It had to end

di DarknessIBecame
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


Nelle ore successive al terremoto peggiore mai accaduto a Starling City, era rimasta sola.
Sola e abbandonata in uno scantinato di cui nessuno sapeva l’esistenza o almeno, di cui nessuno sapeva l’esistenza con lei dentro. Aveva pianto, si era nascosta sotto alla scrivania, aveva riportato alla mente tutte le nozioni che poteva ricordarsi sui terremoti (anche se questo era tutt’altro che una catastrofe naturale) ed aveva contato i secondi, i minuti, fin quando tutto le smise di vibrare intorno.
Da quando aveva cominciato a lavorare con il Vigilante, si era trovata diverse volte in situazioni di pericolo; questa non era da meno ovviamente, ma qualcosa era cambiato. Qui non c’era nessun nemico da prendere, non c’era scopo nel suo rimanere in quel luogo, se non finire sotto una delle travi che sicuramente sarebbero cadute a breve.
Quindi non c’era nessuno che sarebbe arrivato a salvarla, perché non era utile a nessuno in quel momento.
Nessuno le chiedeva di rimanere lì e salvare la sua vita; per questo decise di tentare il tutto per tutto da sola, come sempre da quando aveva perso i genitori. Se l’era sempre cavata, escogitando geniali stratagemmi per tirarsi fuori dai guai con le sue sole forze. Certo, i guai di cui parlava erano proporzionati alla tediosa vita da tecnica informatica, ma ogni volta si ripeteva che SE avesse voluto, SE avesse ceduto, SE avesse accettato, ora sarebbe a New York con ben diverso incarico.
Un altro dei piccoli segreti che Felicity Smoak teneva nel cuore, celati ai più, probabilmente a tutti anzi, tranne che a se stessa.
Sospirando, quando aveva capito che le scosse di assestamento si erano placate, sbirciò da sotto la sua posizione coperta e vide un percorso ad ostacoli che avrebbe dovuto superare se avesse voluto uscire e respirare di nuovo dell’aria pura.
Non si chiese neanche dove fossero Mr Queen e Mr Diggle, sapeva solo di dover uscire da lì in fretta e che probabilmente loro due stavano facendo qualcosa di eroico. Oppure erano già al sicuro nelle loro case, con qualcuno accanto che li amava incondizionatamente.
Non si fermò a pensare all’invidia che scorse nelle sue vene, a come era tornata alla formalità con cui aveva pensato ai loro nomi. Tutto quello che aveva pensato, mentre il suo sangue bagnava il pavimento pieno di vetri e calce - ironia dell’ironia, una delle frecce dell’Incappucciato le si era conficcata nella carne della coscia mentre cercava di strisciare sotto un pesante pilone che da un momento all’altro avrebbe potuto caderle sulla schiena, lasciandola paralizzata come minimo – era che se avesse stretto i denti ancora un po’, sarebbe riuscita ad uscire da quella trappola segreta, lasciando indietro quella vita.
Non poteva sbagliarsi di più, lo sapeva.
Ma Felicity Smoak non era una che si dava facilmente per vinta e l’avrebbe spuntata anche quella volta: ci fossero voluti mesi, ma ce l’avrebbe fatta.

 
La prima telefonata arrivò a casa 15 ore dopo.
Sospirando, aveva lasciato che la sua tazza fumante di tè si freddasse sul tavolino ed aveva afferrato il cordless, rispondendo con stanchezza.
La sorpresa nel sentire che il Detective Lance si volesse accertare della sua salute, l’aveva colpita nel profondo. Ringraziandolo, sentì il cuore riscaldarsi giusto un po’, dopo il gelo di quelle 17 ore.
17 ore dall’ultima volta in cui uno dei suoi due guardiani si fosse preoccupato di chiedere dove fosse, o come stesse.
Per la verità, aveva lasciato cellulare e tablet – e computer distrutti – nel sotterraneo. Una vibrante dichiarazione di non voler essere cercata. Quindi forse la colpa era sua, ma no…entrambi i due uomini erano testardi e si preoccupavano per lei, no?
Quando 24 ore totali passarono, portando più e più telefonate al suo numero fisso, capì che forse si era sbagliata prima, ma che aveva avuto ragione da quando era tornata alla sua macchina.
La tecnica bionda non era poi così importante, per il Team dell’Incappucciato.
Sorrise amara nella tazza del tè, preparandosi all’inevitabile.

Un suo amico medico era passato, giusto il tempo di controllare le sue ferite.
L’aveva chiamata per accertarsi che stesse bene, lui viveva in una delle città confinanti e l’avevano richiamato al lavoro insieme ad altri volontari, negli ospedali di Starling City.
Aveva sentito la voce dell’amica tremare ed era corso lì qualche ora prima, guardandola con occhi stupiti per la ferita più grave che avesse mai visto sul di lei.
Palmi di mani e piedi graffiati, pieni di vetri, quello sì. Ginocchia con lo stesso problema, guance segnate da solchi, un bernoccolo al lato della tempia dove aveva sbattuto contro la scrivania quando una seconda scossa di assestamento aveva colpito l’area…ci potevano stare.
Ma lei non aveva risposto alla domanda “dov’eri ieri sera” e neanche a quella silenziosa sul perché avesse una ferita da taglio così profonda sulla coscia, una che non avrebbe assolutamente dovuto essere lì, se i calcoli di lui erano esatti.
La noiosa, tranquilla Felicity con una ferita da arma sulla gamba?
Era semplicemente impossibile.
Lo sguardo preoccupato dell’amico però non riuscì a farla sentire grata.

Stava ancora fissando lo stesso punto di quando quel fantasma dal passato era arrivato e aveva fatto la sua comparsa, nel momento in cui suonarono alla porta.
Ci mise un po’ a riprendersi, i pungi che battevano contro il legno chiuso a doppia mandata facevano tanto rumore che per un attimo pensò di sognare, o che quei colpi non fossero rivolti al suo appartamento.
“Felicity, lo so che sei lì dentro, apri! Ho visto la tua macchina di sotto!”
Immediatamente sentì la bile salire il condotto esofageo e fare prepotentemente pressione in gola, ma si bloccò dal vomitare sul suo divano e si mise in piedi, una coperta avvolta attentamente attorno al corpo per non mostrare alcuno dei suoi traumi ed il respiro da tenere sotto controllo mentre rispondeva a John Diggle, il primo dei due che veniva a trovarla dopo due giorni di silenzio totale.
“Sto arrivando, scusa…dormivo.”
Bugia, urlavano la sua mente ed il suo corpo, ma come altro avrebbe spiegato all’uomo il suo stato?
Era un bravo osservatore, il suo impiego lo richiedeva.
Fece scivolare i lucchetti via dalla porta e la aprì leggermente, impedendogli di guardare dentro a causa del suo corpicino appoggiato allo stipite. Non poteva permettergli di sapere che era rimasta ferita nel tentare di uscire da LI’, quindi doveva rimanere immobile e col peso sulla gamba sana.
“Non mi fai entrare?”
“No.”
“Oh.”
“Sì?”
“ Stai bene?”
“Ovviamente. Qualche graffio che un amico ha sistemato, tutto qua.”
Digg aveva visibilmente trasalito alle sue parole ed era sicura che avevano colpito nel segno. A lei non interessava minimamente, ma sapeva che era sempre lui “l’amico” che curava le sue ferite e quelle di Oliver. Sicuramente sapere che qualcuno aveva dovuto farlo al posto suo lo stava facendo sentire in colpa.
Eppure qualcuno poteva incolpare lei, per non sentire assolutamente niente di fronte a quella reazione?
Rimase semplicemente in silenzio, trattenendo l’espressione di dolore per la gamba via dal suo volto e sostituendola con pura e semplice noia. Fastidio, se avesse dovuto scommettere.
“Quindi…?”
“Cosa?”
“Cosa sei venuto a fare, scusa? Se volevi sapere come stavo, potevi semplicemente chiamare.”
“Hai lasciato tablet e cellulare sotto al Verdant, Felicity.”
“Va bene. Ora non preoccuparti, torna da Carly e da tuo nipote. Mi farò sentire quando avrò riposato ancora un po’.”
“Oliver se n’è andato…è scomparso.”
Se c’era stata scintilla di vita nei suoi occhi in quei due giorni, sicuramente era stato in quel secondo.
Ma, se leggeva bene l’espressione di Mr Diggle, era durata ben poco nei suoi occhi.
“Ok, allora ci risentiremo se avrai sue notizie in qualche giorno, va bene? Se tra una settimana non sarai riuscito a trovarlo, fammelo sapere. Ti aiuterò io. Per ora sono solo molto stanca. Buon proseguimento.”
Senza neanche dargli la possibilità di ribattere, gli aveva chiuso lentamente la porta in faccia, salutandolo con un cenno del capo e quello che credeva essere un sorriso stanco.
Semplicemente però, non aveva capito che John le stava dando del tempo per digerire la cosa, divorato dalla colpa di aver dimenticato Felicity per 48 ore intere, abbandonandola quando probabilmente lei era l’unica a non avere nessuno su cui potersi abbandonare.


