pavimento, al lato opposto della stanza, alza la testa, con sguardo complice.
“Ma non pensarci nemmeno!” gli urlo ridendo. Non so perché ho urlato. L’alcol rende allegri, si sa.
“Suvvia, Isbell. Siamo solo noi in casa, a parte quei due che scopano da mezz’ora. Non lo saprà mai nessuno”
Il rosso comincia a gattonare verso di me, con uno sguardo malizioso stampato sul viso e quel suo culo da donna che ancheggia senza pudore. Forse io con l’alcol divento allegra, ma lui diventa maledettamente sexy.
Mentre mi ero persa a fissarlo, è arrivato di fronte a me. La camicia sbottonata che lascia scoperto il suo petto sudato, la bandana che tiene legati i capelli in una coda di cavallo improvvisata. Faccio scivolare una mano nella tasca posteriore dei suoi pantaloni mentre lui, convinto che io ci stia, prende a baciarmi il collo. Mi alzo di botto e, sventolandogli davanti al naso i mille dollari che gli ho fregato dalle tasche, raccolgo la sigaretta che avevo abbandonato a terra, rischiando di mandare a fuoco tutta la casa. Faccio un ultimo tiro dalla cicca, prima di lasciarla cadere fuori dalla finestra. Mi rigiro tra le mani le banconote; ancora non ci credo che siano riusciti a vincere.
“Oggi è San Valentino, comunque” comincia a parlare Axl. Butta la testa indietro, appoggiandola al muro.
“Ah sì? Hai già scritto le letterine?” commento io, molto poco interessata a quella discussione. Non ho mai creduto a San Valentino. La vedo come un’occasione in più per gli uomini per chiedere ‘Allora me la dai?’ in modo romantico.
“No, hai un foglio?” mi chiede lui. Lo guardo, rido.
“Ma certo”
Prendo qualche foglio da sopra la cassettiera e un paio di matite. Mi siedo a gambe incrociate di fronte al rosso e gliene porgo una.
“Sbizzarrisciti”
“No, non ho voglia di scrivere…” dice lui, prendendo incerto la matita e disegnando qualche cuore per il foglio. E che mi hai chiesto un foglio a fare?
“E cosa vuoi fare allora?”
“Io sinceramente, avrei voglia di scopare. Quei due sono ancora in camera a urlare…”
“E perché non ti sei portato dietro qualcuna dal locale come Duff?”
“Perché io volevo te” mi risponde, scatenando una mia risata, che riesco fortunatamente a soffocare.
“Allora facciamo così. Visto che è San Valentino e mi sento buona passiamo tutta la giornata insieme”
“Ma io volevo scopare…” si lamenta lui, poco entusiasta della mia proposta.
“Va a dormire” dico scuotendo la testa. Gli lascio un bacio sulla fronte e mi alzo, diretta verso il mio letto. Si fotta quella moretta che Duff si è trascinato a casa, io voglio dormire.
Spalanco la porta e urlo al biondo e compagnia bella di sloggiare e, senza badare minimamente alle loro lamentele, mi butto sul letto e affondo la testa sotto il cuscino.
 
Mi sento schiaffeggiare la guancia. Qualcuno mi dice che è ora di alzarsi. In effetti c’è tanta luce, il sole dev’essere già alto. Ma preferisco tenere gli occhi chiusi. Comincio a pensare a chi potrebbe essere il proprietario di quella voce che mi sta facendo da sveglia, ma non riesco a connettere orecchie e cervello. Apro un po’ gli occhi, un viso pallido incorniciato da capelli corvini è davanti al mio.
“Jeanette… ho finito la mia letterina, comunque…” biascico, allungando le braccia, tentando di afferrare la ragazza.
“Ehi, ma che cazzo fai? E’ già tanto che ti ho svegliato, vuoi pure saltarmi addosso?”
Realizzo che la persona che avevo davanti non era Jeanette, assolutamente non era Jeanette. Era Jeff. Ma sono fratelli, insomma c’ero quasi.
“Dai letterina, alzati che ho voglia di uscire a mangiare qualcosa”
”Come mai? C’è qualcosa da festeggiare?” chiedo confuso mentre tento di rialzarmi. Jeff mi guarda come se gli avessi chiesto se i dinosauri si sono già estinti.
“Allora… ieri sera abbiamo vinto mille dollari così, per caso, mi sono scopato una gnocca nei camerini del locale, sono riuscito a farmi senza star male…”
Mi strofino gli occhi, sbadigliando rumorosamente.
“Altro?” chiedo, molto poco interessato alle imprese che Izzy è riuscito a compiere stanotte.
“Ho voglia di andare fuori a mangiare, quindi ora ti lavi la faccia e andiamo”
“No no no no Axl deve stare con me oggi” spunta fuori Jeanette dalla cucina, muovendo esageratamente la mano per indicare il suo disaccordo. Jeff fa una faccia scocciata. Prevedo una bella litigata.
Prendo la mela che Jeanette mi porge e mi siedo sul divano, intenzionato a non perdermi neanche una parola di quella discussione. E’ fottutamente bello quando la gente bisticcia per te.
“Non è che tu puoi avere l’esclusiva sulla gente, comunque. E poi, io non esco mai con Axl, proprio oggi dovevi farti venire questo estro?” è la prima argomentazione di Jeff.
“A parte il fatto che gliel’ho già detto stanotte, che oggi veniva via con me, credo sia abbastanza grande per decidere da solo, no?”
Mi trovo quattro occhi puntati addosso. Jeanette incrocia le braccia, attendendo una risposta di cui è perfettamente a conoscenza. Jeff, invece, molto meno sicuro della sorella, mi guarda con una faccia da cane bastonato. Forse dovrei andare con lui. In fondo ha ragione, non usciamo mai insieme, ed è il mio migliore amico.
“Vabbè, dimmi quando hai deciso. Comunque ho trovato un posto dove fanno quel giochetto che avevo in mente di fare da un po’…”
Detto questo, la signorina se ne va in camera, sciogliendo la coda di cavallo che le legava i capelli e lasciandoli liberi per la sua schiena.
“Vengo con te, Jeanette” decido di colpo.
 

Jeanette entra in camera con un mezzo sorrisetto stampato in faccia e, per la prima volta in due settimane, appoggia delicatamente la porta, chiudendola senza far rumore. Si butta sul letto e si rigira tra le lenzuola, felice. Ho paura che abbia organizzato un bel pomeriggio per San Valentino. Senza di me.
Resto a fissarla per dieci minuti buoni, quando lei finalmente si gira e mi nota.
“Buongiorno. Come hai dormito?” mi chiede con una faccia da ruffiana.
“Troppo” commento. Sì, brunetta, perché avrei preferito dormire di meno, o anche non dormire. Ma qualcuno ha interrotto quello che mi ero trovato da fare per stanotte.
“Che fai oggi?” domanda di nuovo lei, totalmente incurante della rispostaccia che le ho dato. Sbuffo.
“Non lo so, sto sul divano a guardare quelle schifezze romantiche che fanno in tv”
“Maddai, è San Valentino. Trovati una ragazza, fai qualcosa. Io e Axl andiamo in un posto dove fanno una roba apposta per passarsela un po’. Vuoi venire?”
Guardo negli occhi la ragazza.
“Che?” Lei si mette a sedere a gambe incrociate.
“Praticamente è tipo un gioco, ne avevo sentito parlare tempo fa… Ti chiedono tutta una serie di robe e alla fine ti mettono in una stanza al buio con un’altra persona… cioè, in base alle risposte uguali, credo. Il bello è che questa persona non la vedi, non sai il suo nome… Cioè, se ti interessa, se ti sei divertito, dopo te la devi cercare da solo. Dicono che Mick Jagger ha trovato la sua prima moglie, così”
Non è che mi ispiri così tanto, come gioco. Cioè, che ci stai a fare in una stanza buia con una che non conosci neanche? Ti fai una chiacchierata?
Poi, ripensando al fatto che non riesco ad associare un nome alla tizia di stanotte, deduco che forse non è così stupido, come gioco.
“E quindi tu hai idea di trovare la tua anima gemella lì?” chiedo, ancora incerto se andarci o meno.
“O anche solo una sana scopata, visto che né tu né il compare per di là riuscite a portarmi a letto. Ma penso che tu non abbia bisogno di giochi del genere per trovarti qualcuna”
Allora se lo ricorda, che stanotte ha interrotto il passatempo che mi ero trovato.
“E poi dicono che siamo noi uomini che pensiamo sempre al sesso…”
“Sì papà, scusa, hai ragione, allora farò la brava e resterò a casa con te a guardare i film che danno in tv”
All’idea di quell’orribile prospettiva, decido in un lampo cosa farò questo pomeriggio.
”D’accordo, vengo. Intanto vado a farmi il pranzo”

 
“Viene anche Duff oggi pomeriggio” comunica Jeanette tornando in salotto.
“No, e io con chi cazzo sto oggi? Non mi puoi abbandonare pure tu, Michael” si lamenta Izzy, seduto sul divano di fianco a me, a guardare un film idiota.
“Duff? Credevo fosse solo una cosa tra me e te” mi lamento pure io, ma per motivazioni completamente diverse da quelle di Jeff.
“Non ti avevo spiegato come funzionava quello che andiamo a fare?” mi chiede la ragazza. Devo aver assunto un’espressione un po’ stupida.
“Allora…” comincia lei passandosi una mano tra i capelli “…praticamente ti fanno delle domande e in base alle risposte ti mettono insieme a qualcun altro in una stanza. Al buio, così non vedi questa persona”
“Ti immagini farlo con la luce? Cioè, io non uscirei più per paura di trovare sta tizia per strada” commenta il biondo, interrompendo il racconto di Jeanette, che gli rivolge un’occhiata di quelle che lasciano intendere che hai appena detto una cazzata colossale.
“Comunque” continua lei “Tu con questa persone ci fai quello che vuoi”
“Che alla fine è una sola cosa” si intromette di nuovo Duff.
“Duff, non dovevi andare a farti il pranzo tu? Vai in cucina. Dicevo, fai quello che devi fare, però il nome di questa persona non lo sai. Cioè, è un regola del gioco, in un certo senso. Non devi mai dire il tuo nome. E quindi, se vuoi incontrare di nuovo questa persona, ti arrangi. E’ anche una cosa romantica, alla fine”
“Certo, ti scopi uno sconosciuto senza neanche vederlo. Però è romantico” rido sarcastico io, ricevendo una fulminata dagli occhi neri di Jeanette, alla quale non costa molta fatica incenerirti con lo sguardo.
“Se non lo vuoi fare, basta che me lo dici. E comunque, c’è gente che ha trovato una moglie, scopando con una sconosciuta”
“Ma aspetta, quindi ti mettono con una persona in base alle riposte? Cioè, se hai due fogli completamente uguali ti mettono insieme per forza?”
“Credo di sì. Ma non l’ho mai fatto, non lo so di preciso”
La brunetta gira i tacchi e se ne va in cucina tutta eccitata all’idea di quel giochino stupido che si è trovata per il pomeriggio. Peccato che ho già in mente un modo per divertirmi anch’io.

 
“Andiamo? Andiamo? Andiamo?” urlacchio tutta contenta saltellando da una camera all’altra.
“Ma io sinceramente non ho ancora capito perché sei così eccitata all’idea di sta cosa” commenta Axl infilandosi le scarpe.
“Ma non è che sono eccitata, è che metti che mi capita un bel figo. Cioè, hai presente quei modelli, quelli delle foto sui giornali, tutti sudati…”
”E secondo te loro vanno a fare sta roba per San Valentino?”
Incenerisco Axl per la seconda volta nella giornata. Era così simpatico stanotte, quando era ubriaco e sparava cazzate a nastro.
“Tanto per la cronaca, questo giochetto me l’aveva raccontato proprio il vostro nuovo finto batterista. Quindi taci, che non ci vanno solo i disperati lì”
“Ma poi scusa, se è al buio come fai a sapere che è figo?” mi chiede Duff, che per una volta fa una domanda intelligente.
“Accendono la luce, alla fine. Non l’avevo detto?”
“No, non l’avevi detto” chiude il discorso il rosso prima di uscire. Sul suo viso si fa strada un’espressione pensierosa.
 
Prendiamo l’autobus dalla fermata vicino casa e arriviamo in centro. Dopo una mezz’ora di camminata, arriviamo finalmente al locale. Duff apre la porta e mi fa cenno di entrare per prima con un gesto della mano. Supero la soglia e osservo quello strano posto. Non è che sia proprio un locale, è più che altro un… cioè, non so se esiste una parola per definirlo. Stando al cartellone appeso fuori, di solito ci fanno karaoke qui. Un lungo e stretto corridoio si snoda per questo posto, con una serie di porte che danno su degli stanzini. Quindi, di stanze ne hanno, eccome.
“Saaaaaaaalve…” ci accoglie un tizio dall’aria un po’ annoiata “Siete qui per il gioco, vero?”
Annuisco distrattamente con il capo mentre mi tolgo il cappotto e mi guardo intorno in cerca di un posto dove lasciarlo. Ma dubito che abbiano un guardaroba, qua.
“Allora per di qua” ci fa strada. Arriviamo davanti a un bancone dove sono disposte ordinatamente una manciata di penne e dei fogli bianchi.
“Disegnatemi la prima cosa che vi viene in mente” ci spiega porgendoci un foglio e una penna a testa.
“Così, a caso?” chiede Axl, confuso.
“Così, a caso” conferma lui “Vi do dieci minuti. Sbizzarritevi”
Mi appoggio al bancone e comincio a tracciare delle linee sicure sul foglio bianco. Mi piace disegnare, mi piace davvero tanto. Me l’ha insegnato Steven, anche se, secondo me, la mano ce l’hai o non ce l’hai. Col tempo ho pure assunto una certa sicurezza, e anche una certa creatività. Ho sempre in mente qualcosa da imprimere sulla carta. Anche Steven ce l’aveva sempre in mente, qualcosa da disegnare. Su un foglio o sul mio fianco sinistro.
Ripensando a tutto quello che ho passato in dieci anni in giro per gli Stati Uniti credendo  di star facendo qualcosa di figo, ripensando a quello che sto passando adesso, che in due settimane mi ha forse fatto crescere, forse fatto regredire, finisco la mia piccola opera.
“Che hai disegnato?” mi chiede Axl, sbirciando da sopra la mia spalla e rimanendo più o meno basito di fronte al corpo di una donna, nuda, davanti a una finestra aperta. Non so come mai abbia disegnato quello, è che è la cosa che mi ispirava di più. Il corpo di una donna è bellissimo da disegnare. E’ perfetto.
 
Se ci mettono nella stessa stanza della persona con cui abbiamo più affinità significa che, se faccio lo stesso disegno di Jeanette, finisco di sicuro con lei.
“Due minuti” ci avvisa sempre lo stesso tipo, che mi sta pure sulle palle.
Comincio il mio tentativo di capolavoro disegnando le spalle della ragazza, facendo poi scendere il tratto a segnare i contorni di un braccio, di una vita sottile, di un paio di fianchi morbidi e due gambe che dovrebbero essere incrociate l’una davanti all’altra.
Riguardo il mio lavoro. Lo scruto attentamente alla ricerca del minimo errore. Ma alla fine, mi arrendo al fatto di aver disegnato una merda. Non sopporto neanche l’idea di disegnare, cazzo.
“Ti piace?” sento Duff chiedere alla ragazza.
“E’… una mucca?” tira a indovinare lei.
“No, guardalo bene. Le mucche sono ciccione. E’ un cavallo”
“Ah. E quello sopra cos’è, un albero?”
“Mannò, è un tipo che cavalca”
“Oh, capisco. Davvero bello, Duff. Davvero bello”
Jeanette si gira verso di me.
”E tu che hai disegnato?”
“Eh… non posso mica fartelo vedere” tento di trovare una scusa e vengo salvato dal tipo che ci ritira i fogli.
“Ok ragazzi, aspettate di là un attimo, sono arrivate altre due persone. Dieci minuti e poi facciamo gli abbinamenti”
 

“Vabbè, ma se facciamo i disegni uguali ci mettono per forza insieme” sento la voce di un altro ragazzo che ha intenzione di attuare la mia stessa strategia arrivare dal fondo del corridoio.
“Ok, ma se non ti mettono con me non fai niente e te ne vai, d’accordo?” si rassicura una ragazza. Qualcosa mi fa pensare che lei non sia tanto entusiasta all’idea di questo gioco.
“Cioè, non ha senso… se stiamo già insieme, perché dobbiamo fare sta roba?” continua a lamentarsi lei, ma ormai non la sento più.
Io e gli altri arriviamo in una stanza circolare, con delle sedie disposte alla buona intorno alle pareti. Sorrido debolmente alle ragazze presenti nella stanza, sperando vivamente di trovarmi con Jeanette.

 
Scruto ogni singolo ragazzo seduto in quella pseudo sala d’attesa. Quello con la barba è davvero figo.
“Ok, anche gli ultimi due hanno finito” ci comunica sempre il tizio che ci ha accolti. Mi facevano tenerezza, quei due che tentavano di fare lo stesso disegno per essere messi insieme. Che idea stupida.
“Prego, per di qua” mi prende per mano il ragazzo, accompagnandomi in una stanzina buia. Prima di lasciarmi entrare mi fa l’occhiolino. Ho paura che ci venga lui, qui.
Entro titubante, chiedendomi se l’anima gemella che hanno scelto per me sia già dentro. Non arriva nessun saluto. Non dev’esserci nessuno.
“Divertiti, è davvero carina” sento sussurrare dalla porta, e da lì deduco che la mia coppia sta entrando.
 
“Divertiti bello” mi saluta il tizio, chiudendo la porta alle mie spalle e lasciandomi al buio.
“Buongiorno” mi saluta una voce femminile dal fondo della stanza.
“Ciao” le rispondo io. Mi avvicino, un po’ impacciato, fino ad arrivare a lei, che senza pensarci due volte avvolge le sue braccia intorno al mio corpo. Passo le mie mani sulla sua schiena, i capelli lunghi e lisci le arrivano quasi fino al sedere. E Jeanette era l’unica in quello schifoso salottino con i capelli così lunghi. Mi sa che ci divertiremo davvero, amore mio.
 

“Ciao” saluto piano appena la porta si chiude.
“Ciao” mi risponde lui. Ha una bella voce, tutto sommato. A pensarci, starebbe benissimo al tipo con la barba. Sento i passi del ragazzo avvicinarsi a me, muovendosi in modo sorprendentemente agile, dato il buio pesto che aleggia nella stanza.
“Io sono Michael”
“Io sono Jeanette. Comunque in teoria non si dovrebbe mai dire il proprio nome”
“Ah scusa, me n’ero dimenticato. Bel nome, comunque. Conosco una Jeanette, viveva con me fino a poco tempo fa… solo che sono successi un po’ di casini, lunga storia”
“No, racconta” commento io sedendomi sul pavimento. Non che la sua storia mi interessi tanto, ma ha una voce stranamente familiare. Una voce che ho già sentito, e pure parecchie volte. Il problema è che non riesco ad associarle un viso.
 
“Ci vai giù di brutto, bambolina” commento quando i bottoni della mia camicia cominciano a slacciarsi uno ad uno, sapientemente guidati dalle dita sottili di quella ragazzetta.
“Sta zitto” sussurra lei e, per assicurarsi che non dica più nemmeno una parola, si impossessa prepotentemente delle mie labbra.
 

“No, niente, vivevo con dei miei amici, suonavamo… poi un giorno è arrivata questa Jeanette. All’inizio sembrava dovesse rimanere solo qualche giorno, poi invece dopo quasi due settimane non se n’era ancora andata. Era davvero carina, sia come persona che come aspetto. Era la copia identica del nostro chitarrista. In effetti era sua sorella, ma non si vedevano da anni, è complicato… credo che lei gli abbia fatto qualcosa di brutto, perché i suoi sono arrivati a metterla in collegio. Comunque, un giorno ho litigato con i miei amici e mi hanno buttato fuori di casa, sono andato a vivere dalla mia ragazza. Questa Jeanette è pure venuta a cercarmi, è stata davvero dolce… ma le ho risposto talmente male che se n’è andata di corsa, sbattendo la porta. Lei sbatte sempre le porte. E’ una cosa che non sopporto”
Ad ogni parola di quel racconto il sorriso sul mio viso si allarga sempre di più, è sempre più difficile contenere una risatina. Chissà, forse perché quella Jeanette che sbatte sempre le porte e che faceva cose brutte al fratello è proprio la sottoscritta. O forse perché Steven sta parlando con una persona che ha idea di non rivedere mai più ed è totalmente sincero, qualsiasi frase lui dica. Benedetta ignoranza.
 
Diciamo pure che il buon proposito dello stare zitti è andato a farsi fottere.
Mi appoggio meglio con la schiena al muro, piego la testa all’indietro, impotente sotto tutta l’eccitazione che questa ragazza mi sta facendo salire. Giuro che morirò in questa stanza. E che non mi dispiacerà poi così tanto.
“Ci sai fare, piccina. Si vede che non è la prima volta”
Forse non avrei dovuto dirlo. Suona un po’ come un offesa. Come se le stessi dando della troia. Fortunatamente, la ragazza non sembra aver sentito niente, e continua il progettino che sta portando avanti da cinque minuti buoni sul mio amichetto lì sotto.
“Vuoi stare zitto? Quando parli spari solo cazzate”
Detto ciò, dopo avermi fatto sentire una merda con una sola frase, riprende. Cazzo, io ci resto secco qua.

 
“E perché tu non hai voluto ascoltare Jeanette quando è venuta a cercarti?” rincaro la dose. Certe occasioni non te le puoi lasciar scappare.
“Non lo so, sinceramente. Forse perché non voglio tornarci, a casa. Lei era venuta per quello. Per chiedermi di tornare”
“Quindi non ti mancano i tuoi amici”
“No. Cioè, un po’ sì. Ma è difficile. E’ che sono elementi particolari, sono artisti. O almeno se la tirano come gli artisti. Soprattutto il cantante, è quello che sopporto meno. Cioè, immaginatelo. E’ rosso, pallido, con una vocetta di quelle irritanti… hai presente Topo Gigio? Ecco, immaginati Topo Gigio che canta mentre pomicia con un microfono…”
Mi scappa una risata di quelle fragorose, immaginandomi Axl con due orecchie da topo in testa mentre canta Welcome to the Jungle.
“E poi?” chiedo con estrema fatica, tra una risata e l’altra.
“E poi niente, che ti devo dire? Tutto sommato ci tornerei da loro, anche se alla fine mi hanno mandato via  a calci in culo. In fondo sono i miei migliori amici, ci convivevo, mi mancano”
 
Jeanette dichiara il suo lavoretto concluso e torna in piedi, facendo salire insieme a lei anche la sua mano, che lascia una scia calda sulla mia pella pallida. Una scia caldissima. Prendo a baciarla, mentre le mie dita cominciano un giro di esplorazione per quel corpo magnifico. Passo più volte i polpastrelli sul suo fianco sinistro, so per certo che lì ha un tatuaggio. Mi piace sentire i tatuaggi sotto le dita, quei simboli un po’ in rilievo sulla pelle. Però, a pensarci, non ho idea del significato del tatuaggio di Jeanette. Né l’aspetto, a dire il vero. Diciamo che l’ho solo notato di sfuggita da sotto la sua maglietta.
Perso a pensare a che forma possa avere, a cosa possa aver affascinato una ragazza del genere a incidersi un simbolo indelebile sulla pelle, non sento neppure il delicato rilievo sotto le dita. Riaccompagno di nuovo la mia mano sul fianco sinisto della ragazza, ma ancora non sento niente. Faccio scorrere le unghie, ma la pelle è liscia. Pulita.

 
“Dimmi qualcosa su questa Jeanette” mi sporgo per ascoltare meglio, anche se non ho intenzione di andare a fondo nel discorso. Mi sembra di imbrogliare Steven, facendo così. Sarei troppo cattiva. Con Axl lo farei pure, ma con Steve mai.
“Te l’ho detto, era la sorella del chitarrista. Faceva la groupie ed è arrivata da noi perché l’avevano lasciata per strada. Era davvero simpatica. La adoravo perché faceva finta di provarci con il cantante, il rosso che ti ho detto prima… lui faceva di tutto per scoparsela e lei gliela faceva sempre sotto al naso. La amavo per questo”
“Ti sarebbe piaciuto essere al posto del rosso?”
Cazzo, questa domanda non la volevo fare. Se Steven mi risponde di sì, non avrà neanche più il coraggio di guardarmi in faccia, figurarsi di tornare a casa, un giorno.
“Cioè se mi sarebbe piaciuto che Jeanette ci provasse con me? Ovvio che a un ragazzo farebbe piacere che una bella ragazza ci provi con lui, ma io ho Nicole. Anche se ultimamente litighiamo sempre di più… sai, non voleva farmi fare sto gioco, oggi. Ha detto che se non capitavo con lei dovevo prendere e andarmene. E invece sono qua a parlare con te”
“Non hai paura che si incazzi?”
“No, tanto stavo cercando una scusa per mollarla. L’unico problema è che se mi butta fuori di casa io non so più dove andare”
“Puoi tornare da noi, se vuoi. A me manchi” mi lascio scappare, non proprio accidentalmente.
“Che?” chiede lui, confuso.
“Ok ok ok ragazzi, vedete di rivestirvi in fretta, perché riaccendiamo la luce tra tre, due, uno…”
La luce comincia a diffondersi soffusa dalle lampadine che corrono lungo tutta la stanza.
 
La luce si riaccende a poco a poco, confermando tutte le mie più profonde paure, tutti i miei dubbi peggiori.
“Bene, ora scusa, devo andarmene in fretta” farfuglio velocemente a testa bassa. Non faccio neanche caso alla tizia con cui ho limonato per più di tre quarti d’ora, semplicemente mi rivesto e basta, sentendomi costantemente osservato.
“Aspetta” mi chiama lei quando sto aprendo la porta. Mi volto e finalmente la vedo.
“Non è che potremmo rivederci?” domanda speranzosa. La squadro nuovamente da capo a piedi.
“No” concludo, ed esco il più velocemente possibile da quella cazzo di stanza.

 
“Ciao” saluto di nuovo Steven, rialzandomi in piedi.
“Tu sei Jeanette” commenta lui, la bocca semiaperta, la faccia stralunata.
“E tu non sei Michael” rispondo io, ricordandogli che lui si era presentato con quel nome.
“Sì, in un certo senso sì che sono Michael. Cioè, sarebbe il mio vero nome”
“Ma mi avevi detto che non avevi un nome d’arte!”
“No, tecnicamente Steven è anche quello il mio vero nome, te lo spiegherò in un altro momento… comunque, dirmelo prima, che eri tu?”
“Te la sei presa?” chiedo, pentendomi di colpo della mia idea. Vabbè che non sono andata fino in fondo, non ho fatto domande imbarazzanti, ma non avrei neanche dovuto cominciare. Abbasso la testa e mi fisso i piedi, imbarazzata.
“Tranquilla, non me la sono presa” mi riponde dolce e mi lascia un bacio sulla testa.
Usciamo dallo stanzino e torniamo all’entrata del locale, dove ci attendono una Nicole alquanto furiosa, un Duff alquanto deluso e un Axl che si guarda intorno preoccupato.
“Ok, andiamo. Subito” è la proposta del rosso appena mi vede andargli incontro, senza badare minimamente al ragazzo che mi accompagna. A badare a lui è invece Nicole, che lo trascina fuori in modo piuttosto indelicato.
“Che c’è?” chiedo ad Axl, che non è ancora riuscito a smuovermi da dove sono.
“Niente, voglio solo andare”
 
Sono terrorizzato che quella assatanata torni e mi veda, cazzo. Ma non lo ammetterò mai. Questa storia rimarrà chiusa tra queste quattro mura. Per sempre. Nessuno verrà mai a conoscenza che mi sono fatto fare… qualche lavoretto da una ragazza convinto che fosse un’altra. Nessuno.
 

“Andiamo allora” borbotto io. Guardo la faccia scura di Duff.
“Che è successo? Ti è andata male?”
“Non avevano la coppia per me” commenta lui, mogio mogio. Povero, si è fatto tre quarti d’ora qua da solo come un cane.
“Si vede che il karma ha ritenuto che ti sei divertito abbastanza stanotte” concludo. Mi infilo il giubbotto ed esco in strada. Veniamo accolti dalle voci concitate di una ragazzo e una ragazza che litigano. E non sono un ragazzo e una ragazza qualsiasi.
Riusciamo a cogliere solo le ultime parole di Nicole, che sono qualcosa del tipo: “Torna a scoparti quella troia, non ci credo che eri con Jeanette. Continua a raccontarmi balle, sì, perché non ti è bastato che ti abbia portato a casa mia dopo che ti hanno buttato fuori per strada, non ti è bastato che abbia fatto tutto quello che volevi quando volevi. Fottiti”
Steven non tenta neanche di fermarla. Semplicemente si volta, perfettamente consapevole che noi tre eravamo lì dietro ad assistere.
“E’ ancora valida la tua proposta?” mi chiede, avvicinandosi.
“Certo” rispondo sicura io. Lo prendo sottobraccio e faccio per dirigermi verso casa.
“No, che è questa proposta?” mi blocca Axl, la cui opinione non mi importa poi tanto.
“Steve torna a casa. Punto” chiudo il discorso il più velocemente possibile. Mi volto e mi incammino, affidando a Duff le lamentele del rosso.
 
Tutto sommato, sono conteno che Steve torni. Perché alla fine lo sentivo, che c’era un buco. Dopo anni che convivi, appena una persona se ne va è inevitabile sentirlo. E poi magari, ora che c’è di nuovo Steve, le cose si potranno risistemare, con la band e il resto. Almeno non dovremmo più far finta di suonare per tirare su due soldi. Anche se, a giudicare dal numero di borbottii di Axl, ho paura che le cose non si riaggiusteranno tanto in fretta.
 

Rientriamo a casa che è già buio, stanchi morti. Dato che l’ultimo autobus era già passato, siamo stati costretti a farcela a piedi. E non è stato divertente.
“Ciao” urlo io, senza ottenere nessuna risposta. Mi butto sul divano, che è tornato ad essere il mio letto ufficiale. Mi mancherà la trapunta morbida di Steve.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza, stellina. Notte” mi sussurra il biondo, per poi lasciarmi un bacio sulla guancia e tornare nella sua camera, dopo quattro giorni di assenza.
“Notte” rispondo io, prima di prendere sonno.
 
Ciao, sono l’autrice:
per prima cosa dico che voglio dedicare questo capitolo a MrSky. Perché sopporta i miei schizzi isterici ogni giorno e perché mi fa sciogliere con le sue storie coccolose, perché è dal decimo giorno che aspetta che Steve torni e dal quinto che si molli con Nicole.
Ho aggiornato anche stavolta in ritardo, ma sto migliorando (i progressi si fanno a piccoli passi, no? ù.ù)
 
Un bacione a tutti, Euachkatzl <3

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Capitolo 15
*** Quindicesimo giorno. ***


Uno scampanellamento alle dieci di mattina è il peggior modo per iniziare la giornata. Perché tutti pensano che in una casa normale la gente sia già sveglia e pimpante, alle dieci di mattina. Ma questa non è una casa normale. Se proprio devi venire… non venire e basta. Scalcio via le coperte in modo molto poco femminile, mi aggroviglio un piede nella trapunta e lotto per qualche minuto tentando di liberarmi.
“Buongiorno…” mi saluta Steve, che ha già ripreso la normale routine di segretario che apre le porte/ che risponde al telefono/ che si sveglia per primo la mattina.
“Lascia, faccio io” rispondo quando finalmente riesco a liberarmi dalla coperta. Mi infilo in fretta i pantaloni di felpa e arrivo alla porta, sistemandomi i capelli meglio che posso.
Spalanco il portone e mi trovo davanti a due persone che, sinceramente, non mi sarei mai aspettata di trovare. E, a giudicare dalle loro facce, neanche loro si sarebbero mai aspettati di trovare me, ad aprire alla porta. Un uomo e una donna, uno alto e l’altra bassina, uno biondo platino con i pochi capelli lunghi legati in un codino, l’altra con un caschetto castano che le incornicia il viso.
“Ciao” mi saluta l’uomo. La donna è piantata a fissarmi, immobile.
“Ciao” saluta Steve con la mano facendo capolino dalla porta del bagno. L’educazione prima di tutto.
“E’… un tuo amico?” tenta di fare conversazione il signore, anche se ogni tentativo sarà vano, temo.
“Sì” rispondo semplicemente io, per poi scostarmi per lasciarli entrare.
Loro si guardano un po’ intorno come fa sempre la gente appena entra in casa di qualcuno. Osservi incuriosito di qua e di là, cercando qualcosa da commentare, nel caso di un possibile vuoto nella conversazione. Ma di vuoti nella conversazione ce ne saranno ben pochi. Anzi, a dirla tutta è già tanto se ci sarà una conversazione.
“Vado a chiamare Jeff, voi fate come vi pare” dico piatta, scivolando velocemente in camera di mio fratello.
“Jeff…” provo a chiamarlo dalla soglia ma, tra il russare dell’interpellato e quello di Slash, è già tanto che io riesca a sentire la mia voce. Mi avvicino all’ultimo letto, dove, schiantato in tutta la sua eleganza, il mio fratellino dorme amabilmente.
“Jeff, sveglia” lo scuoto un po’, ma niente.
“Cazzo Jeff ti alzi o no?” gli urlo nelle orecchie, svegliando pure gli altri due nella stanza e scatenando il malumore di mio fratello.
“Dio, sta calma. E poi che cazzo vieni a svegliarmi? Ti senti altruista oggi?”
“Sai, mi sentivo pure gentile, ma mi hai fatto passare la voglia” gli urlo dietro, uscendo di fretta dalla stanza e sbattendo la porta il più forte possibile, facendo sobbalzare i cari ospiti, che intanto si sono accomodati sul divano, sistemando ordinatamente la coperta in un angolo.
“Arriva quando arriva” comunico scocciata senza lasciar loro il tempo di aprir bocca. Si fotta Jeff. Si fotta la gentilezza. Si fotta la gente che dopo sedici anni ricompare di colpo nella tua vita a cambiarti i programmi.
 
Dopo che Jeanette è uscita sbattendo la porta, cosa di cui non sono così sconvolto, Slash ha ripiantato la testa nel cuscino, imitato da Izzy e da me. Adesso però mi scappa da pisciare. Ed è una cosa insopportabile. E sono quasi le dieci, tra un po’ devo alzarmi per forza. Non posso perdere cinque minuti di sonno, non sia mai. Tento di pensare a qualcos’altro, a distrarmi, ma la mia vescica continua imperterrita a rompere le palle. Alla fine mi arrendo e mi alzo. Apro la porta e mi dirigo in bagno, senza nemmeno guardare dove si sia cacciata Jeanette. Non mi piace l’idea che lei sia libera per casa, incazzata così. Ma ho priorità più urgenti da svolgere.
“Ciao, William” mi saluta la voce di una donna.
Mi volto di scatto e, seduti sul divano, trovo i genitori di Jeff. E anche di Jeanette, a pensarci.
“Buongiorno. Come mai qui?” rispondo io, dimenticandomi completamente del fatto che la mia vescica chieda aiuto da un quarto d’ora circa.
“Siamo venuti a trovare Jeffrey, è tanto che non lo vediamo”
“Ah, capisco. Vado a chiamarlo”
Adesso capisco perché la moretta era venuta a svegliare Jeff. Entro in camera e tolgo via le coperte dal suo letto. E’ un modo infallibile per far svegliare la gente.
“Ci sono i tuoi di là in salotto” gli dico tutto d’un fiato prima che cominci a brontolare come suo solito.
“I miei?”
“Sì, hai presente quelli con cui ha convissuto per tipo vent’anni? Avevi detto tu che dovevano venire, perché sei così sconvolto?”
Lui si alza in fretta e si cambia. Jeans e camicia.
“Che dici, vado bene?”
“Cazzo sono i tuoi, non è che devi fare una sfilata”
“Lo so, ma mi hanno dato un’educazione e devo mantenerla almeno di fronte a loro”
Guardo Jeff, stranito dalla sua ultima frase.
“D’accordo…” commento solamente. “Comunque sì, vai bene”
Torniamo in salotto, dove Jeanette sta cercando qualcosa nel comò, senza minimamente far caso ai suoi mamma e papà che continuano a squadrarla, seduti sul divano. Se Izzy ci teneva a far bella figura con i suoi, lei è di tutt’altro avviso. Con addosso un paio di pantaloni della tuta e una felpa probabilmente rubata a Duff, sembra più una che ha vissuto senza educazione o regole per gli ultimi vent’anni. E in effetti, è proprio così.
Vado a svegliare Duff e Slash e con loro mi rintano in cucina. Chiudo piano la porta, per poi appoggiarci un orecchio, ansioso di sentire quello che ha da dirsi la famigliola felice.
“Non è che sia tanto educato ascoltare qello che la gente si dice in privato” comenta Duff, seduto al tavolo a masticare tranquillo un biscotto.
“Taci” lo zittisco io. Educato o no, io sto morendo dalla curiosità.

