Non è semplice, è elementare!

di A_P
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ciniglia color pesca ***
Capitolo 2: *** Mornin' stare ***
Capitolo 3: *** Pioggia e lampioni ***



Capitolo 1
*** Ciniglia color pesca ***


Uno strato di polvere ricopriva gli oggetti stipati sul piccolo tavolo di legno, incastrato alla bell'e meglio tra il divano e la libreria traballante. Una pila di abiti lavati chissà quando e mai stirati giaceva in un angolo della stanza, come un fagotto di stracci abbandonati.
In condizioni normali Sherlock Holmes non avrebbe tollerato un tale disordine attorno a sè. La sua innata pignoleria e mania di controllo lo portavano a condurre un'esistenza rigorosa, strutturata, priva di spazio per le relazioni sociali, il divertimento e a quanto pareva anche l'ordine.
Di fatto, da due settimane a quella parte, la normalità così come Holmes la conosceva era evidentemente stata spazzata via: qualcosa dentro di lui era cambiato per sempre, questo poco ma sicuro. Pensieri e sensazioni senza nome gli ottenebravano lo sguardo, lo rendevano inquieto, distante e schivo. Più schivo del solito, almeno.
A questo stava pensando John Watson mentre cullava tra le mani la sua tazza da tè di Hello Kitty, lo sguardo fisso sulla parete di fronte.
Che sia...innamorato? – pensò tra sè e sè, rabbrividendo impercettibilmente al pensiero e facendosi più piccolo sotto il cappuccio della vestaglia di ciniglia color pesca.
Per un istante gli si formò nitidissima in mente l'immagine di Sherlock in boxer e con i lucidi peli della schiena al vento, focosamente avvinghiato ad una figuretta con i capelli lunghi. D'un tratto la figura con i capelli lunghi aveva il volto della signora Hudson, e la scoperta lo fece sobbalzare versandosi buona parte della bevanda bollente addosso. 
Soffocò un'imprecazione e si alzò per dirigersi in cucina alla ricerca di uno straccio per pulire vestaglia, poltrona e pavimento.
«No, non può essere...no, non può essere...» borbottò mestamente mentre attraversava a grandi passi il soggiorno.