Ecco. Io ci ho provato. Mi volete davvero tanto male ora? Spero proprio di no. Non so cos’altro dire se non…fatemi sapere se fa davvero tanto schifo, posso sempre lasciarla così com’è e concluderla qui. Altrimenti, vedrò di completare i 3 capitoli mancanti alla fine della storia il prima possibile.
Appena li avrò finiti andrò avanti col secondo, così da potervi assicurare almeno un chap a settimana.
Al solito, questa è per la mia Ainwen, ma stavolta la dedico anche a GirlOnFire, che mi segue sempre e si impegna a recensire tutte le mie cavolate. Siete magnifiche. <3
Un bacio
Dark/Vevve

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


Capitolo due.

Aveva avuto ragione anche quella volta: non sarebbe stato facile scappare dallo sguardo vigile ed attento di John, ma fare leva sul suo senso di colpa per evitare di parlare troppo e di svelare ciò che aveva in mente era stato facile.
Dopo una settimana non c’era stata alcuna notizia sul loro datore di lavoro, lei aveva cominciato a guarire e Mr Diggle era passato a trovarla ancora.
Fortunatamente si era fatta la doccia, sistemata, aveva provato ad uscire e poi aveva deciso di rimanere a casa, quando la andò a trovare la prima volta.
Facendolo entrare, lui aveva notato il suo zoppicare ed aveva alzato un sopracciglio, sospettoso.
Lei aveva stretto i denti cercando di non dar troppo a vedere quanto facesse male e dove fosse di preciso la ferita, ben coperta da shorts e pantaloni spessi della tuta.
Tanto faceva freddo in casa sua e lei non riusciva a curarsene.

Non aveva smesso totalmente di mangiare. Semplicemente, non ne sentiva il bisogno.
Lavorava incessantemente da sola, giorno e notte, senza dormire quanto davvero le servisse e sapeva che questo cominciava a vedersi sul suo volto, nel fisico che a malapena riempiva gli abiti e nel volto pallido e segnato da pesanti ombre.
Un po’ si sentiva come Mr Queen, in quei giorni; rimetteva a posto la sua “Arrow Caverna” ed apportava miglioramenti. Teneva il suo segreto e cercava l’unica persona che ora fosse più importante di quella lista nel libretto che l’aveva portata nel baratro in cui viveva al momento: per chi fosse importante poi, non se ne curava. Aveva una missione ormai, cercare Oliver Queen, riportarlo nel mondo dei vivi e poi andarsene da lì, il più in fretta possibile, senza voltarsi indietro. Ci vollero 3 mesi e mezzo perché riuscisse a sistemare il seminterrato, senza l’aiuto di Diggle.
Certo, lui aveva già fatto ripulire e sistemare ogni centimetro del Verdant e del loro nascondiglio, ma lei aveva rimontato ogni pezzo di mobilio, sistemato con precisione ogni freccia e ricucito alla perfezione il suo costume da vigilante.
Avere uno scopo tutto suo le ridava vita e, seppure sapesse di essere cambiata nel profondo, non riusciva a togliersi dalla testa l’idea che se la sua innocenza doveva finire così, se in questo modo doveva aprire gli occhi sul mondo, forse c’era qualcos’altro di meglio ad aspettarla.
Quando questa Felicity speranzosa faceva capolino, lei la ributtava giù, in fondo al suo cuore gelido, sapendo che ne avrebbe avuto bisogno per continuare a respirare e riscaldare il suo corpo nelle notti fredde di quei mesi.

Ci vollero ancora 2 mesi prima che riuscisse a scoprire la posizione del nascondiglio di Oliver Queen.
Non aveva smesso di lavorare un attimo, non aveva parlato con nessuno; aveva cominciato a frequentare una palestra ed aveva ripreso a mangiare, sperando che le forze tornassero per il viaggio imminente che l’aspettava, insieme a John.
L’ex militare aveva cercato di riavvicinarsi, ma quello che c’era tra loro ormai si era rotto.
Lei si costringeva a sorridere, a parlare con la gente, era tornata a lavoro ed aveva accettato l’invito del suo amico dottore più di una volta per una cena fuori, che aveva portato ad un paio di notti tra le lenzuola ed altrettante mattine di imbarazzo, prima di capire che non sarebbe andata tra loro.
Non c’era più entusiasmo o affetto rimasto in lei, nei suoi giorni, nella sua routine.
Tutto si riduceva all’incessante lavoro che portò finalmente i suoi frutti in una notte di fine estate.
Chiamò immediatamente Mr Diggle, si diedero appuntamento sotto casa sua e lei, con la sua borsa già pronta per quella precisa evenienza, non lo fece attendere.

Ci vollero 3 giorni di voli e ritardi, un altro ancora di jeep per raggiungere la giunga in cui si nascondeva Oliver ed un volo su una liana insieme a suddetto, stupido, uomo, per riportarlo indietro.
Non incrociò il suo sguardo, non seriamente, neanche una volta da quando l’aveva rivisto a tirare con l’arco, distruggendo il povero tronco di un albero innocente.
Avrebbe dovuto aspettarsi, dal disastro che c’era lì intorno, che più di quanto pensassero fosse capitato in quel luogo; solo quando lui la prese per la vita ripetendo “tieniti stretta a me” capì che qualcuno era di nuovo alle calcagna del Queen dell’isola, facendola volare in mezzo a quel folto ed afoso paesaggio.
Il problema che entrambi gli uomini notarono, era nascosto in cosa Felicity non faceva, più che in quel che faceva.
Parlare, ad esempio. Blaterare, per la precisione.
Ogni tanto, nei mesi precedenti, le era capitato di farlo al lavoro, ma non con loro due lì: si era trattenuta ed era stata il più formale possibile e, se la stretta di Queen l’aveva fatta arrossire più del dovuto, non l’aveva dato a vedere.
Era stato lui in effetti a tenerla stretta; lei gli aveva gettato le braccia al collo solo per dare una parvenza di paura, di cura per la propria persona. Non aveva rivolto il viso verso di lui, non aveva affondato il naso nella sua spalla come quella volta nell’ascensore: semplicemente aveva guardato in  basso, lontano dall’esplosione, sperando che non le scivolassero gli occhiali dal naso.
Non aveva pensato a portarne un paio di ricambio e l’umidità lì le avrebbe impedito di mettere le lenti.

