It had to end di DarknessIBecame (/viewuser.php?uid=126865)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***
Capitolo 1 *** Capitolo primo ***
Nelle ore successive al terremoto peggiore mai accaduto a Starling City, era rimasta sola.
Sola e abbandonata in uno scantinato di cui nessuno sapeva l’esistenza o almeno, di cui nessuno sapeva l’esistenza con lei dentro. Aveva pianto, si era nascosta sotto alla scrivania, aveva riportato alla mente tutte le nozioni che poteva ricordarsi sui terremoti (anche se questo era tutt’altro che una catastrofe naturale) ed aveva contato i secondi, i minuti, fin quando tutto le smise di vibrare intorno.
Da quando aveva cominciato a lavorare con il Vigilante, si era trovata diverse volte in situazioni di pericolo; questa non era da meno ovviamente, ma qualcosa era cambiato. Qui non c’era nessun nemico da prendere, non c’era scopo nel suo rimanere in quel luogo, se non finire sotto una delle travi che sicuramente sarebbero cadute a breve.
Quindi non c’era nessuno che sarebbe arrivato a salvarla, perché non era utile a nessuno in quel momento.
Nessuno le chiedeva di rimanere lì e salvare la sua vita; per questo decise di tentare il tutto per tutto da sola, come sempre da quando aveva perso i genitori. Se l’era sempre cavata, escogitando geniali stratagemmi per tirarsi fuori dai guai con le sue sole forze. Certo, i guai di cui parlava erano proporzionati alla tediosa vita da tecnica informatica, ma ogni volta si ripeteva che SE avesse voluto, SE avesse ceduto, SE avesse accettato, ora sarebbe a New York con ben diverso incarico.
Un altro dei piccoli segreti che Felicity Smoak teneva nel cuore, celati ai più, probabilmente a tutti anzi, tranne che a se stessa.
Sospirando, quando aveva capito che le scosse di assestamento si erano placate, sbirciò da sotto la sua posizione coperta e vide un percorso ad ostacoli che avrebbe dovuto superare se avesse voluto uscire e respirare di nuovo dell’aria pura.
Non si chiese neanche dove fossero Mr Queen e Mr Diggle, sapeva solo di dover uscire da lì in fretta e che probabilmente loro due stavano facendo qualcosa di eroico. Oppure erano già al sicuro nelle loro case, con qualcuno accanto che li amava incondizionatamente.
Non si fermò a pensare all’invidia che scorse nelle sue vene, a come era tornata alla formalità con cui aveva pensato ai loro nomi. Tutto quello che aveva pensato, mentre il suo sangue bagnava il pavimento pieno di vetri e calce - ironia dell’ironia, una delle frecce dell’Incappucciato le si era conficcata nella carne della coscia mentre cercava di strisciare sotto un pesante pilone che da un momento all’altro avrebbe potuto caderle sulla schiena, lasciandola paralizzata come minimo – era che se avesse stretto i denti ancora un po’, sarebbe riuscita ad uscire da quella trappola segreta, lasciando indietro quella vita.
Non poteva sbagliarsi di più, lo sapeva.
Ma Felicity Smoak non era una che si dava facilmente per vinta e l’avrebbe spuntata anche quella volta: ci fossero voluti mesi, ma ce l’avrebbe fatta.
La prima telefonata arrivò a casa 15 ore dopo.
Sospirando, aveva lasciato che la sua tazza fumante di tè si freddasse sul tavolino ed aveva afferrato il cordless, rispondendo con stanchezza.
La sorpresa nel sentire che il Detective Lance si volesse accertare della sua salute, l’aveva colpita nel profondo. Ringraziandolo, sentì il cuore riscaldarsi giusto un po’, dopo il gelo di quelle 17 ore.
17 ore dall’ultima volta in cui uno dei suoi due guardiani si fosse preoccupato di chiedere dove fosse, o come stesse.
Per la verità, aveva lasciato cellulare e tablet – e computer distrutti – nel sotterraneo. Una vibrante dichiarazione di non voler essere cercata. Quindi forse la colpa era sua, ma no…entrambi i due uomini erano testardi e si preoccupavano per lei, no?
Quando 24 ore totali passarono, portando più e più telefonate al suo numero fisso, capì che forse si era sbagliata prima, ma che aveva avuto ragione da quando era tornata alla sua macchina.
La tecnica bionda non era poi così importante, per il Team dell’Incappucciato.
Sorrise amara nella tazza del tè, preparandosi all’inevitabile.
Un suo amico medico era passato, giusto il tempo di controllare le sue ferite.
L’aveva chiamata per accertarsi che stesse bene, lui viveva in una delle città confinanti e l’avevano richiamato al lavoro insieme ad altri volontari, negli ospedali di Starling City.
Aveva sentito la voce dell’amica tremare ed era corso lì qualche ora prima, guardandola con occhi stupiti per la ferita più grave che avesse mai visto sul di lei.
Palmi di mani e piedi graffiati, pieni di vetri, quello sì. Ginocchia con lo stesso problema, guance segnate da solchi, un bernoccolo al lato della tempia dove aveva sbattuto contro la scrivania quando una seconda scossa di assestamento aveva colpito l’area…ci potevano stare.
Ma lei non aveva risposto alla domanda “dov’eri ieri sera” e neanche a quella silenziosa sul perché avesse una ferita da taglio così profonda sulla coscia, una che non avrebbe assolutamente dovuto essere lì, se i calcoli di lui erano esatti.
La noiosa, tranquilla Felicity con una ferita da arma sulla gamba?
Era semplicemente impossibile.
Lo sguardo preoccupato dell’amico però non riuscì a farla sentire grata.
Stava ancora fissando lo stesso punto di quando quel fantasma dal passato era arrivato e aveva fatto la sua comparsa, nel momento in cui suonarono alla porta.
Ci mise un po’ a riprendersi, i pungi che battevano contro il legno chiuso a doppia mandata facevano tanto rumore che per un attimo pensò di sognare, o che quei colpi non fossero rivolti al suo appartamento.
“Felicity, lo so che sei lì dentro, apri! Ho visto la tua macchina di sotto!”
Immediatamente sentì la bile salire il condotto esofageo e fare prepotentemente pressione in gola, ma si bloccò dal vomitare sul suo divano e si mise in piedi, una coperta avvolta attentamente attorno al corpo per non mostrare alcuno dei suoi traumi ed il respiro da tenere sotto controllo mentre rispondeva a John Diggle, il primo dei due che veniva a trovarla dopo due giorni di silenzio totale.
“Sto arrivando, scusa…dormivo.”
Bugia, urlavano la sua mente ed il suo corpo, ma come altro avrebbe spiegato all’uomo il suo stato?
Era un bravo osservatore, il suo impiego lo richiedeva.
Fece scivolare i lucchetti via dalla porta e la aprì leggermente, impedendogli di guardare dentro a causa del suo corpicino appoggiato allo stipite. Non poteva permettergli di sapere che era rimasta ferita nel tentare di uscire da LI’, quindi doveva rimanere immobile e col peso sulla gamba sana.
“Non mi fai entrare?”
“No.”
“Oh.”
“Sì?”
“ Stai bene?”
“Ovviamente. Qualche graffio che un amico ha sistemato, tutto qua.”
Digg aveva visibilmente trasalito alle sue parole ed era sicura che avevano colpito nel segno. A lei non interessava minimamente, ma sapeva che era sempre lui “l’amico” che curava le sue ferite e quelle di Oliver. Sicuramente sapere che qualcuno aveva dovuto farlo al posto suo lo stava facendo sentire in colpa.
Eppure qualcuno poteva incolpare lei, per non sentire assolutamente niente di fronte a quella reazione?
Rimase semplicemente in silenzio, trattenendo l’espressione di dolore per la gamba via dal suo volto e sostituendola con pura e semplice noia. Fastidio, se avesse dovuto scommettere.
“Quindi…?”
“Cosa?”
“Cosa sei venuto a fare, scusa? Se volevi sapere come stavo, potevi semplicemente chiamare.”
“Hai lasciato tablet e cellulare sotto al Verdant, Felicity.”
“Va bene. Ora non preoccuparti, torna da Carly e da tuo nipote. Mi farò sentire quando avrò riposato ancora un po’.”
