Il mare è un segreto

di DameOfWax
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Partenze ***
Capitolo 2: *** Selene ***
Capitolo 3: *** Approdo ***
Capitolo 4: *** Addii ***
Capitolo 5: *** Superstiti ***
Capitolo 6: *** Verità ***
Capitolo 7: *** Dodici anni dopo ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Partenze ***


Un paio di giorni prima, una quarantina di uomini era salpata dall’isola con due piccole navi e l’intenzione di raggiungere la città, dove vendere il pesce. Quando gli affari non andavano bene, i pescatori, per guadagnare qualche moneta in più, erano costretti a spingersi verso la città, che di rado li faceva tornare a mani vuote. Nonostante il successo che la vendita del pesce aveva nel mondo oltre l’isola, i pescatori non vi si spingevano spesso, né tanto volentieri, se non in casi di vera necessità. Durante il viaggio d’andata, la navigazione era andata avanti in modo tranquillo, senza particolari problemi. In tarda serata erano approdati nel porto, dove avevano riposato. Poi il giorno successivo avevano raggiunto il mercato del pesce e fatto buoni affari. Stanchi, la sera erano rientrati sulla nave e avevano cenato e bevuto abbondantemente, con i volti radiosi e le tasche tintinnanti di monete.
«Partiremo domattina all’alba, se il mare ce lo permette», disse Stan, il più vecchio e esperto del gruppo. «Alla salute!» alzò un grosso boccale e tutti brindarono insieme a lui.
«Sarebbe meglio non esagerare», intervenne un altro uomo. Era alto e robusto, il viso era attraente e la pelle era abbronzata. Non era tra i più giovani, ma era un uomo molto bello. I capelli scuri avevano qualche filo grigio e incorniciavano un paio d’occhi verde mare. L’avanzare dell’età aveva iniziato a sbiadire i suoi capelli, ma nemmeno il tempo sarebbe mai riuscito a sbiadire l’intensità del suo sguardo.
«Rilassati, Etan! Manda giù un altro sorso!», un ragazzo leggermente zoppicante alzò il boccale e scoppiò in una fragorosa risata.
«Non credi di aver esagerato un po’, stasera, Soldato?» rispose Stan rivolgendosi al ragazzo. Quest’ultimo era uno dei pochi sulla nave a non essere un pescatore. Era famoso sull’isola per i suoi datteri buonissimi, che portava a vendere in città, e lui sì che faceva davvero fortuna. Il suo nome era Alan ma tutti lo chiamavano Soldato, perché raccontava di aver combattuto in guerra come soldato semplice. S’era trovato a combattere quand’era soltanto un ragazzino, nonostante la sua giovanissima età. Era rimasto ferito molte volte ma alla fine se l’era cavata con qualche cicatrice e una gamba non del tutto a posto. Adesso aveva diciotto anni.
Stan riprese a parlare: «Etan ha ragione. Basta così, per stasera. Andiamo tutti a riposare, domani ci aspetta un viaggio faticoso, ed è meglio che tutti siano lucidi e freschi.» e con queste parole li congedò. Era una sera mite, il sole era appena andato a dormire e per poco sarebbero ancora rimaste le luci del tramonto che insanguinavano il cielo. A est iniziarono a spuntare le prime stelle e Stan tirò un sospiro soddisfatto. Soffiava un leggero venticello, ma non c’era l’ombra di una nuvola. La navigazione sarebbe andata per il meglio, l’indomani. L’altra nave che stava con loro aveva deciso di partire quella sera stessa.
«Prima torniamo, meglio è» aveva sentenziato Ben, l’uomo che prendeva il comando di quella nave. «La sera sembra serena, non dovremmo avere problemi. Siamo stanchi, ma i miei uomini preferiscono tornare il prima possibile. Lo sai che non amano la città, preferiscono la quiete dell’isola. Come biasimarli?»
«Sta bene» borbottò Stan. «Ci vediamo presto. E fate attenzione». Nelle sue parole c’era un tono velato di affetto.
«Attenzione a voi, piuttosto. Non si sa mai cosa potrebbe succedere con una donna a bordo!». Ben ridacchiò e indicò con lo sguardo una ragazzina sulla nave di Stan che intagliava un pezzo di legno. La ragazzina parve aver sentito le parole di Ben e si infuriò, urlandogli contro.
