The Last Nymph Tale

di liberty_dream
(/viewuser.php?uid=434771)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo- La morte della ninfa ***
Capitolo 2: *** Capitolo uno. Festa. ***
Capitolo 3: *** Capitolo due. L'esecuzione del principe. ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre. Nella taverna. ***
Capitolo 5: *** Capitolo quattro. Battaglia campale ***



Capitolo 1
*** Prologo- La morte della ninfa ***








THE LAST NYMPH TALE





 
Corri.
 
La voce risuonava imperativa nella mente della ragazza con la stessa forza delle onde del mare che poco lontane si schiantavano sulla bianca scogliera.
 
Corri.
 
I suoi inseguitori le erano alle calcagna. Erano settimane che sfuggiva alla cattura. Non sapeva perché correva, ignorava la ragione della sua fuga, era sicura soltanto di dover correre, correre e correre e scappare a quei tizi che la tormentavano.
Davanti a lei si stagliava la parte finale di quella salita; le bianche scogliere di Dover erano molto alte, di un colore lattiginoso, tra il lunare e l’opaco. Il mare le levigava da anni scolpendone il profilo frastagliato, pochi arbusti tentavano di sopravvivere su esse cercando malamente di ancorarsi alla roccia friabile. Si trattavano per lo più di cespugli e felci che andavano a costituire piccole oasi scure in mezzo al deserto marmoreo verticale. Doveva fare un ultimo sforzo, a breve l’insenatura di Dover sarebbe apparsa davanti a lei.

 
Corri.
 
Sentiva il freddo e la paura, e il sudore, misto al vento gelido di metà dicembre, non aiutava mentre scendeva a fiotti lungo la schiena, dalle tempie. Cercava di non pensare alla neve in cui affondava trascinando il suo minuto peso con sé. Al gelo che si stava intrufolando attraverso le maniche stracciate della casacca scolorita che indossava, lungo il corpetto e che pian piano le stava facendo perdere la sensibilità delle appendici dei suoi arti inferiori.
Cercava di arrivare a Dover, dove sicuramente avrebbe trovato Tristan ad attenderla nella locanda in cui avevano fissato il momento del loro incontro, entro la mezzanotte del giorno stesso. Ma era ormai il vespro e le luci del tramonto stavano facendo le valigie per partire verso orizzonti più lontani e posti più esotici con l’intenzione di tornare quanto prima.

L’orizzonte era dell’acceso rosso sangue che tanto amava, dipinto da un attento pittore su quell’immensa tavolozza con il proprio liquido scarlatto. L’ultimo gesto volto a lasciare memoria di sé a posteri.
Gli arbusti che coloravano l’aridità dell’alta scogliera andavano via via diradandosi, finché un bucranio apparve a lato della strada segno che Dover, la città dell’Ammazzabestie, era vicina.

Notò un piccolo anfratto nella roccia e vi si nascose all’interno con l’intento di passarvi la notte e sfuggire agli inseguitori. Il luogo puzzava di muffa e di marcio, a terra luccicava qualcosa: un brandello di tessuto rosso porpora era avvolto in modo tale da celare qualcosa al suo interno, quasi fosse un fagotto. Al suo interno una fiala, vitrea senza decorazioni e chiusa da un tappo di sughero contenente un liquido blu, si rivelava tra la polvere che la ricopriva, nessun nome, nessun marchio. Solo una boccetta. La inserì nella sua bisaccia tra le altre con l’intenzione di andare da un esperto e chiedere cosa contenesse una volta che si fosse tolta da quell’assurda situazione.


Due ombre le passarono affianco e lei trattenne il respiro in una reazione istintiva: se l’avessero notata, sarebbe stata la fine. Una aveva una forma strana, quasi animalesca, l’altro era tanto grosso quanto veloce con una clava dotata di aculei di acciaio attaccata alla schiena possente. La superarono e proseguirono nella corsa verso Dover e la loro vittima.

La ragazza cercò di usare la sua magia, ma lo scontro della mattina contro il principe Gilbert Von Paradise l’aveva prosciugata di ogni briciola del suo potere lasciandola svuotata e priva di forze, un banale scrigno a cui è stato tolto il suo tesoro o una noce priva del suo frutto. Era, infatti, la volontà, e soltanto quella ad averla spinta fin laggiù, a trascinarla in quella corsa, a costringerla ad arrancare verso un appiglio sicuro.
Si acquattò nell’angolo più oscuro del pertugio, quello che sapeva fosse il più sicuro, ma anche il più pericoloso: non avrebbe avuto vie di fuga se l’avessero trovata. Provò ad addormentarsi, sebbene fosse troppo presto per cadere tra le accoglienti braccia di Morfeo. E si ritrovò a pensare a tutto quello che le era successo fino a quel momento.

Mentre la luna si alzava per la prima volta quella notte andando ad accendere una per una tutte le stelle, un grido squarciò l’aria.

Due loschi figuri sorridevano guardando il corpo della loro giovane vittima ormai gocciolante le ultime gocce della linfa vitale.


 
L’ultima ninfa stava morendo.
 
Ora la vittoria sarebbe stata del re Henry Von Paradise, il loro sovrano. Niente e nessuno avrebbe potuto schiacciarlo, o quasi.
Si erano divertiti a colpire il povero corpo con la clava, a guardare le lacrime e il sangue con un misto di esaltazione ed eccitazione, a strappare a morsi brandelli di carne e lanciarli poco lontano. In alcuni punti si vedevano le candide ossa che si mimetizzavano perfettamente con il bianco della neve. Aveva provato a lottare, ma essendo solo un guscio senza una stilla di magia non aveva potuto fare niente. Aveva subito. E ora stava morendo. Il liquido scarlatto le gocciolava dalle tempie, dalla bocca, dalle lesioni e dai muscoli squarciati, dagli organi danneggiati scendendo verso terra attratto dalla gravità o da un bisogno impellente di colorare altre tele.
I due tipi se ne andarono sghignazzando dopo essersi divertiti a malmenarla e a ridurla ad una maschera di sangue finché non la credettero morta. Ma la ragazza era ancora viva e con l’ultimo anelito di vita scrisse delle parole sulla roccia, con il sangue che allagava il pertugio colorando la neve e infradiciando il sempre più cinereo corpo, un’antica nenia delle ninfe insegnatale dalla madre.
 

 
Traccia la linea scarlatta nell’antro rosso,

Il calore ha abbandonato ogni suo osso.

                                                                     Per inverni non esisterà un’altra ninfa,                                                                    

Della vita la linfa.

Dieci decadi e si avrà un’altra possibilità,

Attento a non aver già soddisfatto ogni necessità.

Quando tutto è già risolto,

L’angelo della salvezza incomberà su chi il fiore della luce ha colto.
 

 
Poi la mano decadde e il cappio della morte si strinse attorno al suo collo, nessun testimone di quella morte assistette alla fine solitaria dell’ultima ninfa.


Quand’anche la luna è sparita per un suo viaggio, dal plenilunio funesto scappa, ecco che torna il sole… astro di pace o di guerra?


Un viandante stava camminando alla ricerca di qualcosa, dalla luce che emanavano le sue mani si capiva che stesse utilizzando una qualche forma di magia. La sua magia era quella di un cacciatore di tesori.
Fino a ché riuscì a individuare il suo obiettivo con la sua Blasted Search.
Entrò in un anfratto nascosto della scogliera. Umido, sporco e buio. Si schifò quando mise il piede in una pozza credendo si trattasse di fango, ma entrò all’interno con l’intenzione di trovare ciò che cercava.

Rimase meravigliato.

Un cadavere lacero e sporco di sangue era appoggiato contro la parete più interna. Una giovane donna aveva trovato lì il sonno eterno; i lineamenti dolci sulla pelle nivea lo meravigliarono, i capelli biondi spettinati andavano allisciandosi, mentre la pelle strappata si ricomponeva, il sangue all’interno del corpo si ricreava, i vestiti laceri si trasformavano in una lunga tunica argentata.
Rimase zitto e immobile, anche quando vide ciò che stava cercando.
I
l corpo si sollevò da terra e fu portato, con la rinata bellezza, all’esterno del pertugio. Poi cadde in mare portando con sé la fiala blu che il viandante tanto cercava. La vita offriva la ninfa come tributo al mare, che andava a raggiungere le sue compagne.

Il giovane si scompigliò i capelli consapevole di aver fallito la ricerca, non avrebbe più potuto portare a termine la propria missione ora che il liquido color del mare era perso.

Imprecò in malo modo per la caccia fallita ancora scosso per ciò che aveva visto.
 
 

 
Un secolo dopo la situazione era rimasta la stessa. Il re immortale Henry Von Paradise regnava ancora tenuto in vita da un incanto molto particolare, la fonte blu della giovinezza sgorgava artificialmente nelle segrete del palazzo: il risarcimento per avere ucciso coloro che avevano ammazzato l’ultima ninfa. Suo figlio, Gilbert Von Paradise, era scappato dalla sua custodia unendosi ai ribelli: dopo un secolo di immortalità e di decadenza, la nazione aveva bisogno di un nuovo re. Era disposto a morire e, da quando aveva smesso di bere l’acqua della fonte del padre, invecchiava con il passare degli anni. Erano passati cento ventuno anni dal suo concepimento, centocinque dalla volta in cui aveva sconfitto l’ultima ninfa e bevuto per la prima volta l’acqua miracolosa, due da quando aveva tradito il padre, un mese da quando i ribelli lo avevano accettato con diffidenza come uno di loro, ma sembrava ancora un sedicenne immaturo, perché la sua mentalità ed il suo corpo erano rimasti li stessi di quando aveva iniziato a bere la pozione.
 













LA PAROLA A ME.
Non so da dove mi sia uscita questa storia, probabilmente dallo stress scolastico, dell’inizio anno nuovo. Non ho mai pubblicato niente, ma ho letto, come autore silenzioso, molte storie in questo fandom ed ho potuto notare come le storie ad OC vadano molto di moda per cui mi sono detta… perché non provo anch’io? In sintesi si tratta di una sfida con me stessa per vedere se sono in grado di iniziare e finire una storia che interessi a qualcuno.
Ed ora diamo qualche regola prima di partire con la scheda da compilare.

 
  1. Il ruolo dei personaggi è a mia discrezione, ciononostante potete candidare il vostro personaggio ad due dei seguenti tenendo presente che sarò libera di decidere il ruolo indipendentemente da dove ricade la vostra scelta in base alle esigenze del ruolo che andrete ad occupare, il vostro si tratta di un consiglio orientativo:
  • L’ultima ninfa (unico personaggio, femmina, tra i protagonisti)
  • Principe (due)
  • Ribelle (massimo dieci)
  • Locandiere (due)
  • Vagabondo alleato dei ribelli (cinque)
  • Vagabondo alleato del re (cinque)
  • Ninfa delle sorgenti (una, femmina)
  • Guardia reale, i più potenti (tre)
  • Soldato semplice (massimo dieci)
  • Popolano (massimo dieci)
 
 
  1. Se ho bisogno di un maschio ed ho femmine in esubero, o viceversa, mi prendo la libertà di cambiare il sesso del personaggio inviatomi. Faccio presente che mi occorrono più maschi che femmine.
  2. Chi mi invia il personaggio deve necessariamente seguire la storia.
  3. Tenete presente che sono sadica nei confronti dei personaggi, per cui potrebbero subire maltrattamenti, menomazioni, torture, in molti casi la morte. Potrebbero esserci scene forti o spinte data la libertà concessami, infinita dalla fantasia, poco limitata dal rating, ma le ultime potrebbero, più probabilmente, non esserci, ma non vi garantisco niente. Chiunque può morire.
  4. Sono libera di accettare e non accettare i vostri OC indipendentemente dall’ordine d’arrivo.
  5. Dipendendo dal ruolo alcuni OC potrebbero risultare come comparse (popolani, vagabondi, soldati). La ninfa delle sorgenti appare solo due- tre volte.
  6. Non accetto poteri invincibili o God e Dragon Slayer o più poteri per OC, ogni personaggio deve avere un potere diverso. Datemi due alternative di magia per ciascuno anche se ne sceglierò uno solo.
  7. L’idea delle regole non è mia, anche se le ho modificate in base alle mie esigenze.
  8. I personaggi di Fairy Tail non compariranno se non in sporadiche occasioni.
  9. Gli OC devono essere mandati tramite messaggio privato, non nelle recensioni. In tal caso non verranno accettati. Scrivete ‘’OC per The Last Nymph’’ con il nome del vostro OC ed i ruoli per cui è candidato.
  10. Siate originali! La fantasia è un’arma e la penna il modo per colpire chi ci vuole chiudere gli orizzonti e porre dei limiti.
  11. Potete inviare quanti OC volete.
  12. Ed eccovi la scheda. Per favore siate molto dettagliati!
 
NICKNAME AUTORE:
NOME OC:
COGNOME OC:
SOPRANNOME OC:
ETA’:
SESSO:
PROVENIENZA (famiglia reale, bassifondi, regno delle ninfe, qualche città sperduta):
RUOLI IN CUI E’ CANDIDATO (due, vi avviserò in quale troverete il vostro OC):
CARATTERE:
ASPETTO FISICO:
SEGNI PARTICOLARI:
VESTITI (in contesto medievale, i pantaloni possono usarli anche le ragazze, niente jeans, né calzamaglie, anche se questi ultimi sono medievali, descrivete le armature per le guardie e i vestiti per il tempo libero, i soldati semplici useranno l’uniforme quando saranno in servizio):
POTERI A CUI E’ CANDIDATO (due, se entrambi fossero già stati assegnati provvederò a chiederne un terzo):
AMA:
ODIA:
PAURE:
SOGNI PER IL FUTURO (soggettivo in base al ruolo del personaggio per cui è scelto):
MOTIVI PER CUI E’ DIVENTATO UN SOLDATO O UN RIBELLE O UN AFFILLIATO DI ENTRAMBI:
STORIA D’AMORE (eventuali richieste sul ruolo e carattere del partner, ma solo qualche accenno):
ALTRO:
FOTO (se siete in grado di fornirmene una):

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo uno. Festa. ***


THE LAST NYMPH TALE


La sala era stata imbastita a dovere dai servi del palazzo che guardavano con estrema deferenza il padrone passeggiare per i tavoli criticando ogni negligenza ed ogni spirito d’iniziativa. Egli lisciava le tovaglie porpora toccando le minuscole pieghe scappate agli occhi ed alle mani operose delle ancelle, ordinava che fossero lucidate nuovamente le stoviglie, che fossero lavati determinati piatti ed alcuni bicchieri. La sala doveva essere perfetta per quel ballo: il principe doveva trovarsi una degna consorte tra tutte la fanciulle da lei designate.

Alcune donne erano ancora intente a passare la cera sul marmo bianco screziato da venature color onice, mentre altre a pulire le enormi finestre istoriate della sala dei ricevimenti. Era un lavoro molto faticoso: dovevano stare attente ad ogni minima macchia mentre, con l’acqua e un composto alchemico preparato dagli alchimisti del palazzo,  lavavano gli immensi vetri delle trifore alte dai tre ai cinque metri. Le impalcature per le pulizie erano state preparate dai mastri falegnami di corte facendo in modo che fossero il meno traballanti possibile per garantire l’incolumità dei lavoratori.

Nella sala del cucito le sarte stavano facendo i preparativi per le tende drappeggiate che di lì a poco sarebbero state appese nella sala. I ricami più fini avevano portato via anni alle donne che avevano passato l’intera vita rovinandosi la vista e aggiustando gli abiti per i reali. Un mosaico di decorazioni si era lentamente disegnato tra i fili pazientemente intrecciati con somma maestria, talmente tanto intricati che, chiunque guardasse quei tessuti, aveva la sensazione di trovarsi in un’illusione e ci si perdeva all’interno. In fin dei conti gli arabeschi seguivano linee continue dall’alto dei cinque metri di stoffa lavorata, ma erano talmente tanti che non pareva fossero stati realizzati in così poco tempo, ovvero cinque anni.

Nella cucina ribollivano i pentoloni in rame, venivano cucinati al girarrosto maialini da latte, erano create decorazioni nelle portate principali con foglie, frutti e oli vari, le brocche colme di acqua e vino venivano riempite dagli otri, le provviste si esaurivano ad una velocità incontenibile e non pochi sguatteri erano stati destinati a rifornire le cucine attingendo ai contenuti delle riserve dle palazzo. Salse ed oli venivano versati sui piatti in abbondanza, gli animali cacciati per l’occasione scuioati e le loro carni cucinate in molti modi. Il cacao, ancora così esotico, veniva usato per preparare dolci, mentre la farina era macinata per cuocere del fragrante pane fresco e le erbe pestate nel pestello.

Nelle sale d’armi, nei campi dove i soldati si allenavano, venivano date le ultime disposizioni sulla sicurezza, sul modo di accogliere gli ospiti e di scacciare gli intrusi. Le sentinelle si giocavano il turno ai dadi, mentre i più ricchi scommettevano centinaia di jewels in sciocche sfide di mangiata o bevuta, o a chi riusciva a conquistare una certa ragazza e a passare una notte con quella. Generalmente le donne con cui ci provavano erano le serve e le ancelle del palazzo, concubine della notte e lavoratrici del giorno.

