Antologia zombie!

di Book boy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte 1 ***
Capitolo 2: *** Parte 2 ***
Capitolo 3: *** Parte 3 ***
Capitolo 4: *** Parte 4 ***
Capitolo 5: *** Parte 5 ***
Capitolo 6: *** Parte 6 ***



Capitolo 1
*** Parte 1 ***


Salvate il presidente!
 
-Signor presidente, i contatti con New York sono stati persi, Los Angeles è ormai caduta e idem Boston. Dobbiamo abbandonare la Casa Bianca, dobbiamo abbandonare Washington DC prima che sia troppo tardi- L’ufficiale dei servizi segreti stava ritto in piedi di fronte alla scrivania presidenziale, nella stanza ovale. Il presidente aveva girato la sedia, mostrando ai presenti lo schienale mentre guardava fuori dalla finestra. I posti di blocco di fronte alla Casa Bianca, messi in atto dall’esercito per la sicurezza del presidente degli Stati Uniti. Lo strano batterio aveva ormai infettato 1 quindicesimo della popolazione mondiale e le metropoli maggiori erano cadute. New York, Los Angeles, Boston, Philadelphia, Las Vegas, Parigi, Berlino, Londra, Tokio, Roma, Madrid, Barcellona… tutte conquistate dal nuovo morbo che riportava in vita i morti.
Il presidente era pensieroso. Non sapeva cosa aspettarsi. Alcune fonti parlavano addirittura che quegli zombie erano arrivati anche nella capitale, e che le periferie ne fossero ormai piene. Tutti si erano riversati verso il centro città, dove una divisione dell’esercito tentava di riunire i superstiti. Il presidente girò la sedia e guardò in faccia ai presenti, poi disse –D’accordo. Dobbiamo andarcene. Chiamate la mia famiglia, ditegli di prepararsi al trasferimento e poi…- Si sentirono degli spari provenire dall’esterno. Non erano molto vicina ma nemmeno troppo lontani. Probabilmente a qualche isolato di distanza. Il capo della scorta del presidente Hoss ordinò immediatamente i suoi uomini di avvertire la moglie e i figli del presidente che di lì a poco li avrebbero portati via. Poi, rivolto al presidente disse –Signore, mi segua prego- Il presidente si alzò ma fece qualche passo verso la porta e all’improvviso da fuori si sentirono delle grida. Si voltò di scatto e vide che i soldati presenti ai posti di blocco appena di fronte all’edificio avevano aperto il fuoco su un gruppo di infetti che si avvicinava, a poche decine di metri. Tutti i componenti delle guardie del corpo del presidente estrassero le rispettive pistole e così fecero anche gli agenti dei servizi segreti. Hoss ordinò a tutti i componenti della sua squadra di seguirlo, mentre, tenendo una mano sulla spalla del presidente, avanzava fuori dallo studio. Tutta la squadra era composta da cinque uomini, più altri due che si unirono alla scorta appena usciti dalla stanza ovale. Erano tutti armati di Glock, le pistole d’ordinanza. Hoss allora ordinò parlando comunicando con l’auricolare –Dobbiamo dirigerci verso l’armeria e prendere le mitragliette, andiamo, ci vediamo tutti là per portare in salvo il presidente, in oltre barricate i cancelli esterni e i portoni d’entrata.- Dopodiché ripresero a correre verso l’armeria. Spalancarono la porta dopo aver inserito il codice di accesso al tastierino laterale. All’interno della stanza, anche relativamente piccola, vi erano decine e decine di armi, destinate alle guardie del corpo del presidente per la sua difesa in caso di attacchi terroristici o situazioni analoghe a quella che stava succedendo in quel momento, ovvero catastrofi inaspettate. Tutti e sette gli agenti della scorta imbracciarono delle mitragliette MP5, riempiendosi le tasche della giacca e dei pantaloni di caricatori di munizioni. Corsero fuori mentre dai corridoi paralleli di iniziavano a sentire le urla dei segretari e vari funzionari che lavoravano alla Casa Bianca che, scoperto che gli zombie erano ormai alle porte, fuggivano via spaventati a morte. All’improvviso però si iniziarono a sentire anche i ringhi dei non-morti che erano penetrati all’interno. In breve i corridoi si trasformarono in campi di battaglia in cui gli umani tentavano di eliminare quella piaga utilizzando la medicina migliore: i proiettili. Hoss ordinò a tutti di seguirlo, mentre le guardie del corpo si posizionavano intorno al presidente per proteggerlo ulteriormente. Dovevano dirigersi verso il garage dove avrebbero trovato le jeep blindate con cui fuggire. Il presidente però voleva trovare la sua famiglia, per portarla in salvo, perciò Hoss voltò ad un angolo e si diresse verso le stanze della first lady. Correndo per i corridoi incontrarono alcuni zombie che furono abbattuti con dei proiettili. Entrarono nel corridoio d’accesso alla zona abitata dalla famiglia del presidente. I cadaveri ambulanti non sembravano essere arrivati fin lì. Ora dovevano trovarli. Hoss tentò di contattare le guardie che proteggevano la famiglia, ma non rispondevano all’auricolare. Il presidente iniziò ad inquietarsi mentre avanzavano con i fucili spianati verso le camere laterali. Hoss chiamò la first lady, ma questa non rispose, né al primo né al secondo richiamo. Le guardie proseguirono nuovamente, controllando all’interno delle varie stanza quando, all’improvviso, si sentì il vetro di una finestra infrangersi e in un attimo decine e decine di zombie entrarono all’interno di quella zona dell’edificio. Subito gli agenti aprirono il fuoco mentre Hoss allontanava il presidente. Uno degli agenti fu preso alle spalle da un non.-morto che lo morse al collo, mentre un altro che lo prese da dietro lo prese per una gamba e gli morse anche quella. Un suo collega lì vicino alzò il fucile puntandolo contro altri di quei mostri ma improvvisamente si inceppò e anche lui fu preda di quelle bestie. Hoss allora urlò –Dobbiamo andarcene! Sono troppi! Via Via! È un ordine!- Tutti gli agenti si ritirarono andando al riparo oltre la porta che conduceva al corridoio da cui erano passati. Sbarrarono l’entrata con l’ausilio di alcune sedie e mobili che presero lì vicino. Il presidente disperato, protestò –No! Cazzo io voglio la mia famiglia! Voglio trovare la mia famiglia!-
-Mi dispiace signore, è troppo pericoloso, gli ordini sono di preservare la sua sicurezza, perciò dobbiamo dirigerci al più presto verso il garage, prima che quegli zombie conquistino tutta la Casa Bianca-
-Col cazzo, Hoss! Io sono il presidente, sono io che vi do gli ordini, voglio trovare mia moglie, mio figlio e mia figlia! Non li lascio qui!- D’istinto il capo dello Stato iniziò a dirigersi verso un’altra porta da cui si accedeva alle stanza private della sua famiglia ma Hoss lo fermò appena in tempo, prima che la spalancasse facendone uscire l’orda di non-morti al suo interno –No signore! Dobbiamo andarcene, ora!-
-No maledizione!- Il presidente iniziò a piangere –Io non voglio… lasciare la mia famiglia a quelle bestie schifose, voglio trovarli e portarli via con me!-
-Signore li avranno già portati in salvo, insomma non riusciamo a collegarci ma anche gli agenti di scorta alla sua famiglia avevano l’ordine, in caso di attacco, di portare al sicuro sua moglie e i suoi figli, deve stare tranquillo per loro, saranno già lontani ormai, ora dobbiamo…- La porta si sfondò e alcuni zombie iniziarono ad uscire –Via via! Al garage, presto!- Corsero a più non posso, superando porte e corridoi dove vi era il caos più totale: gente a terra che perdeva sangue da ogni parte del corpo, soldati che sparavano sui non-morti, persone che urlavano spaventate oppure che si rannicchiavano negli angoli più bui chiudendo gli occhi e cercando di convincersi che tutto ciò non stava accadendo davvero. Hoss spalancò l’ennesima porta che questa volta era di ferro e che conduceva alle scale che portavano direttamente ai sotterranei, dove vi era il garage presidenziale. Scendendo notò che solo cinque delle scorta rimanevano. Erano davvero pochi. Scesero ancora due rampe e finalmente arrivarono alla loro meta. Avrebbero usato una jeep blindata per andarsene da lì. Avanzarono con cautela, per stare attenti in caso vi fossero stati altri zombie nella zona. Raggiunsero la jeep nera e vi salirono, facendo sedere sul sedile posteriore il presidente, dove i finestrini erano più resistenti. Hoss salì al posto del passeggero anteriore, mentre alla guida si mise un giovane che faceva parte della scorta da qualche mese. Un altro si mise di fianco al presidente, mentre l’ultimo andò verso il meccanismo di apertura del cancello di ferro che conduceva fuori, sul retro della Casa Bianca. Premette il pulsante per azionare il meccanismo quando qualcuno gli cinse le spalle. Lui cercò di divincolarsi ma appena ci provò due file di denti gli arrivarono alla gola, mordendolo. Urlò per il dolore, mentre, ormai voltatosi, aprì il fuoco contro il non-morto che lo aveva attaccato. Ve ne erano altri. Molti altri. Rivolgendosi di nuovo verso la jeep urlò –Andate, salvate il presidente!- Si voltò di nuovo e premette il grilletto, iniziando a far piovere piombo e ad uccidere decine e decine di zombie prima che, inevitabilmente, fosse travolto da quell’orda di bestie cannibali.
La recluta premette l’acceleratore con tutta la forza che aveva e la macchina sfrecciò via, immettendosi nella galleria che portava all’esterno. Quando uscì, sull’retro dell’edifico iniziò a dirigersi verso la strada principale, mentre Hoss tentava di contattare le forze armate per poter sapere dove portare il presidente. Ma non ricevette alcuna risposta. La recluta continuava ad accelerare sempre più, mentre intorno a loro si poteva vedere un paesaggio post-apocalisse. Fu un duro colpo per il presidente, che continuava a pensare e ripensare alla sua famiglia, chiedendosi dove fosse e se stesse davvero bene.
La macchina continuò a sfrecciare fra le strade piene di cadaveri ambulanti, mentre i pochi altri superstiti si muovevano anch’essi fra quelle creature, nel tentativo di sfuggire. La jeep nera svoltò ad un angolo e si ritrovò ad un incrocio. L’autista non penso a guardare di lato prima di accelerare di nuovo. Fu il suo più grande errore. La macchina fece si mosse per qualche metro prima che un TIR arrivato dalla strada laterale la investisse trascinandola nella sua corsa e riducendola ad un ammasso di ferraglia.
 
Oasi
 
Poco fuori dall’oasi di Manchester:
-Ehi Harris, ti va di fare una partita a carte?- I due militari stavano seduti sul cassone del camion giunto lì da poco. Quest’ultimo era appena dietro alla jeep con la torretta che sarebbe servita in caso di disordini, posta proprio davanti alla recinzione del posto di blocco. Da quando era iniziata la pandemia e tutti i morti erano tornati in vita, i governi si attivarono subito per isolare certe aree del paese, dopo averle bonificate, per creare al loro interno delle oasi protette da muri alti circa dieci metri, per poter salvare “i pezzi grossi” dello stato. Questo naturalmente, alla popolazione, non andava bene. Volevano accedere alle oasi ma non vi era modo. Solo i pochi eletti ne avevano il diritto.
-Allora, Harris!-
-Sì, Diamine! Stai calmo! Giochiamo.- Harris fece l’ultimo tiro della sigaretta, poi la gettò a terra e prese in mano le carte che gli aveva dato Paul. –Secondo te questi riusciranno a passare?-
-Non so, questa sera sono parecchio incazzati. Se passano però, stai pur certo che io gli sparo addosso, non mi faccio problemi.- Erano armati con fucili d’assalto bullpup Enfield SA 80, arma in dotazione alla fanteria della British Army. La folla continuava ad accalcarsi contro la recinzione, mentre i soldati li tenevano lontani. Il muro dell’oasi a circa un chilometro di distanza da lì, sembrava più imponente che mai. Dietro a quel muro vi era la salvezza. Ma non potevano raggiungerla.
Harris giocò la sua carta quando, all’improvviso si sentì un urlo più forte degli altri, in lontananza, seguito subito dopo da altre grida e schiamazzi spaventati. Entrambi i militari imbracciarono i loro rispettivi fucili che avevano appoggiato momentaneamente su cassone e si apprestarono a raggiungere i loro commilitoni alla recinzione. In fondo al gruppo di persone che continuavano a spintonarsi per cercare di fare cadere le barriere erette dall’esercito, si vedeva molto più movimento e tutti si chiesero cosa stava succedendo, fin che, l’urlo di un uomo fece capire tutto –Arrivano! Sono qui!-
Li avevano raggiunti.
Fu subito il panico, tutti urlarono terrorizzati mentre continuavano a spintonarsi e a tentare di fuggire in qualche modo, ma il numero delle persone lì presenti era tale da rendere quasi impossibile l’uscita dalla folla.  Perciò vi era una sola via d’uscita per non andare incontro a “loro”: abbattere le recinzioni.
I militari lo capirono in un baleno, perciò fu subito ordinato loro di prepararsi ad aprire il fuoco in caso la folla fosse diventata violenta. In oltre non dovevano passare. Il capitano del battaglione al posto di blocco ordinò immediatamente di caricare le armi dato che sicuramente le avrebbero dovute usare.
Harris deglutì a fatica. Non aveva mai sparato su delle persone, l’avrebbe fatto se glielo avessero ordinato, ma comunque sia non sarebbe stato facile. Paul invece sembrava tranquillo, anzi quasi eccitato dalla situazione che avrebbe previsto l’uso di armi da fuoco sui civili disarmati. Iniziarono ad ammassarsi contro la recinzione anche ferendosi a contatto con il filo spinato sulla sommità, mentre i soldati li tenevano lontani colpendoli con il calcio del fucile oppure con dei manganelli. Una donna cominciò a urlare –Bastardi! Non potete farci morire così! Lasciateci passare!- Molti altri civili si unirono alla protesta –Fateci passare! Ci uccideranno tutti! Fateci passare bruttissimi stronzi!- Iniziarono a spingere facendo vacillare le recinzioni, iniziando a farle smuovere per abbatterle definitivamente. Il capitano allora, dopo aver preso in mano un altoparlante avvertì la folla –Se tentate di passare saremo costretti ad aprire il fuoco! Ripeto se tentate ancora di passare apriremo il fuoco- La folla lo ignorò mentre in lontananza si iniziavano a sentire le grida di dolore delle persone ormai già preda dei non-morti. Continuarono a spingere le recinzioni fino a che non cedettero e con un tonfo caddero a terra. Contemporaneamente fu dato l’ordine. Fuoco a volontà. Inizio a piovere piombo sui civili, sterminandoli e trucidandoli nel tentativo di tenerli indietro. Ma erano numericamente molti di più rispetto ai militari.
Harris premette il grilletto abbattendo uno, due, tre civili di seguito. Era nervoso, ma era un soldato ed eseguiva gli ordini.  Premette nuovamente il grilletto dopo aver preso la mira su un uomo di mezza età che portava in testa un berretto dei Lakers. Questo particolare gli rimase impresso nella mente senza che nemmeno lui sapesse precisamente il perché. Paul di fianco a lui sparava come se davanti a sé avesse dei morti viventi e non delle persone umane e… ancora vive. Ad un tratto, però, gli stessi militari capirono che la folla era troppo numerosa per tenerla lontana sparandogli contro, perciò, dopo aver visto che molti civili attaccavano i soldati malmenandoli e uccidendoli utilizzando armi di fortuna, sena più riuscire a contenere quella massa di persone, comunicò via radio all’oasi la notizia che era appena avvenuto il Broken arrow: il fronte era spezzato. Subito dopo si ordinò la ritirata dietro al muro.
Tutti i militari salirono in fretta sui camion e sui mezzi blindati per andarsene il più in fretta possibile. Harris sparò ancora contro altri due civili, dopodiché si voltò ed iniziò a correre verso il mezzo più vicino. Dopo aver percorso qualche metro, però, si accorse che dietro di sé non aveva Paul dato che era rimasto a sparare sulla folla. Tornò indietro ma prima che potesse tirarlo via da quella posizione, qualcuno colpì il suo commilitone sull’elmetto, utilizzando una spranga di ferro. Lui cadde a terra intontito ma non ferito grazie alla protezione del copricapo in kevlar che mostrava una grande ammaccatura nel punto in cui fu colpito. Harris subito alzò il fucile e, prima che l’aggressore menasse un altro colpo ai danni del militare a terra, lo freddò sparando alcuni colpi nella sua direzione. Si inginocchiò immediatamente di fianco al compagno, controllando se fosse ferito –Ehi Paul! Cazzo dobbiamo andarcene! C’è l’ordine di ritirata! Ci lasciano qui se non andiamo!-
-Sì, cazzo... andiamo- Si alzò a fatica, mentre Harris gli porgeva un spalla per aiutarlo a muoversi e nell’altra mano teneva la pistola d’ordinanza, per tenere lontani gli aggressori. Iniziarono a correre verso il mezzo di trasporto più vicino, uno degli ultimi rimasti nella zona: un blindato. Continuarono a muoversi mentre intorno a loro i civili iniziavano a correre verso l’alto muro. Harris continuava a muoversi con fatica verso il retro del blindato dove vi era il portellone di metallo. Arrivò al suo obbiettivo e salì in fretta, aiutando a sedere Paul su un sedile laterale. A bordo del blindato vi erano altri quattro soldati che tenevano lontani i civili che volevano salire, a volte anche sparando. Harris allora disse –Vogliamo andarcene?!- Il soldato di fianco a lui allora lo guardò e disse –Ha ragione, cazzo! Usciamo da questa situazione di mer… - Un uomo grosso come un armadio lo prese alle spalle e lo tirò a sé. Harris allora si avventò sull’aggressore tirandogli un pugno sul viso mentre un altro suo compagno dava una mano al soldato attaccato a risalire sul mezzo. Poi Harris si ritrovò dinnanzi improvvisamente un non-morto. Sgranò gli occhi più per la sorpresa che per lo spavento e restò esterrefatto quando vide la sua testa perforata da un pallottola che, uscendo, si portò via la poca materia cerebrale che gli rimaneva.
Si voltò e vide Paul, con in mano la pistola con cui aveva appena sparato. Harris salì e, premendo un pulsante rosso sulla parete metallica chiuse il portello automatico mentre i morti viventi avevano ormai raggiunto anche quella posizione. L’autista fece manovra, probabilmente investendo qualche zombie ma infine riuscì a girare il mezzo nel verso giusto, mentre un altro soldato comunicava con una radio –Qui mezzo blindato codice 1127, siamo ancora sul luogo del posto di blocco, richiediamo apertura immediata delle porte di ferro, arrivo al muro previsto in quaranta secondi.-
L’autista accelerò ancora, prendendo altra velocità, mentre ai lati della strada, per non essere investiti, correvano a più non posso tutti i sopravvissuti che si dirigevano al muro nella flebile speranza di mettersi in salvo all’interno dell’oasi.
Il rombo motore era quasi assordante e Harris guardava, attraverso i finestrini anteriori, il grande muro di cemento armato, simbolo di confine universale fra la vita e la morte, la salvezza e il caos.
L’autista accelerò nuovamente fino a che non arrivò nei pressi della porta principale. Era aperta, ma i militari si stavano apprestando a chiuderla. Un soldato fece segno al mezzo di muoversi a raggiungerlo altrimenti sarebbe rimasto chiuso fuori. Allora il pilota diede gas e prosegui ancora, fino a che non superò la pesante porta e si ritrovò all’interno. Harris tirò un sospiro di sollievo, mentre Paul apriva il portellone premendo il pulsante. Scesero tutti e sei e notarono che le porte erano state chiuse appena dopo la loro entrata: pochi secondi dopo e sarebbero rimasti fuori.
Dopo pochi minuti le urla di protesta della folla appena oltre il muro furono sostituite dalle urla di terrore e dolore delle persone morse e attaccate dai morti viventi.
Harris ripensò molto a quelle urla.
Erano salvi per il momento.
Ma quanto sarebbe durato?
 