“Oliver se n’è andato…è scomparso.”
Se c’era stata scintilla di vita nei suoi occhi in quei due giorni, sicuramente era stato in quel secondo.
Ma, se leggeva bene l’espressione di Mr Diggle, era durata ben poco nei suoi occhi.
“Ok, allora ci risentiremo se avrai sue notizie in qualche giorno, va bene? Se tra una settimana non sarai riuscito a trovarlo, fammelo sapere. Ti aiuterò io. Per ora sono solo molto stanca. Buon proseguimento.”
Senza neanche dargli la possibilità di ribattere, gli aveva chiuso lentamente la porta in faccia, salutandolo con un cenno del capo e quello che credeva essere un sorriso stanco.
Semplicemente però, non aveva capito che John le stava dando del tempo per digerire la cosa, divorato dalla colpa di aver dimenticato Felicity per 48 ore intere, abbandonandola quando probabilmente lei era l’unica a non avere nessuno su cui potersi abbandonare.
Ecco. Io ci ho provato. Mi volete davvero tanto male ora? Spero proprio di no. Non so cos’altro dire se non…fatemi sapere se fa davvero tanto schifo, posso sempre lasciarla così com’è e concluderla qui. Altrimenti, vedrò di completare i 3 capitoli mancanti alla fine della storia il prima possibile.
Appena li avrò finiti andrò avanti col secondo, così da potervi assicurare almeno un chap a settimana.
Al solito, questa è per la mia Ainwen, ma stavolta la dedico anche a GirlOnFire, che mi segue sempre e si impegna a recensire tutte le mie cavolate. Siete magnifiche. <3
Un bacio
Dark/Vevve |
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Capitolo 2 *** Capitolo secondo ***
Capitolo
due.
Aveva avuto ragione anche quella
volta: non sarebbe stato
facile scappare dallo sguardo vigile ed attento di John, ma fare leva
sul suo
senso di colpa per evitare di parlare troppo e di svelare
ciò che aveva in
mente era stato facile.
Dopo una settimana non c’era stata alcuna notizia sul loro
datore di lavoro,
lei aveva cominciato a guarire e Mr Diggle era passato a trovarla
ancora.
Fortunatamente si era fatta la doccia, sistemata, aveva provato ad
uscire e poi
aveva deciso di rimanere a casa, quando la andò a trovare la
prima volta.
Facendolo entrare, lui aveva notato il suo zoppicare ed aveva alzato un
sopracciglio, sospettoso.
Lei aveva stretto i denti cercando di non dar troppo a vedere quanto
facesse
male e dove fosse di preciso la ferita, ben coperta da shorts e
pantaloni
spessi della tuta.
Tanto faceva freddo in casa sua e lei non riusciva a curarsene.
Non
aveva smesso totalmente di mangiare. Semplicemente, non ne sentiva il
bisogno.
Lavorava incessantemente da sola, giorno e notte, senza dormire quanto
davvero
le servisse e sapeva che questo cominciava a vedersi sul suo volto, nel
fisico
che a malapena riempiva gli abiti e nel volto pallido e segnato da
pesanti
ombre.
Un po’ si sentiva come Mr Queen, in quei giorni; rimetteva a
posto la sua
“Arrow Caverna” ed apportava miglioramenti. Teneva
il suo segreto e cercava
l’unica persona che ora fosse più importante di
quella lista nel libretto che
l’aveva portata nel baratro in cui viveva al momento: per chi
fosse importante
poi, non se ne curava. Aveva una missione ormai, cercare Oliver Queen,
riportarlo nel mondo dei vivi e poi andarsene da lì, il
più in fretta
possibile, senza voltarsi indietro. Ci vollero 3 mesi e mezzo
perché riuscisse
a sistemare il seminterrato, senza l’aiuto di Diggle.
Certo, lui aveva già fatto ripulire e sistemare ogni
centimetro del Verdant e
del loro nascondiglio, ma lei aveva rimontato ogni pezzo di mobilio,
sistemato
con precisione ogni freccia e ricucito alla perfezione il suo costume
da
vigilante.
Avere uno scopo tutto suo le ridava vita e, seppure sapesse di essere
cambiata
nel profondo, non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che
se la sua
innocenza doveva finire così, se in questo modo doveva
aprire gli occhi sul
mondo, forse c’era qualcos’altro di meglio ad
aspettarla.
Quando questa Felicity speranzosa faceva capolino, lei la ributtava
giù, in
fondo al suo cuore gelido, sapendo che ne avrebbe avuto bisogno per
continuare
a respirare e riscaldare il suo corpo nelle notti fredde di quei mesi.
Ci
vollero ancora 2 mesi prima che riuscisse a scoprire la posizione del
nascondiglio di Oliver Queen.
Non aveva smesso di lavorare un attimo, non aveva parlato con nessuno;
aveva
cominciato a frequentare una palestra ed aveva ripreso a mangiare,
sperando che
le forze tornassero per il viaggio imminente che l’aspettava,
insieme a John.
L’ex militare aveva cercato di riavvicinarsi, ma quello che
c’era tra loro
ormai si era rotto.
Lei si costringeva a sorridere, a parlare con la gente, era tornata a
lavoro ed
aveva accettato l’invito del suo amico dottore più
di una volta per una cena
fuori, che aveva portato ad un paio di notti tra le lenzuola ed
altrettante
mattine di imbarazzo, prima di capire che non sarebbe andata tra loro.
Non c’era più entusiasmo o affetto rimasto in lei,
nei suoi giorni, nella sua
routine.
Tutto si riduceva all’incessante lavoro che portò
finalmente i suoi frutti in
una notte di fine estate.
Chiamò immediatamente Mr Diggle, si diedero appuntamento
sotto casa sua e lei,
con la sua borsa già pronta per quella precisa evenienza,
non lo fece
attendere.
Ci
vollero 3 giorni di voli e
ritardi, un altro ancora di jeep per raggiungere la giunga in cui si
nascondeva
Oliver ed un volo su una liana insieme a suddetto, stupido, uomo, per
riportarlo indietro.
Non incrociò il suo sguardo, non seriamente, neanche una
volta da quando
l’aveva rivisto a tirare con l’arco, distruggendo
il povero tronco di un albero
innocente.
Avrebbe dovuto aspettarsi, dal disastro che c’era
lì intorno, che più di quanto
pensassero fosse capitato in quel luogo; solo quando lui la prese per
la vita
ripetendo “tieniti stretta a me” capì
che qualcuno era di nuovo alle calcagna
del Queen dell’isola, facendola volare in mezzo a quel folto
ed afoso
paesaggio.
Il problema che entrambi gli uomini notarono, era nascosto in cosa
Felicity non
faceva, più che in quel che faceva.
Parlare, ad esempio. Blaterare, per la precisione.
Ogni tanto, nei mesi precedenti, le era capitato di farlo al lavoro, ma
non con
loro due lì: si era trattenuta ed era stata il
più formale possibile e, se la
stretta di Queen l’aveva fatta arrossire più del
dovuto, non l’aveva dato a
vedere.
Era stato lui in effetti a tenerla stretta; lei gli aveva gettato le
braccia al
collo solo per dare una parvenza di paura, di cura per la propria
persona. Non
aveva rivolto il viso verso di lui, non aveva affondato il naso nella
sua
spalla come quella volta nell’ascensore: semplicemente aveva
guardato in basso,
lontano dall’esplosione, sperando che
non le scivolassero gli occhiali dal naso.
Non aveva pensato a portarne un paio di ricambio e
l’umidità lì le avrebbe
impedito di mettere le lenti.
Anche il
viaggio di ritorno era passato in silenzio.
Non riusciva più a contare quante volte avesse sentito uno
sguardo o l’altro su
di sé, mentre lei lavorava al suo tablet e lasciava che gli
altri due avessero
silenziose conversazioni sopra la sua testa.
Non le interessava, sinceramente.
Stava acquistando un biglietto e ripassando mentalmente tutte le cose
che
poteva aver lasciato fuori dalla valigia: non appena terminata la
ricostruzione
del sotterraneo, aveva fatto i bagagli ed ora erano nascosti
nell’armadio, dove
John non potesse trovarli a vista e lei potesse continuare a metterci
dentro le
cose che man mano non le saprebbero più servite a Starling
City.
