Deep as your eyes

di SofiaAmundsen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** John Hamish Watson ***
Capitolo 2: *** Macarons ***
Capitolo 3: *** Text Me ***



Capitolo 1
*** John Hamish Watson ***








Quegli occhi raccontano una storia che nessuno vuole ascoltare. Raccontano una storia triste, di persone che hanno sofferto e non sono state ascoltate.

Te ne accorgi mentre li guardi muoversi felini sul suo volto, nel buio di una notte fredda a Londra. Nessuno ha mai ascoltato quella storia, lo capisci dalla sua espressione: distante, fredda, gelida. Sembra quasi che lui non abbia mai parlato con nessuno, eppure quelle labbra deve averle mosse, almeno una volta.
Se ne sta sempre solo, seduto su una sedia in quella stazione sporca e alienante, e tu ti chiedi cos’abbia di così sbagliato per non meritare la compagnia di qualcuno. Tutti hanno un amico, anche il diavolo. Forse è lui a voler stare da solo: neanche alza lo sguardo quando qualcuno, nel suo abitare sfuggevolmente la propria vita, scappando da qualcosa per raggiungere qualcos’altro, gli si siede accanto. Non alza lo sguardo neanche quando passano i treni, nonostante il vento impetuoso che lasciano come unico ricordo gli scompigli i capelli mossi e corvini, quelle volte che le sedie in legno della stazione accolgono troppi viaggiatori per fare spazio anche a lui che non parte mai, così si siede sulle panche vicino ai binari.


Non l’hai notato subito, lo ammetti. Ti piacerebbe poter dire che dal primo momento in cui l’hai visto hai individuato i suoi occhi di ghiaccio sotto il ciuffo scuro che ricade, troppo lungo, sul suo viso, o l’espressione annoiata nascosta dal colletto alzato del lungo cappotto. Farebbe sembrare tutto uno di quei film in cui le persone si rincorrono sotto la pioggia e poi si baciano sussurrando parole più finte delle loro lacrime. Ma tu lavori al cafè della stazione, fai turni lunghi per riuscire a pagarti il posto misero in cui vivi, vedi milioni di persone ogni giorno, che corrono o camminano lentamente, che urlano o sussurrano, che sembrano felici o piangono in fazzoletti usati, che leggono libri d’autore o cercano la propria intelligenza in un gioco senza scopo. Vedi milioni di persone che partono senza lasciare niente, che vengono da te senza guardarti negli occhi, biascicando qualche parola in un accento che hai imparato a riconoscere, per non annoiarti, che non vedono l’ora di lasciare quel posto, perché che stiano andando o che stiano tornando, un viaggio è sempre qualcosa che ti divide da qualcuno. Così ti è passato davanti insieme al mondo e tu hai lasciato che lo facesse. Poi ci è passato ancora. E ancora. Finché non ti sei fermato tu, rappresentando un’eccezione in un posto dove ci si ferma solo per poi ripartire. Ti sei fermato a guardarlo e hai dato tempo a te stesso di notare che quel ragazzo, giovane, troppo per avere già quell’aria triste, si siede sempre lì, su quelle sedie scomode e sporche, consumate dalle vite di tante persone. L’hai osservato con le sopracciglia aggrottate, perso in lui come lui sembrava perso nel suo libro, finché l’impazienza scortese dell’uomo di fronte a te non ha preteso le sue sigarette.
Da quel momento, ti sforzi di distogliere lo sguardo, di concentrarti altrove: fingi perfino di impegnarti nel tuo lavoro e metti ancora alla prova il sorriso finto che usi con clienti che non lo noteranno. Ma torni sempre lì, a cercare un dettaglio che ti è sfuggito in quel ragazzo così misterioso da essere buio.

Hai notato che a volte resta fino a tardi, fino a notte fonda. Una volta che hai dovuto fare un turno di dieci ore ti sei accorto che non resta fino a tardi, dorme lì. Allora ti sei domandato perchè un ragazzo così giovane – quanti anni avrà, 16? 17? Di certo non è maggiorenne – dorma tra i barboni, nel pericolo di una Londra sotterranea che nasconde chi non ha voglia di vedere e non vuole essere visto. Perché non abbia una casa. Poi hai corretto la domanda, notando che è sempre ben vestito, i capelli vaporosi per lo shampoo recente, il cappotto stirato impeccabilmente. Quindi ti sei chiesto perché non abbia nessuno che lo rimproveri se non torna a dormire, o che si preoccupi di dove passi la notte. Forse mente ai propri genitori, hai provato a pensare una volta, ma hai visto troppa sincerità in quegli occhi per darti ragione.


Quegli occhi ti parlano. Ti raccontano tante storie che hai quasi paura ad ascoltare. In effetti, quegli occhi ti spaventano. I tuoi li hanno incontrati tra mille, nella sfuggevolezza della stazione, e sei rimasto senza fiato, un attimo prima di riabbassare lo sguardo. Ti hanno detto tanto, quegli occhi. Ti hanno chiesto di salvarli, o almeno così è sembrato a te, ti hanno detto che hanno visto tante cose, brutte, molto brutte, che avrebbero voluto piangere, ma che non l’hanno mai fatto, o forse una volta o due sì. Ti hanno detto che non tutto è come sembra, che l’apparenza inganna, che quel ragazzo non ha fatto niente di male per meritare la sua solitudine, ma che a volte essere sé stessi ha il suo prezzo, e loro lo sanno bene. Ti hanno detto che qualcuno ha provato ad addomesticarli, a insegnare loro a mentire, a non cambiare col dolore, a non permettere al cuore di servirsi di loro per urlare sofferenze altrimenti inespresse, ad omologarsi con i colori già esistenti, perché essere diversi è sbagliato, perché essere diversi ti rende strano. Ma loro non sono né blu, né verdi, né grigi, né azzurri. Ti hanno detto che a volte si sono chiusi, così stretti da fare male, e hanno lasciato che tutta la sofferenza fosse filtrata dall’udito, che urla sostituissero mani che colpiscono, che singhiozzi sostituissero lacrime. Ti hanno detto di non parlare, che non serve, che a volte l’unica vera parola è lo sguardo, ma il loro è perso nel vuoto, o nascosto tra righe troppo fitte di pagine consumate, per non parlare con nessuno.
Ti sarebbe piaciuto saper disegnare, per immortalare quegli occhi in un tornado di sfumature sottili, ognuna diversa, ognuna intensa, ognuna bellissima, e coglierne il brillare cupo e profondo del blu stellato, il riflettere sensazioni dell’azzurro glaciale. Un bambino molto creativo deve essersi divertito davvero tanto a creare quegli occhi, fondendo colori diversi, accesi, splendenti senza davvero mescolarli, così da forgiare un’opera d’arte tale nella sua indefinitezza. Forse è questo che fanno i bambini in paradiso, quelli morti troppo presto, strappati alle mamme: giocano con gocce di colore per creare gli occhi delle persone belle.
Ma tu non sei un pittore, tu lavori in un cafè, e sorridi alla gente quando viene a comprare un panino elastico e stomachevole da mangiare in viaggio.


È passato un mese, quando realizzi che è folle appuntare in una piccola agenda che tieni sotto il bancone i giorni in cui c’è e fino a che ora si ferma. Un mese, da quando hai iniziato a scriverlo, per caso, quasi inconsciamente. È servito però a farti capire che lui non segue uno schema preciso, orari, date: arriva, si siede nella penombra della sua solitudine, e quando rialzi lo sguardo non lo trovi più, anche se è giovedì, anche se sono le due di pomeriggio o l’una del mattino. Un’unica costante nei tuoi appunti: il mercoledì non viene mai prima delle quattro e mezzo. Provi a chiederti come mai, ma prima che tu possa fermarla, la tua mente vaga già per i limiti sconfinati del possibile. Te lo immagini mentre è a scuola, annoiato tra i banchi, in un recupero pomeridiano che non ha voglia di fare, non per pigrizia, ma per superiorità. Oppure lo guardi nella tua mente giocare a tennis o forse fare equitazione, ma l’immagine di piccole gocce di sudore che gli accarezzano il profilo scolpito ti turba. Ti domandi anche se abbia una ragazza con cui si vede e ti stupisci innervosito e dispiaciuto a quel pensiero.


Un giorno arrivi a lavoro stanco, nervoso e fradicio. A Londra diluvia, il cielo sembra volerla affogare nelle gocce pesanti e fredde che ti entrano nella pelle e ti gelano l’anima e tu devi andare a lavorare prima dell’inizio del turno, per fare un favore a Mike, il tuo collega, un grasso e presuntuoso ragazzotto di città: avresti voglia di prenderlo a pugni ogni tanto, ma sei troppo onesto anche per dirgli di no quando ti chiede due ore del tuo tempo per andarsi a scopare l’ennesima studentessa ingenua, ore che sicuramente non ti restituirà.
Ti appoggi allo sgabello dietro la cassa, dopo mezz’ora di vuoto totale, persone che ti passano davanti anche loro infastidite dalla pioggia, nel vano tentativo di ripararsi dalla tristezza che getta loro addosso. Sai che non puoi farlo, ma oggi te ne freghi: sfogli un libro appoggiato al ripiano della cassa e di tanto in tanto sottolinei qualche parola con la matita che tieni in bocca, o che ti rigiri tra le dita.

«Un pacchetto di Golden Gate Blue.»

La voce ti arriva roca e profonda, un suono nuovo, che improvvisamente ti entra dentro e scalda tutto quello che la pioggia aveva gelato.

Alzi gli occhi dal tuo libro e per un attimo rimani senza fiato. Per un lungo, lunghissimo attimo. Lui è lì, di fronte a te, che ti guarda con i suoi immensi occhi azzurro-ghiaccio e aspetta una tua risposta. Non ti accorgi di spalancare gli occhi, i tuoi di un azzurro più tenue e rassicurante, né di lasciare che le labbra si separino nell’emulazione di un oh sorpreso. Semplicemente, ti perdi nel suo viso, che hai osservato tante volte, di nascosto, cercando di non farti notare, ma che ora che lo vedi così vicino, ti sembra non averlo mai guardato davvero: ha una pelle chiarissima, diafana, molto più bianca di quello che ti era parsa, sembra quasi argentea nel suo essere lattea, come la luce della luna che riflette sul mare, ed è un’eccezione di purezza in un posto in cui tutto ti sembra sporco e nero. Come una goccia di sangue nel latte, su quella distesa candida spicca il rosso di due labbra piene, carnose, turgide, disegnate in un arco di cupido tanto profondo da esser una pericolosa distrazione per chi lo guarda. Gli zigomi profondi e incavati danno al volto un profilo aristocratico e divino, ponendolo quasi come un intoccabile esempio di bellezza, ravvivato da morbidi ricci scuri che ricadono sulla fronte, nella loro naturale composizione confusa, armonici nel loro disordine.
Guardi nei suoi occhi chiari e non riesci a capacitarti di quanto siano luminosi. Chini su di un libro, o persi ad indagare il mondo, non ne avevi colto la piena essenza, nonostante ne fossi già ammaliato. Sono molti più i colori che ora ci vedi all’interno e per qualche strano trucco magico non ti sembrano statici, ma in perenne movimento: vedi onde di un mare orientale avvicendarsi e rincorrersi intorno alla pupilla nera, dando vita a una nuova sfumatura a ogni infrangersi, a ogni galoppare, mescolando nelle iridi cangianti uno splendente verde, un cristallino azzurro, un intenso blu. Le ciglia nere e lunghe sembrano il sipario, la forma allungata e felina il teatro, di uno spettacolo incredibile quanto unico al mondo.

«Un pacchetto di Golden Gate Blue» ripete con la sua voce calda, muovendo quelle labbra perfette che avresti creduto finte.

Distogli lo sguardo, imbarazzato, sperando di non essere stato a fissarlo per troppo tempo: la verità, è che non hai idea di quanto.

Cerchi la marca che ti ha chiesto nella bacheca delle sigarette, improvvisamente nel panico, senza riuscire a vedere la scritta giusta tra le tante colorate che ci sono, tu che sai a memoria il posto di ogni cosa lì. Finalmente lo trovi e afferri il pacchetto, evitando di farlo cadere per poco. Ti giri e i suoi occhi azzurri e profondi sono ancora lì, fissi su di te. Perdi qualche secondo, e qualche battito di cuore, in quello sguardo, poi abbassi gli occhi sulle tue dita sudate che si sfregano sotto il bancone e cerchi un po’ di voce nella gola chiusa.

«7 e 50» ed è quasi un sussurro.

Lui mette i soldi sul piatto di plastica con dentro le mini tic-tac –una banconota da dieci sterline, leggermente umida in un angolo - e solo ora noti le sue mani. Sono belle e affusolate come quelle di un pianista, ma qualcosa in lui ti fa pensare che non lo sia. Un violinista, forse, questo sì. Ha delle dita lunghe e candide come il suo viso, come il suo collo, e per un attimo non riesci d evitare di chiederti come sarebbe averle addosso, nei capelli, sui fianchi, tra le labbra.
Poi ti riprendi e nascondi lo sguardo tra gli scomparti della cassa mentre cerchi il resto. Conti le monete due volte nella tua testa, con fatica: i numeri si mischiano a tante parole che vorresti dire in questo momento, come se un bambino dispettoso avesse mischiato i giochi strutturati dell’asilo.
Cerchi appiglio nella confusione dentro di te e nel respiro che sembra sempre più irregolare, prima di alzare di nuovo gli occhi su di lui. Non ha mai smesso di fissarti, per tutto il tempo in cui le tue mani leggermente tremanti hanno cercato tra i piccoli cassettini, e il suo è uno sguardo indagatore che sembra leggere i tuoi pensieri, i tuoi palpiti. Per un attimo riesci ad accogliere il suo sguardo, ma inaspettatamente le sue iridi azzurre non sono più oceano, bensì riflesso. Vedi te stesso al loro interno e tutti i tuoi più intimi segreti, le tue paure, le tue emozioni, messi in piazza dall’attenzione di quegli occhi per te, come se nel loro universo conoscitivo sapessero, pur senza chiedere mai.

Il vostro sguardo è energia pura e sembra fermare il tempo per un attimo: i treni non sbuffano più sulle rotaie, le persone non chiacchierano annoiate tra loro, le ruote dei trolley non inciampano più sulle mattonelle irregolari. C’è silenzio e solo il vostro sguardo a riempire il vuoto.
Ti perdi in quel cristallo azzurro per la prima e la centesima volta contemporaneamente, cercando di capire cosa c’è dietro, chi c’è dietro, chiedendoti quanto sia triste questa storia per non poter essere ascoltata, per non poter essere raccontata, quanto sofferenza ci sia in quelle sfumature, se ognuna di esse sia una lacrima non pianta. Perché lo vedi che c’è una storia, lì dietro. Non sei un detective, ma capisci le persone e hai un innato istinto che ti porta ad aiutarle, per questo studi per diventare medico. Lo vedi che c’è un velo invisibile di ricordi tra il mondo e quegli occhi, come se tutto il dolore di una vita cercasse di tenere lontano gli altri dalla parte duttile di lui, come se la freddezza e il ghiaccio apparentemente perenne fossero una scusa, una maschera, una bugia, per proteggersi da un mondo che ha sempre fatto male, da persone perfide nella loro ignoranza, da sentimenti inaspettati. Proteggersi da sé stesso, forse, dalla paura della paura, dall’inconscio timore di provare emozioni, emozioni che si trasformano in graffi e poi in cicatrici, emozioni che avrebbero avuto bisogno di essere piante, quando era ancora il momento di farlo, ma non c’erano spalle su cui farlo, non c’erano dita leggere ad asciugare lacrime pesanti.

C’è una macchia, in quell’uragano di colori chiari, ora riesci a vederla nitidamente. Una macchia scura che, se pur blu, sembra catrame. Male denso, nero, colloso, come sabbie mobili nelle quali hai quasi paura di affondare, se ti ci perdi troppo. Non sembra male commesso, ma male subito. Sembra la macchia di una Anna Frank senza diario, sembra la macchia di qualcuno che non ha mai parlato. Come una goccia che perde identità nell’oceano, lasci sfuggire i tuoi pensieri e anneghi in quel buio alla ricerca di un perché, di qualche spiegazione, di storie che nessuno vuole ascoltare. Lui te lo lascia fare, per motivi che vanno oltre la comprensione di entrambi, ma tu neanche te ne accorgi.