Le soldatesse erano escluse dal circolo di scommesse in quanto erano persone con una non trascurabile forza di volontà e  carattere: alcune di loro facevano paura con l’aura che loro stesse emettevano. Le più temibili erano: l’unica componente femminile del trio dei comandanti della Guardia reale, chiamata El Kreisker e Erika Shadow,  una soldatessa semplice molto promettente entrata da poco nelle milizie venendo trasferita quasi subito per la bravura e determinazione al plotone composto da quarantotto uomini e due donne di stanza al palazzo reale.
Le due donne soldatesse semplici erano Erika Shadow e Uiharu Matsuoka. Le uniche che in quel pomeriggio avevano deciso di continuare l’allenamento fino a mezz’ora prima della festa.

Uiharu era al palazzo reale ormai da tre anni; era in una delle dieci squadre di ricerca della fatidica notte in cui si persero le tracce di uno dei tre figli ereditari di Sua Maestà, il principe Gilbert Von Paradise.

Non si sarebbe mai dimenticata di quelle ore, della tensione palpabile che persino gli animali, sensibili com’erano, se ne accorsero innervosendosi, non pochi stallieri passarono l’intera nottata a cercare di calmare le bestie imbizzarrite.
Nel cestino della memoria non erano finiti i momenti di quando avevano trovato il corpo senza vita di un ragazzo del tutto identico al principe con la testa sgozzata galleggiante sul canale delle fogne poco lontano dal busto. Né della paura che avevano avuto lei ed il suo collega nel ritrovarlo, né della mano bagnata che si era poggiata sulla sua spalla facendola rabbrividire e girare di scatto. Né del gelo della lama d’acciaio puntata alla gola così lucente, così sottile, ma anche così dannatamente mortale. Nè del calore del suo sangue che composto, nell’unico rivolo che usciva dalla ferita, scendeva luccicante tra le tenebre scure della notte allegro ed incurante del dolore che quella fuga comportava.
Il ricordo di quelle parole gelide, rivolte a lei ed all’altro soldato ancora la tormentava, il bagliore dei ricordi era ancora così dannatamente vigile ed attento a non abbandonarla, così prepotente ed egoista a non volerla lasciare dormire tranquilla quando anche l’ultima candela si spegneva delle stanze e lei rimaneva sola, con la luna, sua dolce compagna, a cercare di dimenticare e a rigirarsi continuamente nel letto in attesa che il tanto anelato sonno la portasse via con sè.

Quella sera sarebbe dovuta essere impeccabile nella sua uniforme colorata a festa, doveva sfoggiare con orgoglio il tridente dello stemma reale ricamato sul petto. Ciò significava che con ogni probabilità sarebbe stata circondata dai nobili per buona parte del suo tempo a fare la guardia composta ed attenta con lo sguardo perso nel vuoto per le successive sette ore.
Uscì dalla tinozza in legno rinfrescata dal recente contatto con l’acqua fredda dove si era lavata ed indossò le sarabullias pulite che aveva appoggiato sull’unico mobilio della stanza: una piccola sedia di paglia su cui aveva poggiato ciò che da lì a breve le sarebbe servito. Le indossò sofferente, perché proprio non ne capiva l’importanza che la signora del palazzo gli conferiva. Poi indossò da sopra il seno nudo una casacca di tela che strinse in vita con un pezzo di corda e le brache nere che non usava mai e che conservava solo per occasioni come questa, la sua adorata maglia di ferro fu dolcemente infilata sopra il tessuto arrivandole al ginocchio, indossò il calza-brache, le scarpe nere, i guanti neri e la tunica bicromatica dei colori bianco e giallo, i colori  del casato, con un tridente rosso che spiccava davanti ad una ruota lignea arpionata su uno scudo nero, il simbolo. Lisciò i capelli crespi dello stesso colore dell’argento cercando di nasconderli, inutilmente, dall’elmo forgiato su misura per la sua testa.
I capelli la facevano sembrare un porcospino per come uscivano il più disordinatamente possibile dallo strumento di difesa sparati in ogni direzione. Aveva gli occhi azzurri spiritati e frementi mentre uno del trio dei comandanti della Guardia Reale passeggiava davanti a lei e ai suoi compagni con passo regolare dando le ultimissime istruzioni importanti. Com’era logico pensare, era stata destinata alla sala centrale dove avrebbe patito in un muto e tacito silenzio il caldo e la confusione infernale che avrebbero sicuramente, come al solito, regnato sovrani in quella festa.

Persa com’era nei suoi piani di fuga dalla stanza non si accorse che la stavano chiamando se non quando si sentì toccare il braccio, abbassò lo sguardo e notò la persona che la stava rimproverando con lo sguardo. Nei suoi occhi blu oltre mare si poteva notare qualcosa oltre alla macchia bianca vicino alla pupilla del bulbo sinistro: si leggeva un ordine silente e velato, vedendo che la ragazza non capiva il significato distolse lo sguardo infastidito.


- Abbassati- disse soltanto.Quella si chinò fino a raggiungere la sua altezza, dovette piegare di un bel po’ le ginocchia ed inclinare le gambe per arrivargli alla testa: dovevano avere almeno trenta centimetri di differenza. Chetamente le prese l’elmo che tratteneva i capelli e lo sollevò dalla testa permettendo a quelli di conferirle il suo solito aspetto disordinato, poi lo appoggiò a terra.

- Sei più carina così.- disse lui sorridendole solamente con le labbra, gli occhi spenti in una cupa apatia.

-
Vi prego di non usare favoritismi con me solo perché sono una donna.- espresse il suo rammarico per l’azione con il tono più deferente del solito.

- Nessun favoritismo, è una richiesta del principe. Tutti i soldati devono stare a capo scoperto come segno di rispetto per i cavalieri che non potranno usarlo nel corso della serata.- asserì lui piegando il sorriso in una beffa.Lei fece finta di non notarlo essendo abituata ai giochetti di quel comandante così infantile non solo nell’aspetto e si rialzò composta e a testa alta. Si chiedeva ancora, come fosse stato in grado di arrivare fino a quel grado, ma per quella domanda solo pochi conoscevano la risposta.

Era arrivato due inverni prima ed era fin da subito entrato nelle grazie del re. Già dal primo sguardo tutti i cavalieri, anche i più esperti, potevano capire che era goffo ed imbranato, eppure nessuno aveva ancora capito da dove nascesse tutta quella fortuna.

Haruka Winfrey, così si era presentato, era un bambino, un piccolo infante che alla sua età poteva soltanto fare il paggio. Un immaturo che girava con un odioso pupazzo di pezza che aveva sempre al suo fianco, un gufo giallo pallido floscio e con poca imbottitura, con le ali viola malamente attaccate al corpo con un pezzo di corda verde e dei bottoni colorati di nero come occhi, il becco era solamente disegnato dal filo arancione.
Non indossava mai un’armatura, anzi… alcuni dubitavano persino che ne avesse una. Una casacca blu scolorita, troppo grande per il suo corpo non ancora sviluppato, era l’indumento che più era solito indossare e quanto di più simile al ruolo sociale che ricopriva: un posto così alto nella società indossato da un bambino troppo piccolo per contenerlo. Era così sballata la taglia che, dalla scollatura, la spalla destra sporgeva. Aveva fermate in vita da un laccio in canapa le brache marroni e il suo amato pupazzo in braccio in una stretta forte volto a non lasciarlo mai.
Con un gesto della mano indicò agli uomini di recarsi ai propri posti: gli ospiti stavano arrivando. Quando la sala si fu svuotata e l’ultima guardia ormai andata, si accucciò in un angolo sedendosi sulla punta dei piedi ed iniziò a canticchiare un’inquietante motivetto mentre muoveva il gufo di pezza nell’aria. Almeno lui poteva volare seppur imprigionato e trattenuto dalle braccia del ragazzino riccio con i capelli color oro.
Poi Almach lo venne a chiamare e dovette alzarsi, costringendosi dolorosamente a rimettere le scarpe che servivano per buon costume e decoro, aveva promesso al principe stesso di usarle e non poteva contravvenire ad un impegno preso con una delle personalità più in vista del castello. Non si era vestito in particolar modo per l’occasione, anche ricoprendo il ruolo di Comandante della Guardia Reale assieme agli altri tre, non riteneva fosse necessario comportarsi educatamente in quell’occasione e, a maggior ragione, nelle altre.

In mezzo alla sala da ballo lui era l’unico che indossava un vestiraio povero, persino il principe vantava un abbigliamento elegante degno delle fiabe, che avrebbe fatto invidia persino al marito di Biancaneve.
Si aggiustò la casacca e si accovacciò in un angolino nell’attesa che la festa finisse, toccò il pavimento con il palmo della mano godendo della ritrovata frescura in quella stanza claustrofobica per il numero eccessivo di invitati, non avrebbe voluto prender parte alla festa ma vi era stato costretto. Affondò la testa tra le braccia in una posizione rannicchiata, tenuto in piedi solo dal muro e dalle punte dei piedi. Gli si avvicinò sorpassandolo una dama, tutta cipria e profumo.
Lui si alzò e si inchinò baciandole la mano come pretendeva il galateo quando s’incontrava una giovane nobildonna.


- Ciao sorellona!- proruppe a dispetto del cerimonioso galateo e le sorrise rialzandosi fissandola e squadrando il suo volto composto anche nello stupore, era una dama molto bella, bassina e magra, a giudicare da quanto era piccolo il corpetto e, in questo caso, esistevano solo due possibilità: o era snella di suo, o era masochista e si divertiva a non respirare.

- Ciao piccolino!- lo salutò quella chinandosi alla sua altezza- hai perso i tuoi genitori?- gli chiese ingenuamente.

- Sì-si finse triste- potete aiutarmi a trovarli, sorellona?- chiese con fare cantilenante, decidendo di approfittare della stoltezza della ragazza.

- Avrei delle cose da fare… però- lo fissò e notando i suoi occhioni sempre più gonfi e lucidi- Va bene! Ti aiuterò!

- Sì. Grazie Sorellona!- l’abbracciò lui di slancio sorridendo.

- Buono piccolino!- scoprì che Haruka era quasi alto quanto lui, solo per pochi centimetri era più alta lei.- Ma dimmi, come ti chiami?- gli domandò.

- Dici a me?- s’indicò- io sono Haru! E tu sorellona? Come ti chiami?- la guardò con la tipica curiosità fanciullesca.

- Io sono Syria. Lieta di fare la tua conoscenza. Dammi la mano: andiamo a cercare i tuoi genitori!

- Sissignora!- esclamò in modo buffo mettendosi sull’attenti e provocando l’ilarità della giovane con la sua apparente dolcezza, le diede la mano e iniziarono a camminare tra la moltitudine di persone che affollava la caotica sala.

I camerieri avevano fatto veramente un buon lavoro e tutto era pronto e in ordine sulla tavola imbandita: grossi e unti tacchini facevano la loro dorata figura tra le bucce delle arance e il succo di limone appena premuto, i piatti di porcellana erano stati disposti a meticolosa distanza con una precisione tale che avrebbe fatto invidia al più famoso degli orefici, le posate erano state rilucidate come dettato dalle regie disposizioni, il legno di noce di cui era fatta la tavola sfigurava di fronte alla complessità delle decorazioni degli aurei candelabri a cinque braccia con le loro candele in cera d’ape profumate per le essenze inserite durante la loro preparazione. Era una sala molto bella e spaziosa, tralasciando per l’angusto pavimento, tra l’altro un dei migliori dell’epoca, fatto da un mosaico di pietre marmoree.
La bionda Guardia Reale stava saltellando tenendo per mano la signorina meritandosi occhiatacce da tutti i commensali che si attardavano nell’ala destinata alle danze. Procedeva a ritmo di una musica veloce ed allegra, andando a tempo e guidando la compagna tra il groviglio di corpi che si muovevano alcuni seguendo il brano intonato dall’orchestra, altri inciampando nei propri piedi, ancora incapaci di ballare una canzone così veloce.

Quando finalmente fu fuori dalla massa decise di fermarsi: il principe era di fronte a lui e stava amabilmente dando sfoggio della propria retorica ad uno dei suoi amici più intimi, convincendo, anche lui, dell’inutilità dell’evento preparato.  Al contempo la bella ragazza che lo accompagnava sudata e affaticata guardava basita il bambino che la teneva per mano chiedendosi quanta forza avesse nelle gambe e qual era il rapporto che aveva con il principe dato il deferente rispetto che trapelavo dalle iridi.

Dallo chignon elaborato della pettinatura di Syria alcuni ciuffi rossastri sfuggivano impertinenti al comando del parrucchiere che li aveva acconciati, molte perle bianche delle dimensioni di un cece erano state inserite tra i capelli unitamente ai brillantini. Sotto, vicino alla nuca, due codini di piccolissime dimensioni ricadevano sul collo avvolti in nastri di seta nera che proseguivano per una ventina di centimetri. Mano nella mano Haruka condusse la rossa verso il principe. Mentre conversava amabilmente con un uomo dal probabile alto lignaggio, si sentì toccare da una mano, si voltò subito ma non vide nessuno eccetto i capelli color rubino di una ragazza, poi sentì una voce squillante proveniente dal basso chiamarlo.


- Taichi! Taichi!- lo stava chiamando il biondino agitando le mani verso l’alto.

- Scusami Haru! È che sei troppo basso e non riuscivo a vederti- portò una mano verso i capelli blu e se li scompigliò realmente dispiaciuto.

- Fa niente! Ormai ho attirato la tua attenzione. Volevo presentarti una persona- disse indicando la ragazza che teneva per mano- lei è Syria.Il ragazzo s’inchinò baciandole la mano.

- È un onore per me conoscerla.

- Vi lascio soli.- disse il bambino approfittando della presentazione che coinvolgeva la ragazza che lo stava braccando.Intanto quella stava passando da un delicato colorito roseo ad un rosso peperone accesissimo.

- Lei è la signorina Syria…?- fece il giovane, lei tacque non capendo la domanda velata- Non l’ho mai vista ai balli di mio padre. Potrei sapere il vostro cognome se non vi dispiace?

- Oh… ma certo! Io sono Syria… Syria Sil- Silter!- rispose calcando sul cognome con fare fin troppo sospetto che il principe incominciò a nutrire dei dubbi nei suoi confronti.

- Né è sicura? Il vostro cognome è Silter?

- Sì!- affermò quella sicura capendo che il giovane sospettasse di lei.In realtà il vero cognome di Syria era Silver, ma tale parola era associata ai ribelli: due gemelle ed il loro fratello maggiore facevano tutti parte della resistenza. E, in qualità di principe, lui ne era ovviamente informato.

- Piacere di fare la vostra conoscenza lady Silter. Io sono…- non riuscì a presentarsi che fu chiamato da alcuni suoi cavalieri- devo salutarvi milady, spero ci incontreremo presto- disse velocemente congedandosi.


Syria ne aveva abbastanza di quella festa dove aveva rischiato di essere scoperta. Uscì dalla sala nonostante i valletti la richiamassero per la cena che assomigliava tanto ad un pranzo nuziale e sgusciò tra le guardie verso il cortile interno del castello.

Le mura di cinta che proteggevano la zona nobiliare erano molto più alte e possenti di quelle che circondavano il perimetro intero della fortezza, la manutenzione lì era regolare e non si trovava segno di muschio o abrasione sul mosaico di pietre. Entrò in una casupola, lì dove, un tempo, decenni prima, era solita soggiornare un corpo di guardia. Il monolocale era ligneo con un pavimento di terra, lei camminò a passo sicuro, passo dopo passo sui suoi stivali di cuoio nero, gli unici che aveva deciso di tenere indosso nonostante avesse rischiato di essere smascherata.
Si avvicinò all’altro lato della costruzione che pareva stesse per andare in frantumi come uno specchio ad ogni soffio di vento. Si chinò, attenta a non sporcare il vestito che era stato preparato solo per lei dalle mani esperte di una sarta ribelle, e sollevò una maniglia quasi perfettamente mimetizzata a causa della terra e della polvere che avevano deciso di farne la propria dimora. Dopo alcuni secondi si udì uno scatto ed una lastra di legno si alzò rivelando la sua presenza e quella di un cunicolo sotterraneo dopo di essa.

Entrò nel passaggio e richiuse la trave sopra di sé. Una piccola torcia era ancorata alla parete, lei l’afferrò, che ancora crepitava tanto forte quanto un’ora prima, nello stesso punto in cui l’aveva lasciata. E si cambiò. Sciolse l’acconciatura facendo scendere i brillantini lungo il corpo, slegò le treccine e lasciò che i suoi capelli corti rossi fossero liberi, le due ciocche più lunghe, agli antipodi del volto, le legò con dei nastrini di seta nera. Slacciò faticosamente il corpetto e l’abito ricamato che avrebbe o reso alla sarta o conservato da qualche parte che infilò nella sacca che aveva lasciato quand’era andata alla festa.
Rimase nuda, ma un brivido di freddo la percorse, qualche rumore proveniente dalla casupola, proprio lì accanto la fece sobbalzare, più velocemente e silenziosamente che poté, infilò la gonna azzurra che le andava lunga e larga fino ai polpacci e da sopra una camicia bianca che aveva la parte superiore a fascia, poi un corpetto di cuoio marroncino che serviva a mantenere sù la blusa e a permettere che le sue forme fossero coperte. Corse velocemente, ma inciampò e cadde lacerando la pelle dei palmi delle mani e delle ginocchia.