Fino all’ultimo colpo
 
Non ho paura. Ho già passato situazioni analoghe a questa. Bè certo, ora sto per morire e non mi è mai capitato, ma non è niente di molto diverso dal solito. Ricarico il fucile, inserendo il proiettile nell’apposito vano, dopodiché mi appresto a prendere la mira. Là sotto sono a decine, se non centinaia. Premono tutti sulla porta barricata. Probabilmente non la butteranno giù prima di altri tre o forse, se mi va bene, quattro minuti. Miro ad un non-morto con dei baffi neri che mi piacciono molto. Il puntino rosso al centro del mirino ad ottica ACOG e precisamente posto in mezzo ai suoi occhi. Inizio a premere il grilletto lentamente, senza strappare e il proiettile parte e in meno di un secondo gli ha già trapassato cranio e cervello uscendo dalla nuca, facendola esplodere in mille pezzi e portandosi dietro brandelli di carne e pelle che volano addosso agli zombie dietro di lui. Impressionante come un calibro 7.62mm possa fare così tanti danni. Ricarico inserendo un altro colpo nel mio fucile M24. Lo rialzo, appoggiandolo di nuovo sul davanzale della finestra e prendo nuovamente la mira puntando questa volta ad una donna in minigonna e camicetta scollata. Prima di essere morsa probabilmente era una gran figa. Il pallino rosso questa volta le è precisamente al centro della fronte e subito premo il grilletto, senza aspettare inutilmente. Come il colpo precedente, anche questo trapassa l’obbiettivo. Prendo in mano il fucile e lo metto a terra, mentre appoggio la schiena al muro. Lì di fianco ho la bottiglia di birra che devo ancora stappare. Però non ho a portata di mano l’apri-bottiglie e sinceramente non ho voglia di andarlo a prendere. Allora mi prendo una sigaretta dal pacchetto che ho in tasca e l’accendo. Faccio un tiro mentre sento che ormai sono praticamente entrati. Mi alzo in piedi con calma e mi avvicino alla porta. Controllo al piano di sotto e noto effettivamente che ormai sono dentro. Chiudo a chiave la porta e ci sposto davanti un comodino, nel tentativo di sbarrarla ulteriormente e darmi un po’ di tempo in più per riflettere. Mi siedo di nuovo, questa volta appoggiando la schiena al muro opposto alla porta. Estraggo dalla fondina il revolver che tengo per le occasioni speciali e inizio a pensare, mentre quei bastardi cominciano la loro sinfonia di colpi per buttare già l’unica barriera che li divide dalla loro preda succulenta: me.
Continuo a penare da ormai qualche giorno, che forse sono davvero l’ultimo uomo su questa cazzo di Terra. È una cosa che mi terrorizza e mi fa incazzare al tempo stesso. Però ormai chissenefrega, fra poco non ci sarò più neppure io. Con un ennesimo colpo sfondano alcune assi e in un attimo entrano uno alla volta. Io alzo la canna della mia pistola ed inizio a sparargli contro. Ne colpisco uno alla testa, un altro alla spalla, un altro ancora al petto. Poi, vedendone arrivare molti altri mi fermo per un secondo e rifletto chiedendomi: perché sto sparando?
Non ho nemmeno il tempo di rispondere alla mia domanda perché uno di quei cosi mi prende alla gola e comincia a sgozzarmi, mentre altri due mi mordono le gambe ed altri ancora le braccia. Che fine di merda, mangiato vivo da esseri ormai morti.
Una fine di merda, per una vita di merda.
 
Il cesso della morte
 
Sono qui dentro da circa un’ora. Là fuori saranno almeno un centinaio. Sono in trappola, non c’è modo di uscire da questo cesso se non da quella cazzo di porta. Non vi è nemmeno una diavolo di finestra. Li sento muoversi qui fuori, qualche volta anche ringhiare e battere contro la porta. Ho sbirciato più e più volte attraverso la toppa e fuori si vedono solo un mare di quei bastardi.
Mi rimangono ormai solo tre colpi della pistola. Sono fottuto. Che schifo, una vita passata a servire i civili come poliziotto e ora mi ritrovo a dover crepare in un cazzo di cesso di un cazzo di bar di provincia. Che merda! Sono costretto a passare gli ultimi attimi della mia cazzo di vita in un dannato cesso di provincia! Dio! Non mi farò mettere nel sacco, loro non riusciranno a fottere il sottoscritto, no signore! Io la faccio finita, quei cazzo di zombie alla G. Romero ce l’avranno nel culo perché non mi mangeranno! Porci schifosi. Io mi ammazzo con le mie mani! Non mi toccheranno mai con le loro sudice e puzzolenti. Estraggo questa cazzo di pistola dalla fondina e mi metto la canna in bocca. Io morirò, ma almeno sarò io stesso ad uccidermi. Penso di essere ammattito, ma che mi importa?! Tanto il mondo ormai è a puttane! Viva la pazzia! Ora basta dire cazzate, premo il grilletto.
 
Nessuno toccherà l’altare!
 
Chiesa del Sacro cuore di Gesù: Madrid
Don Carlos Huegò stava inginocchio di fronte all’altare, con le mani giunte e il capo chino, a pregare. Non faceva quasi nient’altro negli ultimi mesi, da quando erano iniziati i disordini e i morti erano tornati sulla Terra. Gran parte della popolazione mondiale è ormai trasformata, infettata dal morbo che i morti trasmettono attraverso il loro morso.
Il prete continuava a pregare mentre, da fuori, provenivano i versi e le urla di quei mostri che tentavano in tutti i modi di entrare. Le porte, anche se di legno spesso, stavano per cedere. Per questo il prete pregava con tanta concentrazione. Era la concentrazione prima della battaglia. Prima dello scontro con i demoni, dello scontro con le armate di Satana inviate sulla terra per distruggere l’umanità e sconfiggere le schiere celesti del signore Gesù.
Don Carlos stava recitando un'altra “Ave Maria” quando si sentì lo scricchiolio delle porte di legno che si scardinavano. Poi vi fu il tonfo di quando caddero a terra.
Il prete si fece il segno della croce e baciò l’altare, mentre alcuni non-morti facevano irruzione all’interno della casa del Signore. Huegò non aveva paura. Aveva la protezione di Cristo dalla sua parte. E quella di una carabina Benelli modello R1 Comfortech 338. Prese la mira ed urlò –Bruttissima bastardi! Demoni e diavoli dannati! Morirete tutti, vi rispedirò da dove siete venuti: all’inferno!- Iniziò ad aprire il fuco colpendo i primi due in rapida successione, ricaricò in un attimo, poi volse lo sguardo a destra e ne colpì un altro che lo stava aggirando, si rigirò a sinistra e, posizionando la canna sotto al mento di un morto vivente che gli era ormai troppo vicino per poter distendere il fucile, premette il grilletto. Ricaricò, inserendo i pallettoni nei due buchi, uno sopra all’altro, e richiuse la parte anteriore dell’arma con un sonoro “click” poi si voltò ancora e riprometti il grilletto puntando ad una donna infettata ad una decina di metri da lui, ma sbaglio mira, colpendo il muro rivestito con lastre di marmo appena dietro al cadavere. Con l’altro colpo che aveva in canna però centrò il bersaglio.
Alcuni non morti si avvicinarono all’altare e lui, spaventato ed infuriato gridò –Nessuno toccherà l’altare!- E si avventò su di loro, tenendo il fucile per la canna e colpendoli con il calcio a mo’ di clava. Fracassò il cranio ad uno di loro e, con un colpo menato orizzontalmente, centrò alla gola un non-morto probabilmente di origini africane dato il colore della sua pelle, che andò a terra. Un altro cadavere lo prese, però, da dietro le spalle e lo tirò a sé, nel tentativo di morderlo alla gola. Ma lui fu più veloce nel reagire, tirandogli una gomitata allo stomaco e finendolo con una ginocchiata al viso.
Ormai i non-morti all’interno della chiesa erano a decine e il prete, senza avere più armi prese in mano il crocifisso e lo innalzò in direzione degli zombie dicendo –Che la potenza di cristo vi fulmini! Demoni del diavolo impostore e traditore!- Ma uno cadavere lo prese fra le braccia e lo morse su un fianco, più o meno all’altezza delle costole. Lui urlò per il dolore e, con un poderoso pugno alla nuca, se lo allontanò di dosso, continuando a combattere con le unghie e con i denti per non permettere a quei mostri di vincere quella battaglia contro il Cristo. Nessuno avrebbe toccato l’altare.
Finché il prete non fosse morto.
 
 

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Capitolo 2
*** Parte 2 ***


Pandemia
Giorno 1: Questa mattina siamo andati a sciare. È stato bello, ci siamo divertiti molto, considerando che ieri, una volta arrivati qui, avevano già chiuso la pista. Bè però oggi ci siamo rifatti. Ho sciato per tutta la mattina, poi ci siamo mangiati un bel piatto di polenta e ossobuco, da leccarsi i baffi!
Oggi pomeriggio abbiamo sciato ancora un paio d’ore e poi siamo andati a fare un giro in paese. Non è un granché, però c’è qualche negozietto carino, perciò porterò a casa qualche souvenir per mamma. Bé ora vado, Sara mi sta chiamando. A presto!
 
Giorno 2: Oggi è stata dura. Abbiamo acceso la TV appena ci siamo svegliati, verso le 9:00 e, girando su telegiornale abbiamo scoperto della pandemia. È qualcosa di terribile. Anche se in realtà non ci abbiamo capito molto, da ciò che ho sentito vi sono stati dei casi sparsi un po’ in tutto il mondo, Stati Uniti e Cina in primis, in cui delle persone hanno avuto degli strani attacchi epilettici, delle febbri molto alte ed infine è sopraggiunta la morte. È una cosa spaventosa, si parla che già che circa 4000 persone siano morte in tutto il mondo! E tutto questo in una sola notte!!! È qualcosa di… davvero spaventoso. Oggi non siamo andati a sciare, anche perché non sanno ancora se la malattia è solo in questi stati oppure… bè se è arrivata anche qui da noi. Per questo siamo rimasti in albergo, stando chiusi in stanza per tutto il giorno praticamente. Ho anche telefonato a mia mamma per chiederle se lì da lei è successo qualcosa e mi ha rassicurato che andava tutto bene. Speriamo sia vero. Sara invece è molto spaventata. Siamo rimasti praticamente un ora abbracciati sul letto. Ha troppa paura, lei ha tutte le fobie possibili, fra le quali proprio quella delle malattie. Se poi vi è un’infezione su vasta scala come quella che vi è al momento allora davvero è pietrificata. Si vedrà domani com’è la faccenda. Probabilmente domattina toniamo a casa.
 
Giorno 3: Ho paura. Ora ce l’ho anche io. Alla televisione hanno appena annunciato che in America c’è l’allerta nazionale, mentre in Cina c’è appena stato un colpo di stato. I morti sono saliti a 20.000 un numero troppo alto per pensare che sia una cosa passeggera. Cosa ancora peggiore? Si è verificato un caso anche qui in Italia, a Palermo. Un uomo ha avuto gli stessi sintomi, è stato messo immediatamente in quarantena insieme a tutte le persone che hanno avuto degli stretto contatti con lui nelle ultime 24 ore. Merda! Ho idea che però rimarremo qui. È troppo pericoloso andarsene, preferisco rimanere, tanto è un paesino piccolo, ci saranno al massimo cinquecento abitanti più un migliaio di turisti, niente di più siamo fuori stagione. Volevo chiedere a mia mamma se fosse venuta qui da noi ma… chiedere a lei di spostarsi è come chiedere a un elefante di volare. Speriamo che vada tutto bene. Domani ti saprò dire altro.
 
Giorno 4: Oggi è iniziato, iniziato il disastro, la catastrofe. Appena abbiamo riacceso il televisore abbiamo visto immagini scioccanti provenire da tutto il mondo: ovunque si parlava di cadaveri che uscivano dalla terra, ritornando nel mondo dei vivi e attaccavano ogni essere si trovassero di fronte, una cosa davvero agghiacciante. Tutti i malati sono morti e n breve sono come resuscitati, trasformandosi però in mostri cannibali e senza cervello o anima. È una cosa impensabile, insomma si parla di esseri alla George A. Romero! Inizialmente pensavo fosse un cazzo di scherzo di qualche giornalista stronzo, ma invece era tutto vero, è tutto vero! Cazzo abbiamo parlato con la reception dell’hotel e non hanno saputo dirci niente, non sanno nulla nemmeno loro. Però vogliono chiudere l’albergo, barricarsi all’interno. Io però non voglio rimanere qui, devo portare via Sara. Sto pensando che cosa fare, dove andare ma, insomma è qualcosa di più grande di me. Più grande di tutti noi. Soprattutto più grande di Sara, che non fa altro che stare seduta sul letto a gambe incrociate con lo sguardo fisso al pavimento. È terrorizzata. E lo sono anche io.
 
Giorno 5: Ce ne siamo andati via. Abbiamo abbandonato l’hotel, non voglio rimanere chiuso lì! Ora stiamo scappando ancora più su, verso le cime, per poter trovare magari un luogo più sicuro, una baita, per poter chiuderci dentro e stare lì e vedere come andranno le cose. Siamo passati in mezzo al paese ma le strade erano vuote, completamente, tutti scappati o chiusi in casa. Ci siamo fermati davanti ad un mini-market e abbiamo preso un po’ di roba. Il negoziante sembrava l’unico un po’ calmo. Abbiamo preso molta acqua e alcuni cibi in scatola, roba già pronta per poter mangiare pasti veloci. Abbiamo preso anche svariate barrette energetiche, ci possono sempre tornare utili. Come ultima cosa ho acquistato anche un’accetta per la legna, non si sa mai che… cazzo non voglio pensarci. Per adesso ci stiamo spostando attraverso delle stradine. Sara sembra essersi un po’ ripresa dallo shock iniziale ma ha ancora tantissima paura. Speriamo vada tutto bene. Ora mi rimetto alla guida.
 