«Io non sono una ragazzina! Sono un marinaio!» e con innaturale forza scagliò il pezzo di legno intagliato verso di lui, con successo.
«Come diamine avrà fatto?» gridò Ben, molto irritato. «Sta attenta, ragazzina, non la passerai liscia!». Stan se la rideva sotto i baffi, e mentre Ben si voltava e andava a prendere il comando della nave, giurò di averlo sentito borbottare: «Le donne portano solo guai!».
La ragazzina aveva ripreso a intagliare un altro pezzo di legno. Era un tipo strano: aveva i capelli tagliati corti e non vestiva decisamente come una ragazzina, bensì aveva un tipico abbigliamento maschile e uno strano cappello in testa che la rendeva ancora meno femminile. Aveva i capelli neri e i suoi occhi erano nocciola, intensi e bellissimi, il suo naso era spruzzato di lentiggini. Una nave non era il luogo adatto per una donna, secondo la gente dell’isola, tantomeno per una ragazzina. Doveva avere quattordici, quindici anni, ma aveva fin troppa forza e determinazione per la sua età. Aveva pregato Stan di portarla in viaggio con loro, di farla salire sulla nave e portarla fino alla città, e quando Stan si era mostrato contrario, si era fiondata sulla nave e aveva rifiutato categoricamente di scendere. Nessuno era riuscito a dissuaderla, nemmeno la sua povera zia, e così il cuore buono di Stan l’aveva fatta restare. Il suo vero nome era Jasmine, ma voleva a tutti i costi essere chiamata Andrea. Sull’isola viveva con la sua vecchia zia. Sua madre se n’era andata dandola al mondo e suo padre era morto pochi anni dopo la sua nascita, in seguito ad un naufragio. Quel giorno aveva portato le sue collanine di conchiglie e le sue statuette di legno ed era riuscita a venderne qualcuna al mercato. Non aveva altro se non il suo talento nello scolpire e la sua fantasia senza confini, proprio come il mondo che voleva tanto esplorare.
Partirono all’alba, come avevano progettato, con i raggi del sole che facevano capolino fra le colline. C’era lo stesso venticello della sera precedente, ma nessuna nuvola all’orizzonte.  La navigazione procedette veloce e tranquilla, fino a mezzogiorno, quando il vento iniziò a farsi più forte, sollevando onde più alte. Si trovarono in difficoltà. Stan voltò lo sguardo a destra e vide il suo timore più grande farsi reale: una grande massa di nuvoloni grigi e minacciosi si stagliava cupa. Sentì una fitta di panico attanagliargli il cuore, ma si sforzò di mantenere la calma.
«Stan, dobbiamo tornare indietro! Dobbiamo ritornare al porto!» gridò Soldato.
«Non essere sciocco, Soldato! Ci siamo allontanati troppo. Le nuvole si muovono in fretta, non servirebbe a nulla.» intervenne Etan.
«Dobbiamo proseguire, non c’è altro modo. Non siamo molto distanti dall’isola, ancora una manciata di minuti e dovrebbe iniziare a intravedersi la costa.» Stan andò al comando, cercando di mantenere lucida la mente. Ma si sbagliava. L’isola era più lontana di quanto credesse. Le onde si facevano sempre più alte, le nuvole sempre più minacciose. In breve tempo coprirono il cielo sopra di loro e la pioggia non tardò a cadere, furiosa. La nave venne sballottata fra le onde come un giocattolo in balia del mare: impetuoso, non era dell’umore giusto, non sembrava dare tregua. In molti maledissero i suoi misteri, in molti maledissero la sua mutevolezza.
Stan si rivolse ai pescatori che stavano in sopraccoperta: «Ammainate le vele!».
Tutto era cupo. La pioggia divenne tanto fitta da rendere difficoltosa la vista.
«Tutti sottocoperta, presto!». Stan afferrò Andrea, paralizzata dal terrore, e la affidò a Soldato. «Mettetevi al sicuro! Non ci resta che aspettare che la tempesta finisca!»
«Stan, abbiamo un problema! La nave è danneggiata, stiamo imbarcando acqua!».
Un’onda grandissima si scagliò contro la nave, provocando brusche scosse. Si sentì l’albero scricchiolare. Stan fu sbalzato a terra e batté la testa contro qualcosa.
“Tenete duro, amici” e svenne.