Un’imprecazione troppo forte le sfuggì dalle labbra rosso sangue .

Un’imprecazione che fu sentita dalle guardie che avevano deciso di controllare la casupola attirate dai rumori sospetti.

Non ci misero molto a rinvenire il cerchio dove la terra era stata smossa. E aprirono la botola.

Erano in due.

Syria era una, era sola.

Lentamente, sempre con più lentezza un rettangolo luminoso andò ad aumentare la poca luce prodotta da quell’unica lanterna. Delle esclamazioni seguirono il ritrovamento del passaggio. Un piede scese sul primo scalino, un soldato percorse le scale entrando in quello stesso corridoio in cui Syria stessa era, nascosta nel sottoscala fortunatamente vuoto. Passarono entrambi.
Il primo stava afferrando la torcia accesa quando una freccia dorata gli trafisse il cuore. Il tempo che si rendesse conto della saetta che lo trafiggeva e rendersi conto che un buco enorme stava colando fiotti di sangue e morì, le iridi si rivelarono in tutto il loro blu. Il suo cadavere si accasciò sulle ginocchia per poi cadere riverso verso il pavimento, la mano che teneva la freccia cercando di toglierla scivolò dalla presa e andò a toccare il pavimento. Ferma e immobile.
L’altro si girò e vide il suo amico morente, tutto ciò che poté fare fu chiudergli le palpebre e sguainare la spada. Erano di ronda, ma non aveva uno scudo: contro le frecce non avrebbe potuto fare niente tranne usare la sua magia. Così fece.
Tirò indietro con la mano libera i pochi capelli rossi ribelli al liscio indietro liberando la visuale. Abbandonò la lancia per afferrare il corto spadino che aveva rimbalzato fino a quel momento lungo il suo fianco.


- Chi sei? Vieni fuori?- gridò a gran voce cosicché l’assalitore s’accorgesse di lui mettendosi in una posizione comoda per attaccare.

Ma solo il silenzio pervadeva l’ambiente, interrotto solamente dal respiro affannato dei due e dai loro cuori che battevano accelerati.

- Forza! Vieni fuori!- continuò a gridare.

- Dirk Bounder!- sibilò la ragazza dai capelli infuocati color rubino facendo apparire nella mano un piccolo pugnale con la lama d’acciaio smussata e l’elsa rinforzata da fasce di cuoio e stringhe di budello.

Con uno scatto fulmineo si portò alle spalle del ragazzo e lo colpì al ventre affondando nello stomaco la lama e sporcandosi del suo sangue. Quello portò in un gesto istintivo le mani alla pancia rendendosi conto del colpo appena ricevuto. Gli salì un grumo lungo l’esofago, tossì rischiando di soffocare mentre cercava di espellere ciò che stava per vomitare. Una poltiglia rossa grumosa andò a raggiungere tutto il liquido scarlatto che piano piano stava uscendo dal suo corpo.

- Urgh!- esclamò agonizzante quello.

La ragazza si girò a fissarlo un’ultima volta stampando nella sua mente e nei suoi occhi verdi gli orrori da lei commessi. Poi se ne andò, scomparendo nel buio del cunicolo.
Intanto il rosso, sporco e lacero, chiuse gli occhi aspettando che la morte lo raggiungesse, invano.
 
***

Qualche ora più tardi, di poco più lontano al luogo dello scontro, gli stava tenendo la mano stringendola convulsamente.
La paura di quando lo aveva trovato agonizzante in fondo a quel buco mai visto prima, la pozza di sangue che gli si allargava intorno e, quel colore cinereo, erano stati davvero troppo per lui.

Con la mano libera scostò una ciocca rossa che scendeva ribellandosi alle regole della compostezza ma ligia a quelle della gravità, e contemplò quel volto. Lo stesso volto che aveva guardato esprimersi in migliaia di espressioni, l’una diversa dall’altra, lo stesso viso che ora appariva smunto e di un colore innaturale, troppo pallido per appartenere ad un mortale. Ma il respiro non aveva ancora abbandonato il suo petto che regolarmente, seppur impercettibilmente continuava ad alzarsi ed abbassarsi continuamente.

Quella notte aveva deciso.
Ryuu considerava Yami un fratello, molto più che un amico, lo giurò a  sé stesso, lo assicurò di fronte a quelle divinità che si divertivano a vederli ‘’giocare’’ soffrendo e combattendo per il loro sfizio e capriccio. Lo promise ad uno Yami che stava lottando tra la vita e la morte per una solo insignificante ferita, lui avrebbe ucciso chiunque lo avesse trascinato in quello stato. E se Ryuu Nightmare decideva qualcosa, bisognava star certi che, potevano crollare il cielo, morire il re o spaccarsi la terra, come diceva il suo cognome, avrebbe fatto precipitare l’assalitore in uno dei peggiori incubi che avesse mai fatto e non si sarebbe liberato tanto facilmente di lui.

Il ragazzo dai capelli di un azzurrino che a mala pena riusciva a farsi notare tra il grigio si sentì toccare ad una spalla. Si voltò di scatto continuando a tenere per mano il rosso stringendolo, quasi temendo che in quell’attimo di distrazione potesse bastare per farlo volare via, lontano da lui per sempre. Di fronte a lui, la ragazza dai capelli argentati stava cercando di consolarlo con il suo silenzio.
I suoi occhi glaciali esprimevano tutt’altro che il freddo del ghiaccio. Emanavano una luce che sapeva riscaldare i cuori afflitti quando voleva, un riflesso che in molti apprezzavano prima di divenire succubi della lussuria che inevitabilmente, infiammava gli ormoni di chi la circondava.

- Come sta?- domandò la soldatessa visibilmente preoccupata.

- I medici hanno detto che se la caverà solo nel caso in cui si svegli, Uiharu- disse con un sospiro fin troppo contenuto.

Allora lei si sedette ad una sedia che accostò al letto per vegliare il ferito insieme a Ryuu.

- Lo veglio anch'io.

E fu silenzio, mentre durante la festa si stava scatenando il putiferio: il principe aveva deciso che sarebbe stata la sua dama, ma erano scomparse, completamente le tracce di essa, quasi fosse scappata alla mezzanotte come una cenerentola o rapita da qualcuno.
La damigella in questione era scappata.

 
***

Il ballo era terminato e anche dalle segrete in cui Gilbert era rinchiuso poteva sentire il vociare andare via via diminuendo di intensità. Sospirò rassegnato: domani né il padre né i suoi fratelli né i ribelli lo avrebbero salvato. La sua morte conveniva a tutti.

Era un personaggio scomodo rinchiuso in quelle prigioni sotterranee sporche e ripugnanti da ormai una settimana sbattuto in una cella con i polsi e il collo legati da pesanti catene al muro, trattato come l’ultimo dei criminali. Finalmente l’indomani, anche lui, avrebbe avuto la sua giusta punizione.

Aveva paura, non poteva negarlo.

Aveva fame, aveva voglia di giustizia.

Aveva ammazzato lui l’ultima ninfa, ora era passato un ciclo: lei doveva essere già un’adolescente. Lei era la sua reincarnazione o semplicemente, la stessa cosa che rappresentava l’altra.

Si scontano i crimini, solo la morte conduce redenzione dei peccati.

Chinò il capo rassegnato: prima di ventiquattro ore sarebbe morto, molto probabilmente decapitato.







ANGOLINO AUTRICE
Scusatemi per il ritardo ma ci tenevo a scriverlo bene e a darvi una buona impressione. Ringrazio Novalis per avermi betato il capitolo (ok, solo la prima parte perchè ero impaziente di pubblicarlo). E a chi legge ed ha aspettato fin'ora per una mia comparsa che spero vi soddisfi come ha fatto con me nello scriverla.
Spero vi sia piaciuto! E che mi lasciate un commentino ^_^ Ryuu Koori... il primo malcapitato è stato proprio il tuo >.<
Metto qui sotto una tabella con i partecipanti ed i ruoli in cui sono stati scelti. Avviso che mi servirebbe ancora due- tre soldati, almeno un altro vagabondo affilliato al re e qualche popolano (preferibilemente due- tre bambini, due uomini e due donne, questi in età da avere figli e un ragazzo sui diciott'anni).
 
Ultima ninfa Shail Aghea
Ninfa delle sorgenti Nephily Hoster
Locandiere Alie Padilla  e Brianna Regnard
Guardia reale El Kreisker , Almach Lumbar e Haruka Winfrey
Soldato semplice Yami Kouri, Ryuu Nightmare, Erika Shadow, Uiharu Matsuoka
Ribelle Eryn Silver, Leon Silver, Syria Silver, Edward Yoshina, Nina Gnuzus, Mitsuki Akaikari e Eiji Koneda
 
Vagabondi affilliati al re Cassiel Blanco
Vagabondi affilliati ai ribelli Gilbert Regnard (Ferio), Reed Hitome
Principe Howl Pendragon e Taichi Namidayama
Popolano  









 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo due. L'esecuzione del principe. ***



THE LAST NYMPH TALE



- Papà!- urlò esasperata una ragazza- Dai cazzo, sbrigati! Anche Gavriel è già pronto. Possibile che manchi solo tu? Faremo tardi.- Quello era un giorno importante per l’intero regno e nessuno, lei compresa, voleva arrivare tardi alla piazza, e non solo per la punizione corporale che era inferta ai ritardatari e agli assenteisti, ma perché, per la prima volta nella storia da che si avesse nota, un principe sarebbe stato giustiziato.Tutti speravano in un intervento dei ribelli ma, da quando avevano attaccato il palazzo la sera del ballo durante il quale il principe Taichi aveva scelto la sua consorte, e da quando questa era stata ‘’rapita’’, tra l’altro senza alcuna rivendicazione da parte degli stessi, contrariamente a ciò cui erano avvezzi. Tutte queste accuse furono imputate a un tentativo di liberare il traditore Gilbert Von Paradise, ma tutti questi avvenimenti, ogni fatto che ho appena narrato, erano filtrate dall’interpretazione della corte del re.

La fanciulla era sparita, quest’era vero, ma era scappata, non stata rapita. I ribelli non avevano attaccato, ma era stata una e una sola persona ad aver combattuto e non per un’azione offensiva, ma per difesa. Ma chi era questa persona che era entrata nelle vite del palazzo lasciandosi dietro una morte? Certamente nessuno lo avrebbe scoperto, o quasi.
Ma torniamo in quella casa sperduta, dove poc’anzi stavo narrando gli avvenimenti. Era semplice ed essenziale, senza alcun segno distintivo, era anonima e divisa, all’interno, in due sole stanze, quella centrale, adibita a vera e propria ‘’abitazione’’ e quella sul retro, usata come ripostiglio. Anche l’interno era indifferente agli occhi degli altri popolani: terra sul pavimento e terra sulle pareti, qualche misera stuoia fatta di frasche tenute insieme da delle strisce di canapa, un baule microscopico ligneo contenente i pochi vestiti posseduti e un piccolo forno a legna fatto di mattoni cotti al sole (come quelli che costituivano la casa). Qua e là, qualche asse sporgeva e, probabilmente, la sua funzione era meramente quella di sostegno.

Era una casa molto modesta, e sarebbe stata anche ‘’normale’’ secondo i canoni di Fiore, se al centro del tetto non ci fosse stato un grande foro voluto appositamente per far disperdere il fumo quando si accendeva il fuoco per riscaldarsi. E quell’ottobre, pareva sempre più intenzionato a far avvicinare la consueta data di accensione.
Lei era già pronta nel suo vestito di ogni giorno, il fratellino pure che, seduto al suo fianco, era fin troppo calmo. Mancava solo lui: il padre.

- Muoviti papà!- continuò lei a gridare- Non possiamo arrivare tardi.

- Sì sì- borbottò quello in risposta mentre lo si sentiva trafficare con qualcosa.Emerse dal retro dell’abitazione, con il viso accaldato e le gote rossicce: stava lavorando.

- Ancora a lavorare? Cazzo padre, muovi il tuo culo e usciamo da qui! Non voglio passare un’altra notte in cella per colpa tua!

- Modera i termini, ragazzina! Stavo lavorando per darti da mangiare, se non te ne sei ancora accorta. - la rimproverò quello con il volto scuro- E non capisco come mai voi ragazzi avete tutta questa smania di vedere un uomo decapitato, proprio non lo comprendo.

- Papà! – sibilò il bambino invocando il nome del padre.

- Gavriel, dammi la mano!- ordinò al figlio e poi rivolgendosi alla giovane perentoriamente- andiamo.Anche le altre case erano semplici, qualcuna di poco migliore, qualcun’altra di molto peggiore. Passarono vicino alla chiesetta locale, semplice e in muratura, seminascosta dalla vegetazione che la copriva e distruggeva senza che nessuno si curasse di farvi una buona manutenzione. Stava diventando diroccata, solo un piccolo angelo, posto sul suo tetto, sembrava non aver subito l’effetto del tempo.

La ragazza la fissava affascinata mentre ci passava vicino e più volte, contravvenendo agli ordini del padre, era entrata lì con il suo migliore amico. Stranamente la incuriosiva, l’aveva interamente esplorata, l’aveva stregata, poi vi aveva scoperto una fiala, contenente un liquido blu, avvolta in un brandello di tessuto lacero e consunto.
Notando il suo interesse nei confronti di una bislacca e inutile costruzione, il padre dette una pacca sulla spalla della ragazza per farle volgere l’attenzione altrove.

- Shail!- la rimproverò, ma con un tono leggermente dolce.

Lei voltò lo sguardo riconducendolo davanti a sé e sgranò gli occhi meravigliata: a lato della costruzione il suo “migliore amico” la stava aspettando.

- Posso raggiungerlo?- chiese dopo aver notato che anche l’uomo lo aveva riconosciuto.

- Uff- sbuffò lui in risposta- va! Ma ricordati di esserci all’esecuzione, altrimenti oltre alla notte in cella non esci di casa per una settimana.

- Sì papà- lo ringraziò sorridendo.

- E non fate niente di compro…- ma era troppo tardi, lei era già andata, l’uomo sorrise sotto i baffi vedendo la sua amata figliola affrettare il passo verso quello che, anche lui lo sapeva, era ben più di un amico.

Iniziò a correre per raggiungerlo attraverso il prato incolto, sentendo la rugiada sotto la pianta dei piedi andando scalza. Qualche mosca stava girando sull’erba e, al suo passaggio, si levava in aria unitamente alle candide farfalle e alle piccole coccinelle.

- Ferio!- lo chiamò quella raggiungendolo.

Il ragazzo si voltò di scatto e nel riflesso dell’occhio verde, l’altro era coperto da una bandana nera, apparve la figura di lei.

- Shail!- la salutò abbracciandola.

- Finalmente sei tornato! Sei tornato!- disse ridendo quella, incredula di poterlo rivedere e stringere tra le braccia.

- Te l’avevo detto che ero via per lavoro, Shail! Sono tornato dopo un mese, come ti avevo promesso!

- Pensavo fossi morto.

- Non posso morire prima di averti sposato, mia cara!- e così dicendo le baciò una guancia- Dì la verità, ti sono mancato tappetta?

- Cazzo dici? Ovviamente no!- quella mise il broncio incrociando le braccia al petto, ma sciolse subito la sua aria di compostezza vedendo l’aria da cucciolo bastonato del ragazzo.

- Nemmeno un po’? Un pochino? Pochino Pochissimo?

- Uhm... Veramente pochissimo.- disse lei ridendo.I suoi occhi rosa erano ridenti e rispecchiavano la sua anima buona e gioviale, il suo buon’umore e la sua spensieratezza. Sciolse i lunghi capelli color latte dalla treccia che era costretta a portare per ‘’pudore’’ lasciandoli liberi di toccare terra, poi si voltò verso di lui.

-  C’è ancora un po’ di tempo prima dell’esecuzione, scendiamo al fiume?- gli propose e lui non seppe dire di no.


Passando attraverso la foresta di pini di quel paese, chiamata semplicemente Il Bosco, sbucarono, tra funghi, margherite e pigne, sulla sponda destra di uno di quei pochi fiumi che attraversavano quell’area sperduta della regione di Fiore. L’aria era fredda vicino alle pendici dei monti e l’ubicazione di quel paese, chiamato Slave Town, quello più vicino alla città reale, Magnolia, era stato scelto come luogo per ospitare la pubblica esecuzione del principe Gilbert, detto il Traditore.
Ferio si sedette sulla riva, giocando con un ciuffo d’erba, a guardare la sua promessa sposa saltellare sui sassi dopo essersi tolta il vestito per non bagnarlo e rimasta soltanto in una sottana un po’ troppo trasparente per i suoi bassi istinti. Stava ridendo tra gli schizzi, bagnandosi i capelli sciolti e facendo appiccicare ancora di più la veste alle morbide curve del suo corpo. Il ragazzo, fin troppo alto per i canoni dell’epoca, di pochissimo più basso del metro e novanta, stava cercando di domare l’imminente erezione  che, anche la sola vista delle gambe della giovane, era in grado di provocargli. Non resistendo al desiderio di baciarla la richiamò e, con la scusa che era già passata una delle tre ore che ancora avevano prima che il boia calasse la sua scure, la fece tornare da lui.

