Daiquiri

di Aura
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 - Cambiare vita ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 - Tanti motivi per andare, uno per rimanere ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 - Tornare a conoscersi ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 - Where is my mind ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 - Valpolicella&Tequila ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 - Ballando ballando... ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 - Rossella detta anche ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 - Always On My Mind ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 - Cambiare vita ***


daiquiri        









Diana era agitata, erano passati quanti? Dieci anni, o forse poco meno, da che non vedeva Michele, e ora era diretta a casa sua, con due valigie nel bagagliaio della macchina.
Il navigatore iniziava a innervosirla, sembrava che come al solito quell'aggeggio infernale avesse deciso di non collaborare, e Diana si fermò in un parcheggio pronta a capire cosa non andasse o distruggerlo, dopo che quell'affare aveva detto per la terza volta “Ricalcolo del percorso”.
– Insomma, – gli disse, sbattendolo con poca grazia sul volante. – ti decidi o no? Dovremmo essere vicini, perché non trovi la strada?
Guardò l'ora: Michele le aveva chiesto di arrivare per le sei e mezza, perché lui poi sarebbe dovuto andare al lavoro, ed erano già le sette meno un quarto.
Sconfitta fece un respiro e lo chiamò.
– Ti sei persa? – la sua voce, bassa e rauca, le colpì con una buona dose di sarcasmo.
– Non è colpa mia, è il navigatore che si rifiuta di collaborare. – si giustificò.
Michele fece una risatina vittoriosa.
– Te lo avevo detto, dove sei?
Abbassò il finestrino e mise fuori la testa, cercando di trovare il nome della via.
– Non lo so, sono in un parcheggio, qui davanti c'è un tabaccaio con l'insegna viola.
– Lascia la macchina lì e cammina in direzione opposta al tabaccaio: vengo a prenderti.

Così Diana riempì la borsa con tutte le cose che aveva sparpagliato in macchina durante il viaggio, prese non senza sforzo le valigie, e si incamminò; fermandosi ogni due passi per tirare su la tracolla che le scivolava dalla spalla.
– Ehi, cosa stai cercando di fare? – Lo vide arrivare verso di lei, e sorrise istintivamente: era esattamente come se lo ricordava, sembrava che non fosse passato nemmeno un giorno.
– Ciao! – disse, tendendogli le braccia.
– Ciao Diana. – L'abbracciò velocemente e prese le sue valigie. – Scappiamo: te lo avevo detto che dovevo lavorare!
Lei iniziò a trotterellargli dietro.
– Come mai mi chiami così? – Sollevò un sopracciglio. – Non ti ricordi?
Michele la guardò interrogativo, stringendo gli occhi a due fessure.
Daiana! Lo hai sempre detto così il mio nome.
Lui asserì brevemente, e si fermò davanti a un palazzo, cercando le chiavi in tasca e borbottando che prima aveva lasciato il portone aperto.
Diana lo seguì in silenzio, limitandosi ad osservarlo di sottecchi mentre lui, in ascensore, controllava l'ora.
Le fece strada sul pianerottolo.
– Ecco, questo è il tuo appartamento, io sono esattamente a quella porta, per qualsiasi cosa tu abbia bisogno. Domani inizierai, se stasera non sei stanca e vuoi venire a vedere l'ambiente... – Scarabocchiò qualcosa su uno scontrino che aveva in tasca, tipico di lui, anziché mandarle un messaggio. – Questo è l'indirizzo. – Le consegnò le chiavi, perché lei potesse aprire, e le portò le valigie dentro. – Ora devo scappare, se non ci vediamo stasera a domani mattina!
Diana rimase nell'appartamento vuoto, sentendosi vagamente a disagio. Certo, non si sarebbe aspettata una riunione del tipo amici d'infanzia con lacrime annesse, ma era sempre andata d'accordo con Michele, e anche se non si erano visti né sentiti per anni aveva pensato a un incontro un po' più amichevole.
Trascinò le valigie nella camera, fece il giro della casa e dopo essersi accertata che era appena stata pulita a fondo si decise di concedersi una meritata doccia, che l'avrebbe risvegliata dopo le lunghe ore di viaggio.



A diciassette anni aveva lasciato la scuola, dichiarando che prendere il diploma non era nei suoi interessi, e dopo una fallimentare esperienza come cameriera, il giorno del suo diciottesimo compleanno, lesse un volantino che sapeva le avrebbe cambiato la vita: Corsi di Bartender e Flair primo e secondo livello, per informazioni chiamare...
Fu così che era entrata a far parte di quella piccola accademia neonata, e come alunna più piccola si era guadagnata velocemente il suo posto e le simpatie di tutti.
Aveva superato con buoni risultati il primo corso, e Mariela, la direttrice, dopo averle offerto un posto nel bar di fronte all'accademia gestito da lei, le aveva proposto di frequentare anche i corsi successivi facendole degli importanti sconti.
Diana amava quelle aule, dove passava le ore a esercitarsi, e si pavoneggiava spesso con i suoi compagni, vantandosi dei suoi miglioramenti nella tecnica, gongolando quando il loro insegnante pluripremiato Francesco, detto Frank, le faceva i complimenti.
Quella mattina quindi entrò baldanzosamente in accademia, salutò la segretaria con disinvoltura e salì al piano superiore, aspettandosi di trovare l'aula ancora vuota, in modo da potersi sgranchire un po' prima dell'arrivo di Frank e dei suoi nuovi compagni. Ma le sue aspettative vennero disattese, nella postazione occupata solitamente da Frank c'era un uomo, appoggiato, intento a sfogliare un libro.
Lo guardò di sottecchi, guadagnando infastidita la postazione che era sempre stata sua, e sistemò rumorosamente le sue cose.
– Quella è la postazione dell'insegnante. – disse poi, seccata.
Lui sollevò appena gli occhi dal libro.
– Lo so. – disse, con voce roca.
Diana sollevò un sopracciglio: qualcuno aveva fatto le ore piccole quella notte. E iniziò a scaldarsi, con qualche lancio base.
Frank entrò nell'aula, con il solito casino che lo accompagnava: una trolley mezzo aperto da cui fuoriusciva uno shaker, la giacca che cadde a terra mentre camminava, e il suo modo di fare chiassoso.
– Oh-oh, Diana, ci sei anche tu! – la salutò, contento, abbandonando la valigia e andando ad abbracciarla. – I tuoi compagni avranno un osso duro, allora! Hai già conosciuto Michele?
Il sorriso scomparve brevemente dal volto della ragazza.
– Veramente no, era impegnato a leggere.
Michele sollevò divertito un angolo della bocca.
– E lei era impegnata a mettermi al mio posto.
Iniziarono ad arrivare gli altri ragazzi che avrebbero frequentato il suo corso, come al solito era la più piccola e come al solito era l'unica donna.
Erano in sei, in tutto, e Frank, dopo essersi brevemente assicurato che ci fossero tutti, partì in quarta con la lezione.
Alla prima pausa sigaretta Diana si era accaparrata l'attenzione di Frank, raccontandogli con quanto impegno riuscisse a combinare gli allenamenti di flair, il freestyle del bartender, al lavoro, ma non riuscì a evitare di ascoltare Simone, un suo compagno, che salutava calorosamente quel Michele, appellandolo come genio.
Frank probabilmente si accorse dell'espressione seccata sul suo volto, radunò i ragazzi intorno a lui e presentò a tutti Michele, che durante la lezione era stato in disparte.
– Sapete, – spiegò, – io, Michele e Luca, che presto conoscerete, abbiamo deciso di metterci in società, e collaboreremo insieme con varie scuole di bartending in tutta Italia: il nostro sogno è formare dei baristi come si deve. Luca è il genio del caffè, io mi occuperò dei corsi più acrobatici e avanzati, e Michele prenderà il mio posto con quelli del primo livello: è un grande, – disse poi, rivolto a lei, – quasi quasi mi dispiace che non hai potuto seguire il corso con lui.
Diana lo guardò di sottecchi, dichiarando tra sé e sé che non si fidava ancora di lui, poi spensero le sigarette e ricominciarono a lavorare.

Mesi dopo si chiedeva come poteva essere stata tanto stupida a non adorarlo immediatamente: era Michele il vero genio fra i tre, lui era straordinario, sapeva tutto, poteva parlare di qualsiasi cosa con la sua voce bassa e roca e lei poteva giurare ad occhi chiusi che avrebbe imparato di più ascoltandolo che ricercando le stesse cose su Wikipedia. Non per niente qualcuno lo aveva soprannominato Google.
Ma Michele non era il solito tuttologo noioso, lui la sua opinione la dava solo se veniva richiesta.
Quando finì il loro corso Frank partì, e Michele rimase per una nuova classe: non era raro che Diana, finito il lavoro al bar, facesse capolino in accademia, e lo aspettasse per andare a mangiare qualcosa insieme; stupendosi di come, nonostante avesse già frequentato quel corso e anche quello più avanzato, ascoltando le sue lezioni imparasse sempre qualcosa di nuovo.
Quando finalmente i suoi studenti, in estasi da apprendimento, andavano a casa, Diana accompagnava Michele all'albergo presso cui alloggiava, lo aspettava mentre si faceva una doccia e poi partivano, ogni sera con una destinazione diversa. Si divertiva un mondo con lui, a tratti spiritoso, a tratti riflessivo, spesso brontolone.
Daiana, – le diceva, dall'alto dei suoi trentanni, – quando avrai la mia età capirai molte cose, tra cui che fare tardi tutte le sere non è umanamente possibile, se la mattina dopo ti devi svegliare presto per andare a parlare davanti a dieci persone.
Diana rideva, mentre invece che tornare all'albergo, da brava amica, lo portava in qualche locale appena aperto per sentire la sua opinione sui cocktail che facevano, o su come avevano organizzato il bancone.
– Ma smettila di fare il vecchio, l'altro ieri abbiamo fatto un po' tardi, ma ieri ti ho riaccompagnato in albergo prima di mezzanotte!
Michele allora scuoteva la testa arreso, non avendo la macchina e non potendo decidere lui.
– Ah, carina, ti auguro proprio che anche tu troverai qualcuno di maledire. E cambia musica, che è sta roba?
In genere Diana allora gli chiedeva di scegliere qualcosa lui, e poi, compatibilmente con la guida, si metteva comoda, in attesa dei suoi racconti sulla canzone che stavano ascoltando.
Avevano passato sei mesi così, poi Michele era tornato a Padova, per poi ritornare in quella piccola cittadina del torinese un anno dopo, e nonostante Diana avesse trovato un altro posto di lavoro più lontano, dopo che Mariela aveva ceduto il bar, e nonostante quella volta si era portato con sé la macchina, lei raramente non si faceva trovare in accademia all'ora di chiusura pronta a portarlo fuori a mangiare, tanto che Mariela aveva iniziato a chiamarla "l'angelo di Michele".
Diana però non lo faceva per evitargli di mangiare da solo, il motivo per cui principalmente aveva iniziato l'anno prima a portarlo fuori, ma perché Michele era il suo mentore e il suo amico, e in sua compagnia stava benissimo.
Era quasi seccata quando comparivano Frank e Luca, nonostante li avesse sempre adorati, a portarle via il loro rito di cena e discorsi più o meno seri: Frank attirava sempre la sua attenzione su di sé, e quando c'era lui puntualmente dovevano andare a ballare, così Diana si trovava spesso in pista con Frank, Luca, e qualche vecchio compagno di corso che saputo che erano in città li aveva raggiunti, mentre Michele rimaneva al bancone, dichiarando che lui non avrebbe mai ballato in mezzo ai ragazzini.

Poi, semplicemente, lo aveva perso di vista: l'accademia era stata venduta, e Michele non collaborava più con i nuovi proprietari; non aveva motivo di chiamarlo, così all'ennesimo cambio di cellulare si era scordata di copiare il suo numero di telefono, e a quell'epoca non c'era Facebook.
Non l'aveva più visto né sentito per anni, ma nonostante tutto da qualche parte nei suoi ricordi le serate con Michele, la figura che più di tutti i professori che aveva avuto nella sua vita era stato l'unico mentore, non le aveva mai scordate.
Si ritrovò a cambiare lavoro, finendo a gestire un negozio di vestiti, cambiò qualche ragazzo e andò a vivere da sola; e gli anni passarono ancora.
Una notte, all'alba del suo ventottesimo compleanno, si ritrovò a spulciare il vecchio blog che teneva da ragazzina, una sorta di diario privato che nonostante fosse in internet era rimasto tale, e precisamente si ritrovò su un post dello stesso giorno, ma datato anni prima.
Era una sorta di ringraziamento a chi l'aveva fatta crescere nei suoi primi vent'anni, e lì, in cima alla pagina, spiccava il nome di Michele.
Le ci volle una settimana per trovarlo su Facebook, dal momento che non ricordava il suo cognome e non avevano amici in comune, ma lo trovò, e insieme alla richiesta di amicizia gli scrisse una lunga mail, raccontandogli chi era e com'era cambiata la sua vita in quegli anni.
Passò un mese, prima che Michele accettasse la richiesta, e altri due prima che una sera la salutasse in chat.
Diana bypassò l'offesa, e chiacchierarono brevemente del più e del meno: lui aveva abbandonato l'insegnamento da anni, e era gestiva il bar di una discoteca di Padova.
Non parlarono più, poi, dopo un altro mese, una sera in cui era particolarmente cupa per via di una giornata lavorativa andata non proprio benissimo, vedendolo on-line Diana gli chiese scherzosamente se non fosse disposto ad assumerla come barista, anche se erano anni che non lavorava più in quell'ambito.
Michele rispose spiazzandola, non cogliendo l'aspetto ironico, e le disse che avrebbe potuto prenderla in considerazione, dato che era a corto di personale.
Diana inserì uno smile imbarazzato, specificò lo scherzo facendogli notare che viveva a centinaia di chilometri di distanza: dove avrebbe vissuto?
Poi venne distratta da un'altra conversazione, e non fece caso che Michele non le aveva ancora risposto.
Una settimana dopo, entrando on-line, trovò un suo messaggio:
Michele: se ti interessa ancora il lavoro ti ho trovato un appartamento nel mio condominio, l'affitto è buono, e conosco il proprietario di casa: è tenuta bene. Fammi sapere cosa decidi e quando puoi essere qui.
Non ci aveva mai pensato seriamente. Fino a quel momento. Scattò in piedi come una molla, prese l'ultima busta paga e controllò il TFR teorico, calcolando che se anche avesse rinunciato a qualche giorno di preavviso non sarebbe stato molto grave.
Il suo contratto di affitto non prevedeva perdite di caparra, poteva semplicemente disdirlo da un mese all'altro, così scrisse subito una mail a Irina, la sua proprietaria di casa, e poi scrisse a Michele che sarebbe stata lì per la fine di quel mese.
Ecco che cosa le ci voleva: cambiare vita.

Certo, lei e Michele non si erano sentiti per anni, però si era aspettata almeno che la chiamasse Daiana.
Chiuse l'acqua della doccia, l'imbarazzo non era ancora andato via, non poteva fare a meno di chiedersi se non aveva sbagliato a mollare tutto e ad andare lì, in una città che non conosceva, a fare un lavoro che non faceva da anni, con come unico conoscente un amico di talmente vecchia data da essere diventato un estraneo.






Nda: forte, per la seconda volta sbatto la testa contro l'enorme muro del pochissimo pubblico delle originali, e degli zero commenti che mi devo aspettare da loro, e stasera, invece che pubblicare l'ultimo capitolo di Blackout, ritrovo questa storia e decido di continuarla e metterla alla gogna.
Grazie a Federico, tuttologo e mentore come pochi, ovunque tu sia. Ovviamente in questa storia non ci sei tu, ma ho voluto regalare al protagonista una delle tue meravigliose caratteristiche.
Ps: forse sto cominciando a pubblicare tante nuove storie perché la domanda "Hai già l'HTML? -Sì -No -Non capisco" mi fa ridere come la prima volta che l'ho letta. Con tutto il rispetto con chi dice "Non capisco", eh! Io sono la prima frana con l'HTML, senza Nvu sarei morta!

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 - Tanti motivi per andare, uno per rimanere ***


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Gettò la sigaretta ed entrò nel locale, guardandosi intorno: avrebbe lavorato lì, fra non molto quell'ambiente le sarebbe sembrato famigliare, ma in quel momento non riusciva ad immaginarsi a camminare con disinvoltura su quelle mattonelle immacolate, raggiungere il retro da una porta che chissà dov'era, e ritornare a trasformare il banco nel suo regno incontrastato.
Schivò una giovane cameriera che le stava passando accanto con una torre di bicchieri, e istintivamente tirò la gonna che si era messa verso il basso, cercando di coprire più pelle possibile: quella era una ragazzina, esattamente come lo era lei quando lavorava in quell'ambiente. Raggiunse il bancone e guardò il suo riflesso negli specchi dietro le bottiglie: ora era un'adulta che metteva la crema contorno occhi già da un anno. E che data la sua avversione allo struccaggio serale avrebbe dovuto presto sostituire con una più forte.

Quindi, cosa vuoi?
Diana distolse lo sguardo dallo specchio, e si trovò di fronte un barista alto e spallato. Indugiò sulle braccia muscolose che uscivano dalla camicia smanicata, e in preda alla depressione si nascose la faccia con le mani.
– Magari sapere che cosa ci faccio qui! – bofonchiò.
Il ragazzo si protese verso di lei.
– Non ho capito, leva le mani! – urlò.
Diana scoprì il viso.
– Ho detto: sapere che cosa diavolo faccio qui. Ma in alternativa fammi un Mojito. – disse, porgendogli una banconota da venti euro.
Lui gliene restituì una da dieci, e le mise davanti il cocktail, ma fu fermato da Michele, comparso in quel momento, che aggiunse al resto una banconota da cinque euro.
– Sconto dipendenti, – spiegò al barista, – lei è la nuova, che prenderà il posto di Cecilia.
Diana ascoltò immobile, senza dire una parola, e poi seguì con lo sguardo Michele, che era stato chiamato dall'altra parte del bancone da una ragazza dai capelli rosso fuoco e l'atteggiamento festaiolo.
Il ragazzo si guardò intorno, e vedendo che in quel momento non aveva clienti da servire si appoggiò sul bancone.
– Ciao, – disse, porgendole la mano, – io sono Stefano. E così sei tu che sostituirai Cecilia, eh? – le chiese, indicando con la testa la ragazza dai capelli rossi.
Diana bevve cupamente un sorso del suo Mojito.
– Mah, non so. – sospirò, fra sé e sé.
Ma Stefano non sembrava voler terminare la conversazione.
– Perché prima hai detto quelle cose?
Lei si scansò, per permettere a una cameriera di raccogliere i bicchieri vuoti che si trovavano sul bancone, e la guardò eloquentemente, per poi passare a Cecilia con lo stesso sguardo.
– Ma mi vedi? Che cosa c'entro io qui? Sono anni che non faccio più questo lavoro, sì, ero bravina, ma è da secoli che non preparo più un cocktail, e quando lo facevo ero una ragazzina come loro: ora sembro una vecchia bacucca!
Stefano si mise a ridere,
– Ma cosa dici, quanti anni avrai, trenta? Hai ancora tutta la vita davanti!
Diana scivolò giù dal suo sgabello, fulminandolo con lo sguardo.
– Ventotto, prego. – disse, prima di eclissarsi tra la gente.