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Capitolo 2
*** Selene ***


Il mare è un segreto, un abisso infinito. E’ un mondo a parte da quello terreno. Il mare è bellissimo e insidioso. Il mare è un allettantissimo pericolo. Il mare risplende alla luce del sole, si agita alle carezze del vento, spumeggia ai suoi schiaffi e si infrange sugli scogli. Il mare. Ama, odia, protegge, distrugge. Un uomo davanti al mare è un uomo davanti ad uno specchio. Esso ama se tu lo ami, se lo odi invece ti appare ostile, ti protegge se è sereno, ti distrugge se è in tempesta. Anche solo interiormente. Per la gente dell’isola guardare il mare in tempesta era una ferita dolorosa, capace di rimarginarsi soltanto quando tutto era davvero finito. La gente dell’isola amava profondamente il mare, ma temeva per i propri pescatori. Non sempre il mare è clemente. Si prende semplicemente ciò che gli pare, anche senza preavviso, e non c’è niente che sia in grado di fermarlo. Per questo motivo poteva apparire davvero spaventoso, soprattutto agli occhi di un bambino.
«Mamma, ho paura».  La piccola Selene aveva otto anni e l’acqua del mare non le piaceva. Era limpida, ma non si fidava di quella limpidezza. Tante volte aveva visto il mare mutare, agitarsi improvvisamente, diventare enorme, inquieto, cattivo, e abbandonare di colpo quella sua bellezza e serenità che tanto sembrava ostentare.
«Sta’ tranquilla, perla mia, ti tengo la mano». Le parole della mamma e la mano che stringeva forte la sua, di solito capaci di far miracoli, non riuscirono a calmarla. Appena l’acqua le sfiorò i piedi, lasciò la presa e corse nella parte più lontana della spiaggia, dove le onde non potevano raggiungerla. Solo così si sentiva al sicuro. Poi si vergognava. Voleva riuscire ad essere coraggiosa come la sua mamma. L’aveva vista tante volte, insieme al papà, camminare sulla riva del mare, con l’acqua che le bagnava le caviglie e la serenità che le faceva stendere un sorriso; oppure starsene per lunghi minuti davanti al mare, quando la spiaggia era vuota, da sola, quando il papà non c’era. Selene a volte la guardava per tutto il tempo. Le sembrava che ogni volta i suoi occhi pregassero. Le sembrava che le onde si muovessero verso la madre e le afferrassero le caviglie, volendola portare via insieme a loro, e allora la piccola tratteneva il respiro, reprimendo la voglia di avvertirla, affinché si mettesse in salvo. Ma poi le onde si ritiravano, abbandonando dolcemente la presa, e Selene tirava un sospiro di sollievo. Non voleva che la sua mamma se ne andasse via con il mare, come faceva il papà.
 La mamma le sorrise e la raggiunse. Gli altri bambini sembravano felici di giocare nell’acqua, di bagnarsi a vicenda, di spingersi più lontano. Sull’isola dove viveva tutti amavano il mare. Per loro era una cosa naturale, se non persino ovvia. Lei però non c’era riuscita mai.
«D’accordo, se non vuoi stare sulla riva restiamo qui. Possiamo cercare le conchiglie». La mamma era sempre paziente. A Selene piaceva cercare le conchiglie e i sassolini colorati. Con papà, lo faceva sempre. Facevano la gara a chi trovava i più belli. Quello più fortunato era sempre lui, ne trovava tantissimi e con tantissime sfumature. Selene ne rimaneva incantata e cosi il papà glieli regalava tutti. «Perché non ne fai una bella collana?» le disse una volta. «Una collana preziosa, con i gioielli del mare. Così sembrerai la sua principessa». E così lei ne fece una, e la indossò, e diventò principessa. Principessa della cosa che le faceva più paura. Ma lontana dall’acqua e con il suo papà sentiva che niente poteva farle del male.
«Dov’è papà?». Il sorriso sul volto della madre parve farsi più flebile e i suoi bellissimi occhi verdi spegnersi all’improvviso. Una nuvola nascose il sole dietro di sé.
«Andiamo a casa, perla mia.»

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Capitolo 3
*** Approdo ***


Un vento insolito aveva iniziato a soffiare tra le palme dell’isola. Una piccola nave approdò nel porto un paio d’ore dopo mezzogiorno. Si udirono grida di entusiasmo dalla gente che camminava per le strade.
«Sono arrivati, sono arrivati!». Davanti al porto si radunò una piccola folla. La gente del posto attendeva sempre impazientemente i pescatori e gli altri commercianti: vederli ritornare era un sollievo per tutti. Una giovane donna si precipitò in casa di Selene.
«Hanna! Hanna, sono tornati! ».
La madre, sentendosi chiamare, corse nell’ingresso. Prese Selene per mano e insieme alla donna uscirono fuori.
«Vieni, perla mia. Sono tornati i pescatori». Ciò voleva dire che era tornato anche papà. Quando raggiunsero il porto gli uomini stavano scendendo dalla nave. Erano stati via un paio di giorni, ma il mare era stato clemente con loro e tutti erano felici. Raggiungevano i propri familiari e li salutavano, per poi tornare a casa. Hanna si guardava intorno in cerca di suo marito. Un ultimo uomo scese dalla nave e lei lo riconobbe. Era un tipo corpulento e il suo viso tradiva una certa preoccupazione. Era Ben, il comandante. Si rivolse a Selene: «Aspettami qui con Sienna, piccola.».
Appena Ben la vide, le sorrise e la abbracciò. «Hanna! Come stai?»
«Bene. Spero abbiate fatto buon viaggio».
«Sì. E’ andato tutto bene. Il vento si sta alzando. Abbiamo fatto appena in tempo».
«Dov’è Etan?». Ben la fissò, sorpreso.
«E’ sull’altra nave. Sulla nave di Stan».
«E l’altra nave dov’è?».  Hanna lo fissava con occhi di vetro, pronti ad andare in frantumi da un momento all’altro.
«Sono partiti dopo. Hanno preferito riposare e partire all’alba. Dovrebbero essere qui tra qualche ora, sta’ tranquilla». Cercava di tranquillizzarla ma in realtà anche lui era turbato. Il mare stava mutando. Il cielo si stava facendo cupo. La gente sapeva che cosa aspettarsi, quando il tempo cambiava così velocemente. In lontananza, un fulmine squarciò il cielo plumbeo. Si sentì l’eco agghiacciante e minacciosa di un tuono. Tutti si voltarono verso il mare.
«Oh mio Dio …». Hanna si portò una mano alla bocca. Selene raggiunse la madre e le prese la mano.
«Mamma, dov’è papà?».

