The Big Violation di Aurency (/viewuser.php?uid=11120)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Meltdown Stage ***
Capitolo 2: *** Good 1965 ***
Capitolo 3: *** Trauma Biologico ***
Capitolo 4: *** Eventi di casuale Provvidenza ***
Capitolo 1 *** Meltdown Stage ***
Capitolo 1: Meltdown Stage
"E' come quando ti senti pieno di imponenti progetti, grandi
ispirazioni; contempli le foglie accompagnate al suolo dal vento, che
sembra non volere lasciarle cadere insieme alle altre, insieme a tutte
le altre. Percorri beato un lungo viale alberato, scorgendo appena i
ciottoli dolcemente levigati dal tempo. La tua mente si svuota degli
ordinari pensieri: un perenne prurito che ti ricorda che vivi nella
società, nei problemi, nel malessere e nella
superficialità, nell'arroganza e nel conformismo. Credi che
di fronte a una geometria tanto misteriosa quanto banale si nasconda un
grande progetto, un minuzioso e pignolo disegno. Già. Alzi
lo sguardo quel che basta ad ammirare gli alberi in fila come
soldatini, uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro, quasi
dovessero affrontarsi restando immobili; certo, non è
possibile. Poi ti accorgi che sono tutti uguali, non sussiste il
movente per una così grande violenza, grande quanto
irragionevole. Perché rovinare una geometria tanto
misteriosa quanto banale? Porti il tuo sguardo più in
sù, un pò più avanti... e ti accorgi
che gli alberi non sono perfettamente in fila. Percorrono un tragitto
rettilineo, sì, ma finiscono per incontrarsi. E non capisci
come, non vedi dove. Pensi sia all'infinito, ma è solo un
illusione macchinata dal cervello. Quelle file sono dritte, gli alberi
sono uno di fronte all'altro, uno di fianco all'altro. Non ti importa
il motivo di questo lungo e perfetto vagare tra due file di alberi.
La luce è intensa.
L'importante è sentirsi liberi, vivi, immersi in un cielo
azzurro e in una brezza vellutata, coccolati dall'ombra delle fronde
sul viso alternata con la indescrivibile sensazione dei raggi della
nostra stella sul volto. Ti piace fare spesso questa passeggiata, aiuta
a comprendere che il mondo in cui vivi è prezioso e bello,
che va conservato così come è, senza
manipolazioni e forzature. Ti piacerebbe far qualcosa in futuro per
questa Terra, ma sei così felice e rilassato che sarebbe un
delitto abbandonare una tale esperienza. Fremi dalla voglia di tornare
a ondeggiare nelle dolci sensazioni, così bruscamente
interrotte. Congedi l'indiscreta questione con un "Sicuramente qualcuno
lo sta già facendo, o, in ogni caso, lo farà."
Fanny si sentiva piena di gioia a descrivere le sue giornate in questo
modo, il suo diario era praticamente una grande
descrizione di come era il mondo e delle fantastiche sensazioni ed
emozioni che avrebbe donato, se lo si fosse contemplato anche per un
solo minuto.
A volte si trattava di piccoli spazi, a volte di paesaggi sconfinati,
ma lei in ognuno vedeva quello che gli altri non
vedevano o forse non volevano vedere; la speranza. Magari il mondo
reale non era poi così diverso da quello virtuale, dove
tutti i suoi amici si imprigionavano di loro volontà. Ma per
cosa? Per non vedere che cosa? Forse non avevano paura di vedere, ma di
sentire. Lei non si poneva troppi problemi, osservava quei vecchi
dipinti e immaginava di esserne parte come protagonista, di muoversi al
loro interno a trecentosessanta gradi e vedere ciò che solo
la fantasia umana avrebbe saputo ricreare.Ricreare, era una parola che
si sentiva spesso alla WebTV o, per chi riposava in pace, alla
televisione. Ricreare era la preghiera mattutina, pomeridiana e serale
di tutta la popolazione del globo, o almeno, di quello che ne era
rimasto; insomma, di tutti. Lo sconvolgimento, seguito dal cosiddetto
Meltdown Stage, mise in ginocchio la Terra e i suoi popoli, a qualunque
nazione appartenessero perché, purtroppo, in certi scenari
tutto il mondo è paese, specie in quelli bellici. A poco
servì rimpiangere gli anni d'oro, sprecati, dove tutto
sommato la civiltà progrediva pacificamente e senza troppe
guerre inutili, senza violenze e senza scandali.
Fanny avrebbe voluto un giorno consultare l'album fotografico della
guerra "appena" conclusa, ma gli era vietato; le atrocità
che rappresentava erano a impolverarsi giù in cantina,
chiuse in una cartella metallica lucchettata. E la chiave era stata
sciolta nell'acido. Doveva accontentarsi di ammirare, come fossero
paesaggi di altri pianeti, quadri che ormai erano cenere. Le opere
esistevano solo nelle fredde memorie dei computer, dove erano ridotte a
sequenze quantistiche, le stesse che portarono alla nascita del
fallimentare progetto Big Daddy e della sua tragica sperimentazione al
di fuori del mondo virtuale.
Ma non fu colpa dell'uomo alla fine, ma del suo incontrollato impulso
alla miglioria di qualsiasi cosa gli capitasse sotto
mano, di qualsiasi cosa potesse in qualche modo essere catalogata come
"completata, testata e archiviata". Ma con
l'intelligenza artificiale non si avrebbe dovuto giocare come fosse una
costruzione Lego da finire. D'altronde, una volta
raggiunto il punto di non ritorno, essa si sarebbe migliorata da sola,
portando alla disgrazia. Ed è quello che successe.