Anche il viaggio di ritorno era passato in silenzio.
Non riusciva più a contare quante volte avesse sentito uno sguardo o l’altro su di sé, mentre lei lavorava al suo tablet e lasciava che gli altri due avessero silenziose conversazioni sopra la sua testa.
Non le interessava, sinceramente.
Stava acquistando un biglietto e ripassando mentalmente tutte le cose che poteva aver lasciato fuori dalla valigia: non appena terminata la ricostruzione del sotterraneo, aveva fatto i bagagli ed ora erano nascosti nell’armadio, dove John non potesse trovarli a vista e lei potesse continuare a metterci dentro le cose che man mano non le saprebbero più servite a Starling City.
Quando decise che c’era tutto quello che doveva possedere, alzò uno sguardo sicuro ed un sorriso pieno  di soddisfazione ma freddo sugli altri due, giusto qualche secondo prima di atterrare.
Scappò quasi subito dopo dalla loro presa immaginaria, dichiarando di avere un appuntamento importante, mentre invece doveva solo pianificare il resto dei suoi 5 giorni lì.

Li aveva rivisti solo un’altra volta, così come da programma.
Una volta alla Queen Consolidated, durante un meeting programmato con una signora che sembrava più una signora del male che una tranquilla donna d’affari col fiuto per le aziende con l’acqua alla gola.
C’erano stati vetri rotti, altri voli attaccata ad Oliver, altri vetri rotti e la riapertura della sua ferita alla coscia per colpa di un taglio dovuto a quegli stessi vetri, ma tutto era passato in un attimo, perché poco dopo c’era stato il ritorno alla “Caverna”, per cui si era battuta.
Poteva sembrare che gliene importasse davvero, di loro, di lui, della città… da qualche parte dentro di lei era ancora così, ma la scorza molto più dura che la circondava le diceva solo di farla finita presto e di uscire da lì.
Li guidò con un passo sicuro, sui suoi tacchi scuri e alti, pensando a quando avrebbe potuto cambiare finalmente colore e tornare al suo rosso scuro naturale. Nessuno lo sapeva ma quello era l’unico segreto che Oliver custodiva per lei, e solo in parte.
Non voleva più dare così tanto nell’occhio, come sotto le nuove luci magistralmente posizionate che mostravano il nuovo e migliorato rifugio del vigilante.
Solo per un attimo si permise di incrociare gli sguardi di John ed Oliver, lasciandosi prendere dall’orgoglio per il suo lavoro, ma proprio quando sentì qualcosa della vecchia lei tornare in superficie, la superficialità della sua presenza lì si fece sentire nelle parole del miliardario, che già rimetteva attenzione su di sé, prima di dire grazie.
Gli aveva lasciato un biglietto nel taschino della giacca, lasciata appesa all’entrata, proprio prima di filare in ritirata su per le scale.
Aveva i tacchi in mano e non si era girata neanche un attimo a guardarli discutere e progettare e lasciarla indietro.
No, questa volta era lei che li lasciava indietro e non poteva farne a meno.
Le poche parole vergate sul biglietto immacolato furono uno shock per Oliver, non tanto per Diggle che aveva aspettato una cosa del genere dalla prima volta in cui l’aveva rivista dopo il disastro.
Non l’aveva fermata solo perché… perché sapeva che l’unico a cui avrebbe dato retta sarebbe stato l’uomo che gli stava di fronte, un biglietto di carta stritolato nella mano destra ed il respiro accelerato.

Addio, ad entrambi.

I'm back! Non ci speravate più, lo so. Perdonatemi, ma sono stata un po' impegnata, un po' male ed un po' non volevo disturbare la mia adorata beta per questo chap.
Volevo pubblicarlo, perché presto spero ci sarà un'altra cosina a tenervi occupati e...niente.
Grazie mille per tutte le recensioni lasciate ad ogni storia, non sapete quanto ci tenga e quanto siano tutte importanti per me.

Baci
Dark/Vevve

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


Ogni loro tentativo di rintracciarla era stato vano, ovviamente.
Sapeva come muoversi in un casinò, sapeva come muoversi nella caccia alle streghe di Starling City, come non farsi trovare persino se avessero chiesto a qualcuno di cercarla.
La nuova tinta, il nuovo lavoro, il farsi chiamare Megan Finch dopo aver spiegato ai datori di lavoro che non voleva più farsi trovare dal suo passato… tutto aveva contribuito.
E quindi perché quell’inquietudine, man mano che sentiva scivolare i mesi addosso?
Non riusciva a dormire bene, non riusciva a ritrovare se stessa, si sentiva monca in posti dove neanche pensava ci fosse più qualcosa e combatteva ogni notte per dimenticare certe sensazioni.
Bisogno.
Disperazione.
Solitudine.
Colpa.
Curiosità.
Sospetto.
Paura.
Sospetto, di nuovo, ancora.
Era come se si sentisse sempre sotto costante vigilanza da almeno due mesi e, se davvero Oliver l’aveva trovata, non capiva perché rimanesse nell’ombra a spiarla.
Aveva deciso di nascondersi in piena vista.
Dopo quattro giorni di voli e scali e prenotazioni in hotel che non aveva mai visto o fatto, aveva comprato un biglietto del treno e si era trasferita in una cittadina di campagna a 15 km da Starling City, dove la tecnologia era poco benvenuta e dove nessuno la conosceva ma tutti erano al corrente chi vi abitava.
Attirò subito l’attenzione dei giovani e dei vecchi, di ogni bambino ed ogni mamma, dei potenti e dei più poveri.
Probabilmente avevano provato pietà per lei e le avevano trovato una camera nell’unica locanda della città, l’avevano riempita di cibo e cure. Le sembrava quasi di essere finita in Once Upon a Time, anche se non era più bionda e non era uno sceriffo, ovviamente.
E non c’era magia, nel suo mondo.

Aveva passato 5 mesi ad ambientarsi, conoscere persone, rifarsi una vita e rifiutare uscite troppo “pericolose”.
Aveva ricominciato a sorridere un po’ di più, aveva evitato di guardare i telegiornali riguardanti S.C. ma si era tenuta informata sul resto del mondo e sulle più attuali tecnologie.
Aveva affittato un appartamento sotto falso nome e con una carta di credito che teneva per le emergenze, aveva trovato lavoro nell’ufficio del Sindaco come segretaria personale e risolveva la maggior parte delle volte tutti i pochi guai che circondavano quel paesino, perché lei era la ragazza di città che sapeva cavalcare ad occhi chiusi, quindi era quella a cui tutti chiedevano aiuto.
Si sentiva desiderata e utile; indispensabile.
Sentiva ferite chiudersi, lentamente e con fatica, su loro stesse, cadendo nel dimenticatoio.
Certo, trovava noia in ogni giorno, ma la frigida Megan stava lasciando il passo alla piccola Felicity, quella che sperava in una nuova possibilità, una in cui non avesse dovuto ricordare più sangue di quanto avesse mai immaginato sulle sue mani.

La notte era un altro paio di maniche.
Tremante sotto le coperte, rivolgeva gli occhi spalancati alla finestra della camera fin quando lo sfinimento non la avviluppava nelle sue braccia mortali.
E nei suoi sogni si ritrovava gelida, piangente ed accusata da tutti i suoi nuovi conoscenti per la morte di tante vite da poter essere considerata alla stregua di una piccola dittatrice pazza.
Si svegliava ogni notte ancora, dopo 10 mesi, col sudore freddo ad attanagliarle il corpo, inzuppando vestiti e capelli, mentre ringraziava il cielo di aver dormito almeno 3 ore in una notte.
Scivolava in doccia e poi accendeva la tv, collegandola al portatile e permettendo al suo netflix di far scorrere liberamente immagini di serie di cui non le importava più molto.
Si distraeva così, preparando il caffè nel bel mezzo della notte, scalza ma già vestita di tutto punto per la giornata successiva, i capelli rossi liberi e ricci sulle spalle, perché così lì dovevano conoscerla.
Più libera, più alla loro portata, più come loro.
Mai come la se stessa del passato.

