The Big Violation

di Aurency
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Meltdown Stage ***
Capitolo 2: *** Good 1965 ***
Capitolo 3: *** Trauma Biologico ***
Capitolo 4: *** Eventi di casuale Provvidenza ***



Capitolo 1
*** Meltdown Stage ***


Capitolo 1: Meltdown Stage

"E' come quando ti senti pieno di imponenti progetti, grandi ispirazioni; contempli le foglie accompagnate al suolo dal vento, che sembra non volere lasciarle cadere insieme alle altre, insieme a tutte le altre. Percorri beato un lungo viale alberato, scorgendo appena i ciottoli dolcemente levigati dal tempo. La tua mente si svuota degli ordinari pensieri: un perenne prurito che ti ricorda che vivi nella società, nei problemi, nel malessere e nella superficialità, nell'arroganza e nel conformismo. Credi che di fronte a una geometria tanto misteriosa quanto banale si nasconda un grande progetto, un minuzioso e pignolo disegno. Già. Alzi lo sguardo quel che basta ad ammirare gli alberi in fila come soldatini, uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro, quasi dovessero affrontarsi restando immobili; certo, non è possibile. Poi ti accorgi che sono tutti uguali, non sussiste il movente per una così grande violenza, grande quanto irragionevole. Perché rovinare una geometria tanto misteriosa quanto banale? Porti il tuo sguardo più in sù, un pò più avanti... e ti accorgi che gli alberi non sono perfettamente in fila. Percorrono un tragitto rettilineo, sì, ma finiscono per incontrarsi. E non capisci come, non vedi dove. Pensi sia all'infinito, ma è solo un illusione macchinata dal cervello. Quelle file sono dritte, gli alberi sono uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro. Non ti importa il motivo di questo lungo e perfetto vagare tra due file di alberi.
La luce è intensa.
L'importante è sentirsi liberi, vivi, immersi in un cielo azzurro e in una brezza vellutata, coccolati dall'ombra delle fronde sul viso alternata con la indescrivibile sensazione dei raggi della nostra stella sul volto. Ti piace fare spesso questa passeggiata, aiuta a comprendere che il mondo in cui vivi è prezioso e bello, che va conservato così come è, senza manipolazioni e forzature. Ti piacerebbe far qualcosa in futuro per questa Terra, ma sei così felice e rilassato che sarebbe un delitto abbandonare una tale esperienza. Fremi dalla voglia di tornare a ondeggiare nelle dolci sensazioni, così bruscamente interrotte. Congedi l'indiscreta questione con un "Sicuramente qualcuno lo sta già facendo, o, in ogni caso, lo farà."
Fanny si sentiva piena di gioia a descrivere le sue giornate in questo modo, il suo diario era praticamente una grande
descrizione di come era il mondo e delle fantastiche sensazioni ed emozioni che avrebbe donato, se lo si fosse contemplato anche per un solo minuto.
A volte si trattava di piccoli spazi, a volte di paesaggi sconfinati, ma lei in ognuno vedeva quello che gli altri non
vedevano o forse non volevano vedere; la speranza. Magari il mondo reale non era poi così diverso da quello virtuale, dove tutti i suoi amici si imprigionavano di loro volontà. Ma per cosa? Per non vedere che cosa? Forse non avevano paura di vedere, ma di sentire. Lei non si poneva troppi problemi, osservava quei vecchi dipinti e immaginava di esserne parte come protagonista, di muoversi al loro interno a trecentosessanta gradi e vedere ciò che solo la fantasia umana avrebbe saputo ricreare.Ricreare, era una parola che si sentiva spesso alla WebTV o, per chi riposava in pace, alla televisione. Ricreare era la preghiera mattutina, pomeridiana e serale di tutta la popolazione del globo, o almeno, di quello che ne era rimasto; insomma, di tutti. Lo sconvolgimento, seguito dal cosiddetto Meltdown Stage, mise in ginocchio la Terra e i suoi popoli, a qualunque nazione appartenessero perché, purtroppo, in certi scenari tutto il mondo è paese, specie in quelli bellici. A poco servì rimpiangere gli anni d'oro, sprecati, dove tutto sommato la civiltà progrediva pacificamente e senza troppe guerre inutili, senza violenze e senza scandali.
Fanny avrebbe voluto un giorno consultare l'album fotografico della guerra "appena" conclusa, ma gli era vietato; le atrocità che rappresentava erano a impolverarsi giù in cantina, chiuse in una cartella metallica lucchettata. E la chiave era stata sciolta nell'acido. Doveva accontentarsi di ammirare, come fossero paesaggi di altri pianeti, quadri che ormai erano cenere. Le opere esistevano solo nelle fredde memorie dei computer, dove erano ridotte a sequenze quantistiche, le stesse che portarono alla nascita del fallimentare progetto Big Daddy e della sua tragica sperimentazione al di fuori del mondo virtuale.
Ma non fu colpa dell'uomo alla fine, ma del suo incontrollato impulso alla miglioria di qualsiasi cosa gli capitasse sotto
mano, di qualsiasi cosa potesse in qualche modo essere catalogata come "completata, testata e archiviata". Ma con
l'intelligenza artificiale non si avrebbe dovuto giocare come fosse una costruzione Lego da finire. D'altronde, una volta
raggiunto il punto di non ritorno, essa si sarebbe migliorata da sola, portando alla disgrazia. Ed è quello che successe.
E così i ragazzi della generazione postbellica passavano il tempo davanti ai computer, navigando in quell'Internet che era ridotto a due finestre di streaming video giornalistico e un motore di ricerca trasandato. Setacciavano il web nella speranza di trovare qualche messaggio di aiuto di gente che non si era ancora imbattuta in un'anima viva dalla fine della guerra e, anche se sembra surreale, ce n'era più di quanta se ne pensasse. Ma il premio per una simile scoperta sarebbe stato sottile: il proprio nome scritto in minuscolo in un angolo della finestra di streaming, mentre sulla stessa sarebbero comparsi in tutta probabilità titoloni a gran voce e informazioni confuse, insomma, non ne sarebbe valsa davvero la pena. Ma i giovani non avevano altro da fare, e probabilmente neanche i vecchi. Tutto era lasciato lì, nella speranza che qualcuno ricreasse una situazione ambientale stabile e vivibile.