Chi sei?

Dice il tuo sguardo, e pagheresti il tuo tempo per sapere cosa dice davvero il suo.

Allunga un mano con il palmo rivolto verso l’alto e tu per un attimo ti chiedi cosa significhi quel gesto, con la parte dei tuoi pensieri che non ha smarrito la via tra la linee sottili di quel candore. Poi realizzi che hai ancora il suo resto, biascichi un oh… sorry che non riesci a sentire neanche tu e metti le monete e il pezzetto di carta stampata sulla sua mano. Le tue dita sfiorano la sua pelle e un brivido lungo e caldo da una scossa al tuo cuore, che inizia a galoppare all’impazzata nel tuo petto, più di quanto non stesse già facendo.
Mette tutto nella tasca del lungo cappotto nero che indossa e ti fa un cenno con la testa - grazie? Buona serata? Arrivederci? Vorresti solo fosse una promessa… - poi tira su il colletto fino a coprirsi metà del viso, lasciando agli spettatori i zigomi profondi, gli occhi affilati, i riccioli morbidi, e sparisce tra la gente.
Rimani a fissare l’ondeggiare del suo cappotto per qualche secondo, ma presto è il cappotto di una donna con dei tacchi e una valigia rosa, poi quello di un uomo con un cellulare tra le mani, una gomma da masticare in bocca e un cappellino blu con la scritta London in testa.
[1]


Il giorno dopo non c’è e tu ti scopri ad aspettarlo.
Il giorno dopo ancora non devi andare a lavoro e sei ancora più sorpreso di ieri: per la prima volta da quando sei entrato in quel buco sporgente sui binari, ti dispiace.
Il terzo giorno, quando arrivi qualche minuto in ritardo, ti sei quasi dimenticato di quell’incontro fugace. O almeno è quello che hai raccontato a te stesso.

Oggi è una giornata stressante: il lunedì tutti partono, tutti arrivano, tutti sono di fretta. Sei lì da poco meno di due ore e sei già esausto, soprattutto al pensiero che ne mancano altre sei. Appoggi i gomiti al bancone con un sospiro e lasci che la tua mano si distenda tra i capelli corti e biondi, mentre chiudi gli occhi per un secondo, o forse due, isolandoti dal caos dell’umano rincorrere il tempo. Quando li riapri, vedono solo una cosa: lui. Non è seduto sulla schiera di sedie che preferisce di solito, quelle tra la fine dei binari e l’inizio dei negozi di abbigliamento, ma molto più vicino alla tua postazione, tanto che i tuoi occhi attenti notano un neo sul collo che non avevi visto prima. Getti uno sguardo al suo posto abituale e vedi che le sedie sono tutte occupate: una donna con una bambina nella carrozzina, una ragazza che legge un giornale di moda, un barbone, e altre persone così diverse eppure così simili.
Lui, invece, è diverso. Lo capisci dal modo in cui muove le mani, da come alza gli occhi sulla gente, di scatto, solo a volte, dalla solitudine nella quale si chiude, molto differente da quella degli altri viaggiatori, soli tra una persona e l’altra: è una solitudine più profonda, più radicata. Ha una penna tra le mani e continua a scrivere su un foglio. Si ferma ogni tanto a rileggere e sfiora con la penna la bocca mentre lo fa, o la morde inconsciamente, oppure la infila tra i ricci scuri mentre le sue labbra si muovono quasi slegate dal resto del corpo, senza parlare a nessuno. Hai provato a decifrare tante volte cosa bisbigliano, ma sembrano parole incomprensibili di una lingua sconosciuta.

«Ce l’hai con speck e rucola?» un accento del sud ti distrae dai tuoi pensieri.

«Cosa?»

«I panini» ti risponde l’uomo in sovrappeso indicando lo scomparto trasparente con l’indice. Ha le unghie nere per lo sporco e ti trovi a trattenere a stento un’espressione di disgusto.

«No, mi dispiace. Sono rimasti prosciutto cotto e Emmental, altrimenti uova e tonno.»

«Fanculo.» impreca tirandosi su i jeans consumati che gli stringono sotto la pancia, dando forma a disgustosi rotoli di grasso in eccesso «dammene uno con il tonno, ragazzo. E muoviti, il mio treno parte e io devo ancora pisciare.»

Ignori i suoi modi sgarbati e prendi il suo panino con un tovagliolo pulito, lo metti in una busta di carta e la appoggi sul bancone.

«Sono 3 e 60.»

L’uomo borbotta qualcosa sui prezzi troppo alti e sul fatto che andrà fallito per colpa di certa gente, ma tu non lo stai già ascoltando. Prendi i soldi senza neanche contarli e li metti in cassa, lasciandolo andare via con un grugnito di risposta al tuo buona giornata, signore.

Quando puoi tornare a guardarlo, lui non c’è più. Al suo posto, il vuoto della sua assenza e una sedia libera a forma di delusione. Sospiri appena, un attimo prima che i tuoi occhi notino qualcosa. Per terra, tra le gambe delle sedie ingoiate dal pavimento, c’è un foglio di carta. Da lontano riesci solo a vederci scritti scarabocchi – simboli strani, forse distingui qualche pallino di tanto in tanto – su righe troppo grandi per essere quelle di un quaderno. Non lo sai, ma qualcosa ti dice che è suo.


Ti muovi d’istinto quando con due grandi passi raggiungi lo sportello d’uscita del cafè, ma ti fermi prima: cerchi il biglietto torno subito che ha fatto Mike per quando una ragazza carina aspetta da sola il treno, e lo appoggi sul bancone, prima di uscire via lasciando come ricordo le molle che cigolano dietro di te e il battente che dondola avanti e indietro.

Acceleri ad ogni passo, senza staccare gli occhi da quel foglio, tanto che alla fine quasi corri. Anzi, corri e basta quando raggiungi le sedie, nel momento stesso in cui il treno raggiunge la stazione e lo fa volare via, sotto i tuoi occhi increduli e amareggiati. Lo sbuffo del treno litiga con il sibilo delle rotaie, il vociare delle persone che si alzano per raggiungere i vagoni si mescola con i suoni di valigie che graffiano la pavimentazione, monete che cadono a terra, scarpe che calpestano. Tutto crea una grande confusione e il mondo intorno a te sembra improvvisamene un dipinto ad acquarelli particolare nella sua vaghezza, in cui l’unico elemento nitido è il foglio che vola tra e sopra la folla. Lo vedi danzare alcune piroette nell’aria, mentre cerchi di scusarti con le persone che stai urtando senza smettere di rincorrerlo, e come una farfalla che non vuole farsi prendere, ti sfugge sempre quando ce l’hai a un soffio.
Ma tu lavori lì abbastanza da conoscere i moti di quel posto. Così aspetti che il caos imploda su stesso per poi scemare in diverse direzioni, lasciando posto alla quiete dopo la tempesta. Con il cuore che batte potente nel petto, non distogli lo sguardo dal foglio neanche per una frazione di secondo, afferrandolo con i tuoi sinceri occhi azzurri. La gente intorno a te si calma e tu ti senti un po’ il protagonista di una scena di Fantasia 2000 mentre ricominci a muoverti a tempo di una musica ritmica e scandita, cercando di afferrarlo.

Quando finalmente lo raggiungi, hai quasi paura a prenderlo. È per terra, sotto i tuoi piedi, si è sporcato appena e un angolo è piegato, ma non strappato. Ti fletti lentamente sulle ginocchia, temendo che persino quel lieve movimento d’aria possa fartelo sfuggire di nuovo. Poggi le mani sulle cosce e lo osservi inclinando leggermente la testa da un lato, come un bambino che scopre qualcosa di nuovo. Adesso riesci a capire che cos’erano i simboli astratti a cui non sapevi dare definizione: note. Sulla carta bianca sono stampate quattro righe di pentagramma, ognuna esordita con un’elegante chiave di violino. Non sai molto di musica, ma ti piace: ti chiedi spesso se saresti diventato un ottimo chitarrista, nel caso in cui avessi potuto continuare a pagare le lezioni. La prima cosa che noti è la mancanza assoluta di correzioni, nonostante sia scritto tutto a penna, nera, con una grafia stilizzata e imprecisa, che ti lascia immaginare sia stato steso di getto. È un mi la nota iniziale, subito dopo le altre salgono sulla scala: si, una pausa, un altro si, la diesis, di nuovo si. Non ricordi perfettamente i valori, ma se la reminiscenza di qualche spartito non ti trae in errore, è una musica lenta, profonda, che indolente vibra nell’aria come un ricordo amaro. Cerchi di suonarla nella tua testa, ma non ci riesci: non sei Beethoven, e soprattutto non hai idea di quale sia lo strumento a cui è destinata. Una cosa la noti, però. C’è tristezza in quella musica, non sai da cosa lo capisci - forse dalle pause che sembrano esserci per lasciar pensare, o dai diesis che si allungano sulle crome – ma riesci a percepirne un respiro di lieve drammaticità, come quella che attraversa le poesie dei decadenti: le rileggeresti all’infinito, ma ogni volta ti lasciano sempre con il sapore amaro dell’angoscia in bocca. È come se ci fosse una storia, tra quelle note scarabocchiate.

Lo prendi tra le dita, con delicatezza, e lo osservi un attimo ancora prima di alzarti. Un attimo che ti serve a notare un dettaglio che ti era sfuggito. In fondo a destra, sull’angolo piegato, c’è scritto qualcosa in una grafia allungata e sottile: Sherlock. Provi a chiederti se sia il nome di qualche compositore famoso, o magari un anagramma, ma ti dai subito una risposta diversa. Quel suono strano deve essere il nome della melodia che stai leggendo - non te ne accorgi, ma muovi le labbra intorno a quelle lettere, pronunciandole silenziosamente. La Sherlock. Ti piace, e mentre ti alzi ti chiedi se un giorno sarà uno di quei brani famosi che conoscono tutti, anche chi di musica colta non sa niente, come Per Elisa o i Notturni di Chopin.

Torni in posizione eretta, con lo spartito ben saldo nella mano sinistra, la tua dominante, e il tuo sguardo si perde tra la folla alla ricerca di pelle nivea, occhi azzurri e ricci corvini. Un misto sconvolgente di tenebre e luce, ecco cos’è lui. Vaghi un po’ tra una banalità che non riesci neanche a scorgere, devoto alla tua ricerca, il mondo che ti passa accanto e tu che sei immobile in un mare senza onde. Poi i tuoi occhi lo afferrano, seduto sulla schiera di sedie che preferisce, e lo sfiorano, cibandosene e impadronendosene, fino a ricamare l’immagine nelle iridi. Sta scrivendo ancora e ora puoi distinguere la sua mano tingere la carta di note, anche se sei lontano e ogni tanto qualcuno interrompe la tua vista, senza che tu te ne accorga davvero. Ha la schiena china in avanti e i riccioli neri gli ricadono sul viso, come hai già ammirato spesso, perdendoti in quella soffice leggerezza. Riesci a scorgere il blu squillante dei suoi occhi muoversi nella mandorla delle sue ciglia, schizzando da una parte all’altra del foglio, inseguendo la mano, o lasciandola vagare mentre cercano altrove, a volte anche fuori dalla carta disegnata. La sua mano allungata e chiara tiene la penna in un modo che reputi strano, come se l’avesse afferrata al volo quando qualcuno glie l’ha lanciata e lui avesse iniziato a scrivere così come si era trovato, troppo vinto all’ispirazione per notare la posizione incongrua.

Il tuo cuore inizia ad accelerare i battiti, pericolosamente, e il tuo respiro ora è affannoso, forse per la corsa, forse no. Ti mordi l’interno delle labbra e tiri un sospiro con il naso, cercando il tuo coraggio che sembra essersi sciolto improvvisamente al suono una musica dolce che non hai ancora ascoltato e un paio di labbra carnose che non hai ancora baciato.
Il terreno sembra incerto sotto i tuoi passi decisi, fedeli a una traiettoria immaginaria che da un punto indefinito si getta in uno certo: lui. Cammini tra le persone senza smettere di fissarlo, se non un attimo in cui ti accorgi dell’intensità del tuo sguardo e, imbarazzato all’idea che lui possa incontrarlo, lo getti a terra tra le tue scarpe, per poi risollevarlo sull’angolo del suo colletto, che sfiora sensuale il collo candido, quando percepisci la portata della sua concentrazione e dedizione al componimento.
I battiti si ricorrono tra loro sempre più man mano che ti avvicini, perdendone qualcuno per la strada, nella troppa fretta di esplodere e pompare sangue nelle orecchie, in una letale variabile di proporzionalità diretta in cui lui è la X e tu una devota Y.
Un attimo dopo sei a pochi passi da lui e ti accorgi di voler tornare indietro, di sentirti stupido, di esserti pentito per aver camminato quei passi ansiosi. Che cosa ti è venuto in mente? Avresti dovuto farti gli affari tuoi: questo posto te lo ha insegnato. Invece hai mollato la tua postazione – forse sarai anche rimproverato per averlo fatto! – con il solo scopo di rincorrere un foglio volante, magari lasciato lì da un viaggiatore che è salito sul treno e che non aveva tempo di gettarlo nel cestino, magari senza significato. E ora, cosa vorresti farne di quel foglio? Darlo a lui? Che non ti conosce, ti ha visto solo una volta e probabilmente, sicuramente, si è dimenticato subito di te. Cosa vorresti dirgli, mentre glielo porgi? Lui non parla con nessuno. Perché dovrebbe parlare con te?
La voce insolente dentro di te si prende prepotentemente la sua ragione e non ti resta che girare sui tacchi e tornare indietro, tra panini di bassa qualità e gomme da masticare. Ma si sa, nella vita quella di essere il protagonista è solo un’illusione, in realtà sei solo una marionetta mossa da destino e tempismo.

Lo capisci quando lui alza lo sguardo su di te, nel momento stesso in cui stai per voltarti e andartene.
Alza lo sguardo su di te e i suoi profondi occhi blu ti trafiggono. Alza lo sguardo su di te e tu ti perderesti nel chiederti il perché di quella fatale coincidenza, se non avessi smarrito la ragione nelle sue sfumature azzurre.
Rimani immobile, rigido e silenzioso nel guardarlo, nel lasciarti spaccare l’anima da quello sguardo che sembra entrarti dentro e leggerti come un chirurgo con un corpo umano, che sembra capire, afferrare, ragionare, che sembra sapere tutto di te senza saperne nulla. Se potessi vedere la tua espressione da bambino forse impaurito, forse curioso, spereresti che lui sia abbastanza distratto da non notarla, senza sapere che lui nota tutto, ma tutto ciò che riesci a vedere sono due occhi così intensi da fare male, da farti morire e risorgere in loro. Riesci a vederli di più, ora, rispetto a quando di sfuggita li incontravi tra la folla, dalla tua posizione angusta, rispetto a quando ti hanno guardato con attesa mentre ti nascondevi tra sigarette e monete. Forse perché ora il suo sguardo è più sincero, non è schermato di quella patina di gelida indifferenza che lo ricopre quando qualcuno gli si avvicina o quando compra sigarette da te, non ha difese, protezioni, barriere, è semplicemente uno specchio d’acqua così limpido da lasciare intravedere il fondale, pieno di relitti, cocci e abbandoni. È lo sguardo di un bambino, un bambino ferito e infelice, un bambino che sa tanto e non dice niente, ma che parla senza parlare, chiedendoti aiuto. Solo ora ti accorgi di quanto ci sia dentro, percependo la sofferenza viva e bruciante tra le pagliuzze colorate, nelle scaglie di ghiaccio, nelle pupille tenebrose.
Quasi allunghi una mano, nella tua testa, per cogliere ognuna di quelle sfumature e occupartene, come se volessi prenderti cura di quegli occhi e cancellare quello che hanno visto, ma in un paradosso di dubbia ironia, ti sfuggono tra le dita proprio quando stai per prenderle. I suoi occhi tornano ad essere solo riflesso, uno specchio senza fondo nel quale riesci a vedere solo te stesso e niente più altro. Tornano ad essere freddezza e distacco, a ricordarti che non sei nessuno per sapere di loro e tu ci metti un attimo ad accusare il colpo della delusione.