Quando Sherlock comparve sulla soglia del salotto qualche minuto dopo, zuppo di pioggia e col fiato corto, John Watson sedeva al tavolo della cucina e stava pucciando distrattamente il Blackberry nel tè, fissando fuori dalla finestra. Sembrava non essersi nemmeno accorto del suo ingresso.
Da qualche tempo, in effetti, per la precisione dodici giorni, quattro ore e venti minuti scarsi, Watson gli era sembrato molto strano, riflettè Sherlock sfilandosi il soprabito con cautela ma senza staccare gli occhi dal coinquilino. 
E se fosse per via di una donna... o un gatto?
Per un momento ponderò l'idea, immobilizzandosi nell'atto di slacciarsi le scarpe, gli occhi ridotti a due fessure per lo sforzo mentale richiesto dall'operazione. 
Ma no, un gatto non può essere! – risolse, rimettendosi in piedi con le Oxford mezze slacciate, calciando via le pantofole di tweed senza tante cerimonie.
Tirò dritto ed entrò nella cucina, passando per il salotto, lasciando dietro di sè orme di pioggia, immediatamente assorbite dal pesante tappeto di pura lana delle isole Vergini della signora Hudson. Watson si accorse finalmente di lui e il suo sguardo pensieroso vagò alle decine di peli che lì in basso si appiattivano sotto il peso del suo geniale amico e un istante dopo ritornavano alla loro condizione naturale. Le orme di un uomo invisibile... – ebbe il tempo di pensare, prima di alzare gli occhi e vedere Sherlock Holmes che da sopra la porta aperta del frigo lo stava fissando.
I loro sguardi non si incrociarono mai, ma il tempo che Sherlock impiegò a muoversi per richiudere il frigo e tirarne fuori un cartone di pizza con dentro del fish and chips stantio ed una sacca di sangue, a Watson sembrò uno, forse due secondi più lungo del solito, e improvvisamente si rese conto di cosa questo significava. Sherlock Holmes sapeva.
«Non c'è nessuno» esclamò Sherlock.
Sembrava indirizzato al dipinto di Sirius e Remus che camminavano nudi mano nella mano nelle campagne del Sussex che faceva bella mostra di sè accanto all'orologio a pendolo della signora Hudson, o forse alla confezione di fish and chips che stava infilando nel microonde. Il flusso dei pensieri di Watson si interruppe bruscamente ed egli dominò il forte impulso di stringere avidamente le natiche, cercando una risposta logica a una esclamazione per nulla logica.
«Ci sarei io, veramente, ma se per te non sono nessuno...» Dannazione John, dannazione, ti sembra la cosa migliore da dire! – si rammaricò Watson nello stesso istante in cui finiva la frase, ma dominò di nuovo quell'impulso, questa volta più a fatica.
«E dobbiamo rubare un taxi» aggiunse con noncuranza Sherlock mentre guardava fuori dalla finestra il traffico che scorreva lento lungo Baker Street fino all'angolo con Chestermill, senza cambiare il tono di voce normalmente asettico, registrando mentalmente che nel palazzo di fronte, sotto la finestra del primo piano, un uomo era seduto sulla tazza coi pantaloni abbassati fino alle caviglie e una giacca di tweed e leggeva il Financial Times.
«Non... non potremmo pagarlo come fanno tutti? » Watson cercava di stare dietro razionalmente alle dichiarazioni del suo coinquilino, ma accidenti a lui se riusciva a spiazzarlo ogni volta.
«Beh, tecnicamente non sarebbe proprio rubare, potremmo definirlo più un prenderlo in prestito» replicò Sherlock.
Watson fissava l'uomo di spalle in controluce ritto in piedi davanti alla finestra della cucina, la sua figura elegante e snella,  i capelli ricci e scompigliati che erano una sua caratteristica e ne vide uno particolarmente fuori posto, come la sua crema depilatoria messa sbadatamente accanto al dentrificio - era stata la sua amara scoperta della sera prima- e decise che doveva appigliarsi a qualcosa, qualsiasi cosa, pur di sentirsi fare conversazione con una persona sana di mente.
«In effetti, prenderlo in prestito è già meglio che rubare, ma... scusami se ti sembrerò ripetitivo, ma per quale motivo non potremmo pagarlo come tutti?»
Sherlock si voltò completamente e guardò John. Sembrava lievemente spazientito, cosa che John aveva imparato ad associare ai momenti in cui l'investigatore più famoso al mondo coincideva con l'investigatore più fastidioso al mondo, perchè doveva spiegare agli altri dei concetti evidenti.
Evidenti per lui, ovvio.
Watson si agitò nervosamente sulla sedia in vimini wengè della signora Hudson, l'impulso stava quasi per fregarlo. Ma ce la fece anche questa volta. Ebbe il tempo di chiedersi se la prossima avrebbe mandato al diavolo ogni stoicità serrando del tutto le natiche e rendendo vano ogni tentativo di Holmes di leggergli dentro come la rubrica dei Perchè di Cioè, prima che Sherlock lo riportasse con la mente nel salotto buono che condividevano.
«C'è una chiazza di tè di fianco alla poltrona in salotto, la tua vestaglia in ciniglia ha una larga macchia sulla manica, il che indica che ti sei rovesciato addosso il tè per uno scatto improvviso, probabilmente hai pensato a qualcosa di sconvolgente mentre lo sorseggiavi, il fatto che continui ad agitarti nervosamente sulla tua sedia in vimini mentre ti parlo mi induce a pensare che ha qualcosa a che fare con me. Quindi sei preoccupato per me, la cosa dovrebbe farmi piacere ma non è necessaria, e dobbiamo andare in centro a comprarti un nuovo Blackberry, visto che hai scambiato il tuo per un biscotto Atene lasciandolo galleggiare nella tua tazza di Hello Kitty. Io ho in tasca poco più di trecento sterline e tu ne hai spese più di seicento ieri per quella piastra arricciacapelli e le lozioni emollienti, che fanno esattamente novecento sterline, che sono esattamente l'ammontare dell'assegno del nostro ultimo caso, del MIO ultimo caso. Il che ci porta a dover andare al negozio dei Baskerville dove per poco più di trecento sterline compreremo il tuo nuovo cellulare, e questo ci lascia senza soldi per prendere il taxi, ecco perchè dobbiamo... prenderne uno in prestito. E per la cronaca, John, non c'è nessuno. Nè ora nè in futuro. Nemmeno un gatto».
Watson era sbalordito e irritato. A metà fra l'insorgere del rossore per la vergogna dei suoi pensieri e un alquanto strano stato di eccitazione per la facilità con cui Sherlock aveva capito così chiaramente le sue azioni, abbassò lo sguardo e vide il proprio cellulare annegare sempre più nel tè.
Pensò al negozio dei Baskerville, ritrovò la voce e disse, iniziando flebilmente ma continuando a voce sempre piu' sostenuta: «Sherlock... i Baskerville hanno quel mastino gigante e... e io... beh, non vado molto d'accordo coi cani giganti, lo sai. Non potremmo... » lasciò cadere la frase mentre sentiva il 'ding' del microonde.
«E' a questo che serve il fish and chips», disse Sherlock Holmes annodandosi la sciarpa.
Watson, ormai rassegnato, si alzò e si diresse verso il microonde. Pochi minuti dopo erano sul marciapiede, al freddo, alla ricerca di un taxi fermo.