Per lo stesso motivo per cui lei si era spogliata rimanendo in sottana, lui la baciò possessivamente, come già aveva fatto in quella chiesetta diroccata. Con la scusante che nessuno poteva vederli e che l’onore della ragazza era già stato macchiato dal marchio dell’infamia, le sue mani scivolarono lungo le cosce proibite preda della lussuria, ma rimproverate da quelle della bionda, tornarono sulla sua schiena, attestando il tangibile segno dell’insubordinazione sua e percorrendo il segno che, a sangue, le aveva rovinato la reputazione: quello di una frusta.
Lei si staccò da lui per riprendere l’aria.

- Vaffanculo Ferio! Da quando sei diventato così audace? Non eri tu il ragazzino senza palle che perdeva sempre contro di me e che aveva paura di fregare una cazzo di ciambella al fornaio? Mi sorprendi.- commentò quella.

- Se non sbaglio ero così anche la scorsa volta, ma non ti sei fatta tutti questi problemi a rendermi succube. Cos’è, ti spaventa che reagisco anch’io?

- Cazzo no! È così… così… - cercò una parola per descriverlo.

- Eccitante- sussurrò lui mentre la ragazza gli sfilava la casacca.

- Uhm…  sì- sussurrò lei tracciando un percorso immaginario tra i suoi pettorali- ma eccitante quanto?- il giovane uomo le prese la mano delicata, ma già lievemente rovinata dal lavoro nell’orto, e la portò all’altezza del cavallo dei suoi pantaloni.

- Lo senti quanto?- la sua voce s’incurvò un poco quando lei gli toccò il rigonfiamento troppo evidente.


L’unica risposta che Shail gli dette fu quella di baciarlo con più passione e possesso di quanto avesse fatto prima, ricercando un contatto sempre più approfondito. E lui, trascinato dallo stesso turbine  di emozioni e sensazioni che avevano preso l’istinto di lei, la ribaltò, facendo aderire il suo corpo all’erba, slacciò quasi con troppa perizia la sottoveste che copriva il corpo dell’amata permettendo di rivelargli i morbidi seni, ma non scese a svelargli la sua femminilità. Iniziò a giocarci con le mani, passò la bocca attorno ai capezzoli turgidi. Ma un urlo femminile improvviso, fece svegliare i due giovani amanti dalla lussuria.
Si guardarono spaventati: una leggenda narrava di un drago di fuoco che girovagava per quelle foresta andando a rapire le fanciulle per poi divorarle nella sua tana. Tuttavia questo racconto mitologico è quello volutamente tramandato dal re, la versione reale è differente e risalente a ben più di cent’anni prima, di conseguenza ad un’epoca precedente a quella governata dall’attuale sovrano. Esso iniziava così…

 
 ***

Tempo fa, presso uno dei pochissimi fiumi, in un punto incognito del letto, una giovane donna, bionda e dai grandi occhi color cioccolato, stava lavando i panni suoi e della sua famiglia, sorridendo al pensiero dei suoi figli che stavano cercando i funghi per la cena. Tuttavia, il sorriso delle labbra, non si rispecchiava negli occhi: da troppo tempo, il marito, essendo un mago,  era partito per una delle tante guerre tra gilde, richiamato da quella presso cui era vassallo: Fairy tail. E la preoccupazione era fin troppo evidente anche quando il cuore le si inteneriva.

 Era sola con una veste dalle morbide tonalità rosate in mano, quando, dal folto degli alberi, sbucò una piccola creatura rossa. Poggiava su quattro zampe e, nei suoi grandi occhi rosa, era possibile leggere diffidenza mista a tristezza. La giovane donna, che non aveva più di vent’anni essendosi sposata a quindici, si alzò di scatto spaventata lasciando cadere nel fiume la cesta di canapa contenente il poco vestiario della sua famiglia, si voltò cercando di allontanarsi, ma la creatura, screziata da venature sanguigne, aprì le ali e, con un elegante balzo, decollò e planò di fronte a lei, percorrendo la distanza di almeno una decina di metri in un paio di secondi. La bionda crollò in ginocchio cercando di nascondersi alle pupille verticali dell’essere che la sovrastava, ovviamente invano. Quella chiuse le ali e avvicinò il muso affusolato verso di lei, annusandola; nelle iridi rosate ora si poteva leggere curiosità e allegria. Ad averla vicino, quell’umana le pareva così piccola e fragile, esprimeva tenerezza in quella posa rannicchiata e seminascosta dalle braccia nivee, avvertiva il suo bisogno assoluto di protezione, la sua paura nell’essere torreggiata da lui. E prese una decisione.

Un ruggito forte e potente fece svegliare tutti gli uccelli del bosco, scappare gli abitanti del villaggio verso Magnolia, mentre le fattezze dell’essere iniziarono a mutare. Le sue dimensioni si rimpicciolirono e la sua forma cambiò. Le grosse e massicce zampe divennero sempre più piccole mantenendo il proprio vigore, sino a diventare della forma e delle dimensioni di quelle di un uomo; la cassa toracica si restrinse, e così tutti gli organi interni. Una fitta di dolore travolse il giovane drago mentre le ali e la coda si ritiravano nella schiena; anche i lineamenti del muso cambiarono lasciando spazio ad una folta e disordinata capigliatura rosata e ad un viso gioviale. L’unica cosa che non cambiò in lui furono gli occhi: si rimpicciolirono, ma il taglio degli occhi rimase perfettamente uguale, le iridi del medesimo colore screziato, le pupille nere come fessure verticali. La creatura era diventata un uomo.

La giovane sgranò gli occhi, sbatté più e più volte le palpebre sperando che fosse solo un sogno, mentre il suo corpo iniziava a tremare dalla paura. Scossa da gemiti e da singhiozzi, non riusciva a muoversi e si ritrovava paralizzata di fronte alla figura dell’uomo che aveva davanti, incapace sia di proferire parola, sia di spostare i muscoli a suo piacimento. Non poteva negare la sua bellezza e quello, una volta che le fu apparso davanti sostituendosi alla creatura mitologica, non riuscì a reggersi in piedi e cadde sull’erba chiudendo gli occhi.

La donna era confusa: non sapeva che fare. Una domanda assillava la sua mente e le domandava con insistenza cosa avrebbe fatto, se andare via lasciando quello sconosciuto giacente sull’erba o, magari, provare a portarlo nella propria abitazione e offrirgli riparo. Se l’avesse condotto nella sua casa sarebbe senz’altro incorsa nelle ire di suo marito e i malparlieri avrebbero sparlato di lei infangando il buon nome della sua famiglia, se non l’avesse fatto la sua coscienza l’avrebbe tormentata fino alla fine dei suoi giorni. Dunque che fare? Più lo fissava, più scrutava e analizzava il suo volto, più si rendeva conto che il giovane uomo stava soffrendo di un qualche dolore atroce che lo attanagliava dal profondo; la sua fede non gli permetteva di abbandonarlo così: sarebbe senz’altro morto cadendo vittima delle belve e delle creature del bosco, e anche di quel drago, se fosse stato “fortunato”. Era incerta, dannatamente insicura del da farsi da non saper prendere una decisione e, tanto più cercava di capire quale scelta fosse la migliore, tanto più la paura e lo sconforto di sbagliare le attanagliavano lo stomaco. Distolse, quindi, lo sguardo cercando un segno divino da interpretare per avere la sua agognata risposta, ma si sentì chiamare.

- Lu… Lucia…- il rosato protendeva la sua mano verso di lei, gli occhi spalancati a invocare qualcosa- Lucia… aiutami.

La bionda stava andando nel panico: come faceva quello sconosciuto, che mai, mai, aveva visto prima, a conoscere il suo nome? Ma gli dei aveva dato il loro segno, il segnale che avrebbe sancito la rovina della povera donna e della sua sfortunata famiglia.

 
 ***
 
Si rivestirono più in fretta che poterono, in silenzio e cercando di non fare nemmeno un minimo rumore. Quando lei ebbe di nuovo indosso il suo vestito a tratti bianco e ad altri rosa, iniziarono a correre verso il paese mentre altre grida femminili si alzavano nei meandri della foresta invocando alcuni nomi.

Scalzi, con i calzari in mano, correvano lungo quell’unico sentiero per cercare rifugio dalla fantomatica bestia. Tra i rami gli uccelli si erano ammutoliti e il sole aveva perso il proprio pallore, d’un tratto il tanto ospitale Shady Woodland, si era trasformato nell’ideale ramificazione della terrificante Forest of Eternal Agony, contando che, a conti fatti, lo era realmente. Tuttavia, in un luogo recondito all’interno del bosco, si era conservato quasi integro il villaggio delle Ninfe, dove la discendente sopravvissuta, poiché caduta in un pozzo, viveva senza essere scoperta. La Ninfa delle Sorgenti dimorava celata agli occhi di tutti perennemente nascosta dietro una spessa coltre di nebbia che aveva la capacità di annebbiare le menti di coloro che vi si avventuravano all’interno. La sua presenza dava vigore alla natura, donava colore alla foresta sempre grigia e scura andando a costituire l’unica macchia verde in uno scenario color delle nuvole cariche di pioggia.

 
 ***

La piazza era gremita; nessuno poteva mancare a quel tipo di evento:  tutti dovevano assistere e capire in cosa si incappava nell’andare contro il re assoluto di Fiore, indipendentemente dall’età e dalle condizioni fisiche, chiunque fosse in grado di vedere doveva presenziare all’esecuzione. Ai lati dello spiazzo urbano gli illegittimi abitanti della dimora regale preservavano l’ordine tra la folla: non un soldato era stato lasciato al palazzo, solo i membri della Guardia Reale per proteggere il castello erano rimasti a Magnolia di stanza all’edificio e, nel cortile del palazzo, uno di loro stava giocando su una primordiale altalena fatta da un’asse mal limato e da alcuni cenci di corda appesi all’albero dell’impiccato, il luogo secondo la leggenda, il drago, in forma umana, si sarebbe impiccato, ma di questa parte della leggenda ne parleremo più avanti.

La piazzetta del villaggio era completamente diversa da quella di Magnolia poiché essa giaceva sulle radici del grande albero, mentre Slave town era sul confine di un bosco un tempo rigoglioso, ora spettrale. Le case che davano sulla piazza erano delle famiglie più abbienti della città, fatte con pietre ricavata dalla cava dove quasi tutti gli abitanti del paesucolo lavoravano spaccandosi la schiena a colpi di martelli e picconi. Erano davvero ben costruite: meno di dieci anni prima era stato fatto arrivare un architetto molto famoso nel continente di Fiore e aveva fatto un buon lavoro dirigendo, come capo carpentiere, i lavori di costruzione. Ora le impalcature di legno si alternavano ai mattoni fissati l’uno all’altro con l’ausilio della malta, un conglomerato legante che rendeva le abitazioni molto più lussuose e costose di quanto i normali lavoratori potessero permettersi. Da fuori erano austere, l’interno, al contrario era molto sfarzoso e lussuoso: ogni stanza aveva un proprio caminetto e nei bagni c’era, attraverso un complicato sistema di tubature che era uno degli ultimi ritrovati della scienza moderna, acqua corrente e servizi per l’igiene personale, sulle pareti vi erano affreschi e arazzi dove si alternavano scene religiose a scene pagane e profane, le finestre avevano vetrate istoriate e alcuni tappeti erano stati ricavati da belve feroci provenienti da altri continenti.

Inutile dire che l’intero edificio costituiva l’ufficio del governo del villaggio e il palazzo dove i membri del consesso, tutti spalleggiati e ben voluti dal monarca, dimoravano con le proprie famiglie.
La bandiera sventolava su quello che era il palazzo della giustizia, se in questo modo si poteva chiamare un processo sommario e una rapida pena. Normalmente, sia col sole che con la pioggia, vi erano frotte di persone che andavano a invocare clemenza e ascolto per i reati commessi a loro danno, generalmente nessuno di questi veniva ascoltato. Solo i crimini peggiori venivano puniti: per affronto pubblico ai dirigenti e omicidio si rischiava il carcere sull’isola Garuna, dove la popolazione mezza demoniaca era stata brutalmente sterminata.

Al centro della piazza c’era un pedana fatta in tutta fretta dai falegnami che il re aveva portato con sé, avevano lavorato alacremente smantellando il luogo dove avvenivano le fustigazioni e le esecuzioni per ricrearlo in modo che fosse degno dello sguardo del re Immortale.
Non c’era ancora sangue fresco o secco a sporcare il legno duro e destinato a resistere, ma sarebbe stata presto inaugurata. Un suono di tromba significava che il prigioniero stava arrivando; dall’alto della tribuna costruita per lui e per i nobili più importanti il re sorrise, suo figlio Taichi, il Domadraghi, si strinse nel suo schienale. Sentiva il suo disagio penetrare nelle sue ossa, quello che stava per succedere non era naturale: un figlio non moriva prima del padre, un padre non uccideva la propria prole. Incassò le spalle all’interno del suo scranno sollevando la testa per guardare il cielo. Era grigio… che anche lui capisse quello che stava per accadere e volesse piangere per l’abominio che si sarebbe consumato di lì a poco? Quello che era certo è che si stava facendo sempre più scuro e carico di pioggia. Il ragazzo dai capelli color oltremare abbassò lo sguardo angosciato, suo fratello era sempre stato il suo punto di riferimento, allora perché aveva tradito? Cosa l’aveva spinto a abbandonare la sua famiglia, più provava a dare pace a questi interrogativi e più domande affollavano la sua testa. Il comportamento di quell’uomo era sempre stato saggio, cauto e misurato, per cui quest’ultimo gesto non lo si poteva imputare alla follia. Lui avrebbe saputo darvi una risposta.

Una fioca luce, un debole bagliore venne percepito da tutti indifferentemente da ciò che stavano facendo, i bambini si voltarono di scatto. Accompagnato da un tuono fragoroso il principe Gilbert fece la sua apparizione nella piazza affollata. L’attesa era finita e il temporale era imminente.

Venne fatto salire sulla pedana dove era già stato posizionato il ceppo: il boia gli avrebbe tagliato la testa. Appariva stanco, dimagrito,invecchiato. Il principe Howl, quando lo vide, ebbe un brivido, stava quasi per chiamarlo “Fratellone” ma si rese conto in tempo che una parola del genere lo avrebbe compromesso agli occhi del padre, con il quale i rapporti stavano già diventando più freddi a cause di controversie sul modo di occuparsi dei problemi di stato. Anche lui, allo stesso modo di Taichi, aveva i capelli blu, ma i suoi erano più spenti, più cupi, più neri tanto che, in certe notti e in certi luoghi male illuminati, poteva sembrare pelato: erano blu notte. Sulla sua pelle lattiginosa scottata per gli allenamenti con la spada cui ogni giorno si sottoponeva per mantenere la prestanza fisica e allenarsi per eventuali combattimenti importanti, spiccavano gli occhi azzurro scuro, carichi di forza e di sapienza nonostante fosse l’ultimogenito nato dal secondo matrimonio del padre.
Gilbert venne fatto inginocchiare. Sembrava provato, negli occhi si leggeva la rassegnazione e la consapevolezza di chi sa di star per morire, ma intende farlo con coraggio, riconoscendo i suoi crimini e quindi sapendo di meritare quella fine. Nelle sue iridi nere dimoravano la fierezza e l’indignazione. Aveva qualche ferita aperta sui muscoli delle braccia e del torace, le ulcere sulla schiena dovevano essere infette per quanto erano violacee e gonfie mentre aveva i polsi piagati: doveva aver passato molto tempo legato. Alzò il capo a fatica scuotendo i ciuffi biondi, un regalo di sua madre, che gli impedivano di osservare il mondo con la sua solita arguzia e intelligenza, portò gli occhi sul padre che lo guardava con mutua soddisfazione, nascosta a malapena da una maschera di apparente tristezza che doveva indossare come conveniva per il momento.

A un cenno del re un uomo, un certo Lord Blanco a quanto annunciava il bardo si fece avanti con aria solenne. Tutti lo conoscevano come il Giocattolo Mangiauomini e il suo nome non era certo dovuto al caso: da ex cavia per gli esperimenti del Dr Clint era stato nutrito per oltre i primi quindici anni della sua vita di carne umana, persone che poi, aveva imparato a uccidere da solo con le sue stesse mani. Quando il re aveva avviato un progetto per creare “il soldato perfetto”, lui era stato una delle vittime sacrificali per la ricerca: fu sottratto alla sua famiglia a soli sei mesi, immediatamente dopo essere stato svezzato, dopo che questa lo aveva venduto come schiavo e aveva vissuto la sua intera vita sottoponendosi a trattamenti magici e alchemici che da semplice umano lo avevano trasformato nel mostro che era. Quando faceva delle sortite contro i ribelli o andava a spezzare la vita di qualcuno, aveva continuato la sua antica usanza di mangiare chi uccideva, ma prima di ammazzarli giocherellava con loro stuzzicandoli con battute per incutere più paura o usando uno qualsiasi dei suoi metodi di tortura. Ora era libero, ma aveva deciso di affidare la propria spada al re che lo trattava come un uomo di fiducia e che lo aveva sollevanto dalla triste condizione di schiavo a quella di assassino personale libero da catene e costrizioni.
Per ordine del re aveva dovuto rinunciare sia ai suoi abiti quotidiani, sia alla sua armatura. Ora indossava delle brache di lana lavorata e una semplice blusa da macellaio. Calò il cappuccio nero sui suoi riccioli bianchi, un colore strano e addirittura maledetto, e attraverso le due piccole fessure continuò a vedere lo spettacolo dinnanzi a lui. Studiò tutte le facce mentre il re perorava la storia di quanto egli fosse magnanimo e il figlio ingrato per averlo tradito a quel modo schierandosi con i suoi peggiori nemici per motivi infondati secondo quanto lui asseriva. Gilbert aveva abbandonato il castello durante una notte senza luna, adottando i colori delle tenebre nel vestiario, un pugnale semplice infilato tra le cinghie dentro il giubbino di pelle, un altro all’interno dello stivale. Era scappato con la luce dalla sua parte, ma lo avevano lo stesso trovato, allora aveva ucciso, minacciato ed era riuscito ad andarsene lasciandosi indietro la marte di due soldati che lui stesso conosceva. Ma la morte di cui si vergognava era quella della Ninfa: i due sicari che aveva inviato l’avevano abbandonata agonizzante, sola e derelitta, in un lago di sangue che pian piano si era ingrandito. Lui l’aveva vista da lontano ed era stato uno spettacolo agghiacciante: gli occhi sgranati, le pupille dilatate, i fremiti del corpo che cercava di trattenere l’anima che piano piano tornava nell’oceano. I capelli sudati per quell’ultima fatale corsa erano liberi di ricadergli sul morbido e diafano corpo; il principe ricordava ancora, a distanza di un secolo, che il cuore fece un balzo quando pensò << è bellissima>>.
Il discorso del re finì, il condannato aspettò la sentenza.