Un attimo che ti basta per accorgerti in ritardo del suo sopracciglio alzato in una palese espressione interrogativa.
Imbarazzato e improvvisamente adolescente le parole sfuggono via, trasformandosi in mani sudate e respiro sospeso. Senza parlare, quasi d’istinto, allunghi verso di lui la mano che tiene lo spartito, tendendo il braccio nello spazio tra di voi. Non guarda il foglio, ma guarda te, anche mentre glie lo porgi, come se sapesse già e tu rimani, di nuovo, deluso e sorpreso.
È incredibile quanto il silenzio possa essere assordante nel caos fragoroso di un luogo affollato. Lo sperimenti ora, incapace di sentire i cellulari che squillano intorno a te e i treni che partono alle tue spalle, ascoltando solo le parole mancate tra voi due.

«Credo sia tuo.»

Quado parli ti stupisci di sentire la tua voce. Non le hai ordinato di pronunciarsi, un istinto al quale non sai dare un nome deve averlo fatto per te. Ti meravigli anche di non sentirla tremare, ma magari le tue mani lo fanno abbastanza anche per lei.
C’è una pausa in cui nessuno dei due prende la parola e tu vorresti tanto sprofondare in una crepa nel terreno. Una pausa in cui credi non parlerà mai e rimarrà lì, in silenzio, a guardarti fare la figura dell’idiota. A ridere silenziosamente di te con le sue labbra disegnate.

«E da che cosa l’hai capito?»

La sua voce roca ti taglia con un’ironia alla quale non sai dare ancora una valenza positiva o negativa. Cerchi le parole nel disordine della tua testa, provando a mantenerti razionale pur sentendosi come Alice caduta nel tunnel per il Paese delle Meraviglie.

«Beh, non ci sono molte persone che scrivono sedute alla stazione. A meno che non si tratti della lista della spesa o di un numero di telefono.»

Sembri molto più sicuro di quanto tu non sia, nel parlare come se il tuo cuore non fosse un impazzito venditore di battiti incoerenti.
Una nota di approvazione si dipinge nei suoi occhi e tra le linee del viso, stemperata di qualche goccia di curiosità. Non sai se sentirti apprezzato o sfottuto da quello sguardo: sa essere davvero enigmatico.

«Quindi mi stavi osservando.»

Se possibile, la sua voce sembra ancora più bassa ora, o forse è solo il tuo imbarazzo a fartela percepire così. È un’affermazione, non una domanda e questo contribuisce a farti arrossire fino alla punta dei capelli, senza dimenticare le orecchie: avverti distintamente il calore dilatarsi sulla tua faccia.
Ha un mezzo sorriso disegnato sulle labbra carnose e particolari. Se una piccola parte della tua mente prega che non stia ridendo di te, tutta l’altra sta osannando la sensualità di quella forma curvilinea. O sta cercando di non tuffarcisi e morderle e baciarle e amarle: non sai quale delle due.
Apri la bocca, ma è un gesto inutile deriso dall’ossigeno che si ostina a non entrare e dalle parole che si rifiutano di uscire, sostituite da qualche balbettio indistinto e privo di filo logico – io… non proprio, è che… -, incrementando notevolmente il tuo imbarazzo e il divertimento sul viso di lui.
Prima che tu completi la tua figura da idiota, lui allunga una mano verso di te, il palmo ruotato verso l’altro, le lunghe dita esili che sembrano puntarti. Ci appoggi sopra lo sguardo, insinuandolo nelle linee sottili, come se fosse acqua e quei solchi leggeri il letto del suo fiume. Lo sfiori in ogni tratto, scivolando sulla pelle candida al dolce pensiero di come potrebbe essere intrecciare le tue dita con le sue.
Ti chiedi troppo tardi che significhi quel gesto e la risposta ancora più lenta. Mormori un oh, certo quasi impercettibile mentre posi il foglio sulla sua mano, ritirandoti abbastanza pacatamente da vivere il suo pollice che tocca il tuo sopra la carta rovinata. La vostra pelle che si sfiora, ancora. Questa volta i fremiti gelidi e ardenti si confondono con gli altri che ti attraversano il corpo e la sensazione di levigatezza ti accarezza le dita per un po’, prima di essere ingoiata dal freddo.
Prende lo spartito e lo avvicina al viso, prima di guardarlo a fondo, come se non l’avesse mai visto, come se contenesse segreti. Ne approfitti per osservarlo, come un ladro di immagini irripetibili, indugiando sui dettagli che ordini alla tua mente di salvare e conservare per sempre, in una cartella rinominata Amazing.

Riesci a vedere i suoi occhi cristallini saltare da una nota all’altra sotto le ciglia scure e inarcate: quel movimento è, già in sé, musica.

«Che significa Sherlock?»

Ascolti quella domanda frantumarsi nell’aria tra di voi come se non fossi stata tu a farla, ma un bambino intraprendente che manifesta la curiosità comune, dicendo al re che è nudo. Di nuovo, la voce è sfuggita al tuo controllo e ha fatto un passo per te, che sei troppo smarrito in quel momento per sfuggire alla timidezza.
I suoi occhi infinitamente blu tornano a fissare te, contornati questa volta da sopracciglia aggrottate e un’espressione interrogativa.

«C’è scritto Sherlock, in fondo alla pagina.» dici, puntando con l’indice l’angolo del foglio, senza però avvicinarti troppo. «È il nome del pezzo?»

Lui ti guarda divertito. Sul suo viso appare un sorriso. Non un sorriso aperto e vitale, un sorriso con le labbra chiuse e tirate in una linea sottile verso l’altro, che ne ridefinisce i contorni in modo curioso e affascinante. Ma è comunque un sorriso coinvolgente e piacevole, sereno a modo suo, innocente da un lato, provocante dall’altro. È un sorriso che ti contagia: anche se hai il sospetto stia ridendo di te, non riesci a fare a meno di sorridere anche tu, pensando che non lo avevi ancora visto con quel luccichio sul viso e che è davvero bellissimo quando lo ha.

«Sherlock,» comincia, e quella parola sulla sua voce e le sue labbra sembra incredibilmente sexy «è il mio nome.»

Spalanchi gli occhi per la sorpresa e l’imbarazzo, arrossendo di nuovo e, questa volta, ancora di più. Poi la tua reazione si trasforma in qualcosa di molto più spontaneo, leggero e sincero: una ristata. Getti la testa all’indietro e scoppi a ridere, lasciando che quel suono riempia anche le tue orecchie per qualche secondo. Quando torni a guardarlo lo fai con uno sbuffo di divertita ironia.

«Davvero?»

Lui non risponde alla tua domanda retorica, ma il suo sorriso è sempre lì, riflesso del tuo, a chiamarti a sé.

«Beh, io sono John» dichiari con la voce allegra. «Forse non è un nome particolare come il tuo, ma ne vado fiero lo stesso. John Watson.»

Improvvisamente la tensione scema, soffiando via tra le lettere dei vostri nomi. Sembrate due amici di vecchia data, che ridono delle cose di sempre.

«Sherlock Holmes» ti risponde lui, aspettando la tua mossa.

«Posso sedermi, Sherlock Holmes?» chiedi, indicando la sedia libera accanto a lui. Quello del cafè sembra ormai un ricordo lontano, di un’altra vita.

Lui non dice niente ma tu, per qualche legge universale che non sai definire, sai che è un si quello disegnato tra le curve della sua espressione.

Ti siedi nell’angolo più esterno della sedia accanto alla sua, così da poterti inclinare con il corpo e guardarlo in viso, senza essergli troppo vicino. Nonostante ciò le vostre ginocchia si sfiorano a ogni tuo movimento e tu senti il calore attraverso i jeans. L’imbarazzo torna a reclamare il palco e per un attimo non sai che dire, come se quei pochi centimetri tra di voi – troppo pochi, constatati – avessero ingoiato tutte le parole.

«Psicologo statunitense.»

Le sue labbra si muovono e sembrano quasi svegliarti da un sogno, uno di quei sogni in cui non sai mai se sopravvivrai o no. Le tue sopracciglia aggrottate pongono la domanda al posto tuo.
«John Broadus Watson. I suoi studi sono alla base dell’approccio psicologico del comportamentismo. Il suo esperimento del piccolo Albert è uno dei più interessanti della storia della psicologia: è riuscito a dimostrare che un’emozione come la paura è il risultato di un processo di condizionamento ambientale, attraverso un’osservazione sistematica. Ha attirato molte critiche su di sé con questa sperimentazione: non ha attutato un processo di decondizionamento per rimuovere l'ansia indotta nel bambino, cosa considerata evidentemente poco etica. Atteggiamento decisamente retrograde: se la scienza avesse dato ascolto all’etica staremmo incidendo grosse tavole di pietra.»

Hai un’espressione confusa, ne sei vagamente consapevole, ma non abbastanza da chiedere spiegazioni: quando le sue labbra si sono arricciate intorno a quello sbuffo sarcastico hai probabilmente perso ogni capacità linguistica.
Sherlock alza gli occhi al cielo, quasi annoiato dal tuo silenzio, ma tu non rimani deluso dai suoi modi di superiorità. Forse, stai già imparando a conoscerlo.

«Intendo dire che il tuo nome è particolare» conclude, con te che cerchi di concentrarti sulle sue parole e non sulle sue labbra.

Che cos’era, un complimento? No, non potrebbe. Lui non sembra un tipo da complimenti, a meno che non siano riferiti a sé stesso. Sherlock non sembra un tipo da complimenti. È bello poter dare un nome ai tuoi pensieri.

«Hamish.»

È la tua risposta secca e limpida. La vostra conversazione sembra prendere una strana piega, come l’elettrocardiogramma di un bugiardo: risposte telegrafiche si alternano a lunghi schiocchi di lingua su labbra piene e tu hai la stessa sensazione allo stomaco che ti danno le montagne russe.

«Il mio secondo nome è Hamish, ma c’ero quasi: non sapevo di essere il semi-omonimo di un grande psicologo.»

Lui ti guarda divertito o sorpreso o rilassato o curioso – la sua espressione è così enigmatica che non riusciresti a decifrarla completamente neanche se la guardassi per tutta la vita – e tu continui a sorridere, improvvisamente sicuro di te, improvvisamente felice.











Note:

La storia è ambientata in una stazione ferroviaria a Londra ma, pur essendo stata nella capitale inglese, ho dato al posto la fisionomia della stazione di Roma Termini, forse perché mi è più abituale. Perdonate l’inesattezza.

Per definire il tipo di posto dove lavora John ho usato la parola “cafè”, non so quanto sia esatta, visto che si tratta più di un bancone senza muri intorno, ma era quella che più si avvicinava al nostro concetto di “bar”.

[1] In Inghilterra per comprare sigarette è necessario avere 18 anni, quindi in questo caso John avrebbe dovuto chiedere a Sherlock un documento. Ho volutamente evitato di descrivere questo dando per scontato che John se ne dimentichi, perché preso dal momento, e poi rifletta sulla cosa quando ormai è tardi.


Su questa storia ho una serie infinita di dubbi perché, a mio parere, ci sono dei difetti che non ho saputo correggere. Lascio a voi il giudizio finale, perché in fondo è quello che conta.

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Capitolo 2
*** Macarons ***


  
 
  
 
  
 
La stazione non è un luogo particolarmente luminoso. Anzi, è un posto piuttosto buio.              
 
Non per assenza di luce, non buio come la notte o come quando in casa tua andava via la luce perché tua madre aveva dimenticato – o finto di dimenticare- di pagare la bolletta. La luce, in effetti, c’è: quella delle vetrine dei negozi, piccoli fari che dipingono il consumismo di un bel volto, in un moderno Ritratto di Dorian Grey, quella delle lampade a risparmio energetico che troneggiano su tutta la struttura, quella dei monitor che guidano i passeggieri più distratti nel loro lasciare e tornare. Ma tu non hai mai considerato luce quell’innaturale prodotto di incandescenza. Per te la luce è quella del cielo, quel genuino bagliore che illumina il mondo, come quando il sole ti accarezza la pelle in giornate troppo calde per apprezzarle, come quando, invece, si nasconde timido dietro le nuvole e lascia che queste filtrino il suo splendore. Quella parvenza di luce, ingannatrice e simulatoria, che ti lascia il buio dentro e non scalda nulla, non l’hai mai valutata tale.
 
Se a Londra la luce è un bene raro, in quella stazione è quasi il Sacro Graal. Per questo non ti piace lavorare lì, tra le altre cose: riesce a metterti di malumore anche solo con la sua natura cupa. Ma in ogni notte scura ci sono stelle ad illuminare. Sporadiche, forse, tanto da farti dubitare della loro esistenza, ma prima o poi ne vedi una così splendente da sovrastare tutta l’oscurità che hai ingoiato fin ora e farti ricredere sul giudizio critico che hai dato al mondo. Questo sono stati i suoi occhi tra quella monotonia opaca: uno spiraglio scintillante che ha illuminato a giorno i tuoi momenti.
Sono brillanti anche mentre parla, brillanti d’intelligenza, e tu perdi qualche parola quando quella luce ti assorbe e anestetizza tutti i tuoi sensi.
 
Un’ombra si pone sopra di voi ed essi si incupiscono solo un poco di fronte a quel cambiamento di luce. Non un’ombra di scura interiorità, ma un’ombra tale in quanto assenza di luce. La forma allungata di un momento più scuro di mondo si protrae su di voi e supera i vostri sorrisi e i vostri volti, dilatandosi fin dove non riesci a vederla. Non sai perché, ma ti sembra un presagio.
Proprio per questo alzi lentamente la testa sull’ostacolo tra voi e la luce, complimentandoti momentaneamente con te stesso per l’intuizione esatta. Il direttore della stazione ti sta fisando con i suoi occhi scuri e incavati nella pelle tendente al violaceo delle occhiaie, le braccia incrociate sul petto, sopra la giacca nera e sgualcita. La sua espressione è una fusione preoccupante di collera e biasimo e tu, per qualche attimo, ti senti tanto Hugo Cabret. [1]
 
«Watson, cosa diavolo ci fai qui?!» ti urla contro. La vena sul suo collo si gonfia pericolosamente quando ti urla contro e tu ti trovi a pensare che non saresti poi così dispiaciuto se scoppiasse.
 
Non rispondi: hai imparato che l’unica via utile con quell’uomo è lasciare che si sfoghi senza interromperlo.
 
«Alla tua postazione è pieno di gente che aspetta e tu sei qui, a fare cosa? Conversazione?!»
La vena pulsa ancora e tu sei quasi troppo concentrato su quella per ascoltare la serie di rimproveri che ti aspettano.
 
«Sei un maledetto nullafacente, ragazzino, e ti licenzierei se non fossi troppo impegnato per cercare un altro perdigiorno come te!»
Pensi che giocare tutto il giorno a poker su internet non sia qualcosa di così inderogabile, me tieni la bocca chiusa e la possibilità di lavorare ancora aperta.
 
«Adesso muoviti, vai al tuo posto! Subito! Prima che io…»
 
«Prima che lei rischi di dover cenare di nuovo da sua madre, questa sera, ascoltando storie su quanto sia incredibile la scalata al successo di suo fratello minore?»
La voce di Sherlock risuona profonda nella confusione della stazione.
 
Ti volti immediatamente verso di lui, quando inizia a parlare, rivolgendogli uno sguardo sorpreso che diventa confuso e preoccupato quando l’eco delle sue parole arriva alla tua comprensione. Muovi rapidamente le pupille dal suo viso – l’espressione sfacciata, beffarda, sicura – a quello del tuo capo, che lo guarda con la bocca leggermente aperta e la pelle ancora rossa per l’indignazione: sembra essere indeciso se infuriarsi ancora di più o cercare di capire cosa gli è stato appena detto. Non sai quale delle due causerebbe meno danni.
 
«Che cosa hai detto, ragazzo?»
 
Ora che lo guardi sputacchiare mentre inveisce contro Sherlock, ti sembra più spaventato che altro.
Lui, però, non sembra accennare a una risposta, semplicemente mantiene lo sguardo penetrante e sfrontato sul viso dell’uomo e tu inizi a sudare per entrambi, divorato dalla tensione per la prossima reazione del capo che, a giudicare dalle dimensioni ormai preoccupanti della vena, non sarà lieve.
 