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Capitolo 2
*** Good 1965 ***


Capitolo 2: Good 1965

Due colpi possenti alla porta: era suo padre.
La sveglia quella mattina non suonò, ma lei se lo aspettava.
Già dalla sera prima le pile dell'orologio erano esaurite e rimediarne di nuove da qualche parte sarebbe stato arduo; dato l'orario sarebbe stato inutile fare un gran baccano per due pile, meglio approfittarne per saltare una lezione.
Era domenica, almeno secondo il calendario ufficioso della Grande Rete, e sempre secondo quel calendario, erano le dieci e trenta del mattino. Fanny avrebbe dovuto trovarsi all'Istituto Cittadino di Bonifica già da un tempo considerevole e, come altre domeniche, la voglia fu lentamente soffocata dai delicati respiri.
Il leggiadro sogno stava dissolvendosi, lasciando trasparire i freddi colori dell'esistenza e del silenzio.
Fanny sorrise, e rigirandosi nel letto, ascoltava suo padre chiamarla e bussare alla porta.
«Fanny! E' tardissimo, che diamine stai facendo? Stai ancora dormendo?» Jonas Pedersen continuò a picchiare alla porta. «E' domenica, tutti i tuoi compagni sono già all'Istituto e tra poco andranno in visita alle serre!»
La ragazza non si fece distrarre dalle parole del padre, continuò a sorridere ripensando al sogno che aveva fatto quella notte. Cercò di ricordare più dettagli possibile, perché era un sogno meraviglioso, luminoso. Fantastiche visioni le si proiettavano davanti agli occhi; le parse di essere nel mondo che da tanti anni l'umanità, anche lei nel suo piccolo, cercava di ricostruire con grande sforzo e impegno.
Tuttavia i colpi erano troppo forti, la voce troppo alta, si vide costretta a congedare i suoi pensieri; comunque ricordò
quanto bastava per poter trascrivere l'intangibile esperienza sul suo diario. Si avvicinò alla porta e tirò la maniglia, che
con il solito stridore, la fece appena sbloccare.
«Ah, ti sei decisa ad aprire, finalmente! Sciocca che non sei altro!» Il tono severo del padre spaventò Fanny, non immaginava che si sarebbe arrabbiato così tanto. Esitò qualche secondo, poi rispose.
«Scusami, ieri sera ho dimenticato...»
«Scusarti? E per quanto ancora dovrei continuare a scusarti?! E' la terza domenica che ti svegli in ritardo, credi che all'Istituto aspettino i tuoi comodi?».
Fanny fissava il padre nei suoi occhi inflessibili mentre si scansava per farlo entrare. Jonas capì che non era un caso quel ritardo, e lentamente avanzò verso il letto, già notando l'orologio che non emanava più il proprio alone azzurrino.
«Perché diavolo non hai attivato la sveglia ieri sera?» Jonas prese nella grande mano la sveglietta, puntandola verso Fanny. Ma prima che lei potesse rispondere il padre aveva già compreso.
«Certo, le pile... Lo sai benissimo che se si scarica un apparecchio va ripristinato al più presto! Tutto deve funzionare con continuità in questo maledetto posto! Tutto!»
Fanny era terrorizzata; la sua mente non aveva ricordi di una tale durezza e seriosità. Qualche lacrima cercò di scivolarle sul viso, in opposizione alla sua volontà. O forse no? Aveva paura, e non sapeva se mostrare che aveva capito la lezione chiedendo scusa o se fiondarsi in cucina con le mani sul volto, singhiozzando per lo spavento.
Rimase immobile sulla soglia della porta, fissando l'orologio soffocato dalle dita del padre. Lo vedeva sprofondare tra le pieghe delle mani sudate e avrebbe voluto anche lei sprofondare, non importava dove, né come.
«E' pronta la colazione».
L'avviso della madre ruppe il silenzio teso, quasi furioso.
«Va'» mormorò Jonas, riponendo la sveglietta sul comodino.
Fanny si diresse in cucina, ovviamente senza nemmeno sciacquarsi il viso, il risparmio delle risorse era legge e i contatori avrebbero rilevato qualsiasi eccesso di consumo, comunicandolo alla direzione della città.
Le contravvenzioni venivano duramente punite, sia con multe amministrative che con giorni di lavoro supplementari a frequenza obbligatoria. Nessuno fino ad allora aveva mai infranto un regolamento della direzione, regolamento che per molti fu inutile; in certe condizioni dove la propria sopravvivenza dipende dal lavoro della collettività e dalla disponibilità delle risorse umane la discrezione è intrinseca nel modo di ragionare della gente.
Jonas uscì dalla porta di "casa" per dirigersi al centro di raccolta per i lavoratori volontari dei giorni festivi, lo faceva tutte le domeniche per mettere da parte qualche credito extra in caso di consumi straordinari da pagare alla fine del mese.
Il concetto del nuovo ordine mondiale era che una famiglia più crediti accumulava e più risorse aveva il diritto di utilizzare: energetiche, alimentari, mediche, ludiche, tecnologiche. Entro un certo limite etico, chiaramente.
Fanny si sentì più tranquilla, il padre era uscito e non sarebbe tornato che in tarda serata. Girava il cucchiaio nella tazza
mentre osservava l'estratto di cereali artificiali che galleggiavano nella mistura giallastra di latte sintetico e concentrato proteico-vitaminico, che dava alla bevanda un'aria viscosa. La madre le si avvicinò accarezzandola sul capo.