E così i ragazzi della generazione postbellica passavano il
tempo davanti ai computer, navigando in quell'Internet che era ridotto
a due finestre di streaming video giornalistico e un motore di ricerca
trasandato. Setacciavano il web nella speranza di trovare qualche
messaggio di aiuto di gente che non si era ancora imbattuta in un'anima
viva dalla fine della guerra e, anche se sembra surreale, ce n'era
più di quanta se ne pensasse. Ma il premio per una simile
scoperta sarebbe stato sottile: il proprio nome scritto in minuscolo in
un angolo della finestra di streaming, mentre sulla stessa sarebbero
comparsi in tutta probabilità titoloni a gran voce e
informazioni confuse, insomma, non ne sarebbe valsa davvero la pena. Ma
i giovani non avevano altro da fare, e probabilmente neanche i vecchi.
Tutto era lasciato lì, nella speranza che qualcuno ricreasse
una situazione ambientale stabile e vivibile.
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Capitolo 2 *** Good 1965 ***
Capitolo 2: Good 1965
Due colpi possenti alla porta: era suo padre.
La sveglia quella mattina non suonò, ma lei se lo aspettava.
Già dalla sera prima le pile dell'orologio erano esaurite e
rimediarne di nuove da qualche parte sarebbe stato arduo; dato l'orario
sarebbe stato inutile fare un gran baccano per due pile, meglio
approfittarne per saltare una lezione.
Era domenica, almeno secondo il calendario ufficioso della Grande Rete,
e sempre secondo quel calendario, erano le dieci e trenta del mattino.
Fanny avrebbe dovuto trovarsi all'Istituto Cittadino di Bonifica
già da un tempo considerevole e, come altre domeniche, la
voglia fu lentamente soffocata dai delicati respiri.
Il leggiadro sogno stava dissolvendosi, lasciando trasparire i freddi
colori dell'esistenza e del silenzio.
Fanny sorrise, e rigirandosi nel letto, ascoltava suo padre chiamarla e
bussare alla porta.
«Fanny! E' tardissimo, che diamine stai facendo? Stai ancora
dormendo?» Jonas Pedersen continuò a picchiare
alla porta. «E' domenica, tutti i tuoi compagni sono
già all'Istituto e tra poco andranno in visita alle
serre!»
La ragazza non si fece distrarre dalle parole del padre,
continuò a sorridere ripensando al sogno che aveva fatto
quella notte. Cercò di ricordare più dettagli
possibile, perché era un sogno meraviglioso, luminoso.
Fantastiche visioni le si proiettavano davanti agli occhi; le parse di
essere nel mondo che da tanti anni l'umanità, anche lei nel
suo piccolo, cercava di ricostruire con grande sforzo e impegno.
Tuttavia i colpi erano troppo forti, la voce troppo alta, si vide
costretta a congedare i suoi pensieri; comunque ricordò
quanto bastava per poter trascrivere l'intangibile esperienza sul suo
diario. Si avvicinò alla porta e tirò la
maniglia, che
con il solito stridore, la fece appena sbloccare.
«Ah, ti sei decisa ad aprire, finalmente! Sciocca che non sei
altro!» Il tono severo del padre spaventò Fanny,
non immaginava che si sarebbe arrabbiato così tanto.
Esitò qualche secondo, poi rispose.
«Scusami, ieri sera ho dimenticato...»
«Scusarti? E per quanto ancora dovrei continuare a scusarti?!
E' la terza domenica che ti svegli in ritardo, credi che all'Istituto
aspettino i tuoi comodi?».
Fanny fissava il padre nei suoi occhi inflessibili mentre si scansava
per farlo entrare. Jonas capì che non era un caso quel
ritardo, e lentamente avanzò verso il letto, già
notando l'orologio che non emanava più il proprio alone
azzurrino.
«Perché diavolo non hai attivato la sveglia ieri
sera?» Jonas prese nella grande mano la sveglietta,
puntandola verso Fanny. Ma prima che lei potesse rispondere il padre
aveva già compreso.
«Certo, le pile... Lo sai benissimo che se si scarica un
apparecchio va ripristinato al più presto! Tutto deve
funzionare con continuità in questo maledetto posto!
Tutto!»
Fanny era terrorizzata; la sua mente non aveva ricordi di una tale
durezza e seriosità. Qualche lacrima cercò di
scivolarle sul viso, in opposizione alla sua volontà. O
forse no? Aveva paura, e non sapeva se mostrare che aveva capito la
lezione chiedendo scusa o se fiondarsi in cucina con le mani sul volto,
singhiozzando per lo spavento.
Rimase immobile sulla soglia della porta, fissando l'orologio soffocato
dalle dita del padre. Lo vedeva sprofondare tra le pieghe delle mani
sudate e avrebbe voluto anche lei sprofondare, non importava dove,
né come.
«E' pronta la colazione».
L'avviso della madre ruppe il silenzio teso, quasi furioso.
«Va'» mormorò Jonas, riponendo la
sveglietta sul comodino.
Fanny si diresse in cucina, ovviamente senza nemmeno sciacquarsi il
viso, il risparmio delle risorse era legge e i contatori avrebbero
rilevato qualsiasi eccesso di consumo, comunicandolo alla direzione
della città.