 
“State in piedi?” chiede la mamma a me e Jeff, impalati davanti al divano a fissarli.
“Non so, vedi altri posti?” rispondo acida. Il fatto che sia mattina, sommato al fatto di aver davanti i miei, mi rende più incazzata del solito. Jeff, con molta nonchalanche, si siede per terra a gambe incrociate, esattamente come facevamo da piccoli in attesa di qualche favola scema che avrebbe dovuto svelarci i segreti della vita. Controvoglia, mi siedo anch’io e appoggio i gomiti sulle ginocchia, affondando la testa tra le mani, mentre papà parte con uno dei suoi discorsoni.
“Allora ragazzi, sono passati anni dall’ultima volta che ci siamo visti. Soprattutto per te, Jenn. Non credevamo di trovarti ma sinceramente ci speravamo”
“Balle” mormoro a denti stretti. Fortuatamente sembra che nessuno mi abbia sentito.
“Volevamo farvi un discorso serio. Di solito si fa prima che i figli se ne vadano di casa, ma con voi è successo tutto così in fretta che non abbiamo avuto nemmeno il tempo di pensarci”
“Volete farci la predica su come comportarci fuori di casa? Forse è un po’ tardi, sapete. Sono sedici anni che ho imparato come comportarmi”
“A me sembra di no invece, dato che ci stai già rispondendo dietro” mi ammonisce il vocione di papà, che subito dopo torna tranquillo e pacifico, pronto a riprendere il suo discorso.
“Allora, certe cose le avete già imparate da soli. Certe dobbiamo per forza dirvele noi. Perché siamo più vecchi, perché certe cose le abbiamo già fatte…”
”Senti papà chiudi in fretta, perché non ho voglia di stare ad ascoltare un altro discorso del cazzo. Sinceramente non mi mancano affatto”
Mi alzo in piedi e faccio per andarmene, ma vengo fermata da una sgridata di mio padre che, a quanto pare, non si è dimenticato il metodo giusto per convincermi.
“Davvero, Jenn, ci sono cose molto importanti di cui volevamo parlare. E non abbiamo fatto tutta questa strada per niente” mi riprende più dolcemente mia madre.
Incrocio le braccia al petto e assumo la faccia più stronza che riesco a fare.
“Prego, cominciate”
Papà tira un grande sospiro, forse per contenersi dallo prendermi a schiaffi, forse per riordinare le idee.
“Non siamo mai stati la grande famiglia felice che avremmo voluto. Per tutta una serie di motivi”
Apro labocca per commentare quello che ha appena detto. Sarei io, la serie di motivi? Sarei io, la causa per cui non siamo riusciti ad avere un rapporto decente in famiglia?
“Non prenderla sul personale, Jenn” mi interrompe mia madre prima ancora che io possa dire una parola. Dalla faccia sembra terrorizzata da una mia reazione negativa, ho paura di dove vogliano andare a parare con questo discorso.
“Sì, Jenn, non arrabbiarti subito. Il problema non sei tu. Cioè, in un certo senso, ma non è successo tutto per colpa tua. Sappiamo perfettamente perché tu hai sempre odiato tuo fratello. E sappiamo perfettamente anche perché ti abbiamo messa in collegio. Ci abbiamo pensato per anni, ti abbiamo cercata, e alla fine ci siamo resi conto di aver fatto lo sbaglio più grande che potevamo fare”
Senza smuovere gli occhi da quelli di mio padre, mi risiedo per terra, con un’espressione vuota sul viso. Voglio sapere la conclusione di tutto questo monologo. E la voglio sapere subito.
“Non ce ne siamo accorti subito, ovvio, altrimenti saremmo venuti a riprenderti. Ce ne siamo accorti dopo qualche anno. Quando ci è arrivata la notizia che eri scappata”
Papà abbassa lo sguardo e si fissa le mani, appoggiate sulle ginocchia. Sospira. La mamma gli sussurra qualcosa, forse un incoraggiamento, che lo fa ricominciare a raccontare.
“Credevamo che il collegio fosse la cosa migliore per te, perché saresti stata lontana da tutti quei parenti che ti guardavano come se fossi un alieno. Invece era solo la cosa migliore per noi, per non averti più come peso”
“Allora vi eravate accorti che mi trattavano male”
“Mica siamo ciechi. Sapevamo che amavano Jeff ed odiavano te. E in un certo senso anche noi”
“Ma perché? Io sono figlia vostra esattamente come lui, non è che potete preferire un figlio all’altro”
“Ecco, Jenn, è questo il punto. Tu non sei figlia nostra”
 
Mi allontano piano dalla porta, mentre un silenzio di tomba cala in salotto. Slash e Duff mi scrutano interrogativi. Scuoto la testa e dico semplicemente di uscire a farci un giro. C’è bisogno di un po’ più di privacy ora.
 
Sobbalzo quando la porta della cucina si apre, in contemporanea a quella del bagno. Ne escono i ragazzi e, a un cenno del capo di Axl, tutti lo seguono obbedienti fuori dal portone. Duff mi rivolge un sorriso incoraggiante. Anche se ho bisogno di ben altro di un sorriso, in questo momento.
Fisso la porta d’ingresso finchè non si chiude alle spalle di Steve, poi il mio sguardo passa da mia madre a mio padre, per finire poi su Jeff. Sugli stessi occhi neri che ho io.
“Siamo uguali” dico piano. L’unica frase che riesco a spiccicare.
“Quindi… neanch’io sono figlio vostro?” chiede mio fratello. Forse. Non so se chiamarlo fratello o no.
“No Jeff, tu sei nostro. So che dalle apparenze non sembra affatto, ma è così. Voi due siete due gocce d’acqua, eppure venite da due famiglie completamente diverse”
“Chi sono i miei?” domando ormai con le lacrime agli occhi. Non me ne è fregato mai molto della mia famiglia, non so come mai mi venga da piangere. Forse per sollievo, perché molte cose si spiegano. Forse perché tutte le poche certezze che avevo si sono di colpo sgretolate sotto i miei piedi.
Mia madre ignora completamente la mia domanda.
“Per anni abbiamo provato ad avere un figlio, ma non ci siamo mai riusciti. Ci abbiamo tentato in tutti i modi, abbiamo fatto cure, visite, senza mai concludere nulla. Alla fine abbiamo perso le speranze e abbiamo deciso di adottare. Non abbiamo mai saputo chi erano i tuoi o perché non ti avessero voluta, semplicemente ci hanno detto che c’eri e a noi andava più che bene. Tutti ti hanno subito guardata storto, un po’ perché adottare non era visto di buon occhio e un po’ perché si vedeva benissimo che non eri nostra”
Squadro mamma e papà. In effetti, i loro capelli chiari fanno un po’ a pugni col mio nero corvino. Così come le gambe tozze della mamma non si intonano con i miei polpacci affusolati.
“Due anni dopo è arrivato Jeff. Quasi per caso, direi. E’ stato un miracolo. Nessuno ci credeva, neppure noi. Ero finalmente riuscita a restare incinta. E in quel momento tu eri già passata in secondo piano, soppiantata da Jeff. Il fatto che siate uguali è sempre stato un bene, perché la gente pensava che eravate davero fratelli e che eravate entrambi nostri. Ma certi parenti sono andati a dire in giro la verità e tutti hanno cominciato a discriminarci. Cominciavamo a vederti quasi come una minaccia, Jenn. Così abbiamo cercato la scusa più plausibile e, quando avevi dieci anni, ti abbiamo mandata via”
“E quindi la vostra reputazione era più importante di me” traggo le somme. Loro abbassano lo sguardo, Jeff appoggia la sua mano sulla mia. Lascio cadere le lacrime. Se fosse andato tutto diversamente. Se avessero amato più me che il loro orgoglio, le cose sarebbero decisamente diverse. Non avrei un fratello che mi odia. Non avrei girato a caso per quattro anni e non mi sarei fatta usare da tutti per sei. E non sarei su questo cazzo di tappeto polveroso a piangere davanti a tutti.
“Andatevene” sussurro a denti stretti e, senza aspettare una risposta, mi chiudo in camera di Jeff, mi butto su un letto a caso e lascio che i singhiozzi si succedano uno dopo l’altro, senza lasciarmi neanche il tempo di respirare. Non mi interessa. Voglio morire. Sparire. Sono stata rifiutata dalla mia famiglia vera, dalla mia famiglia adottiva, dal mio ex ragazzo che mi ha venduta in una partita a carte, dall’uomo che mi ha scopata finchè ne ha avuto voglia. E sono qua in questa casa solo perché ho fatto la troia con Axl. Solo per questo.
 
“In effetti è diversissima da Izzy” commenta Steve non appena Axl finisce di raccontarci quello che ha sentito origliando dalla porta della cucina. Ci mancavano i commenti scemi di Steve, davvero. Stavo andando in crisi d’astinenza.
“Ma che cazzo dici? Sono identici” gli riponde male Slash, che ha appena scoperto del ritorno del nostro batterista e già non ne può più.
“Ma caratterialmente, intendo. Ovvio che fisicamente sono uguali, non sono mica cieco sai”
Slash sbuffa. E’ la massima risposta che riesce a dare, quando non sa come continuare una conversazione. Lui sbuffa. E crede di aver vinto comunque.
“Ma di carattere sono davvero diversi. Cioè, lei è dolce, è carina, è comprensiva. Jeff invece…”
“Non una parola sul carattere di Jeff ok? Tu non sai neanche metà di quello che fa lui, e neanche di quello che fa lei” sbotta Axl.
“Intanto uno mi ha sbattuto fuori di casa e l’altra mi ha fatto tornare, io mi baso su questo”
Giro a destra e prendo una via laterale, verso la spiaggia. Gli altri non si acorgono neanche che io me ne sia andato, sono troppo impegnati a rimbeccarsi l’un l’altro. Peggio delle vecchie suocere.
Apro una sdraio a caso e mi distendo, guardando il cielo stranamente pulito. Ultimamente c’è un tempo di merda. Provo a mettermi nei panni di Jeanette, a pensare a cosa stia facendo lei ora. Sicuramente non gliene fregherà un cazzo di tutta sta storia. E’ così, è intoccabile. Pure l’acido le scivola addosso senza farle neppure un graffio. Vorrei anch’io questo talento, accidenti.

 
Sento la porta aprirsi e dei passi avvicinarsi incerti al letto dove sono sprofondata. Una mano mi accarezza piano i capelli, le dita scivolano lente tra le ciocche nere. Per minuti, che a me sembrano ore, il silenzio vaga nella stanza, interrotto ogni tanto da un singhiozzo, un sospiro troppo forte.
“Non so cosa dire” mormora piano Jeff, tentando di rovinare il meno possibile la situazione.
Mi volto e mi metto seduta. Lo fisso. Lo fisso in modo diverso da come ho sempre fatto. Non so se con maggior distacco o maggior affetto. Di sicuro con più sensi di colpa.
“Mi dispiace per tutto quello che ti ho fatto” dico, per poi abbracciarlo. E’ la prima volta che lo abbraccio. In tutta la vita. Ho passato dieci anni sotto il suo stesso tetto e ogni volta che lo toccavo era per fargli male. Ora invece vorrei solo rimediare. Vorrei riparare tutte le ferite che gli ho provocato, sia materialmente che non. Vorrei dimenticare tutto. Vorrei ricominciare.
“Senti, Jeanette” parla piano Jeff, tra i miei capelli “Non siamo mai stati amici. E forse non lo saremo mai, non lo so. Però io sono sempre tuo fratello”
Sciolgo le braccia e guardo di nuovo gli occhi neri di Jeff, lucidi esattamente come i miei.
“D’accordo” è l’unica risposta che riesco a dare, mentre un groppo alla gola torna prepotente. Lui sorride timidamente, lasciando intuire quanta fatica gli costi una cosa del genere. Quanto si stia impegnando per farmi stare almeno un po’ meglio. Per far star meglio una che è piombata in casa sua senza nemmeno essere invitata, anzi.
“Ti serve qualcosa?” mi chiede, un po’ imbarazzato da quel momento troppo intimo per due che non si conoscono affatto.
“MI servono coccole” ammetto, e ricado tra le braccia di Jeff, nel primo abbraccio sincero della mia vita.
 
“Ok, torniamo indietro” decido quando non ne posso più di litigare e rimbeccare Steve e Slash. Solo adesso mi accorgo che manca qualcuno “Dove cazzo è andato Duff?”
“Vabbè, la strada di casa la sa” borbotta scontroso il chitarrista, per poi voltarsi e partire tutto incazzato.
“Ma andiamo a cercarlo almeno” commenta Steve. Perché non chiude mai quel forno che si trova in faccia, soprattutto quando Saul è incazzato?
“Senti tappo, sei qua solo perché Jeanette ti ha riportato di peso da noi. Nessuno ti vuole, se non fosse per lei saresti già sotto qualche ponte. Adesso lei sta di merda e tu sei qua che invece di andare a consolarla pensi a un altro deficiente che è andato a perdersi”
Blocco Slash prima che la situazione degeneri e lo trascino lungo il marciapiede, diretti a casa. Non mi va di litigare ancora. Sono stanco.

 
Metto l’acqua nel pentolino e tento di accendere il gas, che però non ne vuol sapere di collaborare. Uffa, ho una voglia matta di un tè. Torno in salotto dove Jeff sta seduto sul divano a guardare la tv, una coperta sulle ginocchia come i vecchietti.
“Vieni” mi invita battendo la mano sul posto accanto a lui. Mi siedo e lui passa la coperta anche sulle mie gambe. Si muore di freddo.
“Non è che puoi cambiare?” chiedo timida. Non voglio rovinare questa atmosfera, che non so nemmeno quanto durerà. Il più possibile, spero.
Jeff afferra il telecomando e mette i cartoni animati.
“Ricominciamo da zero” scherza lui, anche se sinceramente è quello che entrambi vogliamo più di tutto. Ricominciare da zero e far finta di aver avuto una vita normale. Scoprire cosa vuol dire avere un fratello a ventisei anni.
“Buongiorno” entra in casa Axl, seguito da uno Slash tutto incazzato che borbotta maledizioni contro Steve.
“Ciao” salutiamo io e Jeff all’unisono, senza neanche voltarci. Appoggio la mia testa sulla sua spalla e mi sistemo la coperta sulle gambe. Ti prego Axl, non rompere le palle adesso.
E invece il rosso si piazza davanti a noi e sfodera il suo miglior sorriso da amico dolce e comprensivo, che non si addice per niente alla sua faccia.
“Come stai?” mi chiede.
Sbuffo. Chiudo gli occhi e cerco di farla il meno tragico possibile.
“Di merda”
Slash si avvicina da dietro il divano e mi posa le mani sulle spalle.
“Dai, passa. Cioè, non hai mai sopportato la tua famiglia, capire che in realtà non fai parte di quella marmaglia non ti fa sentire un po’ meglio?”
“No” chiudo secca. Andatevene tutti e lasciatemi con Jeff. Non chiedo tanto. Si stava così bene a guardare Tom e Jerry.
“D’accordo” Slash capisce cosa voglio e, ubbidiente, si chiude in bagno. A non capire un cazzo è invece Axl, ancora di fronte al divano a sorriderci.
“Però vedo che tu e Izzy non vi state cavando gli occhi, qualcosa sta succedendo”
“Senti, ho appena scoperto che non so neanche che faccia hanno i miei, che sono stata presa in giro per tutta la vita e che ho odiato l’unica persona che invece avrei dovuto amare. Scusa se voglio stare un po’ con Jeff”
Sul viso del rosso si spegne quel sorriso e si fa strada una faccia incazzata. Le rispostacce non piacciono a nessuno, ma non è che me ne freghi molto adesso. Non voglio nessuno. Voglio eclissarmi sotto questa coperta che puzza pure e stare con mio fratello. Anche se domani ci prenderemo a schiaffi di nuovo. Adesso stiamo bene e voglio star bene il più possibile. Non me lo merito, forse?
Axl annuisce e va in camera sua, chiude silenziosamente la porta.
“Ma alla fine vorresti sapere chi sono i tuoi o no?” mi sussurra Jeff.
“Non lo so” ammetto io, pensando alle conseguenze che quella scoperta scatenerebbe in me.
 
“Ma perché tu vieni sempre a imbucarti in mezzo al niente?” mi spaventa la voce di Steve, che non avevo sentito arrivare. Apro gli occhi, comincio subito a lacrimare a causa di tutta quella luce che non mi aspettavo. Devo aver preso sonno.
“Che ore sono?” chiedo mettendo a fuoco il viso di Steven circondato da quella massa informe di capelli, che in controluce sembrano un’aureola.
“Bo, le quattro e qualcosa. Perché te ne sei andato?”
Mi metto a sedere, lasciando che anche il nanetto si accomodi sulla sdraio. Mi strofino gli occhi e fisso un punto a caso davanti a me.
“Sei tornato da neanche un giorno e siamo già a urlarci dietro. Forse è ora di chiudere tutto. In fondo sono quasi tre anni che ci proviamo e non è mai successo niente. Cioè sì, siamo bravetti, e basta. Litighiamo tutti i giorni…”
Steven mi blocca prima che io possa dire altro.
“Abbiamo vent’anni e gli ormoni che girano, è normale che ci incazziamo per niente. E poi la convivenza forzata non è mai cosa facile. Se vuoi prenditi un po’ di tempo, non lo so. Ma non mollare tutto. Sarebbe da idioti. Io me ne sono andato via due giorni e mi avete già rimpiazzato. Non voglio che ti trovi con niente in mano pure tu”
Mi volto e guardo quella chioma bionda, che incredibile ma vero ha detto una cosa sensata. E pure commovente.
“Ci penserò” chiudo io e mi avvio verso casa, seguito da Steven. Chissà come sta Jeanette.

 
“Usciamo stasera? Ho bisogno di distrarmi” butto l’idea di colpo. Tutti i presenti in salotto mi guardano, ma alla fine solo Duff raccoglie la mia idea. Duff che non ha ancora detto una parola da quando è rientrato a casa.
 
Ma che cazzo mi invento di uscire con lei se non le parlo neanche perché ho paura di farla star male? Lei sorride tutta contenta di aver trovato un accompagnatore e si chiude in bagno, sfrattando Steven, che rimane molto poco contento della cosa.

 
Non so perché abbia così tanta voglia di uscire. E’ solo che voglio perdermi per un po’ e pensare ad altro. A stare abbracciata con Jeff mi viene solo più depressione. Faccio scorrere l’acqua della doccia e la scopro calda. Il karma mi sta ricompensando. Mi lavo con calma, godendomi il sapone al cioccolato che avevo comprato l’altro giorno al supermercato. E’ buonissimo, mi attacca ancora di più la voglia di dolcezza.
 
Sento il telefono suonare e la vocetta di Steve rispondere. Come ogni volta. In tre anni qui si sono fissati dei compiti che ci resteranno per sempre, temo. Steven risponde al telefono, apre la porta, lava i piatti, pulisce, tenta di fare la cena, ordina la pizza dopo che ha bruciato l’ennesima pentola. Io… io non faccio niente. Scrivo le canzoni, ecco, forse è quello il mio compito. Anche se ultimamente non ho fatto niente. Non che mi manchi l’ispirazione, mi manca la voglia. Anche perchè l’ispirazione è un discorso di comodo. Quella ti viene se ti metti di fronte al foglio e ti spremi le meningi, non se sei felice allegro incazzato e via dicendo. Ti metti di fronte al foglio bianco e lo scarabocchi finchè non ne viene fuori qualcosa di buono.
“Axl vieni al telefono” mi urla Steven, interrompendo tutte le mie riflessioni e quelle quattro note in croce che avevano cominciato a girarmi in testa. Afferro la cornetta e rispondo bruscamente.
“Il gruppo della serata ci ha mollati, non è che potete venire voi? Vi abbiamo sentito al concorso giorni fa e ci siete piaciuti”
”Con chi è che parlo?” chiedo riluttante. Organizzare un concerto di corsa non è una cosa tanto rilassante, manca solo che andiamo a suonare in una catapecchia.
“Sono l’organizzatore della Whisky a gogo, non so se conosci il posto”
Spalanco gli occhi e quasi caccio un urletto. Non ci penso neanche a cosa dire a quesdto tizio.
“D’accordo, certo, stasera” balbetto quasi, troppo eccitato dall’idea di suonare lì.
“Alle undici. Ciao belli” mi saluta l’uomo, che riattacca. Io sono ancora con il ricevitore in mano e la bocca spalancata.
“Chi era?” chiede incuriosito Duff.
“Stasera si suona alla Whisky e gogo” informo tutto contento.

 
Mi arriva alle orecchie il nome di un locale, ma non sono sicura di averlo capito bene. Non perché non ci senta, ma perché è impossibile che i ragazzi abbiamo un ingaggio là. Faccio capolino dalla porta del bagnoe li trovo tutti a festeggiare.
“Dov’è che suonate?” urlo da sopra il casino degli ordini che Axl da ad ognuno.
“Whisky e gogo” mi risponde lui con un sorriso da un orecchio all’altro. Allora avevo capito bene. “Mi dai il numero del batterista che abbiamo chiamato l’altra volta?”
“Cosa?” chiedo io, sbigottita. Ho riportato Steve a casa per miracolo, col cazzo che faccio tornare Vince.
“Massì, il biondo, quello che ti sta in culo”
“Appunto. Mi sta in culo” concludo e chiudo la porta del bagno, intenzionata a riaprirla il più tardi possibile. Per sicurezza faccio pure girare la chiave nella serratura.
Mezzo minuto dopo, sento bussare sul legno scuro.
“Jeanette, apri subito” mi ordina Axl. Piuttosto preferisco restare in questo bagno per sempre, rosso.
“O fate suonare Steve o non si fa niente” Altri colpi sulla porta, vedo la maniglia che si abbassa. E’ chiusa a chiave, cretino.
“Dai, ti rendi conto di che locale è? Ti rendi conto che è la nostra occasione?”
“Ma occasione cosa? Suonate in playback con un batterista che non conoscete neanche, ti pare che così riuscirete a fare qualcosa? E poi, non potrete tenervi Vince per sempre, Steve deve tornare”
“No. Ci penseremo in un altro momento, a chi farà il batterista. Sono le sette, Jeanette, dobbiamo essere là per le undici. Apri questa cazzo di porta”
“Arrangiati” urlo più forte di lui, vincendo la conversazione. Spero.
Appoggio le mani al lavandino e abbasso la testa, evitando di guardarmi allo specchio. Torno a pensare a come sia cominciata la mattinata, alla tristezza infinita che ho provato ad un certo punto. Al punto nel quale mi sono resa conto di non aver neanche un amico. Di essere sempre stata un peso per tutti.
 
Vado in salotto e frugo un po’ nella mia borsa, prima di porgere il famoso foglietto dei numeri ad Axl. Lui mi guarda un attimo stranito da quel gesto, prima di mormorare timidamente: “L’ho già chiamato”
“A posto allora” commento io rattristita. Mi ascoltano tutti, insomma.
“E quindi stasera si esce per forza” è l’accoglienza di Duff quando entro in cucina, ancora con l’asciugamano addosso. Annuisco debolmente, è stata una pessima idea ripensare a quella mattinata.
“Ti serve una mano?” chiedo a Jeff, che sta tentando di mettersi a posto le fasciature di finaco a uno Slash con lo sguardo piantato sul suo polso, con un’espressione persa.
“Magari è meglio” risponde lui. Mi avvicino e lentamente gli sistemo le garze, che lui si era arrotolato alla buona intorno alla ferita. Un brivido mi percorre a vedere tutta la pelle tirata ma soprattutto, a vedere quella cicatrice quasi scomparsa, ma che nella coscienza c’è ancora. E ben visibile.
“Ti fa schifo?” mi domanda, vista la mia faccia che deve aver assunto una brutta piega. Scuoto la testa.
“E’ più la cicatrice sotto a farmi schifo”
Jeff sorride un po’.
“E’ tutto a posto”
Finisco di sistemare le fasciature e vado in camera dei biondoni a vestirmi, passando dal salotto raccolgo una delle varie borse dove tengo i vestiti. La rovescio sul letto e passo in rassegna tutti gli indumenti. Opto per il vestitino rosso che avevo la sera del loro primo concerto, o meglio, del primo concerto che ho visto io. Spero che non porti male di nuovo. Mi infilo il vestito e apro tutti gli armadi in cerca di uno specchio, ma trovo solo un disastro indecente. Chiudo velocemente le ante e vado in bagno, dove Axl si atava pregustando una doccia calda.
“Bussare?”
”Scusa, ci metto un attimo” dico distrattamente, mentre mi esamino allo specchio. Sono ingrassata. Merda.
Mi metto di profilo, appoggio una mano sulla pancia. Provo a tirare gli addominali e a rilassarli. Quella maledetta pancia piatta per cui ho lottato per anni se n’è andata. Quando finalmente guardo qualcos’altro che non sia il mio riflesso, noto il rosso che mi fissa impaziente.
“Finito?” mi chiede scocciato.
“Guardami. Sono ingrassata. Sono una balena. Sono brutta. Io stasera non vengo” dico tutto d’un fiato, prima di togliermi il vestito e ricominciare ad osservare quella pancetta che probabilmente vedo solo io.
“Ma dove sei ingrassata? Nel cervello, sei ingrassata. Guardati. Cazzo, sei stupenda. Rimettiti quel vestito e lasciami fare la doccia”
“No. Guarda. Tocca” porto velocemente le mani di Axl sulla mia pancia. “Senti?”
Forse è stata una pessima idea. Perché non è che a lui interessi tanto della mia pancetta. Più che altro gli interessa tutto il resto. Le sue dita ghiacciate si muovono veloci, passando sopra il mio ombelico e arrivano sulla schiena. Un brivido mi percorre tutta, sia per le mani fredde che per la sorpresa. Lui preme di più, graffia tutta la pelle pallida fino ad arrivare all’orlo delle mutandine, con cui giocherella un po’. Mi bacia, prendendomi alla sprovvista pure su quello. Tutta la giornata è stata una sorpresa. Io sono stata adottata. Solo adesso riesco a rendermene bene conto. Adottata. Quella donna che ho chiamato mamma in realtà non era la persona che pensavo. Io sono un pezzo di qualcun altro. Da qualche parte c’è qualcuno di simile a me, che mi avrebbe potuta capire, aiutare, tirare in salvo mentre stavo mandando la mia vita a puttane. Qualcuno con i miei stessi occhi neri e le mie stesse dita sottili. Magari li ho pure visti qualche volta, passando per la strada. Magari invece abitano dall’altra parte del mondo e si sono già dimenticati il nome della bambina che hanno avuto ventisei anni fa. Come mi chiamo?
Il gancetto del reggiseno che si apre, graffiandomi, mi riporta al presente. Alla situazione di adesso. Situazione che si è creata dopo il collegio, un giro a caso per l’America, un altro giro per l’America in un bus, una porta sbattuta in faccia e la scoperta di non essere chi credevo fossi. Tutte queste cose, sommate, mi hanno condotta ad una scopata con un rosso con una voce presumibilmente donatagli da qualche buon santo. Che schifo che fa la vita.
Fermo Axl prima che il reggiseno scivoli giù dalle spalle e, incurante delle sue lamentele, gli ordino di farsi la doccia e concentrarsi per il concerto. Anche se alla fine fa solo finta di cantare, non deve nemmeno fare la fatica di ricordarsi le parole.
 
Jeanette era entrata in bagno con un vestito e ne è uscita in intimo. Incredibili, gli effetti di questa casa. Si dirige verso la mia stanza, fermandosi però a metà strada e guardandomi. Apre le braccia.
“Secondo te sono ingrassata?”
Scuoto la testa. Scusa, ho ventidue anni, gli ormoni che girano, per dirla come Steve, e tu stai mezza nuda a chiedermi se sei ingrassata?
“Sei perfetta” la rassicuro lasciandola andare, prima che il mio autocontrollo mi sfugga di mano.
Lei si chiude in camera. Nella mia. Tutto è contro di me. O a favore di me, dipende dai punti di vista. E’ solo che non mi va di saltarle addosso oggi. Cioè, se io scoprissi che tutte le mie certezze erano false, non avrei tanta voglia di limonarmi qualcuno. E quindi la rispetto. Di tutt’altro avviso è Axl, che dopo un po’ esce dal bagno tutto soddisfatto. Ho paura che il vestitino rosso non si sia tolto per magia.
 

Faccio in tempo ad uscire dal bagno e prendermi una squadrata da Duff che bussano alla porta.
“Apri tu” ordino al biondo, che mi risponde con un sonoro sbuffo. Si alza e si dirige verso il portone, ma non fa in tempo ad arrivarci che il nostro pseudo-batterista è già entrato, seguito dal suo profumo che soffoca e dalla sua aria di arroganza, che soffoca quanto il profumo.
“Ciao” saluto distrattamente io. Vado in camera e mi vesto, do un’occhiata alla sveglia sulla scrivania. Quasi le nove.
“Jeff” urlo. Nessuno mi caga. Le grida di una litigata cominciano ad arrivare dal salotto. Dio santo, Jeanette, chiudi quella bocca che usi sempre a sproposito. Mi butto sul letto e mi porto le mani agli occhi. Perché è arivato così presto Vince? Perché sapeva che c’era la ragazzina a cui rompere le palle, probabilmente.
“Mi avevi chiamato?” irrompe la voce di Jeff, che mi fa tirare un sospiro di sollievo. Una persona che non va fuori di testa per niente. Almeno una.
“Come va il polso?” butto un arogomento a caso, pur di parlare e non sentire la vocetta di Jeanette che strilla contro Vince, che come estensione vocale non è messo affatto male.
“Bo, bene… cinque giorni e dovrebbe essere finito tutto, si spera” risponde guardandosi la fasciatura bianco panna.
“Speriamo passino in fretta. Qua ogni giorno è un casino nuovo. La guerra civile” commento, premendo di più le mani sugli occhi.

 
Duff si è rintanato in cucina da Steven appena è entrato il biondo platino, Slash ha saggiamente deciso di farsi una doccia. Io invece sono uscita a salutarlo. E a chiarire un po’ di conti che avevo lasciato in sospeso.
“Ma tu perché non sei rimasta con gli Aerosmith? E’ un po’ che me lo chiedo” è stata la sua accoglienza. Potrebbe sembrare una semplice domanda amichevole, alle orecchie di qualcuno che non sa tutta la storia. Ma sia io che lui la sappiamo perfettamente, l’abbiamo vissuta da protagonisti.
 
“Ma non puoi rimanere un’altra sera?”
“No, Vince, devo tornare. Steven non si fa tanti problemi a darmele se non torno quando dice lui”
“E allora resta. Qua ti tratto sicuramente meglio di come ti tratta lui. Tanto ha altre centomila ragazze. Non ti fai più vedere e sei a posto, nel giro di una settimana si è dimenticato di te”
“Non posso”
“Non è che se lui ti dedica una canzone o ti fa un tatuaggio siete sposati ufficialmente, eh”
“Non me ne frega, mi ha dato delle regole e io le voglio rispettare”
“Trovati un’altra scusa, che delle regole a te non te ne è mai fregato niente”
Sbattei la porta e uscii, diretta all’appartamento degli Aerosmith. Sapevo di essere la preferita di Vince non solo per le mie tette, lo sapevo perfettamente. Ma ho sempre pensato che l’amore non serva a niente, quindi meno gli stavo intorno meglio era.
 
Il giorno dopo Steven mi lasciò per strada. E io preferii chiamare mio fratello piuttosto di subire l’umiliazione di ammettere di avere torto.
“Taci” sibilo io, convinta di aver chiuso l’argomento. “Piuttosto, perché tu continui a venire qua con i ragazzi? Non hai il tuo gruppo?”
“Lo sai perfettamente perché vengo”
Abbasso la testa e tento di andare in cucina. Perchè tutti si dileguano nel momento del bisogno? Io non ci voglio stare da sola con questo qui. Lui mi afferra per un polso. Mi giro e lo guardo negli occhi, tentando di liberarmi da quella presa.
“Tu piaci a tutti perché fai la puttana, ma hai idea di quanta gente conosce veramente il tuo carattere? Hai idea di quanta gente potrebbe apprezzarlo?”
“Perché, a te piace il mio carattere di merda? Bè, mi dispiace, ma è proprio lui che mi impedisce di essere dolce e carina” gli rispondo quasi urlando. Vince mi molla, ma la guerra è appena iniziata. Si prevede una cosa molto lunga e violenta, temo.
“Hai mai notato che il rosso ti guarda solo le tette?”
“Sì, l’ho notato, e ho notato pure che anche se è un deficiente è sempre meglio di te. Perché almeno quando gli dico basta la smette. Tu invece sei ancora qua a venirmi dietro nonostante ti urli dietro ogni volta che ti vedo”
“Ne riparliamo, d’accordo?” mi dice lui, gli occhi ormai ridotti a due fessure.
“No. Ne parliamo adesso. Abbiamo ore per parlarne”
“Non ho voglia adesso”
”Perché sai che perderesti. Hai torto, basta”
“Trovatevi un altro batterista” urla rivolto alla cucina, dalla quale Duff e Steve ci stanno spiando in modo piuttosto palese.
 
Mi alzo velocemente dal letto e mi fiondo in salotto, mentre la testa continua a girare a causa dello scossone. Riesco a bloccare Vince appena prima che esca, lo prego di restare. Almeno per stasera.
“Dillo a lei” mi risponde indicando Jeanette con un cenno del capo. Le rivolgo un’occhiata di rimprovero, la più morbida possibile. Non voglio farla incazzare. E non voglio perdere l’unico che mi ha detto ok per far finta di suonare con noi.
“Adesso aspettiamo che Slash finisce di farsi la doccia e andiamo, ok? Jeanette, va in cucina”
Lei sbuffa e va dove le ho detto io, accolta da Duff e Steven, che la tempestano di domande a cui lei non da una risposta.
Mi butto sul divano, seguito da quella specie di batterista. Accendo la tv, passano una canzone degli Aerosmith.
 

Dal salotto mi arriva alle orecchie Sweet Emotions. Sbircio il televisore dalla cucina, sullo schermo Joe che cazzeggia con la sua Gibson. Vince si gira e mi rivolge un’occhiata alla ‘Te l’avevo detto’. Gli faccio una smorfia e mi volto, apro il frigo in cerca di qualcosa di buono. Cioccolato. Un sorriso mi si allarga sul viso quando ne mordo un pezzo.
 
Slash si decide ad uscire dal bagno alle undici meno un quarto, tra i rimproveri di Axl. Non voglio neanche pensare a cos’abbia fatto lì dentro per due ore. MI alzo dalla sedia e vado in camera a prendere il basso, per poi scendere in garage. Vengo seguito da tutti gli altri, che buttano i rispettivi strumenti nel bagagliaio.
“Siamo in sette” ci fa notare Jeanette.
“L’auto ha cinque posti, basta e avanza” commenta Axl inacidito dalla piega che ha preso la serata. “Vince davanti, il più lontano possibile dalla moretta”
Steven si sistema sulle gambe di Slash e Jeanette su quelle di Izzy. Axl è incastrato sul sedile in mezzo. Sembriamo quegli immigrati che cercano un posto migliore dove vivere.
“Qualcuno sa dov’è il posto?” chiedo, rendendomi conto di non avere la minima idea di dove sia.
“Io ci so arrivare da Beverly Hills” risponde Vince.
“Perchè da Beverly Hills?” si intromette Jeanette, che non ha ancora capito cosa vuol dire il verbo tacere.
“Perché sì”
 
Già arrivare a Beverly Hills è stata lunga, adesso Vince viene a dirci che non si ricorda bene ma saranno qualcosa tipo quaranta minuti.
“E adesso ce lo dici?” perde la pazienza il rosso. “Dovevamo essere lì alle undici, cazzo. Che ore sono?”
“Mezzanotte meno un quarto” dico io, svoltando a sinistra come mi ha appena detto il batterista.