Quando decise che c’era tutto quello che doveva possedere,
alzò uno sguardo
sicuro ed un sorriso pieno di
soddisfazione ma freddo sugli altri due, giusto qualche secondo prima
di
atterrare.
Scappò quasi subito dopo dalla loro presa immaginaria,
dichiarando di avere un
appuntamento importante, mentre invece doveva solo pianificare il resto
dei
suoi 5 giorni lì.
Li aveva rivisti solo
un’altra volta, così come da
programma.
Una volta alla Queen Consolidated, durante un meeting programmato con
una
signora che sembrava più una signora del male che una
tranquilla donna d’affari
col fiuto per le aziende con l’acqua alla gola.
C’erano stati vetri rotti, altri voli attaccata ad Oliver,
altri vetri rotti e
la riapertura della sua ferita alla coscia per colpa di un taglio
dovuto a
quegli stessi vetri, ma tutto era passato in un attimo,
perché poco dopo c’era
stato il ritorno alla “Caverna”, per cui si era
battuta.
Poteva sembrare che gliene importasse davvero, di loro, di lui, della
città… da
qualche parte dentro di lei era ancora così, ma la scorza
molto più dura che la
circondava le diceva solo di farla finita presto e di uscire da
lì.
Li guidò con un passo sicuro, sui suoi tacchi scuri e alti,
pensando a quando
avrebbe potuto cambiare finalmente colore e tornare al suo rosso scuro
naturale. Nessuno lo sapeva ma quello era l’unico segreto che
Oliver custodiva
per lei, e solo in parte.
Non voleva più dare così tanto
nell’occhio, come sotto le nuove luci
magistralmente posizionate che mostravano il nuovo e migliorato rifugio
del
vigilante.
Solo per un attimo si permise di incrociare gli sguardi di John ed
Oliver,
lasciandosi prendere dall’orgoglio per il suo lavoro, ma
proprio quando sentì
qualcosa della vecchia lei tornare in superficie, la
superficialità della sua
presenza lì si fece sentire nelle parole del miliardario,
che già rimetteva
attenzione su di sé, prima di dire grazie.
Gli aveva lasciato un biglietto nel taschino della giacca, lasciata
appesa
all’entrata, proprio prima di filare in ritirata su per le
scale.
Aveva i tacchi in mano e non si era girata neanche un attimo a
guardarli
discutere e progettare e lasciarla indietro.
No, questa volta era lei che li lasciava indietro e non poteva farne a
meno.
Le poche parole vergate sul biglietto immacolato furono uno shock per
Oliver,
non tanto per Diggle che aveva aspettato una cosa del genere dalla
prima volta
in cui l’aveva rivista dopo il disastro.
Non l’aveva fermata solo perché…
perché sapeva che l’unico a cui avrebbe dato
retta sarebbe stato l’uomo che gli stava di fronte, un
biglietto di carta
stritolato nella mano destra ed il respiro accelerato.
Addio, ad
entrambi.
I'm back! Non ci speravate più, lo so. Perdonatemi, ma sono
stata un po' impegnata, un po' male ed un po' non volevo disturbare la
mia adorata beta per questo chap.
Volevo pubblicarlo, perché presto spero ci sarà
un'altra cosina a tenervi occupati e...niente.
Grazie mille per tutte le recensioni lasciate ad ogni storia, non
sapete quanto ci tenga e quanto siano tutte importanti per me.
Baci
Dark/Vevve
|
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Capitolo 3 *** Capitolo terzo ***
Ogni loro tentativo di rintracciarla
era stato vano,
ovviamente.
Sapeva come muoversi in un casinò, sapeva come muoversi
nella caccia alle
streghe di Starling City, come non farsi trovare persino se avessero
chiesto a
qualcuno di cercarla.
La nuova tinta, il nuovo lavoro, il farsi chiamare Megan Finch dopo
aver
spiegato ai datori di lavoro che non voleva più farsi
trovare dal suo passato… tutto
aveva contribuito.
E quindi perché quell’inquietudine, man mano che
sentiva scivolare i mesi addosso?
Non riusciva a dormire bene, non riusciva a ritrovare se stessa, si
sentiva
monca in posti dove neanche pensava ci fosse più qualcosa e
combatteva ogni
notte per dimenticare certe sensazioni.
Bisogno.
Disperazione.
Solitudine.
Colpa.
Curiosità.
Sospetto.
Paura.
Sospetto, di nuovo, ancora.
Era come se si sentisse sempre sotto costante vigilanza da almeno due
mesi e,
se davvero Oliver l’aveva trovata, non capiva
perché rimanesse nell’ombra a
spiarla.
Aveva deciso di nascondersi in piena vista.
Dopo quattro giorni di voli e scali e prenotazioni in hotel che non
aveva mai
visto o fatto, aveva comprato un biglietto del treno e si era
trasferita in una
cittadina di campagna a 15 km da Starling City, dove la tecnologia era
poco
benvenuta e dove nessuno la conosceva ma tutti erano al corrente chi vi
abitava.
Attirò subito l’attenzione dei giovani e dei
vecchi, di ogni bambino ed ogni
mamma, dei potenti e dei più poveri.
Probabilmente avevano provato pietà per lei e le avevano
trovato una camera
nell’unica locanda della città,
l’avevano riempita di cibo e cure. Le sembrava
quasi di essere finita in Once Upon a Time, anche se non era
più bionda e non
era uno sceriffo, ovviamente.
E non c’era magia, nel suo mondo.
Aveva
passato 5 mesi ad ambientarsi, conoscere persone, rifarsi una vita e
rifiutare
uscite troppo “pericolose”.
Aveva ricominciato a sorridere un po’ di più,
aveva evitato di guardare i
telegiornali riguardanti S.C. ma si era tenuta informata sul resto del
mondo e
sulle più attuali tecnologie.
Aveva affittato un appartamento sotto falso nome e con una carta di
credito che
teneva per le emergenze, aveva trovato lavoro nell’ufficio
del Sindaco come
segretaria personale e risolveva la maggior parte delle volte tutti i
pochi
guai che circondavano quel paesino, perché lei era la
ragazza di città che
sapeva cavalcare ad occhi chiusi, quindi era quella a cui tutti
chiedevano
aiuto.
Si sentiva desiderata e utile; indispensabile.
Sentiva ferite chiudersi, lentamente e con fatica, su loro stesse,
cadendo nel
dimenticatoio.
Certo, trovava noia in ogni giorno, ma la frigida Megan stava lasciando
il
passo alla piccola Felicity, quella che sperava in una nuova
possibilità, una
in cui non avesse dovuto ricordare più sangue di quanto
avesse mai immaginato
sulle sue mani.
La
notte era un altro paio di maniche.
Tremante sotto le coperte, rivolgeva gli occhi spalancati alla finestra
della
camera fin quando lo sfinimento non la avviluppava nelle sue braccia
mortali.
E nei suoi sogni si ritrovava gelida, piangente ed accusata da tutti i
suoi
nuovi conoscenti per la morte di tante vite da poter essere considerata
alla
stregua di una piccola dittatrice pazza.
Si svegliava ogni notte ancora, dopo 10 mesi, col sudore freddo ad
attanagliarle il corpo, inzuppando vestiti e capelli, mentre
ringraziava il
cielo di aver dormito almeno 3 ore in una notte.
Scivolava in doccia e poi accendeva la tv, collegandola al portatile e
permettendo al suo netflix di far scorrere liberamente immagini di
serie di cui
non le importava più molto.
Si distraeva così, preparando il caffè nel bel
mezzo della notte, scalza ma già
vestita di tutto punto per la giornata successiva, i capelli rossi
liberi e
ricci sulle spalle, perché così lì
dovevano conoscerla.
Più libera, più alla loro portata, più
come loro.
Mai come la se stessa del passato.
La notte
in cui il passato tornò a farle visita, si sentì
tradita dal suo stesso corpo.
Avrebbe dovuto essere spaventata, arrabbiata, pazza nel trovarlo ai
piedi del
suo letto con una mano sulla ferita che partiva dal ginocchio e lunga
si
estendeva fino a metà coscia.