«Chi cazzo sei, eh? Ti ha mandato quella stronza?» sbraita il dirigente.
 
«Se si riferisce a sua moglie no, non ho avuto il piacere di incontrarla, e per piacere intendo… Comunque, il mio nome è Sherlock Holmes.»
 
L’uomo sembra metterci qualche secondo ad assimilare le informazioni, prima di ricominciare a apostrofare Sherlock, chinandosi leggermente in avanti e gesticolando in modo potenzialmente pericoloso.
 
«E allora che ne sai di mia moglie e di mio fratello?!»
 
«Sua moglie non l’ho nominata io, ma lei, con l’elegante epiteto che le ha attribuito. Io inizialmente ho parlato solo di sua madre e suo fratello, ma grazie per la conferma.»
 
«Conferma?» sembra sempre più confuso.
 
«Conferma al fatto che queste informazioni me le abbia date lei, anche se non consapevolmente. Mentre parlava le è vibrato il cellulare nella tasca, ha avuto un attimo di esitazione, ma ha continuato a parlare, ignorandolo, come se sapesse già chi fosse. La sua voce si è però alzata di volume e tonalità: qualcuno che tende a farla alterare, dunque, e che probabilmente la sta chiamando per litigare. Le possibilità sono limitate: capo, moglie, parenti stretti. È il direttore della stazione, quindi ha occasione di vedere il suo superiore solo in occasioni di controllo e aggiornamento, e a giudicare da come si rivolge agli impiegati, non deve essere un tipo particolarmente opprimente. Indossa una fede, ma le stringe sull’anulare. Significa che non le interessa abbastanza di quel simbolo, e quindi della persona che rappresenta, da farla allargare da un gioielliere, ma continua a metterla, perché altrimenti sua moglie si lamenterebbe e lei, a giudicare dalle occhiaie e dal pollice sinistro, è stanco di sfogare le tensioni con il porno online.»
 
Il silenzio profondo e consapevole cala tra di voi, tutto è improvvisamente immobile. Tu hai persino smesso di temere per la reazione del capo, hai quasi dimenticato che sia lì, affascinato e carico di stupore come sei. Guardi Sherlock con tutta la meraviglia e l’incredulità negli occhi, la confusione per quello che hai sentito, l’ammirazione per le sue parole fluenti. Cerchi di capire, di apprendere, di assimilare. Tu sai che quello che ha detto è tutto vero, i pettegolezzi ti arrivano anche quando sono l’ultimo dei tuoi interessi, in quel posto, ma lui come lo sa?
Il tuo sguardo esita ancora incerto e interrogativo sul suo volto, sulla sue espressione naturale e tranquilla, come se non avesse detto niente di straordinario, mentre nella tua testa tutte le domande si intrecciano, si ingoiano e si rispondono, circolando insieme intorno a un’unica parola:
 
«Fantastico!»
 
Lui si volta verso di te quando la pronunci – l’hai davvero detta a voce alta? Non te ne sei neanche accorto! – e ti guarda a metà tra il divertito, il curioso e, forse, il lusingato.
 
Esita un attimo, sembra non sapere che dire e ora, come mai prima, ti appare giovane, un ragazzino: senza quella maschera di freddezza e indifferenza indosso, con un sorriso semplice comparso sul viso, dimostra un’età che non concorda con la sofferenza inespressa nei suoi occhi.
 
«E questo che c’entra con mia madre e mio fratello?»
 
I toni rudi e sempre più in bilico tra l’alterato e il confuso dell’uomo in divisa interrompono il momento  e la naturalezza di Sherlock ti sfugge, di nuovo. Il ragazzo torna a nascondersi dietro la sua patina di ostentata superiorità e a fissare l’uomo, quasi con disprezzo.
 
«La sua giacca è sgualcita e ha una macchia sotto la manica destra, caffè probabilmente, oltre alle chiazze di sudore. La camicia invece è pulita, i polsini sono ben stirati e il colletto ha una piega fatta con attenzione. Indossa sempre quella giacca sul posto di lavoro, ne ha solamente una perché probabilmente le divise sono a vostro carico e lei ha preferito tenere i soldi per qualche gioco online o chat erotica di bassa qualità. Dovrebbe lavarla nel giorno libero, ma evidentemente non l’ha fatto, a giudicare dagli aloni: devono essere lì da molto più di una settimana. Perché non l’ha lavata? È probabile che non voglia farlo da solo, è troppo pigro o non è capace, ma sua moglie non se ne è preoccupata e forse lei non glie lo ha neanche chiesto, proprio perché non è un buon periodo, o non lo è mai stato. Di camicie invece ne ha più di una, ma se non c’è nessuno che glie le lava finirebbero per essere sempre sporche come la giacca e lei non ne metterebbe una pulita ogni giorno, o farebbe comunque molta attenzione a mantenerla limpida il più possibile, mentre la sua ha il polsino umido a lato: non si è tirato su le maniche quando si è lavato le mani, il che significa che non le ha arrotolate neanche per pranzare. Non le porta in lavanderia, troppo costoso, e neanche in quella a gettoni, non sarebbero così ben stirate. Quindi c’è qualcuno che lava per lei. Non un’amante, non sarebbe così arrabbiato con sua moglie se avesse un’altra donna: il senso di colpa anestetizzerebbe la collera. Sua madre, dunque.»
 
Dalla tua bocca esce un sospiro di soddisfazione e sbigottimento, un versetto gutturale che non riesci a trattenere.
 
«Incredibile!»
 
Sono di nuovo le tue parole che sfuggono al tuo controllo. È di nuovo la sua espressione che si fa sincera, timida, infantile. Questa volte dura qualche secondo di meno, il suo sguardo si abbassa quasi subito dal tuo volto e torna gelido su quello del dirigente.
Sembra stia per parlare di nuovo, per finire la sua radiologica descrizione, ma viene interrotto dall’impeto violento delle parole abbaiate del tuo capo. Probabilmente neanche si rende conto di quanto stia urlando, o del fatto che un paio di passanti vi stanno fissando senza neanche sforzarsi di fingere il contrario.
 
«Senti ragazzino» inizia, e la sua mano va al colletto del cappotto di Sherlock.
 
Qualcosa scatta in te. Non sai cosa, senti solo la rabbia salirti dentro, come se il tuo esofago fosse fatto di scale e il fiume in piena della tua collera le stesse ignorando per arrivare immediatamente all’apice. Ti alzi in piedi e prima che la parte razionale di te possa fermarti hai le mani sulla giacca del direttore, ne stringi forte la stoffa consumata. Non la strattoni, ma la presa vigorosa con cui la tieni è sufficiente a far irrigidire l’uomo, supportata dal tuo sguardo iracondo a pochi centimetri dal suo viso.
 
«Non lo tocchi» sussurri appena, con una voce che è solo rabbia e non sembra neanche la tua, una voce che sembra l’ira stessa.
 
Ti guarda spaventato, gli occhi scuri indecisi titubanti nelle orbite. Sei più basso di lui, eppure è tanta l’energia con cui lo tieni che quasi lo sollevi. Per dei lunghissimi secondi ti dimentichi chi sei, le tue nocche che diventano bianche, il tuo sguardo che diventa nero, riesci solo a percepire il desiderio di picchiare quel bastardo che ha osato toccare il tuo Sherlock.
È questo pensiero che ti fa tornare in te. Sherlock non è affatto tuo. Neanche lo conosci, anche se hai la sensazione di aver capito e amato la sua anima in tutte le tue vite precedenti. Stai per picchiare il tuo capo – probabilmente, sicuramente perderai il lavoro per questo – per  difendere qualcuno che neanche conosci, con cui hai parlato per la prima volta qualche minuto fa. Improvvisamente ti senti stupido.
 
Esiti ancora, poi lo lasci andare e abbassi lo sguardo. Con la coda dell’occhio getti lo sguardo verso Sherlock, ma da quella prospettiva non riesci a vedere che espressione sta facendo. Forse anche lui pensa che sei stupido.
 
L’uomo si sistema la giacca, tirandola da sotto per farla tornare alla sua posa originaria. Vorresti essere in tutti i luoghi del mondo, anche in una caverna popolata da animali feroci di qualche entroterra africano, ma non lì. Il mondo, però, le persone, ti sorprendono sempre, nel bene, nel male.
 
«Torna a lavorare, Watson» dice semplicemente, con una voce fintamente autoritaria che però lascia trasparire un leggero tremore.
 
Ora hai il coraggio di alzare lo sguardo e ti accorgi che la sua espressione è ancora terrorizzata. Probabilmente non si aspettava una reazione del genere: tu sei un tipo molto tranquillo, a malapena rispondi quando qualcuno ti provoca. Probabilmente neanche tu ti aspettavi una razione del genere.
Gira i tacchi e se ne va, lasciandoti con un sorrisino soddisfatto sul volto che dipinge di ilarità tutto il fatto. Ti senti meno stupido e più fiero di te, ora che lo vedi allontanarsi con la coda tra le gambe verso il suo ufficio.
 
Il tuo divertimento sparisce, insieme alla tua espressione compiaciuta, quando ti ricordi di Sherlock. È dietro di te e senti il suo sguardo bruciare sulla tua schiena. Che cosa penserà, ora, di te? Uno sconosciuto che rischia la propria faccia e il proprio lavoro per un altro sconosciuto? Per lui? Crederà che tu abbia fatto quel gesto solo per apparire ai suoi occhi? Una parola suona ancora ridondante nella tua testa: stupido.
 
Ti volti lentamente, senza però alzare lo sguardo dal pavimento. Quando sei completamente rivolto verso di lui ti azzardi a sollevare leggermente lo sguardo, lasciando la testa ancora inclinata.
Sta sorridendo. Non sta ridendo di te, sta sorridendo. Divertito, come se la situazione fosse di suo gradimento. Allora alzi la testa e lo guardi davvero. Sorridi anche tu, ma non te ne accorgi davvero. Sembrate così complici, con i vostri sguardi e le vostre risate nascoste, che cominci a credere davvero nell’idea della reincarnazione.
 
«Bella mossa, dottore» ti dice ancora sorridendo, non con le labbra, ma con gli occhi: le piccole rughe d’espressione intorno alle sue ciglia sembrano disegnate d’allegria.
 
Ridi. Il tono con cui l’ha detto, ironico sì, non di scherno, ma confidenziale, gioioso, entusiasta, ti fa illudere di aver quasi conquistato un piccolo indizio per la via labirintica della sua personalità, nascosta in quegli occhi cangianti. Poi rifletti un attimo, e ti fai serio. Dottore?
 
«Come sai che studio medicina?» chiedi sorpreso.
 
Lui si alza e stira il lungo cappotto con le mani, in un gesto elegante e naturale. Si volta per chinarsi a raccogliere i suoi fogli sulla sedia e tu ti soffermi un attimo  di troppo sulla sua figura allungata, mentre è di spalle, tanto che quando si girà il suo sguardo è di finto biasimo e il tuo di nuovo imbarazzo, le guance ormai arrese al consono rossore.
 
Si avvicina di un paio di passi ed ora è decisamente a troppi pochi centimetri da te. Almeno così la pensa il tuo cuore, che bussa indignato al tuo petto, troppo veloce, troppo affannato. Non respiri, ma l’apnea è l’ultimo dei tuoi pensieri in questo momento.
 
«Alla prossima volta, John Hamish Watson» dice semplicemente, con una voce che potrebbe essere più profonda e allusiva.
 
Poi se ne va, ondeggiando il suo cappotto, finché i ricci neri non scompaiono tra la folla e tu rimani solo, al centro di una rete di gente che incrocia inconsapevolmente le traiettorie altrui.
 
Il tuo nome non ti è mai sembrato un suono così ammaliante.  
 
 
 
 
 
 
 
 
C’è un uomo seduto sulle panche di fronte ai binari, mangia il cornetto che gli hai venduto pochi attimi prima. Sta giocando con una moneta: la lancia, la lascia cadere e quando è quasi troppo tardi, la riprende nel palmo della mano. Lo osservi. Non lo fa ritmicamente, ogni volta la moneta sembra salire più in alto e metterci più tempo a scendere, ogni volta sembra passare qualche secondo in più o in meno dall’ultimo lancio. L’unica costante nel suo svago senza scopo è un sospiro. Ogni tre lanci, le sue spalle sono più curvate verso l’interno, il suo capo più chino, il suo sguardo più basso, mentre la schiena si solleva più del solito e si sgonfia in una nuvoletta che immagini uscire dalle sue labbra screpolate. Poi riprende a tirare la moneta: nessuno ha ascoltato quel sospiro.
 
Più in la, una donna legge un giornale. Potrebbe essere un giornale di moda, a giudicare dalle immagini di borse e scarpe appariscenti che occupano intere pagine, ma non sei abbastanza vicino per esserne certo. La guardi meglio e sai che sì, non può che essere un giornale di moda. Indossa un completo color crema, la gonna attillata sopra il ginocchio, la giacca chiusa sul davanti, che lascia comunque spazio ad una camicia sofisticata. La borsa firmata troneggia accanto a lei, nella sua forma elegante. Sfoglia distrattamente la rivista e di tanto in tanto si sofferma a leggere qualche pagina, apparentemente concentrata. Quando però qualcuno le passa accanto, o accenna a sedersi vicino a lei, il suo sguardo si fa vigile e attento: solleva gli occhi su chiunque le si avvicina e tutto in lei trasuda speranza e supplica allo stesso tempo. C’è qualcosa di intenso nel modo in cui si lascia distrarre dal mondo di passaggio, da come cerca di catturarne una parte, quasi si aspettasse davvero di trovare qualcosa in quel via vai di gelida noncuranza, di trovare qualcuno che ricambi il suo sguardo.
L’indifferenza le arriva addosso puntuale e lei torna a sfogliare pagine fredde.
 
Un’adolescente è appoggiata a una delle colonne, sotto al numero che indica il binario. Ti chiedi perché sia in piedi, visto che c’è una sedia libera accanto a un’anziana signora che cerca nella borsa qualcosa di perduto, forse i suoi ricordi. Il dubbio dura un secondo, ti ricordi subito della stupidità di gente in piedi per ore, nell’attesa del proprio lasciare, che deforma la valigia con il peso della stanchezza piuttosto che sedersi accanto a sconosciuti che hanno sempre qualcosa che non va: troppo scuri, troppo strani, troppo soli. Che follia. Ha il cellulare in mano, le cuffiette nelle orecchie e scorre distrattamente con il dito sullo schermo touch. Con la mano sinistra, avvolge un riccio castano intorno al suo indice. Probabilmente lo fa in modo inconscio, ma è carina in quel gesticolare infantile, qualcuno dovrebbe dirglielo.
Mette il telefono nella tasca della felpa, senza togliere le cuffiette e inizia a mordersi le unghie, forse per passare il tempo, forse per l’ansia dell’attesa. Qualche attimo dopo, lo tira di nuovo fuori, lo guarda distratta e lo rimette nella tasca. Non passano molti secondi prima che lo faccia ancora, e ancora: il suo sguardo si fa sempre più deluso.
 
Lavorare in quel posto ti ha insegnato ad osservare. Ti ha insegnato a prenderti gioco della noia, del tempo e della fatica, unendo i puntini tra le persone, come in un complicato gioco enigmistico. Trovare le differenze, le somiglianze. Come fai ora, li guardi e riesci a vedere solo un aspetto, il loro minimo comune denominatore: la solitudine. Sono tutti così soli, nel loro tentare di allontanare gli altri ma cercarli implicitamente, e tu lo percepisci forte e chiaro proprio perché sei come loro. I luoghi alienanti ti lasciano come un corpo senz’anima che vaga tra muri tutti uguali, in strade che puzzano, tra gente morta che si tracina per inerzia: non hai mai davvero capito davvero cosa intendesse Dickens finché non hai iniziato a lavorare lì. Nella tetra impassibilità di quel posto, non sei che un elemento fuso con le mura, con i binari, con lo sbuffo dei treni. Non conti, come non conta nessuno in un luogo che è solo funzionale e mai dilettevole, così hai modo di sentirti solo, senza che nessuno se ne accorga.
 