 
 
 
Ciao *saluta timidamente*
Non dico niente, non lo merito. Spero che il capitolo piaccia almeno a voi, perché a me sinceramente fa schifetto. Mi dileguo subitissimo, un bacio.
Euachkatzl

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Capitolo 16
*** Sedicesimo giorno ***


 
Arriviamo in questo benedetto locale quasi all’una, data la grande memoria di Vince che, arrivati a West Hollywood, si è reso conto di aver avuto in testa il tragitto per il posto sbagliato.
“Ah no, è dalla parte sud di Los Angeles” ci ha detto tutto tranquillo. Fortuna che Slash era schiacciato sotto a Steven, altrimenti dello pseudo-batterista sarebbe rimasto ben poco.
Duff molla la macchina di fianco alla porta sul retro dell’edificio, proprio davanti al cartello di ‘sosta vietata’, al quale faccio caso solo io.
“Ma non possiamo metterla qui”
“I cartelli sono solo per bellezza” chiude sbrigativamente Slash che, dopo una bestemmia molto poco elegante, recupera la chitarra dal bagagliaio e si lancia con gli altri verso la porta. Io e Steven li seguiamo con calma, in fondo non siamo noi quelli con due ore di ritardo.
Axl apre la porta e si ritrova davanti ad un omone con dei folti baffi neri.
“Siamo i Guns n’ Roses” balbetta il rosso con una vocetta stridula, un po’ impressionato da quella figura che, con le braccia incrociate al petto e una faccia non molto contenta, incuterebbe timore a chiunque.
“Alla buon’ora. Avete presente che il vostro concerto sarebbe finito adesso? Abbiamo dovuto improvvisare una serata di cabaret per colpa vostra. Spero per voi che siate bravi, altrimenti potete anche buttare le chitarre nel cassonetto”
Tutti cominciamo a sudare freddo. Pure io. Perché so perfettamente che quelli che lavorano qui non sono stupidi e che sarò io a dover trovare una scusa credibile per far partire il disco del playback.
I ragazzi entrano ordinatamente, sotto l’occhio vigile del signore, che supera Duff di una manciata di centimetri.
“Ma quanti siete?” chiede proprio mentre gli sto passando affianco, facendomi sobbalzare.
“Non suoniamo tutti, io sono un’amica” rispondo veloce, ottenendo una squadrata ma niente di più. Per fortuna.
“Vi do dieci minuti per collegare gli strumenti, poi se non cominciate a suonare vi prendo a calci in culo”
Arriviamo dietro le tende pesanti del palcoscenico. Ognuno sistema in fretta cavi, amplificatori, portafortuna, lacci delle scarpe. Axl si avvicina a me e mi porge il disco. Lo guardo con un’espressione supplicante.
“Avete Steven, che bisogno c’è di fare il playback?”
“C’è. Vai e vedi di non farti sgamare”
Ah, io non dovrei farmi sgamare? Non lui che fa finta di cantare, ma io. Cioè se li scoprono magari da pure la colpa a me. Mi avvicino al signore che ci aveva accolti, con un’incazzatura che sale vertiginosamente.
“Scusa…” lo chiamo dal basso del mio metro e settanta. Lui si gira di colpo e mi guarda strano.
“Sì?”
“Se puoi mettere su questo disco… E’ una base…” gli porgo il cd, sperando che vada tutto bene e lui lo faccia partire. Il signore lo prende e se lo rigira un po’ tra le mani, riflettendo sul da farsi.
“Fosse per me, prenderei le chitarre e vi costringerei a suonare senza” sbuffa, andando verso una console enorme.
“Sarebbero bravi lo stesso” mi lascio sfuggire, per poi dileguarmi rendendomi conto di cos’ho appena detto.
Axl mi guarda incerto quando torno sul palco. Gli faccio un cenno d’assenso con la testa mentre mi avvicino, ma l’unico con cui voglio parlare è Jeff.
“Ce la fai?”
“Certo” mi sorride lui, mostrandomi una serie di movimenti macchinosi ma almeno credibili. Sbuffo. Non mi va giù questa cosa, sia perché non voglio che continuino a fingere sia perchè ho il presentimento che questa sarà l’ultima volta.
Vince arriva tranquillo con una bottiglia di birra in mano, ne beve un ultimo sorso e la lascia in un angolo per venire a romperci le scatole.
“Non mi dai il bacetto portafortuna?”
Lo guardo più storto che posso e Jeff fa lo stesso.
“Quando la smetterai di romperle le palle?”
Vince fa spallucce e va al suo posto dietro la batteria. Anche se io lo manderei volentieri in un altro, di posto.
“Allora siamo pronti, Steven e Jeanette sloggiare per favore” ci ordina molto poco gentilmente il rosso, che continua a rigirarsi il microfono tra le mani.
“Si può anche chiedere gentilmente” ribatto acida. E’ l’una di notte e già non vedo l’ora che finisca questa giornata. O almeno questo concerto.
Trascino Steven al bancone e ordino il primo cocktail della serata, che di sicuro non sarà nemmeno l’ultimo. Butto giù tutto d’un fiato, sotto gli occhi un po’ sorpresi del biondo.
“Che c’è? Sono nervosa, bevo”
Lui scuote la testa, dice qualcosa che non riesco a sentire da sopra il casino della musica. Registrata. Poco sgamabili, a partire senza neanche una parola. Axl continua a sculettare dietro l’asta del microfono, facendo finta di cantare quel testo così spinto quanto velato. Dietro tutte quelle parole c’è la vita che stiamo facendo, il sogno della città degli angeli brutalmente infranto appena ci abbiamo messo piede.
Al quarto bicchiere Steve decide che ho bevuto abbastanza, anche se io sarei rimasta volentieri lì per tutta la durata del concerto. Mi prende per mano e mi accompagna sulla pista e, scalciando e pestando qualche piede, arriviamo fin sotto il palco. Mi ritrovo davanti alle caviglie di Slash, che a quanto pare non ci ha messo molto a levarsi la maglietta e far partire qualche fantasia poco casta nelle menti di un paio di ragazze. Canticchio distrattamente la canzone che stanno suonando, anche se non sono molto sicura del testo. Canto un po’ a caso, completando le parole che sento.
“Non possiamo andare da qualche altra parte? Mi annoio, qui” urlo diretta a Steve, che non risponde. Mi volto e mi accorgo che non c’è. Al mio fianco una rossa si agita urlando qualcosa rivolto a Duff.
Con immensa difficoltà, riesco ad uscire dalla massa di gente nella quale mi ero incastrata e trovare la porta per i corridoi che si snodano sul retro del locale.
“Scusa?” mi chiede una voce alle mie spalle. Sobbalzo e mi preparo ad inventare una scusa decente per spiegare la mia presenza dietro le quinte. So benissimo che in questo posto non vedono di buon occhio quelli che girano a caso per i locali posteriori. E’ già successo qualche casino, e in quel casino c’ero anch’io.
“Sì?” rispondo, girandomi lentamente. Fortunatamente, il mio interlocutore non è quell’omone che ci aveva accolti alla porta. E’ un ragazzo che avrà più o meno la mia età, con addosso una tuta da ginnastica che lascia intuire che non sia venuto qui per passarsi la serata.
“Jeanette, giusto?”
“Sì…”
“Ne è passato di tempo, eh?”
Annuisco distrattamente e scruto il volto di quel ragazzo. Mai visto. Buio totale. Lui mi sorride e mi porge la mano.
“Non credo che mi conosci. Lavoro qui da un po’, da quando è venuto fuori quel casino…”
“Non me ne parlare”
“Sì, ormai eri una presenza fissa qui. Per le carte e tutto…”
Annuisco nuovamente, non mi va molto di fare conversazione. E soprattutto su questo argomento.
“Senti, posso andare dietro al palco? Quelli che suonano sono miei amici”
“Certo. Basta che non ti fai trovare in giro per i corridoi o nei camerini”
Mi dileguo velocemente, diretta al palco mentre mi gira in testa la voce di Joe che chiede cosa potrebbe succedere a mettere un fiammifero acceso in una bottiglia di vodka.  
 
Sarà più di un’ora che suoniamo. Fa un caldo assurdo e il basso comincia a pesare. Lancio un’occhiata ad Axl, che sta sculettando come suo solito. Mi nota e scuote la testa. Ma cazzo, sto morendo. Anche perché, al contrario di lui che muove la bocca a caso, io devo cazzeggiare con sta cosa da cinque chili appesa ad una spalla. Attiro di nuovo l’attenzione del rosso che, scocciato, mi fa un gesto con la mano. Mi viene una voglia assurda di picchiarlo davanti a tutti.
 
Mi piacerebbe andare da Duff e tirargli due sberle in piena faccia. Non so se ha notato che anche se mi fermassi la musica andrebbe avanti lo stesso. Ci vorrebbe qualcuno a fermare il disco. La moretta. Che va sempre a nascondersi quando serve. L’avevo vista giù dal palco qualche minuto fa e già non c’è più. La cerco un po’ tra la folla, ma tra il buio e la moltitudine di teste che riempie il locale non riesco a trovarla. Guardo le facce degli altri, tutti mi chiedono silenziosamente una pausa almeno per un sorso di qualcosa. E a quel punto vedo Jeanette, in piedi appoggiata ad una colonna appena fuori dal palco. La fisso un po’, finchè non se ne accorge. Mi rivolge uno sguardo interrogativo, anche se sa perfettamente cosa le devo chiedere. E infatti, mezzo secondo dopo, mi fa un deciso segno di no con la testa.
“Subito” mimo con le labbra, stando attento a non farmi notare dal pubblico, che però mi sembra abbastanza rimbambito dagli addominali che Slash mostra con molta poca modestia.

 
Torno nel corridoio di prima e vado alla console dove l’omone che ci aveva accolti aveva inserito il disco. Mi guardo un po’ intorno. Nessuno. Tranquillamente, aspetto che finisca Mama Kin, godendomi tutte le parole, che ho ascoltato fino alla nausea. Steven amava quella canzone e ogni volta che la cantava la interpretava da Dio. Lui non le eseguiva, lui dava un carattere alle canzoni. Poteva cantarti Walk This Way e fartela sembrare una cosa romantica, se avesse voluto. Gli acuti di Axl non erano nulla in confronto. Le note finiscono e in fretta stacco la console, prima che parta la canzone dopo. Mi guardo intorno un’ultima volta, mi assicuro che non ci sia nessuno e torno dai ragazzi, che hanno già agguantato un paio di bottiglie e si stanno gustano la pausa.
“Allora, come stiamo andando?” mi chiede Slash, porgendomi la bottiglietta di Jack che tiene in mano.
“Bene. Sembrate registrati” la butto lì io, già con la mente proiettata al momento in cui dovrò far ripartire la console. Mi da un’ansia assurda, il pensiero che i ragazzi possano essere scoperti. O meglio, che io possa essere scoperta. Perché non ho voglia di prendermi un’altra lavata di capo dal proprietario del locale, che a quanto pare è sempre lo stesso. Sorrido bevendo un sorso di whiskey, mentre ripenso amara alle scuse assurde che Joe e Steven architettarono per convincere me e una mia amica a prenderci la responsabilità di tutto. Due ventenni che avevano dato fuoco al locale. Non che gliene fosse importato molto al proprietario, a lui bastava qualcuno su cui sfogarsi.
Parte il riff di Sweet child o’ mine. Istintivamente chiudo gli occhi, quella melodia è una cosa bellissima. Poi ricollego il cervello.
 
Quasi mi strozzo con la birra a sentire le prime note di Sweet child o’ mine. Guardo Slash, è in piedi di fronte a me. E’ impallidito. Anch’io devo avere più o meno quel colorito. Persino Axl è sbiancato, per quanto il colore della sua pelle gli possa permettere. Ha la bocca mezza aperta, sta indicando il palco, incapace di spiccicare parola.
“Ditemi che c’è qualcuno che sta suonando al posto nostro” balbetta Jeff.
“Vi hanno scoperti, ragazzi. Buona fortuna” se la ride Vince. Nessun problema per lui, che di sicuro non farà una figura di merda colossale.
“No aspetta, anche tu eri su quel palco e anche tu ti prendi la responsabilità” lo ferma Jeanette prima che lui se ne vada.
“Perché? Io ho il mio gruppo e non suoniamo certo in playback. Se loro hanno voluto fare sta cazzata si beccano le conseguenze”
La moretta sbuffa, ma nulla di più. Non è il momento più adatto per fare la guerra, questo. Tutti stiamo pensando ad una scusa plausibile per salvarci dal casino in cui verremo coinvolti a minuti. Alzo gli occhi e vedo un tipo dall’aria piuttosto infuriata che ci viene incontro e mi rendo conto che più di minuti, è meglio parlare di secondi.
 

Un uomo vestito troppo bene per essere un cliente si avvicina a noi, che istintivamente abbassiamo la testa e diciamo quante più preghiere possibili.
“Buonasera” ci saluta con un tono pacato, che ho come l’impressione non durerà a lungo. Nessuno risponde. Ho paura tocchi a me.
“Salve” mormoro con la gola secca. E’ la fine di tutto. Dei Guns, della mia bella voce, della vita alla cazzo che conduciamo.
“Avete una spiegazione valida o è quello che penso io?”
Mi limito ad annuire, non riuscendo a elaborare una risposta decente.
“No, c’è un motivo se hanno fatto sta roba” si intromette Jeanette, che non ha ancora in testa i momenti in cui può parlare e quelli in cui può solo tacere.
“Sentiamo”
“Il chitarrista ha un polso steccato, non può suonare in queste condizioni e quindi hanno dovuto ripiegare sul playback perché non potevano perdere un’occasione del genere”
“Stai andando fuori allenamento, la scusa che ti eri inventata per l’incendio era più credibile”
Guardo Jeanette, dimenticandomi all’improvviso di cos’è appena successo.
“Incendio?” mi assicuro di aver sentito bene. La moretta ha dato fuoco ad un locale e io la tengo in casa mia?
Lei mi fa un cenno distratto con la mano, poi punta gli occhi in quelli del signore, assumendo di colpo uno sguardo da cucciolo bastonato.
“Non è una scusa. E’ la prima volta che lo fanno ed è stato architettato tutto in fretta e furia. Non volevano prendere in giro nessuno, è che in quel momento è parsa l’unica soluzione fattibile”
L’uomo sbuffa e con un cenno della testa indica la porta.
”Non vi faccio pagare i danni solo per la faccia tosta della ragazza, ringraziatela. Ma sappiate che avete finito di suonare. O qualsiasi cosa facciate”

 
Torniamo sul palco e raccogliamo gli strumenti il più velocemente possibile, tra i fischi dei clienti non proprio soddisfatti della piega che ha preso la serata. Loro, non sono soddisfatti. E noi che dovremmo dire? Mi si secca la gola al pensiero che tutti collegheranno il nostro nome all’etichetta ‘Quelli che suonano in playback’. Che ci collegheranno pure il mio, di nome. “Duff McKagan, il bassista, quello che suonava in playback”. Tutti faranno questo ragionamento, da quelli che mi vedono per strada e riconoscono i miei capelli cotonati a quelli a cui chiederò di suonare insieme. Nessuno mi vorrà più. E io ho sprecato tutte le mie forze per un sogno che finisce ancora prima di cominciare. Guardo Jeff, che aiutato da Slash sta mettendo la chitarra nella custodia, entrambi con una faccia scura. Nera.
 
Axl mi prende per mano ed esce dal locale. Lo seguo ubbidiente, non deve essere un gran bel momento per lui. E per tutti. E neppure per me, ad essere sinceri, ma tento di pensare il meno possibile ai miei problemi. Arriviamo alla macchina, lui tira fuori le chiavi e, senza battere ciglio, sale e accende il motore.
“Vieni o ti faccio così tanto schifo?” mi chiede fissando il volante. Salgo e partiamo, lasciando gli altri a piedi. Poco importa, ormai. La faccia di Axl rappresenta alla perfezione quella di tutti. Un misto tra lo sconforto e i mille dubbi. Non spiccico parola per tutta la strada. Penso. La mia mente lavora frenetica, alternando lampi di genio ad autorimproveri. Mi chiedo cosa faremo adesso. Anche se probabilmente non sono io quella che si dovrebbe porre tutte queste domande.
 
Mi chiedo cosa faremo adesso. Adesso nel senso dell’immediato, ovvio, ma anche nel senso di un domani. Io non ho mai voluto fare altro nella vita. Mi ricordo di quando Jeff a scuola mi disse che sapeva suonare la chitarra. Sorrido amaramente. Dovevamo ancora presentarci e già eravamo convinti di poter sfondare e diventare uno di quei gruppi leggendari che senti alla radio. Uno di quelli di cui si vocifera quando non si hanno altri argomenti di conversazione. Stupenda, la vita. A ventiquattro anni ti ricorda gentilmente che è il momento di tornare con i piedi per terra, facendoti notare che stai perdendo tempo e che di tempo ne hai ben poco.
Blocco l’auto in mezzo alla strada. Tanto nessuno passa per questo quartiere in piena notte. Qualche ubriaco che torna a casa, probabilmente. Il silenzio regna insieme al buio, rotto dai fari dell’auto. I pochi lampioni disseminati per i marciapiedi sono spenti, qualcuno perché rotto con qualche sassata, qualcuno perché nessuno si è mai curato di accendere questa zona della città. In fondo, fa talmente schifo che è meglio resti al buio.

 
“Dove siamo?” chiedo, scrutando incuriosita fuori dai finestrini. Non ottenendo risposta, guardo Axl. Ha appoggiato la testa al volante. I capelli rossi gli scivolano morbidi sul viso, impedendomi di scorgere la sua espressione, della quale tuttavia ho un preciso ritratto in mente. Sto a fissarlo inerme. Non trovo niente da dire. Io, che ho sempre la risposta pronta. Io che non metto mai a freno la lingua, nell’unico momento in cui dovrei parlare taccio. Qualcuno bussa sul finestrino, facendomi quasi morire per lo spavento. Guardo fuori e scorgo un sorriso tirato nell’oscurità e una mano aperta appoggiata al finestrino. Un negro che chiede qualche soldo. Tento di dissuaderlo dalle sue intenzioni con un gesto sbrigativo della mano, ma lui proprio non ne vuole sapere. Continua a bussare, sempre più forte. Axl apre il finestrino.
“Pezzo di merda, vattene e non rompere i coglioni. Non è una buona serata questa”
Il nero si gira e urla qualcosa in un dialetto stretto, di sicuro non di questa zona. Sento battere anche al mio finestrino e vedo altri due uomini, con un’espressione decisamente meno compassionevole del primo.
“Cazzo Axl, parti” quasi urlo, terrorizzata. Axl sta tentado di chiudere il finestrino il più velocemente possibile, ma il nero ha già messo un braccio all’interno e sta provando a fermarlo. Strattono Axl verso di me, non so se più per assicurarmi che non si faccia male o perché ho paura. Sento gli altri due uomini smettere di battere sul finestrino e armeggiare nell’oscurità alla ricerca della maniglia. Se aprono la portiera siamo morti, cazzo. Non passa molto tempo che sento la serratura scattare e due mani prendermi per le spalle, tirandomi fuori dall’auto e gettandomi malamente a terra. Mi rialzo in fretta, ma con uno spintone mi rispediscono subito sull’asfalto duro. Scalcio a caso nel buio finchè non riesco a colpire la gamba di qualcuno, che non molto contento mi molla un ceffone in pieno viso. Sento il labbro inferiore pulsare violentemente e il sapore metallico del sangue in bocca. Istintivamente, sputo. Non oso pensare a cosa sia arrivato in faccia al tipo che ora sta a cavalcioni sopra di me, che per ringraziamento mi lascia un altro schiaffo, sulla stessa guancia, che dopo il secondo colpo comincia a formicolare. Sento il rumore di qualcosa che sbatte contro l’auto, neppure Axl deve passarsela tanto bene. Poi, un colpo sordo sulla lamiera. Metallico. Un paio di rumori del genere, finchè quel suono viene sostituito da un gemito del rosso. Chiudo gli occhi, tentando di ignorare sia il dolore che sento io che quello che sta provando il mio sfortunato accompagnatore. Scalcio e mi dimeno sotto il peso di quell’uomo che mi tiene ancorata a terra. Mi blocco quando qualcosa di freddo e affilato mi accarezza il collo, da dietro l’orecchio alla spalla. Mano a mano che il coltello procede verso il basso, il freddo del metallo lascia posto al calore del sangue. Resto immobile, un minimo movimento e mi ammazzo da sola. Sudo, improvvisamente il cappotto che porto sopra la canotta nera è diventato incredibilmente troppo pesante. L’uomo, quasi a leggermi nel pensiero, lascia cadere il coltello, presto raccolto da un suo collega, e mi sfila il cappotto con una facilità disarmante. Ricomincio a muovermi sotto di lui, a urlare, ma qualcuno mi tappa la bocca.
“Non toccatela, figli di puttana” sento la voce di Axl, seguita a qualche millesimo di secondo da uno sparo. Sbarro gli occhi. No. No, non può essere. Un altro. Il silenzio. I due uomini che mi tengono ferma guardano quello che tiene in mano la pistola, in controluce di fronte ai fari della macchina. Il profilo sottile di Axl appoggiato al cofano. L’uomo urla qualcosa e salgono tutti e tre in macchina, facendo una manovra improvvisata e sparendo in fondo al quartiere. Axl, non trovando più l’appoggio che aveva, cade a peso morto sull’asfalto. Mi alzo e, con la vista annebbiata e la testa pesante, arrivo fino a lui. Stramazzo a terra anch’io, infreddolita e persa. Abbraccio il rosso, che mi circonda le spalle e fa scivolare le sue mani sulle mie braccia nel tentativo di riscaldarmi, visto che quello stronzo si è fottuto il mio cappotto. Le dita di Axl sono incredibilmente fredde. Le luci di qualche casa cominciano ad accendersi, dei profili neri si stagliano contro le finestre, incuriositi. Sulla strada si proiettano tenui le nostre ombre, qualche colore comincia a definirsi. Axl tossisce. Macchie di sangue cadono sull’asfalto. Qualche serratura scatta, dei passi si avvicinano. Mi stringo più forte al rosso. Sento delle mani prendermi, di nuovo. Urlo, avvicino il viso a terra. Una coperta fredda viene appoggiata sulle mie spalle, un paio di persone mi sollevano di peso. Smetto di gridare e mi lascio accompagnare via. Tanto, ormai. Sento che mi portano dentro ad una casa, l’odore di gas che arriva da una stufetta e il tepore che provoca. Mi appoggiano su un divano soffice. Sento un parlottare concitato, che a poco a poco si affievolisce, lasciando spazio al silenzio.
 
Dopo che ci siamo accorti che Axl e Jeanette ci avevano lasciato a piedi, dopo averli insultati per bene e dopo aver recuperato Steve, il quale stava stranamente pomiciando con una bionda, ci siamo diretti in un pub poco lontanto dal Whiskey a gogo. Non mi ricordo cosa e in che quantità ho mandato giù, ma non sono ancora riuscito a togliermi l’amaro in bocca e il groppo alla gola che da ore non si decide a sciogliersi. Bevo un altro bicchiere di qualcosa appoggiato al tavolo e butto la testa all’indietro. Ecco, questo è stato il bicchiere di troppo. Velocemente, mi alzo ed esco dalla porta anteriore, seguito di corsa da tutti gli altri, che non si vogliono certo perdere la scena di me che vomito. Non è una cosa che si vede molto spesso, in effetti. Cado carponi sul bordo del marciapiede e butto fuori anche l’anima senza troppi sforzi. Ricevo qualche pacca sulla spalla e qualche grido di incoraggiamento da quelli che dovrebbero essere i miei amici, ma che si stanno ben divertendo a vedermi stare di merda. Steven, che non è mai stato molto forte di stomaco, si accuccia di fianco a me e completa l’opera. Mi alzo e appoggio una mano al muro, tentando di recuperare equilibrio e lucidità, anche se so perfettamente che ci vorrà del tempo. Cammino piano, seguito da tutti gli altri. Quando finalmente avvistiamo una panchina, ci fiondiamo sopra senza troppe congetture. Slash si siede per terra e appoggia la testa ad una mia gamba. Con non so quale talento si gira una sigaretta, nonostante sia ubriaco fradicio. Si tasta le tasche in cerca di un accendino. Tasta anche le mie a tentoni, soffermandosi per un bel po’ sul mio pacco, convinto di aver trovato la soluzione a tutti i suoi problemi. Poi sbuffa e getta via la sigaretta. Qualche minuto dopo se ne gira un’altra, ricominciando la ricerca del suo tesoro perduto e ricominciando quindi a farmi una sega. Appoggio la testa sulla spalla di chiunque sia seduto affianco a me. Quasi mi soffoco in mezzo ai capelli di Steve, ma bene o male riesco a rilassarmi e a sciogliere tutti i muscoli.
 
Sento qualcuno tastarmi le costole con fare interessato. Spalanco gli occhi e vedo un vecchio con degli occhialetti a mezzaluna sorridermi tranquillizzante, mentre in piedi dietro di lui una coppia dai tratti ispanici ci osserva in ansia. Sono steso su un divano morbido, con la camicia sbottonata e la testa che mi scoppia. Quello che deve essere un medico mi fa lentamente girare il capo. Vedo Jeanette seduta a gambe incrociate su un tappeto, mi guarda con uno sguardo perso. Ha gli occhi gonfi e una guancia nera, un labbro spaccato, una fasciatura accurata ad un lato del collo.
“Avevamo sentito degli spari” racconta l’uomo dietro al dottore, che probabilmente sta parlando da tempo. Il dottore annuisce con fare grave, sfilandomi delicatamente le maniche della camicia ed esaminandomi le braccia.
”Se ci sono stati, non hanno preso nessuno dei ragazzi. Siete stati graziati, belli”
Si alza e porge alla coppia un paio di pomate, spiegando loro brevemente l’uso e gli effetti miracolosi che dovrebbero avere, visto che sia io che Jeanette siamo rincoglioniti al massimo. Il medico saluta educatamente e se ne va, lasciando la coppia con due ragazzi pestati per chissà quale motivo in casa.

 
Mi trascino fino al divano, dov’è disteso Axl. Non ho la forza di alzarmi, quel cazzo di disinfettante in cui il medico mi ha annegata brucia da morire sulle ferite, soprattuto sul collo. Il rosso ha dei lividi neri all’altezza dello stomaco, le braccia graffiate come le mie, il viso incredibilmente intatto, a parte gli occhi rossi e gonfi. Io non voglio nemmeno pensare alle condizioni della mia faccia. Appoggio la schiena ai cuscini del divano. Axl posa una mano sulla mia spalla. La afferro. Accarezzo un po’ le dita sottili, facendo scontrare le nocche con noncuranza. Non vedo l’ora di tornare a casa e di restarci per sempre.
 
Dopo una rigenerante dormita su una panchina di un marciapiede, apro gli occhi e mi ritrovo con un capannello di gente che ci guarda incuriositi. Stiracchio le gambe svegliando Slash, ancora appoggiato addosso a me.
“Che cazzo avete? Non c’è niente da vedere” invita diplomaticamente la gente a spostarsi. Izzy e Steve si svegliano di colpo a tutto quel frastuono.
“Buongiorno. Come avete dormito?” domanda il biondo, sarcastico come suo solito.
“Di sicuro profondamente” commenta Izzy, indicando l’orologio di un campanile non molto distante che ci avvisa che sono le dieci del mattino.
Ci alziamo tutti e con la testa pesante e le gambe incerte, ci dirigiamo alla fermata dell’autobus più vicina, segnalata da un cartello blu con nomi di varie località stampate in bianco. Scorro velocemente tutti i nomi, non riuscendo a trovare il nostro quartiere. Quanto distante ci siamo cacciati?
“Quella è la zona dove abita Nicole, da là sappiamo arrivare a casa” ci informa Steve, che da sbronzo è riuscito a dire una cosa più intelligente di quando è sobrio.
“Il 15 quindi… E’ quello lì, quello che sta partendo?” chiede innocente Slash, indicando l’autobus che si allontana dal marciapiede per immettersi in strada.
“Merda” dico, cominciando a rincorrere il mezzo, imitato dagli altri.
In un modo o nell’altro riusciamo a salire e a scroccare quattro biglietti all’autista, che non molto contento della nostra presenza ci invita a toglierci dalle palle il prima possibile. Ci sistemiamo in fondo, Steven si addormenta appena appoggia il culo al sedile.
 

“E’ una cosa che succede abbastanza spesso, qui. Non dovete preoccuparvi, non è che cercassero voi” ci spiega la signora, che ci ha preparato un piatto di pasta.
“Sì, ma intanto ci hanno fregato la macchina e gli ultimi soldi che avevamo” rifletto mogio, giocherellando con gli spaghetti. Jeanette non parla, fissa il piatto. Non ha ancora preso in mano la forchetta.
“Capisco ragazzi, non siete i primi che ci capitano in casa. Dove abitate? Vi portiamo noi”
Spiego brevemente come arrivare a casa nostra. La signora annuisce, sembra conoscere alla perfezione tutta Los Angeles. Finita la spiegazione, ci dice che va a cercare suo marito. Sparisce dietro la tenda che separa cucina e salotto.
Guardo Jeanette, seduta affianco a me. E’ pallida.
“Ehi, che c’è?” le chiedo, appoggio la mia mano sulla sua. Lei risponde in un sussurro, senza smettere di fissare il piatto.
“Potevano ammazzarci”
Mando giù quella risposta, che mi fa rendere conto che effettivamente sì, potevamo rimetterci la pelle. Le mazzate che mi sono preso sullo stomaco fanno ancora male, e non poco.
“Sì, potevano. Ma siamo qua e stiamo bene. Non pensiamoci più. Adesso torniamo a casa ed è tutto finito”
“E se succede di nuovo e non siamo così fortunati? E se succede quando sono sola e nessuno viene a tirarmi su in tempo? Cioè, può capitare in qualsiasi momento. Se ne sentono tutti i giorni, in giro”
Di nuovo mi trovo costretto ad ammettere che la moretta ha ragione. Non capisci cosa significa una cosa del genere finchè non la vivi in prima persona. E’ che io l’ho già passata, e anche la paura di prendere qualche sberla ormai non mi fa alcun effetto. La paura che ogni colpo sia l’ultimo che senti, che ad un certo punto diventa pure una speranza.
Rientra nella stanza il marito della donna. Guarda strano Jeanette, che non ha toccato cibo. Ci dice che è ora di andare.

 
Axl mi prende per mano e insieme saliamo in macchina. Il signore accende il motore, partiamo. E’ circa mezz’ora di strada, durante la quale non faccio altro che guardare dal finestrino impaurita. Impaurita da tutta la gente lì fuori, che da un momento all’altro può buttarti a terra e prendersela con te senza motivo. Vedo in lontananza l’edificio dove abitiamo noi e tiro un sospiro di sollievo. Siamo arrivati.
Il signore posteggia di fianco al marciapiede. Ringrazio in fretta e mi fiondo dentro casa, mentre Axl si ferma a scambiare due parole.
 
Jeanette rientra e chiude silenziosamente la porta. Mi alzo dal divano e vado verso di lei, contento di vederla.
“Dove cazzo eravate finiti? Ci avete lasciati a piedi” la sgrida Slash, che al contrario di me è ancora schiantato sul divano. Lei non risponde, sembra persa. Ha un occhio nero e un labbro spaccato, il collo fasciato a metà. Faccio per abbracciarla ma si scosta, chiudendosi poi in camera di Axl. Slash, che ha assistito a tutta la scena insieme a me e Steve, mi chiede con aria stranita se lo strano comportamento di Jeanette sia stata colpa sua. Rispondo con un sincero ‘Non lo so’ e vado in bagno, proprio quando Axl sta rientrando.

 
Entro in camera e trovo mio fratello seduto sul suo letto, a cambiarsi le fasciature. Si volta e la sua faccia passa in un secondo dal felice al preoccupato, vedendomi nello stato in cui sono.
“Che è successo?” chiede tutto d’un fiato, il poco che gli resta. Scuoto la testa distrattamente e mi butto sul letto di fianco. Schiaccio la testa contro il cuscino. E’ tutto nero, tutto buio. E’ così sicuro, qui.
Sento una mano toccarmi la spalla e sobbalzo, stringo più forte il cuscino con le mani.
“Ehi, tranquilla. Che c’è?” mi domanda la voce rassicurante di Jeff, rotta dall’ansia nel vedermi in certe condizioni.
“Ho paura” mormoro, soffocata dalla stoffa nera. Lui si accontenta, non mi chiede altro.
“Vorrei restare da sola” aggiungo.
“D’accordo”
Dei passi si allontanano e la porta si chiude. Sono sola. Raccolgo le coperte da terra e mi copro, avvicino le ginocchia al petto. Sì cazzo, ho paura.
 
Jeff chiude la porta della nostra stanza e mi squadra da capo a piedi. Di sicuro ha già visto Jeanette.
“Con cosa siete tornati che non c’è la macchina fuori?” chiede Slash, affacciato alla finestra a fumarsi una sigaretta.
“Ci hanno fregato la macchina. E i cinquecento dollari che ci erano rimasti” rispondo secco buttandomi a peso morto sul divano, incredibilmente scomodo a confronto con quello della casa degli spagnoli. Tutti mi guardano a bocca aperta. Non li degno di una spiegazione finchè Duff esce dal bagno e si piazza davanti a me, che fisso il soffitto come se fossi fatto.
“Che cazzo avete combinato?” incalza Saul. Lancia la cicca dalla finestra e si posiziona di fianco al biondo.
“Dov’è Jeanette?”
“In camera” mi risponde Jeff. Senza dire una parola, tra le facce scocciate degli altri, mi chiudo nella mia stanza.

 
Di nuovo la porta si riapre. Qualcuno si siede sul bordo del letto. Sto ferma, immobile. Chiunque tu sia, vattene.
 
Sto zitto, seduto sul bordo del letto. Quando Jeanette vorrà parlare, me lo dirà. Non voglio metterle fretta, so che non è così simpatico sentirsi minacciati da qualcunque persona tu veda. Sospiro e guardo il soffitto. Bianco. Mi passo una mano sotto la camicia e sento i lividi sulla pelle. Quanto tempo. Sento la ragazzina muoversi sul letto. Mi volto, ha appoggiato la schiena al muro e mi guarda, in attesa di qualche frase che la rassicurerà in modo tale da farle passare qualsiasi paura.
“Forse non sono la persona più adatta con cui parlare” la avverto. Lei annuisce.
“Se non parlo con te non parlo con nessuno”
Sospiro di nuovo. Sinceramente, non so cosa dire. So perfettamente cosa prova. E che non c’è niente che possa farti sentire davvero al sicuro.
“Lo so com’è. Te l’ho detto, da piccolo mio padre… Cioè, capisco cosa senti. Capisco che hai paura. E’ che gli altri non possono farci niente, devi uscirci da sola. E’ tutta una cosa che hai dentro la tua testa. Nessuno vuole davvero farti del male”
“Infatti stanotte tre sconosciuti ci hanno pestati senza un motivo valido”
Chiudo gli occhi. Già Jeanette ha la risposta pronta per qualsiasi cosa, figuriamoci in situazioni come questa.
“E poi, tu dici che devo arrangiarmi. Devo sempre arrangiarmi, cazzo. Sono triste? Mi arrangio. Ho voglia di uscire? Mi arrangio. Vorrei anche un po’ di sostegno ogni tanto”
“No senti, noi ci siamo sempre stati per te, qualunque crisi isterica tu avessi. Puoi rinfacciarci che non facciamo sempre la cosa giusta, ma appena dici che stai male corriamo tutti da te. Vedi di non sparare cazzate per favore” sbotto, contrariato. Non sopporto di venire accusato per colpe che non ho.
“Infatti adesso tu mi stai dicendo di uscire in strada e fare finta che non sia successo niente. Io sono terrorizzata, non so se lo capisci. Perché a te da piccolo bastava uscire di casa ed era tutto finito, di sicuro non sarebbe arrivato un estraneo a prenderti a sberle” Jeanette urla, l’espressione persa che aveva prima ha lasciato il posto alla sua solita faccia da stronza.
“E secondo te io non ho mai pensato di scappare? Non ci ho mai provato, secondo te? E soprattutto, che cazzo vuoi saperne? Ti hanno dato uno schiaffo per caso per la prima volta nella tua vita e fai già la donna vissuta? Devi riceverne tanti altri, prima di poter parlare” mi alzo bruscamente ed esco, sento un ‘Vaffanculo’, attutito dalla porta che sbatte.
In salotto sono tutti a parlottare, probabilmente vanno avanti da quando sono entrato in camera. Appena sentono la porta sbattere, si zittiscono e mi fissano.
“Allora hai voglia di spiegarci o ti dobbiamo pregare come sempre?” chiede Slash, piuttosto impaziente.
“Che è successo?” ripara Jeff più dolcemente, salvando Saul da un pugno che ero già psicologicamente pronto a tirargli. Mi passo una mano tra i capelli, tento di riordinare le idee ed elaborare un riassunto il più breve possibile.
“Stavamo tornando a casa e a un certo punto un negro ci ha bussato al finestrino della macchina. Abbiamo provato a mandarlo via, ma sono arrivati altri due tizi che ci hanno pestati un po’. Niente di che, è solo che ci hanno fottuto sia la macchina che i soldi”
“Tutti i soldi?”
Ignoriamo Slash.
“Che vi hanno fatto? Jeanette è sconvolta” chiede spiegazioni Michael.
“Non è per niente sconvolta, è già tornata col suo tono da stronza. Dovrebbero farle ben altro per zittirla”
“No senti Axl, io ho provato a parlarle, è davvero strana” insiste Jeff.
“Prova ad andare adesso. E sta attento che se le gira non ci mette tanto a risponderti male” chiudo io. Vado in cucina, cerco qualcosa di dolce da mangiare, per buttare giù l’amarezza e non pensare a quell’acida del cazzo che crede di averle passate tutte, nella vita.