Un sospiro invece uscì liberatorio dalla sua bocca e gli
occhi si chiusero,
l’inspiegabile sensazione di sicurezza che provava ogni volta
che lui la
toccava di nuovo forte nel suo petto a farla ricadere in un sonno
tranquillo.
Svegliandosi più tardi, si
accorse di essere scivolata al
centro del letto, di qualcosa di caldo al suo fianco e del sole che
splendeva
fuori dalla finestra, come se non fosse neanche estate.
Cercò di capire cosa stesse succedendo e se la sera prima
non si fosse per caso
ubriacata finendo a letto con uno sconosciuto.
Ma il pigiama era lo stesso, il suo corpo non reagiva come avrebbe
dovuto dopo
una notte di sesso ed il profumo che proveniva dalla persona al suo
fianco era
troppo familiare per non capire di chi si trattasse.
Aprì immediatamente gli occhi e la prima cosa che fece fu
alzare lo sguardo.
Oliver la stava osservando attentamente, gomito poggiato sul letto per
sostenere la testa con la mano e rughe profonde a solcarne la fronte.
“Non ha il diritto di
essere qui, preoccupato per me.”
La prima frase che gli diceva dopo
quasi un anno.
Non si stupì nel sentire la sua voce rotta
dall’emozione, ma neanche nel
sentirla così piena di rabbia.
“Sono passati 11 mesi,
Felicity. Un anno. Devi tornare a
casa tua. Devi tornare e basta. C’è gente che ha
bisogno di te.”
Lo schiaffò che
partì subito risuonò nella piccola stanza e
restò impresso nelle menti di entrambi come qualcosa di
surreale ma al tempo
stesso realissimo, come se tutti i loro gesti in quei due anni
dovessero
portare a quel modo di sfogare la frustrazione.
“Ho sempre pensato che, al
nostro primo schiaffo, saremmo
stati sotto al Verdant a litigare, tu che cercavi di curarmi ed io che
non te
lo lasciavo fare. Direi che questa è una delle tante cose in
cui mi sono
sbagliato, non è così?”
Stava quasi per partire un secondo
schiaffo ma, con tutta la
facilità di questo mondo lui le bloccò il polso
prima che raggiungesse il suo
volto, così che solo le unghie più lunghe e
pulite da ogni smalto arrivassero
alla sua guancia.
La rabbia che le ribolliva dentro era tanta che si fece male per
strappare
l’arto dalla presa dell’uomo, scappando
immediatamente via da lui e da quel
letto che fino a quel momento era stato vissuto solo dalla ragazza.
Anche per questo si arrabbiò, perché quella vita
era incontaminata, come la sua
casa ed avrebbe voluto che almeno qualcosa, intorno a lei, non dovesse
ricordarle di chi era prima.
Invece lui doveva starsene lì, perfetto nella tuta scura e
la T-shirt che
abbracciava il suo petto in modi che non voleva più
ricordare. Che ricacciava
dai pensieri ogni volta che tornava a pensare a cosa fosse stato per
lei il
periodo da aiutante di Oliver Queen.
“Se per lei il mio aiuto
non è valso mai così tanto, non
dovrebbe essere qui. Non dovrebbe essere qui perché non la
voglio qui. Non
voglio più niente della mia vecchia vita e non deve
più permettersi di dire che
qualcuno ha bisogno di me, lì.
Nessuno
ha mai avuto veramente bisogno di me, a Starling City. E grazie a lei,
Queen,
sono riuscita ad accorgermene. Quindi ora può tornare per la
sua strada ed
evitare di riversare su di me il suo senso di colpa. Non
c’è niente per cui
sentirsi in colpa, la Felicity che conosceva è morta dopo
aver fatto pace con
se stessa. Quindi vada a piangere qualche lacrima da un’altra
parte, non la
voglio qui.”
Questo schiaffo,
Oliver, non
avrebbe mai potuto fermarlo.
Ce l’abbiamo fatta! Anche questo
terzo capitolo è up e
ringrazio come sempre GirlOnFire per il suo ingrato compito di beta,
che svolge
mooolto efficientemente.
As usual, la storia è dedicata ad Ainwen e se
poteste…non lo so, farmi sapere
cosa ne pensate?
Il chap 4, già pronto, lo metterò quando
riceverò la 3/4 recensione, almeno
riesco a capire se piace o no e se devo andare avanti. L
Se volete, as usual, mi trovate qui (https://www.facebook.com/pages/DarknessIBecame-autore-EFP/237740276376846) per qualsiasi cosa.
Ps questa storia avrà un happy ending, alla fine, anche se
non ne ero troppo
convinta quando l’ho iniziata.
Spero restiate con me anche se la nuova
stagione è alle
porte e quindi questa sarà solo un’altra FF di
fantasia!
Baci
Vevve/Dark
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quarto ***
Persino per i suoi gusti, sapeva di
essere stata troppo dura
con Oliver.
Ma quante volte si sogna di poter dire a qualcuno quel che si pensa,
magari
quando è troppo tardi per poterlo dire?
Lei non avrebbe
avuto una seconda
possibilità, perché prima di tutto non voleva
rivedere quel volto, mai più.
Era stata molto chiara, su questo.
E poi davvero, una persona con ego più grande di quello di
Oliver non esisteva
nella sua cerchia di amicizie. Lei ci era andata giù pesante
e con intenzione
di ferirlo. Cosa poteva essere quel poco, al confronto con una fiducia
tradita?
Lui sapeva come ci si sentisse in una situazione del genere: feriti,
soli,
abbandonati. Impauriti ed offesi, senza più un briciolo di
amor proprio perché
se gli altri non avevano più rispetto per te, allora a cosa
serviva tenerlo
stretto al petto?
Quello non era uno smacco, era stato uno schiaffo in piena faccia,
solido e
doloroso come il dolore che ancora sentiva al cuore; faticoso come
quando di
notte provava a respirare nel buio della sua camera senza riuscirci e
finiva
sempre nell’angolo più lontano dal letto,
guardando la luce illuminarlo e
sperando di potervi tornare, sapendo che niente e nessuno le avrebbe
ridato il
suo posto in quella luce.
Lei l’aveva persa, la sua luce. Aveva perso
un’innocenza a cui neanche si era
accorta di essere rimasta aggrappata per 23 anni.
“Felicity, lascia
che…”
Il filo di pensieri fu interrotto
dalla voce di Oliver e per
un attimo gliene fu grata perché sentiva tornare il panico;
l’abisso si stava
riaprendo sotto i suoi piedi e lei non era mai stata tanto in
equilibrio
precario sul suo bordo come quella notte. Alzò
involontariamente una mano,
fermandolo dal continuare a parlare e tremò nel constatare
che questo l’aveva
solo spinto ad avvicinarsi.
Quando avrebbe perso tutta la testardaggine, Queen?
Era impossibile farlo ragionare, certe volte.
Ma lei non era più la donna che lo conosceva, no? Non era
neanche più la sua
spalla, non era più niente. Aveva scelto di non esserlo ed
al tempo stesso la
scelta era stata fatta per lei.
Per il capriccio di una notte si era rovinato un mondo costruito su
misura per
il loro Team; ma alla fine chissà, semplicemente ora avevano
più spazio senza
di lei.
“Non faccia un altro passo.
Sono a tanto così dal prendere
il mio cellulare e chiamare lo sceriffo. Mi sto trattenendo solo
perché lei
assomiglia a qualcuno che conoscevo, un tempo.”
Spostò gli occhi prima
dell’ultima frase, fissandoli sulla
finestra alle spalle di Oliver perché sicuramente anche
questo doveva averlo
ferito.
Non avrebbe saputo spiegare l’esatto momento in cui
l’uomo nella sua camera
cedette, ma senza che si muovesse un muscolo di quel corpo statuario,
lei seppe
immediatamente di aver vinto.
La battaglia?
La guerra?
Forse solo un momento per riordinare le idee.
“Lo so che sono stato
imperdonabile, un coglione di prima
categoria, ma…dovevo salvarli. Dovevo salvarne quanti
più possibile. E ora tu…”
Non riuscì a finire la
frase, lasciando che la sua testolina
geniale vagasse nel cercare quali parole avrebbero concluso quella
scusa
raffazzonata.