«Fanny... Devi mangiare, stai tranquilla, ora è più sicuro».
La settimana prima ci fu un ricovero d'urgenza dovuto alla semiliquida miscela super nutriente, e questo non piacque a nessuno. Le persone rimasero riluttanti di fronte alla scelta se ingerirla o sentire crampi allo stomaco per i successivi tre giorni. Ebbe la meglio la seconda, con casi ancora più gravi, dove la permanenza in una struttura sanitaria comportò grande dispendio di risorse preziose, opportunamente addebitate al saldo di fine mese della persona interessata.
A Fanny non piacque l'idea di finire ricoverata e far salire alle stelle la "bolletta" di casa, ma neanche di ingurgitare un composto del tutto artificiale, che fece venire i nervi a fior di pelle a tutta la città. Ma le scelte erano solo due e avrebbero portato entrambe dritte all'ospedale, nella peggiore delle ipotesi. Preferì mangiare la miscela super nutriente, mentre la madre la tranquillizzava.
«Quando credi che potremo tornare a vivere sulla superficie?» domandò la ragazza. «Tesoro, questa domanda me la fai ogni mattina e mi costringi a risponderti sempre allo stesso modo». Le due si scambiarono uno sguardo per un attimo. «Finché il decadimento radioattivo non sarà terminato, il pianeta rimarrà sterile e tossico». Fanny avrebbe potuto benissimo rispondersi da sola, ma preferì sentire il linguaggio scientifico, pur semplificato, che usava la madre per spiegarle che in superficie vigeva l'inferno. Un inferno dove la sostanza radioattiva, che secondo gli studi, sarebbe decaduta dopo non meno di dieci milioni di anni, era il carburante inesauribile che alimentava il caos.
«Perché non sei voluta andare alle serre?» chiese Franciska, la madre, per cambiare discorso. «E' un momento importante per la tua formazione futura, lo sai bene che qui ognuno di noi è prezioso per la sussistenza di tutti. Alle serre avresti imparato un sacco di cose che io per spiegarti impiegherei giorni interi, senza che tu abbia un riscontro visivo e pratico.» Franciska attese la risposta della figlia. «Mamma, quelle cose le posso apprendere benissimo anche su Internet, dove sono più approfondite. Le informazioni non sono limitate a questa città, ma sono frutto del sapere di ogni colonia di sopravvissuti sparsa per il mondo.» Rispose tranquillamente Fanny.
«L'utilizzo dei computer porta a costi in crediti molto elevati, e Internet serve solo a guardare la WebTV, se fai ricerche dobbiamo pagare gli extra a fine...» Franciska fu interrotta da Fanny, che si irritava man mano che la madre parlava. In lei fremeva la voglia di dimostrare che non era una ragazza apatica, passiva, che prendeva per buona qualsiasi cosa gli fosse detta.
«Si poteva evitare!» esclamò Fanny. «Le testimonianze e le descrizioni fatte durante la guerra, le fotografie, i filmati! Perché tenete nascosto tutto questo? Vogliamo sapere come e perché fummo stati costretti a vivere in questo modo! Perché le nuove generazioni devono solo imparare a lavorare, produrre e risparmiare, a cosa servirà in futuro quello che costruiamo oggi? Chi ci assicura che la contaminazione radioattiva non arriverà anche qui sotto ponendo fine a tutte le speranze? Non ci insegnate di che composto si tratta, né tantomeno se c'è un modo per accelerare il processo di decadimento. Noi... dobbiamo agire attivamente per mettere la parola fine a questo vivere al limite del possibile, nella totale incertezza. Vorrei tanto un giorno vedere le stelle del cielo; nei quadri che ho visto al computer sono rappresentate spesso, devono essere bellissime...» Fanny riprese fiato, poi continuò. «Sono sconvolta... ho letto che tutto si poteva fermare, o almeno alleviare, questo non ce lo avete mai detto, come se fosse scontato che la guerra ci sia stata. Più di cento anni fa... già a quei tempi sapevano qual'era il rischio. Se non ricordo male, fu un certo I. J. Good a formulare il primo concetto che ora è a noi noto come Singolarità Tecnologica. Sì, fu proprio Good, nel 1965. E' incredibile, l'uomo sapeva già a cosa sarebbe andato incontro. Non mi guardare così, non mi piace rimanere all'oscuro di queste cose, ho letto, mi sono informata da me su Internet, dato che certe cose sembra che non vogliate che le conosca, né io, né i miei amici». Franciska ascoltò meravigliata gli articolati discorsi che a quei tempi non era possibile per una sedicenne esporre con così grande rigore.
Ma il ripristino di Internet e della comunicazione globale a tempo zero fu inevitabile, così come la voglia di sapere, e la sete di cultura prese piede in ogni casa.
Good più di cento anni prima sapeva a quale rischio l'uomo sarebbe andato incontro continuando ad avvicinare l'intelligenza delle macchine a quella umana. Dopo le affermazioni di Good, ogni anni furono indetti convegni e simposi per tenere aggiornata la questione dai migliori scienziati del campo. Alla fine, la nascita di una macchina intelligente ad altissimo livello fu annunciata non solo come inevitabile, ma anche come automatica. Certo, la nascita, ma non il controllo.