Le contravvenzioni venivano duramente punite, sia con multe
amministrative che con giorni di lavoro supplementari a frequenza
obbligatoria. Nessuno fino ad allora aveva mai infranto un regolamento
della direzione, regolamento che per molti fu inutile; in certe
condizioni dove la propria sopravvivenza dipende dal lavoro della
collettività e dalla disponibilità delle risorse
umane la discrezione è intrinseca nel modo di ragionare
della gente.
Jonas uscì dalla porta di "casa" per dirigersi al centro di
raccolta per i lavoratori volontari dei giorni festivi, lo faceva tutte
le domeniche per mettere da parte qualche credito extra in caso di
consumi straordinari da pagare alla fine del mese.
Il concetto del nuovo ordine mondiale era che una famiglia
più crediti accumulava e più risorse aveva il
diritto di utilizzare: energetiche, alimentari, mediche, ludiche,
tecnologiche. Entro un certo limite etico, chiaramente.
Fanny si sentì più tranquilla, il padre era
uscito e non sarebbe tornato che in tarda serata. Girava il cucchiaio
nella tazza
mentre osservava l'estratto di cereali artificiali che galleggiavano
nella mistura giallastra di latte sintetico e concentrato
proteico-vitaminico, che dava alla bevanda un'aria viscosa. La madre le
si avvicinò accarezzandola sul capo.
«Fanny... Devi mangiare, stai tranquilla, ora è
più sicuro».
La settimana prima ci fu un ricovero d'urgenza dovuto alla semiliquida
miscela super nutriente, e questo non piacque a nessuno. Le persone
rimasero riluttanti di fronte alla scelta se ingerirla o sentire crampi
allo stomaco per i successivi tre giorni. Ebbe la meglio la seconda,
con casi ancora più gravi, dove la permanenza in una
struttura sanitaria comportò grande dispendio di risorse
preziose, opportunamente addebitate al saldo di fine mese della persona
interessata.
A Fanny non piacque l'idea di finire ricoverata e far salire alle
stelle la "bolletta" di casa, ma neanche di ingurgitare un composto del
tutto artificiale, che fece venire i nervi a fior di pelle a tutta la
città. Ma le scelte erano solo due e avrebbero portato
entrambe dritte all'ospedale, nella peggiore delle ipotesi.
Preferì mangiare la miscela super nutriente, mentre la madre
la tranquillizzava.
«Quando credi che potremo tornare a vivere sulla
superficie?» domandò la ragazza.
«Tesoro, questa domanda me la fai ogni mattina e mi costringi
a risponderti sempre allo stesso modo». Le due si scambiarono
uno sguardo per un attimo. «Finché il decadimento
radioattivo non sarà terminato, il pianeta
rimarrà sterile e tossico». Fanny avrebbe potuto
benissimo rispondersi da sola, ma preferì sentire il
linguaggio scientifico, pur semplificato, che usava la madre per
spiegarle che in superficie vigeva l'inferno. Un inferno dove la
sostanza radioattiva, che secondo gli studi, sarebbe decaduta dopo non
meno di dieci milioni di anni, era il carburante inesauribile che
alimentava il caos.
«Perché non sei voluta andare alle
serre?» chiese Franciska, la madre, per cambiare discorso.
«E' un momento importante per la tua formazione futura, lo
sai bene che qui ognuno di noi è prezioso per la sussistenza
di tutti. Alle serre avresti imparato un sacco di cose che io per
spiegarti impiegherei giorni interi, senza che tu abbia un riscontro
visivo e pratico.» Franciska attese la risposta della figlia.
«Mamma, quelle cose le posso apprendere benissimo anche su
Internet, dove sono più approfondite. Le informazioni non
sono limitate a questa città, ma sono frutto del sapere di
ogni colonia di sopravvissuti sparsa per il mondo.» Rispose
tranquillamente Fanny.
«L'utilizzo dei computer porta a costi in crediti molto
elevati, e Internet serve solo a guardare la WebTV, se fai ricerche
dobbiamo pagare gli extra a fine...» Franciska fu interrotta
da Fanny, che si irritava man mano che la madre parlava. In lei fremeva
la voglia di dimostrare che non era una ragazza apatica, passiva, che
prendeva per buona qualsiasi cosa gli fosse detta.
«Si poteva evitare!» esclamò Fanny.
«Le testimonianze e le descrizioni fatte durante la guerra,
le fotografie, i filmati! Perché tenete nascosto tutto
questo? Vogliamo sapere come e perché fummo stati costretti
a vivere in questo modo! Perché le nuove generazioni devono
solo imparare a lavorare, produrre e risparmiare, a cosa
servirà in futuro quello che costruiamo oggi? Chi ci
assicura che la contaminazione radioattiva non arriverà
anche qui sotto ponendo fine a tutte le speranze? Non ci insegnate di
che composto si tratta, né tantomeno se c'è un
modo per accelerare il processo di decadimento. Noi... dobbiamo agire
attivamente per mettere la parola fine a questo vivere al limite del
possibile, nella totale incertezza. Vorrei tanto un giorno vedere le
stelle del cielo; nei quadri che ho visto al computer sono
rappresentate spesso, devono essere bellissime...» Fanny
riprese fiato, poi continuò. «Sono sconvolta... ho
letto che tutto si poteva fermare, o almeno alleviare, questo non ce lo
avete mai detto, come se fosse scontato che la guerra ci sia stata.