 
Jeff bussa piano prima di entrare nella stanza. Sono ancora appoggiata con la schiena al muro, a riflettere su quanto tempo ci avrei messo a morire se gli spagnoli non mi avessero portato in casa loro, stanotte. Alzo lo sguardo, mio fratello ha un sorriso timido sul viso. Si siede dove prima era seduto Axl, ma con lui non ho affatto voglia di fare la guerra.
“Come stai?” mi chiede, sempre con quel sorrisetto rassicurante.
“Fisicamente sto bene. Ho i graffi che bruciano un po’, ma niente di che”
“Ci cambieremo le fasciature a vicenda” scherza lui. Ridiamo, ma torniamo subito seri.
“Tu come stai?” tento di sviare il discorso.
”Io bene, ma non è quello l’importante” Jeff mi guarda in modo grave, un milione di domande in un solo sguardo. Faccio spallucce.
“Sinceramente, ho una paura assurda ad uscire. Perché stanotte ci hanno preso a botte così, senza un motivo. Un momento prima ero a consolare Axl e un momento dopo mi sono trovata un tipo con un coltello in mano sopra di me. Cioè, loro non sapevano che avevo cinquecento dollari nel cappotto. Ci hanno presi così, perché avevano voglia”
Tiro su col naso. Mi rendo improvvisamente conto che ora ho una paura nera e neanche un soldo. Nemmeno uno.
“Dai, vieni di là con gli altri. Almeno ti distrai un po’” mi invita Jeff. Si alza e mi tira su dal letto, che abbandono controvoglia.
Apre la porta e sbatte contro Steven, che a quanto pare non si è perso una parola della nostra conversazione privata. Che credevo privata.
“Sai una cosa? Forse se tu sapessi difenderti non avresti paura. Cioè, ti sentiresti più sicura” spara tutto d’un fiato, prima che io possa lanciargli qualcosa. Scuoto la testa e mi butto sul divano di fianco a Slash. Jeff va in cucina, dalla quale qualcuno sta spadellando; Steve si chiude nella sua stanza.
“Steven non ha tutti i torti. Se vuoi ti insegno qualcosa” propone Slash, che sta guardando il telegiornale alla tv. Dopo essersi accorto che il giornalista sta parlando da mezzo minuto di un’aggressione avvenuta nella periferia di Los Angeles, spegne il televisore e si alza. Mi alzo anch’io, mi metto di fronte a lui sopra il tappeto morbido del salotto.
“Tirami un calcio sulle palle” mi sento dire. Saul apre le braccia, lasciandomi campo libero. Assumo un’aria scettica. La porta del bagno si apre. Mi volto e vedo Duff con un asciugamano intorno alla vita. Mi guarda e mi sorride, si avvicina a noi. Torno a fissare Slash, ancora con le braccia semiaperte, in attesa della mia mossa.
“Dai, tirami un calcio sulle palle” mi incita nuovamente.
“Dai, non è così difficile” mi spiega Duff. Alza una gamba e colpisce il povero chitarrista esattamente come avrei dovuto fare io. Chiudo gli occhi, immaginando il dolore che sta provando Slash, che si lascia cadere a peso morto sul divano, tenendosi il pacco. Duff pensa bene di evaporare, mentre dalla cucina ricompaiono Jeff e Axl, attirati dall’urlo che Saul ha cacciato e da tutta quella serie di insulti che sta dedicando al bassista.
“Che è successo?” domanda il rosso, piuttosto divertito dalla scena di Slash che si contorce sul divano tirando giù tutti i santi del paradiso.
“Non ridere stronzo, vai a prendermi il ghiaccio” gli risponde il malcapitato.
Vado in cucina con Jeff, alla ricerca di quel ghiaccio che in due settimane non ho mai visto da nessuna parte. Apro il freezer, ma non ce n’è nessuna traccia. Una scatola di gelato, un paio di bistecche congelate, un cetriolo.
“Perché mettete i cetrioli in freezer? Non va bene che si congelino” avverto mio fratello, per poi prendere la scatola del gelato che funzionerà più che bene anche come borsa del ghiaccio. Vado verso il divano e porgo il barattolo a Slash.
“Ma che cazzo è sta roba?” si lamenta lui.
“Mettitela sulle palle e andrà più che bene” continua a ridersela il rosso, che riceve parte delle offese dedicate a Duff.
 
Quando mi decido a tornare in salotto non sento più schiamazzi da un pezzo. Apro delicatamente la porta della mia stanza e sbircio fuori. Tutte le luci sono spente. Jeanette si raggomitola sul divano. Esco e vado verso di lei, le poso una mano sulla spalla. Lei sobbalza e apre gli occhi di scatto, mi guarda.
“Tutto bene?” tento di fare conversazione. Annuisce.
“Bene” mormoro. “Buonanotte”
Torno in camera, dove Steven sul suo letto sghignazza ancora per quello che è successo a Slash.

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Capitolo 17
*** Diciassettesimo giorno. ***


Sento qualche passo girovagare incerto per il salotto, la luce della cucina scattare e un rumore di tazze e piatti che sbattono. Decido di non alzarmi, mi accoccolo meglio nella coperta calda e tento di ignorare tutto il rumore che non so chi sta facendo dalla cucina. Sembra un dinosauro che sta cercando il tesoro perduto, non un ventenne che tenta di farsi la colazione. Spero solo che smetta presto.
 
Non possono essersi già mangiati tutti i biscotti. Duff e la stronzetta hanno fatto la spesa una settimana fa ed erano tornati con una quantità di biscotti che poteva risolvere la fame del mondo. Non possono essere già finiti.
Apro l’ultima credenza nella quale non ho ancora guardato e finalmente, seminascosto dietro ad un muro di carta igienica (che non ho ancora capito perché teniamo in cucina), scovo quel pacco di frollini che ho cercato con tanto impegno. Penso proprio di meritarmeli, dopo tanta fatica. Soddisfatto, mi verso un po’ di latte nella tazza e ci intingo qualche biscotto. Mi sporgo a guardare il salotto, Jeanette dorme ancora nonostante la luce del sole che filtra dalle tapparelle. Continua a muoversi sul divano, ho come l’impressione che non stia dormendo tanto pacificamente. Scuoto la testa e mi siedo al tavolo della cucina, rimuginando su quello che mi ha detto ieri. “A te da piccolo bastava uscire di casa ed era tutto finito”. Ma fottiti, acida del cazzo.

 
Sto camminando a caso, come faccio di solito quando ho bisogno di sciogliermi un po’ i nervi. Sono arrabbiata. Non so perché o per colpa di chi, non so cosa sia successo. Continuo a camminare per una strada che non finisce mai, sembra ripetersi sempre uguale. Cerco qualche punto di riferimento. Un lampione rosso, che si distingue dagli altri neri per il suo colore sgargiante. Continuando a camminare noto un altro lampione rosso. Identico. Cerco qualche altro elemento particolare. Sul muro di una palazzina, a grandi lettere scarlatte, c’è una scritta tracciata con una bomboletta spray. “NOT ME”. Sembra un urlo disperato di qualcuno che è sempre stato ascoltato solo superficialmente. Per sicurezza, mi fisso in testa anche l’immagine di una finestra rotta, posta al quinto piano dell’edificio di fronte a quello della scritta. Più tranquilla, ricomincio a camminare, finchè non rivedo il lampione rosso. Muovo qualche passo incerto, di nuovo la scritta sgargiante, grande sul muro di mattoni. Mi volto. La finestra rotta è sempre nello stesso punto. Comincio a correre lungo quella strada della quale posso vedere la fine. Posso vedere il mare, una spiaggia dorata affollatissima. Il lampione rosso ricompare alla mia destra. La scritta. La finestra rotta. Continuo a correre. Lampione rosso, scritta, finestra rotta. Lampione rosso, scritta, finestra rotta. Lampione, scritta, finestra. Mi blocco ormai senza fiato. Butto un occhio sull’edificio della finestra. Noto che non è più al quinto piano. Abbasso lo sguardo. E’ al secondo. Rilassata, mi avvio verso quella spiaggia che si vede ancora alla fine della strada. Sembra sia sempre alla stessa distanza. Rivedo il lampione rosso, ma non mi preoccupo più di tanto. Probabilmente ne hanno posto uno ogni tot di lampioni. Così come per la scritta: qualche ragazzo che non aveva niente di meglio da fare l’ha scritta su tutte le palazzine al lato destro della strada. Giusto per sicurezza, guardo l’edificio di fronte. Come volevasi dimostrare, la finestra rotta è al primo piano. Incuriosita, mi avvicino. Chissà cosa c’è dentro. Chissà perché qualcuno l’ha rotta. Ma prima che io possa arrivare ad una distanza tale da permettermi di sbirciare all’interno, un uomo esce da quella finestra. E’ calvo, indossa dei larghi pantaloni militari e una canottiera nera. E’ alto, muscoloso. Non gli costa molta fatica spingermi contro il muro della palazzina, esattamente sulla scritta “NOT ME” che mi macchia la schiena, come se fosse appena stata disegnata. Solo ora mi accorgo di essere senza vestiti. Le mani di quell’uomo sono incredibilmente fredde. Si appoggiano sui miei seni, mentre lui mi bacia. Rabbrividisco, sia per la paura che per il freddo che sento solo ora. Provo a dire qualcosa, ma non riesco ad emettere nessun suono. Provo a divincolarmi, ma tutto il mio corpo è intorpidito, non riesco a muovermi. Le labbra dell’uomo passano sul mio collo, fredde come le sue mani.
Mi sveglio con davanti il viso di uno Steven decisamente preoccupato che mi sta accarezzando i capelli.
“Stai bene?” mi chiede. Sono un bagno di sudore. E’ stato tutto un brutto sogno. Duff si precipita di fianco a Steve.
“Oh, ti sei svegliata. Che stavi sognando?”
Chiudo gli occhi e prendo un grande respiro. Scalcio via la coperta, decisamente di troppo.
“Niente. Perché?”
“Ad un certo punto hai cominciato ad agitarti, hai detto qualcosa… Stavamo pensando di chiamare un esorcista” scherza Steve, riuscendo a farmi ridere. Pigramente mi alzo e vado in bagno, ho assolutamente bisogno di una doccia.
 
“Allora? Cos’aveva?” chiede spazientito Axl, ancora seduto a mangiare biscotti.
“Hai quasi finito il pacchetto. Ci sono anche gli altri, non so se te ne ricordi” gli faccio notare, ignorando completamente la sua domanda. Lui fa spallucce.
“Sono incazzato, mangio”
Gli strappo la busta dalla mani e la rimetto a posto nella credenza. Il rosso borbotta qualcosa, ma ormai sono talmente abituato alle sue lamentele che non ci faccio neanche più caso. E’ tutto un ignorare, in questa casa. Si passa sopra a tutto, sperando che non crei ripercussioni future. Anche perché, se badassimo a qualsiasi piccola cosa, arriveremmo alle mani in appena un paio d’ore.
“Come mai sei incazzato?” tento di fare conversazione, ma tutti i miei sforzi risultano vani appena Steve dice: “Non è ora di pulizie, qui?”
“Senti bello, le abbiamo fatte noi appena tu te ne sei andato, e a me la casa è sembrata perfetta per tutto il tempo in cui non c’eri. Quindi, se vuoi farci un favore, elimina il problema alla radice. La porta sai dov’è”
“E invece io resto. Perché non ci vivi solo tu qui e perché sei l’unico che si fa problemi”
“Ah sì? Solo io mi faccio problemi? Chiediamo a Slash appena si sveglia. O meglio ancora, chiediamo a Jeff che ha un polso a pezzi per colpa tua e della troia che sta qua abusivamente”
“No senti, non toccare Jeanette. Non è un bel momento questo per lei” mi intrometto anch’io. Non che Jeanette sia una santa, per carità, ma con tutto quello che le è successo da quando è arrivata qui dev’essersi pentita di non essere andata a fare la groupie da qualche altra parte.
“Ah, non devo dire male di Jeanette? Dopo quello che lei ha detto a me? Dopo quello che ha fatto a Jeff? Vedi di aprire gli occhi, quella ci gioca con noi”
Sbuffo e vado in camera mia. Mi siedo sul letto e prendo in mano la chitarra classica di Slash, che non so come sia finita in camera mia. Strimpello un po’, la scopro scordata. Ma non mi interessa, ormai non ho più nemmeno la pazienza per accordarmi la chitarra. Suono a caso, facendo uscire note stonate e melodie assurde. Anche perché sto continuando a schiacciare tasti a caso. Sto pensando al fatto che Axl potrebbe avere ragione. Che magari Jeanette ha imparato a giocarci davvero bene, con la gente. In fondo, ha vissuto sola per sedici anni, si è fatta le regole a suo piacimento. Chissà a quanta gente ha messo i piedi in testa, per avere quello che voleva. Chissà se è davvero spaventata o se vuole solo ancora più attenzione.
La porta si apre e la ragazzina entra, un asciugamano candido avvolto attorno al corpo.
“Scusa, puoi uscire? Devo vestirmi, ci metto un attimo”
Lascio  la chitarra sul letto e mi avvicino alla porta. Appoggio la mano alla maniglia, ma qualcosa mi blocca. Forse questa è una buona occasione per trovare la risposta almeno all’ultima delle mie domande.
 

Fisso Duff, che si è voltato a guardarmi, con una mano sulla maniglia della porta.
“Devi abbassarla, poi la porta si apre” gli suggerisco e lui, ignorando totalmente il mio consiglio, si avvicina a me e mi abbraccia. Mi irrigidisco di botto. Che cazzo vuoi combinare, biondo?
“Mi dispiace per come stanno andando le cose da quando sei arrivata qui” mormora quando finalmente si stacca da me. Fa correre un dito per la mia spalla nuda, su, dietro al collo. Quel dito scorre leggero sulla nuca, scioglie lo chignon improvvisato che mi ero fatta. Una cascata di capelli neri cade morbida giù per la mia schiena, mentre la mano di Duff si è già interessata al bordo dell’asciugamano. Io sono ancora immobile, a fissare il vuoto. Un punto indefinito sulla porta. Spero solo che si apra e che entri qualcuno a fermare Duff. L’asciugamano cade in un fruscio. Una ventata d’aria fredda mi investe. Tremo, sia per il freddo perennemente presente in questa casa sia per il biondo che mi bacia il collo. La porta è ancora chiusa. Non entrerà nessuno, temo.
“Che c’è?” chiede premuroso Duff. Finalmente mi guarda negli occhi. Finalmente tira indietro le mani e se le mette in tasca.
“Scusa” dice frettolosamente, prima di uscire dalla stanza e lasciarmi lì, sola, nuda e con la pelle d’oca.
 
Vedo Duff uscire dalla sua camera nemmeno mezz’ora dopo esserci entrato. Finalmente riesco a sciogliere un nodo impossibile dai lacci delle scarpe e le infilo con poca grazia. Afferro il cappotto passando davanti agli appendini e senza nemmeno salutare apro il portone e faccio per andarmene. Tanto a che serve salutare, in questa casa? Appena torno mi rimetterò a litigare con qualcuno e a urlargli di andarsene. Forse è davvero arrivata l’ora di un discorsetto serio su come gestire le cose qui. O più semplicemente su come voltare pagina e deciderci a farci una vera vita.
“Stai uscendo?” La voce ancora impastata di Izzy mi blocca sull’uscio. Mi volto scocciato e lo vedo avanzare nel salotto strofinandosi gli occhi, piuttosto incerto sul dove appoggiare i piedi. Uno Slash già più sicuro sulle gambe lo sorpassa e scompare in cucina.
“No, mi piace aprire la porta e guardare il pianerottolo” Ormai le risposte stronze fanno parte di me. Le faccio partire a random, senza nemmeno un valido motivo. Per abitudine, più che altro.
“No aspetta, mi vesto e esco anch’io” mi dice tranquillo, senza che la mia risposta lo scalfisca minimamente, non so se per il sonno o perché lui è Jeff e un modo per fargli perdere le staffe non lo troverai mai.
Mi appoggio allo stipite della porta e guardo distratto il disordine che la fa da padrone nel nostro salotto. La solita montagna di roba abbandonata tra il divano e il televisore, mucchio nel quale solo Slash riesce a trovare un ordine logico; la coperta che giace aggrovigliata sul divano da quando Jeanette è arrivata in casa, un paio di scarpe col tacco in mezzo alle nostre converse, il flacone del detersivo per i piatti che chissà come è arrivato di fianco al comò.
“E’ finita anche la pasta” sento Duff constatare dalla cucina.

 
“Perché, pensavi di fare colazione con la pasta?” mi chiede ironico Slash, che non so se sia in vena di battute o se sia ancora addormentato.
“Pensavi di pranzare con i biscotti?” gli rispondo acido, senza neanche un motivo. Sto ancora ripensando a cosa ho fatto a Jeanette. E mi vergogno tanto. Davvero pensavo si potesse risolvere tutto così? Che ho al posto del cervello, le arachidi?
“Perché no? Io vivrei di biscotti”
Steven si becca una fulminata sia da me che da Slash.
“Tu di soldi non ne hai proprio?” si informa il chitarrista. Il biondo lo guarda un po’, riflettendo sulle risposte che ha a disposizione e sulle conseguenze di ciascuna. Alla fine scuote la testa.
“Nulla”
Slash sbuffa e appoggia i gomiti sul tavolo, si nasconde il viso tra le mani.
“Dobbiamo fare qualcosa” dice lasciandomi un po’ di merda. Da quand’è che Saul fa il saggio?
“Potremmo trovarci un lavoro” propone Steve, interrompendo quel momento di calma che Slash stava sfruttando per elaborare un’idea e prendendosi un’altra fulminata.
“Cazzo, sei geniale sai. Non ci avevo proprio pensato, ad un lavoro. La mia idea principale era andare a rubare nei negozi di caramelle” si sfoga Slash, per poi riaffondare nelle sue rimuginazioni. Steven parte con la solita lagna che noi non lo badiamo mai eccetera. Lo porto in camera nostra prima che parta un pugno nella sua direzione.
Jeanette si sta pettinando distrattamente i capelli con le mani, seduta sul letto di Steve, quando noi entriamo. Per sbaglio incrocio il suo sguardo, ma trovo velocemente qualcos’altro da fissare. Steven le sorride a trentadue denti, con la sua faccia da cucciolo.
Ci sediamo entrambi sul mio letto, io rivolto verso la finestra e Steve che guarda Jeanette.
“Come va stamattina?” chiede tranquillo il batterista. Nessun problema, per lui. Nessun senso di colpa.
“Tutto bene” risponde vaga lei, poi la sento alzarsi e uscire.

 
Vedo Jeanette uscire dalla camera dei biondoni e entrare nella mia. Si ferma un attimo sull’uscio per lasciar passare Izzy, che le sorride debolmente.
“Andiamo?” mi chiede lui qualche secondo dopo, passandomi una mano davanti al viso. Mi ero piantato a guardare un punto indefinito del corridoio, lasciando scorrere una mole di pensieri troppo grande da elaborare tutta in una volta.
“Andiamo” rispondo, prima di aprire il portone e uscire.

 
Non è che passare da una stanza all’altra sia la cosa più divertente del mondo. E’ che voglio stare da sola. In silenzio. E magari pure al buio. Do un’occhiata alla finestra aperta, che lascia entrare nella stanza troppa luce per i miei gusti, ma è troppo lontana dal letto sul quale sono distesa. Decido che in fondo la luce non è un grande problema e continuo a guardarmi intorno, cercando qualcosa sul quale focalizzare la mia attenzione per far passare il tempo, che sta scorrendo lentissimo. Recupero da sotto il letto di Jeff la scatola che mamma aveva mandato un paio di settimane fa. La apro e dispongo ordinatamente gli oggetti sul lenzuolo chiaro. Due videocassette, una maglietta lilla, un cappellino, la foto spiegazzata di me a dieci anni, con la stessa faccia da stronza che ho oggi. Mi guardo mentre mi rigiro la maglietta tra le mani. Al collo avevo il ciondolo che mi aveva regalato mamma. Era d’oro, mi è tornato utile quando ero arrivata a Dallas senza neanche un soldo. Io e il mio ragazzo siamo riusciti a campare quasi una settimana, grazie a quello che ci aveva fatto guadagnare quella collanina che avrebbe dovuto significare così tanto per me. Era già un miracolo che non l’avessi persa da qualche parte in collegio.
Mi sfiora l’idea di guardarmi le due videocassette, ma la respingo subito: sicuramente in salotto c’è qualcuno, e non mi va di fare conversazione. Rimetto tutto dentro la scatola e raccolgo da terra la chitarra bianca di non so chi. Pizzico qualche corda a caso, inventandomi accordi improbabili e inascoltabili per la maggior parte della gente.
 
“Dov’è che devi andare?” mi chiede Jeff.
“Ho saputo che un mio amico è a Los Angeles, volevo andarlo a trovare” chiudo il discorso. Continuo a fissarmi i piedi mentre cammino.
“Te la ricordi Jennifer, la cugina che in realtà non era mia cugina ma che io chiamavo cugina?” continua Izzy, che non ha ben capito che non ho la minima voglia di fare conversazione.
“No”
“Sì non te la puoi essere dimenticata, ci è venuta dietro per un po’ perché voleva imparare a suonare il basso, solo che Duff non la considerava minimamente. Quella che dicevi che non aveva tette e quindi non era classificabile tra le ragazze degne di attenzioni” ride Jeff. Intravedo un vicolo sulla destra e saluto frettolosamente il mio accompagnatore non gradito. Se non ho voglia di parlare non ne ho voglia, che c’è di difficile da capire? Tiro fuori dalla tasca dei mei jeans un pacchetto di sigarette e me ne fumo una con tutta la calma del mondo, aspettando che Izzy vada avanti e non mi veda fare la sua stessa strada.

 
Stanco di stare in silenzio con Steve, esco dalla mia stanza e vado da Slash, ancora in cucina a rimuginare su cosa possiamo fare per tirare su qualche soldo.
“Hai idea di qualche posto dove possiamo trovare un lavoro?” gli chiedo, sedendomi sulla sedia di fronte a lui. Scuote la testa.
“Non è tanto trovare un lavoro, basta anche una cazzata per un giorno, perché siamo proprio senza soldi. A zero”
Appoggio la testa al tavolo e chiudo gli occhi.
“Tempo fa lavoravo in un negozio di dischi, ti ricordi?” butto lì l’idea.
“E vai a chiedere, che cazzo aspetti?”
“Quando me ne sono andato ho urlato ‘Andate a fanculo tutti, vendete solo musica di merda’”
“Geniale”
“Appunto”
Ripiomba il silenzio. Io sono ancora con la testa appoggiata al tavolo. Ora sto fissando le piastrelle scure sul pavimento. Seguo le righe delle fughe.
“L’unica cosa possibile sarebbe cominciare a mettere avvisi in giro o qualcosa del genere” si arrende Slash.
“E che ci scriviamo? ‘Ciao non sappiamo fare un cazzo a parte suonare solo che ci hanno sgamati mentre facevamo un concerto in playback e ora siamo senza soldi’?”
“Senti, tu hai altre idee? Che è, vuoi dare via il culo?”
Tiro su la testa e lo guardo.
“Ma sei coglione?” alzo la voce.
“Coglione sarai te, che continui a fare battute del cazzo. Sto tentando di trovare una cazzo di idea perché non possiamo neanche andarci a comprare un cetriolo del cazzo. E tu mi esci con queste cazzate. Io perdo pure la pazienza, cazzo”
Saggiamente, decido di andarmene dalla cucina. Quando Slash comincia a dire troppe volte ‘cazzo’, è il segno che devi sloggiare se ci tieni ad avere una lunga e piacevole esistenza.
Recupero Steve dalla nostra camera ed esco insieme a lui. Andiamo a cercare questo fottuto lavoro, allora.
 

Arrivo in un piccolo parco pubblico abbastanza fuori mano. In teoria il mio amico dovrebbe arrivare a momenti. In teoria. Perché non sarebbe la prima volta che mi da buca. Mi siedo su una panchina, e dopo aver dato una rapida occhiata a tutto il parco concludo che mi sono seduto esattamente sulla panchina dove mi ero scopato la cugina di Jeff, quella di cui lui mi stava parlando prima. Cazzo se me la ricordo. Poche tette, devo ammetterlo, ma aveva un carattere con il quale ti sapeva girare come voleva, soprattutto perchè la sua miglior qualità era l'essere rompicoglioni. Sospiro e mi passo le mani sul viso, quando mi sento appoggiare una mano su una spalla. Mi volto di scatto, pronto a prendere a pugni quel drogato che ha avuto la malsana idea di interrompere i miei ragionamenti.
“Tanto tempo, che non ci vediamo”
“Solo perché tu abiti in culo al mondo”
Questo il mio breve saluto a Joe, che dopo un abbraccio piuttosto freddo si siede di fianco a me.
“Come mai a Los Angeles?” tento un discorso.
“Non so, tutti dicono sempre che Los Angeles è tanto figa, volevo vedere se era vero”
“E invece non è vero”
“Esatto”
Sorrido. Lo so perfettamente, anch’io ero stato illuso dalle belle storie che girano sulla città degli angeli, il successo facile, i soldi che cadono dal cielo. I soldi. Che invece non ci sono.
“E a te come va?” riprende Joe. Si appoggia allo schienale della panchina e butta indietro la testa, lasciando scivolare quei capelli lunghi da far invidia ad una donna.
“Ma niente, sono successi un po’ di casini e adesso siamo in sei in casa, senza soldi, con un’isterica che spara cazzate tutto il tempo e non fa niente di utile”
“Sei tu quell’isterica?” suggerisce lui, ricevendo un pugno dal sottoscritto.
“Vaffanculo” gli rispondo. La ritengo una risposta alquanto esauriente. Sul viso di Joe compare un mezzo sorriso.
“Volevo chiederti se avevate posto in casa per qualcun altro, ma forse è meglio che vada sotto i ponti”
Lo guardo storto.
“Sei venuto giù dal Canada solo per questo?”
“Lo sai che ho sempre quella mezza idea”
“Lo sai che non ti dirò mai di sì”
“Allora d’accordo” chiude lui. Si alza e si avvia verso l’uscita del parco. Lo guardo allontanarsi, finchè non mi arrendo all’evidenza. Ho bisogno di una mano con i soldi e lui è l’unico che può aiutarmi. O tirarmi giù nella fossa insieme a lui, dipende da come vanno le cose.
“E se invece mi andasse bene?” gli urlo. Non si merita che mi alzi per lui.
“Allora ci vediamo domani sera, sempre qui” mi risponde senza nemmeno voltarsi.

 
“Buongiorno” saluto educatamente la vecchia proprietaria del negozio di dischi. E’ sempre lei, sempre quella vecchia scorbutica alta un metro e un tappo che squadra ogni singola persona entri nel negozio, con una faccia del tipo ‘Prova a muovere un passo se ne hai il coraggio’. Mi becco una delle occhiatacce che era solita riservarmi ogni volta che arrivavo per il mio turno di lavoro.
“No non abbiamo quella musica di Satana qui, arrivederci” gracchia lei con il suo accento da perfetta londinese finita chissà come in America. Ma non poteva stare a rompere le palle in Inghilterra?
“E un lavoro, ce l’avete?” taglio corto. Lei mi squadra di nuovo dietro i suoi occhialetti a mezzaluna. Dopo quasi un minuto che ha gli occhi piantati nei miei, si leva gli occhiali e ne prende un altro paio da un cassetto sotto la scrivania. Li pulisce con tutta la calma del mondo e finalmente se li infila.
“Tu sei quello che lavorava qui tempo fa” ricorda sporgendosi un po’ di più verso di me e allungando pericolosamente una mano verso i miei capelli. “Quello che mio marito diceva che mangiava i bambini”
“Che cosa?” esclamo. Da dove cazzo arriva sta storia?
“No, lascia perdere. Comunque non assumiamo” chiude lei e finalmente sposta il suo sguardo verso qualcosa che non sia io. Seguo la direzione dei suoi occhi fin dietro di me, dove una bambina che avrà sì e no cinque anni sta giocando su un tappeto giallo vomito. Mi guarda e mi sorride contenta. La vecchia alla cassa, dopo aver notato che anch’io sto guardando la bambina, si precipita verso di lei con un’agilità che mai le avrei dato e la prende tra le braccia.
“Altro da chiedere?” domanda impaziente, sbattendo il piede destro sul pavimento. Scuoto la testa, ripensando ancora alla musica di Satana e a me che mangio bambini.
“E adesso dov’è che andiamo?” vuole sapere Steven appena mettiamo piede fuori da quel negozio che puzzava di vecchio e di chiuso.
“Non lo so”

 
Sento la porta di casa aprirsi e Slash salutare, la voce di mio fratello che gli risponde. Lascio sulla scrivania i fogli che stavo leggendo distrattamente e faccio capolino dalla porta.
“Ciao” Jeff mi rivolge un sorriso a trentadue denti. “Pensavo ti avrebbe fatto piacere un’amica”
Da dietro le sue spalle spunta Jennifer, la mia pseudo sorella. Trattengo a stento un urletto, prima di correre ad abbracciarla.
“Ma che cazzo ci fai qui?” mi chiede quando sciogliamo quell’abbraccio. Scuoto la testa e la porto nella stanza dov’ero prima, abbiamo parecchio di cui parlare.
 
“Quindi dovrei venire un finesettimana sì e uno no, farmi un turno da dieci ore consective per prendermi sette dollari ogni volta che vengo?”
“Esatto”
Squadro il proprietario della pizzeria che mi ha proposto questo lavoro, tentando di capire se mi stia prendendo per il culo o se stia parlando sul serio.
“Mi stai prendendo per il culo o stai parlando sul serio?”
“Sono serissimo”
“Questo è sfruttamento”
“Sei maggiorenne e vaccinato, sei pagato e sei coperto dall’assicurazione”
“E se rinunciassi all’assicurazione? Non credo di rischiare la vita portando pizze ai tavoli”
“Stiamo cercando un cameriere perché l’ultimo si è tagliato due vene con un piatto rotto”
Rabbrividisco e guardo Steven, qualche decina di centimetri sotto di me. Mi rivolge una faccia rassegnata.
“Sempre meglio di niente” mi suggerisce. Accetto il lavoro a malincuore. Sette dollari ogni volta che vado significano quattordici dollari per finesettimana. Considerando che devo andare un finesettimana sì e uno no, sono ventotto dollari al mese. Appunto quel numero nella mia mente. Ora, pensando che per l’ultima spesa io e Jeanette abbiamo speso cento dollari, togliendone magari venti per i detersivi (possiamo anche vivere in una casa sporca senza problemi), la spesa ci costerebbe ottanta dollari a settimana. Trecentoventi al mese. E io ne tiro su ventotto, in un mese.
Rivolgo uno sguardo sconsolato a Steven, seduto sulla panchina di fronte a me, che sto camminando come un forsennato sullo stesso metro quadrato da un quarto d’ora.
“Andiamo a trovare un lavoro anche per te” sospiro.

 
“Ma aspetta, c’è una cosa che non mi torna” mi blocca Jennifer, mentre le sto raccontando di quell’assurda scommessa che ho fatto con Axl e Duff e della quale loro si sono già dimenticati, molto probabilmente. La ascolto paziente, prendendo una cucchiata del gelato che abbiamo fregato dalle mani di Slash poco fa.
“L’ultima volta che ci siamo viste eravamo a Las Vegas più o meno un anno fa. Io ero con il giocatore di poker e tu eri con quel cantante con la bocca larga. Come ci sei arrivata in California?”
Rido per l’aggettivo che Jen ha usato per descrivere Steven. Era un po’ che non ridevo, e a momenti mi uccido strozzandomi con il gelato. Tossisco un attimo prima di risponderle.
“Ti ricordi che ero in tour con loro, no? Un mese dopo siamo arrivati a Los Angeles e lì mi ha mollata. Avevo sentito dire che Jeff viveva in città e quindi mi sono sistemata qui”
“Ma non ci avevi litigato, con Jeff?”
Abbasso la testa, riflettendo su quanto avevo raccontato a Jennifer riguardo la storia della mia vita prima del collegio. E’ lì che l’ho conosciuta, in quella specie di scuola nella quale i miei mi avevano mandata per liberarsi di me. Lei era la mia compagna di stanza, insieme ad altre due ragazze che, a detta delle suore che gestivano tutto, ‘Avevano ricevuto la chiamata del nostro Signore’ e avevano deciso di frequentare quel collegio. Io e Jennifer ci siamo sempre tenute a distanza da loro, non volevamo essere contagiate. Così abbiamo stretto amicizia. Abbiamo condiviso tutto, nella candida innocenza che contraddistingue i bambini. Vari ricordi mi tornano in mente, il migiore è quello della prima volta che mi sono arrivate le mestruazioni. Chiamai Jennifer spavenatissima, con le lacrime agli occhi. Le dissi che non capivo come ma mi ero tagliata in mezzo alle gambe senza accorgermene. Lei era più spaventata di me, anche perché le suore ci avevano sempre detto che quel buchetto che abbiamo in mezzo alle gambe è il male e che se ci avessero scoperto intente ad usarlo ci avrebbero tagliato la lingua. Sempre state simpatiche, le suore. Visto che alla lingua ci tenevamo e non volevamo certo farcela tagliare, riparammo al danno tamponando con un po’ di fazzolettini. Passammo la serata a tamponare in mezzo alle mie gambe, ma il sangue non si decideva a fermarsi. Quando, la mattina dopo, mi accorsi di aver macchiato il letto, cominciammo a piangere, convinte che se le suore ci avessero scoperte non avremmo più potuto parlare per il resto delle nostre vite. Le altre due compagne di stanza, da brave bambine, corsero a dire tutto alla direttrice del collegio, che quel pomeriggio mi portò via dalla classe di storia senza lasciarmi finire la lezione. Non che me ne importasse tanto, anzi: quella strega mi aveva appena salvato dal classico discorso di fine ora su quanto il nostro Dio ci amasse e cazzate varie. Mi ritrovai nell’ufficio della direttrice, in piedi davanti alla sua scrivania, a fissare il pavimento. Quando lei mi guardò con quei suoi occhi blu ghiaccio che riuscivano a farti pentire anche se non avevi fatto nulla, istintivamente serrai le labbra: la mia lingua non sarebbe stata tagliata per nulla al mondo. La suora mi chiese di riassumerle cos’era successo e io, come sempre, mentii. Dissi che mi ero tagliata una coscia. Ovviamente, quella strega non ci credette. Dopo mezz’ora sotto lo sguardo di quegli occhi tremendi, vuotai il sacco e le spiegai che dal pomeriggio precendente continuavo a sanguinare e non capivo perché, che io non avevo fatto niente, che non sapevo nemmeno come si usava quel buchetto che avevo in mezzo alle gambe. Lei, in tutta la sua magnanimità, mi spiegò che avrei sanguinato così una volta al mese, per più o meno cinque giorni, e che quando sarebbe successo gliel’avrei dovuto dire immediatamente. Annuii, continuando a fissare il pavimento. Lei mi diede una carezza sulla nuca e mi consegnò delle specie di fazzoletti da mettermi nelle mutandine.
“Ma quel buchetto come si usa?”
“Meno ne sai e meglio è”
“Ma se magari lo uso per sbaglio e non me ne accorgo perché non so come si fa?”
“Isbell, conoscendoti, sono sicura che imparerai ad usarlo molto presto”
Una settimana dopo mi ero già dimenticata delle mestruazioni e di tutto quel panico che mi aveva preso: il mio unico dubbio era come si usava quel dannatissimo buco. Tentai tutte le teorie con Jennifer, finchè una suora ci sentì e tornai nell’ufficio della direttrice, pronta per un’altra lavata di capo.
“Ragazze, io non so cosa fare con voi. Volete sapere come si usa? Ve lo spiego, se volete. Ma sappiate che è peccato e che se il Signore vi vedrà vi punirà. Andrete all’inferno. Non potrete più fare un sacco di cose”
Vedendo che le nostre facce non erano per niente preoccupate, ma che la curiosità cresceva sempre di più, la direttrice sospirò e ci spiegò che i maschi non avevano quel buchetto, avevano un bastoncino, e che a parecchie persone piaceva infilarsi quel bastoncino in quel buchetto. Lì per lì ci mettemmo a ridere come pazze, ma la sera una nuova idea si era già insinuata nelle nostre testoline: se c’era così tanta gente che faceva questa cosa, non doveva essere poi così male.
“Jennifer, dobbiamo trovare un maschio e chiedergli di provare”
“I maschi sono dall’altra parte del collegio e neanche possiamo parlarci. E se facciamo tutto tra di noi?”
“Ma tu non hai il bastoncino”
“Ma secondo me non serve per forza. Cioè, secondo te quanto grosso è, questo bastone?”
Ci riflettei un po’. Non era una domanda così facile. Jennifer propose la sua teoria.
“Qualcosa come un dito?”
Mi mostrò la sua manina. Valutai quell’idea, e alla fine convenni che dovesse essere così. E poi nulla, qualche anno dopo scoprii che il bastoncino non era grosso come un dito e che in un carto senso avevo perso la verginità con la mia migliore amica, quando avevamo appena dieci anni. E da quell’episodio ho imparato che è sempre bene informarsi, prima di fare qualcosa.
Condividemmo parecchie altre situazioni scomode e uscimmo brillantemente da tutte, finchè una sera decisi di andarmene con il mio ragazzo, con il quale stavo insieme clandestinamente da più o meno sette mesi. Salutai Jennifer e me ne andai. Non so quanto tempo passò prima che anche lei decidesse di uscire da quella scuola, ma appena un anno dopo la ritrovai da qualche parte in Illinois. La reincontrai l’anno dopo, e l’anno dopo ancora. Forse è vero che certe persone sono destinate a stare insieme.
 