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Capitolo 3
*** Trauma Biologico ***


Capitolo 3: Trauma Biologico

Franciska non parlò più, rimase solo a riflettere dopo le affermazioni di Fanny. Nonostante il ribrezzo provato verso la sostanza, Fanny terminò la propria colazione e, ripensando al proprio discorso, si stupiva di se stessa. Non credeva che Internet le avrebbe potuto conferire una così grande conoscenza del passato, come del presente. Anche se del presente c'era ben poco da sapere...
Il mondo era in rovina; quella oasi nello spazio che solo un miracolo avrebbe potuto plasmare ora soffriva nel silenzio della rovina e della desolazione.
I venti di alta e bassa quota, che accompagnarono e furono fondamentali alla nascita e alla diffusione della vita, ora spargevano il seme della morte nelle già sterili e inaridite lande; sulle scheletriche e assetate foreste; nelle valli prosciugate e sulla sommità delle maestose e, un tempo, verdeggianti montagne, private del loro vivo mantello. Esse altro non potevano che mostrare sfregi e lacerazioni, e a stento riuscivano a issare al cielo le cime innevate, lentamente erose dalle impetuose e sorde tormente. Queste spazzavano in aria un nevischio denso, quasi a simboleggiare la bandiera bianca di Madre Natura, costretta a soccombere sotto gli effetti di ciò che mano umana forgiò, nutrì, crebbe, e infine perfezionò senza alcuna moderazione.
Ma quello che stupiva l'uomo era che il peggio doveva ancora arrivare. Lo stadio di fusione dei reattori a pecrossite, riconosciuto universalmente come Meltdown Stage, era solo ai primordi rispetto al tempo di decadimento. Tuttavia, secondo le previsioni dei pochi scienziati competenti del campo rimasti, l'apice dove la pecrossite avrebbe liberato il quantitativo di energia maggiore a contatto con il carbonio sarebbe stato verso la fine del 2073, ovvero nel giro di poco più di sei mesi. I calcoli furono svolti in totale segretezza dagli scienziati e i risultati non furono divulgati, per paura di una situazione di panico generale, e di una fuga di notizie in tutte le comunità del globo causata da Internet. Ma non era l'unica cosa che le autorità nascondevano alla gente.
Una possibilità che da decenni gli scienziati occultavano, era quella di poter calpestare la superficie terrestre, senza tuttavia subire alcun danno né dalla miscela gassosa letale che aveva preso il posto dell'aria, né dall'altissima radioattività. Le tute di contenimento che permettevano ciò, integranti anche una maschera con filtro respiratorio, furono progettate già dopo pochi mesi dall'esplosione dei reattori e in piena Guerra World Wide. Non si riuscì però a costruirle e i fogli di progetto furono custoditi scrupolosamente dai reduci per molti anni. Successivamente furono persi e ritrovati diverse volte, a causa della disorganizzazione durante la costruzione e l'ampliamento delle comunità sotterranee di sopravvissuti.
Quando finalmente furono realizzate, il primo ad indossarne una e a collaudarla all'esterno morì dopo pochi minuti di permanenza sulla superficie. Da quel momento si capì che il progetto andava del tutto rivisto; la tuta non doveva assolutamente contenere carbonio, elemento con il quale la percossite reagiva così energeticamente da scindersi, provocando una reazione a catena che avrebbe letteralmente sciolto qualsiasi composto organico. Nonostante i progressi fatti, presto ci si rese conto che almeno una volta al mese qualcuno sarebbe dovuto uscire all'aperto per riconfermare o, nella maggior parte dei casi, smentire l'efficacia dell'indumento protettivo. Questo perché la situazione peggiorava o migliorava improvvisamente, sotto tutti i punti di vista, e non si sarebbe potuto sapere se e per quanto tempo ciò sarebbe perdurato. Quel qualcuno veniva estratto a sorte dalla comunità, con l'eccezione di scienziati, disabili, malati, donne incinte e di figure politicamente importanti. Spesso lo sfortunato eletto non tornava più indietro, e ciò poteva conseguire per diversi motivi; la maschera non riusciva più a filtrare a causa del mutamento della composizione, i tessuti della tuta venivano danneggiati, lasciando che le particelle radioattive raggiungessero la pelle, ad esempio. Alla fine di ogni anno veniva eseguita la media dei sopravvissuti al test, che di solito era del 25%, quindi sui circa sedici che avevano provato la tuta, solo quattro erano tornati indietro. E per essere abbandonati come cani sul freddo, buio e ventoso suolo terrestre bastava davvero poco: anche la cucitura sfilacciata di un guanto avrebbe emanato il verdetto di condanna al malcapitato. La fine che avrebbe fatto nessuno la sapeva, ma verosimilmente, nessuno l'avrebbe voluta sapere.

