Introduzione
La storia è
ambientata ai giorni d’oggi, il tutto
si svolge a Forks. Tutti i nostri protagonisti sono umani, e come ogni
vita umana, avvengono cambiamenti. Bella ne
ha fatti tanti nei
suoi diciassette anni di vita e ora vuole solo stabilità, e
ricominciare.
Spero che la
storia possa interessarvi.
JessikinaCullen,
ora Jaste.
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over
≈
Prologo.
Avete voglia di ascoltare una storia? Allora
mettetevi
comodi, ne ho una giusta giusta per voi.
C’era una bambina che faceva amicizia facilmente,
e voi
direte: “Qual è la novità?” Nessuna, tranne per
il
fatto che questa bambina era come una calamita per gli altri suoi
coetanei.
Tutto quello che diceva, era come oro colato. E crescendo le cose non
cambiarono.
Conoscente di tanti,
amici di pochi. In realtà di nessuno.
Questa bambina, che per comodità chiameremo... Nella, cambiava
casa piuttosto spesso.
I suoi genitori si erano separati da una vita, lei
a
malapena riusciva a dire “mamma” e “papà” in modo corretto, quindi non
ne
risentì. L’unica cosa che le mancava, man mano che cresceva, era la
stabilità.
Un porto sicuro. Un angolo di Paradiso.
Era sempre la nuova arrivata, cambiava anche un
paio di
scuole l’anno, se la madre non riusciva a trovare il suo porto sicuro,
momentaneo, ovviamente.
La vita andava avanti, la bambina cresceva, il
numero delle
scuole e le persone conosciute sul suo cammino aumentavano ma Nella non
si è
mai abbattuta, ha continuato ad andare avanti a testa alta e con il
sorriso in
bella vista. Perché per lei, fino all’età di dodici anni, era tutto un
gioco.
Si definiva quasi fortunata per aver visto così tanti posti in pochi
anni e
aver conosciuto tanta gente e bambini con cui poter giocare.
Quindi ora, la domanda è: che cos’è scattato
nella sua testa, all’età di dodici anni?
Tutto.
È risaputo che l’adolescenza sia il periodo
peggiore, e che
cosa potrebbe aiutare se non la stabilità? Nulla. Infatti, Nella, era
stufa.
Voleva mettere radici, non ce la faceva più a farsi
nuovi amici, ad affezionarsi e poi andarsene. Voleva iniziare e finire
la
scuola nello stesso posto. Voleva andare al ballo studentesco con un
ragazzo
che gli piacesse, ma non ce n’era mai stata occasione, e non perché
fosse
brutta, ma semplicemente perché dopo nemmeno sei
mesi
che frequenti quella scuola, per quanto tu possa essere conosciuta,
nessuno
t’invita. O almeno... non quando sanno che sarebbe un addio. Per lei i
balli
scolastici significavano quello. Quindi non
ci andava,
s’inventava qualche malanno e se ne stava tra le mura di casa. O
almeno, per la
casa in cui abitava al momento.
Spero di non avervi annoiati, perché la parte migliore inizia
adesso...
Immaginatevi una Nella
diciassettenne, nella sua stanza anonima – con qualche scatolone ancora
pieno
ma disimballato – mentre ascolta della musica sul suo letto, disegnando
su un
blocco. Immaginatevi la madre che entra nella sua camera, imbufalita.
<< Si può sapere perché non sei andata a
scuola?
>> Alzare gli occhi dal foglio era inevitabile, soprattutto se
non si
voleva aggravare ancora di più la situazione.
<< Che senso avrebbe avuto andarci? >>
Nella osservava la madre sospirare e
stropicciarsi i capelli.
Sapeva benissimo che cosa significava quel gesto, eppure non si mosse,
anzi,
s’irrigidì.
<< Non sei mai contenta di niente! Ti
faccio, per
caso, mancare qualcosa? No! Hai un tetto sopra la testa... hai
conosciuto un
sacco di persone, visto posti favolosi, hai
vissuto
avventure fantastiche... eppure ti lamenti, perché?! >> Contare
fino a
dieci per non scoppiare sembrava una buona idea, ma la ragazza sapeva
che se
non voleva far scoppiare la terza guerra mondiale, non doveva stare in
silenzio, avrebbe solo reso più nervosa la madre.