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Capitolo 4
*** Addii ***


Stan non li aveva raggiunti sottocoperta. Etan era preoccupato. Salì sul ponte, ma non riusciva a vedere lontano, a causa della pioggia. Un fulmine si stagliò nitido nel cielo per un breve istante. La nave si stava inclinando su un lato. Ad un tratto vide Stan disteso a terra, privo di sensi, dalla parte opposta. Lo raggiunse in fretta e cercò di farlo svegliare, inutilmente. Decise di portarlo al coperto, dove si trovavano tutti gli altri. “Ma che diamine succede alla nave?”, pensò. Mentre tentava di afferrare il comandante per le spalle, vide che anche altri si trovavano  fuori. Si facevano sempre più numerosi. «Che state facendo? Tornate dentro!».
«No, Etan! La nave sta affondando! Moriremo tutti!» gridò Soldato. Etan rimase scioccato. Stava perdendo il controllo. “Ci deve essere un modo, ci deve essere!”. Ci fu una raffica di vento fortissima che gli fece perdere l’equilibrio. Poi il mare inghiottì ogni cosa. Si prese via tutti. Etan si ritrovò  nell’acqua gelida. Tentò di muoversi, di ritornare in superficie, ma era esausto e il mare troppo ribelle. Aveva visto Stan essere scaraventato in acqua insieme a lui. Sapeva che gli altri avevano fatto la stessa fine. “E’ finita”. Mentre i suoi polmoni reclamavano ossigeno, pensò alla sua isola, alle sue palme, alla sua spiaggia. Pensò a sua moglie e alla sua Selene. Le avrebbe abbandonate per sempre. Era così che molti pescatori finivano, era così che andava. Il mare poteva cullarti quanto desideravi, ma si prendeva sempre in cambio qualcosa. Ti stringeva, ti abbracciava, ma se ti lasciavi troppo andare ti portava via. Hanna, sua moglie, non l’aveva mai capito. Era sempre stata legata al mare, amava ogni singola onda, i pesci, la risacca, le conchiglie. Amava giocare con lui e non la spaventava affatto. In quel momento le mancava. Non avrebbe dovuto lasciarla. Pensò agli altri compagni. Al povero Stan, che nonostante il suo aspetto da duro, aveva un cuore buono. Ad Andrea, ancora troppo giovane per morire. A Soldato, a Daniel, a Fred. A Ben, sperando che si fosse salvato. Almeno lui. Quel giorno il mare portò nel suo grembo le lacrime di un uomo e il dolore di mille.

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Capitolo 5
*** Superstiti ***


Passarono due giorni. Hanna non mangiava, a malapena beveva. Badava a Selene ma sembrava aver perso la voglia di badare a se stessa. Sienna si prendeva cura di entrambe, per quanto potesse. Si assicurava che stessero bene. Una delle due navi partite per la città non aveva ancora fatto ritorno. Le famiglie aspettavano, speranzose, ma la tempesta che c’era stata aveva portato sconforto e desolazione nell’animo delle persone. La loro casa era una di quelle che si affacciavano sulla spiaggia. Il mare si vedeva benissimo. Era stata Hanna a sceglierla, perché da là si poteva avere una vista perfetta della costa. Sembrava quasi che ne avesse bisogno. Hanna guardò fuori dalla finestra. Di colpo si alzò dal tavolo.
«Resta con Selene» disse a Sienna. Si apprestò ad uscire. Sulla spiaggia c’era una figura che faceva fatica a distinguere. Corse sulla sabbia verso la riva. Quando si rese conto di cosa fosse, rimase per un attimo interdetta. Un corpo esile giaceva a terra, privo di sensi.
«Jasmine! Jasmine!». Aveva portato in fretta il corpo fuori dall’acqua e l’aveva adagiato sulla sabbia asciutta. Non sapeva che cosa fare. «Aiuto! Aiuto, qualcuno mi aiuti!». Due uomini e una donna nei paraggi, intenti a spaccare noci di cocco, la raggiunsero.
«Aiutatemi, vi prego! Non respira!» disse Hanna tra le lacrime. Il più grande fra i due uomini intervenne. «Lasciate fare a me» disse. «Forse può ancora farcela». Si inginocchiò davanti al corpo e iniziò a premerle il petto con i palmi delle mani. Poi avvicinò la bocca alla sua per tentare di farla riprendere a respirare. Ripeté l’operazione più e più volte, tanto che Hanna credé che Jasmine non si sarebbe più risvegliata. Era terribilmente spaventata. Se Jasmine era là, priva di sensi, e soprattutto da sola, qualcosa era davvero andato storto. Temeva il peggio per suo marito e gli altri pescatori.  
Forse quell’evento significava che non c’era più speranza. Un gruppetto di gente iniziò a radunarsi tutt’intorno. Ad un tratto la ragazzina riprese i sensi, sputò un lungo getto d’acqua e riprese a respirare. «Jasmine!» gridò Hanna, sollevata.
«Non … mi chiamo … Jasmine. Sono … Andrea» disse ansimando, troppo stanca persino per sorridere. Hanna la strinse forte. Da sempre era stata affezionata alla ragazzina.
«Guardate là! C’è qualcun altro sulla spiaggia!». Un gruppo di uomini corse lungo la riva e recuperò un altro corpo, aggrappato ad un grosso pezzo di legno. Non ci fu bisogno di rianimarlo perché non aveva perso i sensi. Gli uomini lo fecero stendere sulla sabbia asciutta, come aveva fatto Hanna con Andrea. I vestiti erano lacerati e zuppi, il corpo presentava numerosi lividi e ferite. Non era messo meglio di Andrea. Lo sporco del viso e la barba accennata nascondevano i lineamenti di un giovane uomo. Era Soldato. Cercò di sollevarsi. «Dov’è Andrea?» disse all’improvviso. Quando tentò di mettersi in piedi cadde nuovamente a terra.
«Sta’ fermo, non ti sforzare! Pensiamo a tutto noi. Lei sta bene» disse una donna che si era avvicinata quando gli altri stavano tirando Soldato fuori dall’acqua. «Dobbiamo portarti dentro».
«Credo di essermi rotto una gamba» disse Soldato con una smorfia di dolore.
 «Mi prenderò io cura di te.» disse la donna. «Sono una guaritrice».
Subito dopo arrivò Hanna. «Soldato, sei tu! Sei vivo!».
«Hanna …». Tossì.
«Dove sono gli altri, Soldato? Dov’è Etan?». Soldato non rispose.
«Che fine ha fatto? Rispondimi, Soldato. Rispondi, stupido ragazzo!». Hanna era scoppiata in lacrime e si era gettata contro di lui, urlando.
«Fermatela! Sta’ lontana, Hanna!» gridò Sammy la guaritrice. Gli uomini la fermarono mentre si dimenava. «Calmati Hanna. Non è il momento» aggiunse Sammy. Soldato era diventato pallido e sul suo viso si disegnò in fretta un’espressione sconvolta.