Alla luce di ciò non poteva che avere ragione chi sosteneva, di fronte a quello che rimaneva della biosfera terrestre, che Big Daddy pensò proprio a tutto quando in passato concepì la sostanza che avrebbe dovuto "porre fine alla sete di energia sempre maggiore dell'umanità". Egli considerò soprattutto la proprietà fondamentale che doveva avere per i suoi scopi, ovvero sterminare rapidamente ogni forma di vita sulla Terra, e dato che il carbonio è la componente fondamentale di ogni essere vivente, la pecrossite doveva scatenare il massimo della propria radioattività proprio a contatto con questo elemento. Quella macchina superintelligente mise in atto un piano di conquista del globo che nessuno, nemmeno i suoi creatori, avrebbero potuto neanche immaginare.
Good, Kurzweil, Vinge, Bostrom... sono solo alcuni dei cognomi di chi, decenni prima della catastrofe, aveva previsto una singolarità tecnologica e messo in guardia chi si sarebbe spinto fino a concretizzarla. Una silenziosissima guerra fredda prese piede dal 2011 tra chi affermava che un'ultraintelligenza artificiale sarebbe stata necessaria per il progresso dell'uomo e chi invece sosteneva che, anche nel caso in cui si fosse manifestata spontaneamente, si sarebbe dovuto distruggerla al più presto. Ma fu una lotta tra una decina di pecorelle gracili e indifese e un'adunanza di lupi rabbiosi e insaziabili. Fu inutile cercare di fermare il grandioso progetto del Pentagono che interessò le più grandi aziende elettroniche ed informatiche, nonché l'esercito degli Stati Uniti e la General Electric. Per il Project Big Daddy fu addirittura costruito un laboratorio militare apposito la cui ubicazione fu sempre tenuta nascosta dal governo USA, e chi riusciva a trovarla spariva nel nulla, anche se avesse abitato dall'altra parte del mondo. A tutti era chiaro che la CIA stava fornendo un efficace copertura, intercettando qualsiasi informazione pubblica o privata che in qualche modo era ricollegabile all'installazione segreta o a Big Daddy. Ciò nonostante, a causa delle sempre più frequenti pressioni da parte di chi rivendicava la Freedom of Information Legislation, la notizia ufficiale riguardante il programma del Pentagono fu rilasciata alla stampa il sei di aprile del 2017, data che coincideva con l'inizio della realizzazione fisica della macchina e con il venticinquesimo anniversario della morte di Isaac Asimov; probabilmente quella data fu scelta in suo onore, ma soprattutto perché prima di essa non erano ancora disponibili le tecnologie necessarie alla creazione di un'automa capace di imparare dai propri errori ed autocorreggersi.
Quello che successe poi appartiene a un passato troppo distante, troppo crudele. Per i cittadini delle colonie di superstiti era solo una sequenza di immagini offuscate dalla rabbia e dallo scoraggiamento, raccontate dai loro padri o da chi, ormai defunto, riuscì al tempo ad evitare la morte e a fondare una nuova generazione di uomini.
Ma per Fanny non era così, lei voleva vederci chiaro in quello che successe poi, perché tutto le veniva nascosto fin da troppo tempo. Eppure tutto quello che voleva sapere era lì, in casa sua, rinchiuso in baule metallico antisfondamento. Con la chiave si sarebbe finalmente aperta la finestra di orrori che per mezzo secolo fu tenuta chiusa, barricata. Fanny non era sicura di ciò che avrebbe scoperto, anche se lo poteva ben immaginare sentendo i discorsi dei suoi istruttori all'Istituto di Bonifica. Spesso si chiedeva perché nel programma non era stata inserita la materia di Storia, secondo lei essenziale per apprendere le dinamiche della "misteriosa sostanza radioattiva". Ma non era l'unico interrogativo che gli frullava in testa dal mattino alla sera; ce n'era un altro, forse più importante.
Ogni tanto ascoltava i discorsi degli anziani veterani di guerra che passavano le loro giornate al bar, a parlare del più e del meno.Ogni tanto le capitava di sentire la parola "Dio" che, nonostante a loro fosse vietato pronunciare, scappava di bocca a qualche vecchio, ma che lei non aveva la più pallida idea di cosa significasse; così come "preghiera","fede","religione"... Alla fine riuscì a scoprire soltanto, e con fatica, che la religione era qualcosa di insito nell'animo umano, che portava l'uomo a porsi interrogativi sulla propria esistenza e di quella di ciò che gli stava intorno. Ma lei non la sentiva questa "cosa" che avrebbe dovuto essere innata in lei; non la percepiva minimamente e quando cercava di parlarne con i suoi genitori, questi cambiavano sapientemente argomento, lasciandola spiazzata ma ancora più decisa. Provò spesso a discuterne con gli amici, ma loro si interessavano ad altro, non ci pensavano o, più frequentemente, preferivano navigare in Internet che porsi quesiti inutili, in aggiunta ai già abbondanti problemi. Inutile sarebbe stato setacciare la città in cerca di un un segno, un simbolo, una struttura, una persona, un qualcosa che le chiarisse le idee sulla questione: tutto ciò che riguardava la religione, e specialmente Dio, fu marcato come superstizione già dalla fine della guerra, quindi non ce n'era traccia in nessun luogo e in nessun individuo.
Fanny ripose il cucchiaio sul tavolo e si recò in bagno per passarsi un pò di acqua fresca sul viso, ne sentiva bisogno. Per un attimo si dimenticò dello scarseggiare dell'acqua e la osservava scorrere dal rubinetto immaginandosi il suono che avrebbe fatto se fosse stata una cascata, un torrente, un fiume, o anche solo le onde del mare, tutte cose solamente viste in riproduzioni digitali sullo schermo del computer. L'acqua era sfruttata al massimo nella comunità, in quanto elemento fondamentale per la crescita delle vegetazione che forniva l'ossigeno in tutta la struttura. Veniva riutilizzata e recuperata ogni qualvolta ce ne fosse stata l'opportunità e i potenti filtri la rendevano potabile laddove ce ne fosse stato bisogno.
Fanny era come incantata da quell'elemento rilassante, le rammentava che l'uomo doveva vivere nella natura e non segregato in stanze sotterranee collegate da claustrofobiche gallerie. Continuava ad osservare l'acqua scorrere, quando percepì un lieve movimento sotto i propri piedi. Si guardò intorno perplessa, fece qualche passo indietro. Di colpo, poi, una scossa fortissima le fece perdere l'equilibrio. Riuscì a reggersi ad una tubatura sul muro e mentre il panico la stava per sopraffare, cercò di urlare aiuto. Ma fu inutile; grida assordanti e lamenti di dolore provenivano da tutti i locali adiacenti, e anche dagli appartamenti superiori ed inferiori. I violenti e sordi rimbombi scuotevano le pareti tanto quanto il sisma, o almeno fu quello che Fanny percepì distesa sul pavimento quasi priva di sensi. Si teneva ancora aggrappata al tubo con una mano, ma lo lasciò d'istinto appena vide che alcune crepe avanzavano su tutto il muro, sgretolando le piastrelle. I sostegni del grande specchio cedettero e con uno schianto questo si frantumò sul lavandino, disperdendo affilate schegge in tutto il bagno. Ora Fanny era intrappolata al suolo, se si fosse mossa si sarebbe tagliata ovunque. Nel pandemonio più totale, cercò di liberarsi dei pezzi di vetro che l'avevano ricoperta, ma ottenne solamente ferite sanguinanti alle braccia e alle mani. Stava per perdere i sensi e rimase a fissare il soffitto mentre il terremoto sconvolgeva l'intera città; una 'espressione vuota e traumatizzata avanzava sul suo volto, quando un tonfo assordante proveniente dal piano superiore rigonfiò il soffitto spargendo nell'aria un pulviscolo giallastro. Quel colpo la fece ritornare in sé, ma non riuscì comunque ad alzarsi e scappare. Teneva lo sguardo inchiodato al soffitto che le stava per crollare addosso e dal quale stava lentamente facendo breccia la pesante cassaforte. Ogni speranza di sopravvivere improvvisamente abbandonò i suoi pensieri e, con il cuore che le stava per scoppiare, le venne spontaneo implorare aiuto a qualcosa... o forse qualcuno. Non l'aveva mai fatto, ma ne sentiva il bisogno dentro. Implorava silenziosamente aiuto, nel più totale silenzio. Chiuse gli occhi per qualche secondo e svuotò la mente da tutti i pensieri e le paure; un inno silenzioso alla clemenza gli proveniva spontaneamente dal profondo del cuore.
Illudendosi che tutto fosse cessato, riaprì gli occhi.