E ora tu non vuoi più fare ricerche per me?
Sei scappata e non so cosa dire ai tuoi capi nella mia azienda?
Sei arrabbiata con me e odio far arrabbiare le donne, perché
sono sempre stato
un playboy da strapazzo?
“…hai finalmente
capito che non era salutare starmi vicino.
Quante volte io abbia desiderato vederti sparire, nei primi mesi, non
puoi
immaginartelo. Eri un peso, eri una preoccupazione, qualcuno col mio
fardello e
nessuna capacità di proteggersi. Il vecchio Oliver penso ti
odiasse. Anche se
infondo sapevo che era semplicemente perché non volevo dare
a vedere quanto
avessi bisogno di te. E quando bene tu facessi alla nostra squadra.
Digg ancora
non se lo perdona, sai? E dopo aver visto cosa ti è
successo…”
Aveva parlato e con la stanchezza nei
passi si era diretto
verso il suo letto matrimoniale, accasciandosi ai suoi piedi e sedendo
in
terra, gambe al petto e viso rivolto alla finestra. Non si era mosso,
ma
all’ultimo aveva indicato con un cenno del capo verso di lei,
accompagnando il
gesto con un roteare della mano nell’aria, quasi la lista di
quel che le era
successo fosse lunga ed inutile da elencare.
“Cosa mi sarebbe successo,
di grazia? Almeno lo sai, che mi
è successo?”
Inconsciamente era tornata a dargli
del tu, forse perché non
era mai stata una persona troppo cattiva o forse perché
– e le sarebbe costato
ammetterlo, più tardi quella notte – lei
così lontana da Oliver Queen non
sapeva stare. Già vederlo
tanto
vulnerabile nella sua camera la stava cambiando, stava modificando il
nuovo
stile di vita di cui si era accontentata e riportava a galla emozioni
che
pensava non solo di aver soppresso, ma cancellato a causa dei mille e
più
attacchi di panico che avevano come centro tutto quel che era successo
con lui.
Aveva anche fatto qualche passo avanti, tanto che le ginocchia
toccarono il
materasso senza che neanche se ne accorgesse e lui dovette girare il
capo per
accorgersi che qualcosa stava cambiando. Lo sapeva, aveva notato tutto
come
notava sempre tutto. Solo che questa volta stava notando lei e tutto
ciò non le
andava giù. Non voleva che la notasse adesso, dopo il mare
di dolore nel quale
l’aveva gettata.
“Ne sono dolorosamente a
conoscenza, sì. Penso di stare
ancora guarendo da un paio di costole incrinate: Digg voleva farti
avere un
regalo, visto che sapeva che mi ero deciso a parlarti. Mi ricorda
costantemente
la mia parte in quello che ti è successo e…non ce
la faccio più a vederti
soffrire ogni notte, ho smesso di contare quante volte avresti dovuto
sorridere
e invece non l’hai fatto…sai quanto può
essere doloroso sapere di aver spento
la tua gioia? Ogni notte mi odio di più, vengo qui e ti
guardo dormire. E’
l’unica punizione che devo avere. Arriva più a
fondo di qualsiasi tortura che
abbia mai subito. E non è neanche la metà di quel
che provi tu, me ne rendo
conto.”
“Non mi interessa, Queen.
Punisciti e soffri quanto vuoi, ho
smesso di preoccuparmi per te. L’ho fatto troppo e tu non hai
mai nemmeno detto
grazie, non quando contava davvero.”
Non era davvero così. Non
era vero che non le interessasse.
Internamente sentiva che qualsiasi cosa l’avesse bloccata
fino a quel momento -
quella presa intorno al cuore -, si era allentata di poco.
Pochissimo.
Ma le stava permettendo di respirare più liberamente e non
voleva, non voleva
che Oliver trovasse di nuovo una via per avvicinarsi a lei. Non voleva
perdonarlo perché la sofferenza provata in tutti quei mesi
non poteva essere
presa a cuor leggero.
Sembrò che le sue ultime parole, per quanto false fossero,
avessero rimesso in
moto l’Arciere ed il suo corpo.
“Non deve interessarti di
me. Io non conto niente, non al
momento; tu sei importante e ho deciso di smetterla di guardare e
cominciare ad
agire. Io ho combinato il casino ed io devo, ma soprattutto voglio,
prendermene
la responsabilità. Lis, non mi interessa che tu lo voglia o
no, ma è ora che io
ricambi il favore e ti stia accanto come tu hai fatto con me
l’anno scorso. Mi
hai riportato indietro, anche dopo come ti ho trattata…posso
provare a
riportarti indietro, con me?”
Senza che lei desse il suo consenso,
Oliver si era alzato ed
avvicinato lentamente, continuando a parlare – e quanto
parlava, quella sera.
L’uso di un soprannome, uno che effettivamente non la faceva
rabbrividire, le
scaldò un punto imprecisato nella pancia, riportando un vago
colorito alle
guance; lui non doveva esserselo perso, a giudicare dal sorriso dolce
ed appena
accennato comparso nuovamente sul suo viso.
Muovendosi come se fosse di fronte ad una bestiolina spaventata,
l’uomo aveva
allargato piano le braccia, stendendole davanti a sé e
controllando che lei non
facesse un passo indietro. Non ci sarebbe stato problema comunque, era
tanto
concentrata su ciò che stava dicendo da non accorgersi
neanche di averlo ad un
palmo di naso, una volta finito il discorso.
Saltò sul posto quando le mise entrambe le mani sui fianchi
e se la tirò un po’
più vicina, senza il suo consenso.
“No!”
Tentando di scappare dalla sua presa
peggiorò solo le cose.
Sembrava quasi che Oliver fosse ancora più intenzionato a
tenersela vicino,
dopo la sua risposta; senza far passare troppo tempo, smise di
combatterlo e
fece aderire le braccia ai fianchi, maledicendosi solo successivamente
perché
così facendo vi aveva intrappolato anche quelle di lui che
la circondavano.
“Va bene. Allora
vedrò di farti cambiare idea, Felicity.
Adesso è ora che torni a letto, su.”
Senza esitazione lo vide avvicinarsi
col capo e per un
terribile, emozionante secondo pensò che stesse per
baciarla; il bacio arrivò,
ma molto più innocente, giusto un fruscio di labbra sulla
sua fronte aggrottata
e subito dopo era svanito di nuovo, lasciandola più fredda e
con una parte
mancante nel punto a cui meno voleva pensare, in quel momento.
Ecco qua, io ho betato da brava bimba
anche questo capitolo
per dare un po’ di speranza alla mia Ainwen, a cui
è ovviamente dedicata questa
FF. Come fosse una sorpresa, lo so che lo state pensando. LOL
Oggi mi è arrivata una terza recensione per Voyeurism e sono
andata in brodo di
giuggiole, quasi impazzivo di gioia. Non volete la mia gratitudine
eterna sotto
forma scritta anche voi? Allora commentatela! *^*Commentate tutto,
chiedete,
datemi idee. Io vorrei provarci. Ma non lasciatemi sola nel fandom.
Q___Q
Ora torno a dondolare guardando la quinta stagione di The Big Bang
Theory, ma potete
sempre trovarmi qui.
A meno che Fb non impazzisca, ci sono sempre! <3
Spero abbiate apprezzato il leggerissimo fluff alla fine di questo
capitolo,
perché nel prossimo ci sarà qualche risata e
poi…dan dan daaaaaaan!!
Vostra
Dark/Vevve
|
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Capitolo 5 *** Capitolo quinto ***
Chap 5 End
Oliver? Oliver sapeva essere
estremamente cocciuto, ma solo
ora capiva quanto.
La notte era passata ed aveva portato il sonno prima di quanto
effettivamente
si aspettasse o osasse sperare.
Senza sogni, era riuscita a tirare dritto fino a ben più
dell’orario di sveglia
di una persona normale: quando aveva aperto gli occhi pregando che
tutto
quello che era successo la notte prima fosse solo una proiezione della
sua
fervida – a quanto pareva – immaginazione, presa da
qualche improvviso
desiderio represso di chiusura nei confronti di Oliver, aveva notato
che
l’orologio accanto al letto segnava allegramente le 11:30.