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Capitolo 6
*** Verità ***


Una settimana dopo venne celebrata una cerimonia funebre per i pescatori travolti dalla tempesta. Quella che avrebbe dovuto essere la festa del mare,si trasformò in una giornata di pianti e preghiere. La festa del mare era una festa che si celebrava ogni anno sull’isola, il primo giorno d’estate, e tutti la aspettavano con impazienza ed entusiasmo. Ma quell’anno non ci fu spazio per le risate, né per i giochi o per le conchiglie che le donne intrecciavano nei loro capelli durante i festeggiamenti. C’era soltanto molto dolore. Anche il mondo sembrava in lutto. Il sole s’era vestito di grigio, quel giorno. Le nuvole lo coprivano, compatte. E il mare sembrava lamentarsi, cantare disperato per l’odio e la tristezza che quel giorno la gente gli riservava. Era tetro e spaventoso. Era la tomba di quei marinai. Andrea si era quasi del tutto ripresa, ma a Soldato serviva del tempo per guarire. La mattina, prima dei funerali, Hanna andò a fargli visita con Selene. Soldato non aveva voluto vedere nessuno, fino a quel momento. Non aveva parlato con nessuno, nemmeno con Sammy la guaritrice, che si prendeva cura di lui. Hanna aveva portato un mazzolino di fiori. Appena entrarono in casa, lo diede a Selene, che lo mise in un vaso pieno d’acqua, vicino al letto di Soldato.
«Mi dispiace per le parole che ti ho detto sulla spiaggia. Non ero in me» disse Hanna.
Soldato continuava a fissare il soffitto, lo sguardo perso, vuoto. Per qualche minuto ci fu silenzio. Poi Hanna riprese a parlare. «Il mio Etan non c’è più, insieme a tutti gli altri partiti con lui. Non ci saranno mai parole adatte a descrivere la mia sofferenza. Appena ho visto Andrea sulla spiaggia non sapevo se gioire, perché potevate essere ancora vivi, o se abbandonare ogni speranza, proprio perché Andrea era lì, sola e in fin di vita;  come avrebbero mai potuto gli altri sopravvivere? Poi ho visto anche te e nel mio cuore ingenuo si è acceso un altro barlume di speranza. Forse c’era anche qualcun altro con voi, forse c’era anche il mio Etan. Ma non è stato così. Se n’è andato per sempre, Soldato. Mi ha abbandonata. Ci ha abbandonate». Guardò Selene e le lacrime iniziarono a rotolare sulle sue guance. Gli occhi di Soldato continuarono a fissare il soffitto. Si riempirono di lacrime.
«Durante la tempesta Etan era corso sul ponte a cercare Stan. Non ci aveva raggiunti sottocoperta. Poi ci accorgemmo che la nave stava affondando. Fummo travolti dall’impeto dell’acqua. Andrea era vicino a me, era terrorizzata, piangeva. Fummo scaraventati dall’altra parte della nave e poi in acqua. Perdemmo tutti gli altri ma non potevo abbandonarla. Doveva mettersi in salvo, almeno lei. Era una ragazzina, diamine. Non poteva morire così presto. Non poteva morire in quel modo. La nave stava andando in frantumi. C’era un grosso pezzo di legno, davanti a noi. La feci salire lì sopra, la feci aggrappare forte. Le dissi che non doveva mollarlo per nessun motivo al mondo, le dissi che doveva sopravvivere. Lei era disperata, non sapeva che fare. Mi aggrappai con lei al pezzo di legno e cercammo di allontanarci da lì. Ho pensato che qualcun altro forse avrebbe fatto come noi. Avrebbe provato a mettersi in salvo. Ma le onde erano troppo grandi, erano troppo forti. Rischiammo più e più volte di annegare. Dopo un’eternità la tempesta parve calmarsi, ma noi non eravamo più insieme. Il legno si era spezzato. Ci eravamo separati. Allora pensai che era davvero finita. Esausto, mi abbandonai sulla superficie del legno rimasta e mi lasciai portare dalle onde. Finché il mare non ci ha riportati qui». Ogni parola, ogni ricordo sembrava procurargli dolore.
«Non doveva andare così, Hanna. Anche questa volta sono sopravvissuto. Tante volte in guerra ho visto morire la gente, tante volte ho visto morire i miei amici. Ho visto i miei genitori essere uccisi, i miei compagni tra le bombe che esplodevano. Me la sono sempre cavata, ma è proprio quando rimani da solo, è proprio quando non hai più nessuno accanto che vorresti essere tu al posto di chi va via. Vorresti perdere la vita anche tu, perché se sei da solo non ha più senso, se sei da solo devi sopportare tutto il dolore, devi sopportare le perdite e le mancanze e tutto il resto. E sono sopravvissuto anche a questo naufragio, ancora una volta ho visto i miei compagni morire, essere travolti dalla furia del mondo, ma perché il mondo deve essere sempre così infuriato? Non dovevo vivere, Hanna, e invece sono qui, per un terribile scherzo della sorte. Sembra che sia questo il mio destino, vivere e soffrire».
Hanna rimase senza parole. Solo in quel momento capì tutta la sua sofferenza, capì che il suo dolore era lo stesso che provava lei. Selene non aveva versato una lacrima. Si chiese come fosse possibile che i bambini riuscissero ad essere così forti proprio mentre i grandi crollavano. La bambina prese un fiore dal vaso e lo mise fra le mani di Soldato. Poi gli diede un bacio sulla guancia.
«Il mio papà è ancora vivo perché ne portiamo il ricordo». I due rimasero stupiti e in silenzio. «Il mio papà è vivo perché è nel mare».
Sulla porta d’ingresso Andrea assisteva silenziosamente alla scena mentre le lacrime le rigavano il volto.