Giorno 6: Ieri sera siamo arrivati qui, in questa baita. L’abbiamo trovata abbandonata, senza nessun segno che qualcuno se ne sia andato via da poco. Perciò ci siamo fermati. La macchina l’abbiamo posteggiata nel box. Abbiamo messo via l provviste nelle dispense e abbiamo acceso il televisore, uno di quelli vecchi, ancora che le antenne. Abbiamo tentato di captare un segnale ma niente, allora abbiamo provato con la radio che abbiamo trovato e questa volta ce l’abbiamo fatta. Hanno annunciato l’allerta nazionale. Il ministero della sanità dice che la malattia sembra non essere arrivata qui da noi, almeno non come in altri stati. Però abbiamo sentito altre notizie che annunciavano che anche i morti qui da noi hanno iniziato ad uscire dalle loro tombe, Cristo! Papà…
Ho provato anche a chiamare mamma ma non ha risposto. Ho paura che le sia successo qualcosa. Spero con tutto me stesso che non sia così, non lo sopporterei. Sara come me teme per i suoi famigliari, anche per sua sorella, che abita in Francia. Non so come vanno le cose là da loro. Spero siano messi meglio di noi. Se così fosse non ci vorrebbe molto a raggiungere il confine e espatriare. Speriamo.
 
Giorno 7: abbiamo captato un altro segnale, questa volta proveniente da una radio belga, io non capisco molto di francese ma Sara lo conosce un po’ di più, e da quello che ha capito anche in Belgio sono nella merda. Ho sempre più paura.
 
Giorno 8: Oggi mi sono alzato con il raffreddore. Che merda la montagna, poi ho sempre odiato le Alpi. I collegamenti radio oggi sono saltati. Non siamo riuscita a captare nemmeno un cazzo di segnale. Sta iniziando.
 
Giorno 9: : Sara non sta molto bene. Questa notte ha iniziato ad avere freddo, molto freddo, anche se qui abbiamo la stufa e la teniamo sempre accesa. Non so il perché.
 
Giorno 10: Oggi è a pezzi, è rimasta a letto tutto il giorno. In più dobbiamo razionare ancora le provviste che sono sempre meno!
 
Giorno 11: : Ieri Sara… ha avuto un attacco epilettico. Lei non ne soffre e non ne ha mai sofferto, solo che ieri sera, verso le 21 forse ha iniziato a stare molto, molto male, si rigirava nel letto in un bagno di sudore e in un attimo ha cominciato a saltare, come se fosse stato un pesce fuor d’acqua. Infine la schiuma. Sembrava un cane con la rabbia. È stato terribile. E oggi è ancora più terribile. Sta morendo. Si è presa la malattia.
 
Giorno 12: Si è trasformata. Dopo essere morta, sono passati sì e no cinque o forse sei secondi e ha riaperto gli occhi. Ma erano vitrei, senza anima. Non ho potuto fare altro che usare l’accetta. Sono distrutto. Ma sono sicuro che lei ora potrà riposare in pace.
 
Giorno 13: Non ho un cazzo da dire.
 
Giorno 14: Basta, basta con tutta questa merda!
 
Giorno 15: Voglio farla finita
 
Giorno 18: Ieri mi è venuta la febbre e, poi, anche un attacco di epilessia. Penso proprio di essermela preso anche io.
 
Giorno 19: Queste sono le ultime parole che scriverò, non penso che qualcuno leggerà mai il mio diario ma, nel caso, vi lascio il mio ultimo pensiero prima che la morte mi prenda: ho vissuto una vita molto bella, a fianco dei miei cari, ho conosciuto una persona stupenda, Sara Ursini, a cui avevo idea di chiedere di sposarmi entro qualche giorno, al rientro dalla settimana bianca. Ho avuto anche un cane Bobby, un pastore tedesco che in questi giorno avevo lasciato ai miei vicini di casa. Ora, sto per chiudere gli occhi. Non riesco più a tenerli aperti, le palpebre sembrano dei macigni. La cosa più brutta di morire però è una sola: sapere che dopo ritornerò.
 
Il sangue dei morti
 
Voglio raccontarvi la mia storia. Una storia molto particolare, spaventosa se vogliamo. Ma a cui io non ho saputo dare spiegazione in alcun modo.
Lavoravo come becchino ma faccio anche da custode di un piccolo cimitero del Texas, in un paesino un po’ fuori Houston. Come ho detto era un cimitero piccolo, con un centinaio di tombe più o meno. Non morivano molto persone e questo poteva essere un bene per gli abitanti, ma non per me. Io lavoravo a braccetto con la morte, niente morti? Niente soldi nelle mie tasche, semplice.
Così ogni giorno speravo sempre che morisse qualcuno. E un giorno qualcuno morì. Era una donna. Molto anziana, sui novant’anni circa. Aiutando le pompe funebri della cittadina vicina seppellimmo la vecchia in una tomba nella terra e la ricoprimmo. Fui pagato subito della mia quota e ne fui molto contento, perché finalmente portavo a casa qualcosa. Lo so, non sono mai stato un brav’uomo anzi, mi autodefinivo uno stronzo senz’anima. Ma ero un becchino. Lavoravo a stretto contatto con la morte. Lei era la mia più grande compagna.
Ogni notte, faccio un giro fra le tombe e poi chiudo i cancelli e me ne torno nella mia casa del cazzo, piccola e puzzolente, vicino al cimitero.
Una notte rientrai a casa, mi preparai la cena e mangiai. Poi lessi un po’ un libro e me ne andai a letto. Prima di addormentarmi però, iniziai a sentire degli strani rumori molto forti e fastidiosi, provenire dall’interno del cimitero. Mi alzai e indossai i primi vestiti che mi vennero sotto mano. Uscii, immaginando si trattasse di qualche ragazzino che voleva fare una sorta di “prova di coraggio” entrando da solo nel cimitero a notte fonda. Mi sono subito diretto verso il cancello con le chiavi dell’lucchetto in mano e sono subito entrato cercando la fonte di quel rumore. Mi sono aggirato fra le tombe, senza nemmeno aver pensato di portare una torcia. Perciò raggiunsi il piccolo capanno degli attrezzi, presi la torcia e l’accesi puntandola verso le tombe. Urlai più volte frasi tipo “C’è nessuno?!” o “Se ti trovo qui ti giuro che va a finire male!” Giusto per spaventare un po’. Infine però capii. Ad un tratto sentii quei rumori appena dietro di me, mi volti di scatto e, improvvisamente, vidi uscire una mano dalla terra, con le cinque dita bene aperte. Poi uscì anche la testa e le spalle di quel cadavere che riconobbi come il signor Stuart, che seppellii pochi mesi prima. Rimasi di stucco, guardandolo spaventato, mentre usciva totalmente dalla sua bara. Poi iniziarono ad uscire anche tutti gli altri, a poco a poco, formando una vera a propria “armata delle tenebre” che voleva prendere la mia anima e trasportarla con loro nel mondo dei morti. Io d’istinto iniziai a correre verso il cancello, per uscire e chiedere aiuto, ma vidi che la strada era ostruita da diversi di quei “cadaveri viventi” che si muovevano minacciosamente verso di me. Allora piegai a destra e mi diressi di corsa verso il capanno, dove avrei potuto trovare un oggetto contundente di qualche tipo, per tenermi lontano quegli esseri, quegli… zombie. Presi la pala con cui scavavo sempre le buche e iniziai a menare colpi su colpi per tenermi lontano quella marea di cadaveri ambulanti che mi venivano incontro. Colpii il signor Stuart alla tempia, staccandogli la testa dal collo. Poi colpii ancora un’altra donna che mi veniva incontro, e poi ancora, ancora e ancora.
Fino a quando, ormai stremato, mi venne incontro la vecchia signore che avevo seppellito la mattina stessa. Mi veniva incontro e, a parte gli occhi vitrei e bianchi, sembrava quasi che fosse ancora viva. Caracollava verso di me penzolando le mani. Altri zombie intanto si avvicinavano. Non sarei mai riuscito a combatterli tutti. Chiusi gli occhi, aspettando l’inevitabile quando… la donna mi venne contro, sparendo all’improvviso e sussurrando “Sei tu che hai voluto la mia morte…”.
Quando riaprii gli occhi tutto era tornato normale. I cadaveri erano ancora all’interno delle loro bare, ma io tenevo in mano la pala che guardai attentamente: era chiazzata di sangue. Il sangue dei morti.
Forse non credete che questa storia sia accaduta veramente eh? Bè, sappiate soltanto che io abbandonai quel lavoro e mi trasferii, cercando la risposta alla mia domanda: successe davvero quella notte? Oppure fu solo un incubo? Non so se avrò mai una risposta. Forse quando morirò lo scoprirò…
 
Resistenza: Parte 1
 
Pedalo, mentre la leggera brezza di metà settembre mi sfiora il volto. Percorro le stradine di campagna, fra i campi, dirigendomi verso la base. Ho appena fatto un sopralluogo. “Niente di nuovo sul fronte Occidentale” mi verrebbe da dire. Effettivamente è così. Niente di nuovo tranne i soliti ammassi di carne marcia e putrefatta che si reggono a stento sulle gambe. Ma andiamo con ordine: Circa un anno fa, una maledizione si abbatté sulla terra e i morti iniziarono ad uscire dalle loro tombe, come resuscitati, con il solo obbiettivo, ovvero cibarsi di carne umana. In tutti il mondo i governi tentarono, spiazzati dalla precipitosità della situazione, di fermare questa piaga, utilizzando gli eserciti e organizzando i militari per dichiarare guerra ai morti. Ma naturalmente tutto fu un fiasco. Tutti gli stati resistettero uno o forse due mesi, dopodiché i governi si sciolsero ed iniziò una guerra per la sopravvivenza. Molti battaglioni si barricarono nelle rispettive caserme per resistere a oltranza, mentre altri semplicemente fuggirono via. E questo accadde anche qui in Italia. Inizialmente la polizia e i carabinieri tentarono di svuotare i vari cimiteri, ma fu tutto inutile. A poco a poco tutte le istituzioni principali caddero inesorabilmente e, mentre la popolazione continuava a calare, molte persone si riunirono in piccoli gruppi per resistere. Questi ultimi, comunicando fra di loro iniziarono la difesa. Siamo noi. Siamo la resistenza. Io mi Chiamo Francesco, soprannominato “La bestia”. Nome azzeccato è? Bè, io sono una delle pattuglie, qui nella zona, nella pianura padana vi sono una decina di avamposti. Io insieme ad un gruppo di altre quindici o venti persone ne occupiamo uno. E lo difendiamo ad oltranza.
Ora sto pedalando la mia mountain bike per raggiungere la base avanzata. Non servono mezzi molto veloci per spostarsi. Gli zombie sono lenti, non innocui, assolutamente, ma lenti. Molto lenti. La base la tengono Alessandro e Davide due gemelli, nati il giorno dopo che sono nato io. Eravamo tutti e tre alle medie insieme. Poi ci siamo divisi ed io sono andato al classico. Dimenticavo, ho 18 anni. Ne avevo quasi 17 quando è iniziata.
Quelli intorno a me mi danno un’occhiata veloce, tentano di venirmi dietro per qualche metro, ma quando vedono che mi allontano troppo, mi lasciano perdere e continuano a fare le stesse cose che fanno da sempre: guardarsi intorno in cerca di umani da trucidare. Impressionante è? Bé è così. Girò il manubrio e tiro i freni, faccio una breve sgommata con la ruota posteriore e mi fermo. Scruto l’orizzonte per gli ultimi sopralluoghi mentre mi dirigo a casa. Niente, niente di nuovo. Nessuna macchina che sfreccia sulla strada, nessun sopravvissuto che fugge disperato mentre è inseguito da decine di non-morti, niente di niente. Solo il nulla e gli zombie in lontananza. Il paesaggio sembra quasi una vignetta di qualche albo di Dylan Dog. Solo che questa è la realtà.
Riprendo a pedalare attraverso il sentiero ghiaioso fra i campi che uso sempre come scorciatoia per raggiungere il rifugio. Uno zombie è proprio in mezzo. Non riesco a passarci vicino perché la stradina è troppo stretta. Freno e scendo, tiro fuori dal marsupio a tracolla la piccola pistola che porto sempre con me, è una pistola di quelle per auto-difesa, non so nemmeno qual è il nome del modello dato che l’avevo presa ad un uomo morto che aveva cercato di difendersi da quei cosi. Inserisco un caricatore e prendo la mira, puntando alla testa. Chiudo un occhio per aiutarmi, poi premo leggermente il grilletto, con calma e il colpo parte. Arriva al bersaglio trapassandogli l’occhio destro. Il cadavere cade a terra, con a faccia in avanti. Geme e ringhia ancora, è debole, ma “vivo” se così possiamo dire. Basta poco per finirlo. Mi avvicino con cautela, gli punto la pistola alla nuca e sparo di nuovo. Rimonto in sella alla bici e riparto sfrecciando.
La casa è appena infondo alla strada, ancore poche pedalate e ci sono. Giro leggermente il manubrio a sinistra e sterzo di lato per schivare uno zombie piantonato nel bel mezzo del percorso. Arrivo appena davanti alla porta, frenando sulla ghiaia, scendo dal bicicletta e la appoggio al muro, poi suono il citofono per avvertire del mio arrivo. Sento il tipico “bzzz” che segnala l’apertura della porta e, senza pensarci due volte entro e richiudo l’entrata alle mie spalle. Come base operativa l’avevamo scelta appositamente per la sua sicurezza: due piani, una porta blindata all’entrata della palazzina e una all’entrata dell’appartamento che fungeva da base, in oltre alle finestre (che sono posizionate ad almeno tre o quattro metri di altezza) vi sono delle inferiate di ferro battuto, molto resistenti e praticamente indistruttibili per gli zombie. Salgo le quattro rampe di scale e, una volta in cima ho il fiatone. Immediatamente mi apre la porta Alessandro che mi accoglie calorosamente –Ehi Fra! Com’è andato il giretto?-
-Tutto bene, grazie. Il solito.- Entro e lui chiude la porta alle mie spalle. Poi, appena faccio qualche passo mi viene incontro Macchia, il loro cagnolino che inizia ad abbaiarmi e a scodinzolarmi contro –Ciao Macchia! Come stai oggi?- Mi inginocchio e lo accarezzo sulla testa. Poco dopo da una stanza esce Davide che stava ascoltando musica dato che ha un paio di auricolari nelle orecchio –Ehi, ciao Fra-
-Ciao Davide, stai bene?-
-Eccome, come al solito.-
-Ehi Fra, novità dall’esterno?- Chiede Ale –No, niente di nuvo, il solito: zombie, zombie e… altri zombie!-
-Diamine!- Io sospiro, poi mi slaccio il marsupio e lo appoggio sul divano, prendo una sedia e mi siedo, chiedendo un bicchiere d’acqua. Bevo qualche sorsata veloce, giusto per dissetarmi e ristorare un po’. Riappoggio il bicchiere sul tavolo di legno e guardo in faccia i due gemelli, uno seduto sul divano, l’altro su una sedia di fianco a lui –E voi? Notizie con le radio?- Ad un tratto le due cocorite in gabbia cinguettano, come se stessero rispondendo al mio quesito. Sono sempre piaciuti gli uccellini a Davide. –No, non abbiamo sentito niente, siamo riusciti a comunicare con una postazione nell’interland di Milano ma niente di più-
-Come vanno là le cose?-
-Non meglio che qua, anche perché là sono praticamente a Rozzano e non c’erano pochi abitanti prima e poi con la vicinanza della metropoli… Sono nei casini.-
-E invece l’avamposto di Pavia?-
-Nulla. Il contatto radio con quello è praticamente morto. Non si sente più niente da una settimana circa. Ho paura che gli zombie siano penetrati. Mi sa proprio che quell’avamposto è caduto.-
-Merda- Alessandro allora interviene –Dovremo fare altre provviste entro un paio di giorni, che dici ti fermi qui e vieni con noi? Se ci stai andiamo domani mattina, ormai sono quasi le 18 e tra non molto sarà buio, non voglio rischiare di uscire adesso.-
-No tranquillo, ci sto. Andiamo domani. Però avreste un letto per me?-
-Spiacente amico, c’è il divano per te-
-Maledetto… e va bene mi accontenterò. Però il DVD da guardare lo scelgo io!- Tutti ridiamo. Sono bei momenti. Momenti felici, che ti fanno dimenticare ciò che ti sta succedendo intorno. Il problema è che durano troppo poco per goderli appieno. Poco dopo si deve ritornare alla realtà.
 
