▪ Pассказы Романовых ≡ Le favole dei Romanov ▪

di K a m i l a h
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ольга - Спящая красавица ***
Capitolo 2: *** Татьяна - Принцесса без улыбки ***
Capitolo 3: *** Мария - Гадкий утёнок ***
Capitolo 4: *** Анастасия - Феи драже ***



Capitolo 1
*** Ольга - Спящая красавица ***


1.    Ольга - Спящая красавица
Ol'ga - La bella addormentata



"Se la triste profezia si avverasse, bimba mia,
non per questo morirai, ma nel sonno tu cadrai.
E il tuo sonno cesserà se l'amor ti bacerà."


 

Le ultime pagine del libro le scorsero fra le dita come la brezza gelida di una limpida mattinata primaverile; era quello oltretutto il tempo descritto in garbati caratteri sulla fresca carta che carezzava, un amabile cielo chiaro, tanto azzurro da far male agli occhi e cristallizzato nel fresco pungente. Tanto diverso dal turbinio grigiastro che fuori la finestra impazzava furiosamente da quando s’era alzata; pareva quasi che il sole quel giorno non ne volesse proprio sapere di uscire, addormentato com’era dietro le coltri nebbiose, osava appena cingere le teste delle nuvole con una tenue coroncina luminosa. Avrebbe voluto addormentarsi anche lei, ora che il libro le riviveva fresco di lettura nell’animo, un po’ per riposare, un po’ per scacciar via quel lenilas'! di Gilliard che le rimbombava ancora in testa. Pigra, così la chiamava il precettore, indolente e testarda. Ma cosa ne poteva sapere lui di come lei fremeva al solo pensiero di star sprecando tempo sulla grammatica quando c’era un mondo che l’attendeva a braccia spalancate, o meglio a pagine aperte? Era bastato un attimo per distrarsi, aveva adocchiato un titolo a fondo pagina e subito s’era impuntata. La phonologie des voyelles poteva attendere, non desiderava altro che immergersi nella lettura, sprofondare completamente in quelle pagine lise dal tempo ed assaporare la dolcezza di ogni parola, far sì che queste entrassero nella sua anima per non uscirne mai più. Se ne stava in poltrona Ol’ga, mentre ancora udiva dall’altra stanza la voce di lui, che in un russo alquanto bislacco si lamentava di quell’alzata di testa con la Taneeva, la quale l’avrebbe ovviamente riferito in breve a sua madre.  
Scosse delicatamente la testa per non pensarci; oramai il libro lo aveva finito, le ultime frasi erano scivolate lente ed inesorabili sotto i suoi occhi e nessuno aveva interferito. Era una fiaba che l’aveva strappata alla lezione, una fiaba francese e ben strana a dire il vero, tanto dolce e meravigliosa all’inizio quanto terribilmente atroce nel finale, che tuttavia rimaneva sempre un lieto fine. Le fiabe russe facevano paura fin dall’inizio, quasi sempre pullulanti di Baba Yaga ed altre mostruosità, ma perlomeno giunti alla fine si poteva sospirare di sollievo poiché il peggio era passato. 
Tuttavia “La bella addormentata” da atmosfere incantate ed idilliache in cui si incastravano alla perfezione la Fata dei Lillà, la principessa ed il suo meraviglioso principe in un connubio di dolcezze e magia, di colpo virava verso l’orrendo finale, popolato da orchi, vipere ed omicidi. Non era certo una favola quella. Per quanto le fosse piaciuta, un po’ la preoccupava. 
Tante volte s’era sentita dire di vivere in una favola, e pensarci bene era così davvero: una principessa, un castello. Un giorno forse un principe. Ma se a tutto questo avrebbero dovuto seguire gli orchi… ebbene, non era più sicura di voler continuare. Non si sarebbe mai addormentata lei, come quella ragazza in attesa di un risveglio. Se invece sarebbe caduta preda dei sogni, non avrebbe mai più voluto essere ridestata.




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Capitolo 2
*** Татьяна - Принцесса без улыбки ***


2. Татьяна - Принцесса без улыбки
Tat’jana - La principessa senza sorriso

"Giunsero ai confini del mondo,
ove il rosso sole spunta dall'azzurro mare, e la videro:
la principessa Vassilissa che navigava sul mare in una barca d'argento" 