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Capitolo 7
*** Dodici anni dopo ***


Selene guardava il mare seduta sulla parte della spiaggia più lontana dall’acqua. Erano passati dodici anni dalla morte di suo padre e due da quando sua madre si era ammalata. Soldato la raggiunse e le porse una tazza di tè. Da quando suo padre era morto, Selene gli portava ogni giorno un fiore. Sembrava che non volesse che entrambi dimenticassero quel giorno. Andrea invece era partita per la città. Non aveva di certo dimenticato quel terribile evento, ma sembrava che il dolore nel suo cuore si fosse fatto da parte. L’isola era diventata troppo stretta per la sua voglia di libertà e per il suo insaziabile desiderio di conoscere cose nuove, così si era spinta fino alla città e chissà, forse persino oltre. Era una ragazza in gamba. Soldato aiutava Selene a prendersi cura di sua madre. Da quando si era ammalata, Selene era diventata fredda e malinconica. Quando Soldato aveva iniziato a conoscerla meglio, aveva capito che lei aveva sempre amato il mare, ma che ne aveva sempre avuto paura perché si portava via suo padre, e c’era stata quella volta in cui se l’era portato via per sempre. Adesso sembrava che non gliene importasse più nulla. Sembrava quasi che odiasse quell’immensa distesa d’acqua che gli abitanti avevano ripreso ad amare come un tempo. Eppure, prima che sua madre si ammalasse, avevano trascorso dei bei momenti insieme: Soldato, Selene e il mare. Avevano viaggiato fino alla città, avevano fatto il bagno tra le onde dolci. Avevano passato lunghe sere a fissare la luna lattea che portava l’alta marea. Ma adesso tutto stava cambiando. Era tutto più freddo. Soldato si era innamorato di Selene, il primo giorno d’estate dell’anno precedente. Aveva visto Sienna che le intrecciava le conchiglie fra i capelli morbidi per la festa del mare e gli era venuta l’improvvisa voglia che fosse lui a farlo. Ma non glielo disse mai.
Sua madre non aveva rinunciato a passare un po’ di tempo con il mare. Selene non la capiva, scuoteva la testa. Hanna stava male ma passeggiava ancora sulla spiaggia e immergeva le caviglie nell’acqua, parlava da sola. Una volta Selene la vide cadere improvvisamente a terra. Soldato la aiutò a portarla dentro. Da quel giorno Hanna fu costretta a restare a letto. Era davvero molto malata.
Non passò molto tempo prima che sua madre morì. Selene stava raccogliendo i datteri insieme agli altri abitanti. Spesso lo faceva con Soldato, perché da quando suo padre era morto erano diventate povere. Sienna aveva portato Hanna in riva al mare, come aveva chiesto, perché sapeva che era arrivato il suo momento, e in ginocchio, stringendola fra le braccia, piangeva perché Hanna se ne stava andando via. Selene rimase spezzata. Non fu mai più la stessa. E anche questa volta Soldato sopravvisse. Sopravvisse all’amore che provava per lei e che lo straziava ogni giorno di più.