Stazione spaziale TC1
 
Sulla stazione spaziale TC1, i sette astronauti presenti, si chiedevano continuamente perché le comunicazioni fossero praticamente morte da circa tre giorni. Tutti e sette (tre americani, uno giapponese, uno francese, una italiana e un ultimo astronauta russo) si chiedevano che fine avessero fatto tutti. La stazione spaziale aveva a disposizione anche una capsula di rientro, in caso di guasti a bordo della stazione, per poter tornare sulla Terra prima del termine della missione scientifica in tutta sicurezza. Iniziarono a ragionare su un possibile rientro. Il problema era uno soltanto: chi sarebbe rimasto sulla stazione? Inizialmente si offrirono uno dei due americani e il giapponese, ma poi anche il francese volle rimanere a bordo. Per cui tutti gli altri quattro si misero le tute e salirono a bordo della capsula. Il rientro sarebbe durato all’incirca tre ore. Appena furono pronti partirono staccandosi come un appendice dal corpo artificiale che era la stazione. La discesa fu lunga e noiosa ma a bordo del mezzo vi era una grande tensione mentre, per l’ennesima volta, tentavano un collegamento con la stazione sulla Terra. Ma niente, nessuno rispondeva ai loro messaggi. Quando ormai si trovavano a poche centinaia di metri dal mare dove sarebbero atterrati, si aprirono i quattro paracadute che rallentarono drasticamente la loro velocità di discesa. Poi la capsula impattò con l’acqua immergendosi e ritornando a galla dopo pochi secondi, utilizzando il canotto di salvataggio che si trovava a bordo. I quattro astronauti uscirono fuori e, vedendo che si trovavano a poco più di duecento metri circa dalla costa, iniziarono a remare e ad avvicinarsi alla terra. Sbarcarono e, dopo aver tolto le tute ed essere rimasti con i completi di Nylon si diressero verso il primo centro abitato più vicino. Non vi erano mezzi di trasporto nei pressi, perciò si mossero a piedi. Camminarono per diversi chilometri, fino a che stanchi, sfiniti e distrutti non raggiunsero un piccolo paesino. Si addentrarono al suo interno e scoprirono qualcosa che non si sarebbero mai aspettati: era vuoto, completamente disabitato. Cercarono qualcuno, anche un civile per poter parlargli e contattare il centro di controllo terrestre della loro missione. Trovarono un’auto aperta, le chiavi erano a bordo. Presero seriamente in considerazione l’idea di prenderla e dirigersi alla città più vicina che, ad occhio e croce, doveva essere Miami, vista la zona dove si trovavano. Alla fine prevalse quest’idea, salirono a bordo e partirono ormai convinti che era successo qualcosa di davvero brutto. Subito pensarono ci potesse essere stato un attacco terroristico come l’11 settembre e perciò immaginarono che tutti gli abitanti si fossero diretti verso Miami. Ma nessuno di loro si spiegava il perché avrebbero dovuto fare una cosa del genere in quel caso. Le uniche risposte le avrebbero avute quando sarebbero arrivati sul posto. Le strade erano deserte. Nessuno si vedeva in giro. Era successo qualcosa di grave, troppo grave per essere presa alla leggera. Il cartello Miami apparve all’improvviso, e loro imboccarono lo svincolo dell’autostrada che li avrebbe condotti a destinazione. Però frenarono improvvisamente. Tutti e quattro rimasero spiazzati. Scesero dall’auto e rimasero a bocca aperta guardando in direzione degli alti palazzi e della spiaggia sabbiosa che si allungava verso il mare. Alte colonne di fumo nero si alzavano dalle case e dagli edifici in lontananza. Di fronte a loro, ad un centinaio di metri, si stendeva una gigantesca marea di persone, o almeno così sembravano. Erano molto strani, sembravano tutti feriti, sanguinanti. Si avvicinavano rapidamente, anche se non correvano. L’astronauta italiana sgranò gli occhi ed urlò appena vide che uno di quegli esseri si abbassò sul cadavere di un uomo che non aveva notato in precedenza, e iniziò a staccarsi un pezzo di carne e pelle dalla gola. Il sangue schizzò a fiotti, spargendosi per terra e trasformando l’asfalto da frigio scuro a rosso-vermiglio. La ragazza corse indietro, risalendo in macchina e mettendosi al volante, pronta a fare marcia indietro e fuggire via il più lontano possibile da lì. Un americano e Il russo la seguirono ma l’altro statunitense rimase fermo, a guardare. Lui era originario di Miami. La macchina partì via sfrecciando dietro di lui. Teneva gli occhi fissi sulla marea di quelli che sembravano… zombie. Li guardava con un misto di paura e rassegnazione. Rimaneva fermo, le braccia lungo i fianchi. Poi si sdraiò a terra e aspettò il suo momento. La Terra era perduta.
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Parte 3 ***


Liquidatori
L’aria calda era davvero torrida. Il cielo del tramonto, sfumato di colori variopinti, che andavano dal giallo paglierino al rosso sangue, passando da colori rosa pallido. Il cimitero era circondato da poliziotti e carabinieri. Vi era anche un blindato dell’esercito con a bordo quattro uomini che avevano il compito di supervisionare l’operazione. Oltre alle forze armate vi erano anche otto “liquidatori”, coloro che avevano il compito di sigillare definitivamente le tombe e i loculi con il cemento. I morti grattavano all’interno delle bare sotterranee e il rumore arrivava distintamente anche alle orecchie dei vivi. Le precauzioni per quei tipi di lavori non erano mai abbastanza, perciò avevano messo in quarantena una vasta area che circondava tutto il cimitero fino a cento metri di distanza. Era strettamente necessario preservare l’incolumità degli abitanti della città. Un piccolo gruppo di carabinieri si avvicinò al cancello principale. Lo aprì e lo superò dirigendosi verso le tombe lì nei pressi, le mitragliette spianate e pronte a fare fuoco. Avanzarono ancora di qualche passo, fino a che non si assicurarono definitivamente che il luogo era sicuro. Entrarono i liquidatori, seguiti da una decina fra carabinieri e poliziotti e dai quattro componenti dell’esercito. Fecero entrare anche le betoniere e la ruspa per gli scavi. Si avvicinarono immediatamente ad una prima linea di tombe. Il rumore dello sbattere contro il legno delle casse era orribile. I cadaveri viventi all’interno di esse probabilmente stavano impazzendo. La ruspa iniziò a scavare e a spostare cumuli e cumuli di terra per portare alla luce le bare: alcune erano marrone chiaro, altre ancora di un marrone più scuro, tranne una che, anche se logora e rovinata dalla terra, era bianca. Era sepolto un bambino morto ad appena quattro anni. Una bara era danneggiata e deteriorate e, da un piccolo buco, si poteva vedere l’interno. Il suo occupante, un uomo ormai decomposto da molto tempo, si muoveva con lentezza ma con un unico obbiettivo: sfondare la lastra di legno e uscire da lì. Iniziò subito la colata di cemento che iniziò gradualmente, a poco a poco, ad alzarsi sempre più finché non raggiunse l’altezza di un metro circa. Erano cementate. Non avrebbero più dato problemi. I liquidatori proseguirono il loro mestiere per tutte le altre file di tombe, mentre alcuni camion portavano via la terra che veniva estratta. In poco tempo finirono di cementare le ultime tombe nella terra. Il buio stava già oscurando le tombe coperte dal cemento. I liquidatori si diressero verso le cappelle per assicurarsi che le lastre di cemento già posizionate tenessero. “Era uno sporco lavoro, ma qualcuno doveva pur farlo” mai questa citazione era stata pronunciata tanto esattamente. Davvero uno sporco lavoro.
 
La gola del diavolo
 
Nevada, route 66
Viaggio sulla mia motocicletta a 100 miglia orarie. Il vento sferza la pelle delle guancie. Se tutto va bene, entro un paio di giorni arrivo alla mia destinazione. Alla mia meta. Alla gola del diavolo. Nome banale è? Lo so, ma alla fine non l’ho inventato io e, in un mondo popolato da zombie, tutto può sembrare banale. Laggiù si dice vi sia una colonia di sopravvissuti. Se ci credo? Sì. Che sia vero? Non lo so. Staremo a vedere. La lancetta della benzina è troppo in basso. Devo fare il pieno. Proseguo ancora per un paio di miglia sulla strada, tenendomi al centro, fra le due corsie. Tanto nessuno può dirmi di rispettare le regole. E nessuno le vuole rispettare. Intravedo il cartello: cinquecento metri e vi è una stazione di servizio. Accelero e imbocco lo svincolo che mi conduce al parcheggio. Non si vede anima viva. E per fortuna nemmeno morta. Assicuro a terra il cavalletto e smonto. Prendo la mitraglietta MP5 dal borsone di pelle attaccato ai lati, appena dietro al sellino. Inserisco un caricatore nuovo e controllo quanti mene rimangano: ancora nove. Dovrò fare rifornimento di munizioni tanto per stare sicuro. Avanzo con cautela verso il bar con le vetrine scure. L’arma spianata in avanti, il dito pronto a premere il grilletto. Ho imparato a non avere nessuna pietà. Se vedo un cane zombie: lo freddo. Se vedo una donna zombie: la freddo. Se vedo un bambino zombie: lo freddo. Non ho alcuna pietà per i non-morti. Mi dirigo con passo leggero verso la porta, Appoggio una mano sulla maniglia e tiro verso di me. Mi addentro all’interno, tenendo sempre puntato di fronte a me l’MP5. Avanzo facendo ancora qualche passo. Vediamo e trovo anche qualcosa da mangiare già che sono qui. Sugli scaffali vedo alcune barrette energetiche e qualche scatoletta di tonno che posso benissimo portare via. Però prima devo setacciare per bene l’edificio ed assicurarmi che non vi siano brutte sorprese. Avanzo ancora e apro un'altra porta che conduce al retrobottega e mi blocco come congelato. Dei rumori provengono dal bagno. Sembrano dei passi, seguiti subito dopo da alcuni ringhi soffocati. Mi avvicino alla porta. È socchiusa. La spingo in avanti con la canna del fucile e osservo uno spettacolo davvero macabro: uno zombie con un cappio intorno al collo, ormai spezzato, che sembra voler staccare da una trave del soffitto anche l’altra parte di cappio che si è spezzato sotto il peso del cadavere. Appena si volta e mi vede, comincia a ringhiare famelico. È pronto ad attaccarmi. Ma io lo anticipo. Con una raffica all’altezza della fronte gli scoperchio la calotta cranica staccando la parte destra della testa e facendola saltare in aria. Dopodichè, con un'altra raffica precisa e mirata lo colpisco al cervello aprendo un varco fra la massa rosea fino a far fuoriuscire i proiettili dalla nuca, portandosi dietro anche della materia organica che si spiaccica contro la parete dietro di lui. Il morto vivente cade a terra. Questa volta morto sul serio. La scena è una delle più stupide che io abbia mai trovata da quando questa piaga è iniziata: l’uomo, per sfuggire a quest’apocalisse in cui tornano in vita i morti, si impicca nel bagno della sua stazione di servizio, condannandosi al ritorno sotto forma di cadavere ambulante. Diventando uguale a coloro da cui voleva scappare. La stupidità delle mente umana può raggiungere livelli critici.
Prendo un sacchetto di plastica da dietro la cassa e lo riempio con le barrette e le scatolette di tonno, poi esco e mi dirigo di nuovo verso la moto. Metto a posto la mitraglietta e il sacchetto all’interno del borsone poi rimonto in sella, metto in moto e parto via rombando, dirigendomi vero la strada. Ancora un paio di giorni, forza. Speriamo che la colonia esista davvero.
 
Gita di sangue
 
Sei un boy scout. Devi tenere duro come solo i boy scout sanno fare! Devi tenere duro!
Quando abbiamo appreso la catastrofica e triste notizia eravamo fare una gita giù al fiume. Tutti noi del 5° squadrone scout delle marmotte. Anni componenti: fra 8 e 13. Io sono uno dei veterani. Un tredicenne. Ero in questo squadrone da ormai cinque anni e fra poco sarei passato al 5° squadrone lupi, fra i 14 e i 17 anni. Peccato che non lo sarò mai.
Quando tutto è accaduto, come ho detto, ci trovavamo al fiume. Quando ne venimmo a conoscenza ci eravamo fermati per una sosta in un piccolo tratto di sabbia grigia. Io ero seduto al fianco del nostro capo-gruppo, il signor Stewich. 26 anni di esperienza fra gli scout. Un grande uomo, senza dubbio, però quando scoprì, ascoltando il notiziario con la piccola radio che si portava dietro in ogni spedizione o gita le ultime notizie sbiancò di colpi. Su tutti i radio-giornali si parlava della piaga che stava accadendo: i morti si svegliavano nelle tombe. Nessuno sapeva spiegare cosa stesse succedendo e, inizialmente la prendemmo tutti come una bufala, tranne il capo-gruppo. Lui ci credeva. L’unica cosa da fare fu quella di chiamare il 911 per chiedere informazioni ma le linee erano tutte occupate. Maledizione quel momento fu un vero inferno, nello squadrone eravamo in tutto 41 ragazzi, 19 dei quali di otto anni che erano spaventati a morte ed io, facendo parte dei 10 tredicenni avevo il compito di tenerli calmi. Alcuni non riuscivano neppure a capire ciò che stava accadendo. Nemmeno io d’altronde. Forse all’inizio non diedi particolare peso alla cosa ma, appena me ne resi conto, allora fui anche io terrorizzato dalla situazione.
Il giorno dopo averlo saputo il capo-gruppo disse che saremmo tornati alla cittadine più vicina, ma prima dovevamo prendere dell’acqua. Io e altri tre miei coetanei accompagnammo una ventina di ragazzini più piccoli al fiume per riempire le loro borracce. Muovendoci in gruppo tenevamo gli occhi bene aperti. Passarono pochi minuti dal nostro arrivo all’acqua quando avvistammo una sagoma in lontananza. Si avvicinava, anche se con calma, era molto deciso nella sua direzione. Verso di noi. Subito i bambini si spaventarono. Dissi a un mio compagno di portarli indietro e di avvertire il signor Stewich, mentre io e Wills lo avremmo tenuto impegnato. Era una cosa che ci spaventava ma ci metteva adrenalina al tempo stesso. Era una cosa impressionante, davvero. Wills prese in mano un grosso bastone che raccolse a terra. Io invece estrassi dalla tasca dei pantaloncini il mio fidato coltellino svizzero e ne aprii la lama. Mi chiesi perché fossimo andati solo noi. Altri compagni potevano aiutarci ma invece erano scappati. La paura gli aveva attanagliato le viscere. Lui avanzava verso di noi e più si avvicinava più ci accorgevamo che perdeva sangue dal naso e dalla bocca. Era uno di loro. Si avventò su Wills che, pietrificato dalla paura, si era gettato a terra frignando. L’essere aveva iniziato a morderlo sulle braccia e sulle gambe mentre io, spaventato, lo osservavo tremante. Dopo pochi attimi mi riscossi e gli fui addosso impugnando il coltellino come fosse un pugnale tipo “Rambo”. Lo pugnalai alla gola facendone zampillare fuori un fiotto di sangue e continuai per diversi secondi, fino a che non sentii le urla del capo-gruppo farsi sempre più vicine. Stava venendo in nostro soccorso. Lasciai scivolare a terra il coltellino e mi guardai le mani: erano imbrattate di sangue. Mi sdraiai sull’erba, a pancia in su a guardare le nuvole. Non ero più una marmotta. Ero diventato un lupo. E solo in quel momento mi resi conto effettivamente che avremmo dovuto combattere per garantire la nostra sopravvivenza come specie.
 