La notte in cui il passato tornò a farle visita, si sentì tradita dal suo stesso corpo.
Avrebbe dovuto essere spaventata, arrabbiata, pazza nel trovarlo ai piedi del suo letto con una mano sulla ferita che partiva dal ginocchio e lunga si estendeva fino a metà coscia.
Un sospiro invece uscì liberatorio dalla sua bocca e gli occhi si chiusero, l’inspiegabile sensazione di sicurezza che provava ogni volta che lui la toccava di nuovo forte nel suo petto a farla ricadere in un sonno tranquillo.

Svegliandosi più tardi, si accorse di essere scivolata al centro del letto, di qualcosa di caldo al suo fianco e del sole che splendeva fuori dalla finestra, come se non fosse neanche estate.
Cercò di capire cosa stesse succedendo e se la sera prima non si fosse per caso ubriacata finendo a letto con uno sconosciuto.
Ma il pigiama era lo stesso, il suo corpo non reagiva come avrebbe dovuto dopo una notte di sesso ed il profumo che proveniva dalla persona al suo fianco era troppo familiare per non capire di chi si trattasse.
Aprì immediatamente gli occhi e la prima cosa che fece fu alzare lo sguardo.
Oliver la stava osservando attentamente, gomito poggiato sul letto per sostenere la testa con la mano e rughe profonde a solcarne la fronte.

“Non ha il diritto di essere qui, preoccupato per me.”

La prima frase che gli diceva dopo quasi un anno.
Non si stupì nel sentire la sua voce rotta dall’emozione, ma neanche nel sentirla così piena di rabbia.

“Sono passati 11 mesi, Felicity. Un anno. Devi tornare a casa tua. Devi tornare e basta. C’è gente che ha bisogno di te.”

Lo schiaffò che partì subito risuonò nella piccola stanza e restò impresso nelle menti di entrambi come qualcosa di surreale ma al tempo stesso realissimo, come se tutti i loro gesti in quei due anni dovessero portare a quel modo di sfogare la frustrazione.

“Ho sempre pensato che, al nostro primo schiaffo, saremmo stati sotto al Verdant a litigare, tu che cercavi di curarmi ed io che non te lo lasciavo fare. Direi che questa è una delle tante cose in cui mi sono sbagliato, non è così?”

Stava quasi per partire un secondo schiaffo ma, con tutta la facilità di questo mondo lui le bloccò il polso prima che raggiungesse il suo volto, così che solo le unghie più lunghe e pulite da ogni smalto arrivassero alla sua guancia.
La rabbia che le ribolliva dentro era tanta che si fece male per strappare l’arto dalla presa dell’uomo, scappando immediatamente via da lui e da quel letto che fino a quel momento era stato vissuto solo dalla ragazza.
Anche per questo si arrabbiò, perché quella vita era incontaminata, come la sua casa ed avrebbe voluto che almeno qualcosa, intorno a lei, non dovesse ricordarle di chi era prima.
Invece lui doveva starsene lì, perfetto nella tuta scura e la T-shirt che abbracciava il suo petto in modi che non voleva più ricordare. Che ricacciava dai pensieri ogni volta che tornava a pensare a cosa fosse stato per lei il periodo da aiutante di Oliver Queen.

“Se per lei il mio aiuto non è valso mai così tanto, non dovrebbe essere qui. Non dovrebbe essere qui perché non la voglio qui. Non voglio più niente della mia vecchia vita e non deve più permettersi di dire che qualcuno ha bisogno di me, lì. Nessuno ha mai avuto veramente bisogno di me, a Starling City. E grazie a lei, Queen, sono riuscita ad accorgermene. Quindi ora può tornare per la sua strada ed evitare di riversare su di me il suo senso di colpa. Non c’è niente per cui sentirsi in colpa, la Felicity che conosceva è morta dopo aver fatto pace con se stessa. Quindi vada a piangere qualche lacrima da un’altra parte, non la voglio qui.”

Questo schiaffo, Oliver, non avrebbe mai potuto fermarlo.

Ce l’abbiamo fatta! Anche questo terzo capitolo è up e ringrazio come sempre GirlOnFire per il suo ingrato compito di beta, che svolge mooolto efficientemente.
As usual, la storia è dedicata ad Ainwen e se poteste…non lo so, farmi sapere cosa ne pensate?
Il chap 4, già pronto, lo metterò quando riceverò la 3/4 recensione, almeno riesco a capire se piace o no e se devo andare avanti. L
Se volete, as usual, mi trovate qui (https://www.facebook.com/pages/DarknessIBecame-autore-EFP/237740276376846) per qualsiasi cosa.
Ps questa storia avrà un happy ending, alla fine, anche se non ne ero troppo convinta quando l’ho iniziata.

Spero restiate con me anche se la nuova stagione è alle porte e quindi questa sarà solo un’altra FF di fantasia!

Baci
Vevve/Dark

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


Persino per i suoi gusti, sapeva di essere stata troppo dura con Oliver.
Ma quante volte si sogna di poter dire a qualcuno quel che si pensa, magari quando è troppo tardi per poterlo dire?
 Lei non avrebbe avuto una seconda possibilità, perché prima di tutto non voleva rivedere quel volto, mai più.
Era stata molto chiara, su questo.
E poi davvero, una persona con ego più grande di quello di Oliver non esisteva nella sua cerchia di amicizie. Lei ci era andata giù pesante e con intenzione di ferirlo. Cosa poteva essere quel poco, al confronto con una fiducia tradita?
Lui sapeva come ci si sentisse in una situazione del genere: feriti, soli, abbandonati. Impauriti ed offesi, senza più un briciolo di amor proprio perché se gli altri non avevano più rispetto per te, allora a cosa serviva tenerlo stretto al petto?
Quello non era uno smacco, era stato uno schiaffo in piena faccia, solido e doloroso come il dolore che ancora sentiva al cuore; faticoso come quando di notte provava a respirare nel buio della sua camera senza riuscirci e finiva sempre nell’angolo più lontano dal letto, guardando la luce illuminarlo e sperando di potervi tornare, sapendo che niente e nessuno le avrebbe ridato il suo posto in quella luce.
Lei l’aveva persa, la sua luce. Aveva perso un’innocenza a cui neanche si era accorta di essere rimasta aggrappata per 23 anni.

“Felicity, lascia che…”

Il filo di pensieri fu interrotto dalla voce di Oliver e per un attimo gliene fu grata perché sentiva tornare il panico; l’abisso si stava riaprendo sotto i suoi piedi e lei non era mai stata tanto in equilibrio precario sul suo bordo come quella notte. Alzò involontariamente una mano, fermandolo dal continuare a parlare e tremò nel constatare che questo l’aveva solo spinto ad avvicinarsi.
Quando avrebbe perso tutta la testardaggine, Queen?
Era impossibile farlo ragionare, certe volte.
Ma lei non era più la donna che lo conosceva, no? Non era neanche più la sua spalla, non era più niente. Aveva scelto di non esserlo ed al tempo stesso la scelta era stata fatta per lei.
Per il capriccio di una notte si era rovinato un mondo costruito su misura per il loro Team; ma alla fine chissà, semplicemente ora avevano più spazio senza di lei.

“Non faccia un altro passo. Sono a tanto così dal prendere il mio cellulare e chiamare lo sceriffo. Mi sto trattenendo solo perché lei assomiglia a qualcuno che conoscevo, un tempo.”

Spostò gli occhi prima dell’ultima frase, fissandoli sulla finestra alle spalle di Oliver perché sicuramente anche questo doveva averlo ferito.
Non avrebbe saputo spiegare l’esatto momento in cui l’uomo nella sua camera cedette, ma senza che si muovesse un muscolo di quel corpo statuario, lei seppe immediatamente di aver vinto.
La battaglia?
La guerra?
Forse solo un momento per riordinare le idee.