Non aveva fatto i calcoli che il motivo per cui lei affrontava sempre le novità con entusiasmo era proprio per il fatto che erano nuove: poteva solo migliorarsi, era quello il suo stimolo.
In quella occasione, invece, doveva misurarsi con una versione più allenata e più giovane di sé stessa: era già stata brava, e ora probabilmente non sarebbe riuscita ad arrivare agli stessi livelli.
E poi c'era un motivo per cui aveva smesso di lavorare nei bar e nelle discoteche: un giorno, nella caffetteria in cui lavorava, aveva conosciuto una nuova collega. Si chiamava Sonia, aveva quarantacinque anni, e nonostante dalle ginocchia in su avesse un aspetto curato, ai piedi aveva un paio di ciabatte ortopediche. Tipo quelle degli ospedali.
Diana aveva guardato i suoi stivali, e aveva promesso a sé stessa che non si sarebbe mai ridotta così.
E ora si vedeva, in mezzo a tutti quei ragazzi, a un passo dal diventare la milfona di turno, non tanto per l'avvenenza quanto per l'età.

Provò a cercare con lo sguardo Michele, per ritrattare la sua assunzione, ma sembrava scomparso nel nulla; allora dopo aver sbollito un po' l'offesa legata all'età, sentendosi una stupida a rimanere da sola, tornò al banco da Stefano.
Si sedette sullo sgabello, e aspettò pazientemente che finisse di servire la gente che aveva davanti.
– Scusa per prima. – disse, attirando la sua attenzione, – Comunque io sono Diana, e non so ancora se diventeremo colleghi.
– Un'improvvisa tremarella?
Diana si mise comoda.
– Ascolta, non scherzavo quando dicevo che sono secoli che non faccio più niente: di sicuro non mi ricordo come si fanno la maggior parte dei cocktail. E inoltre mi sento fuori luogo: tu quanti anni avrai? Venticinque? E sembri il più grande, l'età media dei dipendenti di questo locale sarà vent'anni!
Michele comparve di fianco a lei, sedendosi sullo sgabello accanto al suo.
– Dimentichi che ci sono io ad alzare la media. – disse, dimostrando di avere sentito la conversazione. – Domani mattina verrai qui insieme a me, a locale chiuso: ripasseremo insieme tutto quello che c'è da sapere. E se ti può far stare più tranquilla i primi giorni ti affiancherò, va bene?
Daiana sollevò lo sguardo piano, come se avesse potuto incenerirla solo guardandola; eppure allo stesso tempo in quei riguardi ritrovava il suo vecchio amico.
– Saresti gentile, grazie.
Stefano applaudì.
– Guarda guarda: la cocca del boss. Con me non sei mai stato così tenero! – si ribellò ridendo, mentre strizzava l'occhio a Diana.
Michele sbuffò:
– Questo è perché tu sei una testa di cazzo. – borbottò, bevendo l'acqua tonica che Stefano gli aveva messo davanti. – Bene, sarà meglio che vada in ufficio a guardare un po' di scartoffie, se le prossime sere dovrò stare qui con voi altri.
Lanciò il bicchiere a Stefano, che lo prese al volo, e dopo aver dato un amichevole pacca sulla spalla a Daiana se ne andò in mezzo alla folla di ragazzi che ballavano.
Lei guardò Stefano, sollevando le sopracciglia.
– È il mio mentore. – gli spiegò, finendo di bere il suo Mojito.

Una volta nel suo letto tirò un sospiro: i suoi dubbi, riguardo all'età, non erano svaniti, ma aveva deciso che avrebbe dato almeno una chanche a quella vita in cui si era buttata.
Si rigirò sul fianco, rannicchiandosi, e sorrise ripensando a Michele. Era decisamente strano, averlo rivisto dopo tutto quel tempo, troppo strano.


La mattina dopo si alzò quasi all'alba, impaziente che la giornata iniziasse, e dopo aver fatto un abbondante colazione e aver continuato a sistemare le sue cose, che la sera prima aveva per lo più lasciato nelle valigie, aspettò che Michele arrivasse: gli aveva mandato un messaggio, dicendogli che lei era pronta ad andare quando voleva.
Quando gli aprì la porta di casa le fece ancora quello strano effetto: da un lato le sembrava di tornare a dieci anni prima, dal momento che lui sembrava assolutamente identico, e dall'altro si sentiva tutto il peso di quegli anni addosso.
Lo seguì verso la sua macchina, Michele aveva messo in chiaro che ora era lei l'ospite nella sua città e ci avrebbe pensato lui a guidare, e mentre andavano verso il locale continuò a guardarlo di sottecchi, sperando che iniziasse da un momento all'altro a raccontarle qualcosa sulla canzone che passavano alla radio. Ma forse quello non era il suo genere. Era come se fosse sulle sue, quello sguardo che gli aveva visto negli occhi la sera prima, quando si era offerto di aiutarla, era scomparso.
Cercò di non rimanere intimidita di fronte al pensiero di un'intera giornata insieme a lui in quelle condizioni, così silenzioso e indifferente, facendosi coraggio con l'opzione che se ne sarebbe potuta andare da un momento all'altro: forse la sua nuova vita, che aveva cercato lì a Padova, la stava aspettando da qualche altra parte.

E invece, dopo che lui fece il giro di accensione delle luci e la trovò titubante con una bottiglia in mano, la magia ricominciò.

– Dimmi un po', – rise, – non vorrai prenderla in mano così quella povera bottiglia!
Diana sussultò, posizionandosi subito nella maniera corretta: le dita intorno al collo e il pollice dritto verso l'apertura.
– Certo che no! – gli rispose, un po' seccata nell'essersi fatta trovare in fallo su una cosa talmente tanto basilare. Michele la raggiunse, sostituendo tutte le bottiglie che aveva davanti con dei vuoti pieni d'acqua, ovviamente ognuno con la sua etichetta che contraddistingueva un distillato diverso.
– Forse è meglio usare questi, Daiana. – le disse, leggermente ironico. Forse era per come l'aveva chiamata, forse era per il suo sorriso, ma lei sentì che il ghiaccio si era sciolto di nuovo.
– Dimmi tutto, maestro.


Magari il detto che non si scorda mai ad andare in bicicletta si poteva riferire a tante altre cose: certo, ricordava solo le ricette basilari, ma se Michele le elencava gli ingredienti riusciva a ricavarne le dosi corrette; poi ci sarebbe voluto molto tempo prima che riacquistasse scioltezza nel flair, o forse non ce l'avrebbe mai fatta, ma lavorando sotto pressione, con lui che le chiedeva un cocktail dietro l'altro, aveva ritrovato una certa scioltezza nei movimenti base.
– Sono un vero danno, vero? – gli chiese a tarda mattinata, mentre lui osservava tutta l'acqua e il ghiaccio che erano finiti sulla pedana. Michele le mise una mano sulla spalla.
– Non ti preoccupare, sarai tu a pulire la tua postazione, fino a quando non sarai più ordinata. – disse sarcastico.
Diana ignorò il fatto che il contatto la rendeva particolarmente euforica, e cercò di comportarsi normalmente.
– Ti ricordi con chi stai parlando? Io? Ordinata?
Michele diventò serio.
– Non ti ho portata perché tu diventassi la barista più brava o più veloce, sono altre le cose che mi aspetto da te, e sicuramente quella che tu diventi un esempio per i tuoi colleghi è la più importante.
Annuì, imbarazzata.
– Pausa sigaretta? – chiese.
Michele guardò l'orologio.
– Meglio, andiamo a mangiare.

E se era stato strano incontrarlo, mangiare davanti a lui un piatto di spaghetti aveva un che di paradossale; ma la cosa positiva era che lui sembrava a tutti gli effetti tornato quello che ricordava:
non appena erano entrati in macchina aveva fatto partire il lettore Cd, interrogandola sul gruppo e chiedendosi sconsolato perché sembrava che in tutti quegli anni non si fosse fatta una cultura musicale decente. Diana chiuse gli occhi, ascoltandolo parlare, con quella sua voce roca e dall'inconfondibile accendo padovano, pensando che era il suono più gradevole che ascoltava da molto tempo.
E quando si erano seduti al tavolo non aveva smesso, stuzzicato dalla sua domanda su un autore che anni prima avevano scoperto piacere ad entrambi, le stava raccontando che cosa aveva considerato geniale nell'ultimo romanzo che aveva letto.
Diana arrotolò gli spaghetti alla forchetta, felice.
– Cosa intendevi, prima? – trovò il coraggio di chiedergli, all'insalata.
– Prima quando?
– Quando hai detto cosa ti aspetti e cosa non ti aspetti da me: perché mi hai offerto il posto? Probabilmente avresti potuto trovare qui qualcuno che fosse produttivo più velocemente di quanto potrei fare io.
Michele prese un pezzo di pane, iniziando a masticare lentamente.
– Perché tu me lo hai chiesto.
Scosse la testa, non ci credeva che era solo per quello, e le parole di quella mattina ne erano la conferma.
– No, davvero: cosa ti aspetti da me?
Lui sospirò, appoggiando i gomiti sul tavolo.
– Che tu non sia solo una brava barista: sei intelligente, sei sveglia, e non hai dimenticato le cose importanti di quando si sta dietro a un bancone. Ora però è prematuro che io ti dica altro, tu pensa a lavorare.
Diana fece una smorfia, e poi guardò il dessert che era stato portato al tavolo vicino.
– Prendiamo il dolce?

Nel pomeriggio il lavoro fu più impegnativo: Michele voleva che si esercitasse nella preparazione di diversi cocktail alla volta, e a ricordarsi i trucchi necessari per fare più abbinamenti.
– Michi non mi ricordo praticamente di flair! – si lamentò.
Lui le si mise accanto,
– Non pensare alle stronzate che ti ha insegnato quel pirla di Frank. – disse, quasi arrabbiato. – Quello che conta non è fare spettacolo, è riuscire a ottimizzare i movimenti, in modo da sincronizzare i tempi: il tuo cervello non può pensare a contare le once di tre bicchieri diversi che hai iniziato a versare in tre momenti diversi, ma il tuo corpo sì.
Le mostrò, mentre ancora sinuoso e elegante lanciava e prendeva una bottiglia con una mano, mentre con l'altra ne prendeva un'altra facendole fare un giro diverso; poi la prima mano passò ad un altro bicchiere, mentre la seconda rimise a posto la bottiglia prendendone un'altra ancora.
Quello doveva ammetterlo: lei, neanche nei suoi momenti migliori, era mai stata così elegante, così precisa. Ci aveva provato, in passato, ma si era sempre sentita goffa.
– Forse il mio cervello non è in grado di comandare al mio corpo di farlo. – borbottò, umiliata. Ma Michele non si diede per vinto, e le lanciò una bottiglia.
– Partiamo con una mano, insieme: ruota il gomito e poi lascia che sia il peso della bottiglia a darti il ritmo, assecondalo. Visualizzalo nella tua mente, lo so come ragioni. – cambiò idea, mise a posto la sua bottiglia e si posizionò dietro di lei. – Senti il movimento che devono fare i tuoi muscoli, la bottiglia seguila nella tua mente, chiudi gli occhi e guardala girare – continuò, mettendole una mano sul polso e aiutandola con il movimento.
Ma Diana era nella crisi più nera: com'era possibile concentrarsi sul braccio e sulla bottiglia se l'unica cosa che sentiva era Michele e la sua mano stretta intorno al suo polso?
E specialmente: non le era mai successo, non con lui. Anni prima si era beatamente addormentata sulla sua spalla, senza nessunissimo pensiero se non il grande affetto che provava per lui, e ora non era più così. Ora sentiva la sua presenza, percepiva il suo profumo, e il cuore iniziava a battere annebbiandole la mente.
– Ho capito, fammi provare da sola. – mentì, pur di farlo allontanare.
Michele si spostò di qualche passo, e incrociò le braccia, guardandola.
Diana inspirò: non doveva sbagliare, assolutamente. Provò a concentrarsi su quello che le aveva spiegato, sul visualizzare la bottiglia; chiuse gli occhi e pensò al movimento, al peso della bottiglia che girava su sé stessa e poi ritornava nella sua mano, secca, senza una sbavatura. Poi gli aprì e cercò di trasformare quel pensiero in realtà.
Fece tutto il movimento, chiuse solo la mano mezzo secondo prima, riprendendo la bottiglia leggermente inclinata, ma tutto sommato era più che soddisfatta. Si girò sorridendo vittoriosa a Michele, che le stava battendo le mani.
– Ora ti meriti una sigaretta. – le concesse, mentre lei, tornata con la mente ragazzina, già saltellava verso la sua borsa, per cercare il pacchetto.

Soffiò il fumo sopra di sé, osservandolo disperdersi nel cielo, mentre una strana sensazione, nel suo stomaco, la spingeva a sperare che quella giornata perfetta non finisse mai.

Alle cinque l'aveva accompagnata a casa, in modo che potessero entrambi prepararsi al lavoro, e mentre era sola, facendosi la doccia, liquidò i pensieri che l'avevano assalita come una cosa momentanea: a lei non piaceva Michele, era impossibile, non le era mai piaciuto.
Forse era semplicemente contenta di stare ancora con lui, decretò.
Ma mentre gli aprì la porta di casa, quando venne a chiamarla, inclinò la testa, lasciando che i capelli coprissero il rossore sulle sue guance.



Nda: ed ecco in botta il secondo capitolo, che ho pubblicato subito in modo che poteste avere una migliore visione dell'insieme.

Con questo vi saluto, sperando che qualcuno si soffermi a dirmi la sua opinione ;-)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 - Tornare a conoscersi ***


daiquiri        









Quando la macchina si fermò sotto casa Diana si slacciò stancamente la cintura di sicurezza, scese dalla macchina e a occhi chiusi lasciò che fosse il rumore dei passi di Michele a guidarla verso casa, fino in ascensore, dove si appoggiò allo specchio e aprì un poco le palpebre: era stata una bella giornata ma intensa e faticosa, era letteralmente distrutta.
Quando le porte dell'ascensore si aprirono Michele l'avvisò:
– Vieni tra un quarto d'ora: ti aspetto per la pizza.
Diana spalancò gli occhi e la bocca.
– Ma sei matto? A quest'ora? Sono le quattro, chi è che ti porta la pizza adesso?
Lui scosse la testa, mentre apriva la porta di casa sua.
– È surgelata, la scaldo solamente. Ehi, non mi guardare così: dovrai pur mangiare qualcosa!
Diana si arrese, sorridendo.
– A dopo, se ci arrivo.
– Lascio la porta socchiusa: non suonare il campanello, sveglieresti tutti. A parte noi qui ci abitano persone per bene,

Avendo tempo si fece una velocissima doccia, per levarsi di dosso l'appiccicume dell'alcol che si era rovesciata durante la serata, e fortunatamente quella la svegliò un po'.
Si infilò una tuta e attraversò in punta di piedi il pianerottolo, trovando la porta aperta come lui le aveva detto.
– Michi! – lo chiamò, a mezza voce, guardandosi intorno. – Sono qui!
Osservò la casa: era più bella e più grande della sua, arredata in modo minimalista ma curato. Una grande libreria troneggiava in salotto, occupando quasi tutta la parete. Non avendo avuto risposta decise di curiosare tra i volumi e i vinili riposti, chiedendosi se era umanamente possibile spaziare tra tutti quei generi. Poi si voltò, e ammirò la collezione di Dvd: che sciocca, si trattava di Michele, Google.
– Lo sai che non ti lascerò portare via niente di quello che vedi qui?
Diana sussultò, scoprendolo mentre era appoggiato allo stipite a guardarla. I suoi capelli erano umidi, sentiva fin da lì il profumo di bagnoschiuma, e quella combinazione le chiuse lo stomaco.
– Andiamo, – cercò di essere disinvolta. – adesso siamo vicini di casa: dove pensi che potrei dimenticarmeli?
Michele scosse la testa, attraversando la sala e raggiungendo la cucina, seguito da lei.
– Un libro. – diceva, – Un libro ti ho prestato e non l'ho più rivisto. Non se ne parla proprio.
Sembrava severo, eppure sentendo la sua voce non poteva fare a meno di sorridere.
– Certo che te le leghi al dito le cose: non ti ricordavi che mi hai sempre chiamato Daiana, ma quel libro mica te lo scordi! – sbuffò, sedendosi a tavola mentre lui tirava fuori le pizze dal forno.
Doveva cercare di parlare, per evitare di soffermarsi sul pensiero che più si fermava lì, in casa sua, più era imbarazzata.
– Allora, come sono andata stasera? – chiese, continuando a muoversi sulla sedia.
Michele le mise davanti il piatto, con un mezzo sorriso sarcastico.
– E tu dimentichi che non sono Frank: io non ti liscerò mai il pelo, dicendo che sei la migliore. – e bloccò il sorriso che stava spuntando sul viso di Diana, – specialmente perché non è così.
Di tutta risposta lei arricciò il naso, masticando di gusto.
– È la seconda allusione a lui che fai oggi: devo dedurre che non siete più in buoni rapporti?
– Ci arrivi solo adesso? Abbiamo sempre avuto idee diverse: a me interessava fare un buon lavoro con le risorse che avevamo a disposizione, a lui le grandi cose. Pavoneggiarci a migliori, presenziare a mille fiere, riempirci l'agenda di corsi in città sempre nuove.
Effettivamente era tipico di Frank: un tempo lo considerava un grande, ma poi, dopo aver conosciuto Michele, aveva iniziato a vederlo per quello che era, ovvero un montato. Bravo, per carità, ma pur sempre uno a cui interessava più apparire che essere.
– E Luca? – gli chiese. Sapeva che erano sempre stati amici, ancor prima del discorso della società; era stato infatti Luca a presentarlo a Frank.
Michele scrollò le spalle, bevendo un sorso di birra.
– Ci si sente. – disse, semplicemente.
Diana si concentrò sul cibo: stava crollando in piedi, più in fretta avrebbe finito la pizza prima sarebbe potuta andare a dormire.
– Che faccino. – commentò infatti Michele, – Ma non eri tu quella che voleva spaccare il mondo?
Sorrise, guardandolo di sottecchi.
– Una volta un vecchio saggio mi disse: quando avrai la mia età capirai, e spero che anche tu avrai qualcuno che ti romperà le scatole come tu fai con me. – Lo vide sorridere, e continuò. – Ironico che sia proprio quel vecchio saggio, stanotte, che mi tiene sveglia. – Gli lanciò uno sguardo complice e continuò a mangiare: non c'era bisogno di dire altro.