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Capitolo 2
*** Mornin' stare ***


*In questo capitolo si trovano due diversi POV (point of view).
 
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L’UOMO CON IL FINANCIAL TIMES (GERALD)
 
Per un attimo ebbe la strana sensazione di essere osservato. Se lo sentiva piantato addosso, quello sguardo, proprio mentre leggeva dell’avvilente caduta libera dei propri titoli in borsa.
Si sporse lentamente in avanti per guardare fuori dalla finestra, circospetto, in equilibrio precario sulla tazza. Quando l’inclinazione del suo busto aveva raggiunto ormai livelli di guardia, notò dietro una finestra del palazzo di fronte un uomo immobile che gli sorrideva in maniera inquietante, guardandolo fisso.
La sorpresa lo fece trasalire e mollare la presa a tenaglia dei polpacci sulla ceramica del gabinetto. Atterrò con un tonfo sul pavimento gelido,  graffiandosi un dito nel disperato tentativo di aggrapparsi al portarotoli.
“Mi sta… il palazzo di fronte… e sorride pure!” biascicò in modo incoerente mentre tentava di riacquistare una posizione dignitosa. Rimessosi in piedi serrò la tenda con uno strattone secco e corse fuori dal bagno, inciampando un paio di volte nei pantaloni ancora calati.
Decise che si sarebbe fatto un tè molto forte per riprendersi dall’accaduto, tizio alla finestra, caduta pancia a terra e tutto il resto. Si diresse in cucina e cominciò ad armeggiare con tazze e teiere, ripetendo a intervalli regolari, tra sé e sé: “Roba da matti!” e “E sorride pure!
Una decina di minuti dopo sedeva davanti alla sua tazza di tè, deciso a dimenticare del tutto l’accaduto e a concentrarsi sulla giornata di lavoro che l’aspettava, quando sentì il gatto miagolare sul balcone, evidentemente chiuso fuori.
Aprì la porta del balcone per lasciare entrare il felino, restando cautamente dietro la spessa tenda di velluto per non correre rischi. Il suo sguardo venne però catturato da una scena inquietante: il tizio della finestra (ormai si sarebbe riferito a lui in questo modo, che pareva il piu’ appropriato) sostava sul marciapiedi, separato da lui solo da una manciata di metri in linea d’aria. Non era da solo. Lo accompagnava un altro individuo molto sospetto, basso e con i capelli brizzolati a scodella, che avrebbe potuto essere scambiato facilmente per un bambino della scuola elementare, completo di cardigan e tutto il resto.
Doveva essere il palo dell’altro criminale, su questo non c’era ombra di dubbio. Aveva appena cominciato a passare in rassegna il cappottone di lana, le scarpe a punta e i capelli cotonati dell’altro, quando quest’ultimo si girò di scatto a fissarlo.
Per un folle istante pensò che avrebbe spalancato il cappotto di lana rivelando boxer a cuori o qualcosa del genere. Invece, lo fissò per altro lunghissimo secondo, ammiccò e sorrise.
Gerald decise che non sarebbe piu’ uscito di casa.
 