“Io sono stata adottata” le dico tutto d’un fiato, lasciandola un attimo con la bocca spalancata. “L’ho scoperto un paio di giorni fa. Da lì il mio rapporto con Jeff è abbastanza cambiato, ci siamo avvicinati di colpo”
Lei annusice, incapace di dire qualsiasi cosa.
“Mi dispiace”
“Non è una gran cosa, ho sempre odiato i miei e tutto il resto di famiglia. E’ solo che mi sono sentita persa”
“E’ per questo che ultimamente sei così strana?”
Guardo Jennifer senza capire.
“Jeff mi ha detto che ultimamente vuoi sempre stare da sola, litighi con tutti, non vuoi uscire… E’ per questo che mi ha chiesto di venire qui da te” mi spiega lei.
Le racconto brevemente di come io e Axl siamo finiti a farci prendere a pugni senza un motivo logico. Rabbrividisco al ricordo. Lei non si perde nemmeno una parola della storia, mi guarda con un non so che di spaventato.
“E quindi non vuoi mai più uscire o incontrare gente?”
“Non lo so” rispondo sinceramente. Non so davvero cosa fare. Non posso certo segregarmi in casa per sempre, ma ho paura ad uscire. Ne ho davvero tanta.
 
Tornando a casa, io e Steven incrociamo Axl, che con infinita nonchalance imbocca un’altra strada che, tra parentesi, è un vicolo cieco.
“Non attacchiamo la lebbra” gli urlo, per poi vederlo uscire dopo un paio di minuti e unirsi di malavoglia a noi. Non capisco che cazzo abbia contro Steven, o contro tutta la specie umana in generale. Lui non vuole averci niente a che fare.
“Duff ha trovato un lavoro” improvvisa una conversazione Steve, ma non viene ascoltato da nessuno e gli ultimi dieci minuti di strada passano nel silenzio più assoluto.

 
Mi chiedo perché quel nostro bravo Dio che ci ama tanto ha spinto Slash a chiamare Steven, quella sera in cui cercavamo un batterista. E soprattutto, perché sempre quel buon Dio mi ha mandato in casa una che l’ha fatto tornare indietro quando finalmente se n’era andato. Non lo sopporto, cazzo. E’ un bambino. Solo a guardarlo, si capisce che è un bambino. Perché ho ascoltato Duff, quando mi diceva di non fidarmi delle apparenze e di lasciarlo entrare nella band? Perché tengo ancora in piedi una band, se tanto abbiamo finito di suonare, per questa vita? Perché per loro mi sto mettendo nei casini con Joe e quella sua cazzo di idea con la quale mi rompe da quando l’ho conosciuto?
 
Entriamo in casa e Steven comunica subito la notizia del mio nuovo lavoro a tutti. Slash, in un momento di euforia, mi abbraccia, rimanendoci un po’ male al sapere che guadagno ventotto dollari al mese. Ma sempre meglio di niente, insomma.
“Anch’io ho trovato qualcosa” ci dice Axl, riallacciando finalmente i contatti con quei poveri umani al di sotto di lui. Lo squadriamo tutti, ansiosi di sapere cos’è riuscito a trovare. Anche se la cosa che ci interessa è quanti soldi riesce a portare a casa, sinceramente.
“Non è nulla di sicuro, un’idea che avevo con un mio amico tempo fa. Domani devo trovarmi di nuovo con lui e sentire se può funzionare”
”E che succede se funziona?” vuole informarsi Slash. Axl sospira.
“Tanto, se siete disposti a rischiare e tenere la bocca chiusa”
“Allora forse è meglio se me ne vado, io non so tenere la bocca chiusa” lo interrompe una voce femminile che non riconosco. Quando tolgo gli occhi da Axl e seguo la direzione dalla quale proviene la voce, il mio cuore perde un battito: è quella rompicoglioni della cugina di Jeff.
“Ve la ricordate, la mia pseudo cugina, no?” la presenta lui, senza alcun bisogno: dopo che una ti rompe le palle per settimane, è impossibile dimenticarsela.
“Sì, la ricordiamo tutti” mormoro a denti stretti, sperando che sia qui solo per una visita ai suoi pseudo parenti, che non capisco perché siano pseudo e non parenti effettivi, e che se ne vada al più presto.
“Allora, forse devo spiegarvi come mai Jeff mi chiama pseudo cugina, non credo di avervelo raccontato, l’altra volta” si offre lei, arrivandomi di fianco.
“Io stavo parlando” le ricorda Axl, abbastanza contrariato.
“Me lo ricordavo, questo brutto caratterino, però è peggiorato parecchio” gli risponde lei con un tono da mamma protettiva, che per lui è decisamente troppo. Se ne va in camera sua sbattendo la porta, lasciando tutti con il dubbio di cos’abbia trovato e una rompicoglioni in salotto.

 
La porta che sbatte mi fa sussultare. Guardo Axl entrare incazzato e buttarsi sul suo letto, senza badarmi di striscio. Dopo cinque minuti buoni, si decide a parlarmi.
“Esci”
“No”
“Fottiti”
Ripiomba il silenzio, fino a quando il gli chiedo: “Hai voglia di gelato?”
Più che altro glielo sto offrendo perché se lo finisco io mi tocca mettere a posto tutto.
“No, non ci tengo a ingrassare come sta succedendo a te, che ogni giorno sei sempre peggio”
Mi alzo dal letto e mi avvicino a quello del rosso con la bocca semiaperta, cercando qualcosa da dire. Non riesco a formulare qualcosa di adeguatamente cattivo. Mi ha spenta. Mi ha detto che sono grassa. Che sono brutta. Lui che il secondo giorno che ci conoscevamo voleva già scoparmi.
Rimango un po’ a cercare ancora quella frase perfida da urlargli, ma non mi esce nulla. Alla fine, arresa, torno in salotto, dove Jeff e Jennifer stanno intrattenendo gli altri, che lo ascoltano poco interessati.
“E quindi la chiami cugina perché sarebbe la pseudo sorella di Jeanette perché si vogliono bene ma tu non te la sentivi di chiamarla sorella e quindi la chiami cugina” tenta di capire Slash, che tra tutti sembra quello meno annoiato.
“Esatto, bravo Slashy” gli risponde lei, beccandosi una fulminata che avrebbe ucciso praticamente qualsiasi persona tranne lei.
 
Alzo gli occhi e vedo Jeanette, appoggiata alla porta della camera di Axl. Sta guardando la sua amica con un sorriso malinconico. Sempre meglio di niente. Almeno sorride. Quando si accorge che la sto fissando, sorride debolmente anche a me. Abbasso la testa e mi metto a guardare un punto indefinito sul tappeto. Mi vergogno ancora di quallo che ho fatto stamattina.
Visto che la sfiga mi ama e mi accompagna in ogni secondo della mia vita, Jeanette si siede sul tappeto, esattamente di fronte a me.
“Non mi hai detto come conosci i ragazzi” chiede a Jennifer, quasi in un sussurro.
“Allora…” inizia l’interpellata, con quella sua voce stridula e insopportabile. Continuo a fissare il tappeto, mentre Jennifer ripercorre il momento in cui ha conosciuto Jeff, in cui ha scoperto che è il fratello di Jeanette (cosa che non era mai arrivata alle nostre orecchie fino a qualche settimana fa), in cui ha scoperto che aveva un gruppo e in cui ha deciso che avrebbe seguito il gruppo dovunque fosse andato perché lei voleva imparare a suonare il basso. Il resto della storia lo so perfettamente: mi è stata attaccata come una cozza per settimane, con la scusa di queste lezioni di merda. Alla fine Axl ha fatto qualcosa, una sera, e il giorno dopo lei si era dileguata. E’ stato uno dei pochi momenti in cui ho adorato il rosso.

 
Quando Jennifer, con grande gioia di tutti tranne me, finisce di raccontare la sua storiella, decide che è ora di tornare a casa. La saluto il più lentamente possibile, non voglio che se ne vada.
“Tanto domani torno” mi dice. Noto un’espressione d’orrore farsi strada sul viso di Duff.
“E domani sera usciamo” aggiunge, facendo comparire la stessa espressione d’orrore sulla mia faccia.
“D’accordo” mormoro.
Lei mi stampa due baci sulle guance prima di aprire la porta e andarsene. Slash, Jeff e Steven si rintanano tutti nelle proprie stanze, lasciando me e Duff soli in salotto. Lui mi sembra strano, a disagio quasi. Non ci bado più di tanto, non ho affatto voglia di fare conversazione, e mi stendo sul divano, sistemando la coperta alla meno peggio.
”Come stai?” mi sento chiedere.
“Tutto bene” taglio corto. Lasciami dormire, Duff.
“D’accordo. Buonanotte, allora”
“Notte”


E’ incazzata. Perché io sono un coglione e devo fare la prima cosa che mi passa per la testa, senza nemmeno pensarci un minuto.
 
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Ciao, sono sempre quella piccola mente bacata che scrive sta storiellina. Mi dispiace se vi ho fatto aspettare secoli (ormai lo dico ad ogni capitolo) e se la storia sta facendo sempre più schifetto (almeno, a me sembra così e vorrei sotterrarmi ma l’idea che ho sul finale mi piace troppo e quindi devo continuare a fare capitoli di merda fino al finale, sorry).
La smetto di lamentarmi, grazie se continuate ancora a seguire la storia, davvero.
Un bacione, ross.
 

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Capitolo 18
*** Diciottesimo giorno. ***


l problema non è che alla tv non danno nulla, il problema è che tutto quello che trasmettono fa schifo. Mi alzo e spengo l’apparecchio (il telecomando è scappato qualche mese fa, mi ha raccontato Duff un giorno), poi decido di andare in bagno e fissarmi allo specchio. E’ una cosa che fa bene, ogni tanto: aumenta l’autostima. Fisso il mio riflesso davanti, di profilo, dietro (con un po’ di difficoltà). Lascio scorrere il mio sguardo critico sui fianchi, sul piccolo tatuaggio nero che macchia la pelle candida, sulla linea della vita, sulla pancetta che a me, sinceramente, sembra sempre più evidente (spero davvero che sia solo un’impressione e che non sia ingrassata sul serio), sul seno stretto in un reggiseno che dovrebbe essere “Miracoloso per le tue curve”, a detta della pubblicità, sulle ossa sporgenti delle clavicole che ho sempre adorato. Mi guardo in faccia e, con orrore, noto che in un paio di settimane al posto delle sopracciglia hanno fatto in tempo a crescere un paio di cespuglietti folti folti (in realtà sono due peli fuori posto, ma noi donne tendiamo un po’ ad esagerare). Continuando a chiedermi da quanto tempo abbia quell’obbrobrio sulla faccia, mi metto alla disperata ricerca di una pinzetta, o di un qualcosa che riesca a regolare quei due arbusti. Anche una falciatrice mi andrebbe bene, a questo punto. Mi fermo un attimo e respiro. Non ha senso cercare a caso, anche perchè magari poi trovo per sbaglio qualcosa che è meglio resti nascosto dov’è e non veda la luce. Seguendo uno schema logico, dove riporrebbe una pinzetta il ventenne medio americano? Probabilmente il ventenne medio americano nemmeno ce l’ha, una pinzetta. Non saprà nemmeno cosa sia. Mi rassegno all’idea che, finchè sarò in questa casa, mi toccherà tenermi delle sopracciglia oscene e vado in cucina, giusto per tirarmi su con un paio di boscotti.
La piccola sveglia sopra il frigo (questa sveglia si sposta di giorno in giorno: ieri l’ho vista sul comò in salotto) mi informa che sono le sette e tre quarti. Troppo presto per fare qualsiasi cosa, considerando che in questa casa la giornata comincia verso le dieci, quando il grande capo Axl Rose alza il suo didietro dal materasso. Frugo nella credenza dove teniamo la carta igienica e, come previsto, dietro ad un muro ben compatto di rotoli trovo il sacchetto dei biscotti, che scopro incredibilmente leggero. Un dubbio si fa strada nella mia mente al sentire tutta quella leggerezza, dubbio che si rivela fondato quando scopro il pacco vuoto. Vuoto. Nemmeno un singolo biscotto per il mio pancino. Maledico mentalmente chiunque mi abbia giocato questo scherzo e inizio ad aprire tutte le ante in cucina alla ricerca di cibo. Apro pure l’armadietto del pronto soccorso, come ultimo scoglio. Non ci trovo i biscotti ma ci trovo la pinzetta che cercavo prima. Era nel posto più ovvio. Finalmente contenta, torno in bagno, con la mia nuova scoperta stretta nella mano: meglio non lasciarsela sfuggire, ora che l’ho finalmente riportata alla luce.
 
Richiudo il libro che stavo leggendo e mi trattengo dal lanciarlo a Steve, che russa come un treno e non mi permette di dormire. Russa senza decenza, produce un rumore che potrebbe essere benissimo oggetto di studi: non so quale organo o ghiandola o chissà cosa produca quel suono, ma Steve ce l’ha ben sviluppata e la sfrutta ogni notte per impedirmi di fare un sonno decente. In tutto il tempo in cui lui mi ha tenuto sveglio, ho fatto in tempo ad alzarmi, accordare la chitarra, suonare l’introduzione di Stairway To Heaven tre volte (lui neanche l’ha sentita), mettere giù la chitarra, trovare una copia di Playboy sotto il letto, avere due orgasmi, recuperare un libro dal nostro armadio (era sepolto da non so quanto tempo sotto le mutande di Steve) e arrivare a pagina sessantasei. Tutto senza che lui si accorgesse di nulla o desse il minimo segno di percepire qualcosa dall’esterno. Lui russava, placido e beato nel suo mondo dei sogni, mentre nella vita reale io progettavo come farlo tacere definitivamente mentre mi tenevo aggiornato sulle ultime mode in fatto di tette.
Rassegnato, seguo il consiglio che mi sta offrendo la mia vescica e vado in bagno, trovando Jeanette appiccicata allo specchio, intenta a depilarsi le sopracciglia alle otto di mattina.
“Fa pure, io non ti guardo” dice sovrappensiero, impegnata a litigare con un pelo che non ne vuol sapere di abbandonarla.
Io, complice il sonno e la scarsa capacità di elaborare dati che si ha alle otto di mattina, mi abbasso i boxer, piscio tranquillo e chiedo, ancora con il gingillo in mano: “Se mi facessi le sopracciglia sottili starei meglio?”
Dal riflesso di Jeanette nello specchio, noto una faccia che va dal perplesso, al divertito, all’orripilato, al curioso.
“Prova”
Dopo questo utilissimo ed esauriente consiglio, posa la pinzetta sul lavandino ed esce. Sento la tv accendersi e una voce spiegare che c’è stata una grossa rapina in una banca sulla Witcham, ma non mi interessa più di tanto: quella pinzetta appoggiata al lavandino mi sta guardando con un’aria di sfida, e io non rifiuto mai una sfida, nemmeno se me la propone un giochetto da estetista.

 
La ragazza del telegiornale conclude la trasmissione ricordando che in questi giorni le rapine a mano armata stanno aumentando, e che è sempre più consigliato essere prudenti lungo le strade e i quartieri fuori mano, soprattutto la notte (“Non siamo più negli anni del pace&amore”).
“Grazie...” commento prima di alzarmi e cambiare canale: sulla NBC fanno Highway to Heaven e, anche se mi fa un pochino cagare (già dal titolo, che è un miscuglio di canzoni), è sempre meglio di una tizia che mi ricorda che potrei farmi pestare un’altra volta, così imparo ad uscire la sera tardi.
Un urletto acuto giunge alle mie orecchie dal bagno. Mi dispiace per Duff, ma probabilmente questa scampagnata nel mondo femminile gli farà bene. Magari un giorno gli faccio pure la ceretta.
Guardo un po’ Landon e il suo compare French aiutare una tipa che aveva perso suo figlio durante una gita in montagna, poi preferisco concentrare la mia attenzione sugli addominali di uno Slash ancora in stato dormiente che fa la sua entrata in salotto con un plateale sbadiglio.
“Ciao” mi saluta, mentre i miei occhi erano ancora in contemplazione di quel piccolo spettacolo che ha addosso. Duff, totalmente irrispettoso del mio diritto di guardare una bella tartaruga, mi chiama dal bagno, intimandomi di venire subito o lui fa un macello. Mi immagino il macello che può fare lui, alto due metri e con il cervello di un dodicenne.
 
Le grida di Duff che chiama Jeanette mi svegliano. Perchè cazzo, perchè dovete urlare la mattina presto, quando sapete perfettamente che sto dormendo e che non voglio essere disturbato? Io ho bisogno di dormire, sono il più vecchio qui dentro e necessito dei miei tempi, dei miei spazi e della mia tranquillità. Nel tragitto tra la camera e il bagno (sette passi circa) elaboro velocemente il discorso da fare a quell’anima sciagurata che mi ha svegliato. Spalanco la porta e, senza neanche far caso alla scena che mi si presenta davanti, sbraito tutto quello che ho pensato durante quei sette passi. Gran bel discorso, non c’è che dire: include pure la spiegazione del perchè la mia voce stia diventando sempre più stridula, l’illustrazione degli orari in cui dev’esserci silenzio e alcune testimonianze sulle mie precedenti convivenze (una). Alla fine della ramanzina, Duff e Jeanette sono ancora nella stessa posizione nella quale li ho trovati, gli unici dettagli che sono cambiati sono l’espressione sulle loro facce e il fatto che si sia aggiunto Slash di fianco a loro, a pisciare. Incrocio le braccia al petto, in attesa di una risposta o di un commento sul mio discorso, o forse di un applauso. Nessuno risponde. Compiaciuto, giro i tacchi e torno in camera, rallegrandomi del fatto che, se sono riuscito a mettere a tacere tre ventenni, ho delle ottime possibilità di essere un buon padre, in futuro.
 
“Appuntatelo da qualche parte: mamma chioccia ci vuole silenziosi dalle diciotto alle dieci, altrimenti il suono che giunge alle sue orecchie si propaga fino alle sue corde vocali e le indebolisce, come ha dimostrato la convivenza con la sua ex ragazza, che aveva l’abitudine di solfeggiare operette di Verdi a mezzanotte, in compagnia del suo amico immaginario”
Ridacchio al riassunto di Duff e gli strappo un altro pelo dal sopracciglio destro, facendolo urlare.
“Fa male”
“Non fa così male”
“Fa male”
“Non hai mai provato una ceretta, tu”
“Fa male?”
Annuisco con severità e riprendo la mia opera di riparazione dell’oscenità che si è fatto sul viso.
“Non so se ce la faccio a mettere tutto a posto” devo ammettere. Duff mi rivolge uno sguardo da cucciolo bastonato. Senti, ragazzo, sei stato tu a decidere di depilarti le sopracciglia alle otto di mattina, senza un motivo preciso e una minima idea di come si facesse.
 
Non faccio in tempo a buttarmi di nuovo sul letto che Jeff mi chiede cosa sia tutto quel chiasso.
“Vallo a chiedere ai nostri amici di là” rispondo, soffocando le parole nel cuscino.
Tento di riaddormentarmi, o perlomeno di rilassarmi un attimo. Io sono abituato ad alzarmi alle dieci, perchè dovete rompere i coglioni, ragazzi? Poi lo sapete che me la prendo e succedono casini. Figlioli, perchè? Sto seriamente rivalutando l’idea di diventare padre che mi era venuta poco fa.
Sento Duff cacciare l’ennesimo urletto acuto (mi chiedo che diavolo stiano facendo lì in bagno), poi Jeff borbotta qualcosa e cala il silenzio. Davvero, una tomba. Jeff, sposami e facciamo dei figli assieme.

 
Guardo Jeanette, sposto lo sguardo su Slash, che ha appena finito di pisciare, noto con la coda dell’occhio Steven che sta andando in cucina, poi torno a fissare Jeff.
“Non stai parlando sul serio” balbetto con un filo di voce.
Izzy annuisce e Slash tenta una breve spiegazione.
“Ragazzi, non sapevo che la pinzetta fosse proprio quella”
“Quante cazzo di pinzette pensi che abbiamo in casa?” tenta di rimproverarlo Jeanette, ma la vocetta stridula con il quale lo dice non è degna di una sgridata. Lascia l’oggetto del misfatto sul lavandino e se ne va, lasciandomi solo in bagno con Jeff e Slash, sbigottito da quello che mi è appena stato raccontato.
“Ma quindi, cioè... “ tento di mettere in ordine le idee, ma non riesco a riflettere lucidamente: varie scene non particolarmente piacevoli affollano la mia testa.
“Senti, anche tu avrai fatto qualche giochino, non fare quella faccia sconvolta” si giustifica il riccio, scatenando una risatina totalmente inappropriata di Jeff.
“Saul, io non ho mai messo una pinzetta dentro... Cioè... Ma da dove ti vengono in mente queste cazzate? Te le sogni la notte?” sbotto, per poi alzarmi e andarmene anch’io. Mi fermo un secondo sull’uscio, fisso la pinzetta, ancora piuttosto schifato, poi decido di rivolgere a Slash una domanda di cui mi pentirò sicuramente, ma a questo punto...
“Non è che hai coinvolto qualche altro oggetto nei tuoi giochetti erotici?”
Saul fissa le piastrelle del pavimento, e questo momento di riflessione mi porta solo a pensare a pessime notizie.
“Ti faccio una lista più tardi”

 
Addento una carota e guardo Steve, che mi fissa con gli occhioni blu spalancati. Gliela porgo, ma lui scuote la testa.
“Non sono un coniglio”
“Neanch’io, ma è l’unica cosa commestibile in cucina”
“E se io mangiassi tazze?”
”Accomodati”
Passo a Steve la tazza verde che tecnicamente dovrebbe essere di Duff ma che in pratica è di chiunque abbia voglia di usarla. Il biondo scuote la testa una seconda volta e apre il frigo, alla ricerca di qualcosa per fare una colazione che non consista in carote. Il frigorifero, in tutta risposta, gli offre una vasta scelta tra mezzo limone (non voglio sapere che cosa ne è stato dell’altro mezzo, dopo la storia della pinzetta potrei aspettarmi di tutto), un’altra carota, due yogurt alle prugne, un sacchetto di ghiaccio e un pacco di riso. Sconsolato, Steve chiude il frigo e afferma che, se in due giorni non ci sarà qualcosa di decente da mangiare, la tazza verde finirà nel suo stomachino bisognoso di cibo. Annuisco distrattamente, approvando in pieno la sua idea.
“E comunque Axl oggi doveva chiarire qualcosa per un lavoro o roba del genere. E Duff fa i turni in una pizzeria. Quindi siamo a posto” si rallegra Steve. L’ottimismo è sempre un’ottima qualità, mette l’anima in pace alle persone che lo sanno sfruttare.
Finisco la carota e propongo una passeggiata. Più precisamente, vado in salotto e urlo che ho voglia di farmi un giro, tanto in questa casa grande come un’arachide basta sussurrare qualcosa in cucina ed ecco che Axl ti ha sentito dalla sua stanza. Infatti, pochi secondi dopo, mi arriva un secco “Taci” dalla porta del rosso, seguito da un “Va pure a farti pestare di nuovo”, sempre dallo stesso mittente. A quella frase, tocco istintivamente l’angolo del labbro che un qualche stronzo mi aveva rotto, e l’idea di una passeggiata non mi appare più così attraente.
“Andiamo?” mi domanda Steve tutto contento, finendo di infilarsi una felpa troppo grande per lui.
“No, ho cambiato idea” mormoro in trance, per poi appollaiarmi sul divano, con la coperta raggomitolata sulle ginocchia.
 
Dormo per un’oretta, ma ormai tutto quel casino di prima mi ha svegliato e so che non riuscirò più ad addormentarmi come si deve, per stamattina. Decido di andare in cucina a mangiare qualcosa (sempre che qualcosa sia rimasto) e mi imbatto in Jeanette e Jeff sul divano, con una coperta sulle gambe come una coppia di vecchietti. Stanno ascoltando Slash, che racconta una storia che gli è successa qualche anno fa con Steve, che sghignazza ad ogni parola.
“Il grande capo si è svegliato” mi accoglie la moretta, con un tono che riesce a farmi innervosire più di quanto non lo fossi già. Tanto per dimostrare tutta la mia simpatia, le chiedo come mai non sia uscita.
“Hai ancora paura, povera piccola Jeanette?”
Non mi degna di una risposta vera e propria, butta la coperta che aveva sulle gambe addosso a Jeff, si alza e tenta di mollarmi uno schiaffo. Le blocco il polso appena prima che arrivi sulla mia guancia e guardo la ragazzina negli occhi. Dire che è incazzata nera è dir poco. Ha le lacrime dalla rabbia. Decido che per ora mi basta e vado in cucina, annotando mentalmente il fatto che nessuno abbia tentato di fermarla quando stava per tirarmi uno schiaffo bello e buono. Mi siedo sul tavolo e fisso la credenza chiusa, come se di colpo dovesse aprirsi e una ciambella fluttuare verso di me. Una porta sbatte, viene riaperta e sbatte di nuovo.
“Ti diverte farla incazzare così ogni giorno?” mi chiede la vocedi Izzy dall’uscio.
“Non particolarmente, ho fatto cose più divertenti”
Tipo quando stavo per scoparmela in quella casa abbandonata al mio compleanno, ma ormai è acqua passata.
“E se un giorno decidesse di far finire tutto?”
Ridacchio. “Non potete cacciarmi. Stasera vado a sentire del lavoretto che vi ho detto ieri, sarò l’unico che porta due soldi a casa”
Izzy sospira e trascina i piedi fino a davanti a me.
“E’ una cosa seria? Cioè, davvero avremo qualcosa?”
“Forse è una cosa anche troppo seria, ma non abbiamo tante possibilità”
 

“Non piangere per lui, non ne vale la pena” tenta di consolarmi Duff, ma il punto è che non mi viene nemmeno da piangere. Mi rigiro nel letto e fisso il soffitto.
“C’è un ragno” mormoro, sperando vivamente che quel ragno non si accorga che lo sto guardando e decida di passare sul mio corpo per un saluto.
Duff si stende di fianco a me. Non è stata una grande idea, dato che siamo su un letto da una piazza e il biondo, per quanto ci provi, ne occupa tre quarti. Prima di venire lanciata giù dal materasso da un movimento improvviso del mio consolatore, con una mossa veloce mi appolaio sopra di lui, voltandomi sulla schiena per controllare quel maledetto ragnetto sul soffitto. Nel farlo, pianto una gomitata tra le costole di Duff, ma poco importa: ha vent’anni e passa, una gomitata non lo ucciderà di certo.
“Comoda?” si informa premuroso, anche se più che premura noto dell’ironia nel tono di voce.
“Ingrassa un po’ e poi vai bene”
E se stasera uscissi davvero? In fondo sono con i ragazzi, con Jennifer, con qualche centinaio di persone nel locale. Anche se non so di preciso dove andremo, so che quel centinaio di persone ci sarà: a Los Angeles devo ancora trovare un locale vuoto, la sera.
“Duff, tu non mi lascerai mai, vero?” mi trovo a domandare, senza un apparente motivo. Il biondo appoggia le mani sulla mia pancia e tamburella un po’ prima di rispondermi.
“Perchè dovrei lasciarti?”
“Non lo so, ma un sacco di volte va così. La gente entra nella tua vita per poi sparire. E tu non la vedi più. E non ha importanza cosa hanno fatto per te, se ti hanno cambiato la vita o se semplicemente ti hanno prestato l’accendino, se ne vanno e tu resti con un palmo di naso e un sacco di cose che non hai mai avuto il coraggio di dire”
Duff sospira direttamente contro il mio collo, facendomi sentire il suo respiro caldo.
“Io ci sarò sempre”
“Stasera usciamo?” raccolgo tutto il coraggio che ho per formulare quella domanda.
“Sei sicura?” vuole sapere il biondo ma sinceramente, più domande mi fa e più mi ci fa ripensare. Annuisco a chiudo il discorso, prima di cambiare idea sul serio.
 
Jeanette mi conferma che è sicura di voler uscire. Non so se davvero lo voglia o se semplicemente non vuole scontentare la sua amica, che dovrebbe arrivare tipo adesso: anche se usciamo la sera, le ragazze hanno sempre bisogno di quelle cinque ore minimo per farsi i capelli, le unghie, lavarsi (non ho mai capito come impieghino quei 40 minuti sotto la doccia, probabilmente lavano anche le piastrelle, non lo so), truccarsi, vestirsi, disfare tutto perchè il primo outfit non va mai bene e ricominciare. Almeno se sono perse a fare tutto questo non dovrò sorbirmi Jennifer. Quella ragazza è tremenda. E’ esasperante, riesce a prenderti per sfinimento.
Ma soprattutto, se Jeanette e Jennifer sono impegnate, io riuscirò finalmente a farmi delle sopracciglia decenti: non mi piace per niente il modo in cui me le ha ritoccate la moretta prima.

 
Sento qualcuno bussare pesantemente alla porta ed entrare senza nemmeno aspettare una risposta. La vocetta stridula di Jennifer ci saluta e urlacchia poco educatamente che se la sua sorellina non si presenta davanti a lei entro cinque secondi fa un macello. Me lo immagino, il macello che può riuscire a fare una tipa del genere. Per cosa poi, mi chiedo. E’ stata qui già ieri  sera, che cosa le è successo in queste dodici ore, che deve per forza raccontarlo a Jeanette? Non può risolversi i suoi problemi chiusa in casa, in silenzio, ferma, legata ad una sedia?
Jeanette corre subito dalla sua amica, non sia mai che la faccia attendere. Almeno riesce a zittirla, ma alla voce acuta di una si sostituisce quella dell’altra e siamo punto a capo. Jeff esce dalla cucina e va a salutare la sua pseudo parente, ed ecco un’altra voce che si aggiunge al mio mal di testa. Tanto per completare l’opera, Steven inizia a fare domande a raffica alle ragazze su cosa hanno intenzione di fare stasera. Concludo che così è davvero troppo e, per evitare di fare una carneficina, corro in camera a cambiarmi (ignorando un Duff che sta tentando di nascondersi da non so chi dietro al mio letto) ed esco prima che un qualsiasi plebeo possa rivolgermi la parola.
Gente, scusatemi, ma è mattina e mi avete svegliato prima del solito e sono in ansia per quell’idea del cazzo in cui tenta di mettermi in mezzo Joe da quando ci siamo conosciuti.

 
Tiro il lenzuolo verso di me, sperando che serva solo come precauzione e che Jennifer non entri in camera: suvvia, ragazze, questa è la camera di Slash e compagnia, ci sono gas letatli fuoriusciti durante la notte che voi non riuscireste a sopportare. Non entrate, non avete motivo di rischiare le vostre giovani vite.
Sento la maniglia scattare. Mi aggroviglio per bene nelle coperte e mi preparo al peggio. Di qui a pochi secondi sentirò una vocetta sgraziata urlacchiare il mio nome, lo so. E io dovrò uscire e sorbirmi quella pseudo cugina di Jeff o pseudo sorella di Jeanette o quello che è. Mi passa per un momento per la mente la speranza che le sia passata la cotta per me, ma mi sa che sto sperando invano, a giudicare da tutte le occhiate che mi ha lanciato ieri sera. E’ stato bruttissimo, sentirsi costantemente osservati e non poter far nulla senza essere visti da quella decerebrata.
“Ma che cazzo ci fai là sotto?” sento invece la voce di Slash, che è come manna dal cielo per le mie orecchie. Mi alzo di scatto e tento di inventarmi una scusa decente in fretta ma, alla fine, ammetto che mi stavo nascondendo dalla scassapalle. Slash si fa una sonora risata, per poi zittirsi e confessare: “Anche io. Andiamo a farci un giro prima che quella ricominci a parlare”

 
Jennifer continua a ridere e a scherzare con Steven, che a quanto pare la adora. Almeno qualcuno, oltre a me. Non capisco che cos’abbia di male questa ragazza; certo, parla tanto, a vanvera, tira fuori discorsi improponibili, spara cazzate a nastro, ma in fondo lo facciamo tutti.
Steven caccia un rutto da qualche centinaio di decibel e io mi volto di scatto a guardarlo male.
“E questo perchè?” chiedo fulminandolo. Ci sono delle cose nella gente che non riesco a sopportare. Una sono i rutti, o qualsiasi suono corporeo che esca ingiustificatamente da una persona. Steven si fa piccolo piccolo sotto il mio sguardo, lancia un’occhiata a Jennifer, poi a Jeff, cercando un po’ di sostegno da uno dei due.
“Stavamo... iniziando una sfida” si giustifica, facendo preoccupare non poco Jen, che sa benissimo del mio odio verso le sfide di rutti. Una volta ho preso a schiaffi Joe, nel backstage di un concerto a Cleveland. Quel rutto lo decretò vincitore della sfida e gli fece conquistare due sberle dalla sottoscritta, oltre all’astinenza forzata per due settimane. Certo, mi rimpiazzò con una mia amica, ma poco importa: sta di fatto che, ogni volta che inizia una gara del genere, o prendo e me ne vado o, più spesso, guardo male i partecipanti finchè non arriva il gran finale e vola qualche sberla.
“Okay, gioco finito, ora io e Jeanette iniziamo a prepararci, vero?” Jennifer salva Steven dal mio sguardo assassino e lo lascia nelle mani di Jeff, che sento sussurrare, appena volto l’angolo: “Come sei riuscito a farlo così forte?”
“E’ tutta una questione di diaframma” lo illumina il biondo, attaccando poi con un discorso degno di una laurea ad Harvard.
Jennifer mi fa sedere sul lavandino e mi fissa. Pettina i miei capelli lisci con le mani e tenta un paio di acconciature improvvisate, prima di chiedere quando ho idea di tagliarli. Inorridisco alla domanda e allontano le sue mani dai miei capelli. Tagliarli. I miei bei capelli neri. Non potrei mai, ci ho messo anni a farli diventare così e probabilmente lei lo sa: ho avuto sempre una mania incontrollata per i miei capelli e tagliarli mi sembra un sacrilegio.
“Ma accorciarli un attimo, intendo” tenta di convincermi. Spero vivamente che non le venga la balzana idea di farlo con le sue manine, e che soprattutto non ci siano forbici nei paraggi.
 