- Per aver tradito tuo padre, la tua famiglia e il tuo regno,  con il supporto del Concilio superiore del reame, delle Guardie Reali e del popolo tutto io, re Henry von Paradise, Protettore del Regno di Fiore, Custode della Fonte della Giovinezza, primo sovrano della dinastia von Paradise con oltre un secolo di comando alle spalle, lord delle isole di Garuna e Tenroujima, Patrono delle montagne, Cacciatore di vulcan sul monte Hakobe, Comandante supremo delle Armate per la Difesa Nazionale,  in virtù del potere conferitomi dagli dei e dagli spiriti, ti condanno a morte per decapitazione.

Due guardie afferrarono Gilbert per le spalle e lo condussero al ceppo, lo fecero inginocchiare e appoggiare la testa sulla protuberanza di legno; il ragazzo avrebbe sempre ricordato come quello fosse stato il suo ultimo cuscino, la sua comodità e la sua lignea presenza l’avrebbero accompagnato fino alla fine dei suoi secondi. Il Giocattolo mangia uomini gli si accostò con l’ascia in mano.

- Quali sono le tue ultime parole, Traditore?- fu l’ultima cortesia che quell’uomo mezzo albino gli fece, non che fossero andati molto d’accordo prima: era stato lord Cassiel a catturarlo!

- Non rimpiango di aver tradito. Sono pentito per aver fatto uccidere l’ultima ninfa e per aver ucciso chi l’aveva assassinata offrendo su un piatto d’argento la ricompensa: una fonte sgorgante acqua cristallina, ti ho dato un dono padre, l’Acqua della Giovinezza non ti fa morire di vecchiaia, ma qualcuno verrà e sai? Il ferro ci uccide. E tu sarai il prossimo in questa famiglia!-gli inveì contro.

- Tagliategli la testa, ora!- furono le ultime parole che il re disse quel giorno, era paonazzo per la rabbia e per il suo segreto ormai di pubblico dominio.

Gilbert chiuse gli occhi, il Giocattolo alzò la scure. Ci fu un unico tonfo secco e la testa del giovane principe grondava lontana dal corpo, grondante e spruzzante sangue, con le vertebre ben in vista. Il boia che aveva eseguito la sentenza la raggiunse, la afferrò per i biondi capelli ormai tinti e la mostrò al padre.

- Ecco la testa di vostro figlio, mio signore.- le labbra del re si contorsero in un ghigno.


Nella folla ci fu uno scambio di battute e di sguardi tra due ragazzi: Syria e Leon Silver avevano sentito tutto a dispetto degli altri ribelli appostati nella folla. Gilbert non aveva detto loro di quel “piccolo” punto debole della sua famiglia al contrario di come entrare nel castello. Raggiunsero gli altri poco fuori la piazza e, confondendosi tra la folla, tornarono tutti nel loro nascondiglio.

 









ANGOLINO DELL'AUTRICE

Immagino che per tutti questi mesi non ci siano scuse accettabili, il ritardo è talmente tanto che posso solo affermare che mi è dispiaciuto non poter scrivere.
Oggi stesso ho terminato il capitolo, quindi nella fretta non l'ho revisionato totalmente. Spero che le descrizioni non siano state molto/troppo pesanti, ma ci tenevo. Ecco a voi l'ultima ninfa, la cara Shail Aghea che l'abbiamo già vista in atteggiamenti "poco casti" insieme al suo "migliore amico", il piccolo Ferio di Wilwarind86, che spero non vi abbiano indotto a lasciare la storia- ricordate, è a rating arancione, quindi posso permettermelo :P - e il principe Gilbert è stato il primo a morire. Yeee, che bello... ok, no. Ma spero di aver reso i personaggi al meglio anche se ho qualche dubbio su Cassiel Blanco. Che dirvi? Mandatemi la vostra opinione, ci tengo tanto!

Liber

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo tre. Nella taverna. ***







THLASNYMPH TALE



Ci vediamo al Cencio. Era una delle frasi più solite da udire presso le fasce più basse della popolazione di Magnolia. Ma il Cencio era stato un luogo rinomato presso le alte fasce della società, un locale che offriva riparo, svago e divertimento molto apprezzato presso chiunque.

Era stato costruito nell’anno X877, quello in cui i draghi scomparvero definitivamente da un ormai ultracinquantenne Lyan, figlio di un dragonslayer, Gajeel Redfox e della sua consorte, Levi McGarden. Aveva avuto un nome pomposo, tonante e prepotente: “On the dragon’s wings” era molto noto all’epoca, apprezzato e frequentato. Era stato costruito vicino le macerie della vecchia sede di Fairy tail ed era passato alla storia come l’unico locale sopravvissuto per più di cinquecento anni.

Aveva avuto vicino il canale più bello dell’intera città, case lignee istoriate e con ampie balconate erano le sue vicine. Sulle strade le rose facevano a gara per superare la bellezza di quelle mosaicate delle finestre, opera dei più fini maestri cultori dell’arte del vetro; nessuna aveva mai avuto quel tanto per superarle. Le mura erano fatte di pietre poste a incastro e incollate con la malta, uno speciale legante all’epoca molto raro e costoso; pesanti travi in legno di ciliegio sostenevano un tetto spiovente andando a comporre disegni elaborati nel controsoffitto finemente intarsiato.

Ma era proprio il canale a costituirne la sua più grande bellezza, e la sua più terribile rovina.

“On the dragon’s wings” aveva un minuscolo porticciolo da dove affittava delle barche per risalire il fiume e per scendere a cui si accedeva tramite una botola segnalatissima sempre aperta sul retro della locanda. Le barche navigavano attraverso le chiuse fino al mare o fino ad altre destinazioni: giardini esotici e colorati dai profumi narcotizzanti. Era quindi un luogo di lusso, dove i clienti potevano mangiare alcuni tra i piatti migliori della regione dell’Ovest e riposare su morbidi cuscini di piume d’oca avvolti in calde coperte riscaldate per tempo vicino alle braci spente.

Un decennio di secche e un cinquennio di alluvioni segnarono la sua rovina. La pioggia cadeva quattro o cinque volte all’anno e sempre mista alla sabbia, le coltivazioni non riuscivano a germogliare seccandosi sempre prima del tempo: venne così a mancare il cibo raffinato che l’aveva caratterizzato e l’igiene iniziò a peggiorare inesorabilmente. Seguirono poi anni di scroscianti piogge, dove il sole era un spettacolo rarissimo. Le messi marcirono per l’acqua e quell’eccellente sistema di chiuse e canali unico al mondo cedette inondando gli abitati e distruggendo proprietà e vite. Il proprietario del tempo morì durante la terza alluvione soffocato dal fango che riempiva il suo stesso locale.

I suoi figli spesero tutti i risparmi per provare a rimettere a nuovo quel poco che restava: le travi principali vennero cambiate e così i tavoli e la trabeazione. Un cartello dismesso ora indicava quell’antico e potente nome “On the dragon’s wings”, ma il tempo aveva reso quasi illeggibile la scritta,  poi qualche avventore ubriaco aveva inciso sul legno del muro “Il Cencio” e così si era chiamato fino a quel momento. Nel momento della nostra storia, il locale aveva cinquecentotrentatre anni, vi lavoravano solo la proprietaria e un’inserviente e vendeva la peggior birra dell’intera città. Nonostante essa contenesse qualche pagliuzza e la carne puzzava di pesce sul punto di andare a male, il posto era sempre pieno di avventori.
Ribelli, ricercati, poveracci, vagabondi e mendicanti liquidavano i dispiaceri della loro vita con i boccali. Uomini di famiglia spendevano lì la paga in eccesso del mese, vedovi portavano le donne della notte all’interno delle camere. Qualche affittuario sfrattato e quasi cacciato anche dal “Cencio” abitava nelle camere lugubri illuminate dal solo chiarore di una misera candela di cera. Le coperte venivano date solo per un prezzo superiore; il menù acquistabile comprendeva birra a colazione, “maiale” o zuppa di pesce e birra a pranzo, pane di segale e birra a cena. Se si era fortunati, una torta di mele leggermente bruciacchiata veniva servita per prezzi ridicoli.
Quando si entrava, il primo istinto era quello di tornare indietro sulla propria strada, il secondo era un conato di vomito, il terzo era un’attrazione magnetica per l’allegria (o pietà, a seconda dei casi) che i menestrelli stonati infondevano strimpellando qualche accordo disarmonico sui loro liuti scordati e talvolta dalle corde mancanti. Ma era l’odore a provocare la fuga dei clienti: un dolce e sgradevole connubio di pesce marcio, umidità, muffa, spezie, sudore, marciume dei legni e cibi caldi che non era propriamente un toccasana per l’appetito e per lo stomaco.

Alcune sale della ultracentenaria locanda erano state adibite al gioco d’azzardo: giovani ancora imberbi e uomini con le rughe dovute alla salsedine e al calore puntavano tutti i loro guadagni. Per ogni evenienza, le armi venivano confiscate al loro ingresso nel locale.

Era verso di loro che la giovane cameriera stava andando, tra le mani una ciotola di fagioli e una pinta di malto scuro di qualità quasi decente: l’avventore era ben più ricco degli altri. Da tutti chiamato Lion, non era più una matricola presso quella locanda da diversi anni. I suoi occhi profondi avevano già visto passare ventiquattro inverni e da almeno sei anni era lui a sovvenzionare misteriosamente la locanda garantendone l’esistenza. Le sue stelle blu luccicavano ai lumi delle candele, mentre piccole gocce di sudore gli imperlavano la fronte: il caldo era soffocante. La camicetta bianca non era stata allacciata bene per cui si intravedevano alcuni particolari di un tatuaggio a forma di drago.

- Ecco il vostro pranzo, signore.- disse la ragazza appoggiando sul tavolo quello che il tipo aveva ordinato.

- Grazie Brianna.- gli rispose quello sorridendole- ma chiamami Lion: ormai ci conosciamo da molto tempo!Lei annuì accennando un debole sorriso e scomparve tra la folla in direzione del bancone dove la padrona la stava aspettando per la successiva ordinazione.

Lion, soprannome di Leon Silver, era nato per strada. Maggiore di tre figli, si era ritrovato a dover mandare avanti una famiglia quando il padre aveva deciso di abbandonarli e cacciarli di casa. Capelli rossi, orecchie e canini a punta erano i suoi segni di riconoscimento come “ricercato” e con un disegno verosimile il suo volto era incollato con la scritta “wanted” in tutte le piazze di tutte le città e paesini del regno di Fiore. Dovette imparare a rubare per poter sfamare le due bambine e più volte ricevette dure bastonate e passò notti in cella, una volta rischiò l’amputazione della mano. Da subito un ragazzo problematico, capì che vestirsi bene e atteggiarsi lo avrebbero aiutato molto con le truffe, aveva quindi sviluppato una maestria nell’oratoria che in pochi riuscivano ad battere e ora, poteva anche far comprare a prezzi esorbitanti carichi di merci inesistenti e palazzi antichi ancora in costruzione. Così aveva racimolato un bel gruzzoletto.

Era finito nella lista nera dopo un furto: una pergamena di informazioni strategiche alla lotta per i ribelli. E lui era un ribelle, forse un po’ per noia e un po’ per avversione, sicuramente per non abbandonare le sue testarde sorelle.

In quel giorno illuminato da un sole tiepido si trovava al “Cencio”. Spendeva lì alcuni dei soldi dell’ultimo furto: un grosso flaccido mercante aveva lasciato incustodita una borsa piena di jewels e quella, sentendosi sola soletta, era corsa tra le braccia del rosso come se fosse l’unica oasi in mezzo a un deserto, la sua ancora nel mare.

- Hai portato quello che ti ho chiesto?- domandò a una giovane ragazza che si era appena accomodata all’interno della sala da gioco, lei annuì soddisfatta.

- Ragazzi, a me i soldi. Pokèr di re.- sibilò uno dall’altro lato del tavolo. Imprecazioni sfuggirono dalle bocche dei convitati. Lion sorrise.

- Pokèr d’assi.- il rosso scoperse le carte mostrandone i simboli.- sarà per un’altra volta Ed.

- Dannazione Lion! Questa me la pagherai cara...- sibilò sottovoce l’assassino andandosene pieno di rancore.

Uscì dalla sala da gioco e si avvicinò al bancone della locanda dove la proprietaria stava finendo di riempire l’ennesima zuppa di fagioli del giorno. Con mani callose e dita rovinate dal sapone, aveva chiuso nel pugno un rozzo mestolo di rame con il quale stava versando la minestra nella ciotola di terracotta. I capelli castano chiaro le ricadevano scomposti sul volto e sulle spalle nonostante fossero raccolti in un tutto fatto alla bell’e meglio, mentre il viso arrossato dallo sforzo di essere veloce e fare più cose insieme rendeva le piccole lentiggini scure ancora più evidenti conferendole l’aria di una dolce massaia al lavoro.

- Dimmi Edward.- lo anticipò lei senza interrompere il suo lavoro mentre quello provava a avvicinarsi non visto.

- La tua abilità è proprio una gran rottura di palle, te l’hanno mai detto?- le sorrise quello.

- Sì, ma non ci faccio mai caso. Allora, sei qui per disturbare o prendi qualcosa?- interruppe il suo lavoro per guardarlo dritto negli occhi- Ti avverto, non sono in vena per consolarti dalla tua ennesima perdita.

Edward aveva sempre avuto degli occhi marroni, il sinistro era leggermente striato di un verde spento che conferiva allo sguardo sufficienza, ma anche quel tanto di mistero che serviva a far capitolare le donne, anche le più difficili. Non aveva interesse nel genere femminile e considerava le lotte tra le lenzuola come una distrazione necessaria per il corpo, nulla di più. Era solo desiderio, passione, ma mai sentimento reale e vivificante: solo il combattimento rendeva realmente vivi.

- Pff, pervertita!- ridacchiò quello raccogliendo per la quarta volta in quella serata i lunghi capelli castani con un laccio malmesso per l’uso- No, stasera voglio solo il conforto dell’alcool. Dammi una pinta, e che sia bella piena e senza schiuma.

Lei sorrise e gli pose davanti un boccale di birra doppio malto, e tornò alle sue faccende interrotta soltanto per riempire nuovamente il bicchiere quando qualcuno la chiamava.

- Brianna!- decise di richiamare l’attenzione della sua unica dipendente.

La ragazza dai capelli fulvi stava prendendo l’ordinazione da un paio di contrabbandieri di incenso appena entrati nel locale. Si girò di scatto e, capendo il cenno della sua padrona, andò nella sala da gioco per capire se qualcuno necessitava di altro da bere o da mangiare.
L’animazione al tavolo da gioco di Leon si stava facendo molto più accesa, erano aumentati: ora erano una decina e stavano ancora aspettando una persona. Tutte facce fidate, alcune fuorilegge, se le loro attività illecite erano state scoperte, altri ancora legali, ma sul bilico di un baratro irreversibile: se fossero caduti, avrebbero perso famiglie, case e attività. Fu al rosso che Brianna si avvicinò.

- Dovete andarvene: state attirando l’attenzione di tutti.

E in effetti, così era. Il loro chiasso  si sentiva sin dall’esterno ed era necessario che loro si nascondessero nel caso in cui sopraggiungesse una delle non insolite ronde dei soldati reali. Qualcuno, riconoscendoli, avrebbe potuto denunciarli alle autorità ricevendo l’immunità promessa, e non era il caso che si venisse a sapere che era Alie Padilla, la proprietaria della locanda, a nasconderli.


- Hai ragione, ci fai strada tu verso l’ex molo?

Il molo dimenticato da tutti, lo stesso che era stato insieme la causa del successo e del disastro del “On the dragon’s wings” era stato chiuso e murato, da allora era stato usato come magazzino e come luogo di riunione per la “Mandragora” sin dalla sua nascita, ottant’anni prima. Nessuno si ricorda il come o il quando iniziò a riunirsi lì, ma la tradizione e il bisogno avevano convinto il gruppo che quello era il posto ideale per non essere scoperti, nascondersi e incontrarsi per pianificare la rivoluzione.