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JOHN WATSON
 
Con chi diavolo ce l'ha? – pensò Watson tra sé e sé.
Nonostante l'irritazione alle cosce causata dalle strisce depilatorie, le cui virtù tanto decantava quel bel commesso riccio con le mani grandi e curate - ma evidentemente di qualità scadente, viste le larghe macchie rosse e il dolore lancinante di quella mattina - cercava di non afferrarsi i polpacci e grattarsi fino all'orgasmo.
Il freddo pungente di Baker Street era quasi un sollievo mentre cercava un modo convincente - doveva essere assolutamente convincente perchè funzionasse con uno come lui - di distogliere Sherlock Holmes da quella sua balzana idea di rubare un taxi.
Mentre passava mentalmente in rassegna le opzioni più varie e scartava quelle che sarebbero suonate più assurde, notò un movimento veloce dal palazzo davanti a loro.
Lì per lì pensò di aver visto un grosso uccello, di passaggio. Invece, concentrandosi, notò che era solo il loro dirimpettaio che aveva scostato velocemente le ten... – Ma ci sta osservando di nascosto! Buon Dio no, ci sta proprio spiando!
John era a metà fra il divertito e lo sbigottito, ma non era certo la cosa più strana che avesse visto da quando viveva in Baker Street. Certo, si stava abituando agli sguardi di sottecchi che gli lanciavano quando rientrava o usciva di casa in compagnia di Sherlock, e cercava di non pensare a come la vedevano i loro vicini, due uomini sulla trentina che vivevano insieme. In effetti, c'era di che parlare... ma chissà come mai, John lo trovava confortante, quasi familiare, e sapeva che non avrebbe mai rinunciato alla loro amicizia specialmente ora che iniziavano a conoscersi l'un l'altro in modo così arguto e delizioso. John era solo da troppo tempo, aveva tagliato troppi ponti. Ora che aveva un membro dello spessore di Holmes nella sua stretta cerchia di amici intendeva tenerselo ben stretto. Quindi, alzò le spalle e concentrò lo sguardo su Sherlock e... lo vide fissare il vicino dietro la finestra!
Sapeva per esperienza che Sherlock riteneva gli sguardi altrui quasi un obbligo nei confronti della propria incredibile mente, anzi, a John sembrava talvolta che ci restasse un pò male quando gli sguardi erano palesemente di rabbia o paura. D'altra parte lui stesso a volte avrebbe voluto ammazzarlo, ma anche questo faceva parte del mondo di quello strano investigatore.
Questa volta però lo vide addirittura ammiccare, e fu attraversato dal folgorante quanto limpido pensiero che Sherlock si sarebbe improvvisamente aperto il cappotto e avrebbe mostrato allo sconosciuto i suoi boxer.
Quel pensiero fu così forte da fargli immaginare le gambe glabre, la vita snella, la forma prepotente della mascolinità di Sherlock perfettamente delineata ed esposta a chiunque passasse, che si mosse per pararglisi davanti come a impedirgli di farlo. Non fu però necessario, poiché l'investigatore si limitò a tenere le mani nelle tasche e a sfoggiare uno dei suoi sorrisi enigmatici, cosa che spiazzò se possibile ancora di più Watson.
«L'hai visto anche tu? Ma… perchè diavolo gli hai sorriso!?» John sentì, non senza sorpresa, l'irritazione nella propria voce. Ma forse era anche altro... non seppe dargli un nome.