Tanto allegramente
che sembrava quasi volerla prendere in giro, prendere in giro la sua
risolutezza nel non voler avere più niente a che fare col
Vigilante di Starling
City o, come lo chiamavano ora, Green Arrow.
Ancora una volta sentì una fitta di curiosità
colpirla alla bocca dello
stomaco, perché non era più nel giro e
perché non poteva – non voleva, si
sbrigò
a correggersi – sapere cosa significasse quel nuovo
soprannome.
Non era poi colpa sua se la mente fervida che i genitori le avevano
donato era sempre
proiettata verso nuovi misteri e quello era uno che la infastidiva
particolarmente.
Uscì dal letto con una compostezza che non era sua, toccando
i capelli ormai
rossi e pensando che qualcosa di diverso poteva succedere, quella
mattina.
Tirò dritta verso la doccia, fermandosi solo quando si
accorse che il cellulare
sul comò non smetteva di emettere quella lucina che
significava guai. Qualcuno
l’aveva chiamata, probabilmente qualcuno preoccupato
dall’ufficio oppure altri
che non l’avevano vista passare per la città a
piedi, come ogni giorno.
Sorrise, avvicinandosi ad uno degli ultimi mezzi ipertecnologici che
ancora
simboleggiavano la sua vita precedente ed accarezzò lo
schermo per sbloccarlo,
già certa di avere diversi messaggi buffi nella casella
vocale: aveva ragione
alla fine, l’avevano riempita di messaggi e chiamate e solo
dio sapeva
quant’altro, ma ciò che più spiccava
nel gruppo di nomi a cui ormai si era
abituata fu un unico mittente sconosciuto, che per quanto avesse
cercato di
cancellare dalla memoria, era ancora lì, impresso nella sua
mente.
Il numero di Oliver, quello che aveva cancellato sia fisicamente che
mentalmente dalla sua vita, brillava sopra tutti e sembrava anche lui
volerla
prendere in giro.
Vengo a
trovarti più
tardi. Vino o ciambelle? O entrambi?
-O.
-Ignoralo, Felicity.-
Ah! Ed ecco che
ancora una volta
Oliver Queen entrava nella sua vita e le portava via la terra da sotto
i piedi.
Era stata molto attenta a dimenticare anche il suo precedente nome,
evitando di
dirlo ad alta voce in uno dei suoi piccoli momenti in cui doveva
buttare fuori
parole a caso, come faceva quando si trovava a S.C.
Una notte con lui, o almeno un’ora con lui nella sua camera e
già si sentiva
mancare la solida base creata in quei mesi.
Non gliel’avrebbe data comunque vinta, sarebbe andata avanti
senza degnarlo di
alcuna attenzione e lui si sarebbe stancato. Sarebbe tornato al suo
solito
lavoro, alla solita vita importantissima ed a qualche nuova fiamma che
sicuramente l’avrebbero interessato più di
un’amicizia perduta tanto tempo
prima.
Raddrizzando la postura, quel giorno
aveva deciso di
riprendere a lavorare dopo pranzo, usando la scusa di una leggera
influenza
intestinale sofferta la notte per schiarirsi le idee e non rientrare in
ufficio
fin dopo l’orario in cui tutti avrebbero smesso di chiedere
di lei. Di sicuro
Janet aveva sparso la voce ed ora avrebbe trovato solo cioccolata,
qualcosa di
caldo e magari biscotti sulla sua scrivania, in segno della
preoccupazione
della città.
Non voleva sentirsi tanto egoista, ma trasferirsi lì le
aveva fatto bene. Aveva fatto
bene al suo ego ferito ed alla sua anima sempre così
sofferente a causa di anni
ed anni di bullismo ed invisibilità agli occhi degli altri.
Lì non si sentiva più invisibile, lì
per una volta poteva essere eroina e non
era pronta a lasciar andare quella sensazione.
Ironico vedere come, proprio mentre pensava ad Oliver e si chiedeva se
era quella la sensazione che provava anche lui quando calava il
cappuccio
ed incoccava una freccia, i suoi pensieri le si materializzassero
davanti agli
occhi.
Seduto, con una gamba a terra ed una penzoloni sulla sua scrivania, Mr
Queen
in persona l’aspettava con un sorriso smagliante. Unico punto
a suo favore, la
perdita di quest’ultimo quando vide lo sguardo serio ed
esasperato di lei
posarsi sul suo volto, prima di accorgersi che non era solo nella
stanza ma che
stava intrattenendo il Sindaco, niente di meno.
-Quindi sei amica di Oliver Queen,
Megan. Potevi avvertirci,
l’avremmo accolto a dovere nella nostra piccola cittadina,
no? Prenoti dove
vuole e porti a cena la nostra piccola Finch, ha bisogno di essere
distratta…vi
lascio alla vostra bottiglia di vino, per oggi farò a meno
del tuo aiuto, Meg.-
L’espressione
del magnate di
Starling City fu impagabile, non appena si rese conto di cosa le stava
portando
via solo nello starle vicino, ancora una volta.
-Lasciami imparare dai miei errori.
Non ho fatto apposta,
Lis. Ti pre…-
-Ti ho detto già due
settimane fa di non chiamarmi Lis. Non
voglio che tu faccia saltare la mia copertura e poi non hai alcun
diritto di
affibbiarmi un soprannome, ok? Vattene Oliver, davvero, mi sta tornando
mal di
testa.-
Sulla strada verso casa, come sempre
dopo il lavoro Oliver
la stava seguendo e cercava di farsi ascoltare, mantenendo con una
facilità
incredibile il suo passo veloce che sarebbe dovuto servire a seminare
l’uomo
in questione.
Per una volta maledisse i tacchi e sentì l’estrema
mancanza della sua Mini
Cooper, e poi canalizzò la sua frustrazione su Oliver che le
stava ancora una
volta facendo ricordare la sua vita da Miss Smoak.
Fermandosi bruscamente, per poco non rischiò di venir presa
sotto dalla figura
massiccia dell’uomo, che si bloccò appena in tempo
ad un palmo di naso, occhi
spalancati per la paura di farle male e di quello che stava per
succedere.
In due settimane di pedinamento, non una volta si era fermata per
guardarlo
negli occhi; avevano parlato solo camminando velocemente e neanche uno
di
fianco all’altro.
Cominciavano ad attirare più attenzione del dovuto ma lui ci
era sicuramente
abituato e lei non gli avrebbe dato soddisfazione: non avrebbe ceduto
facilmente a
quella specie di ricatto, anche se ogni giorno lo vedeva presentarsi
con un
sorriso da cucciolo, jeans e maglione, qualcosa per lei in mano;
solitamente la
cena, perché sembrava che si fosse accorto di quanto fosse
dimagrita o di
quanto evitasse di fare più di un pasto al giorno.
-Stammi a sentire, Mr.
Non-So-Incassare-Un-No! Non hai alcun
diritto di essere qui, di invadere ogni singolo momento libero della
mia vita.
Sono davvero stufa Oliver, non puoi capire quanto sia difficile per me
mantenere la facciata ogni giorno, quando tu continui a ricordarmi chi
fossi
prima di arrivare qui. Sono solo…stanca.-
-E allora smettila di respingermi.
Smettila di combattere
tutto e torna da me. Torna a casa con me, Li…Meg. Torna
indietro con me.-
Gliel’aveva sussurrato
sulla pelle, senza realmente
toccarla, ma lei se lo sentiva intorno come se la stesse abbracciando
ed
inglobando nella sua figura imponente. Non poteva guardarlo negli occhi
perché era troppo vicino e lei doveva ricordarsi anche solo
come respirare,
dopo aver sentito l’agonia che quelle parole suscitavano
nell’uomo di fronte a
lei.
Davvero sentiva la sua mancanza.
Ma lei, lei cosa avrebbe dovuto fare?
Buttargli le braccia al collo e dimenticare? Fingere che la sua
ritirata
strategica fosse solo un capriccio da bambina?
No, lei stava ancora guarendo. E se per caso la guarigione fosse stata
accelerata grazie alla presenza confortante di Oliver, di nuovo in ogni
sua
giornata, non l’avrebbe ammesso neanche a se stessa.