<< Sono stufa di questa vita. >>
Mormorò,
abbassando lo sguardo sul copriletto viola con i fiori. Iniziò a
stropicciarsi
le mani, come se quel gesto potesse calmarla. << Sono stufa di
essere
quella nuova, di essere l’attrazione da circo. Ho diciassette anni, e
non ho
mai vissuto per otto mesi nello stesso posto. >> Era certa che la
madre
l’avesse sentita, ed era altrettanto certa
che non
avrebbe ribattuto, non quando vedeva che la figlia parlava
tranquillamente,
senza alzare la voce o imporre qualcosa. << Sai qual è il mio
nome? La
ragazza con la valigia. E sai cosa ti dico? Che è ora che questa
ragazza vada a
conoscere suo padre. Sono stufa, stufa di
tutto.
>> Solo alla fine alzò gli occhi, e li sgranò quando vide che sua
madre
stava piangendo senza emettere un suono.
L’unica cosa che le chiese, dopo un paio di minuti
in cui
cercò di ricomporsi, fu:
<< Ne hai già parlato con lui? >> Già,
perché
imporre qualcosa a quella diciassettenne in piena crisi esistenziale...
è molto
meglio scendere a compromessi. Perché fare il genitore?
<< No. Ma lo
chiamerò tra
poco, e con i soldi che ho da parte, prenderò il primo volo verso
Seattle. Ho
bisogno di starti lontana, mamma. E tu hai bisogno di trovare il tuo
posto nel
mondo. >> Lo disse convinta, e purtroppo non abbastanza
dispiaciuta.
Perché era anche vero che non aveva mai vissuto col padre, ma era certa
che si
sarebbe trovata bene. Lo aveva visto ben poche volte nella sua vita
(soprattutto quando era molto più piccola), più che altro perché era un
po’
impossibile raggiungerlo, quando doveva fare lei l’adulta della
situazione, ma
sapeva per certo che sarebbe stato meglio del continuo ignoto che era
vivere
con la madre.
<< Va bene. Non te lo negherò. Ora sei
abbastanza
grande e sai benissimo cos’è meglio per te,
ma ti
prego... non chiudermi del tutto fuori dalla tua vita. >> La
ragazza
sorrise, e non per la vittoria, ma perché... si sentiva diversa, con
fin troppo
potere tra le mani. E poi, era anche lievemente divertita.
<< Non è mia intenzione chiuderti fuori. Ma tu, allora, prova a non cambiare numero di
cellulare ogni
due mesi, e magari potremmo sentirci. >> La madre distolse lo
sguardo e
annuì mentre si asciugava le lacrime.
<< Chiama tuo padre. Io... io vado a fare
una doccia.
>> Nella conosceva alla perfezione
sua madre, e
non disse nulla. Sua madre voleva versare lacrime amare sotto la
doccia? Che lo
facesse. Lei oramai aveva preso la sua decisione.
Quindi non tentennò
quando compose
il numero del padre, anzi, sorrideva mentre ascoltava i “tu” del
telefono.
<< Pronto?
>>
* * *
Pensate
che la storia finisca qui? No. Questo era solo l’inizio.
Il
mio nome è Isabella Swan. Sì, è stato bello
adoperare un nome fittizio... ma ora mi trovo al Sea-Tac
Airport. Seattle. Sto aspettando che mio
padre si
faccia vivo... o almeno che mi faccia un
cenno, giusto
per farmi capire che ci sia. Ribadisco,
l’ho visto
poche volte nella mia vita ma... dovrei riconoscerlo, no? Evidentemente
no.
Sospiro
e continuo a camminare guardandomi attorno, ed è allora, che lo
vedo con un cartello in mano con su scritto
“Isabella”. Sorrido e mi avvicino piuttosto velocemente, con tanto di
trolley
al seguito.
Quando
Charlie mi vede, abbandona a terra il cartello e mi stringe a sé.
Forte. Facendomi sentire al sicuro.
Lo
percepisco annusarmi i capelli; mi allontana e mi guarda con un
sorriso.
<<
Benvenuta a casa, Bella. >>
Capitolo
uno – Casa.
Home – Michael Bublé.
<<
Sei sicuro che sia estate? A me pare pieno autunno! >> Esclamo
non appena
usciamo dall’aeroporto per raggiungere la macchina che ci porterà a
casa.
Casa... mai suono mi è parso più
melodioso.
Charlie
ride e mi accarezza un braccio, purtroppo coperto solo da un leggero
golfino.
<<
Mi spiace dirtelo, Bella, ma sì... siamo in estate. Vedrai che ti
abituerai.
>> Sorrido continuando a seguirlo.