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Capitolo 3
*** Pioggia e lampioni ***


 
Per cominciare questo capitolo, un saluto d'incoraggiamento a tutti i lettori timidoni... dalle statistiche di lettura dei capitoli, ci siete, quindi... DAI CON STE RECENSIONI!
Battutina dai, naturalmente, in ogni caso recensioni/commenti/consigli sono benvenuti e anzi incoraggiati. Gli insulti di meno, ma se sono raffinati ben vengano anche quelli. 
Il capitolo questa volta è scritto da due diversi punti di vista che si alternano. Non sono "svelati" ad inizio capitolo con il nome a caratteri cubitali perchè sono ovvi. E per dare un po' di suspense. Va bè.
Buona lettura
Al prossimo capitolo


 
 
CAPITOLO 3 - PIOGGIA E LAMPIONI
 

John scrutò torvo Sherlock, in attesa di una risposta che però non venne. Quest’ultimo aveva infatti cominciato a salutare allegramente il disgraziato vicino di casa, che continuava a rimanere aggrappato alla tenda fissandolo con gli occhi sbarrati, a quanto pareva incapace di muovere anche un solo muscolo.
«Dicevo, perchè diavolo gli hai sorriso!?» tentò nuovamente John.
Sherlock lo ignorò totalmente mentre mandava baci con la mano al tizio, nuvolette bianche che si disperdevano nell’aria gelida ad ogni soffio.
John continuò a fissarlo tormentandosi le mani, non riuscendo a distogliere lo sguardo dalla visione ipnotizzante delle narici frementi di Sherlock.
Nel frattempo la pioggia aveva ripreso a cadere fitta e pungente, faceva un freddo polare e il cielo era di un colore grigioverde inquietante. John si maledisse tra sè e sè per non aver preso un ombrello, reggendo il sacchetto del fish and chips sulla propria testa a mo’ di riparo.
I suoi pensieri stavano virando di nuovo all’immagine di Sherlock in boxer e pantofole a forma di maiale peloso, quando la voce dell’investigatore lo riscosse.
«Taxi!»
Sherlock fermò il taxi con l’indice alzato e quando la vettura si fu fermata aprì impetuosamente la portiera posteriore facendo segno a John di entrare.
John salì a quattro zampe sul sedile e mentre cercava di passare al sedile opposto gattonando, con il sacchetto di fish and chips che sballonzolava ingombrante al suo avambraccio, si sentì assestare una sonora pacca sulla chiappa destra.
«Ero sovrappensiero» sentenziò asciutto Sherlock non appena si fu seduto accanto a lui, poi aggiunse, rivolto al tassista, «Oxford Street».
Bene, se non altro ha abbandonato i suoi malsani propositi di rubare il taxi” si disse John, accomodandosi meglio sul sedile.
L’auto si mise in marcia.
 