Più di cento anni fa... già a quei tempi sapevano
qual'era il rischio. Se non ricordo male, fu un certo I. J. Good a
formulare il primo concetto che ora è a noi noto come
Singolarità Tecnologica. Sì, fu proprio Good, nel
1965. E' incredibile, l'uomo sapeva già a cosa sarebbe
andato incontro. Non mi guardare così, non mi piace rimanere
all'oscuro di queste cose, ho letto, mi sono informata da me su
Internet, dato che certe cose sembra che non vogliate che le conosca,
né io, né i miei amici». Franciska
ascoltò meravigliata gli articolati discorsi che a quei
tempi non era possibile per una sedicenne esporre con così
grande rigore.
Ma il ripristino di Internet e della comunicazione globale a tempo zero
fu inevitabile, così come la voglia di sapere, e la sete di
cultura prese piede in ogni casa.
Good più di cento anni prima sapeva a quale rischio l'uomo
sarebbe andato incontro continuando ad avvicinare l'intelligenza delle
macchine a quella umana. Dopo le affermazioni di Good, ogni anni furono
indetti convegni e simposi per tenere aggiornata la questione dai
migliori scienziati del campo. Alla fine, la nascita di una macchina
intelligente ad altissimo livello fu annunciata non solo come
inevitabile, ma anche come automatica. Certo, la nascita, ma non
il controllo.
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Capitolo 3 *** Trauma Biologico ***
Capitolo 3: Trauma
Biologico
Franciska non parlò più, rimase solo a riflettere
dopo le affermazioni di Fanny. Nonostante il ribrezzo provato verso la
sostanza, Fanny terminò la propria colazione e, ripensando
al proprio discorso, si stupiva di se stessa. Non credeva che Internet
le avrebbe potuto conferire una così grande conoscenza del
passato, come del presente. Anche se del presente c'era ben poco da
sapere...
Il mondo era in rovina; quella oasi nello spazio che solo un miracolo
avrebbe potuto plasmare ora soffriva nel silenzio della rovina e della
desolazione.
I venti di alta e bassa quota, che accompagnarono e furono fondamentali
alla nascita e alla diffusione della vita, ora spargevano il seme della
morte nelle già sterili e inaridite lande; sulle
scheletriche e assetate foreste; nelle valli prosciugate e sulla
sommità delle maestose e, un tempo, verdeggianti montagne,
private del loro vivo mantello. Esse altro non potevano che mostrare
sfregi e lacerazioni, e a stento riuscivano a issare al cielo le cime
innevate, lentamente erose dalle impetuose e sorde tormente. Queste
spazzavano in aria un nevischio denso, quasi a simboleggiare la
bandiera bianca di Madre Natura, costretta a soccombere sotto gli
effetti di ciò che mano umana forgiò,
nutrì, crebbe, e infine perfezionò senza alcuna
moderazione.
Ma quello che stupiva l'uomo era che il peggio doveva ancora arrivare.
Lo stadio di fusione dei reattori a pecrossite, riconosciuto
universalmente come Meltdown Stage, era solo ai primordi rispetto al
tempo di decadimento. Tuttavia, secondo le previsioni dei pochi
scienziati competenti del campo rimasti, l'apice dove la pecrossite
avrebbe liberato il quantitativo di energia maggiore a contatto con il
carbonio sarebbe stato verso la fine del 2073, ovvero nel giro di poco
più di sei mesi. I calcoli furono svolti in totale
segretezza dagli scienziati e i risultati non furono divulgati, per
paura di una situazione di panico generale, e di una fuga di notizie in
tutte le comunità del globo causata da Internet. Ma non era
l'unica cosa che le autorità nascondevano alla gente.
Una possibilità che da decenni gli scienziati occultavano,
era quella di poter calpestare la superficie terrestre, senza tuttavia
subire alcun danno né dalla miscela gassosa letale che aveva
preso il posto dell'aria, né dall'altissima
radioattività. Le tute di contenimento che permettevano
ciò, integranti anche una maschera con filtro respiratorio,
furono progettate già dopo pochi mesi dall'esplosione dei
reattori e in piena Guerra World Wide. Non si riuscì
però a costruirle e i fogli di progetto furono custoditi
scrupolosamente dai reduci per molti anni. Successivamente furono persi
e ritrovati diverse volte, a causa della disorganizzazione durante la
costruzione e l'ampliamento delle comunità sotterranee di
sopravvissuti.
Quando finalmente furono realizzate, il primo ad indossarne una e a
collaudarla all'esterno morì dopo pochi minuti di permanenza
sulla superficie. Da quel momento si capì che il progetto
andava del tutto rivisto; la tuta non doveva assolutamente contenere
carbonio, elemento con il quale la percossite reagiva così
energeticamente da scindersi, provocando una reazione a catena che
avrebbe letteralmente sciolto qualsiasi composto organico. Nonostante i
progressi fatti, presto ci si rese conto che almeno una volta al mese
qualcuno sarebbe dovuto uscire all'aperto per riconfermare o, nella
maggior parte dei casi, smentire l'efficacia dell'indumento protettivo.