Razionalmente
mi rendo conto che per me, questo signore dai capelli e baffi neri, sia
un
estraneo... ma vi è mai capitato di
conoscere una
persona e avere la sensazione di conoscerla da una vita? Ecco. È questa
la
sensazione che provo guardando mio padre; nonostante i suoi tratti
somatici non
mi siano famigliari, nonostante la sua voce
sia
completamente diversa da quella che ho sentito per tanti anni
attraverso una
cornetta.
Sinceramente?
Lo immaginavo più alto, non so perché. Forse perché ho sempre
immaginato che il
fatto che io non sia una stangona, fosse a causa del cinquanta per
centro del
DNA di mia madre. Beh... sono tutte
e due non proprio alti.
Oddio,
Charlie a un metro e settanta mi pare ci arrivi... però me lo
immaginavo più
alto. E meno muscoloso. Non so perché me lo immaginassi rachitico,
pelato,
senza baffi e alto. E non voglio nemmeno sapere perché.
<<
Anche le case sono verdi, da queste parti? >> Chiedo ammaliata, praticamente schiacciata al finestrino. Charlie
cerca di
trattenere una risata, e lo apprezzo.
<<
No, almeno le case, per fortuna, no. Comunque siamo quasi arrivati. E
sono
certo che vorrai scappare. >> Lo dice con fare divertito, ma il
terrore nella
sua voce mi è piuttosto evidente. Lo guardo attentamente, e non lo so,
probabilmente sentendosi osservato, volta il capo nella mia direzione
per un
attimo.
<<
Non dovresti pensarlo. Voglio dire... non sono qui per il posto. Sono
qui per
te. >>
<<
Lo so, ma hai visto così tanti bei posti... >> Scrolla le spalle e io vorrei potergli dire qualcosa per
confortarlo.
<<
È vero, ho visto e vissuto in un sacco di bei posti. Ma
nessuno di quelli l’ho mai sentita come casa mia. >> Charlie
annuisce ma
non commenta, e io torno ad osservare fuori
dal
finestrino. E non perché non voglia guardarlo, ma perché devo dire una
cosa.
<<
Non ti ho ancora ringraziato per aver accettato di ospitarmi. Lo so,
sono tua
figlia e diciamo che da una parte sei stato obbligato a dire di sì
ma... >>
<<
Non dire sciocchezze! >> M’interrompe con tono serio, facendomi
voltare,
e non pensare più al fatto che non sono abituata a dire “grazie”.
<<
È vero, sei mia figlia, ma è anche vero che avrei potuto dirti di no,
se non
m’interessasse di te. So così poco della tua vita, e mi dispiace. Anche
perché... se non si faceva sentire tua madre, per me era impossibile contattarti. >> Annuisco sovrappensiero.
<<
Cambia numero ogni due mesi, capisco cosa intendi. >> Charlie
sorride
mostrandomi lievemente i suoi denti e ridacchio portandomi una mano di
fronte
alla bocca.
<<
Mi spieghi una cosa? Perché ti sei fatto
crescere i
baffi? >>
<<
Mi casa es tu
casa. >>
Annuncia una volta chiusa la macchina. Io sono scesa non appena ha
spento il
motore, e tutto ciò per ammirare la villetta a due piani, molto anonima
ma
carina. Confortevole. Sa di casa. Sì, anche da fuori.
<<
Lo spero. >> Sussurro non facendomi sentire.
Entriamo
e mi fa fare un veloce giro, illustrandomi ogni zona, lasciando per
ultima la
mia stanza e io... io mi sento in dovere di
ringraziarlo, sì, di nuovo, ma non lo faccio. E non solo perché non
voglio
sentirgli dire “ma figurati” o “di nulla”, ma semplicemente perché sono
basita
dal fatto di avere una MIA camera in questa casa... non me lo aspettavo.
<<
È ancora spoglia e anonima ma... è la tua stanza. Magari prima che
inizi la scuola potremmo andare a comprare
qualcosa... anche solo il
colore per rendere le mura più personali. >> Charlie si trova al
centro
della mia stanza, e non ha ancora smesso un attimo di parlare. E io? Io non ho fatto altro che osservarmi
attorno.
È
vero, è spoglia... praticamente c’è solo un
letto –
vecchio, è palese – è un armadio con sole due ante – vecchio anche
quello –
ma... il posto mi piace.
Con
passo lento mi avvicino alla finestra, lasciando mio padre parlare di
non so
cosa o chi, e ammiro la villetta di fronte, la strada e il giardinetto
dove c’è
la macchina di Charlie.