– Diana.
– No. – bofonchiò.
Daiana? Svegliati, non puoi dormire qui, nella mia cucina.
– Tipregosolocinqueminuti...



Quando aprì gli occhi un senso di smarrimento la colse: non era a casa sua. E non era neanche nel suo nuovo appartamento. Si rigirò, scoprendo di essere su un divano, e mettendo a fuoco la stanza vide l'enorme libreria, che le suggerì immediatamente che era a casa di Michele. Istintivamente si toccò le guance: se avesse sbavato sul suo divano non sarebbe stata più in grado di guardarlo negli occhi; no, era tutto a posto.
Si alzò, spostando la coperta che lui le aveva messo, e a passi malfermi raggiunse la cucina, da cui sentiva arrivare dei rumori.
– Scusami. – disse, affacciandosi alla porta.
Michele sollevò lo sguardo dal giornale, e poi tornò a leggere, senza degnarla di una parola.
– Ehi, raggio di sole, ti ho chiesto scusa: non l'ho fatto apposta! – prese le sue chiavi, appoggiate sul tavolo, e si girò borbottando. – Me ne torno a casa mia.
C'erano momenti in cui sentiva che tra di loro scorreva la stessa sintonia perfetta di quando si erano conosciuti, e degli altri momenti in cui lui la guardava come se fossero due estranei, e lei fosse una da tenere a debita distanza.
Attraversò il pianerottolo, gelando con lo sguardo il tecnico dell'ascensore che l'aveva vista uscire da una casa ed entrare in un altra, e si chiuse la porta alle spalle. Che fosse venuto lui a dirle quando era l'ora di andare al lavoro: per conto suo sarebbe potuta rimanere a casa, non le aveva fatto sapere niente.
Andò direttamente nella sua camera e si buttò sul letto.


– Vado un attimo... – provò a dire, ma Diana lo bloccò:
– No, ti prego stai qui! Avevi detto che saresti stato con me, ed è solo la seconda sera. – gli ricordò.
Michele aveva sbuffato bonariamente e si era messo comodo, appoggiandosi alla ghiacciaia.
Diana, tra un Cuba e l'altro che metteva sul bancone davanti alla marmaglia di gente gli sorrise, ringraziandolo.
Quel pomeriggio si era presentato come se niente fosse alla porta di casa sua, per dirle l'ora per cui si sarebbe dovuta far trovare pronta, come se lei quella mattina non l'avesse praticamente mandato a quel paese. Così Diana aveva sorvolato sul fatto che lui era stato scortese, e l'aveva invitato a entrare per un caffè.
Ed era tornato tutto come prima.
Stava iniziando a prendere più confidenza con il lavoro, ma la sua presenza accanto a lei la faceva sentire più sicura: quando aveva un dubbio, quando si sentiva fuori luogo, bastava che lo guardasse, ed ecco che la determinazione tornava a spingerla. Voleva che Michele fosse fiero di lei.

– Stefano continua a dirmi che devo inventarmi un ruolo. – sbuffò, quando furono in macchina. – Cecilia era la scatenata, lui e Fabio sono l'oggetto del desiderio delle ragazzine e l'altro? Come si chiama, Gianni? Beh, lui fa il tenebroso.
– E io chi sarei, secondo Stefano? – chiese, divertito.
– Ah, ma è chiaro: tu sei il boss!
Michele rise di gusto, mentre parcheggiava.
Daiana, tu sarai quella che intimidirà i ragazzini che provano a voler bere gratis. – la prese in giro.
– Mi darai un'ascia da usare?
– Certo, e anche un arco.
Ridacchiò, seguendolo verso casa. Iniziava ad avere paura: quel giorno aveva dormito, e non era più così stanca come la sera prima, ma forse lui avrebbe preferito evitare di invitarla ancora, vedendo come aveva reagito quella mattina. Non doveva fargli capire che se lo aspettava, assolutamente.
– Allora domani mattina andiamo al Daiquiri ad allenarci?
– Tarda mattinata o primo pomeriggio.
Diana si stiracchiò vistosamente, mentre l'ascensore saliva al loro piano.
– Allora sarà meglio che io non perda tempo davanti alla tv vada a letto immediatamente. – dichiarò.
– Come, non mangiamo? – le chiese aggrottando le sopracciglia, quando raggiunsero il pianerottolo. Si fermò con le chiavi in mano, a guardarla.
– Oh, beh, – balbettò intimidita, – io non pensavo...
Michele le sorrise.
– Non vuoi la pizza? E va bene, ti faccio un piatto di pasta. – disse, voltandosi e andando ad aprire la sua porta. – Ricordati di non suonare.
Diana rimase sul pianerottolo, a guardare la porta che si accostava. Ma come faceva Michele a farla sentire sempre così? Più cercava di ricordare e più poteva giurarlo: in passato non lo aveva mai, mai considerato bello. Non perché non lo fosse, ma perché lo vedeva come una figura enormemente più adulta di lei: Diana non aveva neanche vent'anni, e lui aveva una vita intera di esperienze sulle spalle. Michele era il suo mentore, insieme era come se non avessero sessualità, non c'era mai stato un dubbio su quello. E ora, più guardava il suo viso, rude ma bello, più sentiva la sua voce, più voleva sprofondare.
Pur di staccarsi quei pensieri dalla mente cercava in lui la figura che aveva sempre significato, richiedendo la sua approvazione, permettendogli di insegnarle nuove cose, ma non stava funzionando; anziché riportarla allo stadio di ammirazione asessuata Michele diventava semplicemente più desiderabile ai suoi occhi, e al tempo stesso più irraggiungibile. Lo sapeva, lui non l'avrebbe mai guardata, e lei non voleva rendersi ridicola, correndogli dietro per poi essere rifiutata, e rovinando non solo quello che in quei giorni avevano ricostruito, non solo quella che sarebbe stata la sua nuova vita, ma anche il ricordo della loro amicizia.

– Sai a cosa stavo pensando? – disse, entrando nella sua cucina . Michele era girato di spalle, così lei continuò. – Ora ho la stessa età che avevi tu quando ci siamo conosciuti: non è incredibile? Mi sembravi
così grande, e ora io ho la stessa età.
– Un paio in meno, bambina. – sottolineò, mettendo i piatti sul tavolo.
Diana gli diede a vaschetta di gelato che aveva portato: voleva contribuire alle loro cene.
– Che differenza fa?
Alzò eloquentemente un sopracciglio e si sedette di fronte a lei.
– Pare che ce ne sia molta, stando a quello che mi ha detto Stefano, a come hai reagito quando ti ha dato della trentenne. – stappò il vino rosso e gliene versò un calice, per poi versarsene per sé.
– Il gusto del mangiare. – divagò Diana, ricordando come secondo lui ogni pasto andava accompagnato dalla giusta bevanda. Annusò il vino e gli porse il bicchiere, per un brindisi. Michele lo guardò per qualche istante, poi lo fece scontrare svogliato contro il suo.
– E comunque io preferisco pensare che ci sia una differenza. – dichiarò, iniziando a mangiare.
Solitamente gli avrebbe chiesto una spiegazione, ma in quel momento qualcosa la induceva a non farlo, nonostante quell'affermazione fosse rimasta nella sua testa continuando a vorticare, in cerca di una soluzione.




Nda: allora, innanzitutto un grazie enorme a Bloomsbury, che ha letto e commentato i primi due capitoli, riempiendomi di gioia. Lo sai che non sei costretta, vero? ;-)
E secondo di tutto... voi non avete la minima idea di quanto mi stanno facendo dannare questi due protagonisti: ricordatevi, non è colpa mia ma è colpa loro. Capirete più in là, non temete.
Viva il fandom delle originali. Sì, vi sto un po' allisciando, si sa mai che mi prendiate in simpatia ;-)

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 - Where is my mind ***


daiquiri        










Quando vide la chiamata in arrivo inizialmente pensò che si fosse messo il telefono in tasca senza il blocco tasti: Michele non la chiamava, né le mandava messaggi; o suonava il campanello oppure le lasciava dei bigliettini attaccati alla porta, se stava uscendo ed era particolarmente di fretta.
– Pronto? – rispose, sospettosa.
– Pensavo che non rispondessi più. Ascolta, vai al lavoro da sola, stasera: io ho un appuntamento con il capo, a Vicenza.
– Ok.
– Ascoltami attentamente: se Katisha arriva in ritardo dille che la prossima volta può evitare di venire. Stefano rimarrà al suo posto, voglio che invece Fabio e Gianni gli si mettano uno a destra e uno a sinistra, in modo che rimarrà aperto solo un lato del bancone, stasera non ci sarà il pienone e quindi può bastare.
– E io? – chiese, accorgendosi che non l'aveva nominata.
– Ricordati che oggi arriva il fornitore delle bottiglie, e quindi devi essere lì un po' prima. Devi dargli i vuoti, le casse piene fattele portare direttamente nel magazzino. Fai in modo che le cameriere lascino sempre la sala pulita, voglio che facciano il giro per raccogliere i bicchieri ogni volta che sono libere.
Diana capì che cosa intendeva: doveva prendere il suo posto, quella sera. Si grattò la tempia, dubbiosa.
– Michele, sono due mesi che lavoro al Daiquiri. – disse, chiedendosi tra sé e sé se i suoi colleghi l'avrebbero ascoltata.
– Ma che cosa dici? – si arrabbiò, – Sei più grande di tutti loro, non iniziare a farmi questi discorsi.
Si morse le labbra e fece un sospiro: doveva dimostrargli che la sua fiducia era ben riposta, ce la poteva fare. Sapeva come funzionava un locale, e in passato aveva gestito dei negozi: sarebbe stata in grado di unire le due cose.
– Intendevo dire, sono due mesi che lavoro al Daiquiri: so che il mercoledì arriva il fornitore del vetro, e so come ti aspetti che vadano le cose. Passa una buona serata, quando finisci la riunione con il capo se vuoi rimani in giro, prenditi del tempo libero.
Michele, più tranquillo, si lasciò andare a una risata, smascherandola.
– Sai che non mi freghi, vero?
Diana controllò l'orologio: avrebbe dovuto sbrigarsi.
– Dove mi hai lasciato le chiavi?

Solo Fabio sembrò poco convinto del fatto che Michele avesse lasciato a lei il comando,
– Ma dai, – cercava di aizzare Gianni, che stava preparando diligentemente la sua postazione, – è la più nuova qua dentro! – si lamentò, dando a intendere che lo considerava un favoritismo.
Diana gli si parò davanti.
– Fabio quanti anni hai? Da quanto tempo lavori qui? Hai lavorato in altri posti prima? E cosa facevi? – Fissò lo sguardo serio del ragazzo, e continuò. – Io ho ventotto anni, sì, lavoro qui da due mesi, ma prima gestivo un negozio in centro a Torino, avevo dieci persone sotto di me. Prima ho fatto la vice responsabile in un store con quanti, cinquanta venditori? E prima ancora lavoravo nei bar e nelle discoteche: per anni. Fidati che ci sono stata più io di te dietro a un bancone, e se anche non fosse tu non hai le competenze necessarie per sostituire Michele una sera, io sì. O ti metti al lavoro o vai in sala: porto qui Agnese al tuo posto e le insegnerò a fare un dannatissimo Cuba.
Fabio la guardò, dall'alto in basso, e si slacciò il grembiule.
– Dici? – la minacciò.
Diana si girò.
– Agnese! – chiamò la ragazza che stava mettendo i tovagliolini e le cannucce nei privé. – Tu e Fabio stasera vi scambiate di posto, vieni qui.
La ragazza spalancò gli occhi e corse al bancone, ignorando Fabio che le stava passando accanto dandole una spallata.
– Cosa devo fare? – chiese, eccitata.
Diana le mostrò la sua postazione, riempì una bottiglia d'acqua e le mise in fila una cinquantina di bicchieri di plastica, spiegandole cosa doveva fare per riempirli.
– Gianni ti preparerà la postazione mentre tu ti eserciti, non ti preoccupare: farò in modo che tu stasera non debba fare altro. – la rassicurò, mentre lei entusiasta provava a versare. – Dalle un occhio, per favore. – sussurrò a Gianni, mentre scendeva dalla pedana e andava a sentire che cosa voleva il Dj, che si stava sbracciando verso di lei.

La metà della serata era passata senza particolari problemi: aveva fatto un cartellone attaccando delle cannucce colorate in modo che formassero una scritta che segnalava la postazione di Agnese come preferenziale per Cuba, Vodka Lemon e Chupiti; Fabio aveva ingoiato il rospo e stava iniziando a sciogliersi, scherzando con le altre cameriere.
Diana faceva il giro incessantemente, per accertarsi che tutto stesse andando bene, dal guardaroba ai bagni; e aveva convinto il capo dei buttafuori a darle un auricolare, in modo che sarebbe potuta intervenire in caso di bisogno.
Salì sulla pedana, andando accanto a Stefano che era appoggiato alla fila di frigorigeri e se la rideva per come Agnese si stava impegnando.
– Non la prendere in giro. – disse bonariamente.
– No, no, – si giustificò lui, – se la cava alla grande: un ragazzo prima non ha letto un cartello e voleva un Long Island, stava iniziando a lamentarsi ma Agnese ha sbattuto un po' gli occhi e lui si è accontentato di un Cuba.
– Quando c'era casino sono venuta ad aiutarla con la cassa, sembra che sia andato tutto bene. Cosa ne pensi? – gli chiese, sospirando.
– Sei stata brava: per un attimo ho avuto paura che Fabio ti mettesse i piedi in testa, ma lo hai gestito alla grande. Vecchietta. – la prese in giro, facendola ridere. – Oh, – disse poi, indicandole l'ingresso. – guarda chi è arrivato! Boss! – si sporse dal bancone per salutare con Michele, in una sorta di cinque alto, e salutò le ragazze che erano con lui.
– È andato tutto bene, non ti preoccupare. – lo informò svelta Diana, vedendo che osservava Agnese dietro al bancone, poi premette l'auricolare all'orecchio, ascoltando. – Arrivo subito. – rispose, schiacciando il tasto del microfono.
Michele la stava squadrando.
– Che roba è? – borbottò, – È tutto a posto?
– È un auricolare, – spiegò, mentre scendeva dalla pedana, – va tutto bene: qualche problema nel bagno delle signore, ma me la cavo io. Tu sei di riposo. – lo assicurò, prima di dileguarsi tra la gente.
Dopo aver sedato la piccola emergenza, una ragazza che inizialmente sembrava stesse male ma poi scoprì essere solo in crisi perché il ragazzo l'aveva tradita, Diana si stiracchiò e tornò in sala.
Si sedette sui gradini della scala che portava all'ufficio e spiò verso il banco, Michele e le ragazze con cui era arrivato.
Erano tre, e sembravano avere una grande confidenza con lui: gli stropicciavano i capelli, bevevano dal suo bicchiere, una aveva addirittura provato a portarlo a ballare, dovendo poi arrendersi. Furono raggiunti da un altro uomo, circa della stessa età di Michele, e rimasero al bancone da Stefano, che preparò da bere per tutti.
Diana non faceva altro che guardare le ragazze: labbra rosse e lucide, ciglia nere che sbattevano maliziose, capelli lunghi e sciolti, sembravano fatte con lo stampino, ma, doveva ammetterlo, uno stampino incredibilmente bello.
Non aveva mai scoperto il genere di donna che interessava a Michele, forse era quello. E forse tra di loro c'era la sua ragazza: aveva dato per scontato che lui fosse single, ma sapeva che nonostante sapesse per alcuni versi lo conoscesse intimamente in realtà lui poteva benissimo aver avuto una ragazza per tutto quel tempo senza che lei se ne accorgesse.
Continuò a guardarli, mentre il suo stomaco sembrava attorcigliarsi: o magari una di loro lo sarebbe presto diventata.
Un fischio all'orecchiò la fece sussultare.
– Quindi? – le diceva la voce metallica, all'auricolare.
– Quindi cosa? La ragazza sta bene, l'ho lasciata con una sua amica.
– Sì, intendevo dire: faccio ancora entrare la gente?
Diana guardò l'ora.
– No, è ora di iniziare ad alzare le luci: tra una mezz'oretta saremo chiusi.
Decise di concedersi una sigaretta, sperando che il il gusto del tabacco l'aiutasse a portare via l'amaro in bocca: ancora una volta, per motivi diversi, Padova la faceva sentire inadeguata, e dopo una serata come quella non poteva accettarlo.
Sperava di essersi caricata abbastanza, e invece una volta tornata dentro il castello mentale che si era costruita, ricordandosi che doveva essere fiera di sé, crollò. Indossò il suo miglior sorriso, notando che Michele e le sue amiche si erano dileguati, e iniziò la chiusura.