Questo perché la situazione peggiorava o migliorava
improvvisamente, sotto tutti i punti di vista, e non si sarebbe potuto
sapere se e per quanto tempo ciò sarebbe perdurato. Quel
qualcuno veniva estratto a sorte dalla comunità, con
l'eccezione di scienziati, disabili, malati, donne incinte e di figure
politicamente importanti. Spesso lo sfortunato eletto non tornava
più indietro, e ciò poteva conseguire per diversi
motivi; la maschera non riusciva più a filtrare a causa del
mutamento della composizione, i tessuti della tuta venivano
danneggiati, lasciando che le particelle radioattive raggiungessero la
pelle, ad esempio. Alla fine di ogni anno veniva eseguita la media dei
sopravvissuti al test, che di solito era del 25%, quindi sui circa
sedici che avevano provato la tuta, solo quattro erano tornati
indietro. E per essere abbandonati come cani sul freddo, buio e ventoso
suolo terrestre bastava davvero poco: anche la cucitura sfilacciata di
un guanto avrebbe emanato il verdetto di condanna al malcapitato. La
fine che avrebbe fatto nessuno la sapeva, ma verosimilmente, nessuno
l'avrebbe voluta sapere.
Alla luce di ciò non poteva che avere ragione chi
sosteneva, di fronte a quello che rimaneva della biosfera terrestre,
che Big Daddy pensò proprio a tutto quando in passato
concepì la sostanza che avrebbe dovuto "porre fine alla sete
di energia sempre maggiore dell'umanità". Egli
considerò soprattutto la proprietà fondamentale
che doveva avere per i suoi scopi, ovvero sterminare rapidamente ogni
forma di vita sulla Terra, e dato che il carbonio è la
componente fondamentale di ogni essere vivente, la pecrossite doveva
scatenare il massimo della propria radioattività proprio a
contatto con questo elemento. Quella macchina superintelligente mise in
atto un piano di conquista del globo che nessuno, nemmeno i suoi
creatori, avrebbero potuto neanche immaginare.
Good, Kurzweil, Vinge, Bostrom... sono solo alcuni dei cognomi di chi,
decenni prima della catastrofe, aveva previsto una
singolarità tecnologica e messo in guardia chi si sarebbe
spinto fino a concretizzarla. Una silenziosissima guerra fredda prese
piede dal 2011 tra chi affermava che un'ultraintelligenza artificiale
sarebbe stata necessaria per il progresso dell'uomo e chi invece
sosteneva che, anche nel caso in cui si fosse manifestata
spontaneamente, si sarebbe dovuto distruggerla al più
presto. Ma fu una lotta tra una decina di pecorelle gracili e indifese
e un'adunanza di lupi rabbiosi e insaziabili. Fu inutile cercare di
fermare il grandioso progetto del Pentagono che interessò le
più grandi aziende elettroniche ed informatiche,
nonché l'esercito degli Stati Uniti e la General Electric.
Per il Project Big Daddy fu addirittura costruito un laboratorio
militare apposito la cui ubicazione fu sempre tenuta nascosta dal
governo USA, e chi riusciva a trovarla spariva nel nulla, anche se
avesse abitato dall'altra parte del mondo. A tutti era chiaro che la
CIA stava fornendo un efficace copertura, intercettando qualsiasi
informazione pubblica o privata che in qualche modo era ricollegabile
all'installazione segreta o a Big Daddy. Ciò nonostante, a
causa delle sempre più frequenti pressioni da parte di chi
rivendicava la Freedom of Information Legislation, la notizia ufficiale
riguardante il programma del Pentagono fu rilasciata alla stampa il sei
di aprile del 2017, data che coincideva con l'inizio della
realizzazione fisica della macchina e con il venticinquesimo
anniversario della morte di Isaac Asimov; probabilmente quella data fu
scelta in suo onore, ma soprattutto perché prima di essa non
erano ancora disponibili le tecnologie necessarie alla creazione di
un'automa capace di imparare dai propri errori ed autocorreggersi.
Quello che successe poi appartiene a un passato troppo distante, troppo
crudele. Per i cittadini delle colonie di superstiti era solo una
sequenza di immagini offuscate dalla rabbia e dallo scoraggiamento,
raccontate dai loro padri o da chi, ormai defunto, riuscì al
tempo ad evitare la morte e a fondare una nuova generazione di uomini.
Ma per Fanny non era così, lei voleva vederci chiaro in
quello che successe poi, perché tutto le veniva nascosto
fin da troppo tempo. Eppure tutto quello che voleva sapere era
lì, in casa sua, rinchiuso in baule metallico
antisfondamento. Con la chiave si sarebbe finalmente aperta la finestra
di orrori che per mezzo secolo fu tenuta chiusa, barricata. Fanny non
era sicura di ciò che avrebbe scoperto, anche se lo poteva
ben immaginare sentendo i discorsi dei suoi istruttori all'Istituto di
Bonifica. Spesso si chiedeva perché nel programma non era
stata inserita la materia di Storia, secondo lei essenziale per
apprendere le dinamiche della "misteriosa sostanza radioattiva". Ma non
era l'unico interrogativo che gli frullava in testa dal mattino alla
sera; ce n'era un altro, forse più importante.
Ogni tanto ascoltava i discorsi degli anziani veterani di guerra che
passavano le loro giornate al bar, a parlare del più e del
meno.Ogni tanto le capitava di sentire la parola "Dio" che, nonostante
a loro fosse vietato pronunciare, scappava di bocca a qualche vecchio,
ma che lei non aveva la più pallida idea di cosa
significasse; così come "preghiera","fede","religione"...