<<
Ehm... >> Mi volto velocemente, e osservo la figura di mio padre
piuttosto impacciata.
<<
Mi sono persa qualcosa, vero? >> Chiedo, intuendo che mi abbia
fatto una
domanda che non ho sentito, poiché non lo sto ascoltando da almeno
cinque
minuti.
<<
Beh sì, ma non preoccuparti. Volevo solo sapere se eri stanca. >>
Premure.
Non è che mi
siano mancate nella mia vita, ma è bello che sia qualcuno oltre a mia
madre a pensarci. Mi fa sentire importante. Anche se è molto probabile
che
Charlie lo faccia più per educazione, che per altro.
<<
Non molto. Il viaggio è stato relativamente breve. >> Annuiamo
entrambi e
infine esclamo, convinta di farlo contento.
<<
Però
ho fame. >> Come immaginavo Charlie sorride.
<<
Bene... allora ti porto a mangiare una pizza. >> Si avvicina alla
porta,
ma prima di chiuderla, permettendomi di stare da sola, aggiunge.
<< Spero
che la gente di Forks non ti spaventi. Amano le novità... è che non ci
sono
abituati. >> Vorrei ridere, ma non lo faccio.
<<
Non preoccuparti, sono abituata ad essere
la novità.
>> Charlie mi guarda per qualche scendo, abbandonando la
spensieratezza
di un attimo prima, e annuisce, per poi uscire.
Per
quanto mi sembri strano, c’è ancora luce, nonostante siano le otto
passate di
sera.
Lo so,
siamo a fine giugno, di conseguenza è normale che ci sia ancora luce
ma...
anche a Forks? Nonostante non faccia per niente caldo?
Ma queste
povere persone hanno mai provato i trenta gradi sulla loro pelle?
Con il sole che ti bacia il viso? Mi sa proprio di no. E mi spiace per
loro. E
per me... ma è un dettaglio.
Tutto
ciò l’ho voluto io, e poi Charlie ha detto che farò in fretta ad
abituarmi ai
quindici gradi estivi. Lo spero, perché mi sento un po’ un alieno ad
andare in
giro con un golfino mentre tutti gli altri vanno tranquillamente in
giro
sbracciati.
<<
Eccoci al Forks Diner. >> Esclama
con un
entusiasmo Charlie, io mi sporgo verso il parabrezza e osservo il
piccolo
ristorante tutto ben illuminato da cui proviene un sottofondo di
musica, parole
e risate. Sembra carino.
<<
Lo so, non è il Four Season.
>> Lo guardo con gli occhi sgranati.
<<
Non sono mai stata in uno di quegli hotel. E comunque... non sembra
male.
>> Gli sorrido e lo vedo calmarsi, quasi come se fosse del tutto
terrorizzato che io possa mettermi a fare i capricci per qualcosa che
non mi
piace.
<<
Bene... allora... >> Scende dall’auto, e divertita faccio
altrettanto per
poi entrare dentro al locale con lui,
mentre parliamo
e ridacchiamo per qualche stupidata detta da me.
<<
Ehi, tesoro! >> Una donna con i capelli lunghi e neri, pelle
indiana e un
sorriso contagioso, ci raggiunge – interrompendoci – e sfiora un
braccio di mio
padre.
È come
se ci avesse fatto un agguato, ci ha concesso giusto due passi dentro
il locale
per poi afferrarci e spero non azzannarci.
<<
Sue! Ti presento Bella. >> Sorrido
cordiale e la
signora – con due grandi occhi neri – mi guarda affascinata. E pensare
che mi
sarei immaginata una radiografia, invece lei continua imperterrita a
guardarmi
negli occhi. È per caso una strega e mi sta facendo qualche strana
maledizione?
Dio, spero di no!
<<
È un piacere conoscerti... non vedevamo l’ora che arrivassi. >>
Già. Sono
la novità.
<<
Mi fa piacere. >> Guardo mio padre e noto che è in imbarazzo.
<<
Oh! >> Esclamo non appena comprendo la situazione. <<
Quindi voi...
non ti ho cacciata di casa, vero? >>
Sue
ridacchia.
<<
No, no tranquilla. Non abitiamo
assieme. Ho anch’io dei figli e uno è poco più piccolo di te. >>
Annuisco
e non so più che cosa dire.
<<
Va beh, vi lascio alla vostra cena. Ci sentiamo dopo. >> Gli
accarezza il
braccio e scompare dopo avermi sorriso.