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Capitolo 4
*** Eventi di casuale Provvidenza ***


Capitolo 4: Eventi di casuale Provvidenza

Il grande complesso sotterraneo di abitazioni, laboratori, ambienti di sostentamento e l'intera rete di gallerie comunicative venivano martellati da onde sismiche di eccezionale potenza che si intensificavano sempre di più, compromettendo qualsiasi cosa ne venisse colpita.
I secondi oltrepassavano i minuti e sembrava durassero ore. Il tempo scorreva inesorabilmente e con lui il sangue che in quei rigidi attimi si riversava sul pavimento di ogni locale occupato.
Fanny aveva riaperto gli occhi dopo quella breve quanto istintiva preghiera, ma presto fu costretta a richiuderli poiché una polverosa nube di detriti le si stava riversando tutt'attorno.
Quasi non riusciva più a respirare a causa della polvere e dell'angoscia, ma si fece forza e si scansò quel che bastava per evitare la cassaforte, che era in procinto di fare breccia nel soffitto abbattendosi su di lei.
Affrontò il dolore delle ferite alle mani e consumò le sue ultime forze per strisciare sul pavimento cosparso di frammenti di vetro. Vedeva nell'angolo del bagno l'unica e ultima possibilità certa di non essere travolti dal pesante forziere e, graffiandosi tutto il corpo, raggiunse l'angolo della stanza. Da lì riuscì a gettare un ultimo sguardo al soffitto che ad attimi sarebbe franato, poi perse conoscenza. Un istante dopo la terra smise di emettere le assillanti urla di disperazione che per decenni vennero assorbite dagli abissi del globo. Ma il pianeta insofferente e sconvolto non sarebbe potuto sottostare all'oppressione dell'artificioso impero del caos, instauratosi da quando la pecrossite infettò il ciclo naturale del mondo. Da decenni Madre Natura anelava all'armonia e all'equilibrio del creato, nei secoli sfigurato dall'uomo e in quegli ultimi anni dalla sua creazione ultima.
Ci furono periodi in cui Madre Natura sfogava i propri impeti di rabbia in devastanti cataclismi che si abbattevano in ogni parte del mondo; tuttavia nessuno che appartenesse alle comunità di sopravvissuti ne era mai stato vittima o anche solo testimone. Le tuonanti scosse si erano interrotte, pennellate di luttuosi minuti si susseguivano sulla tela della dissoluzione, dipingendo l'effigie della Morte in una cornice intagliata nella speranza e adornata dall'inganno. Chi riuscì a scampare alla catastrofe si aggirava ininterrottamente per la città in cerca di altri sopravissuti, finché i propri polmoni glielo avrebbero permesso. Molte tubature che portavano l'aria esterna, tanto irrespirabile quanto fondamentale, erano state recise e le fuoriuscite interessavano la maggior parte della città. I condotti di ventilazione diffondevano il gas letale nei luoghi dove questo non poteva arrivare a causa delle barriere tagliafuoco, che isolavano gli ambienti in caso di emergenza. Ma questa risultava una trappola mortale per chiunque non avesse altre vie di fuga, e anche per chi ne aveva. L'unica soluzione era giungere alle serre che disponevano di un sistema di filtraggio e di circolazione dell'aria molto più efficiente rispetto a quello degli altri locali; se la miscela aerea avesse raggiunto le piante queste sarebbero morte asfissiate.
Non era facile però recarsi ai vasti vivai: gran parte della città aveva subito un blackout, diverse strutture erano allagate, i tunnel di collegamento risultavano impraticabili a causa delle barriere tagliafuoco e delle macerie, anche se quest'ultimo disagio permise l'isolamento di alcune gallerie dal gas tossico. Ma anche se qualcuno fosse riuscito a raggiungere i vivai cosa avrebbe fatto poi? I filtri di quell'ambiente, pure potenti, non furono progettati per depurare l'aria. Quel compito spettava ai purificatori, che tuttavia non avrebbero potuto svolgere il loro compito senza elettricità.
Venticinque secondi. Tanto bastò a decimare gli abitanti, da diecimila che erano a un migliaio. Tuttavia numerose vite furono stroncate nei successivi dieci minuti a causa delle lesioni, dell'atmosfera, della disperazione...
Le probabilità che qualcuno riuscisse a salvarsi da una situazione simile erano una su un milione; neanche se tutta la popolazione della città fosse sopravissuta ci sarebbero state possibilità apprezzabili di mettersi in salvo.