Corridoio della paura
 
Era chiuso in quel bagno da quando era iniziata poche ore prima.
La sua professoressa aveva visto fuori dalla finestra l’onda di morti viventi in avvicinamento e, urlando per il terrore era fuggita via. Stava accadendo l’apocalisse. Tutti gli studenti avevano iniziato a scappare via, fuori dalla scuola, mentre quei cadaveri entravano e iniziavano a sfamarsi con le loro fresche carni. Luca era scappato via. La sua classe era al centro del corridoio. Si guardava intorno terrorizzato. Tutti fuggivano ma in realtà si avvicinavano ancora di più ad una morte rapida e dolorosa. Tentò di scendere le rampe che lo avrebbero portato alla porta principale, la sua salvezza ma un gruppo di zombie le stava salendo dirigendosi verso gli altri superstiti nel suo corridoio. Sul tavolo nell’atrio stavano alcuni di loro stavano sbranando il loro bidello. Le sue interiora erano cosparse sulle piastrelle del pavimento. Un conato di vomito gli salì su per la gola ma lui lo rispedì giù deglutendo alcune volte. Si voltò e si mise a correre verso l’unico punto che gli sembrava sicuro: il bagno. Entro nell’antibagno e chiuse la porta dietro di sé, dopo aver sbirciato fuori per un ultima volta e aver visto i suoi compagni, i suoi coetanei e anche i suoi amici, essere mangiati vivi da quegli esseri. Vide anche Alessandro, il suo migliore amico che veniva preso da due non-morti e trascinato all’interno di una classe dove sicuramente avrebbero banchettato con il suo corpo. Chiuse con forza la porta, girando la chiave nella toppa un paio di volte. Si allontanò facendo qualche passo indietro. Ma si bloccò improvvisamente come pietrificato. Non aveva verificato una cosa: se ci fossero stati zombie all’interno di quel locale. Sgranò gli occhi spaventati e, lentamente, si voltò, guardandosi intorno. Apparentemente era vuoto. I bagni erano tre. Aprì le porte di tutti e li trovò vuoti. Meno male.
Si voltò nuovamente verso il corridoio. Dei rumori raccapricciante di urli, strilli e ringhi provenivano da fuori. Entro all’interno di uno dei tre bagni e chiuse la porta con la levetta appena sotto alla maniglia.
Respirava velocemente e sembrava quasi che il cuore volesse esplodergli nel petto, tanto batteva veloce. Si sedette fra il WC e la parete di cartongesso. Si rannicchiò su sé stesso in posizione fetale, nascondendo la testa in mezzo alle ginocchia, tappandosi le orecchie per non sentire le urla provenienti dall’esterno. A poco a poco, stando in quella posizione per varie ore, si addormentò, sopraffatto dalla stanchezza e dal terrore.
Si svegliò di colpo, come ci si desta da un incubo. Si guardò velocemente intorno per capire dove si trovasse. Si alzò a fatica dato che i muscoli delle gambe gli dolevano moltissimo. Respirava con calma e tentava di contenersi. Da fuori non proveniva più alcun rumore. Non sapeva se essere felice o profondamente turbato da questo fatto. Rimase a fianco del WC continuando a ripetere dentro di sé “Fra poco arriveranno i soccorsi e mi salveranno, mi porteranno via da questo inferno, devo solo stare calmo ed aspettare”.
Solo che i soccorsi non arrivavano. Aspetto per varie ore, osservando l’orologio e vedendo che le lancette segnavano le 18:02, decise di uscire e provare a vedere se la situazione si fosse calmata definitivamente. Aprì con calma la porta e notò che l’antibagno era vuoto e la porta sul corridoio ancora chiusa. Si avvicinò alla maniglia e vi appoggiò sopra una mano. Girò la chiave nella toppa e sbloccò l’entrata. Tirò giù la maniglia e spostò la porta verso sé, aprendo un piccolo spiraglio di non più di cinque centimetri, giusto per poter vedere fuori: il corridoio era vuoto. Almeno apparentemente. Non si vedevano né vivi né morti. Era vuoto. Uscì dal bagno e, vedendo che vi era tutto il corridoio che lo separava dal’uscita di sicurezza, la sua salvezza, iniziò a camminare velocemente in quella direzione. Camminava speditamente ma senza correre. Sulle rampe non vi era nessuno ma nell’atrio alcune figure che scorse con la coda dell’occhio, caracollavano avanti e indietro. Aumentò il passo, accostandosi alle porte delle classi chiuse dal cui interno provenivano ringhi e gemiti sommessi. Vi erano degli zombie lì dentro. Non doveva farsi prendere dal panico. Avanzò ancora. Ormai solo una decina di metri lo separava dalla maniglia a spinta. Passò di fianco all’ultima classe e la porta si aprì di colpo: di fronte a sé un non-morto lo scorse e gli si avventò contro, lui lo schivò per un soffio e si mise a correre mentre scorgeva altri morti viventi che si avvicinavano attirati dal rumore. Corse ancora per pochi metri e, con una spinta decisa, uscì fuori sulle scale antincendio. Corse giù a perdifiato, fino a che non riuscì a seminare i suoi inseguitori goffi e lenti. Si guardò intorno. Non vi era nessuno. Andò in strada. Era vuota, completamente. Iniziò a camminare dirigendosi verso il centro città. Avrebbe trovato qualcosa? Chi poteva dirlo. L’unico modo di saperlo era dirigersi là.

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Capitolo 4
*** Parte 4 ***


La caserma
Il proiettile fischiò nell’aria, muovendosi veloce e dritto verso il suo bersaglio: il cranio di un non-morto. Lo raggiunse e ne spiaccicò sull’asfalto caldo quel poco che gli rimaneva di materia cerebrale.
-Sì! Cazzo che gran colpo!- I tre uomini affacciati alla finestra risero. Uno di loro aveva in mano un M4 da cui usciva fumo dalla canna per il tiro lungo. Si trovavano alla finestra dell’edificio che un tempo era la caserma di polizia della cittadina e oggi si era trasformata in un fortino, come quelli del vecchio west, per difendersi dall’ultima piaga dell’umanità: gli zombie. All’interno del palazzo vi erano in tutto 16 persone, sei delle quali poliziotti. Erano chiusi lì dentro da circa un mese. Si erano riforniti di tutto ciò che potesse essere necessario alla sopravvivenza, cibo e provviste in primis, ma portando lì anche kit di pronto soccorso cose simili.
Alla finestra erano affacciati tre poliziotti, due dei quali indossavano ancora le divise, mentre uno aveva addosso soltanto le mutande e la canottiera. Quest’ultimo era colui che imbracciava il fucile. Stavano facendo tiro al bersaglio con bersagli mobili. E putrefatti. Ricaricò inserendo il caricatore con decisione, tirò indietro l’otturatore, si assicurò il calcio alla spalla e, chiudendo un occhio per aiutarsi, prese la mira –Cerco di prendere il tizio lì in giacca e cravatta? Oppure la puttanella laggiù che sembra una cubista con quei tacchi e la mini-gonna?-
-No, prendi quello lì con gli occhiali, quello con la camicia, mi ricorda troppo un vecchio compagno di scuola che mi stava troppo sulle palle-
-Andata per quello.- Spostò il fucile di alcuni centimetri per avvicinarsi al bersaglio. Puntò facendo combaciare la tacca del mirino precisamente al centro della nuca. Si preparò a premere il grilletto aspettando che si girasse per poterlo prendere in mezzo agli occhi. Aspetto alcuni secondi ma, finalmente, il cadavere si voltò e lui potè vedere quanto quel viso fosse macabro: non aveva più il naso o, almeno, se lo aveva, ne era rimasto solo qualche brandello di pelle. Colava sangue dalla sua bocca e da uno squarcio all’altezza dell’attaccatura dei capelli. Un obbiettivo perfetto per scaricare tutto l’odio verso i non-morti. Premette il grilletto e, come il colpo precedente, la pallottola volò e fischiò nell’aria fino all’impatto con la fronte del mal capitato. –Sì! Diamine! Che gran colpo! Nessuno spara meglio di me-
-Continua a sperarci- L’uomo in canottiera, che era sulla sessantina, passò il fucile al poliziotto alla sua destra, un afroamericano sui trent’anni, che si accomodò sulla sedia di tiro e prese la mira per mietere altre “non-vite”. Di fronte alla porta principale (dietro la quale era stata eretta una barricata con tutto ciò che avevano trovato per poter difenderla meglio) si ammassavano decine e decine di morti viventi, nel disperato tentativo di sfondare gli stipiti e poter cibarsi con carni fresche. Ce l’avrebbero fatta prima o poi? Probabilmente sì, ma sicuramente non sarebbe stato un compito facile. Il primo loro ostacolo erano le armi da fuoco: quella era una centrale di polizia, lì dentro vi erano decine di armi! L’arsenale comprendeva in tutto: 21 pistole, 8 fucili a pompa, 6 mitragliette MP5 e un fucile d’assalto M4; Inoltre vi erano migliaia di proiettili! Un arsenale di tutto rispetto per un manipolo di appena sedici sopravvissuti. La loro speranza era di mettersi in contatto con dei soccorsi che li avessero potuti portare via di lì. Ma come fare? Le radio erano mute le linee telefoniche continuamente bloccate, internet non funzionava. Nulla, erano tagliati fuori. Non erano al sicuro. Erano in trappola.
 
Le scale
 
Periferia di Parigi, case popolari.
Correvano a più non posso su per le scale. Tutti e quattro appiccicati l’un l’altro con la paura di essere presi alle spalle da qualcuno di quei cosi. Correvano sbattendo i piedi sugli scalini verso la sommità dell’altissimo condominio di svariati piani. I ringhi e le urla dei non-morti che li inseguivano instancabili dietro di loro, li terrorizzavano ancora di più. Era una situazione davvero orrenda. Benoit Si fermò per un istante, voltandosi verso i suoi amici –Andate avanti- Disse –Io li tratterrò, non possiamo farcela con loro alle calcagna, salite più che potete, arrivate al tetto e scendete dalle scale antincendio. Andate!-
-Io non ti lascio, fratello, Siamo gangster, che paura ci fanno quei cosi?! Io resto qui a combattere con te!- Jean-Pierre e Paul li guardarono con occhi sgranati. Erano davvero convinti di ciò che stavano facendo? –Ma che cazzo dite?! Moriremo tutti in qualsiasi caso, tentiamo la fuga! Se ci separiamo sarà ancora peggio! Dobbiamo persistere e uscire da ‘sto cazzo di edificio!- Gli zombie erano ormai un paio di rampe più sotto e Paul non ci pensò più e riprese a correre verso l’alto. Jean-Pierre guardò in faccia per un’ultima volta il viso dei suoi amici che gli sorrisero, poi si voltò e riprese la disperata salita fra sbuffi e affaticamenti. In breve raggiunge Paul e salirono ancora una rampa di scale prima di iniziare a sentire le urla di dolore dei due amici che erano stati ormai sopraffatti. Era uno strazio per i loro cuori rendersi conto solo adesso di averli lasciati indietro. Ormai mancavano solo quattro piani al tetto. Corsero ancora più velocemente. Ormai le gambe sembravano dei pezzi di legno, non si piegavano più. Mentre i piedi erano due blocchi di cemento. Tennero duro e, finalmente, dopo quasi trenta piani di scale spalancarono con forza la porta del tetto. Appena uscirono la richiusero dietro di loro utilizzando una sbarra di ferro per bloccarla. Si diressero velocemente verso la scala esterna d’emergenza e riuscirono a scendere. A poco a poco, piano dopo piano, la strada si faceva sempre più vicina. Mentre scendevano delle altre scale sentirono dentro il cuore un tormento tale che li stava mangiando dentro. Avevano abbandonato i loro amici, i loro migliori amici. I loro fratelli. Arrivarono in strada dopo quasi dieci minuti di discesa. Si trovavano sul cortile del retro, da cui si arrivava alla strada principale attraverso una viottola laterale. La oltrepassarono e arrivarono finalmente in strada. Diamine ce l’avevano fatta, erano usciti da quell’inferno di scale, da quel martirio. Corsero per una decina di metri e videro, poco più avanti, una macchina con lo sportello aperto. Si precipitarono verso questa senza pensarci su troppo. In giro caracollavano istupiditi alcuni non-morti. Ma loro non vi fecero caso. Salirono a bordo e, come un miracolo constatarono che vi erano ancora le chiavi inserite nel cruscotto. Perché abbandonare lì una macchina per scendere e fuggire a piedi? Un’ idea folle! Ma alla fine tutto in quel mondo era folle. Jean-Pierre, seduto al posto di guida mise in moto, mentre Paul al suo fianco cercava qualcosa di interessante che il proprietario dell’auto avesse potuto abbandonare lì insieme al mezzo. Pierre pigiò l’acceleratore con tutta la forza che aveva e la macchina cominciò a sfrecciare veloce sulle strade semi-deserte (sempre se non si contavano i morti). Pigiò di nuovo e schizzarono via dirigendosi verso l’autostrada, diretti verso una nuova meta pur di salvarsi. Ma con un peso all’interno del cuore che avrebbe gravato su di loro per sempre: la morte dei loro amici.
 
Morso
 
Non so quanto mi resta con precisione. Probabilmente ancora cinque o massimo sette minuti. Ah, che diamine! Sopravvivere in tutti i modi possibili, dormire in delle buche nel fango, ripararsi nelle fogne, mangiare schifo tutti i giorni per poi entrare in una cazzo di casa abbandonata e mezza diroccata e trovarci dentro una troia che ti morde il braccio. Cristo che nervoso! Tra poco mi trasformerò, me lo sento. Non ho paura, ormai sono rassegnato al mio destino e sto scrivendo queste poche righe per i posteri… se mai ce ne saranno. Io non credo che la razza umana duri ancora per molto. Si vedrà. Per ora sto soltanto pensando di scrivere cose sensate e sarebbe bello fare qualcosa di epico come scrivere una frase alla “Domani è un altro giorno…” ma a che servirebbe? Tanto siamo tutti fottuti prima o poi, inutile girarci attorno. Sinceramente ho sempre odiato le persone melense e, odio dirlo, adesso mi sento proprio una di loro. Però, capitemi, sono stato morso da uno zombie! Non mi sembra che capiti a tutti! Ah, che vita. Che brutta vita. Morire per un morso e sapete qual è la cosa ancora più brutta? Non avere una pistola per spararmi in testa ed evitare che mi trasformi in zombie.
 
L’amico
 
Quando Davide venne a trovarmi io ero seduto sul divano, a leggere un libro. Quando suonò il campanello corsi subito a vedere chi fosse. Aprii la porta, lo salutai e lo invitai ad entrare. Quando mi disse che doveva parlarmi ci accomodammo sul divano e iniziammo a chiacchierare. Gli dissi di togliersi il cappotto ma disse che stava bene così. Non insistetti. Lui mi guardò e io rimasi un po’ istupidito chiedendomi che cosa avesse. Gli feci la domanda e lui mi guardò. Poi alzò la manica della giacca e mi mostro l’avambraccio. Rimasi allibito nel vedere che vi era il segno di un morso. Rimasi inebetito mentre tenevo gli occhi puntati su quei solchi nella pelle che facevano rabbrividire. Gli chiesi che cosa fosse successo e lui mi disse che era andato fuori dalla zona di quarantena, nelle campagne, per poter vedere il bosco. Amava la natura ma non si era più diretto nel bosco da quando la legge anti-infezione vietava l’abbandono dei centri abitati. Lui disse di aver incontrato uno zombie caracollante, di averlo scambiato per una persona viva e di essergli avvicinato e poi era successo tutto il resto. Aveva voluto dirmelo per evitare che lo scoprissi in seguito rischiando di spaventarmi seriamente. Mi rassicurò anche dicendo che il morso era stato fatto poco meno di undici ore prima e tutti sapevano che il contagio arrivava dopo quasi venti ore di incubazione. Più lui mi parlava più lo vedevo come fosse un fantasma, era  una cosa pazzesca neanche mene rendevo contro con precisione. Il mio migliore amico con cui giocai fin dall’asilo si stava per trasformare in un essere deplorevole ed orripilante. Una cosa davvero pazzesca. Mi disse di non essere particolarmente spaventato ma che però voleva sapere se ero con lui. Fin da bambini eravamo molto uniti, eravamo molto più che amici, eravamo fratelli. Ci eravamo sostenuti in tutto, è così che si fa con un amico no? Bè, fino alla fine sarei stato con lui. Gli strinsi la mano e gli dissi che lo avrei aiutato a sperare anche questa cosa. Ora però sorgeva il dubbio maggiore: cosa fare? Non potevo lasciarlo libero a girovagare per i boschi come una bestia senza meta. Non avrei retto il peso nel cuore per il senso di colpa e il rimorso. Doveva porre fine alle sue sofferenze, anche lui non voleva trasformarsi. Aveva fatto una cazzata e non era pentito di averla fatta, ma non voleva diventare un non-morta mangia cervello. Nossignore. Optammo per una fine veloce. Avremmo fatto tutto nell’aerea di sicurezza. All’interno del centro abitato. Ma ci serviva una pistola. Ed io non la possedevo. Chiesi a un mio amico se avesse potuto prestarmi la sua (so che sembrerebbe una richiesta da fuori di testa, ma in un mondo di zombie ogni richiesta può essere presa seriamente) e dopo qualche domanda di curiosità acconsentì e mi cedette la sua arma da fuoco. Mancavano ormai poco meno di sette ore alla trasformazione, dovevamo fare in fretta. Molto in fretta. Andammo nella mia cantina, la stanza più insonorizzata della casa. Ci chiudemmo in una stanza ed io caricai la pistola. Lui era inginocchiato di fronte a me, a poco più di due metri di distanza. Lo salutai per l’ultima volta con una pacca sulla spalla. Era il nostro ultimo saluto. “Ci vediamo dopo” mi disse poi chiuse gli occhi attendendo l’inevitabile. Io puntai la canna verso la sua testa, la tacca di mira appena sopra alla fronte. Premetti delicatamente il grilletto e in un attimo il colpo partì raggiungendo il bersaglio e imbrattando di liquido vermiglio il muro bianco dietro di lui. Lasciai scivolare a terra la pistola e mi inginocchiai di fronte al suo cadavere. Non si muoveva. Non si era trasformato. Almeno quello glielo dovevo. Ero suo amico. Fino alla fine.
 