L’ultimo delegato per il Comitato Tatyaninsk s’inchinò ossequioso e lei rispose con garbata freddezza affrettandosi al più presto a distogliere lo sguardo da quell’atto che ancora le era tanto scomodo; avrebbe potuto fermarlo, sostenere che non ce ne fosse alcun bisogno, ma sapeva bene che non avrebbe nemmeno fatto in tempo a dirlo che qualcuno si sarebbe premurato di ricordarle quanto fosse necessario. Era necessario che nessuno rimanesse ritto al suo cospetto, era necessario elencare ogni suo singolo titolo prima di pronunciare il suo nome; Tat’jana, figlia di Nicola. Della dinastia Romanov. Principessa di tutte le Russie. Chi mai sarebbe potuto avvicinarsi a lei? Chi mai avrebbe osato varcare il velo di quegli occhi grigi, tristi, d’una malinconia poetica e troppo spesso scambiata per freddezza ed alterigia, se già quel nome che ogni volta risuonava per il salone atterriva chiunque lo udisse? Eccola, la principessa che non ride mai. Cuce, soccorre, ascolta, conforta, amministra, ma non ride. 
È bella, di quella bellezza esotica, principesca, che sa di favole antiche. La ragazza che ogni principe vorrebbe salvare, da cui vorrebbe essere salvato. Solenne e perfetta, pare quasi uscita da un blocco di marmo cesellato dal più grande degli artisti. Talmente tanta perfezione che abbaglia, addirittura spaventa. Scoraggia, non incute che timore reverenziale, paura di sciupare un qualcosa di così immacolato. Nonostante sia la prima a sfavorire qualsiasi ossequio o dimostrazione di sottomissione solamente per il rango che ricopre, sa bene che non potrà mai cancellare del tutto l’aura di magnificenza che l’ha ammantata fin da sempre. Gli uomini amano inchinarsi, amano prostrarsi davanti a ciò che di più simile c’è agli dèi. E questo lei non lo sopporta. Non sopporta di rimanere per sempre isolata, abbandonata nel mezzo del mare come Vassilissa, la più russa fra le principesse. Vassilissa fu salvata, fu portata in un palazzo, ma rimase sempre triste. Senza sorriso, senza mai un solo accenno di gioia che incrinasse lo splendido gelo. E più la gente scorgeva quel gelo, più desisteva dallo spazzarlo via. Aprirono le porte della reggia, tutti tentarono. Ma Vassilissa non sorrise mai. 
La porta emise un tonfo leggero, facendola ritornare al salottino in cui s’era appena congedata. Un altro giorno era passato, eppure le richieste di denaro per gli indigenti sembravano quasi aumentare piuttosto che placarsi col tempo. Ma non era certo un problema per lei, pensò accomodandosi lievemente alla scrivania per stilare ciò di cui avrebbe necessitato l’indomani nella sua visita in città: lei giaceva intoccabile ed eterea, era a tutti gli effetti un miraggio impalpabile che nessuno avrebbe mai sospettato essere bisognoso d’aiuto, e nonostante ciò lei continuava ad aiutare tutti senza la minima distinzione. Perché nel soccorrere gli altri, era un po’ come soccorrere lei stessa. E solo nel fare ciò, tornava finalmente a sorridere.

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Capitolo 3
*** Мария - Гадкий утёнок ***


3. Мария - Гадкий утёнок
Marija - Il brutto anatroccolo



"Non conta che sia nata in un recinto d'anatre;
l'importante è essere uscita da un uovo di cigno"
 
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Ben prima di quanto pensasse si ritrovò a stropicciare nuovamente i begli occhi con le mani paffute, spazzando via le lacrime che avevano ripreso a scendere lente ed inesorabili lungo la rosa delle guance e s’infrangevano contro la bocca corrucciata. Aveva temuto l’arrivo di quel giorno come non aveva temuto altro in vita sua, il giorno in cui dal blu gemmato sarebbero tornati a scorrere tristi fiumi di prezioso zaffiro. Perché lei sapeva quanto fossero in realtà rare quelle gocce, quanto fosse unica lei. Gli altri non vedevano che acqua, nemmeno troppo salata poiché quanto poteva essere amaro il pianto di una granduchessa, di una persona che tutto aveva ricevuto dalla vita e continuava a ricevere? Non lo sapevano loro, che troppo spesso chi aveva tutto non aveva nessuno? 
Neanche lì, nella sua famiglia, nel suo nido, l’approdo sicuro di sempre, il focolare di una vita, poteva dire di avere davvero qualcuno. Qualcuno che riuscisse a scorgere bellezza nel suo pianto, perle nelle sue lacrime, roseti in boccio sulle sue guance. 
Non era come le altre, lo sapeva: le morbide piume che ornavano ogni altra ragazza, il collo, così minuto da poter essere spazzato via da un bacio del vento, su cui le belle teste scolpite in alabastro posavano con garbo, le braccia levigate e simili ad ali, lei poteva solamente contemplarle da lontano e immaginarsele indosso nel più folle ed irraggiungibile dei sogni. Era una magra consolazione quella di poter immaginare, idearsi in un mondo completamente nuovo in cui lei sarebbe stata la più fulgida fra le celesti creature che costellavano come astri il salone da ballo dell’Ermitazh, come timidi passerotti che riflettevano le proprie ombre, simili in tutto alla leggerezza dei corpi stessi, nel mare d’ambra che pareva infuocare la neve stessa in cui tutti loro venivano cullati. Un lago, una distesa di bianco e oro popolata da entità inarrivabili, fuori dalla sua portata: aveva tentato di accedervi, ed era stata scacciata a colpi di becco sul capo. Ed ora non si azzardava a nulla se non rimirare quel pallido miraggio da lontano, chiudendo i begli occhi e tentando di cancellare il nero anomalo delle sue piume contro il latteo fiabesco di quegli uccelli così puri, così… normali. Accettati, ammirati. Lodati. Desiderati. Da lei per prima. Voleva volare via Marija, come tutti loro; voleva che le rozze alacce si trasformassero in sottile piumaggio, che quel collo tozzo s’allungasse e venisse ricoperto di luce. Poteva essere ben di più di quello sparuto stormo, e lo sapeva. Lo sapeva e l’avrebbe fatto. Non aveva idea di quanto, del come, né del perché, ma lo sapeva. Un giorno, in quello stagno regale, avrebbe fatto il suo ingresso fra lo stupore di tutti, incantando ogni essere che avrebbe posato lo sguardo su di lei, e sarebbe scesa dal cielo; bianca, magnifica ed immortale, seppellendo per sempre quel nero che ancora la opprimeva e la teneva al suolo.