Passò più di un'ora dal disastro e, se fino ad allora si sentiva qualche sordo passo, qualche soffocato colpo di tosse, qualche urla straziante implorante aiuto, ora vigeva la quiete e l'oscurità più totali.
Fanny incominciava a riprendere conoscenza. Riacquisì per primo il senso della vista, poi quello dell'udito e infine l'olfatto. Il tatto in realtà non lo aveva mai perso, continuamente sottoposto a dolori lancinanti com'era; furono proprio quei dolori a risvegliare la ragazza. I suoi occhi erano offuscati e a malapena distingueva i colori, si sentiva frastornata e non riusciva neppure a rialzarsi. Si fece coraggio e si adagiò con la schiena al muro. La testa le girava ancora, ma le forme si stavano delineando e i colori riprendevano tonalità. Aspettò ancora qualche istante prima di portarsi in piedi, mentre si copriva con una mano il profondo taglio che si era procurata sul braccio, strisciando tra i vetri. Appoggiò la testa alla parete piastrellata che la fiancheggiava, chiuse gli occhi e fece qualche respiro profondo; quindi si alzò reggendosi a un radiatore. Muoversi le era difficile: il pavimento era seppellito sotto più di mezzo metro di travi, blocchi di roccia, lamiere e l'arredo del piano superiore. L'imponente cassaforte era piombata di sotto pochi secondi dopo la fine del sisma, incastrandosi con uno spigolo nel pavimento per poi abbattersi contro la porta, sfondandola.
Fanny si fece faticosamente strada tra le macerie, salì sopra la cassaforte per poter uscire dalla stanza ma notò che la serratura del forziere era sbloccata a causa dell'urto. Esitò qualche istante, poi aprì lo sportello. Vi trovò una dozzina di custodie metalliche, alcune contenenti documenti cartacei, altre gettoni metallici colorati: i "crediti" che venivano utilizzati come denaro. Vide una scatola in particolare, diversa dalle altre perché di plastica; racchiudeva dei rotoli flessibili di un materiale che non aveva mai visto. Ne prese uno, lo distese e si accorse che lungo un'estremità si collegava ad un cilindro ricoperto di pulsanti sottilissimi di ogni genere. Uno riportava il simbolo di accensione tipico dei dispositivi elettronici, così lo premette: il rotolo diventò luminoso e su di esso iniziarono a scorrere parole ed immagini di qualità e fluidità formidabili. Capì subito che era uno di quegli arnesi iper tecnologici di cui i vecchi al bar parlavano per ore e si ricordò che furono fondamentali per trasportare con facilità dati di ogni tipo, quindi avrebbero potuto esserci anche filmati e fotografie della guerra. Fanny si trovava davanti a una pila intera di carta elettronica, ideata ancora prima del Duemila e progettata per funzionare anche con quantità di energia minime. Divenne funzionale ed economicamente accessibile a tutti solo dopo un quindicennio di miglioramenti e implementazione di applicazioni sempre nuove, fino a diventare un eccellente calcolatore mobile dotato di tutte le funzioni di un normale computer, e forse anche di più. Come la maggior parte dei consegni elettronici, venne deteriorato a causa della pecrossite e reso inservibile. Tuttavia i superstiti riuscirono, tra le altre cose, a conservarne qualcuno di ancora funzionante ma rimasero dimenticati, forse di proposito, in una scatola rinchiusa in una cassaforte. Fanny spense la pergamena digitale e la rimise nella custodia, che aveva intenzione di portarsi appresso finché gli sarebbe stato possibile, per esaminarne i contenuti con più calma. Ancora non poteva immaginare però cos'era realmente successo alla città e ai suoi abitanti, compresi i suoi genitori. Dolorante e ancora un pò confusa, si muoveva barcollando per il piccolo salotto in soqquadro gettando lo sguardo dappertutto, nella speranza di ritrovare la madre. Cercò in ogni stanza della casa, anche in cucina, dove si legò uno straccio umido intorno alla profonda ferita sul braccio. Cominciava a sentirsi debole, non riusciva a chiamare aiuto e il fatto di non essersi imbattuta in Franciska appena uscita dal bagno la rendeva agitata e maldestra nei movimenti. Il cuore stava accelerando il proprio battito, gli occhi stavano lentamente appannandosi e si sentiva la testa esplodere. Si apprestava a girare la maniglia della porta d'uscita ma il groviglio di dolori e sensazioni non glielo permise; collassò nuovamente ad un passo dalla soglia.