Alla fine riuscì a scoprire soltanto, e con fatica, che la
religione era qualcosa di insito nell'animo umano, che portava l'uomo a
porsi interrogativi sulla propria esistenza e di quella di
ciò che gli stava intorno. Ma lei non la sentiva questa
"cosa" che avrebbe dovuto essere innata in lei; non la percepiva
minimamente e quando cercava di parlarne con i suoi genitori, questi
cambiavano sapientemente argomento, lasciandola spiazzata ma ancora
più decisa. Provò spesso a discuterne con gli
amici, ma loro si interessavano ad altro, non ci pensavano o,
più frequentemente, preferivano navigare in Internet che
porsi quesiti inutili, in aggiunta ai già abbondanti
problemi. Inutile sarebbe stato setacciare la città in cerca
di un un segno, un simbolo, una struttura, una persona, un qualcosa che
le chiarisse le idee sulla questione: tutto ciò che
riguardava la religione, e specialmente Dio, fu marcato come
superstizione già dalla fine della guerra, quindi non ce
n'era traccia in nessun luogo e in nessun individuo.
Fanny ripose il cucchiaio sul tavolo e si recò in bagno per
passarsi un pò di acqua fresca sul viso, ne sentiva bisogno.
Per un attimo si dimenticò dello scarseggiare dell'acqua e
la osservava scorrere dal rubinetto immaginandosi il suono che avrebbe
fatto se fosse stata una cascata, un torrente, un fiume, o anche solo
le onde del mare, tutte cose solamente viste in riproduzioni digitali
sullo schermo del computer. L'acqua era sfruttata al massimo nella
comunità, in quanto elemento fondamentale per la crescita
delle vegetazione che forniva l'ossigeno in tutta la struttura. Veniva
riutilizzata e recuperata ogni qualvolta ce ne fosse stata
l'opportunità e i potenti filtri la rendevano potabile
laddove ce ne fosse stato bisogno.
Fanny era come incantata da quell'elemento rilassante, le rammentava
che l'uomo doveva vivere nella natura e non segregato in stanze
sotterranee collegate da claustrofobiche gallerie. Continuava ad
osservare l'acqua scorrere, quando percepì un lieve
movimento sotto i propri piedi. Si guardò intorno perplessa,
fece qualche passo indietro. Di colpo, poi, una scossa fortissima le
fece perdere l'equilibrio. Riuscì a reggersi ad una tubatura
sul muro e mentre il panico la stava per sopraffare, cercò
di urlare aiuto. Ma fu inutile; grida assordanti e lamenti di dolore
provenivano da tutti i locali adiacenti, e anche dagli appartamenti
superiori ed inferiori. I violenti e sordi rimbombi scuotevano le
pareti tanto quanto il sisma, o almeno fu quello che Fanny
percepì distesa sul pavimento quasi priva di sensi. Si
teneva ancora aggrappata al tubo con una mano, ma lo lasciò
d'istinto appena vide che alcune crepe avanzavano su tutto il muro,
sgretolando le piastrelle. I sostegni del grande specchio cedettero e
con uno schianto questo si frantumò sul lavandino,
disperdendo affilate schegge in tutto il bagno. Ora Fanny era
intrappolata al suolo, se si fosse mossa si sarebbe tagliata ovunque.
Nel pandemonio più totale, cercò di liberarsi dei
pezzi di vetro che l'avevano ricoperta, ma ottenne solamente ferite
sanguinanti alle braccia e alle mani. Stava per perdere i sensi e
rimase a fissare il soffitto mentre il terremoto sconvolgeva l'intera
città; una 'espressione vuota e traumatizzata avanzava sul
suo volto, quando un tonfo assordante proveniente dal piano superiore
rigonfiò il soffitto spargendo nell'aria un pulviscolo
giallastro. Quel colpo la fece ritornare in sé, ma non
riuscì comunque ad alzarsi e scappare. Teneva lo sguardo
inchiodato al soffitto che le stava per crollare addosso e dal quale
stava lentamente facendo breccia la pesante cassaforte. Ogni speranza
di sopravvivere improvvisamente abbandonò i suoi pensieri e,
con il cuore che le stava per scoppiare, le venne spontaneo implorare
aiuto a qualcosa... o forse qualcuno. Non l'aveva mai fatto, ma ne
sentiva il bisogno dentro. Implorava silenziosamente aiuto, nel
più totale silenzio. Chiuse gli occhi per qualche secondo e
svuotò la mente da tutti i pensieri e le paure; un inno
silenzioso alla clemenza gli proveniva spontaneamente dal profondo del
cuore.
Illudendosi che tutto fosse cessato, riaprì gli occhi.
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Capitolo 4 *** Eventi di casuale Provvidenza ***
Capitolo 4: Eventi di casuale Provvidenza
Il grande complesso sotterraneo di abitazioni, laboratori, ambienti di
sostentamento e l'intera rete di gallerie comunicative venivano
martellati da
onde sismiche di eccezionale potenza che si intensificavano sempre di
più,
compromettendo qualsiasi cosa ne venisse colpita.
I secondi oltrepassavano i minuti e sembrava durassero ore. Il tempo
scorreva
inesorabilmente e con lui il sangue che in quei rigidi attimi si
riversava sul
pavimento di ogni locale occupato.
Fanny aveva riaperto gli occhi dopo quella breve quanto istintiva
preghiera, ma
presto fu costretta a richiuderli poiché una polverosa nube
di detriti le si
stava riversando tutt'attorno.
Quasi non riusciva più a respirare a causa della polvere e
dell'angoscia, ma si
fece forza e si scansò quel che bastava per evitare la
cassaforte, che era in
procinto di fare breccia nel soffitto abbattendosi su di lei.