Si trattenne in ufficio per assicurarsi un' ultima volta che avessero contato i soldi correttamente, poi spense anche l'ultima luce e chiuse il locale, salutando grata il buttafuori che l'aveva aspettata.
– A domani, Giacomo!
– Brava Diana, sei stata brava! – la salutò lui, guardandola salire in macchina prima di far partire la sua Harley.
Arrivata sotto casa cercò con gli occhi la 159 di Michele, ma non la vide al solito posto. Salì in casa, finalmente non doveva più costringersi di sorridere, ora il suo riflesso nello specchio dell'ascensore le restituiva lo smarrimento che provava.
Prese una coppetta di gelato dal freezer e tornò nell'ingresso a mangiarla, seduta per terra contro la porta, per riuscire ad ascoltare i rumori del pianerottolo; quando si addormentò Michele non era ancora tornato.

Sussultò mentre il campanello la svegliava, lanciando in aria la vaschetta di gelato ormai sciolto che aveva appoggiato alla pancia.
Intontita, senza capire bene cosa stesse facendo, aprì istintivamente. Michele la guardava sconcertato, e abbassando lo sguardo verso la sua maglietta capì: il gelato le si era versato addosso, e anche per terra da quello che vedeva. Cosa doveva dirgli, per giustificarsi, che la notte prima era stata colta da un momento di pazzia e si era addormentata alla porta sperando di sentirlo quando sarebbe rientrato?
– Ti dispiace? Non è il momento, devo farmi una doccia. – gli disse, richiudendo la porta prima che le lacrime scendessero senza il suo permesso.
– Vieni da me, dopo, così mi racconti di ieri. Vado a prepararti un caffè.
Si sentiva come in piena crisi premestruale, avrebbe voluto spalancare la porta e urlargli dietro, chiedendogli se l'unica cosa che gli interessava di lei era sapere cosa aveva combinato nel suo preziosissimo locale. Evitò, tenendo a bada quell'insano istinto, e si trascinò in bagno, dove alla vista del suo riflesso nello specchio non fu più capace di trattenere le lacrime.
Anche la sua guancia era sporca di cioccolato, forse prima di dormire si era lasciata andare a un pianto perché il trucco le era colato tutto, e per concludere l'opera i capelli sembravano un roseto che non aveva una potatura da decenni.
Michele forse aveva passato la notte fuori con una di quelle ragazze, e lei finiva ridotta in quelle condizioni.
Il morale era così a terra che nemmeno quando fu vestita e pettinata se la sentiva di attraversare il pianerottolo e andare da lui: il pensiero di come l'aveva vista, il pensiero di quello che era successo la notte prima, sembravano impossibili da affrontare.

Michele suonò al campanello, e lei rimase immobile, sperando che lui non la sentisse e pensasse che si fosse riaddormentata.
Ma invece lui suonò di nuovo.
Daiana... –Si sentì chiamare, da fuori dalla porta.
Asciugò la lacrima depressa e solitaria sulla sua guancia, e capì che presto o tardi avrebbe dovuto affrontarlo.
– Eccomi. – sorrise, aprendo la porta. Allargò il sorriso, vedendo il suo sguardo dubbioso. – Ehi, scusa il ritardo, ma non so se avevi notato i miei capelli richiedevano un lavaggio intensivo. – disse superandolo, diretta verso il suo appartamento.
Sul tavolo, oltre al caffè, Michele aveva appoggiato anche un paio di brioche, e lei ne prese una chiedendosi se si fosse era fermato a prenderle di ritorno da casa della ragazza con cui aveva passato la notte. Almeno in qualche cosa l'aveva pensata, per vendicarsi scelse quella al cioccolato, lasciando a lui quella vuota.
Fece colazione come se niente fosse, e poi, mentre lui era ancora a metà brioche, uscì sul terrazzino a fumare una sigaretta.
– Tutto bene, ieri sera? – le chiese, seguendola.
– Oh, sì. – rispose particolarmente entusiasta, – E tra parentesi inizialmente Giacomo era dubbioso, e poi ha detto che sono stata un genio a chiedergli l'auricolare: forse dovresti copiare la mia idea. Fabio ha alzato un po' la cresta, è per quello che l'ho mandato in sala e ho chiesto ad Agnese di salire al banco, ma a fine serata mi ha chiesto scusa, quindi tutto risolto.
Michele incrociò le braccia.
– Sì, quello me l'ha spiegato Stefano, ha detto che l'hai rimesso a posto proprio bene, ma non avevo dubbi. No, ti chiedevo, perché prima eri... così?
Diana ci mise molto impegno a spegnere la sua sigaretta, non sapeva davvero cosa dirgli.
Era gelosa, era insicura, era disperata perché si sentiva male al pensiero di quello che provava per lui. Perché Michele era anche molto, troppo, altro.
– Non avevo niente, mi sono addormentata davanti alla tv, era un bel film. – lo liquidò, entusiasta per la spiegazione che copriva tutto, gelato e trucco sciolto.
Michele aggrottò le sopracciglia, ma lei lo ignorò, tornando dentro. Sì, era gelosa, gelosa da stare fisicamente male.
– Posso mettere su un po' di musica? – disse, andando in sala e scegliendo un cd, già sapendo che lui non le avrebbe mai permesso di toccare il giradischi e uno dei suoi idolatrati vinili.
Non voleva scappare da lui, dandogli modo di chiedersi ancora che cosa potesse avere, ma d'altra parte non aveva voglia di altri silenzi, né di altre domande.
Mise Surfer Rosa dei Pixie, skippando diretta alla settima traccia, Where is My Mind, lasciandosi poi cadere sul divano e ascoltandola a tutto volume, grazie al meraviglioso impianto di Michele.
– Ehi, – disse lui raggiungendola, – non dirmi che l'hai scelta per Fight Club, tamarra.
Le fece scappare un sorriso.
– Sai, – urlò per sovrastare la musica, e Michele prese il telecomando abbassando il volume a livelli più accettabili. – sai, tanta gente pensa che io abbia una cultura musicale di tutto rispetto, eccetto te: ti assicuro che ce l'ho, solo che è più varia, non mi soffermo solo su generi di nicchia. Comunque hai mai ascoltato la versione live di questa canzone con i Placebo? – capì dal suo sguardo che per una volta poteva essere lei a fargli scoprire qualcosa, e si tirò su, soddisfatta. – Ce l'ho in macchina, se andiamo al lavoro con la mia te la faccio ascoltare.
Gli prese il telecomando dalle mani, fece ripartire la canzone e alzò il volume.
Non aveva voglia di altri silenzi, né di altre domande.
Seduta accanto a lui, sul divano, abbracciando un cuscino, avrebbe voluto piangere silenziosamente, mentre la musica la stordiva e allo stesso tempo esaltava i suoi sentimenti; ma si limitò a respirare, lasciando che il semplice contatto del suo gomito la addolcisse.

– Almeno potresti dirmi che sono stata brava ieri sera. – si ribellò rianimandosi quando, dopo che la canzone finì anche per la terza volta, si decise a spegnere.
– Non mi aspettavo niente di diverso, è questo che ti devo dire?
– Se le tue aspettative nei miei confronti si abbassassero magari potrei beccarmi un “brava”, ogni tanto. – incrociò le gambe e si girò verso di lui.
– Se le mie aspettative fossero state basse forse non ti avrei detto di trasferirti qui. – strinse gli occhi a due fessure, guardandola, e si alzò.
– Perché vuoi avere sempre l'ultima parola? – borbottò, e Michele dalla cucina rise.
– Lo sai che ho sempre ragione.
Stava prendendo le tazze dal lavandino e mettendole nella lavastoviglie, come se lei non fosse già più lì.
– Però, qualche rara volta, potresti dirmelo. Così, mi farebbe bene. – disse a mezza voce, appoggiandosi allo stipite della porta della cucina. Si sentiva molto più vulnerabile in quel momento, in cui in cui gli chiedeva una semplice gratificazione, che poco prima, quando aveva ascoltato la stessa canzone più volte davanti a lui, sfogando un sentimento che involontariamente era stato proprio lui a provocarle.
Ma era perché nascosto in quelle parole c'era qualcosa di più, che non sapeva e non voleva esprimere, una richiesta diversa.
– E no, – continuò, dopo un lungo silenzio durante il quale Michele l'aveva semplicemente guardata. – non mi risponderai stasera, non mi risponderai un'altra volta: non credi che ogni tanto potresti dirmelo? Sei l'unico che potrebbe farlo, e l'unico da cui avrebbe un valore.
Michele le porse il pacchetto di sigarette, precedendola nella terrazza.
– Sai, Daiana, quando ci siamo conosciuti continuavo a meravigliarmi: avevi solo diciotto anni ed eri così sicura di te. – soffiò una boccata di fumo. – Certo, volevi essere ricoperta di complimenti, ma era come se volessi sottolineare quello che tu già sapevi.
– I tuoi complimenti però li sentivo diversi, quando me li facevi. Ero davvero fiera quando riuscivo a strappartene uno, anche misero. – ricordò, mentre un amaro sorriso di rimpianto le addolciva il volto. A quei tempi era tutto molto più semplice.
– Ora ti vedo: sei più matura e ti sei ridimensionata nella tua testa, paradossalmente ti fai più paranoie adesso, ma in fondo sei ancora orgogliosa di quello che sei, e di quello che sai. Se qualcuno ieri sera ti avesse detto che eri stata brava, e sicuramente lo avranno fatto, avresti reagito come allora. Saresti stata contenta, ma tu per prima sai di aver fatto un bel lavoro.
Diana trattenne un nuovo sorriso, lasciando che a tradirla fosse solo la fossetta, raccogliendo a piene mani quel mezzo complimento mascherato.
Sospirò, poi, capendo che lui non aveva intenzione di proseguire.
– Qual'è la fine di questa riflessione, tu che mi chiedi perché ti assillo continuando a chiederti se ho fatto un buon lavoro?
– Tu per prima lo sai. Io non sono più importante di te, della opinione che hai di te stessa, né di tutte quelle persone che te lo hanno detto ieri: loro lavorano con me, e se ti hanno giudicato bene è come se avessi anche il mio, di giudizio. Non devi aspettare che sia la mia approvazione a dartene la certezza.
Diana tremò leggermente, forse per la leggera brezza.
– Se tu sapessi. – Guardava dritto davanti a sé, i palazzi illuminati dal sole, i le violette che iniziavano timide a fiorire nei vasi sui balconi. Non sarebbe mai riuscita a guardarlo. – Se tu solo sapessi cosa significherebbe per me. Non è questione che non mi sento brava, se non me lo dici. Io vorrei che tu mi apprezzassi: lo vorrei tanto, tu sei il mio mentore. – aveva parlato a mezza voce, scandendo ogni parola, come se avesse voluto soppesarle ad una ad una.
Si sentì rinchiudere nel suo abbraccio, e nascose la faccia contro il suo petto.
– Sei stata brava. – disse, con quella sua voce roca e bassa.
E pensò che forse quello poteva bastarle.






Nda: Ma ciao fandom delle originali :-D un aggiornamento domenicale non fa mai male, e visto che è il mio ultimo giorno di malattia ho deciso di festeggiarlo così!
Ecco un nuovo capitolo, che spero vi piacerà, Diana inizia ad essere più sicura di sè al lavoro ma con Michele non le è altrettanto facile.
Grazie Bloomsbury, il fatto di sapere che tu sai leggendo questa storia mi dà la forza di continuarla! Grazie grazie grazie!
Ascoltatevi i Pixies, pace amore e rock!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 - Valpolicella&Tequila ***


daiquiri        










L'aveva accompagnata Michele quella mattina a Vicenza, a firmare l'aumento di livello: le avevano proposto di affiancarlo, diventando di fatto la vice responsabile.
- Come mai mi perdi sulla mania di controllo? Non sei più il super uomo che vuole avere tutto il potere nelle sue mani? - gli aveva finalmente chiesto mentre lui stava guidando, dopo qualche giorno che quella domanda le frullava nella testa. Aveva semplicemente paura che la sua risposta fosse qualcosa di simile a “sai, è la mia ragazza, non la vedo mai”.
- Magari sto diventando un vecchietto. - la prese in giro, senza di fatto rispondere.
- Dai, Michi, non fare lo stupido!
- Allora, punto primo: io ho comunque tutto il potere nelle mie mani. Punto secondo: il capo vuole ingrandirsi, e fare un estivo con i contro coglioni, una mano non mi farà schifo. E punto terzo: se sono il tuo mentore è ora che ti insegni un po' come si manda avanti la baracca.

Che il capo si fidasse ciecamente di lui l'aveva sempre sospettato, dal momento che se ne era sempre stato buono buono a Vicenza, non era mai andato al Daiquiri a interferire; ma quando li vide insieme fu solo più lampante. Continuava a parlargli e a chiedergli la sua opinione su un mucchio di cose, e Michele, con quel suo atteggiamento un po' da “ma non starmi troppo addosso”, lo indirizzava su quella che per lui era la scelta migliore.
Quando poi Michele si era allontanato, le aveva detto che era stato lui a insistere per darle la promozione, e se Michele insisteva tanto voleva dire che ne valeva la pena, così lui le aveva fatto preparare il rinnovo del contratto.
Diana non poté fare altro che scuotere la testa: a lei diceva le cose con il contagocce e poi addirittura insisteva per promuoverla.
Però le faceva piacere, quel suo occuparsi di lei; se solo avesse iniziato a guardarla in maniera diversa...
Fermò il flusso dei suoi pensieri, che la portavano sempre allo stesso punto, e firmò il contratto, ringraziandolo.

- Andiamo a festeggiare. - le aveva detto Michele, mentre risalivano in macchina. Era il giorno di chiusura del Daiquiri, e si sarebbero potuti fermare a mangiare qualcosa fuori senza il pensiero del lavoro; sarebbe davvero potuta diventare una bella serata, se poi non fosse successo il peggio.
Il ristorante era in un paesino sperduto poco prima di Padova, non faceva più tanto freddo così vennero sistemati sulla piccola terrazzina coperta, con vista sulle colline.
Forse era stata l'atmosfera, forse era stato il Valpolicella, ma Diana sentiva chiaramente che il sorriso le si stava inclinando verso di più verso il basso, e non c'era niente che potesse raddrizzarlo.
- Alla promozione e ai tuoi tre mesi a Padova. - brindò Michele, quando portarono il dolce.
Diana spinse di malavoglia il calice contro il suo, e si concentrò con grande impegno sulla sua millefoglie, cercando di dominare il suo cuore e il suo stomaco che le stavano irrimediabilmente rovinando la serata. Perché era una bella serata, peccato che lei lo guardava, lo ascoltava, e quell'atmosfera da serata romantica la spingeva a rodersi, rimpiangendo quello che non aveva. Doveva essere davvero una terribile persona, si diceva, a comportarsi così, ma non poteva farci niente: Michele la prendeva ancora una volta per mano, per farla crescere, ma lei non avrebbe voluto altro che si accorgesse di lei davvero, che l'amasse.
E invece chissà come aveva scoperto quel ristorante, chissà chi ci aveva portato: le aveva viste ancora, le sue amiche, quando erano andate a trovarlo al Daiquiri, e a volte capitava che la sera di chiusura lui uscisse. Poteva, anzi, doveva farlo: non era di sua proprietà, ma se non la invitava probabilmente era perché sarebbe stata il terzo incomodo nei suoi appuntamenti. Ma allora perché non le diceva niente? Gli aveva offerto migliaia di occasioni per farsi dire che era impegnato, ma lui sembrava che non le cogliesse.
- Cos'hai? - le chiese, riscuotendola dai suoi pensieri.
Diana gli fece un sorriso forzato.
- Beh, a volte tu sei strano, e io ti sopporto: potresti fare lo stesso con me.
Si appoggiò allo schienale posando la forchetta, rinunciando alla battaglia con il dolce, e lui la imitò.
- Io non faccio il musone quando si festeggia.
- Ti prego, - disse con il suo miglior tono sarcastico, - non dirmi che sono una musona. Andiamo, pago io: in fondo è la mia promozione che stiamo festeggiando.
Sembrava innervosito da quel suo atteggiamento, ma non fece commenti.
Durante il ritorno Diana guardò fuori dal finestrino tutto il tempo, grata per il buio che nascondeva le sue lacrime. Forse aveva bevuto troppo vino.
Michele rimase in silenzio per tutto il viaggio, e non disse una parola fino a che furono in ascensore, dove le luci illuminarono gli occhi rossi di Diana.
- Senti, si può sapere che cos'hai?
- No. - rimbalzò, secca.
Lui sospirò, sembrava non voler cedere, come lei, d'altronde. Così evidentemente pensò che se lo sarebbe fatto dire per sfinimento, perché la seguì in casa, e sulle prime Diana lo ignorò, comportandosi come se non ci fosse.
Si tolse la giacca e la mise a posto nel guardaroba, andò in bagno a rinfrescarsi il viso e a cancellare le tracce delle lacrime, poi quando tornò in cucina, vedendolo ancora lì, in piedi, si innervosì.
- Non ti viene il dubbio che preferirei stare da sola, magari? Non hai niente di meglio da fare, stasera? Non hai qualcuno che ti aspetta?
- Non riesco a capire che cosa ti è preso, tutto d'un tratto.
Diana si mise davanti a lui.
- Non è colpa tua, tranquillo, è colpa mia: sono io che voglio cose da te che non puoi darmi.
Il volto di Michele si oscurò, di colpo.
- Stai troppo con me: non è sano.
Lei spalancò le braccia.
- Non è mai stato sano tra me e te. - disse platealmente. - Io e te, sempre solo io e te: ma cosa vuol dire “sano”? Io sono sempre stata bene insieme a te, non è questo che conta? Se c'è qualcosa che non è sano, forse è colpa mia. Sono io quella che sta impazzendo, stasera.
Forse la mente le si annebbiò un secondo, o forse si mosse talmente tanto velocemente da non rendersi conto di quello che stava per fare, per potersi fermare di conseguenza; ma era lì, in punta di piedi, le mani allacciate al suo collo. E lo stava baciando. Lui non era propriamente immobile, quindi non vedeva nessun buon motivo per fermarsi, ormai era dentro con tutti e due i piedi in quella pazzia.
E poi, Michele, la stava baciando così bene che in ogni caso non avrebbe potuto.
Quel bacio era come lui, dolce e un po' rude, un po' le accarezzava le labbra e un po' la stringeva a sé, premendole, e annebbiandola di passione.
Poi, la mano di lui sulla sua testa, si staccò di mezzo centimetro, e Diana già capì cosa stava succedendo. Si tirò indietro, non osando guardarlo.
- Ti prego scusami: deve essere stato il vino. - gli disse, tutto d'un fiato.
Sollevò piano gli occhi, e lo vide, ancora lì in piedi davanti a lei, che la osservava muovendo nervosamente la mascella, le labbra serrate.
- Sì, anche io forse ho bevuto troppo. - disse poi, secco. - Sarà meglio che vada.
Quando sentì la porta di casa chiudersi il terreno le franò sotto ai piedi: che cosa cavolo aveva combinato? Come poteva essere stata così stupida?
Passò mezz'ora, prima che ebbe il coraggio di attraversare il pianerottolo.
Michele aprì uno spiraglio, interrogativo, guardandola mentre teneva in mano una bottiglia di Tequila.
Probabilmente era troppo sbalordito, perché aprì la bocca ma non uscì nessun suono.
Diana sospirò per farsi coraggio, e si infilò nello spazio lasciato aperto, entrando in casa.
- Tu mi credi, vero, se ti dico che ho bevuto troppo e non so nemmeno io perché ti ho detto quelle cose e perché... beh, hai capito?
Michele continuava a guardare la bottiglia.
- Sì, ti ho detto che anche io forse devo aver bevuto un po', ma non capisco cosa centri...
Diana sospirò, di nuovo.
- Il problema è questo: io non voglio che quello che c'è tra noi si rovini, e sicuramente causerà dei problemi, così ho pensato che dobbiamo berci su. Non ho mai provato a bere così tanto da dimenticare tutto il giorno dopo, ma forse può funzionare.
Michele si portò una mano sulla fronte, e rise, stanco.
- Non ci credo.
Diana accese la musica, tenendo il volume più basso dei suoi standard vista l'ora.
- Solo che ho pensato: ci chiederemo come mai abbiamo iniziato a bere, e alla fine ci ricorderemo lo stesso di quello che è successo. Ma... - scelse una canzone un po' più movimentata, - non se adesso festeggiamo. Forza, prendi due bicchieri e vieni qui: ci aspetta una bevuta.
Michele era probabilmente troppo incredulo e sbalordito per obiettare, e forse senza crederci troppo nei risultati che sperava Diana, decise di stare al gioco.
Dopo un ora i bicchieri erano stati aboliti, e la musica movimentata anche: si passavano la bottiglia, bevendo un sorso uno alla volta, ed erano finiti a fare discorsi filosofici.
Michele forse era un po' più silenzioso del solito, ma anche Diana stava iniziando ad avere difficoltà a parlare normalmente, tra il sonno e la pesantezza dell'alcol.
- Sono proprio una stupida. - biascicò, ridendo.
- Perché? - le chiese, passandole la bottiglia.
- Per questa bevuta. - mandò giù un altro sorso, nonostante il suo stomaco stesse iniziando a ribellarsi. - non è un'idea stupida?
Michele, già con gli occhi chiusi, sdraiato per terra accanto a lei, sorrise.
- No, in fondo è una cosa carina.
Capì che si stava per addormentare, e lo scosse leggermente.
- Michele. - disse, trattenendo il singhiozzo. - Mi devi promettere, mi devi giurare, che domani ci dimenticheremo tutto.
Lui aprì un occhio,
- Che cosa dovremmo dimenticarci?
- Ecco, bravo. Tieni un altro sorso. - gli passò la bottiglia e lasciò che la mano cadde a terra, troppo pesante per muoversi. E prima che potesse sentire se lui aveva qualcos'altro da dire, già dormiva.