A un cenno del rosso tutti si alzarono e si mescolarono agli altri commensali e avventori, la ragazzina fece loro strada fino alla botola e li aiutò a scendere dalla scala a pioli ormai marcita come tutto il resto della locanda. Anche Edward, quando li vide li seguì, sebbene ancora irato per la sconfitta di prima. Scese per prima una ragazza giovane, per capelli e lineamenti simile a Leon, dalla corporatura bassa e dalla carnagione cerulea, poi fu la volta di due ragazzi che continuavano a confabulare su quanto “figa” fosse una loro compagna, una bambinetta per aspetto fisico scese con un balzo senza utilizzare la scala e chiuse la coda un ragazzo quasi albino per colori, ma con una stramba luce negli occhi.
Leon fu l’ultimo a scendere, ma prima che la botola si richiudesse sopra di lui con un rumore sincopato Brianna lo trattenne per un braccio, i suoi occhioni blu nutrivano una fiamma, un leggero barlume che li faceva scintillare alla luce delle lanterne, era la speranza.

- Lion… hai notizie di mio fratello?- gli chiese. Si era appoggiata al pavimento, pronta ad alzarsi, ma abbastanza vicina da sentire con chiarezza quello che il giovane poteva dirle. Era alta, in piedi lo sovrastava addirittura, tuttavia nella sua timidezza e nella sua innocenza adolescenziale manteneva quel tanto che la rendeva più infantile. Il vestito le ricadeva scomposto sulle gambe, era scollato e corto, di un grigio indefinito per la sporcizia e l’uso, dei calzini le coprivano i piedi.
- Mi dispiace, non ho ancora saputo nulla.

Cinque anni prima la piccola Brianna aveva avuto un fratello, Gilbert Regnard era il suo nome.
Vivevano in un piccolo paesino sperduto in una vasta pianura erbosa, Rosemary, quando un gruppo di soldati senza un motivo o uno scopo preciso devastarono e massacrarono la popolazione. Ferio, così egli amava farsi chiamare sin da bambino, aveva già visto la bellezza di sedici primavere e accumulato qualche sputo di esperienza bellica, sufficiente da fargli capire che la sua gente non avrebbe potuto contrastare quegli armati nonostante la superiorità numerica.

Dopo aver detto addio ai cadaveri dei genitori riversi nella loro stessa bile, tra i primi ad essere trucidati, si era nascosto con la sorellina in lacrime all’interno di un covone. L’aveva costretta a mordersi le rabbia per non gridare e piangere, mentre i suoi piccoli pugni urtavano contro il suo petto ansante e terrorizzato. Erano rimasti isolati nella paglia per tre giorni; anche se i cigolii delle armature avevano smesso di rumoreggiare dopo un giorno, la fuliggine sollevata dai cadaveri bruciati e il nauseante miasma degli organi in decomposizione sopravviveva imperterrito, solo allora era andato a cercare e aveva trovato dell’acqua e qualcosa da mangiare non bruciato per lei e la bambina. L’aveva convinta che i loro genitori erano stati catturati e che stavano bene e l’aveva portata nella città più vicina.

Dopo qualche giorno in cui erano sopravvissuti con piccoli furti, più che altro qualche mela e brioche, il ragazzo scomparve. Per caso Brianna udì di come fossero stati sterminati brutalmente i prigionieri del suo paese e rinunciò, dopo giorni di pianti, a combattere contro la verità ormai sulla bocca di tutti e a rivedere vivo qualcuno dei suoi familiari; si mise alla ricerca del fratello, ma quando si rese conto di non riuscire a trovarlo e che non sarebbe tornato, lo cercò per tutte le strade e i vicoli, per le fosse e le prigioni, per il bosco vicino e le strade del mercato, allora errò attraverso le città come mendicante e come ladra, finché non rubò al Cencio e la proprietaria, dopo averla scovata, non la costrinse a lavorare per lei per risarcirla.

Sebbene avesse tentato di scappare e i primi tempi fossero stati duri, si era ben presto trovata bene: era povera, possedeva poche cose e la sua vita non era certo priva di pericoli, ma aveva trovato il modo di costringere altre persone a continuare la sua ricerca per lei, per cui poteva continuare a vivere una vita meno turbolenta e più onesta, perseguendo quegli stessi principi che le erano stati insegnati sin dalla più tenera età. Eppure alle volte, la paura di essere rimasta sola al mondo, il terrore di non riuscire più a trovare quella fraterna figura che andava a dipingersi anno dopo anno, sempre di più, con un colore quasi paterno, non la faceva dormire la notte.

Gilbert era la sua condanna e la sua salvezza insieme.

Smorzò il suono della botola che si chiudeva, si asciugò una lacrima raminga che le era scivolata per sbaglio sulla guancia e tornò a servire i suoi clienti con un sorriso e un’affabilità che aveva imparato a padroneggiare con il lungo esercizio.

L’ex molo era piccolo e infestato dai ratti, a nulla erano servite le cure per disinfestarlo: quello era il luogo ideale per la loro proliferazione per umidità, calore e cibo. Uno di loro aveva deciso di addormentarsi su una botte, era un batuffolo di pelo grigio dalle orecchie minute e la corta codina. Sul suo musetto, due lunghi baffetti venivano spostati dal suo respiro; stava riposando in una posizione fetale, con le zampine raccolte verso il minuscolo petto mentre questo si alzava e abbassava respirando. Alcuni, alla sua vista avrebbero detto Oh, che schifo! altri E’ proprio tenero, che angioletto!, lei invece disse Potessi riposare anch’io beata come lui. Così dicendo attirò l’attenzione degli altri e il loro riso.

Ognuno dei ribelli si sedette sulle botti, solo Leon rimase in piedi, la sorella stava punzecchiando teneramente il topolino che aveva catturato e che teneva nel grembo. L’albino sbadigliava grossolanamente e Edward aveva già perso tutta la pazienza che aveva in corpo quando il capo del gruppo, Leon, iniziò a parlare.

- Abbiamo riso e scherzato fino a questo momento, ma ora è il momento di parlare di cose serie. Il principe Gilbert ha appena svelato l’unico modo per uccidere il re e i suoi due figli rimastigli: io c’ero alla sua esecuzione,ho sentito tutto e memorizzato ogni minimo particolare di quel momento. Il re non può essere avvelenato? Significa che lo staneremo e gli taglieremo la testa. Non è immortale. Resiste alle malattie, ha resistito al veleno di Little Kirk, pace all’anima sua- si segnò per rispetto- ma non resisterà al nostro acciaio. Ma noi, la Mandragora, non possiamo operare da soli: PureWhite, il nostro informatore,- indicò l’albino- mi sta tenendo in contatto con gli altri gruppi e nessuno di essi ha ancora progettato di attaccare o di fare qualcosa. Intanto alla NeoTorre del Paradiso, si sta costruendo l’arma più potente di tutte che renderà il tiranno in grado di distruggerci completamente. Secondo recenti rapporti, mancherebbe solo un anno alla sua ultimazione. Noi siamo pochi, molto giovani perché i più anziani sono stati tutti massacrati l’anno scorso quando noi eravamo solo neofiti, non abbiamo potuto fare niente quando Almach ci è piombato addosso all’ultimo raduno. Io, dico che dobbiamo agire. Molti di noi non hanno niente se non le proprie vite, io metto in gioco la mia: dico basta all’oppressione. Chi è con me?

- Combatteremo?- chiese un eccitato all’idea- Io ci sto. Fatemi ammazzare quello stronzo di Almach, non chiedo altro.

- Fino all’ultimo palpito del mio cuore.- la ragazza appoggiò il topolino in un angolo e si alzò per appoggiare la propria mano su quella del fratello e su quella dell’assassino. Tutti gli altri seguirono il loro esempio ad eccezione dell’albino che non faceva parte del gruppo ma era là solo in veste di informatore. Nome in codice? PureWhite.

- Siamo tutti d’accordo allora. Quando è arrivata, Eryn mi ha portato un oggetto, l’avevo mandato in missione da sola per recuperarlo. Si tratta dell’unica gemma in grado di aiutarci, non è ossidiana, né una lama forgiata tra le fiamme di un drago, anche se ammetto potrebbero esserci state utili, non è un topazio, né un’ametista o un rubino. È l’Opale della notte. Se generalmente gli opali sono in grado di conferire abilità profetiche, questo è più potente: non solo i vaticini sono più esatti e meno confusi, ma possiede l’abilità unica di trovare l’elemento o la persona che si sta cercando.- tutti i presenti sgranarono gli occhi- Sì, signori miei. Noi abbiamo la chiave per trovare l’ultima ninfa.

 
***

 
Dopo che era svenuto la giovane madre aveva richiamato i suoi due figli e li aveva pregati di aiutarla. Il giovane aveva un viso aitante e un corpo muscoloso, la pelle liscia e cerulea, gli occhi dalle corte ciglia sempre chiusi e le labbra sottili aperte: un leggero russare era udibile. L’avevano fatto sdraiare su un letto improvvisato: un tavolo come materasso e la coperta di lana del suo corredo a riscaldarlo. Era svenuto (o dormiva?) da almeno un paio di giorni. Non era ferito, non aveva cicatrici, i capelli rosati erano leggermente mossi e gli arrivavano a metà del collo coprendo le orecchie sporgenti.

La donna aveva chiamato un dottore, Polyushka era il suo nome ed era un’anziana maga affiliata alla gilda di Fairy Tail; la sua piccola assistente, una dragonslayer, Wendy era la sua sostituta sui campi di battaglia.
Arrivò nel cuore della notte borbottando con tutti i suoi strumenti nella borsa e esaminò il ragazzo, gli diede da bere un liquido verdognolo e giudicando il caso una perdita di tempo, dato che il paziente stava benissimo, se ne andò nel giro di cinque minuti.

Poco dopo il rosato aprì gli occhi, due iridi nerastre si intravedevano assonnate dietro le palpebre appena socchiuse. Quando la sua vista si stabilizzò e ebbe messo a fuoco si mise a sedere. Erano le due-tre della notte. Si guardò  intorno cercando di capire dove si trovasse, ma non riconosceva nessuno di quei mobili e di quegli ambienti su cui il suo sguardo si posava. Nemmeno il cielo oltre la finestra gli risultava familiare.

Poi notò lei, Lucia. Stava riposando al suo capezzale, dormendo con sonno leggero disturbato da incubi. Il suo volto era tirato per l’ansia e il nervoso, i suoi capelli biondi erano raccolti in una morbida crocchia da cui uscivano ribellandosi dotati di vita propria. Contemplò i suoi lineamenti ricordando quanto avesse voluto toccarli quando la osservava per i boschi. Gli era sempre parsa una fata o una ninfa della schiera di Diana, la cacciatrice. E ora poteva guardarla, osservarla, scoprire tutti quei momenti di vita quotidiana che condivideva con i suoi due bambini, Ur e Jude, a cui mai aveva potuto aver accesso. Non avrebbe più avuto bisogno di rubare attimi, ora aveva ventiquattro ore.

Il ragazzo appoggiò la testa e richiuse gli occhi. Una sottile voce di bambina che invocava la madre, svegliò la donna nel sonno e corse ad abbracciare la figlia per l’ennesimo brutto sogno che aveva fatto; non si accorse che due iridi nere avevano seguito il suo cammino.

 
***
 
Le strade malfamate erano state a lungo la sua casa, conosceva ogni loro angolo, pertugio e nascondiglio. Aveva passato notti nei solai, si era riparata dalla neve in umide cantine, aveva nascosto refurtiva sotto i ponti dei canali, tra le pietre degli edifici. Sapeva le scorciatoie e le ronde delle guardie, ma non aveva previsto un pedinamento tanto abile. Né che il suo inseguitore avesse un leopardo nebuloso come mascotte.

Cosa fare? Dove nascondersi? Come scappare? Il felino era apparso più volte, sottraendola ai suoi rifugi, togliendole vie di fuga dagli occhi dell’uomo. Era di una taglia in più rispetto al normale ed era molto agile, il mantello fulvo coperto da ellissi irregolari dai margini scuri tanto maestose quanto misteriose Lui sapeva chi era, sapeva quello che aveva fatto, ma come? Stava andando nel panico. Imboccò il primo vicolo alla sua destra.

Era corto e la fine era avvolta dalla penombra. Fili tra balconi avevano appesi vestiti rammendati ancora gocciolanti, mentre le case di legno avevano delle primordiali riparazioni per prevenire l’umidità. Condizioni igieniche bassissime caratterizzavano la strada e sicuramente anche le case deserte: quel giorno erano tutti al mercato. La strada, di ciottoli e selciato, era coperta da cianfrusaglie sporche e inutilizzabili per l’usura gettate lì alla rinfusa, come se la strafa fosse un sudicio scantinato all’aperto.
L’uomo guardò il leopardo e quello si dileguò tra le persone non visto: anche animali esotici come lui erano frequenti nella neocapitale. Si infilò nella stessa stradina correndo; il cappuccio che gli copriva la testa lo faceva sembrare ancora più pericoloso, il mantello era fermato da un bottone d’avorio.

La ragazza provò a nascondersi sotto un cumulo di panni lasciati per strada, ma un colpo di ascia la costrinse a uscire allo scoperto. Il suo inseguitore aveva liberato dai lacci che la trattenevano una delle due asce che portava sulla schiena, e l’impugnava con fermezza con la mano destra.

- Non voglio ucciderti Syria Silver, devi solo parlare con una persona.- le disse quello.

- Io non voglio parlare con nessuno! Hai capito? Lasciami andare!- gli gridò contro, si guardò alle spalle, trovò un muro: doveva essere un vicolo chiuso; imprecò sottovoce.- E chi vorrebbe parlarmi? Il tuo padrone, cane?- fece un sorriso sghembo.

- Io? Un cane? Ma guardati bambina! Hai ancora la puzza di latte addosso e ti metti a dire questi paroloni.- la schernì e fece un movimento in avanti con il braccio sinistro; un movimento rapido, un fruscio e una ciocca dei corti capelli fulvi della giovane cadde al pavimento- Dì un’altra parola e il prossimo arriva dritto nel tuo occhio. E fidati, non sbaglio mai mira.

- Sarebbe un peccato, non trovi? Un occhietto delizioso come il mio non si trova tutti i giorni. O mi sbaglio, C-A-N-E?- sillabò l’ultima parola e lui le saltò addosso.

Lei evitò l’impeto saltando sul balcone più vicino e urlò la frase Bogen Bounder. Tra le sue mani si materializzò un arco lungo luminoso, con la freccia già incoccata, lei lo tese caricandolo di potenza e scoccò. Velocissimo il dardo tagliò tre metri di un filo apparso dal nulla per proteggere l'uomo prima di essere fermato a pochi centimetri dalla sua per poi sparire. La ragazza ricadde al suolo e fu subito raggiunta da altri fili che la immobilizzarono alla colonna più vicina, l’arco lasciato per la sorpresa, scomparve in un bagliore di luci. L’inseguitore iniziò a ridere.

- Brava Jimen, hai fatto proprio un bel lavoro.- accarezzò il felino che era riapparso dall’inizio del vicolo insieme a un drago di fili bianchi e a un altro uomo che gli sedeva sulla testa, l’inseguitore si rivolse a lui- Principe Taichi, vi presento la donna che cercavate.- si alzò in piedi.

. Eccellente come al solito, oggi pomeriggio, nelle mie stanze, avrete la ricompensa in oro che meritate, andate quindi.- gli occhi dell’uomo brillarono per l’avidità mentre lasciava il principe da solo con la ribelle.

Con un cenno del capo, i fili si sciolsero e il drago scomparve, Syria manteneva solo i polsi legati.

- Ci siamo già presentati al ballo, dico male Syria Silter? O forse dovrei dire Silver?- la guardò fermo, lo sguardo indecifrabile- Da ribelle andavi a un riunione del tuo gruppo e sicuramente non pensavi di incontrarmi in mezzo alla strada- lei non gli rispondeva, il volto indurito, lo sguardo adirato e i polsi che iniziavano a sanguinare per la tensione dei fili.- Stai tranquilla, non stai per morire né per essere imprigionata, ma questo dipende da te, semplicemente volevo parlarti.

- Una persona che vuole parlare non tiene il proprio interlocutore legato, non lo sai?

- Sì, lo so. E mi dispiace, ma in caso nulla mi assicura che tu non tenteresti di scappare o ferirmi- fece una pausa- Vedi? Il tuo silenzio è eloquente. Riprendendo il discorso, ti ricordi la festa in cui ci conoscemmo? Quella a cui con ogni probabilità tu avrai mandato in fin di vita quel povero ragazzo la scorsa settimana?- lei annuì a disagio- Sai anche il motivo per cui quella festa era stata organizzata?- un altro assenso- Bene, devi sapere che quel giorno io non volevo scegliere la mia consorte perché  ero ancora innamorato di un’altra, vuoi sapere qual era l’unico problema?- i suoi occhi si illuminarono di una luce acquea, si stava commuovendo, poi gridò- Lei è morta! I tuoi amici ribelli me l’hanno ammazzata cinque anni fa in un agguato mentre cercava di scappare. Io ero con lei – iniziò a piangere, vinto dal sentimento e dal rimpianto- e non potei fare niente per salvarla. C’era un domatore di fuoco tra di voi, e io… io pensai solo a scappare. Morì davanti ai mei occhi- cadde sulle ginocchia- Non avrei potuto fare niente, mi avrebbero ucciso. – una risata triste uscì dalle sue labbra, si passò una mano tra i lisci capelli blu- Sono un principe dopotutto, e devo avere un erede. C’è chi vorrebbe essere nella mia posizione, io no…-sussurrò alla fine.