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Selene, sei l’ombra del mare. Vai e vieni, ritorni all’infinito e non te ne vai mai per davvero. Non riesci a scappare. Selene, fai trattenere il respiro. Ti allontani e il respiro si blocca, poi ritorni e riprendo a respirare. Ma ogni nuovo respiro è sempre più doloroso. Si sta male anche quando le persone ritornano, delle volte, perché è un dolore terribile quando qualcuno ritorna e non sai cosa dire, cosa fare, come odiare. Quando non sai cos’è che il suo sguardo ti nasconde, è una ferita a fior di pelle. Anche l’anima ha una pelle ed è profonda. Mi hai detto che ti dispiace, ma chissà… tu non sai che la superficie è facile a guarire, che è per quello che c’è dentro che tu speri finché respiri, che se sei tu a far gli errori è più facile tornare, perdonare invece è dura.
Selene, sei l’ombra dell’acqua. Sei uno specchio, sei una superficie. Sei un vetro colorato. Non sei preziosa, Selene. Non sei preziosa per chi ti raccoglie, ma come un vetro riesci a tagliare. E io t’ho raccolta e t’ho tenuta, anche se non eri preziosa per gli altri, e tu hai lasciato che i tuoi angoli mi tagliassero lo stesso. Non sei solo tagliente come il vetro, Selene. Come il vetro sei anche fredda.
Selene, hai gli occhi di cristallo. Mi hai guardato tante volte e Dio solo sa quante volte ho pregato perché quello sguardo non andasse in frantumi da un momento all’altro. Sai essere dura, Selene, ma come il cristallo dei tuoi occhi sei anche fragile. Ti portavo sulla spiaggia sollevandoti di peso, ma tu vedevi il mare e volevi andare via, ti dimenavi, mi tiravi pugni sulla schiena ed io ti gridavo sta calma, ma tu non volevi ascoltarmi. Pensavo che i tuoi occhi azzurri non erano adatti all’oscurità delle montagne, Selene, pensavo che con gli occhi azzurri avresti visto meglio il mare. C’era un tempo in cui mi raccontavi tutto. In cui ti abbandonavi alle lacrime e al calore delle mie braccia e mi buttavi addosso tutto il peso della tua vita, del tuo passato, del tuo dolore. C’era un tempo in cui anche tu, come gli altri, sapevi parlarmi del mare, mi dicevi che era bello e grande e misterioso, mi dicevi che volevi svelarne i segreti ma che ti faceva paura perché lui si era preso tuo padre. E allora piangevi e ti dimenavi e dicevi che il mare era egoista e che si prendeva sempre tutto. Poi diventavi fredda come il vetro e vedevo nei tuoi occhi il gelo dell’artico e ti addormentavi esausta con il naso sotto il mio braccio. Selene, tu hai gli occhi del ghiaccio e dell’acqua del mare che non ghiaccia mai. Sei un ossimoro, a volte. Tutte le sante volte in cui la tua bellezza è terribilmente straziante. Tutte le sante volte che scappi e poi ritorni. La bellezza non dovrebbe far male, Selene. Non dovrebbe affatto.
Selene, hai il nome della distruzione. Hai il nome della luna che porta l’alta marea. Selene, tu e il mare siete la stessa cosa, anche se non capisci, anche se scappi, anche se non lo vuoi. Selene tu sei un pesce, sei un marinaio, tu sei quello che vuoi, sei un sasso, una conchiglia, un’onda del mare. Ma per ultimo sei una donna. Per ultimo. Ricordo di quel viaggio in barca dall’isola verso la città; ricordo di quanto eri entusiasta e i tuoi occhi brillavano limpidi come l’acqua del mare, che schiumava sotto il legno della barca; i tuoi capelli erano morbidi e si gonfiavano come le vele di una nave; eri tu a quel tempo che portavi me ed eri così leggera, eri libera, Selene, ricordo benissimo quant’eri libera. Facevi quello che volevi e amavi il mare perché era quello che desideravi, mentre adesso sei diventata sua prigioniera, prigioniera del suo vagabondare, della sua litania, della sua oscurità quando scende la notte e tutto diventa cupo.  Ricordo quel tramonto bellissimo e il tuo corpo mozzafiato contro il cielo insanguinato, ti sei spogliata mentre stavi zitta e mi fissavi, poi sei scoppiata a ridere e ti sei tuffata nell’acqua, mentre io rimanevo senza parole e ti guardavo, incantato. L’acqua ti scorreva sulla pelle, ti scivolava allegra e ti avvolgeva dolcemente. Ricordo che pensai che nessuno poteva essere del mare come lo eri tu, ricordo di aver avuto paura di mettere i piedi nell’acqua perché credevo che il mare non mi avrebbe voluto con sé, che  mi avrebbe respinto e non mi avrebbe abbracciato come faceva con te. Tu invece eri sua ed eri felice di esserlo, i tuoi capelli lunghissimi fluttuavano sulla superficie dell’acqua e io ne ero stregato. In quel momento eri prima di tutto una donna. Ma adesso, tu lo sei come ultima cosa. Adesso non ha più importanza, perché il mare ti ha preso via tutto, perché il mare è egoista e avido e riesci solo a odiarlo.
Selene, mi spezzi il cuore. Lo afferri e lo getti nell’acqua salata, quella che sgorga dai tuoi occhi, quando piangi perché vuoi andare via. E non ci riesci mai. Selene tu fai del male. Ma tu il male non lo vuoi. Sei una ferita che si rimargina lentamente. Sei la ferita del mare. Il giorno in cui mi sono innamorato di te c’era la festa sull’isola, quella che gli abitanti festeggiano ogni anno il primo giorno d’estate; era la festa del mare e tu avevi i capelli morbidi che ricordavano le sue onde quando il vento lo increspa. Ma poi intrecciasti le conchiglie fra quelle freschissime ciocche, com’è usanza per le donne durante la festa, e allora ricordo che si trasformarono in piccole dune di sabbia, dorate e bellissime. Non scorderò mai i tuoi capelli dorati. Forse è da lì che cominciò tutto. Compresa la tua sofferenza.