Aprì gli occhi, non poteva vomitare a casa sua. Gattonò per un paio di metri, poi si alzò, e tenendo una mano sulla bocca aprì la porta e attraversò il pianerottolo, maledicendo la serratura che sembrava essersi incastrata; quando riuscì finalmente a entrare non si curò di chiudere la porta, e barcollò in quella che le sembrava una corsa verso il bagno, maledicendo tutto quello che aveva bevuto.
Il suo stomaco doveva per forza essere ormai vuoto: non avrebbe mai creduto di poter vomitare così a lungo. Si sciacquò la bocca e la faccia, ma nonostante l'acqua fosse gelida allo specchio continuava a vedere uno zombie, e la testa sembrava scoppiarle da un momento all'altro.
Si trascinò verso la porta di casa, per chiuderla, e incontrò Michele, che si era alzato a chiudere la sua.
Lo guardò con smarrimento, tenendo gli occhi socchiusi per il mal di testa.
- Non ci posso credere. - piagnucolò, - Michi: sono una vecchia, guardami come mi sono ridotta. Non mi era mai successo!
Lui, che probabilmente non era in condizioni migliori ma riusciva a nascondere meglio il malessere post sbornia, sbuffò una risata stanca, appoggiando la fronte allo stipite.
- Vieni, ti faccio una cosa che ti farà stare meglio.
Diana trascinò i piedi fino al suo appartamento.
- Eh? Io non posso mangiare, tu non sai e non vuoi sapere cosa è appena successo di là. - disse tragicamente. Di tutta risposta lui le mise una mano sulla testa, scompigliandole i capelli già spettinati,
- Fidati di me, Daiana.
Tirò fuori dal freezer una specie di pizza, alta, tagliata a trancio, come quella delle macchinette automatiche.
- Questa è una cosa pessima, - le spiegava, mettendola in microonde, - ma quando la mangerai si gonfierà nel tuo stomaco, come una spugna, e assorbirà tutti gli acidi. - provò a stiracchiarsi la schiena. - Dormire sul pavimento: quella no, non è stata una buona idea. Mi toccherà prendere un antinfiammatorio, se voglio stare in piedi stasera.
Diana, per quanto possibile, spalancò gli occhi, e si mise le mani sulla fronte.
- Ti prego, dimmi che per stasera sarà tutto finito! E non hai qualcosa contro il mal di testa?
- Tieni, rottame. Finiscila, e poi ti darò un antidolorifico.
Faceva persino fatica a masticare, ma una volta mandata giù doveva ammettere che quella cosa plasticosa sembrava fare quello che prometteva.
- Questo giorno segna l'inizio della mia vecchiaia. - disse, teatralmente, mentre ingollava l'antidolorifico insieme ad un fantastico succo di frutta che sembrava avere proprietà magiche con la sua arsura. - Dì un po', - borbottò, - quanto mi hai fatto bere?
Michele mise una bottiglia quasi vuota sul tavolo.
- Quanto ti ho fatto bere? Ho trovato questa, di là, e ti assicuro che non è mia, non l'ho mai vista prima.
Diana bofonchiò una risata, aveva un assoluto bisogno di dormire, ma non poteva addormentarsi lì: ricordava fin troppo bene quella notte che l'aveva portata sul suo divano, che conseguenze disastrose aveva avuto la mattina dopo; quella mattina era andata bene, ma non le conveniva sfidare troppo la fortuna.
- Ora ti chiedo un ultimo favore: aiutami ad alzarmi. - gli disse, porgendoli le mani, - Devo assolutamente raggiungere il mio letto.
Lui nascose una risata.
- Ma guardati: secondo me la fai più grande di quella che è, non puoi stare così male!
Si aggrappò alle sue mani e si alzò in piedi.
- Forse le donne fanno più fatica a smaltire l'alcol: ti assicuro che sto davvero di merda.
Stava per imboccare l'ingresso, ma lui da dietro la deviò verso il divano.
- Forza, mettiti qui a dormire, così posso tenerti d'occhio.
E visto che glielo aveva proposto lui non ebbe niente da obiettare. Si sdraiò sul lato più piccolo del divano ad angolo, Michele accostò le persiane e raggiunse l'altro lato.
- Cerca solo di non vomitare sul mio divano. - l'ammonì.
Ripensò a come le aveva risposto sulla Tequila: aveva sicuramente funzionato, Michele aveva dimenticato il disastroso episodio della sera prima, il loro rapporto era salvo. E con questo pensiero si addormentò profondamente, con in testa una vecchia canzone di Bruce Spristing di cui non ricordava il titolo.






Nda: Cosa dite voi, la Tequila funziona? Con Diana no, ma Michele sembra aver rimosso tutto... o no?
Per i più curiosi la canzone del Boss è Sad Eyes. Io a quanto pare, la storia insegna non riesco a reggere tanto scrivendo una storia senza infilarci dentro qualche riferimento musicale :-P ! E in alcuni casi, come questo, si  riferisce al pezzo che ascolto mentre scrivo il capitolo.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, anche se è un po' strano ;-) alla prossima!
Grazie Bloomsbury,  che così carinamente leggi e recensisci quello che scrivo, ma specialmente grazie perché amo le tue storie!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 - Ballando ballando... ***


daiquiri        










– Non vedo l'ora di quando aprirà l'estivo: sarà spaziale. Tu sei andata a vederlo? – le chiese Stefano, eccitato come un bambino alla viglia di Natale.
– Non mi ha ancora portata, forse domani. Ce la sta proprio mettendo tutta, ad allestirlo bene: non vedi come è intrattabile in questi giorni? – disse, parlando di Michele.
– Come se avesse il ciclo, davvero. – rise lui, avvicinandosi poi verso una cliente che voleva da bere.
– Ehi, – le diceva, strizzandole l'occhio. – Tu verrai al nostro estivo quando lo apriremo, vero? Guarda che io ci sarò, e me ne accorgerò se non verrai! – Lei era arrossita e gli aveva sorriso. Diana si spostò, per evitare di riderle in faccia: da quello che si ricordava non si era mai comportata così, forse le generazioni cambiavano proprio.
Giacomo la chiamò dall'auricolare,
– Arriva il boss. – le disse, preceduto da un fischio metallico.
– Ricevuto. – rispose, andandogli in contro. Michele entrò come un uragano,dirigendosi direttamente verso il suo ufficio, salendo i gradini a due a due. – Qualche problema? – gli chiese, mettendo dentro la testa.
Lui stava controllando dei fogli, cercando qualcosa.
– Decisamente: la ditta che ci fornirà i frigoriferi ci dà dei modelli troppo scadenti, e se ne vogliamo
di migliori alzano l'affitto all'inverosimile; quelli che abbiamo qui li abbiamo acquistati, ma mi sembra di ricordare che prima che arrivassi li avevano in comodato d'uso, devo solo trovare qualcosa, una fattura qualsiasi.
Sapeva che non c'era niente che potesse fare per aiutarlo, così scese ad assicurarsi che tutto stesse filando liscio.
– Agnese, – le chiese, fermandola, dopo aver controllato che in sala non ci fossero bicchieri abbandonati, – vai a riempire la vasca del ghiaccio tritato di Gianni, per favore, e digli che ti mando io: chiedigli se ha tempo di tenerti lì con lui, per farti vedere qualcosa.
Agnese era l'unica cosa per cui lei e Michele avevano discusso: lui diceva che se voleva stare sul banco avrebbe dovuto fare un corso, serio, come aveva fatto lei e come avevano fatto tutti i baristi che lavoravano lì; Diana invece insisteva sul fatto che le stava semplicemente facendo fare le ossa, e che sarebbe stata proprio Agnese a comunicare, un giorno, che si era iscritta a un corso per bartender. Però tutto sommato lui le aveva dato carta bianca quando non c'era, se voleva poteva lasciarla sul banco se non avesse interferito con il normale lavoro.
Poi discutevano regolarmente, ma quello era un bene: poteva sfogare in quelle discussioni tutta la sua insoddisfazione repressa, ed evitare di arrivare a momenti tanto folli come era accaduto in passato.
Diana ricordava benissimo il loro bacio, anche se fingeva di non farlo, ma era sicura al novantanove per cento che lui lo aveva completamente rimosso: sennò non si sarebbe mai comportato normalmente con lei, conoscendolo. E invece Michele si comportava come se niente fosse, anzi, da un po' di tempo a quella parte i suoi momenti di dolcezza erano aumentati, a volte mentre guardavano un film si sedeva accanto a lei lasciando che Diana si appoggiasse sulla sua pancia, altre volte si lasciava abbracciare mentre fumavano una sigaretta, nei momenti in cui era particolarmente nostalgica. E tutto quello per lei era un nettare e una droga insieme, e se non avesse avuto Agnese, come pretesto per litigarci un po', sarebbe sicuramente impazzita di frustrazione.
Perché lei invece ricordava tutto, il modo stupendo in cui Michele l'aveva baciata, e si sarebbe fatta mozzare un braccio pur di riviverlo.
Inaspettatamente dall'auricolare le arrivò la sua voce, resa ancora più roca dall'apparecchio, e si bloccò allarmata, come se lui avesse potuto spiare i suoi pensieri.
Si allontanò dallo sguardo indiscreto di Stefano, che stava seguendo la scena.
– E così ne hai anche tu uno, eh? – balbettò imbarazzata, cercando di scacciare dalla mente i pensieri dove lui la baciava.
– Cosa pensavi, che fosse una tua esclusiva?
– No, sono contenta che alla fine ti sei arreso alla mia idea.
Lo sentì sbuffare chiaramente, e il fischio quasi la assordò, ma lei sorrise soddisfatta.
– Non cantare vittoria: – le stava dicendo, – ne ho chiesto uno solo perché così posso parlare con te senza correre in giro a cercarti. Domani dovremmo a venire a controllare le scorte, ma se è tranquillo potete farlo anche stasera, così inviamo direttamente l'ordine.
– Ricevuto, lascio Agnese al banco e mi porto uno dei ragazzi.
– Sempre di testa tua, eh, Daiana?
– Tu spostavi le casse e dettavi le cose da ordinare a una cameriera, vorresti che io facessi lo stesso? Passo e chiudo.
Stava andando verso Gianni, ma Stefano le si parò davanti.
– Allora, – le disse, studiandola. – era Pietro? Non Giacomo, vero? Cosa voleva?
Diana non capì, dedicandogli una smorfia dubbiosa, e lo schivò avvicinandosi a Gianni.
– Era Michele, – gli disse camminando, mentre lui le stava dietro, – mi ha detto che possiamo fare l'ordine stasera.
Era davanti a Gianni, ma Stefano la fermò, prendendole il polso.
– Non ci posso credere, era Michele? – Si avvicinò al suo orecchio – Lo sai che avevi la stessa faccia che fa Paola quando parla con Fabio?
Diana si gelò. Quella cameriera con la sua immensa cotta erano sulla bocca di tutti. Lo fulminò con lo sguardo, e poi si rivolse a Gianni:
– Stefano viene ad aiutarmi nel magazzino: mettiti tu al suo posto, per favore. – disse, e poi con un cenno si fece seguire da Stefano.
Non sapeva davvero cosa dirgli, ma di sicuro non voleva che quello che provava per Michele fosse messo alla gogna e ridicolizzato, con anche il rischio che lui venisse a scoprirlo. In quei mesi nessuno si era accorto di niente, e ora...
– Quindi? – la incalzò Stefano.
Deglutì, e prese il block notes.
– Quindi aiutami a spostare questa fila di scatole: devo controllare quelle dietro. – disse freddamente.
Ogni tanto con l'auricolare chiedeva ai buttafuori se tutto stesse andando bene, ma per il resto lavorarono in silenzio, come se non fosse successo niente. Diana era paralizzata: lei non era Paola, non aveva vent'anni e non aveva una cotta. Lei era innamorata di una persona che attualmente significava tutto nella sua vita.
Furono talmente svelti da finire l'elenco prima del previsto, controllando anche le scorte dei fusti, portandosi avanti per la volta successiva, e Stefano le propose una sigaretta.
– Andiamo, vuoi ignorare quello che è successo prima? – cercò di smuoverla, spingendole il pacchetto fin sotto al naso.
Diana sbuffò e ne prese una.
– Guarda che prima non è successo niente: a cosa ti riferisci? – cercò di sviarlo. Stefano sollevò le sopracciglia eloquentemente.
– A te che parli con Michele e arrossisci. – Lei, allarmata, gli diede uno spintone, e poi si assicurò che il microfono dell'auricolare fosse spento. – Sai, – continuò lui, accarezzandosi il pizzetto. – questo vorrebbe dire che ho perso un po' di soldi, dato che io avevo puntato su Pietro, e mi secca che Gianni e Agnese abbiano avuto ragione, dal momento che mi sono sempre vantato di conoscerti meglio io.
Sbarrò gli occhi,
– Scusa, ma cosa stai dicendo? – balbettò.
– Allora, – sbuffò, dovendo rispiegare tutto, – io ho scommesso che sarebbe successo qualcosa tra te e Pietro, il buttafuori, Fabio ha puntato su Giacomo, e Gianni e Agnese su Michele. Ti è tutto chiaro? Dannazione, certo che si trattava di Michele, sono uno stupido.
Era sconcertata, avevano davvero scommesso sulla sua vita sentimentale?
– Perché non Michele? – si limitò a chiedergli, accedendo la sigaretta.
Stefano sorrise sotto ai baffi.
– Colpa mia, sono un po' troppo poco romantico, alle favole preferisco del buon sano sesso, e dopo la partita di calcetto indirizzerò qualsiasi donna da Pietro. – Osservò la sua espressione sconcertata e specificò: – Le docce, si scoprono molte cose, sai? – Mimò una misura enorme distanziando le due mani, facendola scoppiare a ridere imbarazzata. – È che tu e il Boss... sì, vi vedrei bene insieme, forse troppo: ecco perché ho puntato su Pietro.
Diana spense la sua sigaretta.
– Mettiamo le cose in chiaro, Stefano: tu non hai visto niente. Se ho fatto una faccia strana forse era perché ero distratta, se sono arrossita era perché faceva caldo. E soprattutto non vedrai niente. – Gli strizzò l'occhio e fece per rientrare. – Ah, comunque... – Mimò lo stesso gesto che aveva fatto lui per descriverle le qualità di Pietro. – Non credo che potrei sopportarlo.
Di fatto, però, non riuscì più a guardare negli occhi il buttafuori senza reprimere una risata.