SWAT
-Entriamo, ripuliamo, usciamo; semplice no?-
-Sissignore- Risposero all’unisono i quattro SWAT al loro capo-squadra. –All’interno è probabile trovare svariati infetti. Nessuna pietà per loro, non voglio esitazioni da parte di nessuno. Se ne vedete uno sparategli.-
-Sissignore- Si dirigevano verso il palazzo in quarantena a bordo di un furgone nero. Dopo che il mondo fu sprofondato nel caos per il risveglio dei morti, tutte le città si erano isolate erigendo barricate e delle recinzioni intorno a sé. Ora il governo tentava la resistenza per non cedere sotto a questa piaga. Se l’infezione entrava nelle città, queste venivano abbandonate. Ma se c’era la possibilità di mettere in isolamento l’infezione e debellarla, si prendeva quella strada. Avevano appena trovato un piccolo laboratorio nascosto in un appartamento al terzo piano di un edificio dove alcuni scienziati, dopo aver recuperato dei campioni fuori dalle barriere, li avevano portati all’interno per studiare l’infezione. Ma un gesto tanto avventato non poteva passare inosservato, perciò il condominio fu messo subito in quarantena con tutti gli abitanti all’interno, coprendolo con teloni di plastica isolante e collegando l’entrata principale con un tubo di plastica da cui si sarebbe potuti entrare. Erano stati contattati i SWAT per entrare e fare piazza pulita di tutti i coinquilini dell’edificio. Vivo o non-morto.
Arrivarono proprio di fronte. Uno stuolo di curiosi era stato allontanato dalla polizia. Alcuni militari pattugliavano l’area con un elicottero. Le forze dell’ordine tenevano sotto tiro l’edificio. I cinque caschi di cuoio si avvicinarono ad un ufficiale che iniziò a spiegare –Allora, dovete entrare e controllare ogni piano, ogni appartamento, qualsiasi cosa. Dovete trovare tutti gli abitanti, che siano infetti oppure no, non importa. Dovete eliminarli, non possiamo rischiare che escano di lì portandosi dietro il contagio.- Uno dei SWAT allora chiese –Signore, ma il contagio non è uscito dalle provette dove tengono i campioni no?- L’ufficiale rimase a guardare l’asfalto per alcuni attimi, poi rispose –Non lo sappiamo-.
Si avvicinarono all’entrata del tubo, ai lati della quale due poliziotti la sorvegliavano. Era chiusa da due lembi di plastica isolante uniti da una cerniera. Uno dei due poliziotti aprì la zip e i cinque SWAT avanzarono all’interno. Si infilarono le maschere anti-gas di ultima generazione ei due poliziotti li chiusero dentro. Loro avanzarono fino alla porta di legno. Era chiusa ma non a chiave perciò entrarono uno dopo l’altro. L’atrio era buio. Non vi era nessuno. Controllarono appena sulle scale ma non videro anima viva. Tenendo le mitragliette MP5 spianate di fronte a loro e il dito pronto a premere il grilletto, iniziarono a salire. Per tutti e quattro i piani vi erano tre appartamenti tranne all’ultimo dove si trovava un attico utilizzato come soffitta. Si avvicinarono alla prima porta e, vedendo che era socchiusa, si insospettirono. Il capo-squadra mandò due “caschi” a controllare. Dopo pochi attimi tornarono comunicando che era vuoto. Controllarono anche gli altri due del piano ma erano tutti vuoti. Si volsero verso la rampa di scale che saliva e iniziarono a percorrerla. Arrivati sul pianerottolo fra una rampa e l’altra, notarono a terra una grossa chiazza di sangue. Il capo-squadra esortò i suoi ad avanzare. Salirono nuovamente e arrivarono al secondo piano. Una delle tre porte era imbrattata di sangue. Si divisero e controllarono i due appartamenti laterali. Erano vuoti anche loro. Ma dove diavolo erano finiti gli inquilini? Si avvicinarono tutti e cinque alla porta su cui colava il sangue ma, appena prima che la aprissero, uno della squadra che controllava alle loro spalle gridò –Eccone uno!- Si voltarono tutti e puntarono le loro torce nella direzione dove aveva indicato: era un infetto. Aprirono il fuoco contemporaneamente e lo mandarono a terra crivellato di proiettili. Ma il rumore attirò l’attenzione degli altri infetti che si trovavano ai due piani superiori e scesero correndo per attaccare le loro prossime prede. Tutti e cinque iniziarono a sparare abbattendone alcuni, ma continuavano ad arrivarne. Il capo-squadra allora ordinò –Sono troppi, dentro all’appartamento, muoversi!- Continuando a sparare oltrepassarono la porta più vicina a loro e la chiusero alle loro spalle, appena prima che un infetto sopraggiungesse loro addosso. Questi iniziarono a colpire la porta di legno come se dessero delle martellate ed in breve la porta iniziò a cedere e a spaccarsi in più punti. Allora il capo ordinò di schierarsi in formazione infondo al corridoio: tre schierati in piedi e due inginocchio davanti. Avrebbero eliminato gli infetti uno ad uno mentre entravano dalla porta principale. Questa cedette subito dopo, staccandosi dai cardini e cadendo con un tonfo sul pavimento mentre all’interno si riversava una marea di corpi infetti e maciullati. I SWAT vomitarono addosso a qui mostri tutto il piombo che avevano, uccidendone a decine. Quando finalmente la marea terminò poterono tornare sul pianerottolo e iniziare a salire ancora di più, arrivando al terzo piano. Il laboratorio doveva trovarsi in uno di quelli. Controllarono il primo ma non era quello ch egli interessava, entrarono nel secondo e lo spettacolo che si trovarono davanti superò nettamente la loro immaginazione: non era un laboratorio, ma un mattatoio. Vi erano alcuni cadaveri che pendevano da una trave sul soffitto, assicurati a questa attraverso dei ganci di metallo. Ovunque vi erano attrezzi da dottore come seghe, bisturi e siringhe ma anche provette e boccette contenenti strani liquidi. Non vi era traccia di vita né tanto meno di esseri umani. Controllarono ovunque ma, prima di terminare la loro missione portando via le boccette con il virus, salirono all’ultimo piano, dove vi era l’attico. Provarono a girare la maniglia per entrare ma la porta era chiusa dall’interno. Uno dei “caschi” tento di sfondarla con un calcio ma niente, non voleva aprirsi. Allora il capo disse –D’accordo, lasciamo perdere, ciò che dovevamo trovare l’abbiamo trovato, ora…- Però si interruppe appena udì alcune voci provenire da dietro la porta –Ehi, siete i soccorsi! Aspettate!- Si sentì una chiave girare nella toppa e la porta spalancarsi. Tutti i SWAT puntarono le mitragliette verso l’entrata da cui uscì un’anziana in vestaglia che disse –Non sparate, non siamo come quei demoni, siamo umani, vi prego portateci fuori di qui!-
-In quanti siete lì dentro?-
-Solo in quattro: io, mio marito, la signora del secondo piano e suo figlio, i siamo chiusi lì dentro per nasconderci da tutti gli altri inquilini che si erano trasformati in quei mostri. A causa di quei diamine di scienziati, sentivo sempre una gran puzza ma non credevo stessero facendo esperimenti con i morti!- Il capo la guardò poi si allontanò di qualche passo e parlò alla radio –Qui capo-squadra unità SWAT, abbiamo trovato quattro sopravvissuti che facciamo, li portiamo fuori con noi?-
-Negativo capo-squadra, conoscete gli ordini, qualsiasi superstite va eliminato. Sia vivo che infetto.-
-Ma signore stanno bene, non sono inf..-
-Esegua gli ordini, chiudo- Il capo guardò per terra. Aveva dovuto eseguire molti ordini nella sua carriera. Aveva ucciso tante persone ma mai dei civili indifesi. Neanche dopo lo scoppio dell’epidemia. Ma lui era un soldato e gli ordini andavano sempre eseguiti. Si voltò e, rivolto ai suoi uomini, ordinò –Conoscete gli ordini ragazzi, facciamo in fretta.- Tutti annuirono mentre nel frattempo anche il marito, la donna e il bambino erano usciti dall’attico. Erano tutti in fila lì davanti, come se fossero pronti ad essere fucilati per una reato che non avevano mai commesso. Ma un ordine era un ordine. Tutti i SWAT premettero i grilletti delle MP5 aprendo il fuoco sui quattro superstiti. L’anziana sgranò gli occhi mentre una pallottola le perforava un polmone e la spediva a terra, idem il vecchio marito. La donna invece fu colpita all’occhio e al petto e il bambino fu raggiunto da un colpo al ventre.
Il piccolo che non poteva avere più di cinque o sei anni nemmeno capiva con precisione ciò che era successo. Ma sapeva che gli avevano sparato. Coloro che credeva suoi amici gli avevano sparato. Vide i quattro uomini vestiti di nero scendere dalle scale mentre si assicuravano a tracolla le mitragliette. Poi e sue palpebre si fecero molto pesanti e il suo cuore iniziava a battere più debolmente e il suo respiro ad essere più flebile. Il sangue usciva copioso dalla pancia.  Non riusciva nemmeno a piangere. Infine chiuse gli occhi e poi… più nulla.
 
Il treno della salvezza
-Salite sul treno! Svelti!!!- un proiettile gli fischiò accanto raggiungendo un non-morto che gli era vicino. Il soldato stava incoraggiando le persone alla stazione di montare a bordo dei vari vagoni-passeggeri per poter andarsene lontano. Era il 1881, il vecchio west. Una strana e nuova peste aveva colpito l’umanità facendo resuscitare i morti. Un vero incubo. Il forte di Brite, trovandosi a poche miglia dal villaggio, era stato preso come un rifugio per gli abitanti, ma quando avevano visto i diciotto soldati che montavano la guardia, scappare a gambe levate, dirigendosi verso la stazione dei treni, li avevano seguiti. Ora un treno era fermo sul binario. I non-morti erano ovunque e tentavano di raggiungere i vivi mentre questi ultimi persistevano in un’ultima difesa per dare tempo ai civili di montare in carrozza. Tutti gli uomini che avevano un’arma supportavano i soldati nella difesa del treno. Un gruppetto di morti viventi si avvicinò ai vagoni posteriori, allora un drappello di militari, ginocchi a terra e calci dei fucili contro le spalle, aprirono il fuoco vomitandogli addosso tutto il piombo che avevano abbattendone diversi con le loro carabine Winchester. I civili continuavano a salire nei vari vagoni che continuavano a riempirsi. Dopo alcuni minuti di resistenza estrema, gli abitanti erano praticamente tutti a bordo. Soltanto i militari dovevano ancora montare. Ruppero le file e si ritirarono verso le entrate. Uno di loro, una giovane recluta, fu fermata alle spalle da quello che sembrava apparentemente un ammasso di ossa che si reggeva in piedi quasi per miracolo. I pochi brandelli di carne che aveva sul viso cadevano a terra ogni passo che faceva. Lo prese da dietro e gli morse la gola, strappando un grosso lembo di pelle insanguinata e tirando a terra il soldato urlante che si portò una mano alla ferita tentando di bloccare l’emorragia. Tre dei suoi compagni tornarono indietro per fornirgli supporto, ma in un attimo una decina di zombie furono su di lui e iniziarono a sbranarlo perciò i rinforzi si ritirarono. Salirono tutti a bordo –Ci siamo! Macchinista fai partire!- Urlò il capo-treno in direzione della locomotiva. Questa iniziò a partire lentamente, uscendo dalla stazione mentre un nugolo sempre più grosso di non-morti, come uno sciame di locuste si avvicinava pericolosamente ai finestrini tentando di sfondarli battendoci contro. Ma più il treno prendeva velocità e più il loro piano andava in fumo dato che il mezzo si allontanava veloce, troppo per loro. Continuò ad acquistare velocità fino a che non si stabilizzò su un andamento di crociera. All’interno dei vagoni il panico era alle stelle. I pochi che mantenevano la calma erano coloro che erano impegnati a ricaricare le loro pistole da tasca. I militari erano intenti a discutere sul da farsi. Il sergente Harris propose –Andiamo verso Carson City, laggiù potremo scoprire che succede, magari c’è altra gente viva oppure possiamo metterci in contatto con il resto dell’esercito! Insomma su questo treno ci sono centinaia di persone! Più di quante possa trasportare, dobbiamo fare qualcosa e subito per portarle in salvo.-
-Ha ragione, Carson City è l’unica via ragionevole, andremo là. Qualcuno lo comunichi al capo- treno. –
Il viaggio durò alcune ore, passando da paesaggi incontaminati di campi e fiumiciattoli a praterie infinite, interrotte qua e là da piccole fattorie all’apparenza abbandonate. Passarono anche vicino ad un villaggio discretamente grande e, con loro profondo dispiacere, lo trovarono pieno di non-morti che vagavano per le strade. Il treno proseguì ancora avanti, senza mai fermarsi pur di raggiungere la sua meta il prima possibile. A bordo vi era dell’acqua ma non molta perciò la razionarono immediatamente per evitare che potesse finire in poco tempo. Ormai Carson City era vicinissima, in pochi minuti l’avrebbero intravista all’orizzonte. Il treno continuava la sua marcia a doppia velocità con il macchinista che gettava carbone nella caldaia a più non posso. Arrivarono alla stazione e iniziarono a rallentare. I militari tirarono giù un paio di finestrini affacciandosi fuori mentre tutti i civili tenevano i nasi schiacciati contro i vetri per capire come fosse la situazione laggiù. Non era buona. Per niente. Ovunque vi erano zombie, che caracollavano inebetiti, dirigendosi chissà dove. Che incubo. Anche Carson City era persa. Non era rimasto proprio nulla del vecchio mondo? L’unica speranza per l’umanità era a bordo di quel dannato treno? Il macchinista non ci pensò su più di tanto, tirò su una manciata di carbone con la pala di ferro e la gettò fra le fiamme della caldaia facendo ripartire il treno sempre più velocemente dirigendosi verso est…
 
Drogato
 
Ho bisogno di una dose, ne ho bisogno, cazzo! Non ne posso più è da quasi tre giorni che non mi inietto qualcosa in vena, se vado avanti così m’ammazzo! Ma che diavolo, anche gli zombie si drogano? Merda! Non trovo una diamine di siringa di eroina manco a pregarla! Che cazzo!!! Ora sono chiuso in una merda di capanno al freddo per sfuggire a quei bastardi! Non ne posso più! Maledizione! Sarah è morta da ormai tre settimane ma io ce l’ho continuamente in testa. La amavo diamine! E lei è morta! Che vita schifosa…  Comunque ho deciso che tenterò di andare a nord. Sempre se trovo una dose! Altrimenti giuro che m’ammazzo, davvero! Sono stanco, sono stanco di tutto questo…