Vediamo Axl in piedi alla fermata dell’autobus, intento a fumarsi una sigaretta con lo sguardo perso nel vuoto. Ultimamente ha lo sguardo perso nel vuoto un po’ troppo spesso, e questo non è un buon segno: sta riflettendo su qualcosa e, se gli ci vuole così tanto tempo, è qualcosa di grosso.
Gli passiamo davanti e lo salutiamo con la mano; non sia mai che interrompiamo le sue elucubrazioni: rischieremmo la vita. Lui si limita a guardarci un attimo, per poi tornare a fissare il nulla. A volte sembra un po’ rincoglionito, devo ammetterlo.
Dopo qualcosa come una decina di passi, Slash annuncia che ha fame. Non c’è un momento in cui non abbia fame, gli faccio notare.
“Ma adesso ne ho più del normale e non posso più resistere” insiste.
“E dove andiamo a mangiare? Rubiamo nei negozi di caramelle?”
Lui mi guarda strano, come se avessi detto la cazzata più grande della storia.
”Michael, da quand’è che sei diventato un bravo ragazzo e ti fai problemi a rubare nei negozi di caramelle?”

 
Salgo nell’autobus e subito l’autista mi chiede di mostrargli il biglietto. Lo fisso chiedendomi se fa sul serio: in questo quartiere non c’è mai stata una sola persona che abbia comprato il biglietto per salire in autobus, tanto che un bel giorno gli autisti si sono arresi e hanno smesso di chiedere; com’è che ora si sono inventati di ricominciare? E soprattutto, perchè lo stanno chiedendo a me? Non si vede che sono un povero ventenne indifeso e senza un soldo e con un gruppo che va a rotoli e che si vorrebbe volentieri gettare sotto questo cazzo di autobus?
“Signore, se non ha il biglietto, le chiedo di scendere”
Sto per lanciare addosso a quel tizio tutta la mia vita di merda ma vengo bloccato da una vocina dentro di me che mi dice di lasiar perdere e non procurarsi altre beghe, perchè quelle che ho bastano e avanzano. Decido di ascoltare la mia coscienza, giusto perchè è da tanto che non mi da consigli, e scendo. Mi avvio verso il parco dove sono stato ieri, sperando che Joe non mi dia buca: non sarebbe la prima volta che succede.

 
Entro nel negozio di caramelle e guardo Slash con aria complice.
“Come sempre?”
Lui annuisce e si dirige rapido verso la corsia di destra, dietro ad una piramide di cioccolatini (finti, quella sì che fu una delusione), mentre io giro a sinistra, dove ci sono quei piccoli dannatissimi Skittles dai quali sono diventato dipendente qualche anno fa. Appena li vedo mi brillano gli occhi. Sono tornato, piccini miei, quanto mi siete mancati.
Slash interrompe il mio momento di estasi urlandomi dall’altra parte del negozio se ho voglia di marshmallow. Ma chi ha bisogno di marshmallow, quando ha davanti queste palline colorate distribuite sulla Terra direttamente da Dio? Non sentendomi rispondere, Saul appare dietro le mie spalle e si ferma anche lui a contemplare la fonte della felicità che ho davanti agli occhi. Mi posa una mano sulla spalla, sussurrando commosso: “Man, questo è meglio di tutta l’erba che ci siamo fumati da quando siamo arrivati a Los Angeles”
Annuisco semplicemente, incapace di proferire parola. Ci starebbe bene anche Steven a completare il quadretto.
“E’ meglio anche di tutta l’erba che ci siamo fumati prima” confermo.
“E noi vorremmo rubare questo ben di Dio?”
Mi sento improvvisamente in colpa: non è giusto privare le future generazioni di questa fonte di gioia. Mi volto e esco dal negozio mogio mogio, trascinando i piedi. Non potevo rubarle, il nostro Signore ci avrebbe punito troppo crudelmente. E avrebbe avuto ragione.

 
Sento l’ennesimo rutto provenire dal salotto.
“Il numero dodici” commenta Jennifer, aggiungendo un po’ di carta igienica dentro il reggiseno. Ignoro tutto e mi concentro nel piastrarmi una ciocca ribelle che non ne vuol sapere di stare come dovrebbe ma, al numero tredici, perdo le staffe e mi precipito in salotto, trovandomi davanti alla scena di Steven con carta e penna che assegna punteggi ai rutti di mio fratello.
“Il 7 rimane ancora il migliore” ricorda a Jeff, per poi voltarsi verso di me e sorridermi placido.
“O state zitti o vi sbatto fuori” dico, raccogliendo tutta la poca calma che mi è rimasta in corpo. “Vi sbatto fuori dalla finestra” rettifico: non ero stata abbastanza minacciosa.
“Okay, ma scusa, noi ci stiamo annoiando. Trovaci qualcosa da fare, così smetto di fare lezione a Izzy e riprendiamo un giorno in cui non ci sei” propone Steven, troppo ingenuo per cogliere qualsiasi minaccia.
Mi porto le mani alla faccia e mi godo quel breve momento di silenzio.
“Margherite” sparo a caso. “Uscite e andate a raccogliere margherite”
Jeff si alza e mi prende il viso tra le mani.
“Jeanette, viviamo a Los Angeles. Ed è febbraio. Le margherite non le troviamo neanche se le cerchiamo in tutta la città”
“Okay. Allora trovate un po’ di soldi” mi correggo. Jeff con un cenno chiama Steven e gli dice di seguirlo.
“Quante margherite volevi, Jeanette?”
 
Mi siedo sulla stessa, benedetta panchina che ormai ha preso la forma del mio sedere (gran bella forma, dopotutto) e aspetto che arrivi Joe. Mi guardo intorno, osservando qualsiasi cosa mi si pari davanti per ammazzare il tempo. Dopo dieci minuti, ho già fissato qualsiasi cosa possa offrirmi questo parco e ho capito che come parco fa cagare. Sarebbe meglio definirlo ‘spiazzo d’erba morta con due alberi, tre panchine e un vialetto con quella che dovrebbe essere ghiaia ma in realtà sono pezzi di bottiglia frantumati’. Butto la testa all’indietro e chiudo gli occhi. L’unico motivo per cui amo questo parco è la tranquillità. E’ perfetto. Nessuno viene qui per il semplice fatto che sia in un quartiere di merda, e i pochi che hanno il coraggio di sedersi su una delle tre panchine qui sono drogati, quindi mantengono la tranquillità perchè sono strafatti e incapaci di spiccicare due sillabe. E poi ci sono io, a venire in questo parco. Ma tra un po’ mi sa che rinentrerò nella grande categoria dei visitatori drogati, o almeno di quelli che li riforniscono.
Quella specie di ghiaia/vetri a pezzi scricchiola sotto i passi di qualcuno. Apro pigramente gli occhi e vedo la sagoma di Joe in controluce venirmi incontro. Mi sorride. Io nemmeno lo saluto: sta per trascinarmi nella merda insieme a lui, perchè mai dovrei essere educato? E soprattutto, tutti mi identificano come l’acido di turno, tantovale essere stronzi.
Joe si siede all’altra estremità della panchina e appoggia una borsa scura in mezzo a noi due. Fisso la borsa, incerto, poi alzo lo sguardo e incontro di nuovo il sorriso di Joe. Che cazzo ha da sorridere così tanto? Non capisce che al momento non c’è nulla da ridere?
“Sei sicuro” mi sento chiedere, anche se suona più come un’affermazione che come una domanda. In fondo, non ho molta scelta e lui lo sa, chiedere non avrebbe nemmeno senso.
Annuisco distrattamente e osservo le mani del mio nuovo socio in affari aprire la borsa per mostrarmene il contenuto.
Vedo esattamente ciò che mi stavo aspettando da ieri, quando Joe mi ha chiesto di collaborare con lui in questo progettino che ci manderà tutti a puttane.
 

“Siamo sole” esclamo allegra rientrando in bagno. Steve e Jeff sono usciti a raccogliere margherite e finalmente hanno lasciato in pace me e Jennifer, che possiamo dedicare anima e corpo nel restauro delle nostre facce, in previsione di stasera. Mi blocco sull’uscio e osservo cosa sta facendo la mia amica. Si sta rifacendo le sopracciglia. Perchè sono tutti così ossessionati dalle sopracciglia, oggi? Anche se la domanda migliore sarebbe: perchè Slash, una sera, ha deciso di impiegare la pinzetta come improprio giochino erotico con una tipa e non ha lavato, disinfettato, esorcizzato quell’oggettino dopo averlo usato? Poteva anche lanciarlo dalla finestra, non sarebbe stato un problema. Invece l’ha messo nell’armadietto del pronto soccorso, in attesa di usarlo di nuovo. Mi corrono i brividi lungo la schiena e fermo Jen a metà dell’opera, ricevendo un’occhiataccia e una raffica di domande sul perchè io non la lasci fare quello che vuole.
“Non vuoi davvero sapere la risposta” la zittisco. Lei annuisce e trova subito altro da fare, ossia frugare in qualsiasi angolo del bagno alla ricerca di qualcosa di divertente con cui giocherellare mentre io mi faccio la doccia. Lancio i vestiti in un angolo del bagno con noncuranza e apro l’acqua nella vana speranza che si scaldi. Dopo più di due settimane in questa casa, vivo ancora nell’attesa che un giorno lo scaldabagno o la caldaia o qualsiasi cosa regoli la temperatura dell’acqua inizi a funzionare.
“Sei ingrassata” mi fa notare con molto tatto Jennifer, intenta ad esplorare un cassetto della specchiera. Sempre delicata, lei. E poi lo so che sono ingrassata, non serve che tutti me lo ripetano ogni giorno. Ma, cosa più importante, io rimango sempre figa. Continuo a ripetermi questa frase nella testa, scacciando il pensiero che sì, mi si stanno accumulando chili e chili di grasso attorno a quella vita che ho impiegato secoli a mantenere. E non capisco come, poi. Vivo di carote e insalata, dove diavolo l’ho presa quella ciccia che continua a lievitare sul mio corpo?
“Perchè c’è un negozio abusivo di trucchi qui?” ride la mia amica. Mi avvicino a lei e scopro, ben nascosti sotto una pila di riviste delle quali preferisco non leggere il contenuto, una palettina di ombretti, un paio di mascara, uno smalto nero e uno rosso e, ultimo ma non ultimo, un rossetto color fiamma che farebbe impallidire la miglior lucciola. Caccio una risata e poi entro in doccia, beccandomi un getto gelato che mi fa ghiacciare all’istante.
 
“Forza man, ci andrà meglio la prossima volta” mi incoraggia Slash, facendomi pat pat sulla spalla da bravo amico mentre apro la porta di casa. “Ah, comunque non ho avuto il tempo di finire la lista di cose che ho usato impropriamente, faccio prima a dirtele a voce”
Si prospetta una discussione interessante, insomma.
Jennifer fa capolino dal bagno e ci saluta, seguita a ruota da Jeanette, che esce con un asciugamano piccolissimo avvolto attorno al corpo. Strabuzzo gli occhi.
“Non fissatemi così, tutti quelli grandi li avete usati voi e non ci tengo a prendermi la malaria” si giustifica, invitandoci poi gentilmente a levarci dalle palle e lasciarle campo libero per prepararsi. Sembra che si stiano preparando con un incontro con il presidente, invece che ad una serata in cui l’unico obiettivo sarà sbronzarci e dimenticare almeno uno del miliardo di problemi che abbiamo.
Slash chiude il frigo con un calcio e, in tono solenne, annuncia che la carota che ha in mano è l’ultima cosa commestibile rimasta in questa casa e che, finita questa, dovremo iniziare a mangiarci tra di noi.
“Proporrei di sacrificare Axl per primo, ma è troppo magro e mangeremmo poco e male. Quindi, biondo, mi dispiace per te” conclude, prima di uscire e portare la carota a fare un giro della casa, per onorare la memoria dell’ultimo cibo rimasto che tra un po’ servirà a riempire il suo stomaco bisognoso.
 

Ficco in tasca i cento dollari che Joe mi ha dato ‘come anticipo’ e mi dirigo in fretta verso casa, fermandomi lungo il percorso in un supermercato dall’aspetto piuttosto scadente. Ma, sinceramente, me ne frega poco: a casa stamattina era rimasta solo una carota e mi sa che ormai qualcuno l’avrà già mangiata, digerita e espulsa dal suo corpo e non voglio sapere altro del resto del viaggio della piccola carota. Frugo un po’ tra gli scaffali e prendo lo stretto necessario per sopravvivere per qualche giorno; una decina di pacchi di biscotti e sei o sette tavolette di cioccolato possono bastare. Il sapere che ho i soldi è una soddisfazione enorme; quando sarò vecchio e grasso voglio che i soldi mi escano dal culo, da quanto ricco sarò.
 
Vedo la porta aprirsi e sua maestà Axl Rose entrare con in mano una borsa della spesa. Mi luccicano gli occhi e le ginocchia iniziano a tremare. Cibo. Soldi. Lavoro. O furto, ma preferisco l’opzione lavoro. Mi trattengo dall’abbracciare il rosso (in fondo è sempre Axl), ma Slash non riesce a fare lo stesso. Si lancia a capofitto contro il grande capo, soffocandolo in un abbraccio stritolante.
“Amico, ho sempre saputo che tu dovevi essere il leader qua dentro”
Axl si stacca Slash di dosso e inizia imporre le sue condizioni, come prevedibile: “Allora, visto che sembra che io sia l’unico che è riuscito a portare due soldi in questa casa, dovrete fare quello che dico io senza fiatare e, soprattutto, dovrete tenere la bocca chiusa su qualsiasi cosa vi chieda di fare, anche se può sembrarvi la cosa più sbagliata del mondo. Siamo intesi?”
Sinceramente no, non siamo intesi per niente, se queste sono le condizioni, ma non ho molta scelta. Annuisco assieme agli altri e chiedo quali sarebbero queste cose da fare e alle quali non ci possiamo sottrarre.
“Intanto, tu devi tenere la bocca chiusa” attacca Axl. Si guarda un po’ intorno e finalmente si accorge che Steve e Izzy non ci sono e che Jen è tutt’orecchi dall’uscio del bagno, motivata a non perdersi nemmeno una parola della riunione condominiale. “Il resto ve lo dico dopo, ho bisogno che ci siano anche gli altri e che la gallina non ci ascolti”
Jennifer ci rimane piuttosto male; non tanto per l’aggettivo che le è stato appioppato, quanto per il fatto che si è persa la conversazione scottante proprio quando credeva di averla in pugno.
“Mi racconterai tutto, vero Jeanette?”
“Non è che sarà questa gran cosa, al massimo ci chiederà di non svegliarlo prima delle dieci di mattina, mica mi farà diventare la sua schiava sessuale” rispondo un po’ stizzita: a dirla tutta, ho paura di cosa possa inventarsi quella testa di cazzo ora che detiene il potere in casa.
Jennifer fa spallucce e annuncia che lei è pronta ad uscire. Sono appena le sette.
“Duff e Slash vengono con noi, abbiamo bisogno di due uomini che ci proteggano” ridacchia e, senza aspettare una risposta da qualcuno, raccatta il suo cappotto dal divano ed esce. Mi infilo le scarpe e la seguo, con ‘i due uomini’ dietro di me.
 
Finalmente di nuovo solo, mi stendo sul divano e chiudo gli occhi, assaporando il silenzio e i biscotti, entrambi ingredienti rari in questa casa. Una pessima idea mi stuzzica. Mi rigiro e fisso la borsa appoggiata a terra, che mi guarda con fare ammiccante. Non dovrei, non dovrei nemmeno pensarci. Ma in fondo, dovrò testare la qualità dei prodotti che vendo ai miei clienti, no?

 
Entriamo al Roxy e le ragazze vengono subito abbordate da due tizi che, messo un bicchiere in mano ad entrambe, riescono a trascinarle via da noi senza alcuna resistenza da parte delle ragazze. Jeanette si è già dimenticata che appena due giorni fa è stata pestata, evidentemente. Forse è meglio così, almeno non la sentirò più piagnucolare su quanta paura abbia.
“Non credo che da noi verrà qualche gnocca ad offrirci da bere” mi fa notare Slash, e devo ammettere che ha ragione: si prospetta una seratina noiosa. “Nel frattempo, vado a farmi consolare da quella bionda che mi sta fissando”
Vedo la sua massa di ricci scomparire in mezzo alla gente. Sono solo. E non ho le palle di cercarmi una ragazza, stasera. Resto al bancone a fissare Jeanette che ride alle battutine di un tizio che ha già iniziato ad allungare le mani. Non mi piace, questa cosa, ma dopotutto non posso farci nulla: ha ventisei anni, è maggiorenne e vaccinata, non posso farle ancora da paparino protettivo.
Una mano mi batte sulla spalla. Mi giro seccato, non avevo assolutamente voglia di parlare con qualcuno, stasera. Mi trovo un bicchiere sotto al naso e il sorriso a trentadue denti di Nicole.
“Serata noiosa?” mi chiede sporgendosi sul bancone nero, mettendo in mostra solo cose belle.
Faccio spallucce: sì, Nicole, è una serata di merda, di un periodo di merda, di un mese di merda, di una vita di merda, ma che ci vuoi fare? C’è chi nasce fortunato e riesce a cadere sempre in piedi e chi deve rialzarsi ogni volta e non pensare a tutte le botte che ha preso. Mi volto e il mio buon proposito di non ubriacarmi stasera va definitivamente a puttane quando adocchio Steven e Jeff in mezzo alla marmaglia di gente, anche loro intenti a limonarsi due tizie. Afferro il bicchiere che mi ha offerto Nicole e bevo a canna, sperando di arrivare a non capire più nulla il più velocemente possibile.
 

Arrivata al quarto gin lemon, decido che ho bisogno di un po’ d’aria ed esco dal locale, seguita a ruota dal gentilissimo ragazzo che mi ha offerto tutto quel ben di Dio. Mi appoggio ad un’auto, lasciandomi abbracciare dal mio accompagnatore. Indesiderato, aggiungerei, ma mi ha offerto da bere e non posso dirgli di no. La mia logica cambia completamente quando le sue mani si allungano pericolosamente verso il mio sedere: dove cazzo sta scritto che se uno mi offre dell’alcool io devo per forza dargliela? Riesco a fargli perdere l’equilibrio con una minima spintarella e, beccandomi qualche imprecazione, prendo il primo autobus per tornare a casa. Da qualche parte nel fondo della mia testolina una voce mi avvisa che forse è meglio dire a Jen e agli altri che sto tornando a casa, ma la ignoro: non riuscirei mai a trovarli in mezzo a quel disastro. E soprattutto, ho bisogno di un letto in questo preciso istante.
 
Scendo dall’autobus e a passi incerti salgo le scale, fino ad arrivare al portone di casa. Appena entrata, mi giunge alle narici una nuvoletta di profumo che non sentivo da tanto tempo, ma al quale ero abituata quando ero ancora nell’appartamento degli Aerosmith. Annuso meglio, tentando di capire se è vero o se sto avendo un’allucinazione. La lucina rossa della brace di una sigaretta accesa fuga ogni mio dubbio e in men che non si dica mi ritrovo di fianco ad Axl, a pregarlo di lasciarmi almeno una boccata di qualsiasi cosa stia fumando. Mi arriva un secco “Arrangiati” per risposta e lo considero come un via libera: prendo un po’ dell’erba che il rosso ha abbandonato sopra al tappeto e con tutta la precisione del mondo mi giro quella cara, piccola canna che attendevo pazientemente dal giorno in cui Tyler mi ha buttata per strada.
 
“Duff, manderai in rovina il Roxy stasera” ride Nicole quando mi scolo l’ennesimo bicchiere. Torno a girarmi verso la marea di gente nel locale e adocchio Steven e Izzy con due tizie diverse da quelle con i quali li ho visti prima. Slash non lo vedo proprio, e mi sa che non lo rivedrò fino a domattina. In compenso, noto che Jennifer sta venendo verso di me con una faccia che riassume tutte le più brutte intenzioni del mondo.
“Nicole, versamene un altro, per piacere”

 
Mi lascio cadere a peso morto sul divano, ridendo con Axl. Ha una faccia davvero buffa, non ci avevo mai fatto caso. Ha la pelle chiara. Chiara come la panna. E i capelli rossi, come una carota. E un naso piccolo piccolo come una patatina. E anche lui sta ridendo, quindi perchè io non dovrei? Mi stendo e rido ancora più forte, chiudendo gli occhi. Sento il peso di Axl appoggiarsi sul mio corpo. Riapro gli occhi. Il nasetto a patatina del rosso sta sfiorando il mio, il suo fiato si mescola ai miei respiri resi affannosi dal troppo ridere. Gli accarezzo le guance, improvvisamente seria.
“Perchè abbiamo inziato a litigare?” chiedo.
Non ricevo una risposta, ma ricevo un bacio. E un altro. E un altro ancora, finchè non si aggiungono le mani di Axl a completare l’opera. Mi unisco ben volentieri al gioco, non domandandomi più come mai litighiamo sempre o perchè ci urliamo dietro ogni volta che ci vediamo. Mi chiedo solo che giorno sia oggi perchè, nel caso non sia ancora scoccato il ventottesimo, sto per perdere la scommessa.
 
 
 
 
 
 
 
  Ciao gente, sono l’autrice e mi scuso profondamente per tutto questo tempo durante il quale sono letteralmente scomparsa. Okay, non cerco scuse, sono un po’ cretina e ho iniziato un altro miliardo di storie prima di finire questa ma, come ho già spiegato a qualcuno, Febbraio riuscirà ad avere tutti e ventotto i suoi giorni.
Grazie per non avermi ancora uccisa dopo tutta quest’attesa, un bacione.
euachkatzl    
 
 
    

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Capitolo 19
*** Diciannovesimo giorno. ***


Accarezzo dolcemente la schiena nuda di Axl, seduto per terra, in un angolo della stanza. Lui rabbrividisce, e ci rendiamo conto di botto che la temperatura in casa non è certo piacevole: le finestre aperte a Febbraio lasciano entrare un venticello gelido che fa accapponare la pelle. Nonostante tutto, non mi sembra di sentire il freddo, anzi: toccandomi, sento solo la mia pelle bollente, e dello stesso avviso sembra essere il rosso davanti a me.

“Chiudo le finestre” sussurro, non tanto perché ne abbia bisogno, ma perché devo allontanarmi da Axl prima di rischiare seriamente di mandare a puttane tutta la scommessa. Ora che sono un attimo più lucida, mi rendo conto che ventotto giorni non sono ancora trascorsi, e che il signorino deve passarne ancora tante prima di sperare di portarmi a letto.

 

Jeanette si alza e si dirige verso la finestra con una lentezza esasperante. La prima cosa che mi viene in mente è alzarmi, fermare tutta questa messinscena e prenderla seduta stante, tuttavia così facendo mi negherei un sacco di divertimento. Odio ammetterlo, ma quella ragazza è fottutamente intelligente, e questo mi eccita parecchio: mi sta dando del filo da torcere, mi ha sfidato in un territorio che amo, e raramente perdo una sfida, soprattutto se ci tengo.

Paziente, attendo che la ragazzina chiuda quella benedetta finestra e torni verso di me, cambiando improvvisamente direzione all'ultimo e dirigendosi verso la cucina. Scocciato, mi alzo; dopotutto, dovrò pur dimostrare che un minimo ci tengo, a lei.

La ragazzina è in piedi, al centro della stanza, indecisa sul da farsi: è semplicemente venuta qui per farmi girare le palle. Smetto di aspettare e mi avvicino a lei velocemente, prendendola tra le braccia, senza lasciarle la minima possibilità di fuga.

“Abbiamo perso la pazienza?” chiede lei direttamente contro il mio orecchio, facendo un paio di passi all'indietro e sedendosi sul tavolo. La bacio, mordendole le labbra e tentando di farle capire chi è a comandare, in questa casa: negli ultimi tempi tutti si sono presi un po' troppe libertà, ed è ora di rimettere le cose in chiaro. Lei inarca la schiena all'indietro, riuscendo a separarmi dal suo viso, ma avvicinando bruscamente i nostri bacini. Una scarica di eccitazione mi attraversa da capo a piedi, e decido che, costi quel che costi, lei stanotte sarà mia.

 

Mi guardo intorno, alla ricerca di qualcuno che conosco. Sembra che siano spariti tutti. Ormai il locale inizia a svuotarsi, quindi è facile osservare le persone ancora presenti ad una ad una, tuttavia non vedo nessuno che conosco. Non vedo neppure Jennifer, e questo è un bene, anche se magari avrebbe saputo dirmi dove si sono cacciati tutti gli altri, Jeanette in primis.

“Hai perso gli altri?” mi chiede Nicole, comparendo di colpo dietro di me. Annuisco distrattamente, continuando a spostare lo sguardo da una parte all'altra del locale. Sento la ragazza avvicinarsi e appoggiarmi le mani sulle spalle.

“E' abbastanza normale, che la gente si trovi qualcuno disponibile ad ospitarli per la notte” mormora, mettendosi in punta di piedi e appoggiando una guancia contro la mia. Dal tono in cui l'ha detto, intuisco di aver trovato anch'io qualcuno disposto ad ospitarmi per quel poco di nottata che rimane.

 

Lascio scappare un gemito e tiro leggermente i capelli di Axl quando sento una sua mano intrufolarsi tra le mie gambe ed iniziare ad accarezzarmi lentamente, con delicatezza. Lui mi zittisce subito, riprendendo possesso delle mie labbra. La sua lingua continua a giocare con la mia e i suoi denti continuano a torturarmi le labbra, dando l'impressione di non volerle lasciare per nessuna ragione al mondo.

 

Salgo nell'appartamento di Nicole e, senza pensarci due volte, inizio a sbottonarmi la camicia decisamente scomoda che ho tenuto addosso per tutta la serata. Perchè ho deciso di mettermi una camicia? Perchè ho ceduto all'insistenza delle ragazze? Io sono abituato a magliette il più larghe e comode possibile, perché dovrei mettermi quei vestiti che mi fanno sembrare una checca?

“Hai caldo?” mi chiede Nicole, chiudendo a chiave la porta. La guardo un attimo stranito, tentando di capire se la sua è una domanda sincera o un doppiosenso. Decido che l'idea del doppiosenso è quella che mi aggrada di più e dico che sì, in quell'appartamento si muore di caldo, mentendo spudoratamente: non fa caldo un cazzo, è già tanto che non mi si siano già formate delle stalattiti sulle braccia.

“Ah” dice lei, semplicemente. Dalla faccia sembra chiedersi se sono scemo o cosa, e a che clima io sia abituato di solito. “A me sembra faccia freddino”

In fretta, allaccio almeno i primi bottoni della camicia e concordo con Nicole, fingendo improvvisamente di avvertire un incredibile freddo polare che aleggia nella stanza. Lei mi guarda strano nuovamente; cazzo, ti sto dando ragione solo per portarti a letto, spogliati e chiudiamo qui questa discussione inutile.

Lei, invece di assecondare le mie tacite ed indecenti proposte, si siede sul divano e mi invita a fare lo stesso, da perfetta padrona di casa. Insomma lei è una a cui piace aspettare; non avrei mai pensato che fosse così: attenendosi alle storie che ci raccontava Steven, mi aspettavo più un'assatanata che mi sarebbe saltata addosso appena messo piede in casa. Invece, è qui seduta, di fianco a me, con le mani sulle ginocchia e lo sguardo fisso a terra. Forse è semplicemente una che fa la timida al primo appuntamento, per non spaventare o mettere in soggezione la gente. Un sorrisetto mi compare sulle labbra: ci vorrebbe ben altro, per spaventarmi o mettermi in imbarazzo.

“Perchè sorridi?” mi chiede lei, che a quanto pare mi stava fissando da un bel po'. Scuoto la testa, lasciando spazio ad un'interpretazione personale del mio sorrisetto: se lei fosse stata davvero come raccontava Steven, sarebbe stata una gran bella interpretazione.

 

“Non fermarti” mormoro ad Axl, sentendo le sue dita entrare un po' di più in me, sempre meno delicatamente. Vorrei urlarglielo, ma tutti i sospiri rochi che mi si bloccano in gola lasciano spazio solo ad un debole sussurro e nulla di più. Axl ha appoggiato il viso contro il mio collo, e posso sentire ogni suo respiro affannato e rotto dall'eccitazione. Ben presto mi chiederà di essere ricompensato per il servizietto che mi sta concedendo adesso, e non ho la più pallida idea della scusa che gli snocciolerò per sfuggire nuovamente a questa scomoda situazione; un po' mi sento addirittura in colpa, a trattarlo così, ma dopotutto io sono la stronza e quindi la mia reputazione non sarà certo rovinata da quest'ennesimo rifiuto.

Un morso sul collo mi riporta bruscamente alla realtà. Questo potevi risparmiartelo, Axl, davvero. Che cazzo sei, un fottuto vampiro?

Il rosso intuisce che non ho propriamente gradito il gesto e tenta di porvi rimedio, iniziando a baciarmi il collo e lasciando qualche altro morsetto, stavolta più delicato di quella roba di poco fa. Butto la testa all'indietro, giusto per fargli capire che ha via libera, e inspiro profondamente, godendomi il momento.

 

Dopo quella che a me è sembrata un'eternità e dopo centinaia di frecciatine a doppiosenso, Nicole è ancora seduta sul divano, nella stessa posizione di prima, e non accenna a muoversi. Non mi guarda neppure, semplicemente sta a fissare il fottuto tappeto per terra. Che cosa avrà di tanto interessante il tappeto, cazzo? Ci sono io di fianco a te e tu stai a fissare il tappeto? Ma che mi hai portato a fare a casa tua, allora?
“Hai sete?” chiede lei, meccanicamente. Mi porto una mano alla faccia: no, donna, non ho sete, mi hai dato da bere metà delle scorte del Roxy, sarebbe più sensato se almeno mi chiedessi se devo andare in bagno.

“Perchè mi hai fatto salire?” sputo, senza troppi giri di parole. Finalmente, lei distoglie lo sguardo dal pavimento e lo posa su di me.

“Steven sta da voi adesso, giusto?” chiede, quasi con le lacrime agli occhi. Dio, no, perché questo, ora? Non basta Jennifer ogni giorno, ora devo pure beccarmi il piagnisteo della ragazza pentita. Perchè le persone si lasciano senza pensarci? Perchè dovete seguire l'istinto e fare le scelte sbagliate, alle quali poi non riuscite a rimediare?
“Sì” sospiro, sperando che la conversazione finisca presto “Steven sta da noi”

 

Faccio qualche passo all'indietro, allontanandomi dal tavolo, e cerco di portare Jeanette in camera mia, o perlomeno in salotto: non avevo certo immaginato la mia vittoria sul tavolo della cucina, anch'io ho una vena di romanticismo in me. Lei mi segue obbediente, sembra quasi stare al gioco, ma arrivati sull'uscio della camera si blocca. Cazzo. Cazzo, cazzo, cazzo.

“Che vuoi fare?” mi chiede, molto stupidamente. Voglio mostrarti i peluche che nascondo sotto al letto, tranquilla Jeanette, cos'altro dovrei fare, secondo te? In fondo, è un quarto d'ora che ti sto allegramente fottendo con le mie dita, ma mica voglio farlo sul serio, ora. Erano solo coccole, Jeanette.

Sospiro, tenendo a bada la lingua, e mi appoggio stanco contro lo stipite della porta: capisco che è bello il senso della sfida e tutto, però mi piacerebbe tanto che, per una volta, questa ragazza aprisse le gambe senza fare tante storie.

La ragazzina approfitta del mio momento di sconforto per lasciare la mia mano e tornarsene in salotto, sedendosi comodamente sul divano e accavallando le gambe. Si stiracchia, allungandosi il più possibile e mettendo in mostra solo cose belle. Sbuffo e tono sui miei passi, ripromettendomi che questa è l'ultima volta che ci provo, dopodiché la ragazza con me ha chiuso.

 

“E un giorno potrei passare da voi?” chiede lei, speranzosa. Probabilmente si aspetta una risposta del tipo 'Certo, Steven sta aspettando solo quello, piange tutti i giorni pensando a te', mentre la verità è che probabilmente lui si sta scopando qualcuna dall'altra parte di Los Angeles, oppure nei bagni del Roxy, o addirittura nell'appartamento di fianco a quello di Nicole.

“Secondo me è meglio se ti dimentichi in fretta di lui” tento di fare il comprensivo “In fondo, sei stata tu a lasciarlo, dovresti essere convinta delle tue scelte”

Esatto, cretina, l'hai lasciato tu, facendogli fare una magra figura davanti a tutti, e ora pretendi pure di venire a casa nostra con la coda tra le gambe?

Lei, in risposta, inizia a piangere, neanche troppo velatamente. Perchè a me, Dio, che cos'ho fatto di male? Sono giorni che non litigo con nessuno, che non alzo la voce e che non faccio scherzi idioti. Ho già una mestruata in casa e una checca isterica dai capelli rossi da consolare, perché ora anche Nicole?

Non sapendo cos'altro fare, mi avvicino alla ragazza e la abbraccio. Le accarezzo la testa ogni tanto, mentre mi guardo intorno, osservando i soprammobili sui comodini e l'ordine di quell'appartamento, a livelli a cui non giungeremo mai.

 

Axl, nonostante l'ennesimo rifiuto, non ne vuol sapere di mollare l'osso. Si avvicina nuovamente a me, stavolta un po' meno convinto del solito; sarà facile farlo desistere. Almeno spero, non ho più scuse da inventarmi, e non posso certo chiudermi in bagno per tutta la giornata, finché i suoi istinti non si saranno placati. D'un tratto, mi passa per la testa l'unica mossa adatta a tenerlo a bada per un po'. Storco il naso, un po' contraria all'idea e consapevole del fatto che, se lo faccio, nei prossimi giorni lui tornerà, più agguerrito che mai. Forse dovevo conoscere meglio gli avversari, prima di proporre questa stupida scommessa: non mi aspettavo che Axl fosse così testardo.

 

Continuo a ripetermi che questa è l'ultima volta che ci provo. L'ultima. Che io ci riesca o no, questa è l'ultima volta: nemmeno Jeanette si merita così tante attenzioni da parte mia. Però mi dispiacerà, vederla in casa e non poter nemmeno provarci… ma non ha importanza. Ormai ho deciso. L'ultima volta. Anche se ci andrò vicino, anche se lei si offrirà di sua spontanea volontà… questa sarà l'ultima volta. Anche se lei mi facesse un pompino seduta stante, io non mi lascerei ingannare.

Jeanette allunga una mano verso di me. La afferro, e la ragazzina riesce velocemente a farmi sedere sul divano, mentre lei si alza in piedi, di fronte a me. Sorride. Si avvicina lenta al mio viso, mentre con una mano mi accarezza i capelli, che a quanto pare ama fottutamente tanto: passa tutto il tempo ad accarezzarmi i capelli, questa donna. Mi lascia un bacio a fior di labbra, poi si abbassa e me ne lascia un altro sul collo, sul petto, scendendo sempre di più. I brividi cominciano a scuotermi quando supera l'ombelico, e si dirige senza esitazioni ancora più in basso.

Io stavo scherzando, quando dicevo della possibilità del pompino seduta stante.

 

“Stai bene ora?” chiedo a Nicole quando, finalmente, i suoi singhiozzi accennano a diminuire. Mi allontano un po' da lei e sento la manica della camicia tutta bagnata, ma poco importa: l'unica cosa che mi interessa al momento è andare via il prima possibile, prima che lei inizi di nuovo a blaterare. Ha continuato a parlare di cose mentre piangeva, intervallando singhiozzi e parole. Io non ho minimamente capito cosa abbia detto, complici il ridicolo piagnisteo e il fatto che io stia morendo di sonno. Ho tantissimo sonno. Sento le palpebre che si chiudono, pesanti come non mai.