“Lo so che sono stato imperdonabile, un coglione di prima categoria, ma…dovevo salvarli. Dovevo salvarne quanti più possibile. E ora tu…”

Non riuscì a finire la frase, lasciando che la sua testolina geniale vagasse nel cercare quali parole avrebbero concluso quella scusa raffazzonata.
E ora tu non vuoi più fare ricerche per me?
Sei scappata e non so cosa dire ai tuoi capi nella mia azienda?
Sei arrabbiata con me e odio far arrabbiare le donne, perché sono sempre stato un playboy da strapazzo?

“…hai finalmente capito che non era salutare starmi vicino. Quante volte io abbia desiderato vederti sparire, nei primi mesi, non puoi immaginartelo. Eri un peso, eri una preoccupazione, qualcuno col mio fardello e nessuna capacità di proteggersi. Il vecchio Oliver penso ti odiasse. Anche se infondo sapevo che era semplicemente perché non volevo dare a vedere quanto avessi bisogno di te. E quando bene tu facessi alla nostra squadra. Digg ancora non se lo perdona, sai? E dopo aver visto cosa ti è successo…”

Aveva parlato e con la stanchezza nei passi si era diretto verso il suo letto matrimoniale, accasciandosi ai suoi piedi e sedendo in terra, gambe al petto e viso rivolto alla finestra. Non si era mosso, ma all’ultimo aveva indicato con un cenno del capo verso di lei, accompagnando il gesto con un roteare della mano nell’aria, quasi la lista di quel che le era successo fosse lunga ed inutile da elencare.

“Cosa mi sarebbe successo, di grazia? Almeno lo sai, che mi è successo?”

Inconsciamente era tornata a dargli del tu, forse perché non era mai stata una persona troppo cattiva o forse perché – e le sarebbe costato ammetterlo, più tardi quella notte – lei così lontana da Oliver Queen non sapeva stare. Già  vederlo tanto vulnerabile nella sua camera la stava cambiando, stava modificando il nuovo stile di vita di cui si era accontentata e riportava a galla emozioni che pensava non solo di aver soppresso, ma cancellato a causa dei mille e più attacchi di panico che avevano come centro tutto quel che era successo con lui.
Aveva anche fatto qualche passo avanti, tanto che le ginocchia toccarono il materasso senza che neanche se ne accorgesse e lui dovette girare il capo per accorgersi che qualcosa stava cambiando. Lo sapeva, aveva notato tutto come notava sempre tutto. Solo che questa volta stava notando lei e tutto ciò non le andava giù. Non voleva che la notasse adesso, dopo il mare di dolore nel quale l’aveva gettata.

“Ne sono dolorosamente a conoscenza, sì. Penso di stare ancora guarendo da un paio di costole incrinate: Digg voleva farti avere un regalo, visto che sapeva che mi ero deciso a parlarti. Mi ricorda costantemente la mia parte in quello che ti è successo e…non ce la faccio più a vederti soffrire ogni notte, ho smesso di contare quante volte avresti dovuto sorridere e invece non l’hai fatto…sai quanto può essere doloroso sapere di aver spento la tua gioia? Ogni notte mi odio di più, vengo qui e ti guardo dormire. E’ l’unica punizione che devo avere. Arriva più a fondo di qualsiasi tortura che abbia mai subito. E non è neanche la metà di quel che provi tu, me ne rendo conto.”

“Non mi interessa, Queen. Punisciti e soffri quanto vuoi, ho smesso di preoccuparmi per te. L’ho fatto troppo e tu non hai mai nemmeno detto grazie, non quando contava davvero.”

Non era davvero così. Non era vero che non le interessasse. Internamente sentiva che qualsiasi cosa l’avesse bloccata fino a quel momento - quella presa intorno al cuore -, si era allentata di poco.
Pochissimo.
Ma le stava permettendo di respirare più liberamente e non voleva, non voleva che Oliver trovasse di nuovo una via per avvicinarsi a lei. Non voleva perdonarlo perché la sofferenza provata in tutti quei mesi non poteva essere presa a cuor leggero.
Sembrò che le sue ultime parole, per quanto false fossero, avessero rimesso in moto l’Arciere ed il suo corpo.

“Non deve interessarti di me. Io non conto niente, non al momento; tu sei importante e ho deciso di smetterla di guardare e cominciare ad agire. Io ho combinato il casino ed io devo, ma soprattutto voglio, prendermene la responsabilità. Lis, non mi interessa che tu lo voglia o no, ma è ora che io ricambi il favore e ti stia accanto come tu hai fatto con me l’anno scorso. Mi hai riportato indietro, anche dopo come ti ho trattata…posso provare a riportarti indietro, con me?”

Senza che lei desse il suo consenso, Oliver si era alzato ed avvicinato lentamente, continuando a parlare – e quanto parlava, quella sera. L’uso di un soprannome, uno che effettivamente non la faceva rabbrividire, le scaldò un punto imprecisato nella pancia, riportando un vago colorito alle guance; lui non doveva esserselo perso, a giudicare dal sorriso dolce ed appena accennato comparso nuovamente sul suo viso.
Muovendosi come se fosse di fronte ad una bestiolina spaventata, l’uomo aveva allargato piano le braccia, stendendole davanti a sé e controllando che lei non facesse un passo indietro. Non ci sarebbe stato problema comunque, era tanto concentrata su ciò che stava dicendo da non accorgersi neanche di averlo ad un palmo di naso, una volta finito il discorso.
Saltò sul posto quando le mise entrambe le mani sui fianchi e se la tirò un po’ più vicina, senza il suo consenso.

“No!”

Tentando di scappare dalla sua presa peggiorò solo le cose. Sembrava quasi che Oliver fosse ancora più intenzionato a tenersela vicino, dopo la sua risposta; senza far passare troppo tempo, smise di combatterlo e fece aderire le braccia ai fianchi, maledicendosi solo successivamente perché così facendo vi aveva intrappolato anche quelle di lui che la circondavano.

“Va bene. Allora vedrò di farti cambiare idea, Felicity. Adesso è ora che torni a letto, su.”

Senza esitazione lo vide avvicinarsi col capo e per un terribile, emozionante secondo pensò che stesse per baciarla; il bacio arrivò, ma molto più innocente, giusto un fruscio di labbra sulla sua fronte aggrottata e subito dopo era svanito di nuovo, lasciandola più fredda e con una parte mancante nel punto a cui meno voleva pensare, in quel momento.


Ecco qua, io ho betato da brava bimba anche questo capitolo per dare un po’ di speranza alla mia Ainwen, a cui è ovviamente dedicata questa FF. Come fosse una sorpresa, lo so che lo state pensando. LOL
Oggi mi è arrivata una terza recensione per Voyeurism e sono andata in brodo di giuggiole, quasi impazzivo di gioia. Non volete la mia gratitudine eterna sotto forma scritta anche voi? Allora commentatela! *^*Commentate tutto, chiedete, datemi idee. Io vorrei provarci. Ma non lasciatemi sola nel fandom. Q___Q
Ora torno a dondolare guardando la quinta stagione di The Big Bang Theory, ma potete sempre trovarmi qui. A meno che Fb non impazzisca, ci sono sempre! <3
Spero abbiate apprezzato il leggerissimo fluff alla fine di questo capitolo, perché nel prossimo ci sarà qualche risata e poi…dan dan daaaaaaan!!