Aveva
accettato di uscire a cena con lui.
Due sere prima le aveva confessato, appeso fuori dalla sua finestra
mentre lei
cercava bellamente di ignorarlo e sistemava le cose per andare a letto,
che non
aveva fatto altro che pensare di portarla da qualche parte e parlare,
come due persone adulte.
Aveva detto che glielo doveva, dopo quasi due mesi di corteggiamento.
Certo, lui aveva scherzato ma lei si era ritrovata ad arrossire
violentemente e
gli aveva tirato la maglietta del pigiama, che lui aveva preso al volo
ed aveva
delicatamente tirato verso il letto, così che potesse
effettivamente indossarla
per la notte.
Era rimasto lì a guardarla entrare sotto il lenzuolo, seduto
sul suo davanzale,
raccontandogli delle notti e delle uscite con Diggle: di come non fosse
la
stessa cosa senza di lei ad aiutarli, a risollevare i loro spiriti
feriti o semplicemente
a far sentire loro che non erano soli e che potevano ancora proteggere
qualcosa
di buono, bello, senza dover sempre ricorrere alla violenza.
Le aveva detto, mentre si addormentava, che l’aveva sempre
vista come un essere
estremamente delicato e che aveva sbagliato a dare per scontato che
mostrandosi
più vicino a lei l’avrebbe ferita. Aveva capito
perfettamente di averla
spezzata, semplicemente perché voleva proteggerla ed ora
avrebbe dato qualsiasi
cosa, pur di poter fare nuovamente affidamento su di lei.
In un ultimo, inutile tentativo di trattenere uno sbadiglio, aveva
accettato di
uscire con lui a cena ed aveva catturato il suo sospiro sollevato
proprio prima
di cadere in un sonno tranquillo.
Ci erano volute altre tre settimane prima che ammettesse di
aver acconsentito a quell’uscita ed ora, mentre sospirava e
controllava il suo
riflesso allo specchio, sapeva che stava per avvicinarsi
l’inevitabile.
Più lasciava spazio ad Oliver nella sua vita, più
si aspettava di vederlo
arrivare in città; diventava sempre più
impaziente di trovarlo all’angolo che
portava dal suo ufficio alla sua caffetteria preferita e le piaceva
–segretamente – starlo ad osservare quei 10 minuti
che passavano insieme lì
dentro, da sopra una tazza fumante di caffè che lui si
premurava sempre di
accompagnare con dei biscotti aromatizzati alla vaniglia.
Maledetto.
Ed ora, davanti allo specchio col suo vestito rosso scuro che
svolazzava intorno
alle ginocchia - come se non abbracciasse perfettamente le sue curve
fin sotto al
sedere - e gli orecchini poco appariscenti ma perfetti per dar luce al
volto
morbido sotto una cascata di boccoli rossi, sapeva che avrebbe ceduto.
Presto.
Non le importava più cosa reputasse giusto o sbagliato, come
potesse
giustificarsi con una cittadina che le aveva dato tanto.
Lei apparteneva a Starling City ed alle sue strade, che venissero
vissute di
giorno o di notte non faceva quasi più differenza; sapeva
solo che andavano
vissute e che per quanto amasse quel posto, lei ricominciava a sentire
il
pressante bisogno di tecnologia, di velocità, di negozi
aperti 24 ore su 24 e
di uno scopo.
Lo scopo che solo accanto ad Oliver poteva trovare.
Non c’era niente di più bello, divertente,
emozionante che avesse mai provato
in vita sua ed ora, con Queen di nuovo a ricordarglielo, era sempre
più
difficile mandare giù il rospo.
Per questo aveva ceduto, per questo stava scendendo le scale di casa
sua col
cuore che batteva un po’ più forte, per questo
aveva preso la sua mano quando
finalmente l’aveva visto nel suo splendido completo di
chissà quale stilista.
Erano passati quasi 3 mesi da quando l’aveva abbracciata,
quella notte ed ogni
giorno di più avrebbe voluto accettare quei piccoli gesti di
Oliver che l’avrebbero
spinta ancora tra le sue braccia.
Gli sorrise timidamente, alzando lo sguardo e nel giro di un secondo
seppe di
aver sbagliato.
Quando si riavvicinava a quell’uomo finiva solo per spezzare
il cuore di
entrambi e, se il sangue che le scaldava le mani ora che
l’aveva completamente
addosso e lei lo sosteneva con il suo piccolo corpo era
un’indicazione, non
avrebbe dovuto riavvicinarsi mai più.
Uhm...ecco...non
è che dopo questo vi ritrovo sotto casa, pronte ad
uccidermi?
Non sarebbe carino, vero? *faccino da cucciola triste*
Non
posso dirvi niente, se non assicurarvi che il sesto (ed ultimo)
capitolo è pronto e solo da betare, in pratica. Quindi boh,
se
arrivate presto a 4 recensioni pubblico, altrimenti aspetto la mia
solita settimanina e lo avrete tranquillamente.
Vi
voglio bene, ricordatelo.
Se
cercaste spoiler dall'ultimo capitolo, cercate QUA,
vediamo cosa posso darvi. <3
Dark/Vevve
|
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Capitolo 6 *** Capitolo sesto ***
Fu una mano calda che gli accarezzava
il volto a svegliarlo.
Più che notare ogni rumore - dal bip crudo ai passi ai
respiri -, fu quel calore e
la delicatezza delle dita, del palmo morbido a riportarlo nel modo dei
coscienti.
Il polpastrello del pollice
continuava a scivolare sulla sua barba –
che sembrava troppo lunga per essere andato a dormire solo la sera
prima –
mentre il palmo lo teneva con sicurezza, come a proteggerlo
dall’aria fresca
della camera. Istintivamente tentò di girarsi, allungando le
braccia per
afferrare e tirare a sé il corpo della proprietaria di
quella mano, sicuro che
anche se non ricordava chi fosse in quel momento, una volta svanita la
confusione
lo avrebbe apprezzato molto di più di quanto avesse
apprezzato la maggior parte
delle cose in vita sua. In quel momento sentiva solo calore, morbidezza
ed un
profumo che sapeva di casa e di pace, quindi cosa gli impediva di
prenderla e
farla sua?
Ci avrebbe dovuto pensare un po’ di più, forse.
Contemporaneamente, venne bombardato da un dolore spaventoso
all’interno della
gabbia toracica, mentre gli sembrava che degli artigli volessero
strappargli la
pelle dalla schiena e due mani forti e grandi lo bloccavano di nuovo
sul letto.
In più, quelli che ormai riconosceva come macchinari
ospedalieri erano
impazziti perché doveva aver strappato qualche polo connesso
al suo petto, la
stanza si stava riempiendo di medici ed infermieri e mentre una luce
veniva
sparata nei suoi poveri occhi non più abituati, sentiva solo
la scottante
assenza di ciò che aveva cercato di afferrare.
Felicity.
-Sono qui, Oliver.
Tu…cerca di calmarti.-
-Signorina, stia indietro, quando
avremo finito potrà
tornargli vicino.-
Senza accorgersene, doveva aver
gracchiato il nome della
donna quando aveva capito, quando l’aveva riconosciuta con
una chiarezza quasi
dolorosa. Cercò di respirare normalmente, sembrava che un
secondo prima il
corpo fosse in fiamme e adesso…no; era morfina quella che
sicuramente gli
avevano iniettato. Ecco perché odiava sedativi ed anestetici
di ogni genere,
non gli permettevano di agire, di combattere, di parlare con lei.
Sospirò
subito dopo, lasciandosi andare all’inevitabile ed insieme a
lui anche i rumori
intorno si affievolirono. Come un buon sipario di teatro, lo staff
ospedaliero
si era aperto ed aveva lasciato passare la rossa che timidamente si
stava
avvicinando al suo letto, due occhiaie quasi nere e le mani strette tra
di
loro, davanti allo stomaco.
Perché non si allungava e tornava ad accarezzargli il volto?
Non c’era conforto migliore per lui in quel momento
– non ce n’era mai stato,
ormai era venuto a patti con se stesso – e lei invece
sembrava titubante, quasi
spaventata nell’avvicinarsi.