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Capitolo 5
*** Parte 5 ***


Elicottero
 
L’uomo avanzava con cautela, con passi leggeri e guardinghi. Teneva il fucile mitragliatore M4 spianato davanti a sé. Entrò lentamente nel piccolo complesso abbandonato, pronto a sparare al minimo segnale d’allarme. Avanzò ancora di qualche passo fino a quando non scorse, seduto a terra con la schiena contro il muro, uno zombie da cui colava sangue dalla bocca. Era un fiotto lungo e di un colore molto acceso, che colava sulle sue gambe imbrattando i brandelli di pantaloni che indossava. L’uomo, senza battere ciglio, puntò la canna verso la sua testa e premette il grilletto spargendo le cervella del morto sul muro bianco. I rumori attirarono però gli zombie che si trovavano fuori. Erano nascosti bene ma ve ne erano a decine. Lui non li aspetto ed iniziò a correre attraverso un corridoio che lo avrebbe portato sul retro. Correndo ancora arrivò ad alcuni uffici, vi entrò e si chiuse la porta alle spalle poi, avanzando più lentamente uscì dall’edificio arrivando in una stradina posteriore. Si prese un momento di pausa: estrasse dallo zainetto blu che portava in spalla una bottiglietta d’acqua frizzante e ne buttò giù un paio di sorsate, poi la rimise a posto e si asciugò la bocca con la manica della felpa. Si guardò intorno guardingo: non si poteva mai stare tranquilli se si era in strada. Riprese il suo cammino tornando sui suoi passi nella strada principale. Avanzando fra le macchine abbandonate. Si fermò un momento ed estrasse la cartina della città che teneva in tasca. Controllò il tragitto che aveva segnato con il pennarello terminando in una piazzetta dove aveva scritto una X di segnalazione. Quella era la sua meta. Alzò lo sguardo dalla mappa controllandosi in torno: tutto tranquillo. Rimise la mappa nella tasca e proseguì, svoltando all’incrocio poco più avanti. Avanzò nuovamente ma si fermò appena intravide a circa un chilometro di distanza, una massa di morti-viventi che bloccava la via ostruendola completamente. Doveva passare dagli edifici laterali. Si voltò a destra e vide un negozio con la vetrina spaccata. Vi entrò. Sembrava quasi che un tornado avesse devastato il negozio: gli scaffali erano rotti, per lo più steccati dai chiodi a cui erano fissati, le merci del negozio (probabilmente di elettronica) erano stati tutti saccheggiati dai vari sciacalli che vi erano stati appena era iniziata l’epidemia. L’uomo proseguiva senza scomporsi ma tendo il fucile saldamente, pronto a sparare nel caso vi fosse presenza di qualsiasi pericolo. Fece ancora qualche passo, superò il bancone e… con la coda dell’occhio intravide una figura umana. Era rannicchiata in posizione fetale, con le mani poste sopra il capo nel tentativo di proteggere la testa. Era ancora viva, l’uomo lo capì immediatamente appena lei gemette. Non seppe cosa dire ma, istintivamente, tirò fuori dallo zaino un fazzolettino clinex e glielo porse con gentilezza. Lei inizialmente si ritrasse ancora più indietro ma poi, quasi se avesse capito solo ora che lui era un essere umano, gli si gettò al collo abbracciandolo con calore. –Grazie, grazie mille, grazie!- Gli sussurrò all’orecchio. Lui la scostò con gentilezza da sé e gli diede il clinex che lei utilizzò per asciugarsi le lacrime che le erano colate sulle guance. Lui l’aiuto a tirarsi in piedi –Come ti chiami?- Le chiese. Lei titubante, dopo qualche attimo d’attesa come se studiasse quel suo inaspettato “salvatore”, rispose –Caroline-
-Piacere, io sono Chris. Perché sei qui?-
-Mi ero nascosta da loro, dagli ammalati, volevano prendermi. Avevo troppa paura.-
-Ti capisco, ora però non devi più averne, io ti proteggerò, devi fidarti di me.-
-Chi sei tu?-
-Sono un militare, ero in licenza quando è scoppiato tutto il putiferio, ora sto andando alla Piazza di Santa Barbara dove alcuni dei miei compagni militari mi verranno a prendere con un elicottero. Vieni con me, l’esercito sta cercando sopravvissuti per ogni città, tu vieni con me e ti porterò in salvo.- Lei lo abbracciò di nuovo, stringendosi al suo petto, come se quel corpo fosse lo scoglio che la avrebbe protetta dai flutti del mare e che l’avrebbe difesa dalle onde più alte e spaventose. –Ora andiamo, non manca molto alla piazza e l’appuntamento è fra poco meno di un’ora, andiamo- Si incamminarono, lui davanti e lei dietro.
Chris, mentre proseguivano nei retrobottega dei vari negozi chiese alla sua nova compagna di viaggio –Hai sete? Vuoi bere?-
-No grazie…-  Poi, come se si fosse ricordato solo adesso di questo chiese –Sai usare una pistola? Ne ho una se vuoi. Ti sentiresti più sicura con quella?-
-No, non so sparare e sinceramente non voglio imparare anche se dovrei farlo vista la situazione- Tirò su con il naso quasi fosse una bambina e proseguì a passo spedito appena dietro al suo baluardo in quell’apocalisse. Continuavano ad andare avanti, ignorando i vari zombie che, appena fuori dalle vetrine li vedevano e premevano i corpi contro i vetri, Per cercare di oltrepassarli ma inutilmente. I due proseguirono ancora, finché non uscirono in un piccolo cortile e Chris si fermò per controllare la cartina. Constatò che dalla loro posizione la Piazza non distava più di duecento o forse trecento metri. Inserì in tasca la mappa, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta e la porse a Caroline che però rifiutò l’offerta e allora lui la rimise al suo posto. Rientrarono negli edifici (dato che era troppo pericoloso muoversi per la strada con tutti quei non-morti in giro) e proseguirono ancora.
Entrarono in uno strano stabilimento di uffici. Dentro vi erano svariati corridoi con altrettante porte. Dentro le quali qualcosa si muoveva. Senza fare rumore si allontanarono il più in fretta possibile ma, mentre in fondo a un corridoio si poteva vedere una finestra da cui si scorgeva in lontananza la Piazza, Chris sbattè il ginocchio contro un cestino di metallo facendo molto rumore. –Merda!- Ad un tratto dei ringhi provenienti dalle porte spezzarono la tranquillità dei due che iniziarono a correre verso la finestra che, mentre gli zombie uscivano dalle stanza per inseguirli, scavalcarono con maestria. Corsero poi verso la Piazza mentre Chris si fermava di tanto in tanto per voltarsi e sparare alcuni colpi del suo fucile verso gli zombie, abbattendone alcuni. Ma erano troppi, a decine! Si mossero ancora mentre l’uomo controllò il suo orologio: mancavano quattro minuti all’appuntamento. Continuò a sparare tenendo lontani gli assalitori, in una disperata difesa, arretrando ogni volta che il numero si infittiva costringendoli a stare allerta. Ad un tratto però Caroline sentì qualcosa, un rumore molto flebile e lontano una specie di “whuop whuop” e più si avvicinava più si sentiva distintamente: erano le pale dell’elicottero! Avvertì immediatamente Chris –Stanno arrivando, ci salveranno!-
-Bene!- Chris era intento a sparare, ricaricare, continuare a sparare, in un ciclo continuo. L’elicottero si avvicinò al suolo finché potè ma data la presenza massiccia di zombie non potè atterrare, perciò fece calare una scala di corda mentre qualcuno a bordo gridò –Afferratela!- Caroline corse verso la scala ma sentì un urlo improvviso. Si voltò fulminea e vide Chris che veniva morso da un non-morto. Lo spinse via con uno spintone e, con un colpo alla fronte, lo finì. Continuò a sparare e gridò –Vai, ti coprirò io, vattene! Svelta!-
-Non posso lasciarti qui!-
-Vai!- Un altro zombie lo prese alle spalle strappandogli un lembo di pelle all’altezza della scapola. Chris urlò per il dolore ma, digrignando i denti gridò ancora –Vai! Ti coprirò!- Caroline piangendo disperata corse verso la scaletta e si aggrappò saldamente con entrambe le mani ma non appena lo ebbe fatto, due zombie la presero uno alle spalle e uno sul davanti. Chris, ormai a terra sopraffatto dalla furia dei morti, vedendo la scena urlò ancora ed estrasse la sua pistola Glock con cui aprì il fuoco sui due morti viventi uccidendoli entrambi.
L’elicottero nel momento stesso in cui vide attaccarsi La ragazza iniziò a prendere quota alzandosi in aria, per poi partire verso la base militare più vicina.
A terra Chris, ormai in una pozza di sangue, fiotti gorgoglianti che gli uscivano dalla bocca e dal naso, decine di zombie che pasteggiavano con le sue gambe che ormai non sentiva più, pensò a quella ragazza che aveva salvato e al dovere, a cui fino in fondo, aveva adempiuto come militare.
 
Evacuazione
 
Las Vegas. Città dalle mille luci e dai mille casinò. Gli zombie sono alle porte di questa città. I militari hanno tentato di fermarli ma l’ondata si è mossa arrivando ormai ai confini della periferia. Ora l’esercito sta evacuando la Strip e tutti i quartieri più interni. Io sono un “trasferitore” il nostro lavoro consiste nell’aiutare l’evacuazione smistando le persone a bordo dei pullman.
Ricordo bene cosa accadde quel giorno. I morti viventi avevano sfondato un’altra linea difensiva. L’esercito aveva fatto arretrare le truppe ma ci dissero che avevamo poco tempo per smistare tutti i superstiti da evacuare. Ero in servizio con un pullman di un’agenzia turistica. A bordo dovevano salirci quarantadue persone. Vi era una lunga fila per salire. Ogni pullman aveva a disposizione due trasferitori più l’autista che quasi sempre era dell’esercito. Noi non eravamo armati, ma lui sì. Il piano era semplice: sarebbe partita l’ultima colonna di cinque o sei pullman scortata da vari mezzi militari. Ci avrebbero mandato all’aeroporto militare più vicino e avrebbero fatto salire tutti a bordo degli aerei per poter decollare verso l’Inghilterra che, nessuno sapeva precisamente il perché, era stata risparmiata dalla pandemia. Ora tutti i sopravvissuti del mondo si dirigevano lì. Ricordo molto bene ciò che accadde. Sentimmo degli spari molto vicini, a non più di qualche isolato di distanza. Tutti incominciarono ad inquietarsi e vi fu il panico. La colonna di civili fu fatta salire in fretta mentre l’autista si posizionava al volante pronto a partire. Ad un tratto vi fu un’esplosione e poi dalla via che raggiungeva la piazza dove erano fermi i pullman arrivarono correndo decine di militari inseguiti da centinaia e centinaia di zombie affamati. Era un incubo! I civili iniziarono a correre da tutte le parti, tentando di salire sui mezzi per mettersi in salvo. Io feci salire ancora le ultime dieci o dodici persone della fila dopodiché le seguii a bordo. In lontananza i soldati tentavano di tenere lontani i non-morti sparandogli addosso tutto ciò che avevano. Ma, a poco a poco, l’ondata cadaverica li travolse, come uno sciame di locuste che divora tutto ciò che incontra. Alcuni militari tentavano un’ultima strenua resistenza per dar modo ai civili di fuggire ma quasi inutilmente. Gli zombie raggiunsero molti pullman e vi salirono a bordo intrappolando al loro interno i poveri superstiti che entro poco sarebbero divenuti zombie. Io esortai l’autista a partire e lui diede gas, dirigendosi verso la strada che ci avrebbe condotto fuori città. Accelerò sempre più fino a che non arrivò allo svincolo per la superstrada e lo imboccò. Proseguì ancora per la carreggiata, arrivando in vista ad una stazione di sosta. Nel parcheggio vi erano molti zombie. In lontananza dietro di noi si poteva scorgere la Strip di Las Vegas con le sue luci e le sue torri. Il militare premette ancora di più l’acceleratore con una sola destinazione: aeroporto militare dove un Boeing ci aspettava per l’evacuazione.
 
Contractor
 
Si muovono veloci e agili. Hanno parecchi chili di equipaggiamento sulle spalle ma questo sembra non gravare sulle loro schiene. Non hanno paura degli zombie perciò si muovono sicuri di sé. Non sono soldati ma sono addestrati. Sono contractor. Il loro motto è uno solo: “Secondi a nessuno”.
Francesco si muove lungo la parete, il calcio del fucile premuto contro la spalla. Non teme niente e nessuno. Avanza ancora di qualche passo poi si ferma, immobile. Oltre l’angolo di fronte a sé sente dei rumori. Si tratta sicuramente di non-morti. Non può rischiare di saltare fuori all’improvviso senza prima sapere quanti sono. Avanza lentamente. Si sporge leggermente e controlla con la coda dell’occhio: solo due. Nessun problema. Esce dal suo riparo e, con due raffiche ben mirate del suo fucile M4 li stende entrambi facendogli saltare la testa. Poi si muove rapido per uscire di lì, si dirige verso la porta, la spalanca e finalmente è fuori da quell’inferno. Non avrebbe resistito un secondo di più con la puzza e lo schifo che c’era in giro. Fuori c’è ad aspettarlo il mezzo blindato. È una Range Rover di colore nero su cui hanno montato una mitragliatrice calibro .50 in ralla. Si avvicina al finestrino anteriore abbassato e dice –Ehi ragazzi, ma perché non andiamo in un negozio di liquori? Ci prendiamo qualche superalcolico e ce la spassiamo per una volta…-
-Certo, così poi agli zombie gli spariamo da sbronzi!- Ribatte l’autista. –Non so voi ma un goccetto non ci starebbe male…- Interviene il rallista –Niente da fare, non si beve un cazzo, abbiamo un lavoro da sbrigare, perciò facciamolo e non rompete i coglioni. Sali ‘Cesco.-
-D’accordo grande capo!- Il contractor sale a bordo e l’autista accelera rombando allontanandosi da quegli edifici. Milano dopo la catastrofe si è trasformata in una città fantasma. A parte gli zombie naturalmente. I pochi superstiti sono infatti fuggiti in campagna, sempre se ci sono arrivati. L’auto si dirige verso Piazza Duomo. Sfreccia rapida fra le vie deserte, mentre uno sparuto gruppo di non-morti si avvicina dal marciapiede –Ehi Teo!- Grida Giorgio, il capo –Fagli saltare le cervella!-
-Con piacere!- Risponde il rallista prima di far piovere una cascata di proiettili sui sacchi di carne morta che si muovono caracollando nella loro direzione. Poi la macchina li supera e svolta a destra, perdendoli dalla vista. La macchina avanza ancora e ancora fino a che non giunge in vista del Duomo. Si staglia alto nel cielo notturno. La piazza è vuota, a parte quattro o cinque zombie qua e là. Con la macchina arrivano a ridosso dei portoni e scendono, tutti tranne Matteo che rimane in Ralla. ‘Cesco, Giorgio e Alex avanzano verso la porta principale e rimangono a contemplare le incisioni e le sculture sopra di essa. Un’opera d’arte. Giorgio avverte Teo di stare attento e di segnalare qualsiasi pericolo con il walkie – talkie. Poi Alex estrae dal bagagliaio un piccolo generatore elettrico che trasporta tenendolo con entrambe le mani. Si avvicinano tutti e tre alle porta ma, prima di entrare, Giorgio dice –Ragazzi, sappiamo bene ciò che dobbiamo fare. Entriamo, lo facciamo e ce ne andiamo, intesi?- Gli altri due annuiscono –Perfetto… “secondi a nessuno ragazzi”- Spinge la porta socchiusa e sono dentro. La navata centrale è vuota, come il resto della cattedrale. È enorme, più di quanto tutti e tre si ricordavano. Il loro obbiettivo è uno solo: recuperare il chiodo di Gesù chiuso nella croce d’oro incastonata nel rosone, posto sul muro di fondo a parecchi metri d’altezza. L’unico  modo per raggiungerlo è utilizzare l’ascensore “Nivola”. Per quello portavano con loro il piccolo generatore elettrico. L’arcivescovo di Milano, colui che li aveva “assoldati” per portare in salvo la sacra reliquia di Dio, gli aveva affidato la chiave di attivazione e di sblocco dell’ascensore. ‘Cesco teneva il dito pronto sul grilletto al primissimo segno di pericolo. Pronto a sparare. Alex si avvicinò all’ascensore, posta sul lato destro della chiesa. Si avvicinano all’argano elettrico che la solleverebbe fino alla reliquia. Alex, che è anche il meccanico del gruppo, attacca il generatore alla batteria dell’argano e gli da energia, continuando per alcuni minuti. Giorgio nel frattempo si avvicina all’altare per capire come poter estrarre la reliquia. Il modo migliore sarebbe staccare la piccola teca di vetro in cui vi è il chiodo e portarla con loro, ma è saldata alla croce, perciò devono escogitare un metodo per staccarla. Dopo aver caricato l’argano a sufficienza, lo fanno muovere fin al punto stabilito. Giorgio sale sull’ascensore e questa viene fatta arrivare all’altezza della croce. Qui il capo vede molto bene il chiodo. Estrae una piccola fiamma ossidrica dallo zaino che porta in spalla e inizia a sciogliere il vetro nei punti in cui è saldato. A poco a poco si scioglie, lasciando smuovere il vetro. Ancora poco e finalmente riesce a staccare il piccolo blocco all’interno del quale si trova la sacra reliquia –Ok Alex, puoi tirarmi giù ora…- Alex annuisce e attiva i comandi per far scendere l’ascensore. Giorgio raggiunge terra e in quel momento, quasi fosse un sacrilegio prendere il chiodo, alcuni preti infettati e perciò trasformati in zombie escono da una sagrestia laterale. Quando li vedono i tre contractor restano di sasso: sono almeno una quindicina! Partono alla carica urlando e ringhiando mentre i tre mercenari corrono verso l’uscita –Il generatore!-
-Chissene frega del generatore Alex! Muoviamoci cazzo!- Francesco si volta ed esplode alcuni colpi del suo caricatore abbattendone un paio, poi prosegue la corsa. Alex, che è il più veloce, ha raggiunto in un attimo il generatore, lo raccoglie e corre verso la porta che spalanca con un calcio. Poi mette a posto il macchinario nel bagagliaio e si appresta a coprire gli altri. Teo in ralla spara verso i preti, abbattendone diversi, mentre sempre più zombie si avventano sul piccolo gruppo. Giorgio sale sul sedile posteriore tenendo in mano la reliquia, mentre ‘Cesco di mette al volante. Matteo li tiene lontani finché l’auto non parte via sfrecciando lontano da piazza del Duomo. Ce l’hanno fatta –Ottimo lavoro ragazzi, davvero una buona caccia- si complimenta il capo. Tutti sono felici, persino Teo che scende dalla Ralla e si siede a fianco di Giorgio. Osserva il chiodo compiaciuto di poterlo stringere fra le mani. Era credente ma non partecipava alle messe prima che accadesse il disastro. Francesco svolta a desta avanzando dritto. Prossima fermata avamposto Charlie, zona di sicurezza sono stati messi in salvo l’arcivescovo e le maggiori cariche ecclesiastiche del clero milanese. È lì la loro prossima meta. È lì che devono consegnare la reliquia. Lì terminerà definitivamente il loro accordo. E lì saranno pagati. Perché sono contractor. E sono “Secondi a nessuno”.
 