Vostra
Dark/Vevve

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


Chap 5 End

Oliver? Oliver sapeva essere estremamente cocciuto, ma solo ora capiva quanto.
La notte era passata ed aveva portato il sonno prima di quanto effettivamente si aspettasse o osasse sperare.
Senza sogni, era riuscita a tirare dritto fino a ben più dell’orario di sveglia di una persona normale: quando aveva aperto gli occhi pregando che tutto quello che era successo la notte prima fosse solo una proiezione della sua fervida – a quanto pareva – immaginazione, presa da qualche improvviso desiderio represso di chiusura nei confronti di Oliver, aveva notato che l’orologio accanto al letto segnava allegramente le 11:30. Tanto allegramente che sembrava quasi volerla prendere in giro, prendere in giro la sua risolutezza nel non voler avere più niente a che fare col Vigilante di Starling City o, come lo chiamavano ora, Green Arrow.
Ancora una volta sentì una fitta di curiosità colpirla alla bocca dello stomaco, perché non era più nel giro e perché non poteva – non voleva, si sbrigò a correggersi – sapere cosa significasse quel nuovo soprannome.
Non era poi colpa sua se la mente fervida che i genitori le avevano donato era sempre proiettata verso nuovi misteri e quello era uno che la infastidiva particolarmente.
Uscì dal letto con una compostezza che non era sua, toccando i capelli ormai rossi e pensando che qualcosa di diverso poteva succedere, quella mattina.
Tirò dritta verso la doccia, fermandosi solo quando si accorse che il cellulare sul comò non smetteva di emettere quella lucina che significava guai. Qualcuno l’aveva chiamata, probabilmente qualcuno preoccupato dall’ufficio oppure altri che non l’avevano vista passare per la città a piedi, come ogni giorno.
Sorrise, avvicinandosi ad uno degli ultimi mezzi ipertecnologici che ancora simboleggiavano la sua vita precedente ed accarezzò lo schermo per sbloccarlo, già certa di avere diversi messaggi buffi nella casella vocale: aveva ragione alla fine, l’avevano riempita di messaggi e chiamate e solo dio sapeva quant’altro, ma ciò che più spiccava nel gruppo di nomi a cui ormai si era abituata fu un unico mittente sconosciuto, che per quanto avesse cercato di cancellare dalla memoria, era ancora lì, impresso nella sua mente.
Il numero di Oliver, quello che aveva cancellato sia fisicamente che mentalmente dalla sua vita, brillava sopra tutti e sembrava anche lui volerla prendere in giro.

Vengo a trovarti più tardi. Vino o ciambelle? O entrambi?
-O.

-Ignoralo, Felicity.-

Ah! Ed ecco che ancora una volta Oliver Queen entrava nella sua vita e le portava via la terra da sotto i piedi. Era stata molto attenta a dimenticare anche il suo precedente nome, evitando di dirlo ad alta voce in uno dei suoi piccoli momenti in cui doveva buttare fuori parole a caso, come faceva quando si trovava a S.C.
Una notte con lui, o almeno un’ora con lui nella sua camera e già si sentiva mancare la solida base creata in quei mesi.
Non gliel’avrebbe data comunque vinta, sarebbe andata avanti senza degnarlo di alcuna attenzione e lui si sarebbe stancato. Sarebbe tornato al suo solito lavoro, alla solita vita importantissima ed a qualche nuova fiamma che sicuramente l’avrebbero interessato più di un’amicizia perduta tanto tempo prima.

Raddrizzando la postura, quel giorno aveva deciso di riprendere a lavorare dopo pranzo, usando la scusa di una leggera influenza intestinale sofferta la notte per schiarirsi le idee e non rientrare in ufficio fin dopo l’orario in cui tutti avrebbero smesso di chiedere di lei. Di sicuro Janet aveva sparso la voce ed ora avrebbe trovato solo cioccolata, qualcosa di caldo e magari biscotti sulla sua scrivania, in segno della preoccupazione della città.
Non voleva sentirsi tanto egoista, ma trasferirsi lì le aveva fatto bene. Aveva fatto bene al suo ego ferito ed alla sua anima sempre così sofferente a causa di anni ed anni di bullismo ed invisibilità agli occhi degli altri.
Lì non si sentiva più invisibile, lì per una volta poteva essere eroina e non era pronta a lasciar andare quella sensazione.
Ironico vedere come, proprio mentre pensava ad Oliver e si chiedeva se era quella la sensazione che provava anche lui quando calava il cappuccio ed incoccava una freccia, i suoi pensieri le si materializzassero davanti agli occhi.
Seduto, con una gamba a terra ed una penzoloni sulla sua scrivania, Mr Queen in persona l’aspettava con un sorriso smagliante. Unico punto a suo favore, la perdita di quest’ultimo quando vide lo sguardo serio ed esasperato di lei posarsi sul suo volto, prima di accorgersi che non era solo nella stanza ma che stava intrattenendo il Sindaco, niente di meno.

-Quindi sei amica di Oliver Queen, Megan. Potevi avvertirci, l’avremmo accolto a dovere nella nostra piccola cittadina, no? Prenoti dove vuole e porti a cena la nostra piccola Finch, ha bisogno di essere distratta…vi lascio alla vostra bottiglia di vino, per oggi farò a meno del tuo aiuto, Meg.-

L’espressione del magnate di Starling City fu impagabile, non appena si rese conto di cosa le stava portando via solo nello starle vicino, ancora una volta.

-Lasciami imparare dai miei errori. Non ho fatto apposta, Lis. Ti pre…-

-Ti ho detto già due settimane fa di non chiamarmi Lis. Non voglio che tu faccia saltare la mia copertura e poi non hai alcun diritto di affibbiarmi un soprannome, ok? Vattene Oliver, davvero, mi sta tornando mal di testa.-

Sulla strada verso casa, come sempre dopo il lavoro Oliver la stava seguendo e cercava di farsi ascoltare, mantenendo con una facilità incredibile il suo passo veloce che sarebbe dovuto servire a seminare l’uomo in questione.
Per una volta maledisse i tacchi e sentì l’estrema mancanza della sua Mini Cooper, e poi canalizzò la sua frustrazione su Oliver che le stava ancora una volta facendo ricordare la sua vita da Miss Smoak.
Fermandosi bruscamente, per poco non rischiò di venir presa sotto dalla figura massiccia dell’uomo, che si bloccò appena in tempo ad un palmo di naso, occhi spalancati per la paura di farle male e di quello che stava per succedere.
In due settimane di pedinamento, non una volta si era fermata per guardarlo negli occhi; avevano parlato solo camminando velocemente e neanche uno di fianco all’altro.
Cominciavano ad attirare più attenzione del dovuto ma lui ci era sicuramente abituato e lei non gli avrebbe dato soddisfazione: non avrebbe ceduto facilmente a quella specie di ricatto, anche se ogni giorno lo vedeva presentarsi con un sorriso da cucciolo, jeans e maglione, qualcosa per lei in mano; solitamente la cena, perché sembrava che si fosse accorto di quanto fosse dimagrita o di quanto evitasse di fare più di un pasto al giorno.

-Stammi a sentire, Mr. Non-So-Incassare-Un-No! Non hai alcun diritto di essere qui, di invadere ogni singolo momento libero della mia vita. Sono davvero stufa Oliver, non puoi capire quanto sia difficile per me mantenere la facciata ogni giorno, quando tu continui a ricordarmi chi fossi prima di arrivare qui. Sono solo…stanca.-

-E allora smettila di respingermi. Smettila di combattere tutto e torna da me. Torna a casa con me, Li…Meg. Torna indietro con me.-

Gliel’aveva sussurrato sulla pelle, senza realmente toccarla, ma lei se lo sentiva intorno come se la stesse abbracciando ed inglobando nella sua figura imponente. Non poteva guardarlo negli occhi perché era troppo vicino e lei doveva ricordarsi anche solo come respirare, dopo aver sentito l’agonia che quelle parole suscitavano nell’uomo di fronte a lei.
Davvero sentiva la sua mancanza.
Ma lei, lei cosa avrebbe dovuto fare?
Buttargli le braccia al collo e dimenticare? Fingere che la sua ritirata strategica fosse solo un capriccio da bambina?
No, lei stava ancora guarendo. E se per caso la guarigione fosse stata accelerata grazie alla presenza confortante di Oliver, di nuovo in ogni sua giornata, non l’avrebbe ammesso neanche a se stessa.