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Capitolo 4
*** Анастасия - Феи драже ***


4. Анастасия - Феи драже
Anastasia - La fata dei confetti

"Era la Fata dei Confetti la padrona di quel regno,
tutto fatto interamente di dolci, caramelle, biscotti e marzapane,
e tutti le ballavano attorno in un cerchio grandissimo"



I campanelli tintinnarono ancora un’ultima volta, deliziandola in una maniera indicibile con quella leggerezza scherzosa che li teneva sospesi e li faceva volteggiare per l’intera stanza; i violini presero a cullarli, con teneri pizzichi d’archetto e una melodia di tale delizia che la piccola si ritrovò a sorridere euforica mettendo in mostra i minuscoli denti bianchi, scintillanti nella penombra al pari dei fiocchi che cadevano fuori. Ed era loro che stava imitando Anastasija, ballava assieme a loro in un vortice di tenera spensieratezza, volteggiando per la stanza incurante della lunga veste che ricadeva sino ai piedi fasciati in morbide babbucce di raso. S’alzava sulle punte, saltando con l’intraprendenza di un cosacco e la leggerezza di una fata dispettosa, torturando il povero tappeto di damasco che si stendeva per tutto il pavimento. Allungava le braccia, quasi pareva che volesse librarsi per l’aria e da lì proseguire nei suoi giochi, al pari della ballerina di porcellana che piroettava nel carillon della nyanya; alta, flessuosa, una farfalla fatta di neve, con lunghe gambe e fronte diritta. Il malumore di poco prima s’era totalmente dissipato oramai, e la strigliata della zarina era solo un vago ricordo che svaniva sempre più inghiottito dai vivaci trilli emessi dal fonografo: nemmeno il fastidioso shvibzik, che solo pochi minuti prima le martellava in testa incalzante, la toccava più, così come lo sguardo severo che le aveva riservato papi; mica era stata colpa sua poi, che la kuzina Nina s’era presa un calcio sugli stinchi. La colpa era stata tutta della Georgievna, che l’aveva resa preda di un gran malumore perché era stata tanto sfacciata da superarla in altezza nonostante fosse più piccola di ben due giorni. L’aveva fatta correre via in lacrime dopo neanche cinque minuti di gioco con gran plauso, ed ora finalmente aveva scacciato completamente quella sensazione di fastidio. 
Che ci provasse ora a venirle vicino, pensava soddisfatta la piccina mentre si puntellava sui piedi lasciandosi trasportare da quell’amore di danza. Le pareva quasi di giocare con le note stesse, di vederle prender forma nella stanza e osservarle rincorrersi mentre l’avvolgevano come fiocchi in nevicata; non una nevicata comune, era una nevicata di zucchero quella. Quella musica aveva il sapore dei dolci spolverati con lo sciroppo, del kompot immerso nei canditi. Era una pioggia di confetti, una danza su prati di marzapane assieme a farfalle con ali di burro e caramello. 
Era lei la regina di quella danza, era per lei che gli archi incalzavano e i campanelli saltellavano frizzanti, intrecciandosi in acrobazie da mozzar il fiato e sciogliere il cuore. Era il suo gioco segreto, il rifugio della sua straripante fantasia: avrebbe desiderato rimanervi per sempre, per sempre a volteggiare su quel tappeto che improvvisamente da stoffa verdastra diveniva un prato di viole. Poi però, sapeva bene che la favola doveva terminare e il fonografo veniva spento, ridotto all’insopportabile silenzio. Ma lei tornava, tornava sempre ad accenderlo in quelle grandi stanze vuote e silenziose, perché sapeva quanto in realtà tutti desiderassero poterlo riascoltare ancora una volta assieme ai suoi passi. 

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