Prendi una lattina di Coca-Cola dal frigo, fai scattare la linguetta, guardi qualche bolla fuoriuscire per poi spegnersi e ascolti i suoni che fa tutto il processo. Tac. Tdssss. Ci appoggi le labbra sopra, senza pulirla, e ne bevi un lungo sorso. Avevi dimenticato che sapore avesse una vera bibita frizzante, a differenza delle disgustose imitazioni del discount. Bevi un altro sorso e socchiudi gli occhi. Apprezzare le piccole cose è il tuo modo di evadere.
 
Quando torni a divorare il mondo con le iridi celesti lo sguardo ti cade in un angolo tra due mura imbrattiate. Lo conosci quell’angolo e sai che non è solo tale: per qualcuno è casa. Josh è forse l’unica persona con cui hai parlato per i primi due mesi in cui hai lavorato lì, un barbone sincero, gentile, sorridente, pur con un sorriso quasi vuoto e nessun motivo per sorridere. Gli sei accidentalmente andato addosso una volta, preso dal tuo ritardo: hai gridato un sorry strozzato mentre continuavi a camminare veloce, senza neanche voltarti, poi invece ti sei fermato – chissà cosa ti ha fatto cambiare idea. Hai guardato indietro, c’era un corpo nascosto tra stracci e in quel corpo c’erano due occhi velati. Si massaggiava con le mani un piede avvolto in dei panni, probabilmente quello che avevi urtato tu, poi una donna nei suoi tacchi bassi gli era passata abbastanza vicino da poterlo sentire, con le orecchie, non con il cuore, e lui aveva abbandonato il piede per allungare una mano graffiata, sporca e callosa verso di lei, sussurrando qualcosa che non eri riuscito ad ascoltare e che lei aveva ingoiato con la sua indifferenza.
L’aveva guardata con quegli occhi che ti avevano stretto un po’ il cuore, occhi nocciola senza desiderio di compassione, ancora fieri forse, dietro quella patina lucida di dolore e umiliazione, densa e sofferente tanto da colpire te, sconosciuto in un luogo di sconosciuti. Sei tornato indietro e ti sei piegato sulle ginocchia davanti a lui, per permettergli di guardarti negli occhi, per dimostrargli che non merita di essere guardato dall’alto in basso.
 
«Mi dispiace, ti sono venuto addosso poco fa» hai detto piano.
 
Per un attimo, hai visto il terrore nei suoi occhi, poi è svanito dietro un sorriso. Un sorriso fatto di labbra secche e spaccate in diversi punti, circondate da pelle rugosa e raggrinzita, fatto di denti radi e marci, neri, spezzati. Uno dei più bei sorrisi che ti abbiano mai dedicato.
 
«Non ti preoccupare ragazzo, corri pure a divertirti» era stata la sua risposta sincera e tu l’avevi ascoltata nel tuo stupore. Chi non ha avuto niente sa perdonare, non l’avresti mai detto.
 
La tua mano era rimasta tesa per un po’ prima di essere stretta.
 
«Piacere, io sono John».
 
Il suo sguardo era così sorpreso che ondeggiava tra il curioso e lo spaventato. Non deve capitargli spesso di fare amicizia, avevi pensato. Alla fine aveva stretto la tua con la sua mano rovinata. Ignorare la sensazione disgustosa di quel contatto ti era costato un po’: appiccicoso, maleodorante, incallito.
 
«Ciao John, io sono Josh. Josh Wright».
 
Aveva riflettuto qualche istante prima di pronunciare il suo nome, quasi fosse passato tanto tempo dall’ultima volta che qualcuno glie l’aveva chiesto da non ricordarlo più. Solo con il tempo eri riuscito a capire l’entità di quella tristezza e solitudine.
 
«Abbiamo le stesse iniziali, Josh.» avevi risposto. Anche tu gli avevi regalato il tuo sorriso, parlando, e lui sembrava averlo apprezzato più di qualsiasi altro dono. «Ora devo andare, scusami ancora per prima!»
Ti eri alzato e lo avevi salutato agitando la mano. Da quel giorno eri stato ben attento ad aspettare che nessuno ti vedesse o che il capo uscisse prima, quando prendevi un panino dal bancone, lo incartavi per bene e lo portavi a Josh.
 
 
Qualcuno è chino su Josh. Non riesci a distinguere neanche se è un uomo o una donna, in un primo momento: decine di persone che passano ti tagliano la visuale dandoti un’immagine criptata di quella persona. Riesci a vedere solo una sagoma scura su di lui e subito un allarme scatta nella tua testa. Non è la prima volta che  vedi qualcuno infastidirlo o picchiarlo: ragazzini annoiati, vandali, bastardi. Guardi meglio e ti sembra di riconoscere la figura di un uomo, nonostante l’immagine sia sempre più tagliata a fette dalla folla. Aspetti di intravedere il suo braccio che si allunga verso Josh prima di scattare.
 
Esci dal bancone urtando lo sportello con violenza  e ignori il cigolio che ne deriva, senza preoccuparti di aver lasciato scoperto il posto di lavoro. Quasi non senti più neanche il rumore confusionario della stazione e l’odore eterogeneo: riesci a provare solo una rabbia forte e viva che anima ogni tuo movimento, ti scorre nelle vene, ti vibra nelle iridi. Prima ancora che te ne renda conto, stai già camminando a grandi passi verso quell’angolo, hai le mani chiuse e i muscoli tesi, come se il tuo corpo fosse pronto a uno scontro. In effetti, la parte meno razionale di te sta correndo per prendere a pugni quell’uomo, chiunque sia. Cerchi di evitare le spalle veloci delle persone, ma non le noti davvero quando, involontariamente, le urti e qualche parola di biasimo viene inghiottita tra i mille passi: il tuo sguardo è fisso sul centro della tua rabbia a cui hai saputo dare un nome, ingiustizia.
 
Più ti avvicini e più il tuo cuore rimbomba in battiti potenti scanditi dalla rabbia, dal respiro affannoso. Divori gli ultimi passi tra la gente, mozzando l’inizio di uno e la fine dell’altro per fonderne due insieme. Tutto perde di definizione fino a non lasciarti vedere più niente, se non quello che stai per fare, l’adrenalina sale, la prima goccia di sudore punge, il cuore batte, il sangue pulsa. Un attimo di buio colorato, confusionario e sei davanti a una macchia di stoffa e capelli neri, china su un cespuglio di stracci contenenti una persona.
 
Allunghi una mano sulla sua spalla prima di guardare, prima che le linee prendano forma: la tua presa è salda e dura, per ammonire, per avvertire.
 
Quando la macchia nera si volta tutto quello che riesci a vedere è l’azzurro. Un azzurro così intenso e vivo da riempirti, come se improvvisamente non ci fossero altri colori, come se fossi caduto nell’oceano e ci fosse solo tanta acqua limpida intorno a te. Non acqua, ghiaccio. Quello è un azzurro glaciale, tagliente, affilato, come se ogni scaglia di colore all’interno fosse di vetro, schegge di un cristallo frantumato in mille pezzi e riunito insieme in una disarmonia scintillante di pagliuzze. Azzurro di diamante nell’oceano, azzurro di zaffiro, azzurro di ghiaccio, azzurro di cielo pulito. 
 
Poi delle ciglia, curve, lunghe, come quelle di un disegno disneyano. Linee nere di un acquarello preciso. Una forma morbida e allungata. Dei piccoli solchi intorno a quelle mandorle luminose.
 
Quegli occhi.
 
Li riconosceresti tra mille, un milione di occhi. Li riconosceresti tra tutti gli occhi del mondo intenti a fissarti con dubbiosa superficialità: tu vedresti solo i suoi occhi azzurri e te ne innamoreresti ancora una volta, come hai fatto nei tuoi sogni.
 
Ora puoi riconoscere anche lui, il cappotto lungo, i capelli vaporosi che ricadono a ciocche sulla fronte, il corpo affusolato piegato sulle ginocchia, la pelle candida, i nei, le labbra, il collo. È lui. È Sherlock.
Di nuovo, come nelle altre volte che i vostri sguardi si sono fusi, c’è silenzio. Silenzio profondo e ragionato, ma vuoto. Silenzio rotto da un tamburo. Bum. Bum. Bum. Bu-bum. Il tuo cuore ritma nel petto. Inciampa ogni tanto, ma non puoi biasimarlo. Anche lui ti guarda, con i suoi immensi occhi azzurri, ma non come tu guardi lui: devi sembrare uno stupido, con la tua espressione sorpresa dipinta in volto, ti viene istintivo pensarlo.
 
Sherlock aggrotta appena le sopracciglia, come se si chiedesse cosa ci fai lì – e lo fa in un modo così sexy che il tuo cuore perde l’ennesimo battito. Si volta verso Josh e tutto si muove in modo meccanico e veloce, come se ti trovassi in un videogioco: un foglietto bianco, strappato ai lati, che scivola via dalle dita scoperte dai guanti del barbone, la mano di Sherlock che lo afferra e lo fa sparire nella tasca del cappotto. Segui con gli occhi quel piccolo scambio e ti soffermi per poco sulle sue dita affusolate, ma quando lui si alza in piedi hai già dimenticato la tua curiosità a proposito. Entrambe le mani nel lungo cappotto nero, il collo steso fino al mento alzato, le spalle dritte, ora la sua espressione è seria, imbevuta di un senso di superiorità e freddezza, mentre ti guarda dall’alto – cavolo, perché è così alto? Eppure è sicuramente più giovane di te!
Sbatti le ciglia un paio di volte e il tuo cuore ti sembra rallentare. Forse solo un po’. Lo osservi meglio e riesci a vederlo, se lo guardi senza cadere nei suoi occhi azzurri o nei suoi riccioli neri: un ragazzo vestito del suo soprabito scuro e della sua sfrontatezza.
 
«Ciao» dici, e sfoderi un sorriso dietro al quale nascondi tutta la tua timidezza.
 
Lui ti guarda ed esita prima di rispondere. È uno sguardo inquisitorio e profondo che sembra captare anche quella goccia di sudore che inizia a farti solletico. Preghi solo che si ricordi di te, che ti abbia pensato almeno una volta per ogni cento che l’hai pensato tu.
 
«Ti capita spesso di smettere di lavorare per correre in giro per la stazione?» chiede, lasciandoti spiazzato.
 
«Come?»
 
«È un’abitudine quella di sospendere il lavoro per darti all’avventura?» questa volta lo ripete molto più lentamente, come se ti stesse dando dello stupido. Forse lo sta facendo.
 
«No, solo quando si tratta di ragazzi con lunghi cappotti neri».
 
Sorridi della tua stessa battuta e ti sembra di scorgere un piccolo accenno anche nell’angolo sinistro della sua bocca, ma non ci giureresti. Crea una piccola pausa prima di parlare, una pausa divertente e fatta dei vostri sguardi.
 
«Oh, adesso capisco perché il tuo capo sembrava sul punto di esplodere l’altro giorno: i cappotti lunghi vanno molto di moda quest’anno».
 
Scoppiate entrambi a ridere ed è una risata leggera, armonica, come se quei due suoni fossero fatti per accompagnarsi a vicenda. Ridi e lo guardi ridere, con quelle labbra turgide e rosse, le piccole fossette sotto gli zigomi, le linee intorno alla bocca. Lo scintillio negli occhi.
 
Sospiri e getti leggermente la testa indietro quando la risata inizia a svanire nell’aria.
«Si, ho temuto anche io che accadesse.» prendi fiato. «Allora… tu e Josh, come vi conoscete?»
 
Il suo sguardo va verso l’uomo. È uno sguardo duro e severo, che non ammette repliche. Uno sguardo complice ma imponitore.
 
«Ci scambiamo favori reciproci» dice e i suoi occhi di ghiaccio non si muovono da quelli nocciola del barbone.
 
Josh annuisce e tu ti chiedi cosa ci sia che non ti stiano lasciando capire, cosa Sherlock stia nascondendo. Ti basta un attimo dei suoi occhi su di te per dimenticare le tue domande irrisolte.
 
«Perché non lo fai anche con me, uno scambio di favori reciproci?» chiedi, sorridendo, e il cuore ricomincia a battere troppo forte.
 
Le sue sopracciglia sono di nuovo aggrottate e il suo sguardo di nuovo interrogativo. Sembra un bambino quando fa così.
 
«Io ti offro un caffè e tu mi permetti di rimediare alla figuraccia che ho fatto con il tuo nome» continui.
Bum. Bu-bum. Bumbumbumbum.
 
Ti guarda. Sorride.
Bumbumbumbumbumbum.
 
Lo hai invitato a prendere un caffè con te? Che cos’è, un appuntamento?
Bumbumbumbumbumbumbumbumbum.
 
È un sorriso quasi diabolico per quanto enigmatico. La curva morbida del suo arco di cupido sfiora il labbro inferiore.
 
«Non credo che lo apprezzerei: qui il caffè, come tutto del resto, è talmente di bassa qualità che perfino lui ne ha bevuti di migliori» risponde sprezzante e con un cenno del capo indica l’uomo ancora seduto sui suoi cartoni malconci.
 
Bum.
 
Che cos’ha risposto? No? Si, ma… ? Di nuovo enigmatico, di nuovo  incomprensibile, di nuovo impenetrabile. E tu di nuovo senza fiato.
 
Ti accorgi di quanto sia lungo un secondo quando non sai cosa dire. Potresti sentire ogni decimo scattare nelle tue orecchie, come un orologio rotto che manda il tempo a rallentatore. Lungo e profondo, lascia che tu percepisca ogni cosa nella sua durata, il tuo respiro sospeso, il passo veloce della donna dietro a te, la monetina caduta al bambino che fa i capricci, l’interfono della pubblicità. Il suo sguardo. Potrebbe uccidere con quello sguardo, ne sei certo: un colpo di occhi azzurri e non hai più capacità di essere te stesso.
 
Respira.
Parla, o sembrerai un idiota.
 
«Allora andiamo fuori a prenderlo. Conosco un posto a Phoenix Road che fa anche dolci irresistibili.»
Ora, quel silenzio, sembra pieno di suoni. Ma sembrano provenire tutti da te, come se avessi ingoiato un intero circo e ora questo si stesse ribellando nel tuo corpo. Tamburi nel petto, fischi di frusta nelle orecchie, trapezisti impazziti nella testa. Il suo sguardo è ancora nel tuo, immobile e glaciale come sempre, il suo sorriso ancora enigmatico sulle sue labbra. Ti chiedi se stia giocando con te, se riesca a vedere la tua ansia e si diverta con questa. Forse sei un buon attore, forse sembri tranquillo. Forse no.
 
«Lavori in un cafè squallido e sovraffollato. Hai davvero voglia di vedere altro caffè quando esci da qui?»
 
Sorridi. Sorridi perché Sherlock ti ricorda tanto un’immagine dolce della tua infanzia, in questo momento. Ti ricorda Harry, seduta da sola sotto l’albero di noci del vostro giardino, quando la mamma andava da lei e le chiedeva di fare una torta insieme, con quel suo sorriso dolce che profumava di zucchero a velo prima ancora di accendere il forno. Non lo avrebbe mai ammesso, già orgogliosa, ma lei adorava la mamma. Così sbuffava e diceva preferisco giocare con la terra o una torta? Non sono una principessina con il grembiule da pasticcera, io. Voleva solo che insistesse, lo hai capito con gli anni. E la mamma insisteva, sempre. Le faceva il solletico finché Harry non rideva e quando lo faceva (non per il solletico, ma per quel materno sorriso contagioso) allora lei diceva era questo il patto, no? Se fossi riuscita a farti ridere saresti venuta a fare la torta con me. Non te l’ho detto? Devo averlo dimenticato”.
 
Sherlock sembra quella bambina, ora. Non lo conosci e sai che stai facendo una conclusione campata in aria, ma sei sempre stato bravo a capire le persone, forse perché ti importa davvero.
Così insisti, perché come la mamma, quella torta la vuoi davvero.
 
«Mi piace ricordarmi ogni tanto che non sono l’unico a preparare caffè e incartare ciambelle nella vita. Mi fa pensare che forse un giorno sarò servito, invece di servire.»
 
Fai una pausa e lui accenna a una smorfia. È un sorriso?
 