Povero bambino
 
Povero bambino… lo vedo mentre quei dannati mostri pasteggiano con i suoi miseri resti. Purtroppo ho assistito a tutta la scena: era sull’altalena e stava giocando, quando ad un tratto da un cespuglio sono usciti fuori alcuni zombie. Da dove siano arrivati nessuno può dirlo con precisione, fatto sta che il piccolo ha tentato di fuggire, scappando verso l’uscita del parco giochi, ma uno di quegli infetti l’ha preso per le gambe e lo ha tirato a terra, facendogli sbattere il viso contro l’erba. Ha iniziato immediatamente a piangere mentre una donna ormai in decomposizione gli stava mordendo il braccio e altri gli staccavano a morsi brandelli di carne dal corpo e dal petto. Una cosa davvero orribile, ho visto tutto dalla finestra di casa ma non ho potuto fare niente per aiutarlo! È stato orribile! E la cosa ancora più orribile è che adesso vi sono almeno un centinaio di zombie sotto a casa mia che bramano le mie carni. È un incubo, non sta succedendo veramente… non può succedere…
 
Cecchini
 
-Ce l’ho nel mirino, che faccio?- Il cecchino stava sdraiato sul tetto, l’occhio sinistro chiuso e l’altro che osservava l’interno di un’ottica. Il suo bersaglio era un non-morto a un centinaio di metri. Un obbiettivo semplice, molto vicino, nessun problema. Però deve avere l’ordine. –Spara, fallo fuori- Non aspettava altro. Preme leggermente il grilletto, il colpo parte e in una frazione di secondo trapassa il cranio dello zombie che cade a terra. Non ha nemmeno raggiunto la recinzione elettrificata. Ottimo. Da quando hanno recintato tutto il villaggio e l’esercito l’ha trasformato nella sua base operativa, i cecchini di sentinella devono sempre stare più allerta. Nessuno può dire quando un morto potrebbe arrivare. Sono in tutto 9. Disposti in vari punti sui tetti. N°2 è sul tetto dell’ospedale, ha poco più di trent’anni ed è nell’esercito da quasi sette, prima ancora che iniziasse la pandemia e i morti si risvegliassero. Ora quell’avamposto, l’unico sulla terraferma, che comunicava direttamente alla flotta di portaerei dove era stato installato il governo provvisorio dopo lo scoppio dell’apocalisse, si era trasformato in un campo profughi per tutti i sopravvissuti che venivano spostati a bordo delle navi da crociera requisite dal governo per ospitare i civili. Il lavoro di quelli come N°2 era di assicurarsi che il campo fosse al sicuro. Dove fosse la sua famiglia non lo sapeva, erano ancora vivi i suoi famigliari? Non poteva saperlo. Magari avevano raggiunto un luogo sicuro da qualche parte. Ma non ci sperava più di tanto. Non poteva dire di non essere triste per questo. Però tutto ciò che era successo l’aveva indurito, rendendolo più forte verso gli attacchi della vita. Doveva tenere duro per tutti coloro che contavano su di lui, per tutti coloro che avevano ancora una speranza e non l’avrebbero persa fino a che l’uomo non fosse stato estinto. Si poteva resistere, si doveva resistere. Potevano riuscire a contrattaccare il loro nemico. Era un nemico più grande di loro, e più perdite subivano più le fila del nemico si ingrossavano. Ma avrebbero resistito, fino alla fine.
Arrivò un ordine all’auricolare –Spostarsi di posizione N°2 e N°5, dirigetevi entrambi sul tetto dell’ospedale, passo-
-Ricevuto, esegue- rispose N°2 prima di alzarsi e dirigersi verso le scale antincendio per raggiungere la strada da cui sarebbe andato all’ospedale che distava poco più di duecento metri dalla sua attuale posizione. Proseguì ancora, passando in mezzo ad una via in cui vi era un piccolo spaccio per i soldati che vendeva di tutto: dai carica batteria ai cellulari, dai pacchetti di sigarette al cibo in scatola. Quei banchetti erano molto apprezzati dai militari che spesso si ritrovavano senza possedere questi beni non strettamente necessari alla loro missione. Il fucile che imbracciava era un modello M24 Remington, color sabbia. Raggiunse la scala che conduceva al tetto dell’ospedale e lì trovò N°5 ad aspettarlo, già sdraiato a pancia in giù, con l’occhio nell’mirino, puntando verso qualcosa in lontananza. Guardò anche lui e intravide un gruppetto di una decina di morti viventi che si avvicinava al villaggio. Si sdraiò come il suo commilitone e chiese istruzione all’auricolare –Comando qui N°2, io e N°5 abbiamo avvistato un gruppo di vari stecchiti avanzare verso le recinzioni. Attendiamo ordini per regole d’ingaggio, passo.-
-Qui comando, attaccare, ripeto, attaccate, non fateli avvicinare, eliminateli da lontano, passo-
-Istruzioni ricevute- Poi, rivolto al suo compagno –Facciamoli fuori-
-Tiro al bersaglio?-
-Chi perde paga una lattina di birra allo spaccio, d’accordo?-
-Ci sto…-
-Allora pronto, 3… 2… 1…Fuoco!- N°5 spara il primo colpo, ma va a vuoto perché non ha mirato con precisione. N°2 mira con calma, fa combaciare il puntino rosso dell’ottica con la testa di un morto. Aspetta alcuni attimi poi preme il grilletto. La testa scoppia in mille pezzi. 1 a 0 per lui. N°5 però, nel frattempo ne aveva freddati altri due. Ne rimanevano quattro. Doveva solo stare calmo e respirare lentamente. Avrebbe centrato il bersaglio, certamente. Puntò ad una donna-zombie che caracollava al fianco degli altri ormai in decomposizione. Preme il grilletto. Il bersaglio viene raggiunto dalla pallottola. Altro punto per lui. Alla fine riescono ad ucciderli tutti tranne uno. È L’ultimo. Ormai ha vinto N°5 ma se N°2 riesce a prenderlo avrà la sua vendetta personale. Lo punta con calma. Ormai è a poco meno di cento metri. Ce l’ha sotto tiro, si appresta a premere il grilletto per freddarlo ma il suo commilitone lo anticipa sparandogli alla testa -Merda! Era mio!-
-Col cazzo, amico, hai perso la tua opportunità, ora paga la birra e taci!- si mettono a ridere entrambi, poi N°2 comunica all’auricolare che i bersagli sono eliminati.
Quel pomeriggio dovrà comprare una lattina di birra per N°5, e non c’è cosa che lo faccia incazzare di più che batterlo al tiro al bersaglio. 
 

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Capitolo 6
*** Parte 6 ***


 
Il cellulare
 
Germania, sette giorni dopo l’inizio dell’infezione.
-Mi stai dicendo che devo legarmi questi giornali al braccio?-
-Sì, una volta l’ho visto fare in un film- rispose il giovane ragazzo. Si posizionò un giornale leggermente piegato contro ad un avambraccio e poi lo fissò con del nastro isolante, così che la rivista facesse da protezione contro eventuali morsi. –D’accordo.- Rispose la ragazza imitandolo. Una volta portato a termine il lavoro si guardarono intorno: si trovavano all’interno di un appartamento del palazzo dove abitavano, erano fratello e sorella e si trovavano a casa da soli quando i morti giunsero anche in quella città. Il ragazzo aveva diciassette anni mentre la ragazza ventuno. Stavano tentando di raggiungere i soccorsi per uscire da quell’inferno e scappare via da lì, ma non sarebbe stato facile, per niente. I morti avevano invaso le strade, ostruendole e facendo strage di tutti coloro che erano sopravvissuti al primo attacco. I militari avevano tentato un’estrema difesa, ma dopo poco tempo dovettero ritirarsi per non subire perdite inutili, cercando di evacuare la maggior parte della popolazione. Ma non tutti erano riusciti a salvarsi, e in quel gruppo di persone vi erano anche i due ragazzi: Karla e Adolf.
Adolf guardò sua sorella: l’aveva sempre trovata molto bella. Impugnava un coltello da cucina mentre il ragazzo imbracciava un bastone da passeggio appartenuto a suo nonno. Si erano difesi con quelle armi di fortuna dagli attacchi di quelle bestie. Ora il loro obbiettivo era trovare una pattuglia di militari o comunque qualcuno che li potesse salvare. Proseguirono il loro cammino uscendo dall’appartamento. Lo fecero con cautela assicurandosi che sul pianerottolo non vi fossero dei morti viventi. Si guardarono intorno poi iniziarono a salire una rampa di scale, per andare al piano superiore, dove avrebbero cercato negli appartamenti un telefono funzionante per avvertire le autorità. Oltrepassarono la prima porta e si guardarono intorno pronti a difendersi da qualsiasi pericolo. Avanzarono nel corto corridoio e giunsero in una specie di salottino dove vi era, ritto in piedi al centro della stanza, un uomo. Era di spalle ma si poteva capire indubbiamente che si trattava di uno zombie: I suoi vestiti erano completamente imbrattati di sangue. Karla gli si avvicinò con cautela, tenendo saldamente in mano il coltello pronta a farlo guizzare verso la testa dell’uomo per poterlo uccidere una volta per tutte. Adolf invece rimaneva fermo. Forse spaventato. La sorella si trovava ad un passo dall’uomo quando questi si girò di scatto e, vedendola, le si avventò contro. Lei istintivamente alzò il braccio per difendersi e la mandibola dello zombie si chiuse sulla rivista assicurata all’avambraccio. Però la foga con cui attaccò mandò a terra la ragazza che iniziò a urlare tentando di difendersi con il coltello. Adolf nel frattempo corse in soccorso di Karla, alzando il bastone e facendolo ricadere con forza sulla testa del non-morto. Poi ancora e ancora, fino a che il cranio non si frantumò. Il cadavere cadde di peso sulla ragazza che urlò per il dolore. Il diciassettenne l’aiutò a liberarsi spostando la salma di lato. –Ora troviamo quel cazzo di telefono!- Sbottò la ragazza. Entrambi cercarono fra i cassetti e le varie stanze dell’appartamento ma non trovarono nulla. Allora Adolf disse –Potrebbe avere in tasca un cellulare- e indicò il cadavere disteso a terra –Io non ci controllo!- Disse la ragazza facendo una smorfia di disgusto –Va bene, ci penso io- Rispose il ragazzo. Si avvicinò al corpo e vi inginocchiò di fianco. Deglutì e iniziò a cercare prima nelle tasche del maglione di lana passando poi a quelle dei pantaloni. Niente. Poi però cercò nel taschino della camicia e lì le sue dita incontrarono qualcosa di duro: un cellulare. Lo estrasse e lo mostrò a sua sorella con felicità –L’ho trovato! Ho trovato un cellulare! Yuuhu!-
-Grande Adolf, forza chiama i soccorsi!- Il ragazzo compose il numero 112 per il soccorso pubblico e attese mentre la chiamata rimaneva sospesa: “tuuu”… “tuuu”…”tuuu” il suono si ripeté per alcune volte ma poi finalmente qualcuno rispose: -Qui polizia, con chi parlo?-
-Mi chiamo Adolf shfretz, io e mia sorella siamo sopravvissuti, abbiamo bisogno di aiuto, dovete salvarci!-
-Okay, stai calmo, dove ti trovi? E quanti anni avete?-
-Ci troviamo in un palazzo al numero 34 di Ervin  Straße, nella città di Kosh. Io ho diciassette anni mentre mia sorella ventuno!-
-Puoi passarmi tua sorella per piacere?-
-Certo- Passò il telefono cellulare a Karla –Agente, la prego ci deve salvare!-
-Stia calma, andrà tutto bene, vi tireremo fuori di lì, ora manderemo un elicottero a prendervi, sul tetto di quel palazzo, il numero 34 di Ervin Straße. Dovrete aspettare circa un’ora, potete farcela?-
-Certo, diamine, non le saremo mai grati abbastanza! Grazie!- Iniziò a piangere per la felicità, passò il telefono a suo fratello che ringraziò e chiuse la chiamata. Entrambi si abbracciarono euforici. Ora dovevano salire sul tetto e assicurarsi che la zona fosse sicura per l’atterraggio dell’elicottero. Iniziarono subito a salire le scale verso la sommità dell’edifico.
Da ogni appartamento provenivano lamenti e ringhi di qualche zombie isolato. Salirono ancora e poi giunsero alla porta che dava sul tetto. Uscirono fuori e controllarono la zona: era libera, completamente. Chiusero la porta dietro di loro e la sbarrarono con una spranga di ferro appoggiata lì vicino. Adolf controllò il suo orologio al polso e constatò che mancavano poco più di tre quarti d’ora. Perciò si sedettero con la schiena contro il muro e iniziarono a parlare –Ehi, certo che è strano…-
-Cosa?- chiese Adolf –Che ci vengono a prendere. Secondo te verranno per salvare noi due?!-
-Certo che verranno! Staranno cercando sopravvissuti e noi abbiamo avuto la fortuna di comunicargli la nostra posizione. Vedrai che entro poco saranno qui- Poi abbracciò sua sorella e rimasero stretti in attesa dell’elicottero.
Karla aprì gli occhi con calma. Si era appisolata contro il muro. Davanti a lei, in piedi vi era Adolf sorridente –Lo senti?!- Le chiese. Lei socchiuse gli occhi concentrandosi sull’udito: in lontananza proveniva il rumore di un elicottero in movimento. Stavano venendo a salvarli! Si alzò di scatto e guardò nella direzione da cui proveniva il rumore. Vi era un puntino nero in avvicinamento, che dopo pochi minuti si distinse nitidamente: erano arrivati i soccorsi. Era un elicottero della polizia. A bordo vi erano un pilota e due agenti delle forze speciali armati di mitraglietta. Vi erano anche quattro altri sopravvissuti, sicuramente tratti in salvo da qualche tetto come Adolf e Karla. Uno degli agenti si avvicinò ai ragazzi e li esortò –Forza, muoversi, muoversi! Salite a bordo!- Li aiutarono e in un attimo furono sopra al velivolo da trasporto. Questo decollò iniziando a tornare verso il punto da cui era venuto. Erano salvi. Ce l’avevano fatta. E tutto grazie a un cellulare.
 
Preghiera
 
Perché succede tutto questo? Perché mi chiedo. Perché ogni giorno dobbiamo combattere per sopravvivere ad una piaga mai vista prima. I morti ritornano in vita. Niente di tutto questo può essere umanamente concepito, fa tutto parte di un tuo progetto superiore ma ti prego aiutaci a comprenderlo! Perché ogni giorno io stesso vedo persone morire come mosche, sbranate da quei demoni che un tempo erano i nostri cari? Perché?! Ti prego aiutaci, non abbandonarci! Siamo in balia delle tue decisioni, come piccoli granelli di sabbia in balia delle onde. Ti prego mio Dio fa si che da questa piaga l’uomo rinasca diventando più forte di prima, e che creda ancora in te, unico vero Dio. Ti prego. Fa che la mia preghiera si realizzi. Amen.
 
Vaccino
 
Lo scienziato stava chino sul tavolo, su cui erano appoggiate varie boccette e microscopi. Indossava una tutta protettiva per non entrare in contatto fisicamente con i campioni del virus. Il tanto temuto virus “Z” che faceva tornare in vita i morti. Da alcuni studi che avevano compiuto sui campioni che gli erano stati inviati in precedenza, avevano constatato che il virus infettava le persone vive e sane nello stesso modo in cui infettava la rabbia. –Ehi Jess vieni qui- disse all’altra scienziata vicino a lui –Guarda all’interno di questo microscopio…- Lei lo fece e vide che all’interno del sangue si muoveva un agente patogeno esterno di colore nero pece. Si muoveva nella cellula del sangue come se vi stesse pattinando sopra. –Non capisci?- Chiese il medico retoricamente –Il virus “Z” si comporta esattamente come il virus della rabbia. Se un vivo viene infettato da un morto attraverso un morso, l’infezione arriva al cervello e lo infetta, trasformandolo in una bestia che, come i non-morti, ha il solo scopo di infettare altri vivi. È esattamente come la rabbia, soltanto che, anziché spostarsi di circa cinque centimetri al giorno all’interno delle fibra muscolari, si sposta in una decina di secondi raggiungendo immediatamente il cervello!- Jess rimase di stucco. Era una notizia semplicemente fantastica –Perciò, dottore, per la rabbia c’è un vaccino… perciò…-
-Già, se riusciamo ad isolare gli agenti patogeni del virus dalla cellula di sangue, cosa non particolarmente complicata, possiamo creare un vaccino!-
-Ma è meraviglioso!- Si abbracciarono felici. Il loro lavoro, durato molte settimane, finalmente aveva dato i suoi frutti, portando dei risultati concreti che avrebbero potuto usare per debellare il virus. Subito Lo scienziato si mise al lavoro per isolare il virus mentre Jess uscì dalla stanza per comunicare agli altri i loro progressi. Ce l’avevano fatta. Potevano creare un vaccino, potevano far sì che tutti i sopravissuti avessero la possibilità di rimanere immuni dall’infezione portata dai non morti, rimanere immuni al virus “Z”. Avevano vinto, si erano assicurati la salvezza. Il genere umano per l’ennesima volta dall’inizio dei tempi aveva fatto in modo che la sua specie non si estinguesse.
 
FINE

 

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