Ovviamente, Dio, o il karma, o qualsiasi forza sia incaricata di guidare l'universo non mi aiuta nemmeno questa volta e Nicole riprende a piangere. Ma da dove cazzo esce tutta quest'acqua? Si sarà disidratata, ormai, a forza di piangere. Le palpebre mi si chiudono di nuovo in un improvviso attacco di sonno, e inizio a vedere addirittura due Nicole. Decido che questo è troppo e le appoggio le mani sulle spalle.

“Domani pomeriggio vieni da noi e te la sbrighi con Steven, okay?” le dico, incazzato. Vorrei quasi mettermi a urlare in faccia a questa cretina.

Lei si asciuga gli occhi sul dorso della mano, lasciandosi sulla faccia una linea nera di trucco dalla coda dell'occhio alla tempia.

“Grazie” mormora. Si avvicina per abbracciarmi di nuovo ma stavolta tento di non farmi fregare: mi alzo in fretta, saluto educatamente, mi liscio la camicia ed esco dall'appartamento, assicurandomi di chiudere per bene la porta alle mie spalle. Quasi quasi la sprangherei pure, ma non voglio perdere un secondo di più in questo condominio. Velocemente, scendo le scale e scappo verso casa mia.

 

Axl libera un gemito acuto quando la mia lingua tocca la punta arrossata del suo membro. Per l'ennesima volta mi afferra per i capelli e, per l'ennesima volta, sposto le sue mani dalla mia testa: se c'è una cosa che odio, è quando qualcuno tenta di darmi degli ordini. Non importa se in casa, a lavoro o mentre faccio sesso, nessuno deve dirmi quello che devo fare, men che meno questo rosso: sono io a comandare qui, nel caso non si fosse capito.

Guardo Axl con sguardo di rimprovero, giusto per fargli capire che se si azzarda un'altra volta a tirarmi i capelli è tutto finito, ma lui, ansimante e con la testa buttata all'indietro, non nota minimamente l'occhiataccia che gli ho dedicato.

“Perchè ti sei fermata?” mi chiede, con il respiro rotto. Sospiro, riflettendo sul da farsi: continuo o chiudo tutto qui? In fondo, sto iniziando ad avere sonno, fame, e ad essere anche un po' stanca.

Mi siedo a cavalcioni sul bacino di Axl. Il rosso sorride, soddisfatto.

“Pensi di aver vinto?” sussurro, guardandolo dritto negli occhi. Finalmente, si decide ad alzare la testa e ad incrociare il mio sguardo.

“Perchè, non è così?” chiede, sorridendo sornione. Alza leggermente il bacino, e sento la sua erezione premere contro di me. Questo non l'avevo previsto.

Mantengo il sangue freddo e non lascio trasparire alcuna emozione: non deve capire che, al momento, il gioco lo sta conducendo lui.

“Chi ti dice che non sia un mio piano?” mormoro, avvicinandomi di più al suo viso e lasciandogli un delicato bacio sulla guancia.

Lui alza ancora un po' il bacino; lo sento entrare appena. Mi scappa un lieve sospiro, che tento di fermare senza successo: sono troppo vicina ad Axl, lui l'ha sentito sicuramente.

“Sembra che non stia funzionando” risponde, incredibilmente soddisfatto della piega inaspettata che ha preso la situazione.

 

Passo davanti al Roxy a testa bassa, camminando spedito. Non mi interessa l'ora (anche se, a giudicare dall'alba sul mare, devono essere circa le sei e mezzo del mattino), non mi interessa la poca gente che incontro lungo la strada e men che meno mi interessano uno Steven e uno Slash barcollanti che avanzano appoggiati alla parete del locale.

Dopo aver notato questo inaspettato particolare, mi decido ad alzare la testa e a guardare la scena dei due abbracciati l'uno all'altro nel tentativo di sorreggersi a vicenda, strisciando i piedi per terra, nella goffa imitazione di una camminata. Senza farmi notare (anche se, ubriachi come sono, non mi vedrebbero nemmeno se improvvisassi un numero di burlesque su una panchina), mi accodo ai due e li seguo per circa cinque metri di strada, che loro percorrono in quelle che sembrano ore. Continuo la messinscena giusto perché mi fanno morire, quei due avvinghiati l'uno contro l'altro nel tentativo di reggersi in piedi, quando è evidente che di lì a poco crolleranno.

Appena prima che Steven molli la presa sulla spalla di Slash, accelero il passo e tento di sorreggerlo.

“Ehi, ma guarda, due Duff” ride Slash, voltandosi verso di me. Sorrido cordiale, facendo finta che sì, ci siano due me, e afferro Steven, dato che il ricciolone non sembra in grado nemmeno di reggere sé stesso.

“Sai, ti ho pensato tanto stanotte” continua a blaterare Slash, mentre Steven sembra essere svenuto tra le mie braccia. Provo a scuoterlo, annuendo ogni tanto al riccio, che discute con il secondo Duff della nottata in bianco che ha trascorso pensando a me. Steven continua a non dare segni di vita; il massimo che fa è sbavarmi sulla camicia. Ormai questa camicia è piena di liquidi di tutti i tipi, compreso il rum e pera che qualcuno mi ha versato addosso ieri sera; l'ho detto che la camicia non era una buona idea, ma ovviamente la signorina non mi ha ascoltato. No, bisogna sempre fare a modo suo.

Uno schiaffo in pieno viso assestatomi da uno Slash parecchio incazzato mi riscuote dai miei pensieri.

“Tu non mi presti mai attenzione” urla, in piena crisi ormonale, incrociando le braccia al petto. Lo guardo storto, senza capire e continuando ad osservare con la coda dell'occhio Steven, buttato contro di me a peso morto. Ricevo un altro schiaffo.

“Perchè continui a guardare lui? Perchè non guardi me, ogni tanto? I miei ricci sono qui solo per te” strilla Slash, attirando l'attenzione di un paio di persone.

“Okay, andiamo in spiaggia” ordino, trascinando Steven e Slash, che inizia a scusarsi per essere stato così cattivo con me. Aggiunge che non avrebbe dovuto dubitare di me e dei miei interessi, nemmeno per un secondo.

 

Abbandono Steven sulla sabbia fredda, mi tolgo la camicia e la inzuppo nell'acqua ghiacciata, giusto perché quell'indumento non era abbastanza sporco. La appoggio sulla fronte del biondo e attendo qualche segno di vita; quando vedo che sembra riscuotersi un minimo, mi lascio cadere anch'io sulla sabbia e chiudo gli occhi. Sono stanchissimo. Non potevo ignorare questi due cretini?

Slash si siede pesantemente di fianco a me. La sua mano, incerta, accarezza la mia, finché non si decide ad intrecciare le sue dita con le mie. Quando apro gli occhi per vedere che cazzo sta combinando, mi ritrovo la sua faccia vicina, troppo vicina per i miei standard.

“Sai” inizia a dire lui, un po' imbarazzato “Ho sempre pensato che tra noi potrebbe funzionare, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo… Ma ho deciso di smetterla con le paure irrazionali e le paranoie inutili: d'ora in poi ho deciso di seguire il mio istinto, sì, tutte le nostre canzoni dicono di seguire l'istinto”

Sembra aver finito. Bene. Molto bene.

“E la maggior parte le ho scritte pensando a te” conclude, abbassandosi ancora di più verso il mio viso. Colto di sorpresa, faccio l'unica cosa che mi viene in mente per scampare a quella pessima situazione: mi giro bruscamente, anche se questo significa affondare la faccia nella sabbia. Sento di sfuggita Steven ridere. Ingrato: io ti ho salvato la vita e tu te la stai ridendo mentre vengo molestato da una scimmia tutta ricci? Me la legherò a dito, non appena Slash avrà finito con il suo tentativo di stupro.

 

Mi guardo distrattamente le unghie, decidendo che è ora di limarle e ricominciare a metterci lo smalto: ho visto un paio di boccette, nel bagno dei ragazzi, e tanto vale provare; è troppo tempo che non mi curo un po'.

“Ma quindi quella valeva come scopata?” chiede Axl, riordinando il salotto (lo schiavizzarlo mostra già i suoi effetti positivi), celando neanche troppo bene la domanda 'Ma quindi ho vinto?'.

“No, te l'ho detto” rispondo, continuando a non badarlo, aprendo le gambe con disinvoltura e accavallandole subito dopo. Il lampo di genio mi è venuto inaspettatamente, davvero. Non avrei mai pensato di essere così brillante; la scomoda situazione e la geniale soluzione che ho trovato hanno fatto aumentare la mia autostima di una decina di punti (come se ce ne fosse bisogno, io sono Dio). Certo, ho copiato l'idea da un libro che ho letto, ma poco importa: Axl di sicuro quel libro non l'ha mai preso in mano; le possibilità che mi scopra sono minime. E sono minime anche le possibilità che venga a conoscenza del finale, in cui lo schiavetto uccide la sua padroncina. Spero vivamente che non scopra mai e poi mai il finale.

“Avanti, sì che valeva” insiste Axl, guardandomi storto. Le occhiatacce sono inutili, cocco, sono io il dio degli sguardi storti, qui dentro.

“Te l'ho già spiegato” ripeto paziente “Se fai tutto quello che ti dico, hai la vittoria assicurata al ventisettesimo giorno; altrimenti dovrai continuare con i tuoi giochetti che manco funzionano”

Lui sbuffa, evidentemente contrariato.

“Ma non capisco come hai fatto a convincermi” si lagna “Cioè, ormai eri lì, e ti ho lasciata andare. Avevo vinto, cazzo”

Si chiama dialettica, amore mio. Il saper convincere le teste bacate come la tua solo usando le parole, il saper rimanere lucidi anche in momenti estremamente delicati.

Lui sbuffa di nuovo, raccogliendo da terra un paio di magliette sporche che butta con poca grazia in una borsa.

 

Dopo essere finalmente riuscito a staccarmi Slash di dosso, dopo aver assistito ai conati di vomito di Steven lungo la strada e dopo essermi fatto mezza Los Angeles con addosso una camicia bagnata e sporca di sabbia, mi si riempiono gli occhi di lacrime quando vedo il portone di casa. Sembra tutto così irreale, come quando sogni una cosa per anni e tutto ad un tratto la ottieni. Avevo fantasticato su quel portone tutta la notte: volevo vederlo davanti a me, abbassare la maniglia e scoprire casa mia, con il suo familiare disordine, con Axl e Jeanette impegnati ad urlarsi qualcosa, e con la solita cucina vuota.

Lascio scorrere la mano sulla maniglia, inspirando solennemente, godendomi il momento, poi spalanco la porta. La visione che mi si para davanti agli occhi non è affatto quella che mi aspettavo; quasi mi viene voglia di chiudere la porta e riaprirla, giusto perché magari ho accidentalmente aperto un portale per un mondo parallelo.

“Sono ancora ubriaco” commenta Steven, entrando in casa. Il salotto è ordinato, la montagna di oggetti che stava ammonticchiata davanti al divano da ere geologiche è scomparsa e tutti gli oggettini sono disposti sui comò e comodini. Jeanette e Axl sono seduti sul divano (nudi, ma questo dettaglio non lo avevo calcolato) a discutere del più e del meno, pacificamente, senza urla o mani che volano. Avvicinandomi, mi sembra di sentire un intelligente discorso sulla nascita del jazz, che sfocia in un ispirato sermone da parte di Axl sulla schiavitù dei neri e la successiva guerra di secessione.

Stordito, preferisco andare in cucina, trovando un paio di borsette della spesa sul tavolo. Deglutisco rumorosamente. Questo è troppo.

 

Scocciato, vado in camera a rivestirmi, mentre Jeanette si chiude in bagno alla ricerca di qualcosa con cui coprirsi. Era tutto così divertente, fino a poco fa; perché dovevano arrivare questi tre a rompere le palle e a fare domande?

Quando torno in salotto, noto che il gruppetto si sta mettendo d'impegno per riportare le cose alla normalità: la coperta che fino a poco fa giaceva sul divano è ora abbandonata a terra e Slash ce la sta mettendo tutta per finire le scorte di biscotti che ho comprato solo ieri. Jeanette è seduta per terra, sul tappeto, intenta a dipingersi le unghie con uno smalto rosso fuoco. Il mio smalto rosso fuoco, terrei a precisare. Chi le ha dato il permesso di prenderselo? A me serve, quello smalto.

Camminando lentamente, con solennità, mi pongo davanti all'allegra combriccola e attendo paziente, in silenzio, che si zittisca e mi presti attenzione. Nessuno sembra far caso a me: Slash continua a masticare rumorosamente, Jeanette si controlla le unghie, Duff e Steven stanno discutendo sul modo strano di vomitare del nostro batterista.

“Hai presente quei vecchi lavandini, quelli che li apri e spuntano acqua dappertutto? Ecco, sei più o meno così, solo che tu fai un suono strano”

Duff inizia a fare versi strani, che mi fanno venire un enorme bisogno di sbattergli una padella in faccia.

“Tacete!” strillo, facendo sfoggio della mia voce da cinque ottave. Tutti si voltano a guardarmi, colpiti: lo so, ragazzi, in pochi riescono ad imitare questo sublime si bemolle; l'ho fatto in esclusiva per voi.

“Che vuoi?” domanda scortese Slash, che non spende abbastanza tempo ad ammirare passivamente la mia voce, ma anzi sputacchia briciole di biscotti per il tappeto.

“Dobbiamo fare il discorso che vi ho detto ieri” riprendo la mia compostezza e passo lo sguardo dall'uno all'altro. Finalmente mi stanno prestando attenzione.

“Jeff non c'è” fa notare Jeanette, soffiando delicatamente su un'unghia e osservando poi soddisfatta il suo lavoro. In effetti sì, Jeff non c'è. Non ci avevo fatto caso.

“E quando torna?” chiedo, ingenuo. Mi becco un'occhiataccia scocciata dalla ragazzina.
“Che ne so? E' maggiorenne e vaccinato, può andarsene dove vuole” risponde stizzita, alzandosi e andando in camera mia. Bella, mi ha pure fregato la stanza, adesso per cercare un po' di pace dovrò rinchiudermi in bagno.

 

Sono ore che sono seduto su questo divano sfondato, ascoltando le chiacchiere di Steven e annuendo distrattamente. All'improvviso mi passa per la mente una questione di cui dovrei discutere con lui, anche se non ho alcuna voglia di affrontare l'argomento.

“Oggi ho visto Nicole” butto lì, fingendo di non dar peso alla cosa. Di sicuro non dirò che stanotte sono andato nel suo appartamento, ci sarebbero troppe cose da spiegare. Steven si zittisce; forse ho finalmente scoperto il modo per farlo tacere. Urla di giubilo e campane del paradiso iniziano a risuonare nella mia testa, ma mi impongo di proseguire con il discorso: prima concludo e meglio è.

“E domani lei viene da noi” Sintetico e brutale, ma ho finito. Mi rilasso di nuovo sui cuscini del divano, allungando tutti i muscoli. Steven è ancora zitto. Gioia.

“Credo che tu abbia saltato un pezzo della storia” fa notare, sottovoce. Cazzo. Pensavo di averla già scampata. Inizio a raccontare al biondo tutta la pantomima che mi ha rifilato lei stanotte, a partire dal fatto che si è resa conto di essersi sbagliata a lasciarlo e concludendo spiegando le varie motivazioni del perché voleva rivederlo. Durante il mio infervorato discorso, noto Axl e Slash andarsene, sfiniti dalla moltitudine di parole che stanno uscendo dalla mia bocca. Soprattutto Axl sembra parecchio stanco. Mi chiedo perché: in fondo, lui non è venuto con noi ieri sera, è rimasto a casa a guardare la tv e poltrire, cosa mai avrà fatto per essere così sfinito?

 

Sento la porta aprirsi e intuisco che è arrivato mio fratello e con lui il momento per sua maestà il signor Rose di parlare per ore di cose alle quali nessuno presterà attenzione.

Senza speranze, abbandono la lettura di un libro che ho trovato sotto il cuscino di Slash (lui dice che lo aiuta per le cervicali) e mi avvio in salotto, dove Axl ha già fatto sedere tutti di fronte a lui. Jeff, con le borse sotto agli occhi e un colorito vagamente giallastro, non sembra tuttavia molto partecipe. Non sembra nemmeno essere a questo mondo, a dirla tutta, ma al rosso basta la presenza corporea.

“Dunque” inizia, battendo le mani e iniziando a sfregarle, come se fosse un pastore che si prepara al miglior sermone della sua vita “Avete notato tutti che ieri ho portato a casa cibo”

Tutti annuiamo, felici. Slash lo ringrazia di nuovo, accennando un inchino.

“Quindi significa che ho trovato dei soldi” prosegue il discorso il rosso, facendo dei salti logici come se stesse parlando a dei bambini di cinque anni. Annuiamo nuovamente.

“Ora, vi starete chiedendo come abbia ottenuto quei soldi”

“Vuoi arrivare al punto?” chiede Jeff con voce strascicata. Non pensavo stesse davvero seguendo il discorso.

Axl, un po' stizzito ma sempre impassibile, raccoglie da un angolo della stanza una borsa di tela e la appoggia davanti a noi. Incuriositi, ci sporgiamo ad osservarne il contenuto, ma veniamo prontamente fermati dal proprietario del ben di Dio che abbiamo intravisto.

“Penso che Jeanette abbia già capito di cosa si tratta, dato che ha avuto la possibilità di toccare con mano il nostro nuovo business” continua Axl, il cui discorso sta lentamente andando a puttane.

“Devo ringraziare?” commento, acida. Il rosso non coglie l'ironia, o almeno contiene i suoi istinti omicidi.

“Cosa vuol dire 'il nostro nuovo business'?” chiede Steven, innocente: non ha ancora capito un cazzo.

“Vedete, figlioli” il rosso ci guarda ad uno ad uno. Tutti ci chiediamo da dove gli sia venuta in mente la parola 'figlioli' “Questa è una cosa che faremo tutti assieme: venderemo e non ci faremo pestare e condivideremo i soldi che guadagneremo. Sarà tutto raccolto in un fondo famiglia, o come cazzo lo volete chiamare. Basta che non vi intaschiate nulla” conclude, rovinando tutto il resto del discorso fatto in precedenza. Ad un tratto, si volta verso di me, sorridendo.

“Jeanette, per te ho un compito speciale, ma te lo spiegherò quando avremo già messo via qualche soldo”

Annuisco, non ho il coraggio di chiedere quale sia questo 'compito speciale'; l'importante è che non lo dovrò svolgere subito.

 

Alla fine del mio discorso non arriva nessun applauso, anche se me lo meriterei. In compenso, Izzy alza timidamente la mano.

“Dimmi, Jeff” gli concedo la parola, come le maestre a scuola.

“Domani vado a togliermi i punti” ci informa lui. E con ciò? Vi ho appena detto che dovremo spacciare droga in giro per Los Angeles, che cazzo c'entrano i tuoi punti?

“Che bella notizia” sorrido, fingendomi il più felice possibile: una delle cose che mi ha imposto Jeanette è non trattare male suo fratello, e non posso assolutamente trasgredire.

“Quindi possiamo ricominciare a suonare” Izzy ci aiuta a completare la logica del discorso. Tutti lo guardiamo. Nessuno ci aveva pensato, avevamo dato per scontato che Izzy avrebbe avuto un polso steccato per sempre. Scuoto la testa, spegnendo ogni speranza negli altri.

“Comunque ci siamo fottuti con le nostre mani” ricordo a tutti “Nessuno vorrà quelli che si sono fatti sgamare suonando in playback, non possiamo fare concerti comunque”

L'entusiasmo causato dalla bella notizia di Jeff si spegne e tutti torniamo mogi mogi a fare quello che stavamo facendo prima (nulla).

“Però chiedere non costa niente” dice speranzoso Steven, che grazie alla sua benedetta ingenuità riesce ancora a vedere la vita tutta rosa.

Sbuffo.

“Allora vai tu a cercare qualcuno che ci prenda”

Lui annuisce, tutto felice, pensando già a qualche posto e reclutando seguaci che lo accompagnino.

 

“Quando dobbiamo iniziare con la roba?” chiedo, rassegnato; certo, accompagnerò Steven a cercare un ingaggio, ma ci credo poco: meglio concentrarsi sui soldi sicuri. In fondo, non dovremo mica farlo per sempre.

“Io pensavo già a stasera” propone Axl, lasciandoci di sasso: abbiamo appena saputo che dobbiamo andare in giro a spacciare roba e già dobbiamo iniziare?

“Andremo in giro in coppia, per i primi giorni” spiega il rosso “Giusto per vedere le zone più tranquille. E per non essere pestati a sangue se qualcosa va storto”

Deglutisco: a questo non avevo pensato. Non avevo pensato che spacciare non è come vendere le caramelle in un negozio, e che tutto sarà estremamente delicato e difficile.

“Ma quindi deve venire anche Jeanette?” chiede Jeff, preoccupato. Axl annuisce.

“Lei sarà il nostro punto forte: è tosta, ha le tette, e andrà via con Slash, visto che qui è quello che mette più paura” spiega. Ha già pensato a tutto.

“Cosa c'entra il fatto che ho le tette, scusa?” contesta stizzita lei. Il rosso sbuffa di nuovo.

“C'entra che alla gente non dispiacerà ammirare un bel panorama, prima di comprare. E se vogliono toccare, falli pagare di più e lasciali fare”

Jeanette si alza, decidendo che è troppo. In effetti, Axl poteva scegliere le parole più sapientemente.

Ci aspettiamo tutti che inizi a volare qualche schiaffone, invece tutto si risolve con un'occhiata della ragazza, che strappa un umile 'Scusa' al rosso. Che cazzo sta succedendo?

“E tra quanto andiamo?” chiedo. Axl ci riflette un po' su, decidendo poi che partire intorno alle undici, quando ormai è buio pesto e nessuno nota che siamo abbastanza sospetti, è l'ideale.

“Quindi consiglio un sonnellino, così stanotte non saremo rincoglioniti” conclude, battendo di nuovo le mani e andando in camera sua, seguito da un Izzy il cui colorito non ha niente di umano; nonostante tutti l'abbiano notato, nessuno ha ancora avuto il coraggio di chiedergli cosa sia successo mentre era via.

 

Tutti vanno a dormire nelle loro camere, seguendo il consiglio del saggio Axl, mentre io mi stendo sul divano a fissare il soffitto. Non riesco ad addormentarmi, ho troppa roba che mi ronza per la testa: dal fatto che stiamo per fare una cosa altamente illegale (come se fosse la prima roba illegale che faccio, certo) al fatto che mi manca un sacco la mia vecchia vita. Non capisco perché, ma i ragazzi mi mancano maledettamente tanto. Ho odiato quasi tutti i giorni che passavo con loro, tuttavia i bei momenti sono impressi nei miei ricordi. Sono passati venti giorni, solo venti giorni, ma mi mancano da morire; se avessi la possibilità di andare da loro, se Steven arrivasse e mi offrisse un biglietto di sola andata per quell'inferno che è la sua vita coglierei l'occasione al volo. Non perchè mi stiano antipatici i ragazzi o perché non mi trovi bene qui (ora che ho schiavizzato Axl le cose saranno un sacco più divertenti), ma perché mi sento legata a Steven come a nessun'altra persona. Per assurdo, mi sento più legata a lui, che mi ha fatto del male, che a Jeff, che mi sta aiutando in uno dei periodi più difficili che abbia mai passato.

Non credo sia per un discorso d'amore o per chissà cos'altro (anche se devo ammettere che stare vicino a lui e sentirlo mio era una cosa che amavo tantissimo), ma perché credo che, se hai un rapporto speciale con qualcuno, quello non scompare mai del tutto, e in un attimo si è di nuovo importanti l'uno per l'altro, come se non fosse mai finita. E' una visione fottutamente romantica e diabetica, però mi piace darmi una minima illusione e continuare a sperare che un giorno le cose tornino com'erano. Il fatto è che semplicemente non ero pronta. Non ero pronta a quella vita, e tutte quelle cose nuove, arrivate tutte in una volta, mi hanno spaventata. Sarà passato poco tempo, ma io mi sento sinceramente cambiata. E sento che sarei pronta a ricominciare, senza pensarci troppo su.

 

La luce nel salotto si riaccende pochi minuti dopo che ho svuotato la mente e mi sono rilassata.
“Pronta, mia compagna spacciatrice?” mi chiede Slash, stiracchiandosi e mettendo in bella mostra quegli addominali che ogni volta mi fanno pensare che la vita è bella, tutto sommato.

“Se evitate di urlarlo al mondo sono più felice” commenta stizzito Axl, raccogliendo la borsa da terra e dividendo il contenuto in zainetti e borsette varie. Qualcosa finisce anche nella mia pochette.

Il grande rosso distribuisce una borsa ad ognuno di noi e ci assegna le zone da fare per questa sera, tutte vicino casa.

“Sarà un lavoretto molto easy” commenta felice Slash, che sembra un po' troppo entusiasta della cosa.

Axl non bada alle varie opinioni e ai dubbi di ognuno di noi e divide le coppie: io sono con Slash, come già aveva detto prima, lui andrà con Jeff mentre Steven starà con Duff.

 

“Perchè sempre io con Steven?” protesto, beccandomi una gomitata tra le costole da riccioli d'oro. Nulla contro di lui, per carità (a parte il fatto che parla sempre), ma io non ho voglia di ricominciare quel discorso su Nicole eccetera.

“Posso elencarti una serie infinita di buone ragioni, se tu non ci arrivi da solo” risponde Axl, iniziando a contare sulle dita “Prima ragione: io non sopporto Steven, e se lo porto con me domattina dovrete cercare il suo cadavere in qualche vicolo di Los Angeles”

Annuiamo, attendendo le altre motivazioni. Dato che nessuno a parte Slash sembra scalciare per uscire a spacciare, prendiamo posto sul divano e stiamo in ascolto di sua maestà.

“Seconda ragione” continua lui, alzando un secondo dito “Se faccio andare Steven assieme a Izzy stiamo sicuri che qualcuno li pesta dopo dieci minuti che ci siamo separati”

Non ha tutti i torti, in effetti.

“Terza ragione: se mando il biondo con l'altro ricciolone, si pestano tra di loro e si tirano i ricci per tutta la sera”

Concluso il discorso, Axl annuncia che è mezzanotte e siamo già in ritardo. Strano, il fatto che noi siamo in ritardo: siamo così puntuali, solitamente. La vera cosa particolare che il nostro ritardo è solo di un'ora.

Scendiamo velocemente le scale del condominio e ci salutiamo, il rosso e Izzy imboccano una strada diversa da quella di me, Steven e gli altri due.

 

“Ma se noi non ci separassimo e stessimo insieme tutta la sera?” chiede Steven, piuttosto spaventato.

“Sì, così domani dobbiamo sentire il grande capo che ci fa la predica” boccio l'idea, prendendo Slash a braccetto e inoltrandomi in una stradicciola sulla destra. I ragazzi mi salutano, entrambi un po' impauriti. Tento di mandare un sorriso incoraggiante, mentre Slash fa il suo solito sguardo da 'Io non ho paura di niente', quando si vede benissimo che nemmeno a lui piace quello che stiamo facendo.

“Pronta?” mi chiede. Stringo più forte il suo braccio, nel tentativo di calmarmi un po'. Tra non molto inizieranno pure a tremarmi le ginocchia, lo so.
“No, non sono per niente pronta” rispondo in un sussurro, sentendomi talmente insicura e impaurita da desiderare persino di tornare a stamattina, quando Axl stava per vincere. L'avrei lasciato fare, se avesse significato non immischiarmi in questo casino.

___________________________________________________________________________

Nota dell'autrice:
Pensavate di esservi liberati di Febbraio, eh? Invece sono di nuovo qui dehehe, mi ero solo presa una pausa (di sei mesi .-.) per raccogliere le idee (seh, come no), ma sono tornata e Febbraio è ricominciato (ora che siamo a Luglio, sembra una presa per il culo). Probabilmente spammerò questa storia per giorni in tutti i social in cui sono iscritta per mostrare a tutti che Jeanette e gli altri non sono morti (please spargete la voce anche voi, se potete).

Comunque, vorrei ringraziare tutti quelli che non mi hanno ancora mandata a quel paese per i ritardi e che leggeranno questo capitolo con lo stesso entusiasmo con cui hanno letto gli altri (lo so che siete euforici ad ogni capitolo di Febbraio, sì sì uu).

Okay smetto di scrivere perchè altrimenti è più lungo questo pezzo che la storia (a propostito, qualcuno mi ha fatto notare che i capitoli di un'altra mia storia, The Pentacle (pubblicità occulta) sono troppo lunghi, per caso lo sono anche questi?). Ditemi tutto quello che pensate in una recensioncina, ditemi anche che vorreste bastonarmi con una mazza chiodata per i miei ritardi, io vi amo lo stesso.
Bacioni, 
euachkatzl.

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Capitolo 20
*** Ventesimo giorno. ***


Getto un'occhiata a destra e a sinistra, faccio una veloce giravolta su me stessa per assicurarmi che nessuno ci stia seguendo e riafferro il braccio di Slash, un po' più tranquilla.

"Così mi crei ansia" mi prende in giro lui. Ha poco da prendere in giro, sento perfettamente che pure lui è teso come una corda di violino: continua a guardarsi intorno come se da un momento all'altro dovesse comparire un dio della morte o qualche altra cazzata.

"Cerca di pensare positivo" suggerisce lui, tentando più di incoraggiare sé stesso che me.

"Siamo in un quartiere di spacciatori, a mezzanotte e mezza, per vendere droga" riassumo "Cosa c'è di positivo in questa situazione?"

 

Steven continua a parlare di Nicole e del fatto che sì, gli manca ma è già riuscito a farsene una ragione (aiutato dalla tizia che si è fatto nei bagni del Roxy), e che quindi è ora che anche lei la smetta con tutte queste storie.

"Vi siete mollati una settimana fa" gli ricordo: dal suo discorso sembra siano anni che lei gli fa da stalker.

"Esatto, penso sia passato abbastanza tempo per buttarsi tutto alle spalle e non pensarci più" conferma lui, come se il mio ragionamento avesse dovuto portare a quella conclusione.

Annuisco distratto, pensando che, invece, una settimana mi pare decisamente poco: sono passati anni da quando la mia prima ragazza mi ha brutalmente scaricato, e ancora non sono riuscito ad avere nuovamente una relazione seria. Non che mi interessi particolarmente accasarmi e mettere su famiglia, è solo che non ho più sentito le farfalle nello stomaco guardando una ragazza: le farfalle le ho sempre sentite un po' più in basso.

 

"Certo che possiamo ricominciare, ormai nessuno si ricorderà più della nostra figura di merda" tenta di incoraggiarmi Izzy, ma io non ci voglio nemmeno pensare. Dopo quella figuraccia non ho neanche il coraggio di tornare nei locali dove suonavamo di solito, figuriamoci riprendere in mano tutto.

“Potremmo cambiare nome” spara un'idea, facendomi rabbrividire. Non se ne parla.

“Sì, magari Guns n' Roses suona un po' da checche, possiamo metterci qualcosa di più cattivo” inizia a blaterare Izzy, dicendo una cazzata dopo l'altra. “Potremmo togliere il Roses”

Mi soffoco con la saliva quando propone questa sconcertante, indicibile idea.

“Togliere il Roses?” gli strillo in faccia. “E cosa vuoi metterci, al suo posto? Unicorni? Vuoi che ci chiamiamo Pistole e Unicorni?”

Izzy tenta di calmarmi, ma lo fa con la peggior frase che potesse tirare fuori.

“Non vuoi cambiarlo solo perché c'è il tuo nome” borbotta, cacciandosi le mani in tasca e proseguendo a testa bassa.

Stringo i pugni e prendo un respiro profondo. Non posso uccidere il mio migliore amico per strada. A parte il fatto che è l'unica persona di cui mi fido davvero, mi scoprirebbero subito, se aprissero un'indagine.

Rimando ad un altro giorno l'omicidio di Izzy e mi zittisco, tentando di non pensare a quest'assurda storia del riprendere tutto in mano e ricominciare. Abbiamo avuto un'occasione, l'abbiamo bruciata, stop.

 

“Ma se qualcuno ci chiede qualcosa e non capiamo cosa ci sta dicendo?” sussurro a Slash. Mi viene da parlare a bassa voce anche se qui non c'è nessuno, ora come ora sono impaurita da qualsiasi cosa. Il ragazzo mi guarda storto.

“Che c'è, non ti ricordi l'inglese?” domanda. Non trovo niente di sarcastico nel suo tono, quindi probabilmente non ha capito sul serio quello che gli sto dicendo.

“C'è tutto un linguaggio strano, in questo giro” spiego, abbassando ancora di più la voce; quasi non riesco a sentire nemmeno io quello che sto dicendo. Slash strabuzza gli occhi; perché ogni cosa che dico deve procurargli un'espressione stupida?

“Non ti sei mai fatta?” chiede, stupito. Certo, amore, sette anni con gli Aerosmith e non ho mai toccato nulla, come no.

“Ovvio che mi sono fatta” rispondo, ormai senza far nemmeno uscire la voce e usando solo il labiale “Ma la roba ce la trovavamo pronta in camerino, non sono mai dovuta andare in strada a comprarne”

“Oh” è l'unico commento di Slash. Almeno stavolta non ha fatto una faccia stupida. “Okay, parlo io, tu tira fuori le tette un altro po' e siamo a posto”

 

Faccio sedere Steven sul ciglio del marciapiede, dato che, a causa della crisi isterica che sta vivendo, non riesce nemmeno a camminare.

“Mi manca tantissimo, Michael. Lo capisci? Mi manca da morire” urla ai quattro venti, spalancando le braccia. Mi siedo di fianco a lui e mi prendo la testa tra le mani; abbiamo una carriera come spacciatori, di fronte a noi: tutti vorranno comprare da un orsacchiotto in lacrime e da un palo esasperato.

 

“Come hai fatto a finire dentro al giro?” chiede incuriosito Izzy, appoggiandosi al muro e accendendosi una sigaretta. Faccio spallucce.

“Conoscevo gente” mi limito a rispondere, vago: meglio che non mi metta a raccontare di come ho conosciuto Joe, o del perché mi ritrovi perennemente in debito con lui.

“Gente che ti ama parecchio, se ti affida tutta questa roba” infierisce Izzy, che evidentemente vuole farsi i cazzi miei a tutti i costi. Fruga un po' dentro lo zaino, decretando che quella che stiamo vendendo non è solo erba.

“Perspicace” commento. Tiro un pugno sul braccio di Izzy quando vedo un tizio avvicinarsi, che come noi continua a guardarsi alle spalle.

 

“Secondo me dovremmo andare noi da qualcuno a chiedere” suggerisce Slash, e in effetti non ha tutti i torti. Non sarò un'economista, ma penso starsene fermi in un vicolo cieco dove non passa neanche un cane sia controproducente.

“Tu hai idea di come si fa?” borbotto, controllando lo smalto sulle unghie, che si è già rigato.

“Si tocca la spalla al tipo e si chiede se vuole qualcosa” spiega il ragazzo, che sta tentando di dimostrarsi vissuto e con esperienza in ogni campo della vita. Sempre che spacciare droga si possa considerare 'un campo della vita'.

“E se tocchi la spalla al tipo sbagliato?” mi informo, anche se so già la risposta alla domanda, che sarà qualcosa sul fare rissa o roba del genere.

“Tranquilla, dolce donzella, la proteggerò a qualsiasi costo” mi rassicura Slash con tanto di inchino.

Sollevata, lo prendo a braccetto e mi lascio guidare verso 'posti migliori', come li definisce lui.

“Soprattutto perché il rosso ha detto che devo stare attento a te perché non vuole portarsi a letto qualcuno con un occhio nero” aggiunge, guadagnando un pugno dalla sottoscritta.

 

Dopo aver camminato per quelle che mi sono sembrate ore (in realtà sono stati dieci minuti, ma Slash va come un treno e stargli dietro ti uccide, anche se sei allenato), entriamo in uno dei locali del nostro quartiere in cui avevo giurato di non mettere mai piede. Di giorno è il classico bar dei vecchi (sì, esistono dei vecchi a Los Angeles, non siamo tutti ventenni come nei film), ma di notte non è il miglior bar dove fermarsi a prendere un caffè: c'è un modesto giro, nel retro del locale, e Saul sembra essere a proprio agio in mezzo a tutta questa gente.