Aveva accettato di uscire a cena con lui.
Due sere prima le aveva confessato, appeso fuori dalla sua finestra mentre lei cercava bellamente di ignorarlo e sistemava le cose per andare a letto, che non aveva fatto altro che pensare di portarla da qualche parte e parlare, come due persone adulte.
Aveva detto che glielo doveva, dopo quasi due mesi di corteggiamento.
Certo, lui aveva scherzato ma lei si era ritrovata ad arrossire violentemente e gli aveva tirato la maglietta del pigiama, che lui aveva preso al volo ed aveva delicatamente tirato verso il letto, così che potesse effettivamente indossarla per la notte.
Era rimasto lì a guardarla entrare sotto il lenzuolo, seduto sul suo davanzale, raccontandogli delle notti e delle uscite con Diggle: di come non fosse la stessa cosa senza di lei ad aiutarli, a risollevare i loro spiriti feriti o semplicemente a far sentire loro che non erano soli e che potevano ancora proteggere qualcosa di buono, bello, senza dover sempre ricorrere alla violenza.
Le aveva detto, mentre si addormentava, che l’aveva sempre vista come un essere estremamente delicato e che aveva sbagliato a dare per scontato che mostrandosi più vicino a lei l’avrebbe ferita. Aveva capito perfettamente di averla spezzata, semplicemente perché voleva proteggerla ed ora avrebbe dato qualsiasi cosa, pur di poter fare nuovamente affidamento su di lei.
In un ultimo, inutile tentativo di trattenere uno sbadiglio, aveva accettato di uscire con lui a cena ed aveva catturato il suo sospiro sollevato proprio prima di cadere in un sonno tranquillo.

 
Ci erano volute altre tre settimane prima che ammettesse di aver acconsentito a quell’uscita ed ora, mentre sospirava e controllava il suo riflesso allo specchio, sapeva che stava per avvicinarsi l’inevitabile.
Più lasciava spazio ad Oliver nella sua vita, più si aspettava di vederlo arrivare in città; diventava sempre più impaziente di trovarlo all’angolo che portava dal suo ufficio alla sua caffetteria preferita e le piaceva –segretamente – starlo ad osservare quei 10 minuti che passavano insieme lì dentro, da sopra una tazza fumante di caffè che lui si premurava sempre di accompagnare con dei biscotti aromatizzati alla vaniglia.
Maledetto.
Ed ora, davanti allo specchio col suo vestito rosso scuro che svolazzava intorno alle ginocchia - come se non abbracciasse perfettamente le sue curve fin sotto al sedere - e gli orecchini poco appariscenti ma perfetti per dar luce al volto morbido sotto una cascata di boccoli rossi, sapeva che avrebbe ceduto. Presto.
Non le importava più cosa reputasse giusto o sbagliato, come potesse giustificarsi con una cittadina che le aveva dato tanto.
Lei apparteneva a Starling City ed alle sue strade, che venissero vissute di giorno o di notte non faceva quasi più differenza; sapeva solo che andavano vissute e che per quanto amasse quel posto, lei ricominciava a sentire il pressante bisogno di tecnologia, di velocità, di negozi aperti 24 ore su 24 e di uno scopo.
Lo scopo che solo accanto ad Oliver poteva trovare.
Non c’era niente di più bello, divertente, emozionante che avesse mai provato in vita sua ed ora, con Queen di nuovo a ricordarglielo, era sempre più difficile mandare giù il rospo.
Per questo aveva ceduto, per questo stava scendendo le scale di casa sua col cuore che batteva un po’ più forte, per questo aveva preso la sua mano quando finalmente l’aveva visto nel suo splendido completo di chissà quale stilista.
Erano passati quasi 3 mesi da quando l’aveva abbracciata, quella notte ed ogni giorno di più avrebbe voluto accettare quei piccoli gesti di Oliver che l’avrebbero spinta ancora tra le sue braccia.
Gli sorrise timidamente, alzando lo sguardo e nel giro di un secondo seppe di aver sbagliato.
Quando si riavvicinava a quell’uomo finiva solo per spezzare il cuore di entrambi e, se il sangue che le scaldava le mani ora che l’aveva completamente addosso e lei lo sosteneva con il suo piccolo corpo era un’indicazione, non avrebbe dovuto riavvicinarsi mai più.


Uhm...ecco...non è che dopo questo vi ritrovo sotto casa, pronte ad uccidermi? Non sarebbe carino, vero? *faccino da cucciola triste*
Non posso dirvi niente, se non assicurarvi che il sesto (ed ultimo) capitolo è pronto e solo da betare, in pratica. Quindi boh, se arrivate presto a 4 recensioni pubblico, altrimenti aspetto la mia solita settimanina e lo avrete tranquillamente.
Vi voglio bene, ricordatelo. 
Se cercaste spoiler dall'ultimo capitolo, cercate QUA, vediamo cosa posso darvi. <3

Dark/Vevve

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


Fu una mano calda che gli accarezzava il volto a svegliarlo.
Più che notare ogni rumore - dal bip crudo ai passi ai respiri -, fu quel calore e la delicatezza delle dita, del palmo morbido a riportarlo nel modo dei coscienti. 

Il polpastrello del pollice continuava a scivolare sulla sua barba – che sembrava troppo lunga per essere andato a dormire solo la sera prima – mentre il palmo lo teneva con sicurezza, come a proteggerlo dall’aria fresca della camera. Istintivamente tentò di girarsi, allungando le braccia per afferrare e tirare a sé il corpo della proprietaria di quella mano, sicuro che anche se non ricordava chi fosse in quel momento, una volta svanita la confusione lo avrebbe apprezzato molto di più di quanto avesse apprezzato la maggior parte delle cose in vita sua. In quel momento sentiva solo calore, morbidezza ed un profumo che sapeva di casa e di pace, quindi cosa gli impediva di prenderla e farla sua?
Ci avrebbe dovuto pensare un po’ di più, forse.
Contemporaneamente, venne bombardato da un dolore spaventoso all’interno della gabbia toracica, mentre gli sembrava che degli artigli volessero strappargli la pelle dalla schiena e due mani forti e grandi lo bloccavano di nuovo sul letto. In più, quelli che ormai riconosceva come macchinari ospedalieri erano impazziti perché doveva aver strappato qualche polo connesso al suo petto, la stanza si stava riempiendo di medici ed infermieri e mentre una luce veniva sparata nei suoi poveri occhi non più abituati, sentiva solo la scottante assenza di ciò che aveva cercato di afferrare.
Felicity.

-Sono qui, Oliver. Tu…cerca di calmarti.-

-Signorina, stia indietro, quando avremo finito potrà tornargli vicino.-

Senza accorgersene, doveva aver gracchiato il nome della donna quando aveva capito, quando l’aveva riconosciuta con una chiarezza quasi dolorosa. Cercò di respirare normalmente, sembrava che un secondo prima il corpo fosse in fiamme e adesso…no; era morfina quella che sicuramente gli avevano iniettato. Ecco perché odiava sedativi ed anestetici di ogni genere, non gli permettevano di agire, di combattere, di parlare con lei. Sospirò subito dopo, lasciandosi andare all’inevitabile ed insieme a lui anche i rumori intorno si affievolirono. Come un buon sipario di teatro, lo staff ospedaliero si era aperto ed aveva lasciato passare la rossa che timidamente si stava avvicinando al suo letto, due occhiaie quasi nere e le mani strette tra di loro, davanti allo stomaco.
Perché non si allungava e tornava ad accarezzargli il volto?
Non c’era conforto migliore per lui in quel momento – non ce n’era mai stato, ormai era venuto a patti con se stesso – e lei invece sembrava titubante, quasi spaventata nell’avvicinarsi.
Probabilmente aveva emesso il suono frustrato che gli si era impigliato in gola perché in un secondo entrambe le mani di lei erano volate su di lui e nella sua visuale era entrata anche un’enorme figura scura che in meno di mezzo secondo aveva riconosciuto come Diggle, quindi non una minaccia.
Gli aveva lanciato una sincera occhiata di scuse ma era subito stato attirato dalla bionda che si sporgeva su di lui ed i cui capelli ora ricadevano attorno ai loro volti, solleticandogli le tempie. Si sforzò di sorriderle e probabilmente ci riuscì meglio con gli occhi, che con la bocca a giudicare da come le spalle si rilassavano e lei gli rispondeva al sorriso con un sospiro sollevato.
Non appena la sentì scivolare via però, spalancò di nuovo gli occhi e le macchine segnarono un nuovo balzo nel battito cardiaco.