«Magari a bordo di una piscina, con thè freddo, ananas e…» fai una pausa, in cui cerchi la cosa giusta da dire «Macarons! Ecco, con i Macarons sarebbe perfetto.»
 
Ti guarda dubbioso, le sopracciglia curve e il labbro arricciato.
 
«Immagino siano dolci. O droghe, a giudicare dal nome.»
 
Il tuo sguardo è carico di incredulità.
 
«Non hai mai mangiato i Macarons? Per quale terribile motivo? È una sorta di punizione autoinflitta?»
 
«Non sento il bisogno di soffocare la mia emotività in un sovraccarico di zucchero, così da aprire la strada a colesterolo e diabete, al contrario della maggior parte della gente.»
 
La sua risposta ti spiazza. Ti rallenta. Hai sempre bisogno di qualche attimo di riflessione, quando lui apre bocca. Era una critica, ne sei abbastanza certo, se non direttamente a te, a una categoria di persone di cui fai parte. Allora perché ci vedi dietro tristezza e solitudine sconfinate?
 
«In ogni caso, dobbiamo rimediare.» affermi con tono tranquillo, mentre una piccola parte di te ti prende in giro per essere così insistente. Sembri un venditore di aspirapolveri, dice, ma tu la metti a tacere. «Finisco il mio turno tra un’ora. Puoi aspettarmi o… non so, fare un giro… ci rivediamo qui. Che ne pensi?»
 
Tu attendi e lui ricomincia, il tuo cuore. Bumbumbum. Bu-bu-bum. Bumbumbumbumbu. Non hai ma desiderato tanto leggere nella mente degli altri, anche se adesso il suo sguardo si è un po’ ammorbidito, anche se non sembra ghiaccio di migliaia di anni ma solo di centinaia, anche se forse quella linea curiosa sulle sue labbra è una specie di sorriso. Anche se esita, ma sembra farlo per giocare con te. Tu sei il topo e lui è sia il formaggio che la trappola.
 
Tensione. Elettricità che taglia a fette l’aria. Il silenzio dell’esterno, il circo dentro di te. lo stomaco che si chiude: forse è un domatore con la sua frusta. I suoi occhi. I tuoi.
 
Dì soltanto “si, va bene, a dopo”, ti prego.
 
Quando rompe l’attesa, lo fa muovendo la testa e le spalle in un moto di indifferenza – i ricci ondeggiano leggermente allo scatto del collo, cerchi di non notarlo, ma ti resta difficile - rotea leggermente gli occhi verso destra e poi verso l’alto, guarda altrove come se fosse annoiato quando ti risponde.
 
«A quanto pare sembra sia così indispensabile assaggiare questi dolci, quindi non posso che accettare. Non vorrei mai che la regina in persona venga a rimproverarmi per non averli assaggiati.» ribatte satirico.
 
La sua ironia ti arriva come aria fresca nel caldo di agosto. Persino il circo ha smesso di esibirsi e adesso applaude la tua performance. Sorridi e ti senti più leggero. Dietro al suo sguardo falsamente tediato, vedi un briciolo di curiosità. Per i Macarons? Per te?
 
«Allora qui, tra un’ora.»
 
Lo ridici un’altra volta, un po’ insicuro. Vuoi una conferma che smentisca l’ostinata indifferenza sul suo volto, ma non ti arriva risposta, solo un cenno quasi impercettibile del capo, le palpebre che si chiudono e si riaprono come ad annuire: il sipario sul blu dei suoi occhi e poi di nuovo lo spettacolo in scena per te, per il mondo.
 
«A dopo.» lo sussurri e basta, forse neanche ti sente.
 
Infatti non dicevi a lui, dicevi a te stesso, pensi mentre ti giri e cammini verso il tuo bancone. Ti stavi facendo una promessa: dopo. Dopo lo rivedrai, dopo lo guarderai ancora negli occhi, dopo noterai i suoi nei, dopo sentirai la sua voce, dopo ti lascerai sfiorare dalla sua ironia. Dopo. Il tuo chissà se è diventato dopo. Ti chiedi se ti stia guardando, ma vinci la tentazione di voltarti: farebbe sembrare tutto uno smielato film. Pensi che sicuramente lo sta facendo, senti del calore che da un punto inarrivabile tra le tue spalle si dilata a tutto il corpo, allo stomaco, allo sterno. Speri che il circo non stia bruciando. Ti sta guardando, speri e disperi, e tu ti senti una gemma e un’idiota allo stesso tempo.
Non inciampare, non ora, per favore.
               
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questa volta lo ammazzo. Continui a pensarlo e ogni volta che lo ripeti nella tua testa, lo fai con più rabbia. Hai quasi finito tutte le unghie da morderti e se Mike non arriva in fretta dovrai passare a quelle dei piedi. O ai polpastrelli. Arrivare in ritardo e andare via prima fa parte del suo modo di prendere il lavoro, ma questa volta è diverso. Questa volta c’è qualcuno che ti aspetta.
Quando arriva, lo fa fischiettando e giocherellando con le chiavi tra le dita della mano destra. Hai ancora più voglia di ucciderlo.
 
«Dove cazzo eri?» sibili e senza rendertene conto, gli vai incontro minaccioso.
 
Lui indietreggia. Non è da te arrabbiarti, forse l’hai spaventato davvero.
 
«Ehi, Johnny, stai bene? Mi sembri un po’ agitato. Te l’ho detto che dovresti scopare di più».
Ti avvicini ancora con la rabbia che fa da padrona, le mani che tremano già e si chiudono in un pugno. Poi l’occhio ti cade sull’orologio tondo appeso al muro, sopra le vostre teste. Sei in ritardo. In ritardo al primo appuntamento, complimenti John.
 
Non è un appuntamento, sussurra quella vocina, ma tu la ignori e scivoli via dallo sguardo sorpreso e spaventato di Mike. Ti urla qualcosa dietro, con un punto di domanda alla fine, ma tu non lo ascolti: stai già divorando il terreno, con passi grandi a posto dei denti. Ogni respiro, ogni metro sotto le tue scarpe, è una preghiera. Ti prego, fa che non se ne sia andato.  Ti prego, fa che si sia ricordato.
 
Ti prego, fa che sia lì ad aspettarmi.
 
Tu ingoi la distanza e l’ansia ingoia te: un circolo vizioso dal quale non puoi uscire. Qualcuno ti taglia la strada, lo ignori. A una donna cade un giornale proprio davanti ai tuoi piedi, ti fermeresti a raccoglierglielo normalmente, ma ora continui a camminare veloce. Anche il tuo respiro e i tuoi battiti corrono, proprio come te.
 
Persino la tua immaginazione galoppa  veloce, frenetica e ansante come il momento. In un attimo riesci a fare tanti di quei pensieri che non avresti neanche creduto capace la tua mente: il tempo scandisce i decimi di secondo e la tua fantasia proietta immagini più rapidamente perfino delle lancette.
 
Tu seduto a un tavolino del tuo caffè preferito. Sherlock, davanti a te, sorride. Con il suo mezzo sorriso sempre un po’ enigmatico, poi fai una battuta e ride davvero: ha una risata così armonica. Beve un sorso di thè e tu mordi la tua ciambella: quasi ti dimentichi di mangiare per come sei preso dalle sue parole, dai suoi occhi. Ti scappa un sorriso, non nella fantasia, nella realtà: lo riprendi al volo prima che si allarghi sul tuo viso e speri che nessuno ti abbia visto ridere da solo mentre allunghi passi sempre più veloci.
 
Ma la mente è subdola, e prima che tu possa agguantarla, ti sta già presentando l’altra faccia della medaglia. Ci sei ancora tu, ancora nel tuo caffè preferito, ancora seduto a un tavolino, lo stesso. Forse hai poca fantasia. Ma davanti a te non c’è nessuno. Guardi ogni persona che entra con occhi speranzosi e il tuo cuore batte più forte a ogni tintinnio della porta che si apre, poi deluso, torni sistematicamente a guardare il thè ormai freddo nella tua tazza. Davanti a te nessuno, se non forse l’assenza e la delusione che condividono la sedia vuota.
 
Lo sconforto ti rallenta un po’, i tuoi passi si fanno più stanchi, ma è solo il tempo di un lampo di luce, prima che le suole delle tue scarpe ricomincino a cancellare la distanza. Le tue gambe veloci, il tuo cuore impazzito.
 
 
Quando arrivi al punto dove lo hai visto l’ultima volta, la X nella tua mappa del tesoro, trovi solo Josh che dorme con la schiena rivolta verso la gente indifferente. Ti sembra quasi di sentire un oh della folla, come nei cartoni animati o nei film muti. Sherlock non c’è. Sherlock non c’è e tu ti senti un’idiota. Sherlock non c’è e la vocina sta sibilando te l’avevo detto.
 
Sembra il contraccolpo del fucile, la delusione di quel momento. Un pugno nello stomaco che arriva all’improvviso, inaspettato, doloroso. Ti guardi intorno e poi fissi le tue scarpe, come se lui potesse essere lì, tra i lacci consumati e qualche macchia di fango. Guardi di nuovo la stazione ma la ragazza che cammina davanti a te, con le cuffiette nelle orecchie e le calze grigie sotto i pantaloncini, non somiglia affatto a ciò che stai cercando. A chi stai cercando. Josh emette un grugnito nel sogno e anche quel suono sembra prendersi gioco della tua espressione triste.
 
Ora ti dai dello stupido, per averci creduto. Perché forse lui neanche esiste, lo hai solo immaginato: un ragazzo con gli occhi blu e l’aria misteriosa che rende interessanti le tue giornate alla stazione, come il personaggio di una favola moderna. O forse lui esiste, ma non ricorda neanche il tuo nome e tu sei stato così ingenuo e illuso da credere il contrario. In ogni caso, ora ti trovi in piedi in mezzo a uno spazio trafficato da passi svelti e guardi il mondo come un bambino a cui è scoppiato il palloncino. Ridicolo. Ingenuo, illuso, ridicolo. Non puoi fare a meno di ripetertelo, mentre con movimenti lenti e pesanti, giri su te stesso per tornare indietro. Persino alzare una gamba ti sembra faticoso, come se la delusione fosse una sostanza collosa che ti si è appiccicata addosso e ostacola ogni gesto. Un ultimo sguardo alla rude immagine della sua assenza, di un pavimento sporco sul quale dorme un uomo finito, di persone che passano e non sono mai lui. Un’ultima piccola speranza, un’ultima piccola delusione e ricominci a camminare sugli stessi passi che prima avevi ingoiato nella frenesia. Le spalle leggermente curve e le mani in tasca anche se non fa così freddo: la musica di uno di quei film muti ora sarebbe un dettaglio perfetto.
 
 
 

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Capitolo 3
*** Text Me ***


 
 
Plin. Plin. Plin.            
 
Il gocciare del rubinetto alle tue spalle comincia a darti davvero sui nervi.
 
Plin. Plin. Plin.
 
Hai già fatto presente che è rotto. Due volte. Ovviamente, nessuno ha chiamato un idraulico e tu non hai nessuna intenzione di andare a parlarne con il direttore, non dopo il vostro recente incidente.
 
Plin. Plin. Pli-plin.
 
All’ennesima goccia irregolare che rimbalza sul metallo del lavandino circolare getti la testa indietro e sbuffi, esasperato. Com’è possibile che tu riesca a sentirle, in un luogo rumoroso per antonomasia? Ma soprattutto, com’è possibile che siano così fastidiose da deconcentrarti e costringerti a leggere per la terza volta la stessa riga del libro di genetica?
Non riuscirai mai a dare l’esame se non aumenti i ritmi di studio e ultimamente sei fin troppo distratto. Chissà perché.
 
Una matita impazzita prende vita da sola e inizia a disegnare sul tuo libro, ignorando le parole scritte in un carattere minuscolo. Inizia con delle linee distratte, confuse, imprecise. Rapidamente prendono forma, una forma allungata, raffinata, elegante, come una mandorla levigata. Due mandorle, circondate da leggere ondine romantiche. Al loro interno disegna due sfere intense ai bordi, più sfumate nel loro interno. Poi il disegno prende colore e le sfumature fanno da padrone. La matita si trasforma in un pastello magico e sotto il suo tocco il blu si fonde con il bianco e dà vita a una nuova tonalità, il celeste con il nero ne crea un’altra ancora.
Due occhi profondamente azzurri si prendono tutta la tua attenzione, lasciando l’anatomia a un ricordo lontano. Le iridi si muovono sulla carta leggermente increspata per la pressione del pastello, sono di nuovo un mare in tempesta, che cambia colore ad ogni onda, ora blu, ora azzurro. Ti incantano e ti parlano quegli occhi, ti raccontano storie antiche e dolorose, ti trascinano nel loro mutare costante, incatenandoti a sentimenti e colori che non conosci, come le sirene di Ulisse.  Sono bellissimi e tu affogheresti ancora e ancora in quel mare.
Con una mano scorri sopra la pagina fitta del tuo libro, come a cancellare la tua fantasia disneiana. Non riesci a smettere di pensare a lui, ormai non lo neghi neanche più.
Dopo il vostro incontro tornare a lavoro ti è sembrata la cosa più difficile che tu abbia mai fatto: non ti era mai capitato di rifilare una pizza alle olive a un uomo che chiedeva delle sigarette e dare le sue sigarette alla donna che aveva chiesto una bottiglietta d’acqua naturale per suo figlio. Per tutto il pomeriggio. Quando sei tornato a casa, quella sera, dietro le tue palpebre non c’erano altro che i suoi occhi azzurri e il suo sorriso beffardo. La tua testa era piena della sua voce che pronunciava il tuo nome, che ti raccontava di questo. Hai impiegato ore ad addormentarti, quasi tutta la notte, ma quando alla fine hai ceduto, cullato da quei pensieri, lo hai sognato mille volte, in mille posti diversi, in mille epoche diverse.
Poi è passato un intero giorno senza che tu l’abbia visto e ti è sembrato l’eternità, come se improvvisamente lui fosse la tua droga, senza la quale il mondo è grigio e tu dolorante. Sherlock. Quel nome è una cantilena nella tua testa, ormai.
 
 
Ora sei a lavoro, in anticipo, di un’ora. Mike ti ha chiesto di nuovo di sostituirlo – non ricordi neanche come si chiama questa volta, Laura, Louise, qualcosa del genere – e tu hai mostrato un entusiasmo che forse ti ha tradito.
 
«Certo!» hai risposto prima ancora che finisse la frase.
 
Lui ti ha guardato indagatore, con i suoi piccoli occhi maliziosi.
 
«Hey, Johnny, non è che c’è una bella ragazza che viene a prendere il caffè alla quale hai dato un po’ troppo zucchero, eh? Mi sembri troppo contento di lavorare.»
 
Hai alzato gli occhi al cielo in una finta espressione annoiata, ma dentro di te ti sei maledetto per la tua spontaneità.
 
«No, Mike, le lascio tutte a te, tranquillo» hai tagliato corto e lui ti ha ringraziato con una pacca sulla spalla.
Quel ragazzo riesce ad apparirti viscido anche quando scherza amichevolmente.
 
 
 
Una donna si sta avvicinando al bancone, la vedi con la coda dell’occhio mentre ondeggia sicura ma instabile sui suoi tacchi. Alzi lo sguardo rispettosamente e noti che non è una donna, ma una ragazza, giovane, carina, avrà più o meno la tua età. Un’occasione persa per Mike, uno stronzo di meno per lei.
Le sorridi e lei ti sorride di rimando, poggiando le mani con le lunghe unghie laccate vicino ai pacchetti di chewing gum esposti. È troppo truccata, ma sotto il fondotinta spesso e il fard acceso ha un viso dolce, da bambina. I suoi occhi castani emanano calore e sembrano fusi al loro interno, come quei dolci nordeuropei.
Ha delle belle labbra, carnose, rosse, ma delicate e non volgari: quando le muove, ne accompagni i movimenti con lo sguardo.
 
«Ciao. Prendo queste» ti dice, mentre posa un pacchetto di gomme alla fragola davanti a te.
 
Fragola. È un sapore che adori, soprattutto sulla bocca di qualcun altro. La tua ultima ragazza aveva un lucidalabbra alla fragola che ti faceva venir voglia di baciarla ogni volta: quando ti sei reso conto di che oca fosse, ti sei chiesto se non fosse stato quel lucidalabbra a farti innamorare di lei.
 