“Sei già stato qui?” sussurro, anche se avrei potuto benissimo urlare e nessuno mi avrebbe comunque sentito, dato il brusio insistente.

“Un paio di volte” risponde. Quel 'paio' è lo stesso che dici al dottore quando ti fa qualche domanda scomoda: 'Quante sigarette fuma al giorno?' 'Un paio', 'Quanti bicchieri beve il sabato sera?' 'Un paio'.

“Senti, ci sono giorni in cui bisogna festeggiare” si giustifica Slash, capendo che ho intuito che quel paio, in realtà, è un paio di dozzine.

“Io sono l'ultima che può giudicare” commento, alzando le mani e ricordandomi che c'è stato un periodo, con gli Aerosmith, in cui non sono mai stata davvero lucida: ero sempre o ubriaca o fatta, e i ricordi di quelle settimane sono tutti abbastanza confusi o del tutto assenti.

Slash mi accompagna nel retro del locale e saluta un po' tutti; sembra conoscere ogni singola persona qui, e il problema è che nessuno appare molto raccomandabile. Anche se, a dirla tutta, nemmeno noi appariamo molto raccomandabili.

Una mano si appoggia sul mio sedere mentre sfiliamo di fronte a un gruppo di cinquantenni, e mi viene parecchia voglia di voltami e prendere a schiaffi chiunque abbia osato toccarmi, ma respiro profondamente e tento di calmarmi: dobbiamo riuscire a vendere qualcosa; ne va del nostro appartamento, dato che a breve dovrebbero pure arrivare affitto e bollette.

 

Faccio un cenno col capo al tizio che continua ad avvicinarsi a noi, notando troppo tardi che non è un tizio qualsiasi.

“Ragazzi” saluta il biondo di cui sia io che Jeff ci ricordiamo perfettamente. Il biondo che ci ha piantati in asso quando ci hanno scoperti in playback. Il biondo che ha detto 'Tanto io ho la mia band' e ha preferito svignarsela prima che le cose si mettessero male.

Il ragazzo si ferma davanti a noi con un sorriso falso quanto i capelli di Duff. Io e Izzy lo guardiamo incrociando le braccia al petto, come se da un momento all'altro potessimo spazientirci e pestarlo, quando in realtà non ce lo sogniamo nemmeno: non mi è mai piaciuto iniziare risse senza senso, come fa di solito Slash.

“Che sono quei musi lunghi, ragazzi? Pensavo vi avrebbe fatto piacere rivedermi” continua a sfottere il biondo, mantenendo costante quel sorriso falso e bugiardo.

“Vattene” ordino a denti stretti, tentando di sembrare il più minaccioso possibile. Come cazzo ha fatto questo tizio a trovarci, se ci siamo imbucati in un vicolo dove non passa nessuno?

“Cercavo il tizio che mi rifornisce di solito” spiega Vince, quasi leggendomi nel pensiero. “Non è che l'avete visto in giro?”

“No” risponde Izzy, secco. “Qui ci siamo noi, e penso che faresti meglio ad andartene”

Vince, che sembra intenzionato il più possibile a rompere il cazzo, tira fuori il labbruccio e fa il verso a Jeff, facendomi andare fuori di testa: io odio la gente che fa il verso, è una cosa talmente infantile che non dovrebbe nemmeno sfiorare la mente di nessuno. Respiro profondamente e deglutisco, ritrovando la calma, o almeno facendomi passare l'istinto di prendere Vince a pugni in faccia.

“Te la vendiamo noi la roba” suggerisco, calmo. Il biondo mi guarda stranito, e subito mi pento di quello che ho detto: di sicuro andrà a parlare in giro di quel gruppo che, dopo essersi rovinato la carriera ancora prima di iniziarla, è finito a spacciare droga.

“D'accordo” annuisce il ragazzo, facendo spallucce.

 

Un paio di ragazzoni vestiti di nero si avvicinano a noi, sentendo Steven urlare e lamentarsi rumorosamente.
“Volete un paio di caramelle della felicità?” propone uno, mostrandoci la mano aperta e piena di pasticche colorate.

“Volentieri” mugugna Steve, prendendone una generosa manciata. Prima che quelle pilloline finiscano nella sua bocca, faccio in tempo a dargli un colpo con la mano e a far cadere tutto sull'asfalto sporco, ricevendo una serie di insulti da parte dei due ragazzi. Uno, particolarmente incazzato, sta già brandendo un pugno all'aria, pronto a spedirmelo dritto in faccia.

“Suvvia, il tuo amico vuole solo essere felice” tenta di placare gli animi l'altro, fermando il suo amico e salvandomi letteralmente la faccia.

“Abbiamo altri modi per essere felici, noi” rispondo a tono, rendendomi conto dopo che questa frase ci fa sembrare due gay che cercano solo un posticino nascosto dove 'essere felici'.

“Già, abbiamo anche noi quella roba nelle borse” borbotta Steve, aprendo lo zaino che aveva in spalla e mostrandone il contenuto ai ragazzi. Mi sto chiedendo se Steven si sia drogato prima di uscire o se sia così stupido di suo.

“Insomma siamo colleghi” sorride uno, dando di gomito all'amico, che coglie al volo le sue intenzioni.

“Giusto” attacca l'altro “Andiamo a bere qualcosa, ragazzi. Offriamo noi”

Tento di afferrare Steven, ma sono troppo lento: lui si è già alzato e, ancora con gli occhi lucidi, si sta avviando con i due ragazzi verso un bar dall'altra parte della strada.

 

“Il solito, Vince?” chiede un ragazzo arrivando da dietro, già con un paio di bustine in mano. Vince, voltandosi, saluta il suo spacciatore di fiducia e dice che no, non gli serve niente perché noi l'abbiamo già rifornito a sufficienza. Impreco silenziosamente contro quel pezzo di merda: si sa che agli spacciatori non fa piacere che il loro miglior cliente vada da qualcun altro, e men che meno che quel qualcun altro stia occupando il loro posto.

Il ragazzo incrocia le braccia al petto e ci guarda dall'alto. Deglutisco, riflettendo su un'ottima scusa e su un modo per svignarsela il più in fretta possibile: non mi va di essere pestato per la seconda volta in meno di una settimana.

“Allora noi andremo...” mi congedo, mormorando. Riusciamo a muovere un paio di passi ma, proprio quando penso di aver superato il pericolo, sento una mano afferrarmi dal colletto della felpa. Sospiro, rassegnato, e mi rendo conto che abbiamo ancora molta strada da fare, come spacciatori.

 

“E' la terza volta che qualcuno mi tocca il culo” sussurro a Slash, che si è comodamente appoggiato ad un muro, scrutando la clientela. “Se arriva anche la quarta io inizio a tirare schiaffi”

Lui fa spallucce.

“E' una legge di mercato, il cliente ha sempre ragione” commenta, continuando a fissare un tizio promettente.

Di colpo, Slash parte in direzione di quel ragazzino, più spaventato che altro: sembra sia capitato qui per caso. Seguo il mio socio d'affari e mi avvicino al ragazzo, che dimostra sedici anni o giù di lì.

“Vuoi vendere a lui?” chiedo a Slash: non mi va l'idea che inizino a drogarsi così presto: la droga ti devasta, se non sei ancora pronto (come se si potesse essere pronti, dopotutto).

“Quanti anni avevi quando ti sei fatta per la prima volta?” domanda di rimando Slash. Nemmeno rispondo, mi limito ad abbassare la testa e guardare il pavimento: la prima volta che mi sono fatta in vena avevo quindici anni; ero scappata dal collegio appena due settimane prima.

Slash, nel vedere che è riuscito a spegnermi, sorride soddisfatto, per poi dedicare le sue attenzioni al piccolo cliente, che quasi si spaventa nel vedere un omone del genere avvicinarsi a lui.

“Ciao, piccolino” gli sorride Slash, e quasi scoppio in una risata nel sentire il modo in cui gli parla. “Ti sei perso, per caso?”

Giusto per rincarare la dose, Saul si piega sulle ginocchia come si fa quando si discute con un bambino. Il ragazzino, visibilmente impaurito, non ha il coraggio di dire nulla.

“Come mai sei qui a quest'ora? Non è un bel posto, questo” continua Slash, scandendo ogni singola parola. Fa per allungare una mano verso il ragazzo, ma questo si sposta di scatto.

“Io…” inizia questo, cercando le parole giuste o solo un minimo di coraggio “Io cercavo roba”

“Quanti anni hai, piccino?” domanda Slash. Io continuo ad ascoltare, in disparte: non capisco cosa stia aspettando per vendere e andarsene.

“Quindici” risponde il ragazzo, deglutendo rumorosamente e facendo un paio di passi indietro quando Slash si avvicina a lui. Guardo gli occhi del ragazzino, rivedendo esattamente i miei il giorno in cui il mio ragazzo tornò contento con una dose di eroina in mano. Nemmeno avevo il coraggio per infilarmi l'ago, tanto ero spaventata. Allo stesso modo, il ragazzino è terrorizzato, e probabilmente si sta chiedendo perché cazzo gli è venuta l'idea di andare a comprare.

“Ecco” dice Slash, posando una mano su una spalla del ragazzo “Ora porti il tuo culo a casa il più velocemente possibile e ti chiudi in camera tua, e non esci finché non ti saranno passate queste idee del cazzo che ti ritrovi”

Detto questo, si alza e torna ad appoggiarsi al muro, lasciandomi di sasso. Il ragazzo esegue velocemente gli ordini di Slash e sparisce tra la folla. Lo seguo finché non riesco più a vederlo, inghiottito dal capannello di gente formatosi attorno alla porta d'ingresso.

“Pensavi davvero che gli avrei permesso di finire come noi?” mi chiede Slash, vedendo la mia faccia stupita. Improvvisamente, mi rendo conto di essere una persona spregevole.

 

Entriamo nel peggior bar di tutto il quartiere, quello in cui di giorno si accumulano quantità infinite di nonnetti, ma che di notte diventa il centro di un piccolo giro di droga.

I nostri due accompagnatori, se così si possono definire, spariscono velocemente tra la folla, diretti verso un preciso tavolo.

“Ma dovevano offrirci da bere” si lamenta Steven, ingenuo come sempre. Io non dico una parola. Ho un brutto, bruttissimo presentimento.

Tento di afferrare Steven e di spiegargli che dobbiamo uscire di qui al più presto, ma un tizio seduto al tavolo (il più grosso, ovviamente) ci ha già adocchiati e sta venendo verso di noi con fare minaccioso. Io non volevo casini, almeno non anche oggi. Abbiamo problemi tutti i santi giorni, perché non potevamo stare calmi a casa a guardare la televisione, stasera?

 

“Vendete?” chiede un tizio a me e Slash, che stavamo discutendo su come passare una crisi d'astinenza restando sani di mente. Ci voltiamo di scatto; l'uomo, sulla cinquantina, ci sta fissando, anche se l'occhio gli cade spesso sulle mie tette.

“Sì” confermo, anche se con un po' di diffidenza.

“Buono a sapersi” sorride l'uomo, prima di cacciare un pugno in pieno volto a Slash.

 

L'ennesimo pugno sullo stomaco mi fa rendere conto che non potrò reggere ancora per molto, e che sarebbe molto meglio darsela a gambe, per quanto poco virile sia. Tento di incrociare lo sguardo di Jeff e proporgli silenziosamente una fuga, ma lui è piegato in due sotto i colpi di Vince, quella testa di cazzo che ama metterci nella merda, e che ora sta pestando per bene il mio migliore amico. Io lo uccido.

 

Il tizio si ferma davanti a me e Steven e io, da perfetto idiota ma anche da perfetto amico, mi faccio avanti. Cosa peggiore non potevo farla.

Ricevo uno spintone che mi obbliga a fare qualche passo all'indietro; almeno non ho perso l'equilibrio, o avrei fatto una figura di merda a cinque secondi dall'inizio.

Compiacendomi di quanto bravo sia, provo a tirare un pugno al tizio, che però riesce a fermarmi e a farmi pentire di averci provato.

 

La prima idea che mi viene in mente è quella di aiutare Slash a pestare l'uomo ma, dato che il riccio sembra cavarsela piuttosto bene, preferisco dedicarmi a quello che sta arrivando alle sue spalle. Non me la cavo male nel picchiare, nonostante sembri tanto piccola e carina ad una prima occhiata: quattro anni passati a vagabondare e a farsi ospitare da sconosciuti ti insegnano a difenderti. Ma soprattutto, dato il fatto che sono una ragazzina così dolce (all'apparenza), posso sempre sfruttare il fattore sorpresa e il fatto che a nessun uomo piace prendere a pugni una donna.

Sto per avvicinarmi al tizio che ho adocchiato quando un paio di mani mi afferrano per le spalle e mi tirano verso il muro. Un uomo si para di fronte a me, intrappolandomi tra il suo corpo e la parete.
“Andavi da qualche parte, bambina?” mi chiede sarcastico, ricevendo in risposta uno schiaffo decisamente troppo forte per una bambina. Quasi mi stupisco anch'io della forza che ci ho messo; probabilmente è la rabbia repressa contro Axl, che mi permette di picchiare così pesante.

L'uomo si sfrega la guancia, e la sua espressione cambia decisamente: dal sarcasmo che dimostrava prima, passa ora a una rabbia che non promette nulla di buono.

 

Con un potente strattone, riesco a liberarmi dalla presa del tizio e a fargli perdere l'equilibrio, facendolo cadere pesantemente a terra. Senza perdere un secondo di più, riesco a tirare via Izzy dalle grinfie di Vince e a trascinarlo via, nonostante le sue proteste.

“Taci e mettiti a correre” gli ordino, muovendo le gambe il più velocemente possibile. Lui borbotta qualche protesta, dato che voleva fargliela vedere a quello stronzo, ma preferisce saggiamente seguire il mio consiglio.

Schizziamo fuori dal vicolo e ci rendiamo conto che sia Vince che il tizio non ne hanno avuto abbastanza e si sono messi a rincorrerci. Ma che cazzo vogliono, quelli? Non bastava pestarci un po', devono per forza continuare a torturarci?

Giro bruscamente a destra, afferrando Izzy per un braccio e trascinandolo con me; conosco la zona, e so che qui vicino c'è un bar che di notte è parecchio affollato, grazie al piccolo giro di droga che si è creato nel corso degli anni (e del quale abbiamo fatto largo uso pure noi). Non dico di andare lì a vendere, ma almeno confondersi tra la gente e non farsi notare.

Appena entrati, notiamo che non è il miglior posto dove rifugiarsi, dato che c'è già una rissa in piena regola, e non tra persone qualsiasi: Duff è a cavalcioni di un tizio, che a quanto pare non se la sta passando parecchio bene, mentre Steven, in piedi su un tavolo, minaccia un paio di ragazzi utilizzando una stecca da biliardo.

Mi volto e vedo Vince e l'altro entrare; a quanto pare ci hanno notati. Ignorando bellamente i nostri due compagni, vado a nascondermi con Izzy nel retro del locale.

 

“Anche voi qui?” sento Slash salutare, ma non riesco a voltarmi per vedere chi sia arrivato, dato che l'uomo continua a tenermi appiattita al muro, senza smettere di fissarmi per un secondo. Stanca di stare ad aspettare che lui faccia la prima mossa, prendo l'iniziativa e alzo repentinamente un ginocchio, colpendo l'uomo in un punto parecchio sensibile. Lui si lascia fuggire un gemito e finalmente sento la presa sulle mie spalle allentarsi. Velocemente, scivolo via, non prima di aver lasciato un altro calcio all'uomo e avergli insegnato che anche le bambine sanno picchiare duro.

Un altro paio di mani mi afferra, ma stavolta riesco a voltarmi e tirare un pugno a chiunque abbia provato a toccarmi. Mi accorgo, con una punta di sadico piacere, che il malcapitato è Axl.

“Ma sei cretina?” urla, tastandosi la guancia.

“Dov'è Jeff?” chiedo, guardandomi intorno preoccupata. Non so se rilassarmi o preoccuparmi ancora di più quando lo vedo aiutare Slash, che era stato quasi messo a tappeto dall'uomo che io avevo idea di pestare prima che succedesse tutto quel casino.

“Però picchi bene, ragazza” commenta Axl, continuando ad accarezzarsi la guancia. “Beviamo qualcosa?”

Guardo sconvolta il ragazzo, già pronta a tirargli un altro pugno sul naso. Tuttavia non ne ho il tempo, dato che due biondi che conosco parecchio bene irrompono nella stanza dove ci troviamo; Steven ha in mano una stecca da biliardo, e la brandisce come se avesse la stessa potenza distruttrice di una spada laser.

“Buonasera” saluta Duff, intrattenendosi con noi, mentre Steven e la sua arma di distruzione di massa vanno ad aiutare Slash e Jeff. “Il proprietario è un po' stizzito dal nostro comportamento, e suggerirei di andarcene velocemente prima di essere ancora più nella merda”

Annuisco vigorosamente alla proposta di Duff, recuperiamo i tre che stanno ancora combattendo valorosamente e li trasciniamo verso la porta di servizio del locale.
“Isbell!” mi sento chiamare da qualcuno. Faccio in tempo a voltarmi e scorgere di sfuggita i capelli biondo platino di Vince, prima che Axl chiuda la porta.

 

Mi lascio cadere a peso morto sul divano; non sono mai stato così contento di appoggiarci il culo.

“Qualcuno è ferito?” chiede premurosa Jeanette, guardandoci uno dopo l'altro. Tutti facciamo segno di no con la testa: siamo un po' ammaccati, ma nulla di preoccupante.

“Qualcuno è riuscito a guadagnare qualcosa?” chiede Axl, decisamente meno interessato alle nostre condizioni di salute. Tutti facciamo nuovamente segno di no.

“Abbiamo pure perso gli zaini” aggiungo, passandomi le mani sul viso e tastandomi lo zigomo che ha iniziato a gonfiarsi. Il rosso ci guarda con gli occhi sgranati, per poi ammettere che anche lui ha dovuto abbandonare la borsa per darsi a una vergognosa fuga.

“Però siamo riusciti a vendere qualcosa” lo salva Izzy, spento subito dopo dal commento di Axl, che gli ricorda che il tizio non li aveva ancora pagati quando era arrivato l'altro omone.

“Insomma non siamo bravi nemmeno in questo” fa notare Jeanette, sedendosi sulle mie ginocchia, dato che il divano è occupato dagli altri e il pavimento non sembra comodo quanto le mie cosce.

“No, è solo che Joe ci ha mandati fuori senza spiegarci nulla” si giustifica Axl “Oggi pomeriggio vado a parlargli e sentiamo se riesce a darci delle zone dove non rischiamo di venire pestati”

“Non puoi dirgli che non lo vogliamo fare?” chiede Steve, riflettendo la domanda di tutti.

“No” taglia secco Axl, prima di chiudersi in camera.

 

Non potrei mai mollare Joe così, non dopo che ho preso un impegno tanto grande. Gli ho dato la mia parola, e dopo quello che lui ha fatto per me non posso rimangiarmi tutto.

 

“Quindi che facciamo?” chiede Duff. Tutti ci voltiamo a guardarlo e iniziamo a borbottare commenti su Axl, sullo spacciare in piena notte, sui giovani che si drogano, finché non finiamo col discutere delle migliori cazzate che abbiamo fatto dopo esserci fatti di qualcosa.

“Ti ricordi di quella volta che abbiamo cavalcato i delfini?” se la ride Slash, rivolto a Duff.

“E io vi ho dovuto tirare giù dal cornicione del tetto” aggiunge Jeff, che non sembra avere un ricordo altrettanto divertente della situazione.

“Capita, amico, capita” Slash gli tira un pugno su un braccio. “E comunque quella volta che hai iniziato a levitare siamo stati io e la pertica a tirarti giù”

“Eravate voi che mi vedevate levitare, io ero solo seduto” spiega mio fratello, venendo completamente ignorato dai due.

“Steven però rimane sempre il migliore” ride Slash, che a quanto pare ha parecchie storie da raccontare su quest'argomento. Ci voltiamo verso Steve, ansiosi di sentirne una, ma lo troviamo accasciato sul divano, con la testa all'indietro e la bocca semiaperta, senza dare segni di vita.

“Secondo voi è morto?” sussurra Slash, che improvvisamente si è fatto serio. Una poderosa russata da parte del biondo ci conferma che non è morto e ci fa rendere conto che è meglio andare a dormire, prima di crollare come lui.

 

Mi sveglio a causa del sole che punta direttamente contro i miei occhi e mi rendo conto che dobbiamo aver dormito parecchio. Mi alzo e vedo Jeanette dormire sull'altro letto, dato che Steven le ha rubato il suo posto sul divano. Silenziosamente, facendo attenzione a non svegliarla, esco dalla stanza e vado in cucina, notando dalla piccola sveglia sopra al frigo che sono le tre del pomeriggio.

“Salve, chiunque tu sia” saluta distrattamente Izzy, intento a fissare qualcosa di apparentemente interessantissimo fuori dalla finestra. Non rispondo, agguanto un pacco di biscotti e vado a sedermi sul divano, svegliando Steven e facendolo alzare di malavoglia.

Slash esce dalla sua stanza ancora mezzo rincoglionito, chiedendo se Axl sia qui o sia scappato verso lidi migliori.

“E' scappato” rispondo, dando un'occhiata al bagno e scoprendolo vuoto. Poco male, almeno il rosso non ci coinvolgerà più in idee strampalate.

 

Supero i cancelli del parco e noto Joe seduto sulla solita panchina, intento a guardarsi intorno.

Quando sono abbastanza vicino, lo saluto con un cenno della mano, ottenendo un sorriso di rimando.

“Allora, com'è andata?” mi chiede, arruffandomi i capelli non appena mi siedo accanto a lui. Non gli rispondo, semplicemente mi limito ad alzare la maglietta e fargli notare i lividi violacei all'altezza dello stomaco.

“Se magari il signorino mi avesse detto dove andare, avrei evitato di finire in zone già occupate” commento acido, ricordandogli che non mi aveva dato alcuna indicazione su dove andare o su cosa fare. Lui annuisce distrattamente, come se del mio discorso non gliene fregasse nulla.

“Quindi mi stai dicendo che non hai guadagnato niente” deduce. “E magari hai pure perso la roba”

Mi guarda, e dal mio silenzio capisce che sì, abbiamo perso la roba senza nemmeno guadagnarci un centesimo.

“Ti sto dicendo anche che voglio tirarmene fuori” aggiungo tutto d'un fiato, non molto convinto di quello che sto dicendo: non penso che mi permetterà di farlo, ma tanto vale tentare. Joe si limita a sorridere divertito, facendomi intuire che ho appena sparato una gran cazzata.

“Dopo tutto quello che ho fatto per te, tu vuoi tirarmi pacco così?” chiede, guardandomi ridendo.

“Non potrai continuare a rivendicare diritti per tutta la vita” gli faccio notare, arrampicandomi sugli specchi: certo che può, sono stato io l'idiota che gli ha detto che avrebbe fatto tutto quello che voleva.

“Invece posso” mi ricorda lui, soddisfatto. “Quindi ti do un altro po' di roba e stasera torni a spacciare”

Afferro controvoglia il sacchetto che mi porge e, stanco, mi alzo e mi dirigo a testa bassa verso casa.

Io e le mie idee del cazzo.

 

“Dobbiamo andare in ospedale” è il saluto di mio fratello non appena esco dalla stanza di Duff e vedo tutti radunati in salotto. Tutti tranne sua maestà il grande Axl. Quando connetto orecchie e cervello, mi spavento non poco.

“E' successo qualcosa?” chiedo preoccupata, guardando mio fratello.

“Devo farmi togliere i punti” mi ricorda lui, mostrandomi la mano ancora fasciata.

“Giusto” commento io, che mi ero completamente dimenticata che dieci giorni fa Steve e un bicchiere rotto hanno attentato alla vita di mio fratello.

 

Saluto con la mano Jeanette e Jeff che escono, una con una faccia più stanca dell'altro.

“Noi che facciamo?” chiede Slash, che non sapendo come ammazzare il tempo sta riportando in salotto il disordine che Axl aveva messo a posto solo ieri. Jeff, che evidentemente ha sentito la domanda, apre il portone di scatto e ci ordina di andare a cercare un locale dove poter suonare.

Tutti e tre lo fissiamo, tentando di capire se ci prende per il culo o fa sul serio, e quando il portone si chiude finiamo per fissarci a vicenda.

“Tutto sommato, non mi dispiacerebbe ricominciare a suonare” commenta Slash, che incredibile ma vero accetta un'idea proveniente dall'esterno e non dalla sua testa bacata. “Non ho passato anni ad esercitarmi per finire a morire di fame in un appartamento del cazzo”

Nonostante non muoia dalla voglia di uscire e farmi riconoscere come 'quello che suona in playback', mi infilo le converse ed esco con gli altri due, uno più entusiasta dell'altro all'idea di ricominciare ad esibirci.

 

Mi siedo affianco a Jeff sulle scomode poltroncine della sala d'attesa, dopo aver camminato per un quarto d'ora in lungo e in largo per la stanza deserta.

“Iniziavi a farmi girare la testa” commenta divertito Jeff.

“Voglio trovare i miei veri genitori” dico tutto d'un fiato, chiedendomi subito dopo se lo penso davvero o no. Jeff rimane in silenzio, non si volta nemmeno a guardarmi.

“Sei sicura?” si limita a chiedermi.

Annuisco, sentendo un improvviso groppo in gola. Lui sospira.

“Lo sai che ti aiuterò” mormora, quasi a disagio in una conversazione così importante “Ma ci saranno molte conseguenze”

Lo so. Non mi sono mai messa a riflettere davvero su cosa potrebbe succedere se li trovassi, ma un paio di idee me le sono fatte. A parte il fatto che la ricerca potrebbe rivelarsi lunga e complicata ma infruttuosa, e questo causerebbe sofferenza e basta, ci sono molte altre ipotesi da considerare. Scoprirei perché sono stata rifiutata; magari per una ragione giustificata, magari mia madre era troppo giovane e sola, o magari troppo povera per permettermi una vita felice. Tuttavia, potrebbero anche avermi lasciata da parte per puro egoismo.

“Lo sai che potrebbero non essere le persone che ti aspetti, vero?” mi mette in guardia mio fratello, visibilmente preoccupato dalla mia scelta.

“Sinceramente, non saprei nemmeno cosa aspettarmi” mormoro, appoggiandomi alla spalla di Jeff e lasciandomi abbracciare.

 

“Dove andiamo per primo?” chiede Steve, passeggiando e continuando a parlare felice, come se fossimo in vacanza.

“Evitiamo qualsiasi posto in cui andavamo di solito” suggerisce Slash “E andiamo in qualche locale di merda, dove verremo pagati cinque dollari a serata ma almeno potremo suonare”

Acconsentiamo con le proposte del saggio Saul e continuiamo a camminare in cerca di un luogo adatto per ricominciare. Passiamo davanti al Roxy e tentiamo di ignorarlo, ripensando a quanto in alto eravamo arrivati e a quanto in basso siamo caduti in una sola serata.

 

Rientro a casa e, con immenso piacere, la scopro vuota. Lascio cadere il sacchetto con la roba sopra al comò e mi butto sul divano, trovando un pacco di biscotti sopra il tappeto. La fortuna inizia a girare.

Compiaciuto, sgranocchio qualche biscotto e do un'occhiata alla confusione che si sta già ricreando, probabilmente incoraggiata da Slash. Un foglio in particolare attira la mia attenzione. Mezzo scribacchiato, è seminascosto da una serie di carte con sopra canzoni e disegnini di dubbio gusto.

Raccolgo il foglio in questione e gli do una rapida scorsa, ricordandomi che è quello dove avevo appuntato il testo della canzone che Jeanette aveva canticchiato al funerale di suo zio, o suo nonno, o qualcuno che non mi ricordo. Rileggo le parole scritte in velocità, correggendone qualcuna e modificando intere frasi, spostando il ritornello e le strofe. Farei prima ad accartocciare il foglio e a scrivere qualcosa di nuovo da zero, ma non ce la faccio: queste poche parole sparse a casaccio hanno un non so che di magnetico.

 

Jeff entra nell'ambulatorio e attendo che se la sbrighi con il medico, sfruttando quei venti minuti (cinque per togliergli i punti e un quarto d'ora per fargli la predica) per riflettere su come potrebbe essere la mia vera famiglia, e su cosa ho sempre pensato riguardo l'adozione. E' una vita che dico che la vera famiglia non è quella biologica ma quella che ti cresce, ma nel mio caso sinceramente non so cosa pensare. Non sento mia nessuna delle due famiglie. Una mi ha rifiutata quando sono nata e l'altra mi ha rifiutata qualche anno dopo. Forse la mia vera famiglia è quella che si sta creando adesso attorno a me, con i ragazzi.

 

Entriamo in una bettola che sembra dover cadere a pezzi da un momento all'altro e ci guardiamo intorno, notando dal fondo della stanza un signore dietro al bancone guardarci in cagnesco.

“Parla tu” suggerisce Steven poco amichevolmente, spingendomi davanti a lui.

Sfodero il mio miglior sorriso e saluto affabilmente il signore.

“Che cazzo volete?” chiede lui, decisamente meno affabilmente.

“Siamo un gruppo...” inizio il racconto, ma vengo prontamente fermato dall'uomo, che si lamenta che siamo il terzo che si presenta nel giro di una settimana, e che lui non ne può più.

“Ma noi siamo più bravi degli altri” tenta di dire Slash, ma sceglie saggiamente di seguire me e Steve e uscire prima che gli arrivi un boccale dritto sul naso.

 

Do you need some time on your own

Do you ned some time all alone

Everybody needs some time on their own

Don't you know you need some time all alone

 

Canticchio per l'ennesima volta quello che dovrebbe essere il ritornello della canzone, ma che non mi convince poi tanto. Mi passano alcune soluzioni per la mente, dal dargli fuoco al modificarlo, ma i miei ragionamenti vengono interrotti brutalmente dal campanello che suona. Lascio che la persona al di là della porta continui a scampanellare, sperando che se ne vada, e ripeto la strofa un'altra volta.

 

Io e Jeff saliamo le scale in silenzio. Arrivati al pianerottolo, notiamo una ragazza dai capelli corti davanti alla porta di casa nostra, intenta a suonare il campanello senza però ricevere alcuna risposta.

“Nicole” la chiamo. Lei si spaventa nel sentirmi, ma quando mi riconosce sorride.

“Duff mi aveva detto di passare da voi, oggi, ma non credo ci sia nessuno” spiega, indicando la porta.

“Cercavi Steve?” le chiedo, convinta che la risposta sarà sì. Nicole, infatti, annuisce.

“Meglio se ripassi domani, non sappiamo quando torna” le suggerisco: ho già abbastanza problemi per la testa, non voglio una tragedia amorosa in salotto. Almeno non oggi.

Nicole mi abbraccia e se ne va velocemente. Ora che è tornato il silenzio, sento Axl canticchiare da oltre la porta. Sta canticchiando una canzone ben precisa.

 

Sussulto e nascondo il foglio sotto i cuscini del divano quando sento la porta aprirsi e Jeanette e Izzy entrare in casa.

“Tutto bene?” chiedo. Izzy mi mostra il suo polso nuovo di zecca e annuncia che sì, va tutto bene.

 

Sono ormai le dieci di sera e dei ragazzi nessuna traccia. Capisco che dovevano trovare un locale dove suonare, ma inizio a pensare che siano andati a cercarlo in Ohio.

Quando sono ormai sul punto di chiamare la polizia e denunciare la loro scomparsa, la porta si apre e i nostri indomiti e impavidi eroi entrano in salotto. Slash, decisamente euforico, annuncia che stasera si suona al Roxy.

 

Tutti ci fissiamo stralunati, non credendo ad una sola parola di quello che ha appena detto Slash.

“Avete trovato la droga che avevamo perso e vi siete fatti” tenta di trovare una spiegazione Izzy, ma i ragazzi sembrano piuttosto seri, per quanto esaltati.

“Dovremo suonare cover del cazzo ma non ha importanza, abbiamo un ingaggio” urlacchia Slash, raccogliendo la sua chitarra da terra e uscendo senza nemmeno portarsi dietro la custodia.

“Come cazzo avete fatto?” grida Izzy esagitato, correndo in camera a recuperare la chitarra.

Jeanette, un po' pensierosa, è ancora seduta sul divano a fissare il vuoto, come se tutto quello che sta succedendo attorno a lei si stia svolgendo in un altra dimensione.

Uno scossone di Duff la riporta al mondo reale e lei si ridesta, interrompendo qualsiasi cosa stesse pensando. Sorride, contenta della notizia, e si lascia trascinare fuori dall'appartamento.
Esco anch'io, chiudendo silenziosamente la porta dietro di me.

 

“Siete qui solo perché avete avuto il culo di capitare quando avevamo appena scoperto che il gruppo di stasera ci aveva tirato pacco” ci accoglie il proprietario del Roxy, visibilmente contrariato nel rivedere i ragazzi nel locale. “Non provate a suonare niente di vostro, fate cover, fate battute stupide, ma non fatevi riconoscere”

Se ne va lungo il corridoio, borbottando qualcosa a bassa voce contro di noi. Lo seguo con lo sguardo, perdendomi poi a fissare un punto indefinito nell'aria. Ultimamente mi succede spesso.

“Jeanette” mi chiama Axl, afferrandomi un braccio. “Devo chiederti un favore”

“Pensavo fossi tu il mio schiavetto” rido, ricordando il patto che abbiamo stipulato ieri.

“No, è una cosa importante” la voce del rosso diventa improvvisamente seria, e di colpo capisco. Axl mi porge un sacchetto.

“Qui dentro? Ma sei fuori di testa?” ribatto, sconvolta. Io non mi metto a vendere dentro al Roxy, in mezzo a tutta questa gente.

“Due isolati dopo casa nostra c'è una strada con un pub di irlandesi. Nel vicolo di fianco al pub spacciano quelli di Joe” mi spiega, paziente ma tentando di essere il più convincente possibile. “Stasera sei tu quella di Joe”

“Da sola” mormoro. Non è una domanda, ho perfettamente capito che non ci sarà nessuno con me. “Non puoi dire a Joe che ce ne tiriamo fuori? Avete ricominciato a suonare, possiamo trovare i soldi così”

“Non posso” si rifiuta Axl. “Buona fortuna”

Buona fortuna un cazzo, tanto sono io quella che deve rischiare il culo mentre tu stai a ballare su un palco.

Incazzata e impaurita, esco dal locale e mi dirigo verso il luogo che mi ha spiegato Axl, iniziando mentalmente a pregare qualche santo affinché vada tutto bene.

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Nota dell'autrice:
Ciao, sono tornata con un altro capitolo, anche se ci ho messo un po' tanto perchè sto scrivendo migliaia di cose (so che volete che ve le spammi, tranquilli, più tardi lo faccio).

Comunque, parliamo di cose serie: cosa faranno i ragazzi? *zan zan zaaaaaan*
Continueranno a spacciare (o meglio, a farsi predere a pugni) o riusciranno a tornare alla ribalta? E la piccola dolce Jeanette (diciamocelo, non è mai stata dolce) supererà incolume questa notte? E Izzy riuscirà a suonare anche se si è appena tolto i punti, dopo dieci giorni passati con un polso steccato? E io riuscirò a pubblicare il prossimo capitolo in tempi decenti? E perchè cazzo è ricomparso Vince, che non c'entra nulla?

La risposta a questa e molte altre domande nel prossimo capitolo (che temo arriverà minimo tra un paio di settimane, perdonatemi c.c)

Un bacio a quelli che sono stati felici di rivedere Febbraio,
euachkatzl.

P.S.: come vi avevo promesso, lo spam; ho qualche storia in attivo e mi farebbe piacere che ci deste un'occhiata c:
Nella sezione degli Avenged Sevenfold (so che piacciono anche a voi, sì sì) (ho tirato pacco a un ragazzo perchè ha parlato male dei Sevenfold, ma è un'altra storia), ho in attivo The Pentacle e A word to the wise when the fire dies (l'ultima la trovate tra le serie);
Nella sezione Multiband ho in corso una songfic altamente demenziale, intitolata Hail to the Divah (e tra un po' compariranno anche i nostri amati Guns).

Okay, giuro che ho finito, fateci un giro se ne avete voglia :3
Bye,
euachkatzl.

 

 

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