- Mi dispiace- era arrossita.

- Perché il tuo volto sta diventando rosso?- le chiese fissandola intensamente con i suoi occhi color pce.

- Mi trovo sempre a disagio nel guardare qualcuno che piange.- gli rispose cercando di guardare altrove.

- Ho smesso, tranquilla-si avvicinò e le sollevò il volto con l’indice della mano destra- Guardami, le lacrime si sono fermate: è stato solo uno sfogo.- lei alzò lo sguardo che vagava sul cumulo di rifiuti cercando una via di fuga da quel principe tanto triste e tanto misterioso, aveva un sorriso leggermente accennato e solo gli occhi leggermente arrossati tradivano le lacrime appena versate- Quel giorno di festa ti scelsi: mi sembravi una fanciulla piacevole con cui parlare e tutte le altre erano molto petulanti e noiose anche se più belle. Diciamo che mi sei sembrata la meno peggio. Ora, vieni con me. Le tue alternative sono poche: o seguirmi o morire. Se scegli di venire, nessuno saprà che sei una ribelle e potrai vivere tranquillamente a palazzo.-fece una pausa aspettando una risposta che non era ancora stara detta- Tic toc tic toc, l’orologio scorre, cosa sceglierai?- la ragazza chiuse gli occhi conscia di star per firmare un patto con il diavolo.

- Vengo.- sussurrò.

 







ANGOLINO DELL'AUTRICE
Salve a tutti. Sono tornata in tempo con un capitolo scritto a tempo di record, il motivo? Era pronto, mi piaceva, dovevo solo caricarlo... poi il computer decide bene di impazzire e nel trambusto delle riparazioni perdo l'intera cartella dedicata a questa mia storia. Ero anche riuscita a completarlo qualche giorno prima di Natale per cui ve l'avrei proposto come il mio piccolo regalo, ma a quanto pare il nostro buon vecchio Santa Claus aveva deciso che non avrei dovuto prendere il suo posto rubandogli la scena. Per cui... eccolo qua insieme agli auguri tardivi per Natale e in tempo per un felice anno nuovo!
Ringrazio coloro che hanno contribuito ad aiutarmi a completare il dossier con tutti i dati degli OC e, sperando che il capitolo vi sia piaciuto, invito tutti a lasciarmi un parere e magari, qualcuno di voi riuscirà a impedirmi di uccidere qualcuno e a modificare di conseguenza l'esito di questa storia, perchè le prime pedine si stanno muovendo e, come dice il motto della casa Stark (Le cronache del ghiaccio e del fuoco), che calza a pennello con le temperature che stanno fuori, L'inverno sta arrivando.


AUGURI A TUTTI RAGAZZI!


La vostra Liber




 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo quattro. Battaglia campale ***




THE LAST NYMPH TALE



Il fumo esalato dalla brace aveva annerito i mattoni in terracotta di quella che era, secondo tutti gli inquilini, la casa più calda dell’intera abitazione. Non era termicamente isolata e questo rendeva confortevolmente caldi gli ambienti vicini e insopportabile la fucina; in bella vista, poggiati su dei ripiani pensili, alcuni attrezzi da lavoro come falci e teste di vanghe ancora brillanti per la recente fattura, sfoggiavano il proprio ferro, bronzo e acciaio ai loro eventuali compratori.
La stanza non era in legno, né aveva il soffitto in paglia, non sembrava più grande delle altre stanze ma la percezione ottica veniva deviata dalla presenza dell’enorme brace sulla quale enormi ceppi ardenti si carbonizzavano lentamente sbriciolandosi consumati dalle fiamme e della gigantesca incudine tanto usurata quanto usata; a lato, sempre pronto per ogni evenienza, vi era un secchio colmo di acqua fredda che una ragazza, sotto le costanti minacce del padre, era tenuta a riempire con l’acqua del vicino torrente. In quel momento era vuoto, nonostante i continui rimproveri dell’uomo.

Il battere del ferro sul ferro risuonava ancora potente anche a diverse abitazioni di distanza, l’una sufficientemente distanziata dall’altra per evitare che un incendio casuale distruggesse l’intero villaggio.
Era mattina inoltrata, nel paesino l’alone tangibile di pace e tranquillità era tangibile e addirittura respirabile. Gaiezza, serenità e spensieratezza accompagnavano le operose attività degli abitanti del villaggio di Slave Town. Chi poteva, lavorava all’esterno, rincuorandosi con quell’ultimo tiepido calore che avrebbe riscaldato le membra affaticate e doloranti peri reumatismi; per questo motivo, un paio di anziane signore ricamava a punto croce scambiandosi qualche pettegolezzo su un paio di seggiole poste a lato, lungo la strada.
Tutto il paese era indaffarato: le più giovani imparavano l’arte del tessere come apprendiste, o badavano ai fratelli più piccoli, o rassettavano le case; alcune madri stendevano i bucati che tanto avevano fatto soffrire le loro povere mani su dei fili legati tra gli alberi insieme le lenzuola già stese, candide e immacolate per l’uso della cenere e lo strofinio nell’acqua del fiume; gli uomini del villaggio erano impegnati nelle loro attività, alcuni insegnavano a mungere le mucche ai figli più grandi, altri terminavano la semina delle messi, altri spaccavano la legna necessaria a sopravvivere all’imminente inverno.

I bambini, al contrario, erano esonerati dalla preparazione all’inverno; l’ingenuità  e la loro acerba età permetteva loro che di svagarsi nelle fredde acque del fiume, di rotolare nel prato che già aveva risentito delle prime piogge autunnali o di cacciare le lucertole quando uscivano dalle loro tante, di arrampicarsi sugli alberi o di nascondersi nei granai per fare marachelle che spesso ostacolavano il lavoro degli adulti, ma che, facendo ridere, miglioravano la giornata a tutti.

Ed era ormai da qualche ora che un gruppo di monelli non si faceva vedere, né che i loro schiamazzi interrompessero le attività di chi si affrettava a radunare il necessario per superare l’inverno.

La proprietaria della rimessa più grande e peggio mantenuta del villaggio stava lavorando con i suoi tessuti per regalare alla figlia maggiore, ormai madre di due splendidi bambini, un vestito nuovo. Il locale che le apparteneva aveva delle dimensioni immense e spesso e volentieri i più piccoli gattonavano al suo interno finendo per perdersi tra casse e pezzi di legno lasciati lì da almeno un lustro, il tempo necessario affinché la memoria del defunto marito sfumasse tra i ricordi dall’anziana vedova indaffarata.

Un paio di occhietti da furetto sbirciarono che nessuno arrivasse e fece un cenno ai suoi amici.

Silenziosamente una masnada di bambini dalle scarpe rotte e dai vestiti rammendati scivolò fuori dalla rimessa della vedova, camminavano lentamente verso il torrente lì vicino. Si erano segnati con la cenere le guance, alcuni avevano le mani completamente annerite, piccole foglie erano state inserite tra i capelli per non essere visti il più a lungo possibile, mimetizzati; le loro sottile labbra erano contrite, gli occhi accigliati… l’altra vedetta strinse gli occhi per mettere a fuoco il loro bersaglio. Ed eccole lì, piccoli puntini lontani sulle sponde del lago, macchioline celestine tra gli ancora verdeggianti cespugli.

Il piano era stato studiato nei minimi dettagli, il campo accuratamente scelto: sì, ce l’avrebbero fatta, era quello il giorno propizio! L’esaltazione luccicava negli occhi dei bambini ed ecco il tanto atteso segnale: la piccola vedetta fischiò il verso della tortora e tutta la truppa iniziò ad avanzare. Il capo, un bambino più grassottello con una fascia rossa attorno ai capelli marroni, fece cenno a tre ragazzini più mingherlini di restare indietro come retrovia, altri tre andarono verso destra, altri tre a sinistra. L’obiettivo? Circondare il bersaglio. Il capo rimase con due dei suoi più leali e fidati compagni, sorrise loro incoraggiandoli e avanzarono anche loro.

Chi l’avrebbe mai detto che l’eterna guerra intergenerazionale potesse essere così divertente?

Il campo offriva alberi sempreverdi dai rami bassi e cespugli in abbondante quantità; se si aveva l’occhio allenato era possibile nutrirsi con piccoli funghi porcini ed evitare di cadere nelle numerose insidie che le chiazze erbose nascondevano: infami pozzanghere potevano impedire la buona riuscita della missione, trappole per scoiattoli e conigli aspettavano gli ignari piedi, rametti invidiosi della libertà di movimento degli aggressori potevano scricchiolare e serpenti iracondi potevano rovinare la giornata, e insieme una vita. Un muretto a secco circondava un frutteto di una delle famiglie più importanti, dalle finestre della casa, un paio di marmocchi, cui gocciolava il naso per un raffreddore impudente, osservavano gli aggressori prepararsi all’agguato e i tre bambini avanzare rossi in viso per il caldo e la corsa.

Le prede erano indaffarate, nei loro vestiti dai colori più tenui, nel lavare, strofinare e ripulire da ogni traccia di umidità, grasso e sporco gli abiti della scorsa stagione: l’autunno era arrivato e quella sarebbe stata una delle poche giornate di sole rimaste prima delle nevi. Con rigido pudore tenevano i capelli raccolti nelle proprie cuffie di cotone e le maniche ripiegate su se stesse così da non bagnarsi; su dei pezzi di legno striati, insaponavano accuratamente i vestiti per poi risciacquarli. Avevano le mani piagate e le guance arrossate per la fatica.

Canticchiavano tra loro allegri motivetti e raccontavano le loro ultime esperienze e gli ultimi pettegolezzi, seguendo quella consueta abitudine delle popolane e delle comari. Le canzoni predilette erano romantiche, piccole poesie elegiache imparate dai trovatori che si esibivano nella piazza di tanto in tanto; ma non mancavano piccole burle irriverenti per le padrone e risate innocenti e ingenue. Un paio di fanciulle si stava riposando all’ombra di un mandorlo intrecciando delle ghirlande di fiori che poi avrebbero indossato quando, dopo aver terminato il lavoro, si sarebbero rilassate e sarebbe venuto il tempo per i giochi fanciulleschi che il loro stato di giovani nubili permetteva loro.

I bambini furono in posizione e uno squillo di tromba avvertì le malcapitate, del pericolo, e i compagni di squadra, dell’inizio delle operazioni.

Da destra, il primo gruppo si lanciò sulle giovani spingendole in acqua e tirando loro “bombe” di fango. Le ragazze, dal canto loro, provavano a mettere in salvo il frutto del loro lavoro dai giochi indesiderati dei bambini.

Tic toc, tic toc.

Anche da sinistra, il secondo gruppo iniziò l’offensiva imbrattando ancora di più i vestiti delle giovani che scappavano come gru in volo dopo un rumore improvviso.

Tic toc, tic toc.

Le ragazze erano ormai arrivate alla retroguardia con le ceste tra le braccia, lasciando indietro le ghirlande e permettendo ai capelli di uscire disordinati dalle cuffie… quale scempio di tanto prezioso e stancante lavoro! I vestiti imbrattati erano il meno peggio. I bambini uscirono da dietro gli arbusti e iniziarono a colpirle anche da davanti.

Tic toc, tic toc.

Il capo finì di cronometrare e scese dall’albero in cui si era nascosto con gli altri. Raggiunse il luogo in cui poco prima le fanciulle si stavano rilassando, quindi si guardò intorno. I suoi compagni avevano quasi ultimato le loro munizioni e sarebbero ritornati di lì a poco dopo averle sprecate sui vestiti e sui capelli delle fuggitivi. Si sedette, lì doveva aveva visto essersi seduta la sorella e fissò il cielo, per quanto ancora sarebbe durato il bel tempo?
Gli altri bambini arrivarono di corsa ridendo.

- Ragazzi miei!- incominciò quindi il bruno- è stato difficile e abbiamo subito delle perdite, - tutti si ricordarono del rosso messo in punizione dalla madre prima ancora dell’attuazione del piano- ma alla fine ce l’abbiamo fatta: il torrente è nostro! E nessuno potrà mai togliercelo!- detto così sciolse la fascia che portava in capo e la legò a un ramo dell’albero in un gesto magniloquente e esemplare.

- E allora godiamocelo!- un coro di voci annuì in risposta e tutti iniziarono a gridare il nome del loro capo orgogliosi come non mai- Gavriel! Gavriel! Gavriel!La masnada vincitrice si gettò nelle acque cristalline del fiume tra gli spruzzi delle increspature e incuranti delle vicine rapide. Le acque erano fresche e corroboranti, avevano un effetto frizzante che faceva aumentare la voglia dei bambini di schizzarsi e giocare tra gli spruzzi.

Il fondale era basso e visibile: ciottoli levigati costituivano il letto e nel punto più profondo, l’acqua arrivava loro alla vita. Con le maglie infradiciate e le guancie arrossate, si schizzavano a vicenda, costruivano torri e si lanciavano in acqua, qualcuno nuotava in piccole gare organizzate alla bell’e meglio. Il divertimento era generale e anche qualche ranocchia si risolse nell’unirsi al coro di voci allegre e spensierate con i suoi gracidii stonati.

Da lontano le giovani donne scacciate, perdenti e sporche li guadavano in cagnesco aggrottando gli occhi e confabulando idee di rivalsa. Un’unica parola era dipinta sulle loro bocche ancora acerbe, un’unica idea era contemplata dalle loro menti: vendetta! Non sarebbe stata neanche una cosa anomala o stonata in merito alla situazione, ma probabilmente non era la cosa più giusta a cui pensare.

- Shail! Fai sgridare tuo fratello: -proruppe una ragazza dalle numerose lentiggini e dai capelli rossi- non è possibile che si ficchi sempre in mezzo ai pasticci e combini tutti questi guai. Guarda la settimana scorsa per esempio!- indicò la rimessa dell’anziana vedova in parte ricolorata dalle palle di fango rinsecchito da giorni che i bambini si erano divertiti a tirare.

- Sono ancora dei bambini, cretina! Anche tu alla loro età facevi solo danni, ma non mi sembra te lo ricordi.- tutte si misero a ridere ricordando i propri errori.

- Bambini un cazz…- la fulva venne interrotta da un rumore improvviso.Da dietro un gruppo di abitazioni un gruppo di cavalieri a cavallo irruppero tra le donne radunate.

Non erano tanti, indossavano tutti la stessa armatura tranne uno.

Chi era quella figura misteriosa? Che ci faceva tra quei soldati del re?

Gli altri erano chiaramente riconoscibili per il blasone impresso a fuoco sulla piastra frontale della loro armatura e sull’elmo: un tridente inciso a fuoco vivo. Un simbolo di forza, un simbolo di paura. Le celate degli elmi nascondevano i  loro occhi alle osservatrici incaute, mentre non curanti sferzavano i fondoschiena dei loro palafreni o, a seconda dei casi, dei loro stalloni.

Il figuro anomalo era davanti agli altri, ben visibile e sarebbe stato anche riconoscibile da tutti, se si fosse mostrato in quel paesino il giorno dell’esecuzione del principe Gilbert. Il fisico straniero, più da terra artica che da clima continentale, era grigiastro e scolpito, egli sembrava imponente dall’alto del suo cavallo da guerra, un purosangue nero; gli occhi glaciali per freddezza e colore erano quanto si vedeva del suo volto attraverso l’elmo.

La sua era un’armatura a placche nere istoriate con motivi rossastri o nerastri che aveva un unico punto scoperto: il ventre, lasciato a incitamento per i nemici, ma essendo senza cicatrici poteva significare solo una cosa; lascio al lettore curioso il compito di immaginare in quanti fossero mai riusciti a colpirlo. Aveva un non so che di magnetico e, agli occhi di Shail, era un mix di adrenalina e di feromoni;  forse ciò era legato al tatuaggio tribale che da attorno l’ombelico risaliva a volute verso il petto, o forse alle catene che portava come bracciali attorno ai polsi e come cintura. La ragazza non poteva distogliere lo sguardo che si soffermava languidamente e inconsapevolmente sui suoi fianchi che si ondeggiavano seguendo i movimenti lenti del suo animale mansueto, sui suoi muscoli gonfi e sodi temprati dalla fatica, su quelle mani grandi che potevano essere in grado di circondarla senza remore, su quelle fessure gelide ma così affascinanti che studiavano i volti di ciascuno dei presenti.

Forse gli occhi di lei avrebbero avuto espressioni meno dolci e passionali, se avesse saputo dove il gruppo sarebbe andato.

L’entrata in scena del gruppo di armati aveva sì messo a tacere il gruppo di fanciulle, ma il coro dei bambini che giocavano in lontananza non si era affatto calmato sebbene un uomo dalla barba ormai già brizzolata di bianco stesse gridando e inveendo contro uno di loro, non ancora conscio della presenza del drappello di armati. Era rigido nella sua posizione eretta, con le guance arrossate come al solito e il grembiule sporco di fuliggine. Cercava di attirare l’attenzione di un marmocchio in particolare che lo ignorava continuando nel gioco.