– Quindi questa sarebbe l'idea di “cena aziendale per festeggiare l'apertura dell'estivo”? – Fabio osservava dubbioso la tavolata della festa di paese, dove il loro gruppo, in mezzo ai pensionati che si sgranchivano per il liscio, stonava decisamente.
– Mangiati quella salamella e stai zitto. – lo riprese Michele, – Poi ti ho detto che dopo ti porto in un locale, dove volevi mangiare? In pizzeria, come con i compagni delle medie? – borbottò, prendendolo in giro.
La sera prima il Daiquiri aveva chiuso ufficialmente i battenti per la stagione, e quel venerdì ci sarebbe stata l'inaugurazione del Daiquiri Frozen, come ormai tutti avevano ribattezzato l'estivo contrariando Michele; visto che secondo lui quel “frozen” non avrebbe ricordato per niente l'atmosfera quasi caraibica che avevano ricreato, con tre piste da ballo su cui avrebbero suonato Dj e generi musicali diversi, intervallati da piscine e una zona con la sabbia. Il trio delle meraviglie, Stefano, Gianni e Fabio, avrebbe dominato dalla postazione bar principale; Diana si sarebbe divisa tra quella e un'altra verso le piscine, in base alla serata e all'affluenza; erano stati assunti dei nuovi bartender provenienti da altri locali che avrebbero fatto la chiusura estiva per coprire le altre postazioni, e infine Agnese era stata promossa a bar–back, ovvero a quella figura che approvvigionava costantemente i bar di ghiaccio, frutta e quant'altro.
I baristi nuovi erano per lo più ex colleghi o comunque erano conosciuti dal resto dello staff, quindi l'avventura appariva invitante sotto a tutti i punti di vista.
Anche la cara Cecilia faceva parte della reunion, ma fortunatamente quella sera non era presente,
e Diana non ne era propriamente dispiaciuta: era passata al Daiquiri qualche sera prima, e oltre a essere una ragazza esaltata come poche, con una pronunciata mania di protagonismo, aveva anche il brutto vizio di prendersi un po' troppe confidenze con Michele. Diana era rimasta inerme mentre Cecilia gli si era praticamente strusciata addosso quando lo aveva salutato, e aveva passato tutta la serata a stargli intorno. Ancora non gliel'aveva del tutto perdonata, all'ignaro Michele.

Quella serata però sembrava proprio uscita bene: oltre a praticamente tutto lo staff abituale si erano uniti due ragazzi che avrebbero fatto parte dell'estivo, la compagnia era allegra ma non chiassosa, il cibo buono, e lei si stava divertendo un mondo.
E forse era lo stato d'animo generale, perché dopo aver finito di mangiare avevano riempito il tavolo di birre, senza fretta di scappare via, ed erano rimasti a chiacchierare e a prendere bonariamente in giro i vecchietti che sfoderavano tutte le loro abilità in pista.
Dopo molte eloquenti spinte da parte di tutti Fabio aveva portato Paola a ballare, la piccola Agnese aveva trascinato Gianni, e Giacomo stava facendo scatenare Irma, la cassiera cinquantenne che ogni due mesi dichiarava di voler andare in pensione, ma che di fatto era ancora lì con loro.
Da quel lato del tavolo erano rimasti lei, Michele e Stefano, e Diana stava provando senza molti risultati a convincere Michele a farla ballare.
– Dai, ti porto io! – si era offerto Stefano.
– Quanti anni hai, quindici? – esagerò, – Dai, mi sentirei una zia che balla con il suo nipotino, sai che odio fare la figura della vecchia babbiona. Giacomo è già impegnato con Irma e... – abbassò la voce, – sai che con Pietro non ballerò mai, per colpa tua.
Stefano scoppiò a ridere, stuzzicando la curiosità di Michele.
– Perché? Che cosa è successo?
Diana arrossì, e Stefano gli spiegò che le aveva svelato la maggior qualità di Pietro, consigliandole un giro di giostra, aumentando ancora di più il rossore sulle guance di lei, che cercò di ritrovare il contegno bevendo un sorso di birra e schiarendosi la voce.
– Dai, – tornò in carica con Michele, che dopo il racconto di Stefano la guardava stranamente divertito, – sarebbe l'unica occasione di ballare con te dopo più di dieci anni: dici che con i ragazzini non balli, e allora balliamo con i vecchi, me lo devi.
– Vediamo se c'è qualche canzone che mi ispira, – sospirò Michele, rimanendo sul vago, e Stefano scattò in piedi, correndo verso il palco.
– Oh cielo, – lo guardava Diana, – cosa vuole fare? Questa non è una serata karaoke, dove puoi chiedere i pezzi che vuoi! – gli disse, quando tornò a sedersi accanto a loro.
– Ehi, l'ho fatto per fare alzare il vecchio culo del Boss dalla sedia: ringraziami.
Suonarono ancora un paio di canzoni ma Stefano scuoteva la testa: la sua non era ancora arrivata.
Il cantante poi prese una pausa, e finalmente annunciò al microfono, mentre l'orchestrina accordava gli strumenti:
– Una richiesta dal pubblico: Boss fai ballare... Daiana. – disse, mentre le trombe iniziavano a intonare Diana di Paul Anka.
Lei scoppiò a ridere, e Michele si alzò porgendole finalmente la mano.
– Non ti lamentare se ti pesto i piedi, – l'avvisò mentre raggiungevano la pista.
Diana non riusciva a reprimere il sorriso felice, e anche se non sapeva bene come ballare la canzone lasciò che lui la guidasse, dimostrando delle inaspettate capacità.
– Allora è vero che ti scateni con i vecchietti. – lo prese in giro, dopo essersi abituata al ritmo.
Quella canzone, in particolare, le aveva sempre ricordato lui: gliel'aveva fatta sentire una sera, dopo poco che si erano conosciuti, per spiegarle che la chiamava “Daiana” non in onore della principessa; e mai come in quel momento il tema di quella canzone le faceva venire i brividi: come ascoltare quell'amore con quella differenza di età e senza rimanerne coinvolti?
– Quindi Daiana è la ragazza più giovane di lui di cui si è innamorato? – si azzardò a chiedergli, maliziosa.
Michele fece uno strano sorriso.
– Ti confondi con la versione di Celentano: nell'originale Daiana è più grande di lui. – Rimase imbambolata: non era possibile, era sempre stata convinta che... – I'm so young and you're so old... – intonò piano lui, praticamente senza cantare da tanto la sua voce era bassa.
Diana scoppiò a ridere, nascondendo il volto contro la sua spalla.
– Non ci posso credere, e io che ti volevo prendere in giro: che gran figura di merda!
Come se li avesse sentiti, il cantante, allungò la canzone includendo la versione italiana, provocando così quasi una ola tra i vecchietti; e Diana si prese così la sua piccola vendetta, canticchiandogli allegramente:
Certo non ne ho viste mai belle e sexy meglio di lei, ma a me sembra che lei è un po' troppo giovane per te...
Michele sbuffò, ridendo infastidito, e le fece fare una giravolta.
– Guarda che la Daiana della canzone non aveva certo ventotto anni... mi sa che sei tu, a essere un po' troppo vecchia. – la stuzzicò.
Diana lo guardò in faccia, vide il suo sorriso che le assicurò che stava scherzando, e decise di ignorarlo, godendosi quello che rimaneva della canzone. Non le importava, per lei anche la versione originale avrebbe continuato a parlare di loro, in segreto.
– Un'altra canzone? – gli chiese, sentendo che la musica stava finendo.
– Ancora? Ma questa erano già due canzoni! – le fece notare, facendo un cenno a Giacomo che stava andando a sedersi di prendere il suo posto.


Stefano guardò la pista, e diede una gomitata a Michele:
– Non ci credo: guarda chi è andato a ballare con Daiana!
Lui non apprezzò molto l'utilizzo del soprannome, e guardò crucciato verso la pista, finendo però a ridere divertito, vedendo il suo volto imbarazzatissimo mentre ballava con Pietro.
– Giuro che l'avevo lasciata a Giacomo. – si discolpò, girandosi verso l'uomo, – Hai smesso di ballare?
Lui si stava facendo aria con una tovaglietta ripiegata.
– Non ce la facevo più, ho una certa età anche io e ho fatto del mio meglio. Non come te, fighetta. – concluse, dando uno scherzoso scappellotto a Michele.
– Quindi chi la va a salvare? Io o te? – si preoccupò Stefano, richiamando la sua attenzione.
– Nessuno, lasciala nel suo brodo. – Ma poi cambiò idea.

Era finalmente riuscita a superare l'imbarazzo di stare con Pietro, o almeno a mascherarlo, quando comparve Michele.
– Siete rimasti solo voi a ballare, muovetevi che andiamo a bere qualcosa. – disse, interrompendoli.
– Mi fai finire la canzone? – gli chiese: era rimasta tutto il tempo seduta e aveva iniziato a ballare solo da un poco, almeno voleva godersi quell'ultimo ballo. Michele la guardò brevemente, e poi si rivolse a Pietro.
– Posso?
Così disorientata passò nuovamente tra le sue braccia, e quello sguardo negli occhi di Michele la obbligò a guardare altrove, stranamente imbarazzata e felice.
– Alla fine non mi sembravi così in difficoltà con Pietro, forse potevo evitare di venire a salvarti.
Diana evitò di rispondergli, godendosi quegli ultimi attimi stretta a lui, prima che il ritmo della canzone aumentasse.
– Sai, questa canzone la canteresti meglio tu. – dichiarò, mentre iniziava a farla girare. – Il cantante ha una voce troppo pulita per fare Buscaglione.
Girò e rigirò, per ritornare sul finale tra le sue braccia.
Buonasera signorina, kiss me goodnight.– l'accontentò Michele, sempre a mezza voce, liberando in quelle ultime parole il ricordo di Fred Buscaglione, e della voce forse un po' meno roca della sua. E poi, inaspettatamente, la fece scendere in un casché posandole un veloce bacio tra la guancia e le labbra. – Forza, andiamo. – disse, tornando dritto, come se quel bacio avesse solo fatto parte di una coreografia.


Un'altra voce che si aggiungeva alla già lunga lista di cose da evitare di pensare, cose che però occupavano la maggior parte dei suoi pensieri. Parzialmente, ma l'aveva baciata, era indiscutibile, anche se poi aveva fatto finta di niente e continuava a farlo.
– Che faccia, a che pensi? – la distolse dai suoi pensieri a fine serata, quando furono in ascensore.
Diana lo guardò: avrebbe voluto dirgli “kiss me goodnight”, e fiondarsi su di lui, come se si fosse trattato di vita o di morte. Scosse la testa e improvvisò:
– Non mi ero mai accorta che Agnese e Gianni fossero così carini insieme.
– Ti prego: non partecipare anche tu al gioco delle scommesse. – l'ammonì.
– Ma sei pazzo? Sapendo che l'hanno fatto con me e volevano accoppiarmi con Giacomo o con Pietro? – Evitò accuratamente di dirgli che anche lui rientrava nei papabili. – Non ci penso proprio.
Quando l'ascensore si aprì si divisero, ognuno verso la propria porta.
– Buonasera, signorina. – sentì, mentre stava entrando in casa.
– Eh? – le uscì strozzato: forse non aveva capito bene.
Michele le strizzò l'occhio,
– Buonasera signorina, kiss me goodnight. – disse, mentre chiudeva la porta, lasciandola totalmente stordita.
Entrò in casa: era ben dura ora, obbligarsi a pensare che stava succedendo tutto nella sua testa.








Nda: Capitolo un po' musicale, ma io adoro le feste di paese e i climi da balere :-) inoltre Diana di Paul Anka è una delle mie canzone preferite di sempre, e se devo essere onesta nonostante io parli l'inglese abbastanza bene per una dozzina di anni minimo anche io l'ho sentita pensando seriamente che la più giovane fosse Diana. Ed ero un po' ispirata alla canzone, scrivendo questa storia; poi mi sono accorta che lui in realtà le dà della vecchia :-P poco tatto, eh, Paul Anka? ;-) Scherzo ovviamente, Diana è una delle canzoni più belle di sempre, e detto fuori dai denti nonostante molte canzoni di Celentano mi piacciano questa è inascoltabile: biondorosa morbidosa cotta al dente? ...
Chiudendo la mia divagazione musicale... spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie a chi mi legge e ha inserito la mia storia nelle seguite/preferite; e ovviamente grazie a Bloomsbury: ogni singola recensione che mi hai lasciato è stata una sorpresa! Grazie!
Passo e chiudo, ciao a tutti, alla prossima e
Pace Amore e Gioia Infinita!
[Ovviamente anche questa è una citazione ;-) ]

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 - Rossella detta anche ***


daiquiri        










Una ventata d'aria fresca: Rossella sarebbe andata a trovarla, in quei giorni di ferie prima dell'apertura dell'estivo.
La mattina dopo la festa Diana si era alzata presto e aveva lucidato la casa, impaziente di rivedere l'ex collega e amica, e quando le arrivò la sua telefonata, che la informava che il navigatore non trovava l'indirizzo e si era persa, corse giù per le scale, troppo impaziente per aspettare l'ascensore.
– Ehi! – gridò, vedendo la sua macchina accostata vicino a quel tabaccaio dove anche lei si era fermata quando era arrivata in città. La raggiunse, indicandole un parcheggio libero, e quando la vide spegnere il motore praticamente la tirò giù dalla macchina, da tanto aveva voglia di abbracciarla.
– Che accoglienza! – rise lei, stringendola a sua volta. – Ti ho portato il resto delle tue schifezze, aiutami a tirare giù gli scatoloni.
Mezz'ora dopo erano scomposte sul suo divano, stanche per i viaggi con gli scatoloni in mano, e Rossella la stava aggiornando su tutte le ultime novità.
– Ti rimpiangiamo tutti, in negozio: il nuovo capo è uno stronzo totale, di quelli che ti davanti fanno i simpaticoni, ma non ti conviene dargli le spalle, sennò... Ti sei sistemata bene qui, vedo. Stasera dove mi porti? Cosa fai in genere?
Rimase scandalizzata nel sapere che in genere Diana la sera lavorava, e le sue sere libere o le passava con Michele oppure rimaneva a casa a riempirsi di film.
– Non vedo dove stia il problema: già sono in discoteca la maggior parte della settimana, almeno una sera le mie orecchie hanno bisogno di riposo. – si giustificò, rimasta male dall'espressione sconcertata di Rossella.
– Sì, ma non hai altri amici oltre a quel Michele? Andiamo, sono mesi che vivi qui! Non ti preoccupare, ora c'è Rossella in città, vedrai che ti rivoluzionerò la vita. Immagino che anche a uomini oltre a Michele... niente vero? Ma almeno vi date da fare? – Capì subito dall'espressione imbarazzata di Diana che non era esattamente così. – Oh, ma andiamo, ti sei data alla castità?
Diana sbuffò, seccata: non si aspettava certo di venire giudicata, con il lavoro che faceva era normale che la cerchia di conoscenze si restringesse ai colleghi, e sul fattore uomini non aveva minimamente intenzione di far venire in mente a Rossella di spingerla tra le braccia di Michele. Lei sarebbe partita, ma Diana doveva rimanere a fare i conti con le conseguenze delle sue azioni.
Certo, in tutta onestà il sesso le mancava, e abbastanza, ma non aveva la testa per anche solo pensare ad altri uomini che non fossero lui.
– Scusa tanto se non sono venuta a fare la prostituta di Padova: non sono in vacanza, è il luogo dove sto vivendo, e non ho intenzione di mettermi a fare la stupida. E prendi nota e tienilo bene in mente: Michele è il mio capo e il mio amico, non ho proprio l'intenzione di andare a letto con lui. – sperò di essere stata abbastanza chiara, Rossella era un tesoro ma a volte aveva la sensibilità di un elefante, e aveva il potere di metterla nei guai.
Non aveva fatto un programma, ma captando come il suo interesse si fosse focalizzato sulla sua vita sociale, sentimentale e sessuale decise che doveva tenerla impegnata, così mentre Rossella faceva la doccia preparò un itinerario che avrebbe potuto sfiancarle, in modo da poterla inibire. E poi Rossella faceva la commessa a tempo perso, la sua vera passione era l'arte, per cui non si sarebbe insospettita per quel tour.
Anzi, fu proprio lei a prenderne in mano le redini, dopo ore di cammino.
– Muovi quelle gambe! – la rimproverò, mentre guardava lo schermo del suo cellulare che le indicava il monumento più vicino. – Se ci sbrighiamo riusciremo a entrare alla Basilica, muoio dalla voglia di vederla! E qui mi dice che li vicino c'è un posto perfetto per fare l'aperitivo, così conosceremo i tuoi concittadini!
– Accaldate e sudate? – sbuffò, raggiungendola.
Rossella, nel pieno del suo elemento, ignorò quell'affermazione, la prese sottobraccio e la trascinò verso la Basilica.

– Smettila, Rossella! – la riprese, quando furono sedute sui tavolini esterni del bar dove l'aveva portata. – Sembri una ragazzina di quei film, dove le protagoniste iniziano una nuova scuola e iniziano a guardarsi intorno per riuscire a entrare nel sistema e diventare reginette: non mi piace affatto.
– Sei pesante, guarda che tra reginetta e sfigata asociale c'è la normalità in mezzo, e a quella mi sembri abbastanza lontana!
No, la visita della città aveva sfiancato più lei che Rossella, non andava affatto bene.
Sentì una voce famigliare chiamarla,
– Vecchietta! – si voltò verso Stefano, che si stava sedendo nel tavolo accanto al loro, non riuscendo a decidere se era un bene o un male che Rossella lo incontrasse. – Che ci fai qui, dove hai lasciato il Boss?
Rossella lo aveva subito adocchiato, lanciandole delle occhiate molto eloquenti.
– Non lo so, sai, non viviamo in simbiosi come pensi.
– Aspetti qualcuno? Unisciti a noi, piacere, sono Rossella, un'amica di Diana. – si intromise, porgendo la mano a Stefano.
– Certo che aspetta qualcuno. – commentò sarcastica Diana, ma Stefano decise di portare lì la sua sedia.
– Ma è in ritardo, – diceva, – quindi bevo volentieri qualcosa con voi. Da dove sei spuntata, Rossella?
Non che non le interessasse socializzare con Stefano, ma era quella sua ossessione a voler evitare che altri si intromettessero nel rapporto tra lei e Michele: Stefano già ne aveva fatto accenno, anche se Rossella non era riuscita a coglierlo, e conoscendoli entrambi sapeva che se avessero unito le idee non ne sarebbe uscito fuori niente di buono. Forse Stefano le aveva dato una mano la sera prima, ma non voleva che esagerassero: era la sua vita, il suo rapporto, e nessuno doveva metterci il becco. Come infatti avvenne.
– Stefano, tu cosa dici del fatto che da quando Diana è qui non è ancora uscita con nessun ragazzo?
– Potete evitare di parlare di me?
Stefano la guardò,
– Sei il nostro unico argomento in comune, e anche io penso che tu debba darti una svegliata. Comunque, Rossella, il fatto è che io ci ho provato a spingerla tra le braccia di un uomo affascinante e molto dotato, ma questa scema non ha occhi che per il Boss!
Diana sbatté il bicchiere sul tavolo.
– Non è affatto vero!
– C'ero anche io ieri: ho visto la tua faccia quando ballavate, e ho visto anche quel b-a-c-i-o. E la tua faccia diceva tutto, fidati.
Sentì che gli occhi le si stavano riempiendo di lacrime.
– Non mi ha propriamente baciata. E...
Rossella spalancò gli occhi.
– Allarme rosso: non è cotta, è proprio innamorata persa! Bimba, ma perché non mi hai detto niente?
– Sentite, – disse, asciugandosi gli angoli degli occhi con un tovagliolino. – io non voglio interferenze esterne. Voi non potete capire, non voglio essere né spinta né consolata, fate finta di non saperlo, per favore.
Non vide lo sguardo che si scambiarono Rossella e Stefano.
– Ehi, – iniziò lui, – io e Fabio stasera usciamo, e lui probabilmente porterà Paola, ieri sera hanno limonato duro... perché non venite anche voi? Andiamo a bere qualcosa, magari si va a ballare in quel posto verso Mestre.
– Fantastico! – esclamò Rossella senza darle la possibilità di declinare.
Poi, quando si separarono, si girò verso di lui, e senza che Diana la vedesse mimò una cornetta con le mani, e con il labiale gli ricordò di chiamare il Boss.