Io
e
mio padre ci guardiamo imbarazzati, e dopo qualche secondo, Charlie,
decide di
smetterla e ci andiamo ad accomodare. Altre persone lo salutano ma
fanno finta
di non vedermi. La cosa non mi pesa, ma mi
sembra
strano.
Ho
il presentimento che Charlie abbia detto loro di andarci piano con
me.
<<
La conosco da una vita. >> Esclama nascondendosi dietro il menù.
Io lo
guardo incuriosita e non penso al cibo. << Era sposata con un mio
amico
ma lui è mancato e... e ci siamo avvicinati. Sono tre anni che ci
frequentiamo.
>> Conclude così e io continuo a
rivedere gli
occhi scuri ed entusiasti di Sue mentre mi “esaminava”.
<<
Beh, se sei contento... sono contenta
anch’io.
>> Solo allora, si decide ad abbassare il menù e sorridermi.
<<
Dai, guarda che cosa vuoi mangiare. >> Mi sprona e
io torno a preoccuparmi della cena.
<<
Charlie! Strano trovarti qui. >> Alzo il viso dalla mia
succulenta pizza
e osservo il signore biondo, ben vestito e
con gli
occhi verdi che è accanto al nostro tavolo.
È il
primo che si avvicina così apertamente, senza dire solo “ciao”.
<<
Strano? Carlisle, ci vengo quasi tutte le
sere.
>> Ridono e io aggrotto la fronte,
appuntandomi
mentalmente di dovermi occupare dei pasti a casa.
<<
Bella, ti presento il Dottor Cullen. Carlisle, lei è mia figlia.
>> Mi
pulisco le mani e ne stringo una delle sue.
<<
In queste ultime due settimane, Charlie, non ha fatto altro che parlare
di te. Quindi... è come se tutti ti
conoscessimo già. >>
<<
Davvero? >> Charlie si gratta la testa imbarazzato e
io ridacchio, facendolo anche arrossire.
<<
Papà, dove sei finito? >> Carlisle si volta, e non posso impedire
al mio
corpo di fare altrettanto. E non posso nemmeno impedire ai miei occhi
di
ammirare il bel ragazzo che ci sta affiancando. Era ovvio che il figlio
di
quest’uomo non potesse essere brutto.
Il
ragazzo mi sorride appena, però non allontana lo sguardo dal mio.
<<
Edward. >> Mi porge la mano, e automaticamente – come se fosse
sprovvista
di un cervello – gliela stringo e mi presento.
<<
Sì... direi che è ora di andare. Ci vediamo
domani, Charlie.
Bella. >> Salutiamo e infine rimaniamo da soli.
<<
Hai presente la casa di fronte alla nostra?
È la loro.
Sono i nostri vicini. Adesso che ci penso... Edward ha la tua età.
>> Non
faccio domande ma annuisco. E purtroppo continuo a pensare a quegli
occhi verdi
che sembravano avermi trapassata.
<<
È cambiata Forks? >> Alzo gli
occhi al cielo e mi accomodo meglio sullo sdraio che ho posizionato
nel cortile di casa mentre parlo con mia madre. Mi rigiro tra le dita
una
sigaretta, indecisa se accenderla o meno.
Non ho idea
di che cosa pensi Charlie sul fumo.
<<
Non lo so. Nel caso te ne fossi resa conto,
è come se
fosse la prima volta che vengo qui. >> Non l’ho detto per
accusarla di
qualcosa, è solamente la verità.
<<
Colpo basso, Bella. Colpo basso... ma hai
ragione. È ancora tutto verde e non sanno che cos’è l’estate?
>>
Scoppio a ridere.
<<
Sì, è proprio così. Ti rendi conto che siamo a fine giugno e ho addosso
un
golfino mentre sono spaparanzata in cortile? È allucinante. Non sono
abituata.
>>
<<
Vedrai che ti troverai bene. >>
Sussurra dopo qualche secondo di silenzio.
<<
Lo spero. Sai... è strano. Non essere qui, in una città nuova...
bensì... tutti
sapevano che stavo arrivando, al contrario degli altri trasferimenti
che
abbiamo fatto, quindi... tutti sanno chi sono, conoscono mio padre...
>>
<< Hai paura di essere
giudicata a causa mia? Del mio trascorso lì? >>
<<
No. Non lo so. Domani andrò a trovare i nonni e spero mi riconoscano.
>>
<<
Oh per carità! Figlia mia, ma non ti ho
inculcato un po’ di sopravvivenza in quella testolina piena di capelli?