- - -
 
Non seppe dire se fosse per l’accogliente temperatura all’interno del taxi, per il morbido sedile o per la notte precedente passata in bianco a vomitare i cannelloni con le cime di rapa della signora Hudson, ma John si sentiva intorpidito dal sonno.
Chiuse gli occhi e allungò le gambe per quanto il sedile anteriore gli consentisse di farlo, sentendo il corpo rilassarsi.
Cavalcava all’amazzone in un prato verdissimo, un sontuoso abito di ciniglia color pesca che gli scendeva fino alle caviglie, lunghi guanti gli fasciavano mani e avambracci. Gli uccellini cinguettavano e un ruscello sempre color pesca scorreva placido. John inspirò a fondo l’aria profumata di pesche con un sentore di fish and chips, ravviandosi leggermente i capelli brizzolati con una mano guantata.
D’un tratto sentì dietro di sè uno scricchiolio di foglie calpestate. Si girò rapidamente verso la fonte del rumore e vide Sherlock, vestito da cameriera di Downton Abbey, che si dirigeva a passetti svelti verso di lui.
“Ah, beata gioventù!” esclamò. Non aveva minimamente senso.
Poi si ritrovarono come teletrasportati in una spiaggia che odorava di fish and chips, e si stavano abbracciando. Sherlock aveva sempre addosso la deliziosa divisa da cameriera, cuffietta inclusa.
“Non ho remore, Gordon!” affermò impetuosamente, e vide, come uno spettatore, i loro volti che si avvicinavano ad una lentezza incalcolabile.
Le onde del mare si infrangevano sulla spiaggia con un rumore che ricordava molto quello delle auto in coda, con un tocco di scooter in accelerata. Le loro labbra si sfiorarono, e Sherlock disse:
«Mani in alto!»
John si riscosse dal sonno come se gli avessero rovesciato una secchiata d’acqua fredda in testa.
La scena che gli si parò di fronte era a metà tra il preoccupante e il comico: Sherlock teneva il tassista in ostaggio puntandogli il cellulare alla nuca.
Evidentemente quest’ultimo non aveva avuto il tempo materiale per chiedersi di quale natura fosse l’arma che sentiva premere all’altezza dell’osso occipitale.
«Ma…devo guidare!» protestò debolmente, alzando comunque in modo incerto una delle due mani tremanti.
«Accosti laggiù, vicino a quella vetrina con l’insegna grigia, e ci consegni il taxi, non si metta contro di noi, sono in possesso di informazioni sul suo conto. Informazioni scottanti» disse Sherlock calmo, nel suo solito modo di parlare privo di qualsivoglia tipo di pausa per prendere fiato.
Il tassista fece per dire qualcosa, ma dalla sua bocca uscì solo una specie di rantolo tipo rutto da professore.
«So che ha un’amante» riprese Sherlock, «la traccia di rossetto sul mio sedile è una prova schiacciante, nonché il vago sentore di profumo femminile che si avverte salendo sul taxi, potrebbe essere anche più di una, vista la varietà di capelli femminili che ho individuato sui poggiatesta, biondi, rossi, castani, addirittura un capello bianco, uno brizzolato e uno castano scuro leggermente ondulato, che potrebbe essere mio. Perciò, come vede, non le conviene mettersi contro di me» concluse tronfio.
«Ma io…  non sono nè sposato nè fidanzato!» esalò il tassista, la mano sempre alzata a mezz’aria.
John non se la sentì di far notare a Sherlock che su un taxi salivano ogni giorno probabilmente parecchie decine di donne.
«Faccia come le ho detto!» intimò Sherlock premendo con più forza il telefono sulla nuca del tassista, che dallo spavento parve dimenticare il corretto uso dei pedali e piantò una frenata maestosa.
 