Come ai vecchi tempi, quando Rossella si fermava a dormire a casa sua quando andavano a ballare e si preparavano insieme, entrò in bagno mentre Diana si stava asciugando i capelli e si buttò sotto alla doccia.
– Perché non mi hai detto quello che provavi? Magari avrei evitato.
– Non è facile parlarne. – sospirò, dopo averci riflettuto. – E poi non scherzavo: non voglio intromissioni, tra me e Michele c'è troppo in ballo, e so che tu saresti tentata di combinare un gran casino, anche con le migliori intenzioni. – disse, passandole l'accappatoio.
– Ma ti ha baciato, no?
– Non proprio in maniera consueta, forse non se ne è nemmeno accorto.
– Diana, – sbuffò, accarezzandole la spalla, – non esiste che un ragazzo non si accorga di averti baciato. E sì, ti vorrei spingere verso di lui: tu non faresti lo stesso con me? Comunque non farò niente di eccessivo, niente che tu non voglia, e per dimostrarti la mia buona fede ti dico che stasera ci sarà anche lui.
Rischiò di strapparsi una ciocca di capelli,
– Eh?
Passarono il resto del tempo con Rossella che faceva di tutto per farla mettere “da battaglia”, come diceva lei, e Diana che puntualmente si toglieva ogni vestito che Rossella sceglieva e si puliva dalla faccia ogni trucco che le metteva. Se forse la parte più vanitosa di sé voleva apparire carina, trovando che in fondo fosse utile scuoterlo un po' per capire se era o non era interessato a lei, l'altro lato combatteva con il ricordo delle amiche di Michele, così perfette, sapendo che era una competizione persa in partenza.
Rossella non era stata d'accordo quando glielo aveva detto.
– Sciocchezze, guarda che sai essere molto carina! – aveva protestato, ma Diana aveva abolito qualsiasi rossetto rosso e qualsiasi vestito che potesse fornire un paragone.
Poi, quando Rossella riuscì finalmente a crearle un look che accontentasse entrambe, Diana si lasciò cadere a terra, tentando di togliersi anche quel vestito e dichiarando che sarebbe rimasta a casa.
– Ti prego, ti lascio scegliere il film da guardare! Anche “E.T.”, nonostante mi faccia una paura boia! O se vuoi proprio uscire andiamo da un'altra parte, ti prego! – piagnucolava.
Aveva paura di rendersi ridicola, di fare la figura della ragazzina che si veste bene per fare colpo su il ragazzo che le piace e che non la guarderà mai.
– Siamo due adulti, – continuò, – renditi conto che lui ha quarant'anni? Questi trucchetti da dodicenni sono solo tristemente comici.
Rossella si sedette di fronte a lei, bloccandole le mani in modo che non rovinasse il suo lavoro.
– Respira. – disse, guardandola negli occhi. – E ora guarda la cosa per quello che è: esci e c'è anche lui. Non è un crimine se ti sei vestita bene, vorresti dirmi che se non hai nessuno su cui far colpo ti copri di stracci? Tu? Sei la stessa che aveva speso con orgoglio mezzo stipendio per un paio di scarpe? – le ricordò, facendola ridere. – Quindi: sei uscita a fare un po' di festa con la tua amica Rossella che non vedi da mesi, saresti strana se ti mettessi i jeans e le scarpe da ginnastica, concordi?
Diana chiuse gli occhi e annuì: detto da lei sembrava diverso. E accettò la versione, nonostante dentro di sé sapeva che quando si trattava di lei e Michele le cose non seguivano mai il filo logico di tutti gli altri.
In fondo, nonostante la sua ingombranza, Rossella le dava fiducia.

Michele non sembrò particolarmente sorpreso o infastidito dalla sua presenza.
– Stavo giusto chiedendo a Stefano chi erano quelle due tamarre che avevano parcheggiato. – la prese in giro, salutandola.
– Esagerato, solo perché non mi adeguo sempre ai tuoi gusti musicali: guarda che quando non ti sto intorno mi piace non avere l'ansia da prestazione culturale e se mi va ascolto anche musica più plebea. Ascoltavo Justin Timberlake, è un problema?
Michele rise,
– Ansia da prestazione? Non ne avevi quando mi hai fatto ascoltare tutta la discografia di Beyoncè, vero? – Poi si rivolse a Rossella. – Io sono Michele, comunque, dato che la tua amica si è dimenticata le buone maniere.
Diana presentò velocemente Rossella a Fabio e Paola, che non la conoscevano, e si guardò intorno.
– Aspettiamo ancora qualcuno?
Stefano guardò interrogativo Michele, che lo informò:
– No, ci raggiungono là, possiamo andare. – colse l'espressione curiosa di Diana. – Beh, cosa pensavi, che sono un pirla che sa solo circondarsi di ragazzini come voi? Io appartengo a un altro decennio, ogni tanto mi piace parlare con qualcuno della mia età. Vedo che ti sei vestita bene, Daiana, per fortuna: dove ti porto stasera è un posto da grandi. – disse finendo il commento con un occhiolino, mentre saliva in macchina e faceva cenno a Stefano di andare con lui.
E lì, in piedi su quel marciapiede, se avesse potuto Diana lo avrebbe incenerito con lo sguardo.
– Che bisogno c'è di parlarmi così? – si lamentò, ferita, salendo in macchina con Rossella.
– Ma se ti ha fatto un complimento! Io non lo conosco, ma ti assicuro che dalla faccia che ha fatto si vedeva che non gli dispiacevi affatto.
– Non lo conosci: – dichiarò Diana, – Michele non fa mai complimenti, soprattutto davanti ad altre persone.
– O forse te li fa e tu non li capisci. – commentò testarda, mentre metteva in moto e seguiva la macchina che le stava aspettando.

Rossella era proprio in clima da vacanza, si era fiondata in pista a ballare non appena erano entrati. Diana agitò nervosa il ghiaccio nel suo bicchiere: non aveva avuto torto a preoccuparsi, ovviamente avevano trovato ad aspettarli le solite tre amiche di Michele, che ovviamente lo avevano subito monopolizzato.
– Vecchia spugna. – La raggiunse Stefano, per riprendere un po' fiato provato dall'energia inarrestabile di Rossella, che si stava ancora scatenando. – Che ci fai tutta sola?
Al diavolo.
– Direi “io non ballo con i ragazzini”. – imitò Michele, – Peccato che qui non ce ne siano. Hai ragione, sei pronto a tornare nella mischia? Ma stammi lontano: se mi stai troppo vicino io sembro una milf. – Gli intimò, facendolo scoppiare a ridere.
Trovò facilmente Rossella, e nonostante Diana non si sentisse proprio l'anima della festa iniziò a ballare, decidendo di mandare a quel paese Michele e quello che avrebbe fatto quella sera: lei era lì solo per divertirsi con la sua amica.
– Ma guarda chi è arrivato! – urlò Stefano, dandole una gomitata.
Vide Pietro, che si stava avvicinando a loro, e commentò, incredula:

– Devi aver puntato proprio tanti soldi, eh?
E ignorò Rossella dietro di Pietro mentre che lo stava salutando: da come stava muovendo le mani stava chiaramente chiedendo a Stefano se era proprio lui. E lei che aveva paura che volessero buttarla tra le braccia di Michele...
Fortunatamente la sera prima aveva avuto la buona idea di parlare a Pietro, spiegandogli che ultimamente era stata in difficoltà a parlare con lui per via della scommessa, evitando accuratamente di scendere nei particolari, e avevano chiarito di non avere nessun interesse reciproco.
Tornò a ballare accanto a Rossella, sperando che il suo sguardo non significasse “se non lo vuoi tu me lo prendo io”.
– Non ci credo! – rise con molto poco tatto Stefano, indicando il limite esterno della pista. – Lui è proprio il Boss, non c'è storia!
Si voltò e si bloccò, smettendo di ballare, incredula: Michele era lì.
Non ballava, se ne stava fermo con il cocktail in mano, ma le sue amiche lo facevano ampiamente anche per lui.
– Calmati. – l'afferrò Rossella, facendola girare. – Non è mica niente!
– Lui non balla. Mai. – scandì, tornando a voltarsi verso la scena, come se non potesse evitare di vederla. Non poteva rimanere lì, immobile mentre tutti ballavano, a guardarlo. Rossella e Stefano l'avrebbero certo compatita, e Fabio e Paola erano così appiccicati da non lasciare spazio a nessun dialogo, così chiese a Pietro se l'accompagnava a prendere da bere.
E lui, che era più alto della maggior parte della gente lì e sovrastava molte teste, cercò di starle dietro mentre lei marciava verso il bar.
– Tutto bene? – provò a chiederle, e lei gli scoccò un'occhiata sarcastica.
– Ma certo, perché non dovrebbe andare bene? Sono stata con questa persona in decine di discoteche diverse e l'ho sempre visto attaccato al bancone, guai a spostarlo, e poi scopro che... niente, ignorami. No, scusami, – Cercò di calmarsi, capendo quello che stava facendo. Appoggiò i gomiti al banco e nascose la faccia tra le mani. Era davvero una stupida a comportarsi così. – Non volevo trascinarti dentro alla mia follia, ma se fossi venuta da sola Rossella mi avrebbe seguito, e non volevo.
– Vuoi rimanere da sola?
– Sarebbe l'ideale se tu potessi fare finta di niente.
Lui le sorrise,
– Tornerò là camminando molto piano, così avrai tempo di seminarla.
Diana prese la birra e si allontanò, prendendo un'uscita di emergenza che la portò fuori, dove nessuno sarebbe andato a cercarla.
Era talmente nervosa che i denti stringevano il collo della bottiglia, mentre beveva. Certo, Michele le aveva fatto un complimento secondo Rossella, ma intanto non l'aveva degnata di uno sguardo per tutta la sera. Era ora di guardare in faccia la realtà.

– Disturbo? Sta tornando Pietro?
Michele l'aveva trovata. Diana corrugò la fronte.
– Ma cosa dici?
Stava avvicinandosi, un passo alla volta, aveva un che di strano: si sentiva con le spalle al muro, e quella sensazione, combinata con la gelosia che l'aveva colpita, la innervosì ancora di più. Cercò di mantenere un ritmo di respiro regolare, riuscendo però solo a evidenziare la sua agitazione, sottolineando ogni respiro.
– Mah, non so, ho visto che vi siete allontanati insieme.
Allora quando gli faceva comodo si accorgeva di lei. Doveva evitare di guardarlo, si stava avvicinando sempre di più. Per distrarsi prese un altro sorso di birra.
– A dire la verità l'ho usato come espediente perché non mi andava di avere intorno nessuno: sapevo che Rossella mi avrebbe seguito, se mi fossi allontanata da sola. – disse, funerea. – Comunque, anche se fosse? – lo guardò giusto per scoccargli un'occhiata di sfida, e poi continuò a dedicarsi allo studio della recinzione a cui si era appoggiata mollemente. Michele ora era davanti a lei, lo percepiva chiaramente anche se stava guardando altrove, e poteva scommettere che aveva le braccia incrociate. Se pensava che si sarebbe arresa a guardarlo si sbagliava di grosso, pensava testardamente.
– Ogni tanto hai delle reazioni esagerate. – le rimproverò, osservandola. Diana si leccò le labbra e sospirò, ironica, bisbigliando qualcosa. – Non ho capito: se bisbigli e guardi dall'altra parte non ti sento.
– Ho detto: – si girò finalmente a guardarlo, contraendo le labbra per il nervoso. – che almeno io ho delle reazioni, per esagerate che siano. Sai che conosco delle persone che non perdono mai il controllo? – lo sfidò. Al diavolo se avesse capito che parlava di lui, voleva che lo capisse: odiava essere lì, a tremare quasi dalla rabbia e dalla delusione, davanti a lui, che per giunta sembrava si stesse prendendo gioco di lei e delle sue “reazioni”.
Fu un istante, Michele strinse gli occhi a due fessure, le bloccò i polsi con le mani e la spinse contro la cancellata, obbligandola a guardarlo.
– Perché mai una persona dovrebbe perdere il controllo?
Diana era immobilizzata, sentiva il suo respiro sfiorarle la pelle, i suoi occhi la fissavano senza darle la possibilità di guardare altrove. Raccolse tutto il coraggio che aveva, forse dovuto dalla rabbia che l'aveva colta, e sostenne fieramente il suo sguardo. Sapeva cosa dirgli, ma non pensava che ne avrebbe mai avuto il coraggio:
– Perché chissene frega, cazzo.
Quasi non riuscì a pronunciare le ultime lettere, perché la sua bocca le aveva impedito di continuare. Chiuse gli occhi, incredula, e si aggrappò a lui. Come la stava baciando... era come se fossero le uniche persone sulla faccia della terra. Sentiva le sue mani stringerla, aggrapparsi ai suoi capelli, accarezzarle la schiena, i fianchi. E il suo bacio era esattamente come se lo ricordava, se non meglio, perché non stava accennando a finire: era in totale balia delle sue labbra, delle loro lingue che si incontravano e si sfidavano a ottenere sempre di più.
E lei glielo avrebbe concesso senza tanti pensieri, lì, contro quella rete o per terra, ovunque. Si sentì stringere ancora di più e si abbandonò totalmente a lui.
Si staccò da lei, allontanandosi un poco, vedeva che il suo petto si muoveva allo stesso ritmo affannato del suo respiro.
– Chissene frega cazzo? – le domandò, sarcastico.
– Sì. – dichiarò, tirandolo nuovamente a sé.
Chissene fregava delle discussioni che avrebbero avuto o delle scuse che avrebbero utilizzato per non parlarne, ormai erano lì e tanto valeva immergersi ancora in quel bacio, di cui era ancora affamata.
E poi, non poteva negarlo, le sue mani, le sue mani sui suoi fianchi che la stringevano, l'accarezzavano, senza varcare i confini ma provocandole sensazioni come se l'avessero fatto: quelle mani dimostravano che in fondo anche lui la voleva, Michele la vedeva, e lei aveva bisogno di sentirlo.
Capiva che per qualche motivo non avrebbe voluto perdere il controllo come aveva fatto, non avrebbe voluto baciarla: lo percepiva quasi arrabbiato, ma questo non gli impediva di continuare a baciarla ancora di più, fino a stordirla, e quindi non le importava dei pensieri che gli passavano per la testa, se lo spingevano a baciarla così.
– Ora basta. – mise in chiaro, lasciandola andare.
– Ok. – riuscì a dire, stordita, nonostante le fosse di fronte e se lo sentisse ancora addosso, e non poteva evitare di guardarlo come se fosse così.
Michele aggrottò le sopracciglia,
– Che discorso è, comportarti come se ti avessi fatto un torto mortale? Perché ero con delle altre persone.
– No, – ansimò, – forse sono stata un po' esagerata.
Gli avrebbe detto anche che la Terra era piatta, se glielo avesse chiesto in quel momento.
– Allora siamo d'accordo? Basta reazioni eccessive. Per tutti e due.
Diana annuì, anche se non capiva esattamente quello che le aveva detto.
– Aspetta. – gli tirò la manica, prima che potesse allontanarsi, senza sapere neanche lei perché.
Michele la tirò a sé, baciandola ancora, più dolcemente.
– Ok, il discorso è chiuso, allora: non parliamone più, basta.
Rientrò, e Diana era sicura solo di una cosa: non aveva capito una parola.

– Cosa... Ah, sei qui. – la raggiunse Rossella, guardandola. – Qui? Viziosa! – si mise a ridere.
Diana strizzò gli occhi: forse stava perdendo la capacità di capire le persone.
– Ma che dici? – notò poi il suo sguardo eloquente. – No, ma cosa pensi?
Rossella le porse una sigaretta,
– Penso quello che mi dice la tua faccia, e la tua faccia sembra quella di una che ha appena messo fine al periodo di castità!
Diana gliela strappò quasi di mano.
– Cretina. – la rimproverò, come se non le fosse neanche passato per la testa. – Però... mi ha baciato. Di brutto. – scandì, guardando un punto inesistente davanti a sé, ripensando al genere di bacio.
Rossella le prese la sigaretta dalle dita e tirò una boccata.
– Allora il nostro piano ha funzionato alla grande. – esclamò, soffiando via il fumo. – Io e Stefano, mentre tu facevi l'asociale: tu eri gelosa marcia, e abbiamo pensato che anche lui andava ingelosito, così ha chiamato Pietro. Da quanto mi ha detto, Michele non ha preso molto bene il fatto che tu non sia più intimidita da lui, quindi sapevamo che si sarebbe ingelosito vedendolo comparire. Poi hai fatto tutto tu, allontanandoti con lui. Quindi?
Diana alzò le spalle, ancora troppo nel mondo dei sogni per potersela prendere con lei per quello che le aveva appena detto.
– Non lo so, continuava a dire che il discorso era chiuso e cose così.
– Non sarà facile, a quanto pare per qualche motivo non vuole cedere: ma almeno sai di non essergli indifferente.
Diana ripensò alla sua bocca, alle sue mani... probabilmente Rossella aveva ragione.