-Oliver!!-

-Non andare via, Lis. Io non…-

-Non vado da nessuna parte ma tu non muoverti, ok?-

Annuì, ancora un po’ spaventato nel lasciarsi andare alla morfina, rischiando che lei sparisse di nuovo ma quando le mani ripresero il loro compito accarezzandogli il viso, i capelli, le spalle, poté rilassare il corpo e la mente, chiudendo finalmente gli occhi con l’immagine del volto stanco ma perfetto, bellissimo di Felicity, vicino al suo.

Più volte entrò ed uscì dal dormiveglia senza riuscire a chiedere altro che di lei e poche basilari funzioni. Ricordava solo una forte stretta alla mano, lo sguardo intenso che di nuovo lui e Digg si erano lanciati perché in quel momento non avevano bisogno di parlare e poi di nuovo la pelle delicata della sua piccola tecnica che tornava in contatto con la sua.
Gli era parso di sentir parlare, ad un certo punto; borbottii nella camera di voci familiari ed aveva visto un’altra figura estremamente conosciuta ai piedi del suo letto.
Due pacche sulla gamba e Thea si era issata sul materasso per sedersi al suo fianco, sdraiandosi con cautela così da poggiare il capo sul suo petto.

-Si prenderà cura di te, 'Licity. Se eri tanto serio da seguirla ogni giorno e renderti mira di qualche pazzo che ti ha seguito dal Glades, allora si prenderà cura di te. Ed io sarò a casa ad aspettarti per litigare su tutto quello che vuoi.-

Gli aveva dato un bacio sulla guancia e poco dopo era nuovamente caduto nel suo sonno indotto, sentendo qualcosa di umido bagnare il suo camice d'ospedale.

Sembrava che ogni giorno, ogni minuto, Felicity fosse lì per lui. Non riusciva a spiegarsi l’irrequietezza di quella giovane donna al suo fianco ma se doveva dirla tutta non gli interessava al momento; aveva solo bisogno che lei gli fosse accanto ed appena fosse tornato in forze avrebbe sistemato tutto ciò che non andava, rassicurandola e cacciando ogni sua paura.
D’altronde se l’era promesso dalla prima notte in cui l’aveva vista rannicchiarsi lontana dal nuovo letto - quando era riuscito finalmente a trovarla – e gli aveva ricordato con spaventosa precisione il suo stato non appena tornato dall’isola.
Come si era ridotta?
Era stato lui a farle questo?
Si sarebbe battuto fino ad arrivare all’inferno per poi tornare indietro, se solo avesse saputo con certezza di poterla salvare dal suo. Tutto quel che voleva era tornare a vederla sorridere, più di quando erano insieme in un sotterraneo, più di quando non si conoscevano.
Voleva che avesse un sorriso nuovo tutto per sé: sapeva di poterci riuscire e non vi avrebbe rinunciato.

Il giorno in cui venne dimesso gli tremavano le gambe.
Era stato sotto osservazione per le prime 12, fatidiche ore dopo che un proiettile l’aveva colpito ed aveva rischiato di mandargli il polmone in collasso.
Digg gli aveva raccontato di come Felicity, mani sporche di sangue, trucco colato sul volto e vestito rosso da sera ancora indosso, avesse aspettato quelle 12 ore senza mai muoversi dalla poltrona al suo fianco, dopo l’intervento improvviso che aveva dovuto subire all’ospedale della cittadina in cui Lis si era trasferita.
Una volta passate quelle prime ore, avevano aspettato qualche giorno perché i segni vitali si stabilizzassero; gli dissero che lui, effettivamente, si era svegliato più di una volta, troppo confuso e rabbioso per capire dove fosse.
Qui come sempre era intervenuto l’amico e guardia del corpo a proteggere Mr Queen e chi gli stava intorno.
La Smoak invece non aveva fatto neanche un passo indietro, stoicamente testarda nel non volersi neanche andare a cambiare.
Solo quando si erano decisi a trasferirlo a Starling City, grazie ad uno degli elicotteri posseduto dalla sua famiglia, lei si era permessa di ritornare all'appartamento con solo un pensiero in mente. Tornare a casa e poi da lui.
Digg si era occupato della ditta di traslochi e di farle riavere un appartamento nello stesso condominio, poi avrebbero pensato al resto.

Il problema ora, mentre veniva trasportato verso l’uscita sulla sedia a rotelle, come da prassi, era che aveva paura di non trovarla lì. Quella mattina, mentre la sorella e John l’avevano aiutato a vestirsi si era guardato intorno spaesato, l’incertezza fatta persona nel non trovarla lì come i giorni precedenti.
Non avevano parlato molto, non si erano spiegati, ma la sua mano piccina non aveva mai lasciato per più di pochi minuti la sua; quella presenza confortante al suo fianco era diventata indispensabile.
Con un leggero tremito spinse sui braccioli e chiuse gli occhi, rimettendosi in piedi con meno forze di quante pensasse di avere ed ascoltando le porte automatiche di fronte a sé aprirsi per lasciare che il mondo esterno lo assalisse.
Fu un attimo, un momento di indecisione e due braccia magre ma più forti di quanto potessero sembrare lo strinsero alla vita, il corpo minuto schiacciato contro il suo come unico invito ad avvolgere quella palla di energia che gli si era attaccata addosso.
La circondò immediatamente con le braccia, poggiando il naso sulla sua nuca ed inspirando a fondo.
Quello doveva essere uno di quei momenti in cui si facevano dichiarazioni strappalacrime, in cui l’uomo prometteva fede cieca e la donna singhiozzava il suo amore di rimando.

-Prometti di non farlo più?-

-Voglio prometterti tante cose, ma…so solo che mi dispiace, Lis.-

Non l’aveva mai sentito quel “mi dispiace”, Felicity.
Le sue vere scuse per come si era comportato quasi un anno prima, non erano mai arrivate più chiare di così. E mentre l’ascoltava ridere sul suo petto, si mise in cammino verso l’esterno e sì sentì finalmente più sicuro.

Protetto e protettore, la sua famiglia era di nuovo completa.


Soooo…che ne pensate? Lo so che non c’è bacio, ma io la Olicity ancora non la vedo abbastanza matura, se devo scrivere qualcosa di molto serio…certo, ho già un qualcosa in mente, ma vorrei un vostro consiglio. Stacco il tutto in una one shot a parte? Lo includo qui? Come ve la immaginate, la coppia nel futuro?
Ps lo so che il PoV Oliver è stato un bel distacco dai precedenti 5 capitoli, ma non trovate che sia adatto?
Mi sono ritrovata a scriverlo senza neanche aver capito perché. Forse per questo ho già in mentre qualcos’altro, magari per spiegare il cambiamento di Felicity. Oppure no, a me piace com’è finito questo capitolo e…sì, stranamente sono soddisfatta della mia storia.

Quindi è arrivato il momento.
Grazie per aver seguito It had to…

…END.

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