Probabilmente aveva emesso il suono frustrato che gli si era impigliato
in gola
perché in un secondo entrambe le mani di lei erano volate su
di lui e nella sua
visuale era entrata anche un’enorme figura scura che in meno
di mezzo secondo
aveva riconosciuto come Diggle, quindi non una minaccia.
Gli aveva lanciato una sincera occhiata di scuse ma era subito stato
attirato
dalla bionda che si sporgeva su di lui ed i cui capelli ora ricadevano
attorno
ai loro volti, solleticandogli le tempie. Si sforzò di
sorriderle e
probabilmente ci riuscì meglio con gli occhi, che con la
bocca a giudicare da
come le spalle si rilassavano e lei gli rispondeva al sorriso con un
sospiro
sollevato.
Non appena la sentì scivolare via però,
spalancò di nuovo gli occhi e le
macchine segnarono un nuovo balzo nel battito cardiaco.
-Oliver!!-
-Non andare via, Lis. Io
non…-
-Non vado da nessuna parte ma tu non
muoverti, ok?-
Annuì,
ancora un po’ spaventato
nel lasciarsi andare alla morfina, rischiando che lei sparisse di nuovo
ma
quando le mani ripresero il loro compito accarezzandogli il viso, i
capelli, le
spalle, poté rilassare il corpo e la mente, chiudendo
finalmente gli occhi con
l’immagine del volto stanco ma perfetto, bellissimo di
Felicity, vicino al suo.
Più volte entrò
ed uscì dal dormiveglia senza riuscire a
chiedere altro che di lei e poche basilari funzioni. Ricordava solo una
forte stretta alla mano, lo sguardo intenso che di nuovo lui e Digg si
erano
lanciati perché in quel momento non avevano bisogno di
parlare e poi di nuovo
la pelle delicata della sua piccola tecnica che tornava in contatto con
la sua.
Gli era parso di sentir parlare, ad un certo punto; borbottii nella
camera di
voci familiari ed aveva visto un’altra figura estremamente
conosciuta ai piedi
del suo letto.
Due pacche sulla gamba e Thea si era issata sul materasso per sedersi
al suo
fianco, sdraiandosi con cautela così da poggiare il capo sul
suo petto.
-Si prenderà cura di te,
'Licity. Se eri tanto serio da
seguirla ogni giorno e renderti mira di qualche pazzo che ti ha seguito
dal Glades, allora si prenderà cura di te. Ed io
sarò a casa ad
aspettarti per litigare su tutto quello che vuoi.-
Gli aveva dato un bacio sulla guancia
e poco dopo era
nuovamente caduto nel suo sonno indotto, sentendo qualcosa di umido
bagnare il
suo camice d'ospedale.
Sembrava
che ogni giorno, ogni minuto, Felicity fosse lì per lui. Non
riusciva a
spiegarsi l’irrequietezza di quella giovane donna al suo
fianco ma se doveva
dirla tutta non gli interessava al momento; aveva solo bisogno che lei
gli
fosse accanto ed appena fosse tornato in forze avrebbe sistemato tutto
ciò che
non andava, rassicurandola e cacciando ogni sua paura.
D’altronde se l’era promesso dalla prima notte in
cui l’aveva vista
rannicchiarsi lontana dal nuovo letto - quando era riuscito finalmente
a
trovarla – e gli aveva ricordato con spaventosa precisione il
suo stato non
appena tornato dall’isola.
Come si era ridotta?
Era stato lui a farle questo?
Si sarebbe battuto fino ad arrivare all’inferno per poi
tornare indietro, se
solo avesse saputo con certezza di poterla salvare dal suo. Tutto quel
che
voleva era tornare a vederla sorridere, più di quando erano
insieme in un
sotterraneo, più di quando non si conoscevano.
Voleva che avesse un sorriso nuovo tutto per sé: sapeva di
poterci riuscire e
non vi avrebbe rinunciato.
Il giorno in cui venne dimesso gli
tremavano le gambe.
Era stato sotto osservazione per le prime 12, fatidiche ore dopo che un
proiettile l’aveva colpito ed aveva rischiato di mandargli il
polmone in
collasso.
Digg gli aveva raccontato di come Felicity, mani sporche di sangue,
trucco colato
sul volto e vestito rosso da sera ancora indosso, avesse aspettato
quelle 12
ore senza mai muoversi dalla poltrona al suo fianco, dopo
l’intervento
improvviso che aveva dovuto subire all’ospedale della
cittadina in cui Lis si
era trasferita.
Una volta passate quelle prime ore, avevano aspettato qualche giorno
perché i
segni vitali si stabilizzassero; gli dissero che lui, effettivamente,
si era
svegliato più di una volta, troppo confuso e rabbioso per
capire dove fosse.
Qui come sempre era intervenuto l’amico e guardia del corpo a
proteggere Mr
Queen e chi gli stava intorno.
La Smoak invece non aveva fatto neanche un passo indietro, stoicamente
testarda
nel non volersi neanche andare a cambiare.
Solo quando si erano decisi a trasferirlo a Starling City, grazie ad
uno degli
elicotteri posseduto dalla sua famiglia, lei si era permessa di
ritornare all'appartamento con solo un pensiero in mente. Tornare a
casa e poi da lui.
Digg si era
occupato della ditta di traslochi e di farle riavere un appartamento
nello
stesso condominio, poi avrebbero pensato al resto.
Il problema ora, mentre veniva
trasportato verso l’uscita sulla sedia a
rotelle, come da prassi, era che aveva paura di non trovarla
lì. Quella
mattina, mentre la sorella e John l’avevano aiutato a
vestirsi si era guardato
intorno spaesato, l’incertezza fatta persona nel non trovarla
lì come i giorni
precedenti.
Non avevano parlato molto, non si erano spiegati, ma la sua mano
piccina non
aveva mai lasciato per più di pochi minuti la sua; quella
presenza confortante
al suo fianco era diventata indispensabile.
Con un leggero tremito spinse sui braccioli e chiuse gli occhi,
rimettendosi
in piedi con meno forze di quante pensasse di avere ed ascoltando le
porte
automatiche di fronte a sé aprirsi per lasciare che il mondo
esterno lo
assalisse.
Fu un attimo, un momento di indecisione e due braccia magre ma
più forti di
quanto potessero sembrare lo strinsero alla vita, il corpo minuto
schiacciato
contro il suo come unico invito ad avvolgere quella palla di energia
che gli si
era attaccata addosso.
La circondò immediatamente con le braccia, poggiando il naso
sulla sua nuca ed
inspirando a fondo.
Quello doveva essere uno di quei momenti in cui si facevano
dichiarazioni
strappalacrime, in cui l’uomo prometteva fede cieca e la
donna singhiozzava il
suo amore di rimando.
-Prometti di non farlo
più?-
-Voglio prometterti tante cose,
ma…so solo che mi dispiace, Lis.-
Non l’aveva mai sentito
quel “mi dispiace”, Felicity.
Le
sue vere scuse per come si era comportato quasi un anno prima, non
erano mai
arrivate più chiare di così. E mentre
l’ascoltava ridere sul suo petto, si mise
in cammino verso l’esterno e sì sentì
finalmente più sicuro.
Protetto e protettore, la sua
famiglia era di nuovo
completa.
Soooo…che
ne pensate? Lo so che
non c’è bacio, ma io la Olicity ancora non la vedo
abbastanza matura, se devo
scrivere qualcosa di molto serio…certo, ho già un
qualcosa in mente, ma vorrei
un vostro consiglio. Stacco il tutto in una one shot a parte? Lo
includo qui?
Come ve la immaginate, la coppia nel futuro?
Ps lo so che il PoV Oliver è stato un bel distacco dai
precedenti 5 capitoli,
ma non trovate che sia adatto?
Mi sono ritrovata a scriverlo senza neanche aver capito
perché. Forse per
questo ho già in mentre qualcos’altro, magari per
spiegare il cambiamento di
Felicity. Oppure no, a me piace com’è finito
questo capitolo e…sì, stranamente
sono soddisfatta della mia storia.
Quindi
è arrivato il momento.
Grazie per aver seguito It had to…
…END.
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