Selene, hai la pelle lattea come la luna che porta l’alta marea. Tua madre, quando ti portava in grembo, conosceva il dolore che avresti portato. Tuo padre, quando la guardava, si spezzava. Poi morì in un naufragio e tua madre da quel momento non si prese mai cura di te. Il dolore può far perdere la testa. Ella non si dava pace ed amava sempre di più il mare quanto più la privava delle sue cose più care: sembrava l’unica cosa che riuscisse anche lontanamente a consolarla, forse perché sapeva che era nel mare, in fondo, che si trovava ciò che restava di suo marito. Quando crescesti, tua madre si ammalò. Ricordo che era dopo quella festa, e tu stetti vicino a lei per molto tempo. Portavi granelli di sabbia ovunque, Selene, sulla pelle, nei capelli, nell’animo delle persone. Anche un granello di sabbia sa far sentire la sua presenza. Anche un granello di sabbia sa essere insopportabile. Tua madre era piena dei tuoi granelli di sabbia e del dolore di entrambe, ed ecco perché morì. Morì in una giornata di settembre e Sienna la portò in riva al mare, mentre tu raccoglievi i datteri per venderli. Da quando tuo padre era morto tua madre era diventata povera. Non avresti voluto che Sienna la portasse là, ti infuriasti, le urlasti contro; c’era tua  madre che le moriva in grembo mentre l’acqua del mare voleva portarsela via e tu non lo sopportavi: non sopportavi che se ne andasse via come aveva fatto papà e che il mare fosse così avido ed egoista; non capivi che era tua madre che non poteva fare a meno del mare e non il mare che non poteva fare a meno delle persone. Lei era esattamente come te. Tua madre aveva voluto morire con l’acqua del mare e lontana da te, insieme a tuo padre che ormai era nel cuore del mare da molti anni. Ma tu non l’hai capito mai. Non l’hai capito, Selene, perché tu il dolore lo porti, ma non lo comprendi, e per questo non riesci a smettere di procurarlo alle altre persone. La rabbia invece la capisci, te la porti dentro e la scagli con i sassi contro l’acqua e con i calci alla sabbia e le imprecazioni alla luna che porta il tuo stesso nome solo che in una lingua diversa. E portate entrambe l’alta marea.
Sei una conchiglia, Selene, anzi no, sei una perla. Ma non sei come le altre. Sei una perla nera fra le bianche. Adesso ti chiudi nella tua conchiglia, pensi che sia il momento più opportuno, ma in realtà è quello in cui ne hai più bisogno per scappare dal mondo a cui sei indissolubilmente legata. Eppure non ci appartieni. Non appartieni al mondo, non appartieni a nessuno, forse soltanto al mare che ti culla: lui si che si prenderebbe cura di te se glielo permettessi, proprio come ho cercato di fare io, ma tu non hai mai capito queste cose. Non hai mai capito chi ti voleva bene.
Selene, quanto male mi fai, ma non riesco a smettere di amarti. E’ difficile staccarsi dalle tue lentiggini e le macchie del sole dietro la schiena, dietro le quali mi sono nascosto una volta, quella volta in cui abbiamo fatto l’amore. Uno, due, tre, le contavo e le memorizzavo, ti conoscevo Selene, ma adesso quelle macchie sono sparite e tu sei lattea come la luna che porta l’alta marea e io nemmeno ti riconosco più. Mi spezzi il cuore e non ti riconosco più.
Almeno una volta lascia che sia io a farlo, Selene, lasciami ferirti. Lo farei ogni giorno della mia vita, pur sapendo che ogni pugnalata a te è una pugnalata a me. Lasciami ferirti, perché un uomo ferito sa solo ferire a sua volta, perché niente per lui ha più importanza. Lascia che ti porti nel mare, quel mare che hai temuto tanto; lascia che ti immerga, le gambe lunghe, le braccia esili, il viso triste e le tue lentiggini e le tue macchie scomparse, i tuoi capelli di sabbia; lascia che ti anneghi nell’acqua gelida, che ponga fine al tuo dolore, che ponga fine al dolore di tutti quelli che t’hanno conosciuta e che ti hanno dovuta lasciare, perché tu come l’acqua del mare tornavi sempre e ad abbandonare non riuscivi mai. Selene, non mi hai mai capito. E nessuno mai l’ha fatto con te. Porti l’alta marea.
Il mare è una musica triste, adesso. Una litania, un canto disperato. Avverte il tuo disagio, la tua paura per ciò che avverrà. Non sei stata affatto coraggiosa, Selene, ma non lo si è mai quando qualcosa ci è sconosciuta. Ascolto la risacca e respiro l’odore della salsedine. Guardo la luna lattea mentre scrivo una lettera che non leggerai mai.
Ricordo una frase che mi avevi detto quando ancora eri felice, mentre cerco le parole migliori per dirti addio. Non le trovo. “Il mare canta e incanta”, mi dicesti. Rimango incantato e in silenzio.
Il mare è un segreto. La bellezza delle cose segrete si svela soltanto a chi ne ha veramente bisogno.

Soldato.

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