Affrontò il dolore delle ferite alle mani e
consumò le sue ultime forze per
strisciare sul pavimento cosparso di frammenti di vetro. Vedeva
nell'angolo del
bagno l'unica e ultima possibilità certa di non essere
travolti dal pesante
forziere e, graffiandosi tutto il corpo, raggiunse l'angolo della
stanza. Da lì
riuscì a gettare un ultimo sguardo al soffitto che ad attimi
sarebbe franato,
poi perse conoscenza. Un istante dopo la terra smise di emettere le
assillanti
urla di disperazione che per decenni vennero assorbite dagli abissi del
globo.
Ma il pianeta insofferente e sconvolto non sarebbe potuto sottostare
all'oppressione dell'artificioso impero del caos, instauratosi da
quando la
pecrossite infettò il ciclo naturale del mondo. Da decenni
Madre Natura anelava
all'armonia e all'equilibrio del creato, nei secoli sfigurato dall'uomo
e in
quegli ultimi anni dalla sua creazione ultima.
Ci furono periodi in cui Madre Natura sfogava i propri impeti di rabbia
in
devastanti cataclismi che si abbattevano in ogni parte del mondo;
tuttavia
nessuno che appartenesse alle comunità di sopravvissuti ne
era mai stato
vittima o anche solo testimone. Le tuonanti scosse si erano interrotte,
pennellate di luttuosi minuti si susseguivano sulla tela della
dissoluzione,
dipingendo l'effigie della Morte in una cornice intagliata nella
speranza e
adornata dall'inganno. Chi riuscì a scampare alla catastrofe
si aggirava
ininterrottamente per la città in cerca di altri
sopravissuti, finché i propri
polmoni glielo avrebbero permesso. Molte tubature che portavano l'aria
esterna,
tanto irrespirabile quanto fondamentale, erano state recise e le
fuoriuscite
interessavano la maggior parte della città. I condotti di
ventilazione diffondevano
il gas letale nei luoghi dove questo non poteva arrivare a causa delle
barriere
tagliafuoco, che isolavano gli ambienti in caso di emergenza. Ma questa
risultava una trappola mortale per chiunque non avesse altre vie di
fuga, e
anche per chi ne aveva. L'unica soluzione era giungere alle serre che
disponevano di un sistema di filtraggio e di circolazione dell'aria
molto più
efficiente rispetto a quello degli altri locali; se la miscela aerea
avesse
raggiunto le piante queste sarebbero morte asfissiate.
Non era facile però recarsi ai vasti vivai: gran parte della
città aveva subito
un blackout, diverse strutture erano allagate, i tunnel di collegamento
risultavano impraticabili a causa delle barriere tagliafuoco e delle
macerie,
anche se quest'ultimo disagio permise l'isolamento di alcune gallerie
dal gas
tossico. Ma anche se qualcuno fosse riuscito a raggiungere i vivai cosa
avrebbe
fatto poi? I filtri di quell'ambiente, pure potenti, non furono
progettati per
depurare l'aria. Quel compito spettava ai purificatori, che tuttavia
non
avrebbero potuto svolgere il loro compito senza elettricità.
Venticinque secondi. Tanto bastò a decimare gli abitanti, da
diecimila che
erano a un migliaio. Tuttavia numerose vite furono stroncate nei
successivi
dieci minuti a causa delle lesioni, dell'atmosfera, della
disperazione...
Le probabilità che qualcuno riuscisse a salvarsi da una
situazione simile erano
una su un milione; neanche se tutta la popolazione della
città fosse
sopravissuta ci sarebbero state possibilità apprezzabili di
mettersi in salvo.
Passò più di un'ora dal disastro e, se fino ad
allora si sentiva qualche sordo
passo, qualche soffocato colpo di tosse, qualche urla straziante
implorante
aiuto, ora vigeva la quiete e l'oscurità più
totali.
Fanny incominciava a riprendere conoscenza. Riacquisì per
primo il senso della
vista, poi quello dell'udito e infine l'olfatto. Il tatto in
realtà non lo
aveva mai perso, continuamente sottoposto a dolori lancinanti com'era;
furono
proprio quei dolori a risvegliare la ragazza. I suoi occhi erano
offuscati e a
malapena distingueva i colori, si sentiva frastornata e non riusciva
neppure a
rialzarsi. Si fece coraggio e si adagiò con la schiena al
muro. La testa le
girava ancora, ma le forme si stavano delineando e i colori
riprendevano
tonalità. Aspettò ancora qualche istante prima di
portarsi in piedi, mentre si
copriva con una mano il profondo taglio che si era procurata sul
braccio,
strisciando tra i vetri. Appoggiò la testa alla parete
piastrellata che la
fiancheggiava, chiuse gli occhi e fece qualche respiro profondo; quindi
si alzò
reggendosi a un radiatore. Muoversi le era difficile: il pavimento era
seppellito sotto più di mezzo metro di travi, blocchi di
roccia, lamiere e
l'arredo del piano superiore. L'imponente cassaforte era piombata di
sotto
pochi secondi dopo la fine del sisma, incastrandosi con uno spigolo nel
pavimento per poi abbattersi contro la porta, sfondandola.