«Certo. Altro?» sei cortese nel rispondere, ma dai tuoi modi educati sfugge un sorriso forse troppo caldo.
 
Lei scuote leggermente la testa e a te sembra ancora più una bambina mentre fa quel gesto. Ora che guardi bene, sotto il fondotinta si intravedono delle  simpatiche  lentiggini ribelli al trucco.
Ti porge una banconota da cinque sterline e mentre cerchi il resto noti che si mordicchia l’angolo destro del labbro inferiore, come se fosse in difficolta. Quando le dai le monete e lo scontrino lei esita un attimo nei tuoi occhi azzurri.
 
«Grazie… ehm, volevo chiederti… un’informazione. Posso?»
 
Ti stupisci di come una ragazza apparentemente così sicura di sé nasconda, dietro ad accessori ostentati e trucco esagerato, una timidezza quasi tenera.
 
«Sicuro!» rispondi, e la tua espressione è dolce e comprensiva.
 
Lei sembra appena più rilassata ora, mentre sposta una morbida ciocca di capelli dietro l’orecchio.
 
«C’è un telefono a gettoni in questa stazione? È la prima volta che vengo qui e non so orientarmi… in realtà, è la mia prima volta a Londra.»
 
Solleva di nuovo lo sguardo su di tè, quando finisce di parlare, e la mano delicata torna a tormentare i capelli voluminosi.
 
Tu la guardi divertito e sorpreso.
 
«Un telefono a gettoni?» c’è un velo di ironia nella tua voce, ma è un umorismo leggero e coinvolgente
 
«Credo che il barbone che dorme sulle panche quando nessuno controlla abbia anche lui uno smartphone, sai?»
 
Lei sorride, imbarazzata ma divertita, e il suo sguardo torna a vagare sul bancone, mentre un leggero rossore sembra sfuggire al fondotinta ingannatore. Quella mano esile torna sui capelli, come se lei fosse la versione femminile e timida di Sansone. Ti stupisci di scoprire in te la voglia di allungare un braccio, prenderle il mento tra pollice e indice, sollevarlo, per costringerla a guardarti, e sorriderle sussurrando per rassicurarla.
 
«È che il mio si è… non so, scaricato, spero!» ora ti guarda di nuovo, una leggera nota di preoccupazione sembra aver soppiantato l’imbarazzo «o altrimenti è morto, dal momento che si è spento di punto in bianco.»
 
«Tieni» dici mentre allunghi il braccio per infilare la mano nella tua tasca destra «usa il mio.»
 
Lei guarda il cellulare tra le tue dita come se fosse un oggetto di tecnologia aliena, tanto che nei suoi attimi di esitazione induce anche te ad osservarlo per coglierne la stranezza. Il rossore torna a far visita alle sue guance.
 
«Ehm… grazie!»  risponde squillante.
 
Lo prende titubante e lo tiene un attimo in mano, prima di iniziare a digitare il numero sullo schermo, accompagnata da dei bip ripetitivi. Si porta il telefono all’orecchio, scostando i capelli con un movimento del collo, e con l’indice della mano libera ti fa cenno indicando un punto indefinito alla sua destra, prima di allontanarsi in quella direzione. La sua voce squillante si esibisce in un saluto allegro, prima che i suoni e i capelli di lei si confondano tra la gente lì vicino.
 
Torni a guardare le pagine del tuo libro e un nuovo disegno increspa la carta stampata. Questa volta, si muove. La matita ha lasciato linee sottili, chiare, ripetute molte volte su loro stesse, senza un’apparente precisione, ricalcate poi da un tratto sicuro e marcato che da forma ai lineamenti. Lo sguardo basso su qualcosa che va oltre la pagina, gli occhi ridotti a una fessura concentrata: riconosci le linee interessanti e rocambolesche del suo volto. Il labbro inferiore è stato catturato dai denti, che lo tengono in una presa diabolica, responsabile del rossore più intenso del quale si colora, mentre l’arco di cupido si posa nella sua naturale armonia su quel lembo di pelle sottostante. Sta scrivendo musica, non riesci a vederlo, ma è come se lo sapessi. Una folata di vento muove i suoi riccioli morbidi nel disegno:  come danzanti, questi la assecondano, ondeggiando sul suo viso candido e scoprendone ritagli nascosti.
Allunghi le dita verso il disegno, istintivamente, senza accorgertene, come per toccarlo, ma ti fermi prima, esiti. Il volto si muove e solleva lo sguardo su di te. Ora i suoi iridescenti occhi chiari ti guardano, curiosi, limpidi, innocenti e consapevoli allo stesso tempo, come quelli dei bambini. Ancora una volta, vedi il profondo di un abisso dimenticato in quelle iridi. Ora la matita si è ricordata di disegnare il fondale, ma ha dimenticato, forse tra una linea d’espressione e l’altra, la patina di freddezza che di solito lo cela. Riesci a vedere della sofferenza, in quegli occhi, una storia difficile, fatta di troppe mani e troppe poche parole. Riesci a vedere il riflesso di loro in un tempo passato, umidi, colmi di lacrime che a volte non hanno avuto il coraggio di piangere, che a volte non hanno avuto la forza di trattenere. Riesci a vederli spaventati, muoversi su volti sconvolti e implorare pietà, senza farlo davvero.
Ora le tue dita toccano davvero la carta e le tue labbra accarezzano il suo nome, come per chiamarlo e salvarlo da quegli incubi, come se lo sentissi improvvisamente tuo.
 
Sherlock.
 
 
«Che fai, parli da solo?»
 
Sollevi lo sguardo e la ragazza ti sta sorridendo, con un velo di ironia mista a dolcezza, ora meno inibita: stringe ancora il tuo cellulare tra le mani.
Posi il palmo sopra alla carta, come a proteggerlo e nasconderlo, ma il disegno non c’è già più.
 
«No, no» rispondi allegro, ma la tua attenzione è ancora rivolta all’immagine dei suoi occhi nella tua testa, che pian piano scema «stavo solo ripetendo qualche parola per memorizzarla.»
 
«Ah, stai studiando?» chiede.
 
La ragazza si sporge sul bancone mentre pone la domanda e allunga lo sguardo per riuscire ad intravedere il libro. Gli occhi ti cadono istintivamente verso il suo seno premuto contro la stoffa.
 
«Che facoltà frequenti?» domanda interessata.
 
«Sono al primo anno di medicina.»
 
Nel tuo sguardo c’è sempre una scintilla di orgoglio quando lo dici: quella scelta ti sta costando tutta la tua vita e ci sei aggrappato con le unghie e con i denti. Niente potrebbe allontanarti dal tuo obiettivo.
 
«Davvero? Complimenti! Hai intenzione di diventare un chirurgo?»
 
Ti hanno fatto questa domanda centinaia di volte, ma tu non sei il tipo che alza gli occhi al cielo, tu rispondi educatamente anche all’ennesima questione scontata.
 
«No, o perlomeno non qui. Ho intenzione di arruolarmi come medico militare dopo la laurea.» rispondi fiero.
 
O forse ami semplicemente dire ad alta voce il tuo sogno. Suona esattamente come la scelta giusta.
Lei ti guarda a metà tra lo stupore e l’adorazione. Più la seconda, e la cosa non ti dispiace affatto.
 
«È davvero una scelta coraggios-»
 
Si interrompe quando il tuo cellulare vibra e si illumina tra le sue mani. Abbassa lo sguardo su questo, probabilmente in un moto istintivo, poi lo rialza su di te, di nuovo imbarazzata.
 
«Scusa, non volevo farmi gli affari tuoi… ti è arrivato un messaggio» mormora.
 
Ti porge il telefono, guardando altrove e arrossendo: hai di nuovo la tentazione di sollevarle il mento e sorriderle, rassicurante.
 
«Va tutto bene, tranquilla» la rassicuri.
 
Prendi il cellulare dalla sua mano e, volutamente, la sfiori con le dita. Lei ti guarda di nuovo, ancora più rossa in viso, ma sembra distendersi nella tua espressione intenzionalmente serena.
Rivolgi la tua attenzione allo schermo del tuo telefono e ti accigli quando leggi le lettere e i numeri sullo
sfondo.
 
 
+44 70466598951
messaggio
 
Strano, pensi. Tieni molto alla tua privacy ed è raro che tu dia il tuo numero a qualcuno. Pensandoci bene, è raro anche che qualcuno ti cerchi, soprattutto con un contatto che non conosci. Apri il messaggio e la tua sorpresa aumenta, invece di scemare.
 
Cheerleader. È a Londra per fare un provino in una scuola di arti sceniche: non passerà  probabilmente, ma la sua influente e facoltosa madre provvederà a farla entrare lo stesso.
 
Rileggi il messaggio una, due, tre volte, prima che inizi ad acquisire senso e quando lo fa diventa un nome: Sherlock. Non sai perché pensi a lui, ma quelle poche parole ti hanno ricordato in modo puramente istintivo lui che insulta il tuo capo. Fai in tempo a darti del pazzo, dell’ossessionato e a mettere in dubbio la componente di curiosità nel tuo interesse per quel ragazzo, rapportata a qualcos’alto che non riesci a definire, prima che una voce squillante e cristallina ti distragga, di nuovo, dai tuoi pensieri unilaterali.
 
«La tua fidanzata?» ti domanda sorridente.
 
«Come, scusa?» ti sforzi di chiederle. Sembri così confuso mentre cerchi di concentrarti sulle sue parole e non su quelle del messaggio.
 
«Il messaggio, è della tua ragazza?»
 
«Oh, no, no. Non ho nessuna ragazza. L’ultima ha deciso che uno studente di medicina non poteva essere al pari di un medico già in carriera, con un divorzio alle spalle» ironizzi. Puoi farlo: in fondo non ti è importato neanche più di tanto quando l’hai vista in giro con uno vent’anni più vecchio di te. E di lei.
 
«Ah sì, capisco la situazione! Una mia compagna del gruppo di cheerleading ha fatto la stessa cosa. E sai com’è finita? Incinta! Dopo neanche due mesi! Quando l’abbiamo saputo… »
 
La ragazza continua a parlare, presa animatamente dal discorso, ma tu dopo cheerleding non senti più nulla.
 
Cheerleder.
 
Ecco a cosa si riferiva il messaggio. Lei, la passeggera senza cellulare che ti sorride timida e sfila sui suoi tacchi. Istintivamente ti guardi intorno, anche se non sai in cerca di cosa. Ti senti spiato, ma contemporaneamente una sensazione quasi positiva accompagna quella di sottile ansia: è come se ne fossi lusingato. Il tuo cuore accelera di nuovo e riconosci i moti involontari del suo battito, quelli che risultano dal rilascio eccessivo di adrenalina.
 
«Mi stai ascoltando?»
 
Ora sembra di nuovo una bambina, nascosta dietro la sua maschera da grande, mentre richiede la tua attenzione.
 
«Certo!» menti «e com’è finita?»
 
«Beh, lui è tornato con l’ex moglie e lei ha una pancia enorme, credo che il bambino nascerà tra poco»
 
«Terribile» sentenzi. Ti mantieni su commenti neutri, perché ancora una volta i tuoi pensieri sono altrove mentre lei parla.
 
«Infatti! Ora devo andare.» il suo sguardo torna basso, la sua mano va di nuovo ai capelli « È stato… un piacere, parlare con te!»
Torna a fissarti quando finisce la frase, in attesa della tua reazione, con un’evidente speranza negli occhi. Non riesci davvero a capire quanti anni abbia, nel suo ondeggiare tra la bambina e la donna.
 
«Anche per me. Se rimani a Londra magari potremmo rivederci…» domandi titubante.
Lasci la domanda in sospeso nell’aria e un po’ te ne stupisci. È più da Mike abbordare ragazze ingenue sul lavoro, con una scusa banale come una telefonata: tu cerchi – speri – di essere più di classe. Ma qualcosa in te ti spinge a desiderare di rivederla. Probabilmente è la parte di te che vuole sapere quanto di quel messaggio sia vero.
Lei sorride, ed è di nuovo a metà tra una bambina con un gelato e una donna consapevole della sua carica sensuale.
 
«Volentieri… tutto dipende dal provino di oggi: se entro nella scuola, rimarrò a Londra almeno per i prossimi tre anni, poi chissà!» squittisce entusiasta.
 
È a Londra per fare un provino in una scuola di arti sceniche.
 
Come pezzi di un puzzle, le parole del messaggio iniziano a incastrarsi con le realtà, in un disegno di cui non riesci ancora a intravedere la forma.
 
«Che tipo di scuola?» chiedi, e la tua curiosità è tutto meno che innocente.
 
«È una scuola di canto, ballo e recitazione. Ci sono dei corsi interessanti che potrebbero aprirmi molte porte nel mondo dello spettacolo. È la stessa che ha frequentato mia madre: è grazie al suo talento e a questa accademia che ha costruito tutto quello che ha. Certo, io non sono brava quanto lei, ma ci proverò lo stesso.»
 
Non passerà  probabilmente, ma la sua influente e facoltosa madre provvederà a farla entrare lo stesso.
 
«Incredibile…» mormori .
 
«Come?»
 
Solo alla sua domanda realizzi di aver appena sussurrato i tuoi pensieri, i tuoi commenti a quello che sta succedendo. Ora sei quasi completamente sicuro che quel messaggio sia di Sherlock.
 
«Niente, dicevo che è incredibile che tu e tua madre abbiate la stessa passione.» menti di nuovo.
Un punto per te, constati mentalmente: riesci a riprenderti bene anche quando vieni colto in fallo.
 
«Sì, credo che me l’abbia trasmessa: quando ero piccola mi faceva sempre ballare con lei e ascoltare musica, non potevo non amare i musical alla fine!»
 
«È davvero una bella storia. Buona fortuna, allora»
 
«Grazie» risponde, e il suo sorriso timido fa di nuovo capolino, mentre cerca qualcosa nella grande borsa rosa.
 
Prende la piccola penna e il blocchetto di fogli colorati che ha trovato. Ci scrive sopra qualcosa, poi ne strappa uno e te lo porge.
 
«Questo è il mio numero, chiamami nei prossimi giorni, così ti dirò com’è andato il provino» conclude mentre rimette le cose in borsa, guardando ancora te, di nuovo sicura di sé. «Ciao!»
Muove la mano amichevolmente mentre si allontana sui suoi tacchi vertiginosi e ti fa un occhiolino provocante: è di nuovo la femme fatale della tua prima impressione.
 
 
 
Ti rigiri tra le dita il foglietto di carta, piccolo, di un arancione chiaro. I numeri sono scritti in una grafia graziosa e precisa, ma ci fai appena caso, mentre la tua mente elabora macchinosamente quanto è appena successo. La senti quasi ronzare, nel suo tentativo faticoso di scoprire il filo conduttore dietro agli ultimi minuti.
 
«Non la chiamerai.»
 
Quella voce ti arriva addosso come un calore inaspettato, avvolgente, intenso. Non una voce, quella voce. Aspetti qualche secondo prima di voltarti, per assicurarti di non averlo immaginato, per dar tempo al tuo cervello di ricredersi. Quando lo fai, due profondi occhi azzurri ti stanno guardando.
Ingoi saliva e un tumulto di emozioni ricomincia ad aggrovigliarsi dentro di te. Il circo impazzito è di nuovo sfuggito ai funamboli e ai domatori. Lo sforzo di sembrare tranquillo e sicuro è più grande di quello che avresti creduto.
 
«Come fai a saperlo?» chiedi, ostentando una fermezza che non hai.
 
I saluti non sono proprio una cosa da voi, ormai l’hai capito.
 
«Come so che sei uno studente di medicina e che il tuo capo annega i dispiaceri di un matrimonio infelice nel porno e nel gioco online.» risponde sfacciato.
 
I suoi modi sono spavaldi. I tuoi cercano di simulare indifferenza: coprono in realtà la tua totale ammirazione.
 
«Come?» ripeti, e il tuo cuore scandisce battiti più veloci, più energici, che ti arrivano alle tempie come nella scena clou di un film di James Bond.
 
«Osservo.»
 
La sua risposta è placida e quasi sussurrata, come se ti stesse rivelando un segreto senza però dirti nulla. Ti prendi qualche secondo per rifletterci e, forse un po’, riinizi a respirare. Lo sguardo che gli getti è un compromesso tra la l’ironico e l’interrogativo.
 