- Gavriel Aghea! Vieni subito qui.- il ragazzino continuava a non considerarlo.- Se ti prendo, non so nemmeno io che ti faccio!L’uomo scese nell’acqua del fiume e andò verso il bambini. L’acqua non gli arrivava nemmeno alla vita ma ugualmente avrebbe dovuto cambiarsi, una volta a casa.

Paonazzo per l’indignazione, arrancava verso il gruppo dei bambini che solo allora si era accorto della sua presenza. Il diretto interessato, il capobanda, provò ad allontanarsi notando il proprio vecchio a poca distanza da lui ma fu troppo lento: tue mani forti e callose lo afferrarono per un braccio trascinandolo con sé.
Il bambino ebbe un sussulto: stava per essere punito a suon di cinghiate, ma il gioco era valso la candela. Sorrise con boria ai suoi amici preoccupati per la sua sorte caricandolo di un significato nascosto: ne è valsa la pena, grazie ragazzi avrebbe detto, se avesse potuto. Poi si rivolse al padre lamentandosi della presa eccessivamente forte e bisbigliando scuse divertite, mascherando la totale assenza di eventuali tracce di pentimento.

I bambini piegarono il capo:il loro capitano si era immolato per il loro divertimento. Che eroe!

Ma mentre il fabbro riportava suo figlio nella sua capanna per educarlo come si conviene, gli armati non erano rimasti fermi ad assistere alla scenetta. Si erano divisi per cercare la targa di una precisa abitazione dopo aver riunito le donne e gli uomini occupati in attività interne al paese di Slave Town all’interno della stessa piazza dove solo pochi giorni prima era morto il principe ereditario di quel regno, giustiziato dal suo stesso padre. Vicino al ceppo, gli schizzi di sangue non si erano ancora cancellati, ma avevano impregnato il legno. Chissà tra quanto tempo le assi avrebbero iniziato a emanare l’odore pungente del sangue di cui si sarebbero imbevute con il passare dei mesi: c’era sempre qualcuno da punire.

Shail osservò la piazza, non era molto gremita ma ugualmente, tutti coloro che si trovavano in zona erano stati costretti con la forza alla posizione scomoda di spettatore astante. Era ancora vicina al suo gruppo di amiche con cui era solita tessere e intrecciare, e appoggiava il peso ora su una gamba, ora sull’altra, irrequieta e impaziente. Aveva il sentore che qualcosa di poco positivo sarebbe successo da lì a breve.

Tutti gli astanti avevano compreso che di lì a poco non ci sarebbe stata una esecuzione: generalmente la popolazione locale era avvertita uno o due giorni prima del grande evento. La sicurezza dilagante comportava un’unica certezza: la colonna delle fustigazioni, mai cambiata né spostata, sarebbe stata di lì usata. L’unica incertezza era nell’identità della sua vittima: a chi sarebbe toccato subire l’infamia?

Nessun araldo aveva intonato lo squillo di tromba che preannunciava l’inizio della punizione esemplare, nessun soldato si era mosso dalla posizioni impettite in cui erano stati destinati dall’uomo dei ghiacci.


 
***

Non gli aveva fatto domande. Strano, fu l’unico pensiero del rosato. L’indomani la donna si era alzata, aveva rassettato la casa, afferrato il suo cesto del bucato da lavare e si era diretta verso il fiume come ogni altra massaia senza rivolgergli parola, si era limitata a intimare ai figli di non uscire di casa e di mangiare quel poco che aveva preparato e che ora faceva una ben misera mostra di sé: i due bambini avevano divorato tutto ciò che i loro piccoli affamati organismi riuscivano a ingurgitare, quel poco che restava sarebbe stato per lui. Poi se n’era andata, lasciando le due pesti a fargli compagnia, ora i due correvano per la casa, colmi di quell’euforia e di quella gioia di vivere che ben presto abbandona chiunque si affacci nell’età adulta.

Da quanto non assumeva quella forma fasulla? Perché incarnarsi in un uomo se avrebbe potuto semplicemente rapirla e portarla nella sua grotta? Si era appena svegliato nel corpo di un uomo e già bramava il cielo, la libertà. Avrebbe voluto non essere l’ultimo della sua specie, avere ancora suo fratello Zeref a consolarlo e consigliarlo, ma il fuoco dei maghi aveva annientato anche lui.

I maghi li avevano braccati per giorni, costringendoli a una vita di stenti: non potevano neanche uscire per cacciare! Poi una sera, mentre erano accucciati contemplando il bagliore lunare gli uomini avevano portato via tutto ciò che gli restava. Lui era riuscito a volare via: era più possente e più indomabile, l’altro più violento, ma di stazza inferiore era stato legato al suo e ferito a un’ala. Aveva emanato il suo alito infuocato verso quegli esseri pavidi, aveva bruciato le loro pelli eppure loro gridavano Uccideteli! e infierivano sul corpo del drago con le loro daghe. L’aveva visto accasciarsi inerme, guardare il cielo, cercarlo, trovarlo e chiudere gli occhi, per sempre.

Era volato via.

E si era trovato nei pressi di quel ruscello dove aveva spiato per giorni quella giovane donna dai capelli dorati che cantava sempre mentre adempiva al suo compito di madre. Si era innamorato della luce che emanavano i suoi occhi, vi aveva scorto malinconia e aveva sperato di poterla sradicare dal suo sguardo. Fantasticava sui suoi pensieri, immaginava chi fosse, che vita conducesse. Le sue labbra delicate erano state l’oggetto delle sue riflessioni nelle notti insonni, quando i ricordi diventavano troppo dolorosi. E quando l’angoscia per essere rimasto l’ultimo lo afferrava, ripensava ai suoi grandi occhi nocciola e vi si perdeva all’interno.
Si alzò dal letto fingendo uno stato confusionale.

- Dove sono?- bofonchiò attirando l’attenzione dei due bambini.Il maschio, più vivace e intraprendente, gli si avvicinò.

- Ma allora sei vivo?- lo squadrò con sguardo indagatore e rivelatore- io sono Jude e lei è Ur, tu chi sei?

- Io? Io sono Natsu.- gli rispose indicandosi.

- Bel nome- rispose una voce femminile dall’ingresso delle modesta abitazione- io sono Lucia.

 
***
 
Era ormai passata un’ora dal momento in cui ogni via d’uscita dalla piazza era stata sigillata, anche i bambini, pesti ma colmi di allegria si erano riversati all’interno dell’area di terra battuta portando con loro le loro risate rincuoranti. Ma il padre di Shail e suo fratello non erano ancora entrati nel suo campo visivo. Nessun altro sembrava aver notato la loro assenza finché il piccolo Gavriel non era entrato nella piazza con gli occhi colmi di lacrime e il volto arrossato per gli schiaffi. Corse tremante verso sua sorella per poi affondare nella sua gonna rosa sporcandole il vestito di fango.

Stupita, la ragazza appoggiò le sue mani sul capo del bambino ancora scosso e muto, con gli occhi sgranati e le gialle iridi contorniate da un tripudio rossastro. Sospirò cercando di incanalare la sua apparente calma nel debole corpicino che le si avvinghiava terrorizzato. Poi un sibilo.

- Papà…- bisbigliò in un sussulto.

La ragazza lo udì. Cos’era successo a Fernando Aghea? Papà dove sei? Abbiamo bisogno di te. La sua domanda ebbe una rapida risposta perché negli attimi successivi un uomo dal volto incappucciato da un sacco di tela lacero da cui sporgevano ciuffi di barba candidi, con le mani arrossate legate, dai pantaloni di cuoio macchiati e logorati per l’uso che con seria difficoltà erano mantenuti su da un laccio dello stesso materiale altrettanto consunto gocciolante acqua e da una casacca verde muschio anch’essa parzialmente bagnata. Egli era scortato da quell’uomo misterioso, quello per cui il cuore della fanciulla aveva perso un battito, quello stesso che essa avrebbe imparato ad odiare.

Lo sconosciuto si tolse l’ermo cedendolo al suo commilitone più immediato, poi spinse in malo modo il suo prigioniero conducendolo con continui strattoni alla pedana dove erano posti la colonna delle fustigazioni e il ceppo per le esecuzioni. Il suo volto aveva lineamenti duri e affilati, i capelli si stavano ricomponendo in quella che era un cresta e ora anche il taglio degli occhi ghiacciati, chiusi come se fossero due fessure, era ben visibile. Una spada lunga a due mani gli pesava sulle spalle senza infiacchire il corpo abituati a sforzi ben più pesanti.

Egli non era mai stato di molte parole, ma in questo caso un discorso esemplificativo doveva essere tenuto: era il preciso volere di sua maestà, il re Henry Von Paradise. Si accinse a parlare,ma  la differenza rispetto a pochi giorni prima era manifesta, quasi plateale: era una Guardia Reale a parlare, e non uno degli araldi reali. Ma c’era la stessa atmosfera: pesante e carica di tensione. L’impazienza era percepibile allo stesso modo, anzi, era incrementata dall’attesa di chi sarebbe occorso nella mano pesante di quel soldato sconosciuto al villaggio e dal fatto stesso che, questa volta, la vittima-forse colpevole di aver rubato una cipolla ai carri che transitavano per quell’agglomerato urbano in direzione del castello- era uno di loro. Si schiarì la gola.

- Nessuno di  voi sa chi sia quest’uomo che giace al mio fianco, ma tutti voi siete rei di connivenza. Egli è stato trovato a vendere ai ribelli merce destinata all’esercito e finanziata dal re in persona, dal vostro re! Si tratta di armi che sono state custodite nelle vostre case, lame da taglio come quelle trovate sul suo corpo- lanciò verso la folla il pugnale che ferì di striscio il volto di una donna e si infilzò nella gamba di un uomo che perse l’equilibrio e iniziò a gemere per il dolore; sua moglie accorse per  prestargli le prime cure- fateli stare zitti!-gridò stizzito ai soldati che lo accompagnavano per poi riprendere il discorso.

Essi si avvicinarono alla coppia e li trascinarono di peso all’esterno della piazza tra lo scompiglio generale, gli occhi colmi di lascivia per il corpo femminile che portavano con loro ancora scalpitante. Avevano avuto il permesso di stuprarla, no? Entrarono all’interno di una stalla e legarono l’uomo con i finimenti equestri costringendolo a osservare la scena animalesca che di lì a poco si sarebbe consumata davanti ai suoi occhi.

Inutili furono le suppliche, le maledizioni, le imprecazioni della donna. Le strapparono il vestito, lacerando la sottoveste, sdrucendo la sottana. Rivelarono la sua femminilità e il suo corpo prosperoso non fu nascosto agli sguardi indagatori e inconsapevoli dei cavalli, né allo sgomento del marito. Ma non siamo qui per assistere all’orrore che venne qui consumato, non descriverò le sue urla, i suoi rantoli e i gemiti di loro.
Non vi narrerò del seme e del sangue che scorse lungo il suo corpo, dei muscoli tirati, dei capelli strappati, delle contusioni che costellavano il suo corpo rendendolo tanto simile a una cartina geografica.
Ma vi parlerò dell’abominio commesso quando, stanchi e soddisfatti, i soldati decisero che era giunta l’ora di farla finita. Legarono la donna ai finimenti di un cavallo e il marito ancora sanguinante, sconvolto, inorridito, preoccupato allo stesso cavallo e lo lanciarono al galoppo… in direzione di Dover, la città dell’Ammazzabestie là vicina e le sue bianche scogliere.

I loro corpi sbattevano contro le pietre del selciato,graffiandosi, scorticandosi. I polsi si slogarono, le ossa si ruppero, la pelle si lacerò. Nessuno li avrebbe trovati là dove il cavallo, incantato da uno dei due soldati, stava andando: il fondo del mare. E vi arrivarono, con le orbite capovolte e avvolti da un mantello sanguinolento, agonizzati o senza vita? Nessuno fu in grado di dircelo.

Poi i soldati tornarono indietro ad assistere alla punizione esemplare che si stava per tenere. La Guardia Reale si era presentata come Amlach, the Devil. Un diavolo o un demone? C’erano molte voci sul suo conto ma per una cosa era noto: faceva largo uso di una dose sovrabbondante di cinismo. Già pregustava il momento in cui si sarebbe sporcato lui stesso le mani nel sangue del prigioniero che giaceva carponi al suo fianco. Lo fece alzare, impaziente. Strattonandolo lo portò verso la colonna, lo spogliò della casacca consunta che indossava rivelando un corpo avanti con l’età ma ancora tonico e lo assicurò all’asse. Sollevò il cappuccio svelando il volto a tutto il pubblico.

Shail ebbe un brivido. Sgranò gli occhi. Non è possibile.

L’uomo afferrò la frusta che gli veniva porsa: una lunga striscia di canapa con delle borchie di metallo appuntite nella parte finale della corda. Si leccò le labbra, ora l’uccellino avrebbe cantato la più ricercata delle melodie. D’altro lato il vegliardo chiudeva gli occhi, ignorando gli sguardi puntati su di lui, pregando perché i suoi figli avessero il buonsenso di non intervenire. Pensò a come era stato scoperto: una delatore aveva fatto la spia; chi poteva essere? Forse non l’avrebbe mai saputo. Pregò i suoi dei: la chiesa di Zentopia gli aveva insegnato i suoi valori educandolo al rispetto e alla fratellanza.

Il primo colpo lo colse alla sprovvista, non urlò. Imprecò nei suoi pensieri e tornò a perdersi nelle sue divagazioni: non doveva dare soddisfazione al suo carnefice né sminuire la sua dignità. Si erse titanicamente di fronte al suo nemico: ma al quinto colpo, alla quinta ondata di dolore, esso fu troppo. Le sue corde vocali vibrarono invocando un sollievo che la carne martoriata bramava. Era stato sconfitto, piegato, ma la sua punizione era appena all’inizio… resistette a altri dieci sferzate, poi perse conoscenza.

I presenti, giorni dopo, non erano sicuri della quantità delle frustrate, alcuni stimavano intorno ai trenta, altri addirittura cinquanta. Nessuno si aspettava che il fabbro Fernando Aghea sarebbe tornato lo stesso uomo che aveva sfidato il re aiutando i suoi nemici. Amlach godeva del suo dolore, cullandosi nella dolcissima stridula sinfonia delle sue urla; era come un bambino alla prese con una pozzanghera dopo un giorno di pioggia: più saltava nelle pozzanghere sporcandosi più si divertiva, più si macchiava del suo sangue, più i suoi occhi assumevano un’aria euforica.

Gavriel piangeva aggrappato alla sorella. – Papà…- sussurrava tra i suoi singhiozzi con voce flebile.

La massa era impassibile, sgomenta e al tempo stessa abituata a quegli spettacoli di dolore gratuito.

Shail abbracciava il fratello, cercando di nascondere l’apprensione per il padre e la paura di perderlo. Doveva mostrarsi forte per il bambino, tanto debole quanto forte voleva sembrare. Ma i suoi occhi bianchi girati, l’abbandono del suo corpo all’oblio la sconvolgevano. Il sangue che scorreva fresco era troppo, rischiava di morire dissanguato e intanto, il suo carnefice non dava segni di voler smettere. Cosa la aveva attratta in lui? Nel momento in cui aveva impugnato la frusta contro Fernando Aghea, Shail aveva perso ogni interesse lascivo e infedele nei suoi confronti. Quando però vide che la frusta era entrata a tal punto nella carne, lacerando la schiena martoriata, distruggendo i legamenti, la ragazza perse il senso della realtà.

Si narra che l’usignolo amasse a tal punto la rosa che le spine gli trafissero il cuore. L’uccellino bianco spiccò un salto, ignaro dei movimenti del suo corpo correndo incontro al fiore mortale. Un turbinio vorticoso si sollevò attorno al corpo della fanciulla e in un istante la Guardia Reale abbandonò la frusta liberando la spada a due mani dalle corde di cuio che la assicuravano alla sua schiena.

- La pagherai!- gridò Shail mentre le raffiche di vento aumentavano e le persone tra la folla cercavano di allontanarsi il più possibile da lei per non essere sbalzati via.

Sollevò la mano e il cielo si oscurò, chiuse il pugno e un fulmine atterrò poco distante dall’uomo.

- Ti sei finalmente rivelata, ninfa?- sputò quello calcando con tono disgustato l’ultima parola.










ANGOLINO DELL'AUTRICE
Sono passati undici mesi dall'ultima volta in cui aggiornato e sono molto curiosa: in quanti, di quei miei quattro lettori si ricorderà di quello che ho scritto in precedenza?
Non chiedo scuse, non imploro perdono, ho dei ritmi molto lenti, lo sò e l'ho notato. Questo è il periodo dell'anno più prolifero per la mia scrittura, e devo ringraziare il mio ragazzo, Dario, per supportarmi con tutti i progetti che ho in corso e per sopportarmi in tutti i miei attacchi di pura follia. E' merito suo se un terremoto non si è abattuto nel regno di Fiore, ma non è riuscito a evitare tutte le calamità che ben presto si seguiranno.
Ora lo storia entra nel vivo, non ci saranno mezze misure: diversi moriranno, anche in modi atroci. Spero non vi siate affezionati a nessuno perché anche il personaggio più importante può morire (Ned Stark... Martin, perché?).
Se ritenete debba alzare il rating, vi sare grata se poteste dirmelo. 


La vostra Liber





 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2158314