 
- - -
 
Il nuovo ombrello matrimoniale di plastica trasparente rosa bubblegum con inserto antivento era stato uno degli acquisti migliori di quel pomeriggio, pensò Molly mentre sgambettava allegramente in direzione dell’ingresso della metropolitana.
Solitamente non amava fare shopping nè spendere soldi in generale, ma si avvicinava il giorno di San Valentino. L’avvicinarsi del giorno di San Valentino per Molly Hooper significava una sola cosa, da un paio di anni a quella parte: un’occasione.
Una possibilità.
Uno spiraglio di luce al fondo del tunnel dell’amore non corrisposto.
Un apostrofo rosa tra le parole ‘Sherlock’ e ‘Holmes’.
Quel pomeriggio l’aveva passato provandosi praticamente ogni vestito inguinale in vendita da Topshop. Al nono tubino di pizzo, mentre si sistemava maldestramente il davanzale (di gommapiuma, sostanzialmente) davanti allo specchio del camerino, ecco come un fulmine a ciel sereno la rivelazione.
L’epifania.
Il palesarsi della verità.
Doveva semplicemente cambiare strategia. Tutto lì!
Ecco perchè era uscita dal negozio con un completo da uomo in tutto e per tutto simile ad una delle tenute da lavoro tipiche di Sherlock. Tranne l’ombrello, naturalmente. Quello era stato un acquisto fuori programma ma piuttosto azzeccato, vista  la quantità di acqua che si stava riversando su Londra sottoforma di pioggia surgelata.
Molly era ancora immersa nei suoi euforici piani di conquista quando il suo sguardo cadde su uno dei taxi in coda al semaforo, sulla corsia opposta a quella del marciapiede su cui stava camminando.
Dapprima rise da sola alzando gli occhi al cielo, pensando che la sua ossessione per Sherlock doveva aver raggiunto ormai livelli preoccupanti se lo vedeva perfino apparire in taxi a caso mentre passeggiava in centro. Fece per riprendere a camminare, ma immediatamente si accorse che di fatto si trattava proprio di Sherlock.
Si trattenne dallo svenire lì sul posto con tutte le sue forze, aggrappandosi ad un provvidenziale lampione a un passo da lei. Cercò di aguzzare la vista per guardare meglio dentro il taxi, nascondendosi al tempo stesso dietro il lampione, che ora da una certa distanza sembrava un lampione con i sacchi della spesa e l’ombrello.
Le auto erano ancora tutte in coda in quello che sembrava una specie di ingorgo allucinante dell’ora di punta. Aveva appena iniziato a ponderare la possibilità di sfondare il finestrino, lanciarsi addosso a Sherlock e fingere di aver sbagliato taxi, quando vide qualcosa che la immobilizzò sul posto come una statua di sale.
Una cosa che sembrava una schiena incurvata fece capolino da dietro il finestrino, seguita da una nuca. Un'altra persona in taxi con Sherlock. Subito dopo la nuca scomparve di nuovo in basso, per riapparire un momento dopo.
Il terrore della consapevolezza di essere testimone di un atto del genere, in un posto del genere, a quell’ora e per giunta avente come co-protagonista Sherlock la stava facendo sentire male.
Un motociclista si fermò proprio davanti alla scena che l’avrebbe probabilmente perseguitata per tutte le notti insonni a venire.
Si aggrappò piu’ forte al lampione, ora con gambe e braccia, scalandolo freneticamente per raggiungere un’altezza che le permettesse di continuare a guardare. Ora il lampione sembrava un lampione con le borse della spesa, l’ombrello e una specie di koala aggrappato sopra. Le persone iniziavano a girarsi mentre passavano, chiedendosi cosa diavolo stesse succedendo. Naturalmente Molly non se ne accorse affatto.
Finalmente la moto ripartì ed ebbe nuovamente il campo visivo libero, ma notò con apprensione che anche la fila di auto sembrava rimettersi lentamente in movimento. Con un ultimo, disperato tentativo di guardare meglio si protese su un lato del lampione, un braccio penzoloni lungo il fianco.
Un capannello di persone era ormai radunato lì attorno e tutti si chiedevano se fosse il caso di chiamare i pompieri oppure l’assistenza sociale.
L’ultima cosa che Molly vide prima di franare per terra fu una testa che si alzava e abbassava ancora un paio di volte e poi si girava brevemente verso il finestrino. Lo riconobbe. Era John Watson.
 
- - -
 
John perse la presa sul fish and chips che schizzò per aria, atterrando con una traiettoria a parabola direttamente sui piedi di Sherlock.
«Dannazione John, raccogli questa robaccia!» esclamò l’investigatore con una vena di isteria nella voce.
John si chinò immediatamente per cercare di recuperare pezzi di patatine unticce da sotto il sedile. Di fatto dovette mettersi carponi sul sedile, sedere per aria e testa in giù, e raschiare con le mani una quantità di sporcizia immane presente sul tappetino chissà da quanto, insieme alle patatine. Pregò che il tassista non frenasse di nuovo.
Dopo una decina di incursioni a testa in giù era riuscito a pulire quasi del tutto il tappetino e le scarpe di Sherlock.
«D’accordo, ora basta, e lei vuole accostare dove le ho detto o no!?» disse esasperato Sherlock passandosi nervosamente una mano nei capelli.
John si rimise a sedere. Aveva le mani completamente piene di olio e sporcizia varia, se ne accorse mentre tentava di richiudere diligentemente il sacchetto di fish and chips, opportunamente riempito di nuovo di tutto il contenuto. Chissà perchè lo avevano scaldato prima di uscire, poi.
Non avrebbe comunque potuto lasciarlo lì a terra sul taxi, il suo solidissimo senso civico non lo avrebbe permesso, pensò soddisfatto di sè mentre si voltava a guardare fuori dal finestrino.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

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