«E cosa osservi, Sherlock Holmes?»
 
Il suo nome sulle tue labbra sembra quasi una parola proibita. Ti accorgi solo ora di non averlo più pronunciato ad alta voce, dopo la prima volta, ma sussurrato tante volte nei tuoi sogni e nei tuoi pensieri.
 
«In questo caso, niente che non sia noiosamente palese. Basta guardare l’importanza che stai dando all’unica possibilità di contatto che hai con lei.»
 
Le tue sinapsi inciampano per un frazione di secondo, poi lo sguardo punta rapido al foglietto che hai tra le mani. La carta è completamente stropicciata, gli angoli non ci sono più, strappati via, e quello che ne rimane è un rotolino accartocciato a mo’ di sigaretta, di cui alcuni punti tendono alla lacerazione, provati dalla lavorazione impropria della carta, mentre altri hanno già ceduto. Preso dall’agitazione, devi aver sfogato la tensione contro un numero di telefono di cui, ammetti, ma solo a te stesso, non ti importa più particolarmente. O forse non ti è mai importato.
Lo apri e alcune cifre sono ancora leggibili, mentre altre sono state ingoiate da delle fessure.
Esiti nel parlare e lo distendi con le dita, come a cercare di rimediare. Recuperare il numero non è tra le tue priorità, ma cominci a provare un certo fastidio nel constatare che Sherlock ha sempre ragione.
 
«Puoi anche buttarlo, ora»  ti dice, prepotente, arrogante, sexy.
 
«E se io volessi tenerlo?» rispondi sfrontato.
 
Il vostro gioco di sguardi ironici e saccenti inizia ad alzare la temperatura tutto intorno. Fossi ancora nella tua fantasia disneyana, un ippopotamo con un tutù verrebbe a farti aria con un ventaglio.
Sherlock ti guarda a lungo, con i suoi occhi penetranti, profondamente blu, e tu quasi ti sciogli in particelle che non saprai ricomporre sotto quello sguardo. Ti sembra più vicino, il suo viso, ma forse la mancanza di ossigeno al cervello ti ha fatto perdere il senso delle proporzioni.
 
No, è più vicino, decisamente, te ne accorgi quando il suo respiro sembra sfiorarti e noti che il suo corpo è sporto sopra il bancone. Non ricordi con esattezza come si faccia a parlare, o a respirare, mentre tutto il tuo mondo è assorbito dal blu di quelle iridi.
Labbra vicine, troppo vicine. Rosse, sensuali, formose, ti ricordano un tuo sogno. Ti baciavano e ti mordevano il collo, poi scendevano e depositavano tocchi lussuriosi fino a… no, non vuoi pensarci, non ora, con Sherlock troppo vicino a te e il calore del tuo corpo che si impenna pericolosamente.
 
Parla, ed è un sussurro troppo simile a un sospiro sulla tua pelle. Il suo soffio ti tocca, sei in trappola in una prigione di sensazioni.
 
«Davvero?» chiede, sussurrando.
 
Il tempo si ferma e ogni cosa prende quell’innaturale lentezza di un vecchia pellicola mandata a rallentatore. I tuoi battiti scandiscono attimi che non scorrono e tutto il resto, ad eccezione dei suoi occhi brillanti, sembra aver assunto una tonalità grigiastra. Sherlock ha questa malsana abitudine di far sembrare la tua vita un film d’animazione.
 
Poi si tira indietro, di scatto, tornando alla sua postura naturale. Mima un’espressione disinteressata, piegando teatralmente le labbra verso il basso e alzando minimamente le spalle.
 
«Se ci tieni tanto a sprecare il tuo tempo.» dice in un moto di disinteresse.
 
La stazione ricomincia a muoversi e a riprendere i suoi soliti colori.
 
«Che ne sai che spreco il mio tempo? Magari diventa una star del cinema, ci sposiamo e io non dovrò mai lavorare» rispondi divertito.
 
«Il mantenuto? Che bella prospettiva di vita, John. »
 
«Perché? Potrei occuparmi della casa. Non mi ci vedi con un grembiule?» scherzi portando le mani alla tua maglietta, come a disegnare quell’indumento
 
«A dire la verità, sì.»
 
Il tuo sguardo è enfaticamente offeso per un attimo, il suo divertito, poi entrambi scoppiate a ridere, simultaneamente, e le vostre risate si intrecciano tra loro in un suono melodioso.
 
«E poi, sai una cosa?» ricominci sorridendo «magari lei si presenta agli appuntamenti.»
 
Gli scocchi un’occhiata chiaramente di rimprovero. Interrogativa anche, con una macchia di delusione forse, ma non stizzita. Perché non riesci ad arrabbiarti con lui?
 
 Ti guarda indecifrabile. Ti aspetti delle scuse, eccome. Fantastichi giusto un attimo su come si getterà ai tuoi piedi chiedendoti una seconda possibilità.
 
«Ho avuto di meglio da fare» risponde, noncurante e annoiato.
 
Non puoi fare a meno di rimanere a bocca aperta e spalancare gli occhi. Decisamente, non è la risposta che ti aspettavi.
 
Passa qualche secondo in cui tu lo guardi, con la speranza che ti dica di stare scherzando, e lui rimane impassibile nella sua aria di superiorità e indifferenza. Poi decidi di servirti dell’ironia.
 
«Non importa Sherlock, ti perdono per non esserti presentato all’appuntamento. Oh, grazie John, come sei buono e gentile! Figurati Sherlock. Ma è solo per questa volta! » reciti, alternando un tono grave, associato alle tue battute, a un tono acuto, associato alle sue.
 
Ridi, voglio solo vedere il tuo sorriso, pensi, e la tua voce interna ti prende un po’ in giro. Ma lui ne ha anche un’altra di fastidiosa abitudine: non rispettare mai le tue aspettative.
 
«Quindi era un appuntamento?» chiede semplicemente, come se fosse qualcosa di ovvio e per nulla imbarazzante.
 
Ti senti avvampare. Non hai notato di aver usato quella parola – hai definito così quell’incontro mancato nella tua testa tante di quelle volte che ti è venuto istintivo – e ora vorresti solo prenderti a schiaffi per averlo fatto. Meglio di no, la tua faccia diventerebbe ancora più rossa.
 
«Ehm… no, io volevo dire… » dici inciampando sulle tue parole. Abbassi lo sguardo e lui te lo lascia fare. Sembra quasi si stia divertendo. «Intendevo nel senso di -»
 
«Vuoi vedere che cosa avevo di meglio da fare?» chiede e tu devi guardarlo bene per credere che l’abbia detto davvero.
 
Lo guardi e vedi i suoi occhi brillare di una luce che non hai mai visto prima. Hai incise a fuoco nella memoria le tonalità che assumono le sue iridi a seconda le emozioni che – immagini – lui provi, ma non li hai mai visti illuminarsi in quel modo. L’azzurro sembra quasi più chiaro e meno glaciale, come dipinto di un entusiasmo che ne coglie le sfumature serene e nasconde quelle scure e malinconiche. Solo per un attimo ti sfugge il pensiero che vorresti fosse per te, un giorno, quello sguardo carico di emozione.
 
«Certo» sussurri, come se fosse un segreto. Sei ancora perso nei suoi occhi.
 
Il vostro sguardo dura un po’ e la sensazione è quella di rimanere sospeso, come in una bolla a mezz’aria, lontana dal mondo. Sembra quasi che ti stia lasciando entrare, nei suoi pensieri, nei suoi colori intriganti, e tu ti chiedi ancora una volta chi sei?
I suoi occhi non rispondono, ma ti avvolgono, come una carezza glauca, fredda e calda allo stesso tempo. Poi lui rompe l’incanto.
 
«Non dovresti lavorare?» ti interroga, di nuovo gelido.
 
Strizzi gli occhi e fai un’espressione infastidita, quasi sofferente.
 
«Già» mormori, ripensando alla vena sul collo del tuo capo. 
 
Qualche secondo di silenzio si frappone tra voi. Da qualche parte, una bambina scoppia a piangere e il suono ti arriva distrattamente.
 
«Ho un’idea!» esclami entusiasta, forse un po’ troppo a voce alta. «Dammi solo un paio di minuti.»
 
Infili la mano in tasca e prendi il cellulare. Cerchi il numero di Mike e premi sul tasto verde, prima di portare il telefono all’orecchio.
 
Squilla.
 
Rispondi, ti prego.
 
Squilla.
 
Rispondi, oh giuro che questa volta…
 
«John! Che mi dici, amico?»
 
La voce di Mike ti arriva metallica attraverso il telefono.
 
«Mike! Ho bisogno di un favore e non puoi assolutamente dirmi di no. Mi serve che tu venga qui, ora, e mi sostituisca»
 
«John, volentieri, ma un’altra volta… più tardi c’è una festa e-»
 
«Mike, quale parte di non puoi dirmi di no non ti è chiara? Non farmiti ricordare tutte le volte che l’ho fatto io per te.»
 
«Lo so, ma- »
 
«Ti ricordi Katy? Sai che la vedo spesso? Non era la figlia del bodybilder? Credo che alla fine non abbia più saputo che tu la tradivi con Sophie…»
 
«Sei un fottuto b-»
 
«Grazie Mike, sapevo che non ti saresti tirato indietro. Ti aspetto allora! E mi raccomando, sbrigati!»
 
«John, aspet-»
 
Prima che Mike possa replicare ancora, premi più volte sul tasto a forma di cornetta rossa disegnato sullo schermo.
 
Torni a guardare Sherlock e lui ti guarda di rimando, divertito. Un lato della bocca punta più in alto dell’altro, in un sorriso obliquo e pericolosamente sexy. Il sangue ti affluisce sulle guance e più in basso al pensiero – che non riesci a fermare in tempo- delle situazioni in cui quel sorriso sarebbe perfetto.
Decidi di parlare prima che la situazione si faccia troppo bollente. Prima che tu ti faccia troppo bollente.
 
«Tutto risolto, dobbiamo solo aspettare una decina di minuti, un quarto d’ora al massimo» lo informi, sorridente. 
 
«Ottimo.» ti risponde lui e quel sorriso è ancora lì, a lasciarti senza fiato.
 
Quei lunghi silenzi pieni di sguardi tornano a mettere pausa alla vostra conversazione. Tu lo scruti, lui fa lo stesso. Cielo e Oceano.
 
«Allora, come hai avuto il mio numero?» chiedi, interrompendo il momento.
 
«Ho le mie fonti.» risponde, ed è di nuovo sospettoso e diffidente, con il suo cappotto lungo e i suoi zigomi affilati.
 
Risposta enigmatica numero 124, annoti mentalmente, ironizzando.
 
«Non lo metto in dubbio. E sono state le tue fonti a informarti su quella ragazza?»
 
«Non ne ho bisogno per questo genere di banalità.» risponde in un modo di snobismo che ti fa quasi venire voglia di scompigliargli i capelli o disfare il nodo sulla sua sciarpa, giusto per vedere la sua faccia sconvolta.
 
«E allora come sapevi quelle cose?» chiedi e la tua voce non è che un sussurro. Come lui possa sentirlo, nel caos della stazione, rimane un mistero.
 
Non te ne accorgi, forse, ma ti sporgi in avanti mentre mormori quella domanda, che ne nasconde molte altre. Spingi il corpo contro il bancone e verso di lui, come ad accorciare una distanza che non ha motivo d’essere. I vostri occhi che si avvicinano sembrano due campi di forza puntati l’uno contro l’altro e nessuno sa se lo sguardo intenso che ne deriva finirà per esplodere in un capodanno di scintille. O se si fonderà fino a unirvi per sempre.
 
«Io so tante cose, John.»
 
Ingoi a vuoto. Ami e odi la sensazione che provi quando lui pronuncia il tuo nome. È come un brivido, meraviglioso e piacevole, ma così intenso da fare male, da attraversarti l’anima e lasciarla lì, come frantumata da un’emozione.
 
John.
Non John Hamish Watson, come l’ultima volta, soltanto John.
 
Cerchi di non pensare alle varie sfumature che potrebbe avere la sua voce, in un futuro di giorni e notti insieme, ma lui è così vicino che ti sembra quasi di sentire il suo profumo – forte, interessante, dagli ingredienti misteriosi – e questo sicuramente non ti aiuta nel tuo intento.
 
«Per esempio?» domandi, senza soffermarti più di tanto sul perché la tua voce suoni come un segreto.
 
Lui ti guarda intrigante.
 
«Vuoi davvero fare questo gioco?»  chiede a sua volta e anche la sua voce sembra un segreto, ma decisamente molto più misterioso e importante del tuo.
 
Sollevi un sopracciglio come a dire sono qui, no? ma lui non cambia espressione, non muove di un minimo i muscoli del viso. È impassibile, forse ad aspettare che tu cambi idea, con quel tocco di ironia che colora sempre un po’ i suoi occhi e il suo sorriso.
Dura un po’ il vostro sguardo, ma tu non cedi. Vuoi saperlo,  hai bisogno di saperlo: cosa c’è di così speciale in lui?
Poi sembra cedere. Piega la testa da un lato come ad acconsentire, come ad arrendersi, diresti, se lui non avesse la faccia di uno che non si arrende mai. Si passa la lingua sulle labbra e tu perdi qualche anno di vita. Ti guarda e ne perdi ancora, ma sta per parlare, quindi respiri –anzi, non respiri - e aspetti. Apre la bocca, ma quello che senti non è la sua voce, anzi una musichetta abbastanza fastidiosa. Stringi le palpebre e imprechi dentro di te, mentre prendi fuori il cellulare dalla tasca.
 
«Scusami» mormori, prima di rispondere a Mike.
 
«Non me ne frega niente di quello che hai da fare, porta qui il culo.» proferisci appena inizia la chiamata. I ciao e i pronto li lasci a un’altra volta. 
 
«No, no. Tranquillo, sto arrivando. Volevo solo dirti che ho perso l’autobus e quindi dovrò andare alla metro o aspettare il prossimo. Tu vai intanto, lasciami le chiavi al solito posto.»
 
Ci rifletti un attimo. Non è prudente lasciare il cafè scoperto, lo dici sempre a Mike. Potresti perdere il posto oltretutto, a maggior ragione che ultimamente non sei particolarmente simpatico al direttore. Alzi lo sguardo. Sherlock non ti sta guardando, sembra di nuovo perso tra la folla, come quando lo guardavi scrivere seduto su quelle sedie sporche e non sapevi chi fosse. I suoi occhi sembrano acquei: vuoti di ogni cosa e pieni di tutto, come se non osservasse gli altri, ma li assorbisse.
 
«Va bene. Ma sbrigati.» fremi.
 
Riattacchi e guardi di nuovo Sherlock. Ha smesso di fissare la gente: chissà che pensava.
 
Ti sforzi di non chiedertelo troppo e sfoderi uno dei tuoi sorrisi più entusiasti.
 
«Possiamo andare» dici quasi squittendo dall’esaltazione.
 
«Bene» ti risponde lui, con la sua voce profonda, ed è tutto quello che ti serve per uscire dal bancone e trovarti davanti a lui.
 
Ora ricordi perché alla fine di ogni incontro con lui rimani sempre con quel senso di incompletezza e con la voglia di darti dello stupido. Perché hai sempre la sensazione di essere rimasto in trance e aver perso il potere di controllo su di te. Sherlock ti guarda da troppo vicino – chi è di voi due che non ha ancora capito il concetto di distanza prossemica? – e il tuo cuore è di nuovo libero di impazzire, tornare sui suoi passi, dare di nuovo di matto, perdere il ritmo e perdere anche sé stesso. Fa quasi male la sensazione di calore che provi nel petto ad essere così vicino a lui. Quasi.
 
Inizia a camminare e tu lo segui. Non sai dove sta andando, ma ti importa davvero poco in questo momento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Note:
 
Il titolo del capitolo, Text Me (in italiano sarebbe tipo “mandami un messaggio”, in questo caso riferito al sms che riceve John) non è casuale, ma è un omaggio e un riferimento alla storia, secondo me, più bella del fandom, Text Me appunto, scritta dalla mia autrice preferita e mia grande amica.  
 

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