Fanny si fece faticosamente strada tra le macerie, salì
sopra la cassaforte per
poter uscire dalla stanza ma notò che la serratura del
forziere era sbloccata a
causa dell'urto. Esitò qualche istante, poi aprì
lo sportello. Vi trovò una
dozzina di custodie metalliche, alcune contenenti documenti cartacei,
altre
gettoni metallici colorati: i "crediti" che venivano utilizzati come
denaro. Vide una scatola in particolare, diversa dalle altre
perché di
plastica; racchiudeva dei rotoli flessibili di un materiale che non
aveva mai
visto. Ne prese uno, lo distese e si accorse che lungo
un'estremità si
collegava ad un cilindro ricoperto di pulsanti sottilissimi di ogni
genere. Uno
riportava il simbolo di accensione tipico dei dispositivi elettronici,
così lo
premette: il rotolo diventò luminoso e su di esso iniziarono
a scorrere parole
ed immagini di qualità e fluidità formidabili.
Capì subito che era uno di
quegli arnesi iper tecnologici di cui i vecchi al bar parlavano per ore
e si
ricordò che furono fondamentali per trasportare con
facilità dati di ogni tipo,
quindi avrebbero potuto esserci anche filmati e fotografie della
guerra. Fanny
si trovava davanti a una pila intera di carta elettronica, ideata
ancora prima
del Duemila e progettata per funzionare anche con quantità
di energia minime.
Divenne funzionale ed economicamente accessibile a tutti solo dopo un
quindicennio di miglioramenti e implementazione di applicazioni sempre
nuove,
fino a diventare un eccellente calcolatore mobile dotato di tutte le
funzioni
di un normale computer, e forse anche di più. Come la
maggior parte dei
consegni elettronici, venne deteriorato a causa della pecrossite e reso
inservibile. Tuttavia i superstiti riuscirono, tra le altre cose, a
conservarne
qualcuno di ancora funzionante ma rimasero dimenticati, forse di
proposito, in
una scatola rinchiusa in una cassaforte. Fanny spense la pergamena
digitale e
la rimise nella custodia, che aveva intenzione di portarsi appresso
finché gli
sarebbe stato possibile, per esaminarne i contenuti con più
calma. Ancora non
poteva immaginare però cos'era realmente successo alla
città e ai suoi
abitanti, compresi i suoi genitori. Dolorante e ancora un pò
confusa, si
muoveva barcollando per il piccolo salotto in soqquadro gettando lo
sguardo dappertutto,
nella speranza di ritrovare la madre. Cercò in ogni stanza
della casa, anche in
cucina, dove si legò uno straccio umido intorno alla
profonda ferita sul
braccio. Cominciava a sentirsi debole, non riusciva a chiamare aiuto e
il fatto
di non essersi imbattuta in Franciska appena uscita dal bagno la
rendeva
agitata e maldestra nei movimenti. Il cuore stava accelerando il
proprio
battito, gli occhi stavano lentamente appannandosi e si sentiva la
testa
esplodere. Si apprestava a girare la maniglia della porta d'uscita ma
il
groviglio di dolori e sensazioni non glielo permise;
collassò nuovamente ad un
passo dalla soglia.
Mezz'ora dopo.
Jacob non rispondeva. Ma Nathan insistette, continuando a chiamare il
suo nome.
«Rispondi, maledizione! Passo.» La voce di Nathan
stava assumendo tratti di
nervosismo e paura, ma egli andò avanti a chiamarlo.
Avanti, amico, rispondi. - pensò, fissando la
ricetrasmittente che stringeva
nella mano tremante, poi ritentò.
«Jacob, sono Nathan, mi ricevi? Passo.»
Alla radio giunse un segnale disturbato dal quale si potevano
distinguere urla
e colpi di fucile. Nathan ascoltava terrorizzato, poi all'improvviso la
trasmissione cessò. Nathan urlò il nome
dell'amico alla trasmittente, ma non
riceveva risposta. Si aspettava il peggio, quando dalla radio giunsero
dei
respiri affannati, seguiti dalla voce di Jacob.
«Nathan... sono io... Passo...» disse a fatica.
«Jacob! Grazie al cielo... Sei ancora vivo! In che condizione
ti trovi? Ce la
fai a raggiungermi? Passo.»
«Sto bene, non ti preoccupare... Quell'ammasso di latta l'ho
fatto
accomodare... all'inferno. Ho qualche lieve graffio, ma... non
è nulla in
confronto alla testa... crivellata che quel robot si è
guadagnato. Passo.»
«Ah Ah! L'umorismo è l'ultima cosa che
abbandoneresti, vero? Ora, l'armatura
gli si sta schiarendo? Passo.»
«Lo sta facendo proprio ora. Passo.»
«Cavolo, la nostra sala dei trofei traboccherà se
andiamo avanti così. Bene,
ora sbrighiamoci, raggiungimi nel settore... Dannazione!»
«Nel settore cosa? Nathan, che diamine sta succedendo?
Passo.»
«Ho una traccia di calore sullo schermo! E' molto debole,
devi fare in fretta!
Settore... eh... settore DQ-24, ala est! Vado a controllare, tu muoviti
con
quel maledetto primo soccorso! Passo.»
«Nathan, a che piano? Passo.» Jacob attese qualche
secondo, «Nathan, sei ancora
lì? Ah, al diavolo.»
Ma Nathan aveva già riposto la radio ed il visore a
infrarossi nello zaino e,
indossando la maschera antigas, correva verso l'obiettivo. Jacob si
diresse
alla successiva barriera tagliafuoco che doveva manomettere per poter
raggiungere
l'amico e soccorrere la persona che Nathan aveva individuato.
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