Rossella era partita a mezzogiorno, abbracciandola e ricordandole che la sua previsione si era avverata: era riuscita a dare una scossa alla sua vita.
– Però non dormire sugli allori! Guarda che ho lasciato a Stefano il mio numero, se vede che fate i cretini mi avvisa e io torno qua e ne combino un'altra delle mie, a tuo rischio e pericolo!
Diana l'abbracciò, assicurandole di non preoccuparsi, e rimase in strada finché non vide la sua macchina scomparire nel traffico.
Le porte dell'ascensore si stavano chiudendo quando qualcuno che stava arrivando di corsa lo fermò.
– Ah. Ciao. – disse, quando si accorse che era Michele.
Lui sembrava sorpreso quanto lei.
– Ho finito il caffè, ero andato a prenderlo. – gli mostrò il pacchetto, come se volesse giustificarsi. Diana ebbe conferma della conclusione a cui era arrivata quella notte: il suo “basta, non parliamone più” si riferiva al loro bacio. Abbozzò un sorriso, come a volerlo tranquillizzare, e guardò il display dell'ascensore, aspettando che segnasse il numero del loro piano.
Quando le porte si aprirono rischiarono di rimanere incastrati, poi Michele fece un passo indietro lasciandola passare.
– Beh, – disse, avvicinandosi alla sua porta e guardandolo uscire dall'ascensore con la coda dell'occhio – ci si vede.
– Caffè? Stamattina mi è arrivato il pacco da Amazon con i dvd che ho ordinato.
Prese fiato: quello che aveva voluto per tutta la salita dell'ascensore era un altro bacio, in realtà.
– Va bene, ma scelgo io.










Nda: Sorry per il ritardo, ma è stata una settimana decisamente impegnativa!
Piccola nota: Diana non intendeva It, ma proprio ET; ve lo assicuro perché quel film fa morire di paura anche me O_O mille volte meglio It!!! XD
Grazie immenso a Bloomsbury, perché mi ha letto e recensito e perché mi ha lasciato un minimo di speranza nel finale del suo Draw Skin, speranza di rivedere ancora il mio uomo preferito ;-)
Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 - Always On My Mind ***


daiquiri        










Michele aveva uno sguardo strano negli occhi, quasi triste in alcuni momenti, o più precisamente colpevole. Se faceva due calcoli non le ci voleva molto a capire da quanto avesse iniziato, quello che non capiva era perché: perché il fatto di averla baciata doveva farlo sentire in colpa? Michele cercava di comportarsi normalmente, e spesso sembrava esserlo, ma poi succedeva qualcosa nella sua testa e il suo sguardo cambiava.
Non la evitava, parlavano come al solito e come al solito passavano quasi tutte le loro giornate insieme, tra casa e il lavoro; ma quei piccoli gesti d'affetto erano scomparsi, quasi evaporati nel nulla, e lui sembrava come voler mantenere una certa distanza fisica, nel vero senso del termine: persino quando mangiavano quasi faticava ad avvicinare la sedia al tavolo, come se farlo avesse potuto spezzare una barriera invisibile che aveva faticosamente costruito.
E nonostante lei cercasse di far finta di niente, se ne accorgeva e ne soffriva, ma il solo pensiero di sentirsi dire che aveva sperato troppo le impediva di chiedergli delle spiegazioni.
Al Daiquiri Frozen cercava di essere quanto mai efficiente, anticipando ogni sua richiesta e dando sempre il massimo senza risparmiarsi, forse inconsciamente per sentirsi dire un altro “sei stata brava”, o più semplicemente per ricordargli della sua esistenza; mentre in privato cercava di sopperire alle sue distanze mostrandosi serena, voltandosi quando le scappava una smorfia di delusione, come a volergli dimostrare che il suo sguardo colpevole non aveva motivo di esistere. Anche se non sapeva neanche lei a che cosa era dovuto.
– Vuoi guardare un film? – provò a proporgli. Quel giorno sembrava particolarmente pensieroso.
– No, oggi pomeriggio ho da fare.
Impassibile.
Avrebbe voluto urlargli “Chissene frega, cazzo”, ma sparecchiò il suo posto mettendo le stoviglie sporche nel lavello, con la sfibrante percezione che anche se gli stava passando accanto lui non la degnava di uno sguardo; così abbozzò un saluto e tornò a casa sua.
Stava peggiorando sempre di più.
Si chiuse nella sua camera, retaggio dei suoi anni da adolescente visto che tecnicamente tutta la casa era esclusivamente sua, e si decise a disfare gli scatoloni che le aveva portato Rossella settimane prima.
Contenevano i suoi libri, i cd, le fasce ricordo dei concerti a cui era andata e qualche foto: praticamente le sue cose più care. Scelse una compilation che non ricordava di aver fatto e con la musica a tutto volume che riempiva la stanza si fece coraggio a mettere tutto in ordine: dare un timbro di definitivo alla sua permanenza lì, in quel momento, le sembrava quasi di cattivo gusto.
Un giro di chitarra classica risuonò, anticipando la voce calda e comprensiva di Elvis che iniziò a dirle “forse non ti ho sempre trattato bene come avrei dovuto, forse non ti ho amato così spesso come avrei potuto”.
Si asciugò le lacrime che rotolavano veloci sulle guance in un pianto silenzioso e immobile che di pianto aveva solo le labbra incurvate caparbiamente, come se non volesse permetterselo, e continuò imperterrita a tirare fuori gli oggetti accatastati e a metterli a posto.
Poi, quando le venne in mano un libro tascabile che ricordava fin troppo bene, le sue dita lo strinsero tanto da diventare bianche: non era proprio possibile, aveva lì i ricordi di una vita senza Michele e lui riusciva a intrufolarvisi comunque. Spalancò la porta della sua camera, si assicurò di avere le guance asciutte, e andò da lui, a restituirgli quel dannato libro.
– Guarda che cosa ho trovato. – si obbligò a sorridere, porgendoglielo, come se fosse ormai istintivo indossare quella maschera.
Michele lanciò un'occhiata alla porta lasciata aperta del suo appartamento, da cui filtrava ancora Always on my mind, e per un attimo Diana vide che la colpa nei suoi occhi assumeva una sfumatura diversa.
– Ho il vinile, vuoi venire ad ascoltarlo? – le chiese.
Diana chiuse la porta, senza preoccuparsi di andare a spegnere la musica mentre lui l'aspettava appoggiato allo stipite, addolcito. Sentì la maschera che si stava sciogliendo, e passandogli accanto, mentre lui la faceva entrare, si fermò ad abbracciarlo, nascondendosi contro di lui. Michele lasciò andare un sospiro, che forse avrebbe voluto essere una scusa, e la strinse, lasciando che il tempo passasse. Sentì contro la guancia che la sua maglietta stava diventando umida, e capendo che erano le sue lacrime a bagnarla cercò di smettere di piangere, mentre lui le accarezzava la testa.
Si staccò, assicurandosi di asciugarsi non vista le guance,
– Allora, dov'è il disco?
Lo seguì in salotto, aspettando in piedi mentre lui lo trovava e lo metteva sul giradischi. Non capitava spesso di ascoltare le sue reliquie personali, e in un certo qual modo non si sarebbe mai aspettata di trovare Elvis nella sua raccolta, e specialmente quella canzone, anche se era un classico.
Le note vennero precedute dal fruscio, e poi fu come se Elvis fosse proprio lì a cantare per lei. Ricordò quella volta che lui l'aveva fatta arrabbiare, quando avevano ascoltato insieme Where is my mind, e capì che non sarebbe riuscita a mantenere la stessa freddezza con una canzone che diceva esattamente le stesse parole che lei si sarebbe voluta sentir dire, così quando la guardò interrogativo scosse la testa.
– Sto qui. – disse, rimanendo in piedi accanto al divano finché la canzone non sfumò. Gli diede le spalle e si sedette a terra, appoggiando la schiena sul divano. – Lo so, sono eccessiva? – borbottò, come se si stesse prendendo in giro da sola, mentre cercava di trattenere le lacrime in tutti i modi.
Michele tolse il vinile e tornò a sedersi sul divano.
– Non pensavo che te ne accorgessi. – disse, alludendo al comportamento che aveva avuto in quegli ultimi giorni, –  O forse sì, l'avevo capito, ma speravo che fosse una mia impressione.
Non pensavi che me ne accorgessi. – ripeté amaramente. – Sono io che faccio di tutto...
– Perché io mi accorga di te? – concluse Michele per lei. – Lo so. E non è necessario: io mi accorgo di te, sempre, lo farei anche se tu rimanessi immobile. Lo faccio anche adesso, che sei lì nascosta.
Anche Diana si accorgeva di lui, bastava la sua voce, bassa e roca, bastava la semplice percezione della sua presenza. E si accorgeva che quello non era uno dei loro tanti discorsi.
– Ho sempre paura di chiederti una cosa. – disse, concentrando lo sguardo sulla sua libreria, come se stesse guardando un'estensione di lui. – Ho paura che tu mi risponda che è effettivamente così: perché a volte mi fai sentire indesiderata? – maledisse la voce che aveva tremato su quell'ultima parola e si maledisse per averla pronunciata: era come se non avesse neanche più la pelle a proteggerla, solo carne viva.
– Perché non è facile, per me, convivere con te.
Fu come se le avesse buttato dell'acido addosso, lì, sulla sua carne inerme senza pelle.
Scattò in piedi, il suo sguardo avrebbe potuto ferirla ancora di più ma non poteva evitare di guardarlo.
– Come puoi dirmi questo?
Michele strinse gli occhi, come incredulo al fatto che lei non capisse.
– Come? Certo, guardami, guarda noi: ti ho conosciuto che eri poco più di una ragazzina, vieni qua che ti pensi una donna quando in confronto a me sei ancora una ragazza. Mi ricopri di un ruolo che secondo te io ho di diritto, mi metti al centro della tua vita e mi costringi ad accorgermi di te, sempre, nonostante tutte le dannate volte io mi incazzi; perché tu sei una ragazza e non dovresti centrare niente con me. Tutte le volte che cerco di allontanarmi tu mi obblighi a guardarti. Sì, in un paio di momenti posso anche essere stato tanto stupido da farmi trascinare: non sono una roccia, tu mi guardi e mi provochi, vuoi che io ti faccia ballare, vuoi che io ti baci. Ed è sbagliato, perché non so se sono stato io ad averti portato a volerlo: tu non dovresti volerlo.
– Io ti amo. – quella frase era ormai andata, non avrebbe mai potuto riprendersela, neanche con dieci bottiglie di Tequila.
– Tu non mi ami. – negò, come se volesse smascherarla, o tentare di convincerla che non era così.
– Certo che ti amo:  perché ho sempre delle reazioni esagerate quando si tratta di te? Non sono mica pazza. È perché ti amo così tanto, e amo così tanto di te... e non penso di arrivare a meritarti, come dici tu io sono solo una ragazza, in confronto a te.
– Tu non devi amarmi: se te lo permettessi un giorno mi odierai.
– Odierò me stessa, invece, se non tu mi permettessi di amarti: perché come una stupida ho cercato di avere tutto di te, perdendo anche quello che avevo. Cazzo, Michele, però. – nascose il viso tra le mani, – Non continuare a dirmi che non ti amo, che non dovrei amarti: mandami via, se ho sbagliato tutto. Lo so: ho sbagliato.
Si era avvicinato senza che lo sentisse, le mise una mano sulla testa e la tirò a sé, abbracciandola.
– E se mi odiassi io? Perché non trovo giusto che tu ami me? Per me?
Appoggiò la fronte sul suo petto.
– Ma tu che cosa vuoi?
– Mi pare abbastanza ovvio. Non dovrei, è sbagliato, ma voglio te. Daiana.
Sentì un brivido correrle lungo la schiena mentre diceva il suo nome, come se al posto di quello avesse detto a chiare lettere di amarla. – E ora non centra il “chissene frega, cazzo”. – continuò, – Ti amo, non posso dirlo. Prima o poi Google, o il Boss, passa in secondo piano: succederà anche a te, e mi odierai per averti permesso di amarmi.
Diana lo guardò.
– Michele ti ho trovato dopo dieci anni, e non ti ho trovato perché ti amavo, non così almeno. Perché eri una persona che non aveva ancora smesso di significare qualcosa per me, dopo dieci anni che non ti vedevo: come pensi sia possibile che tu possa passare in secondo piano per me? Dammi una possibilità per mostrarti che ti sbagli. – lo implorò. Se lui l'amava avrebbe potuto scalare un grattacielo, pur di dimostrargli che lei non voleva altro che lui. Si morse le labbra, non sapendo più cosa fare per convincerlo. – Chissene frega, cazzo. Ti amo, hai capito? E non ti amo in una maniera strana e platonica come forse tu pensi che io lo faccia: ti amo nel profondo, quando mi parli, come sei, come siamo insieme; ma ti amo anche ogni volta che ti vedo il cuore mi batte, come una ragazzina, e io non riesco a pensare ad altro se non a te che mi baci. E quando lo fai vorrei...
La interruppe, finalmente, arrendendosi e baciandola, come lui sapeva baciarla, come se la volesse accarezzare e poi come se la volesse mangiare. E le aveva detto di amarla, non doveva aver paura che quel bacio finisse, poteva sperare che continuasse a oltranza.
La scarica di adrenalina per quella dichiarazione strappata e sofferta, l'emozione di quel bacio che la travolgeva sempre di più, le andarono alla testa.
Se fino a qualche istante prima aveva voluto diventare sua ma in maniera più dolce, per trasmettergli tutto il suo amore e per sentirsi sua, ora la passione la annebbiava, e voleva sentirsi sua, punto. Sì, lo amava, si diceva cercando di rimanere lucida, ma doveva essere sua, immediatamente. Le sue labbra non dovevano smettere di baciarla, le sue mani non dovevano smettere di toccarla, sempre più avidamente. Gli offrì senza remore il suo collo, come sostituto delle labbra, mentre la sollevava da terra e lei gli cingeva i fianchi con le gambe. Quando l'appoggiò sul divano Diana gli sfilò la maglietta e lo tirò verso di sé, sentendo già l'astinenza dei due corpi uno contro l'altro. La mano di Michele era sul suo fianco, e scendeva sempre di più...
Prima suonò il telefono di Michele, due volte, poi iniziò il suo e suonarono assieme.
– Chi... chi è? – gli chiese ansimando, continuando a guardarlo come ipnotizzata, quando lui si staccò brevemente da lei.
– Non lo so, ma penso che sia ora di andare a lavorare.
Diana chiuse gli occhi, incredula: lo aveva completamente dimenticato. Si aggrappò alle sue spalle, quando lo sentì sollevarsi.
– Aspetta mezzo secondo... noi?
Come se separandosi fosse finito tutto, che ne sarebbe stato di loro?
– Non lascio le cose incomplete a lungo: non preoccuparti. – La baciò ancora più avidamente, come se avesse voluto sottolinearle quello che intendeva, e poi si alzò a rispondere al telefono. – Sì, arriviamo subito, non ci siamo accorti dell'orario: aspettateci.
Quando si girò, pensando di trovarla ancora sul divano, la trovò accanto a lui.
– Quindi tu mi ami, io ti amo e... – il suo sguardo vagò senza volere sul suo petto nudo. – E non lasciamo le cose incomplete a lungo, no?
– No. Ma adesso dobbiamo andare, lo sai?
Diana annuì: se lui l'amava avrebbe potuto aspettare qualche ora.










Nda: Non so davvero cosa posterò dopo questo capitolo -_- è da una settimana e passa che sto lavorando a quello successivo ma continuo a cancellarlo! Questo è proprio uno dei miei talloni d'achille: quando i miei protagonisti si dichiarano basta, non so più che cavolo scrivere.
;-) ci penserò!
Spazio credits: ovviamente il pezzo della traduzione fa parte di Always on My Mind di Elvis,
https://www.youtube.com/watch?v=u9sRJ-eOHnc , in assoluto la mia canzone. Era una vita che volevo inserirla in una storia, e il motivo è duplice: il primo è che la amo, questa canzone mi scioglie sempre e la voce di Elvis mi graffia sempre l'anima, ogni volta che l'ascolto; e il secondo motivo è una specie di tributo al nono capitolo di Blowing Bubbles di SidRevo, che immagino tutti conosciate. Quel capitolo, complice la presenza di questa canzone, mi aveva distrutto l'anima, e da tempo avevo avuto il desiderio di citarlo. Nota di servizio: se non conoscete la storia guardate quando è stata aggiornata l'ultima volta e decidete voi se volete leggerla e diventare pazze nell'attesa che ormai credo non finirà mai, oppure passare oltre. Non fraintendetemi, io l'ho adorata, ma se la scoprissi oggi forse non la leggerei, così come non ho letto l'altra storia di SidRevo per lo stesso motivo: è incompleta, e leggere le incomplete fa male al mio povero cuoricino in cerca di un finale.
Bando alle ciance, ringrazio Bloomsbury perché ha iniziato il seguito di Draw Skin, rendendomi la Miyavi addicted più felice di questo mondo: Bloom aggiorna quando ti pare, anche tra un mese, il solo fatto che esista il seguito per me è fonte di gioia ♥ e ovviamente grazie perché continui a leggermi e recensirmi. Su questo capitolo avrai scoperto molto su Michele, su molte cose come vedi ci avevi azzeccato. Non per mettere le mani avanti ma ti dico che a me pubblicarlo ha messo l'ansia, quindi sii pure crudele con la tua recensione, magari così capirò meglio il motivo della mia ansia! -> in genere ci arrivo quando leggo le cose nero su bianco.
Va bè, mi impegnerò a continuare questa storia!
ps: in NaNoWriMo si avvicina, qualcuno partecipa quest'anno? Io vorrei, ma so che se lo facessi da sola non lo completerei mai, fatemi sapere!

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