>> Scoppio a ridere e smetto solo quando vedo Edward, il ragazzo
del
ristorante, il figlio del dottore, uscire da casa e avvicinarsi al
marciapiede
che separa le nostre case. Rimane lì fermo, mi guarda e si gira – come
me – una
sigaretta tra le mani.
<< Bella? Bella? >>
<<
Sì, mamma, scusa. >>
<<
Che succede? >> Chiede
incuriosita.
<<
Nulla. Mamma, che cosa ne pensa Charlie del fumo? >>
<<
Beh... quando eravamo giovani, ci
fumavamo qualche spinello... ma tuo padre adesso è un poliziotto,
quindi non so
che cosa ne pensi. >> Cerco di
non ridere.
<<
Parlavo delle sigarette. >>
<<
Ah! >> Scoppia a ridere.
<< Non lo so. Non abbiamo mai
fumato, e tu... tu non dovresti iniziare. >> Cerca di dirlo
seriamente, come se non fosse a conoscenza delle mie due o tre
sigarette
giornaliere.
<<
Come vuoi. Devo andare. Ho bisogno di una doccia e poi di una bella
dormita.
>>
<< Va bene, tesoro. Ci sentiamo domani. >>
Attacco
e torno ad osservare il mio vicino di casa.
Si è alzato
e si sta avvicinando a casa mia; m’irrigidisco e infine decido di
alzarmi per
andargli incontro.
<<
Ciao. >>
<<
Ciao. >> Rispondo, cercando di sembrare tranquilla.
<<
Hai da accendere? >> Mi mostra la sigaretta e
io
sorrido divertita. E io che mi ero fatta
chissà quali
viaggi mentali.
<<
Certo, tieni. >> Gli porgo l’accendino e una volta che ha finito, faccio altrettanto, decidendomi a fumare
la seconda
sigaretta della giornata.
<<
Come mai fuori a quest’ora? Pensavo che Charlie ti avrebbe mandata
subito a letto dopo aver cenato fuori. >> Non so se lo dica per
prendermi
in giro o perché, magari, qualche volta mio padre si è preso cura di
lui quando
ero piccolo e faceva in quel modo.
<<
Non credo m’imporrebbe qualcosa. Non ci conosciamo così bene. >>
Annuisce
espirando il fumo. Mi guarda e sembra avere duemila domande per me.
<<
Come mai hai deciso di passare l’estate qua? Noi del posto cerchiamo
sempre un
modo per evadere, e tu invece vieni a rifugiarti qui? >>
<<
Rifugiare. Già, mi sto rifugiando qui. >> Soppesa le mie parole
ma non ha
il tempo di ribattere perché un clacson ci fa voltare.
<<
Edward, sali! Siamo in ritardo, e non ho voglia di litigare con Rose a
causa
tua. >> La voce di una ragazza ci arriva fin troppo nitidamente,
nonostante – almeno io – non riesca a vederla alla guida.
Edward
alza gli occhi al cielo e mi guarda dispiaciuto. << Devo andare.
>>
Annuisco e lui fa un paio di passi, butta la sigaretta e infine si
rivolta
verso di me. <<
Per caso ti va di venire? >> Sembra quasi sincero ma io...
<<
Sono stanca per il viaggio. Ma grazie per l’invito, magari sarà
per la prossima volta. >>
Annuisce
nuovamente per poi entrare in auto e andarsene.
Sono
le cinque del mattino, e sono sveglia. Non è una cosa normale, vero?
Voglio
dire... mi sono svegliata presto, ho litigato con mia madre per tutto
il giorno
perché cercava di dissuadermi a partire,
poi mi sono
fatta due ore di volo, ho “conosciuto” mio padre e Forks e ora... ora
sono
ancora sveglia. Nel mio nuovo letto, coperta fino
al naso ma
con la finestra aperta. Guardo il cielo plumbeo e ammiro le
poche stelle
che sono scappate dalle nuvole, almeno finché il suono delle risate non
arriva
fino a me.
Lentamente
mi alzo e nascondendomi con la tenda, osservo Edward – ubriaco –
scendere dalla
macchina della stessa ragazza di prima. Si scambiano
ancora qualche parola e dal rumore delle voci, capisco che l’abitacolo
contiene
almeno quattro persone. Barcollante torna verso casa per poi entrare.
Osservando lui, non ho visto la macchina sfrecciare via.
Torno
a letto e guardando il soffitto... riesco finalmente a prendere sonno.