Mezz'ora dopo.

Jacob non rispondeva. Ma Nathan insistette, continuando a chiamare il suo nome.
«Rispondi, maledizione! Passo.» La voce di Nathan stava assumendo tratti di nervosismo e paura, ma egli andò avanti a chiamarlo.
Avanti, amico, rispondi. - pensò, fissando la ricetrasmittente che stringeva nella mano tremante, poi ritentò.
«Jacob, sono Nathan, mi ricevi? Passo.»
Alla radio giunse un segnale disturbato dal quale si potevano distinguere urla e colpi di fucile. Nathan ascoltava terrorizzato, poi all'improvviso la trasmissione cessò. Nathan urlò il nome dell'amico alla trasmittente, ma non riceveva risposta. Si aspettava il peggio, quando dalla radio giunsero dei respiri affannati, seguiti dalla voce di Jacob.
«Nathan... sono io... Passo...» disse a fatica.
«Jacob! Grazie al cielo... Sei ancora vivo! In che condizione ti trovi? Ce la fai a raggiungermi? Passo.»
«Sto bene, non ti preoccupare... Quell'ammasso di latta l'ho fatto accomodare... all'inferno. Ho qualche lieve graffio, ma... non è nulla in confronto alla testa... crivellata che quel robot si è guadagnato. Passo.»
«Ah Ah! L'umorismo è l'ultima cosa che abbandoneresti, vero? Ora, l'armatura gli si sta schiarendo? Passo.»
«Lo sta facendo proprio ora. Passo.»
«Cavolo, la nostra sala dei trofei traboccherà se andiamo avanti così. Bene, ora sbrighiamoci, raggiungimi nel settore... Dannazione!»
«Nel settore cosa? Nathan, che diamine sta succedendo? Passo.»
«Ho una traccia di calore sullo schermo! E' molto debole, devi fare in fretta! Settore... eh... settore DQ-24, ala est! Vado a controllare, tu muoviti con quel maledetto primo soccorso! Passo.»
«Nathan, a che piano? Passo.» Jacob attese qualche secondo, «Nathan, sei ancora lì? Ah, al diavolo.»
Ma Nathan aveva già riposto la radio ed il visore a infrarossi nello zaino e, indossando la maschera antigas, correva verso l'obiettivo. Jacob si diresse alla successiva barriera tagliafuoco che doveva manomettere per poter raggiungere l'amico e soccorrere la persona che Nathan aveva individuato.

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