EXARION - Parte I: Una Storia che si ripete

di KaienPhantomhive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** - INTERMEZZO - ***
Capitolo 3: *** Capitolo 1: Il Lato Oscuro della Luna ***
Capitolo 4: *** Capitolo 2: Nat ***
Capitolo 5: *** Capitolo 3: Il Gigante del Lago ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4: Dono di Dio ***
Capitolo 7: *** Capitolo 5: Congiunzione ***
Capitolo 8: *** Capitolo 6: Un Labirinto di Rose ***
Capitolo 9: *** Capitolo 7: Confronto ***
Capitolo 10: *** Capitolo 8: Creazione dell’Uomo ***
Capitolo 11: *** Capitolo 9: Macchinazioni ***
Capitolo 12: *** Capitolo 10: Di Nuovo ***
Capitolo 13: *** Capitolo 11: Fiori Calpestati ***
Capitolo 14: *** Capitolo 12: Assalto ***
Capitolo 15: *** Capitolo 13: Oltre il Dominio dei Sensi ***
Capitolo 16: *** Capitolo 14: Fango ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

Cielo nuvoloso e pioggia. Ancora.

Piove lievemente, a tratti, da ormai tre giorni.

Anche oggi il cielo è coperto da nubi, dense e sconfinate matasse di ferro che escludono l’azzurro e il vermiglio di una nuova alba dalla mia vista.

È umido e freddo.

Avanzo lentamente nella terra grigia e scura impregnata d’umidità. Talvolta i miei piedi affondano in chiazze di fango poco profonde e il lungo strascico del mio abito bianco si impiglia nella terra, ma non ha importanza: ci sono abituata.

Gli scarni alberi dalla corteccia grigiastra protendono le loro braccia lunghe e scheletriche verso il Sole lattescente e malato che filtra dalle dense nubi.

Mentre incedo per le distese d’erba cinerea che spaziano a perdita d’occhio, un piccolo stormo di corvi attraversa il mio campo visivo.

In lontananza, baracche infangate e tende instabili baluginano come spettri: residui di un umanità passata, che andrà dimenticata nel flusso degli eoni.

La terra vergine ora pervade ogni cosa: un mondo puro, nuovo, dove la morte e la paura cedono il posto ad altre consapevolezze.

Un mondo fragile e insieme durevole, dove la vita è riscoperta in nuove forme.

Ora allungo il mio sguardo più in là e lo vedo: dove la terra termina in una spiaggia di piombo, si estende la tavola sconfinata gli abissi insondabili dell’Oceano Sfregiato: la tavola blu chiazzata di sangue scarlatto che un pittore dimentico usò come vernice. Infinite e calme sue acque che rilucono cangianti: dall’azzurro astrale della costa al blu abissale, per poi accendersi di rubino nell’Oceano libero e silenzioso. Un’eterno testamento delle colpe di questo pianeta.

Mi inginocchio; le gambe nude avvertono la terra bagnata.

Mi affaccio su quell’acqua scura: ciò che mi appare è riflesso di una ragazza nel fiore dell’età; ha capelli lunghissimi e bianchi come il ghiaccio siderale, occhi luminosi come gemme che – come quel Mare – riflettono il blu e lo scarlatto; una tiara di fiori bianchi le adorna il capo.

Sollevo ancora la sguardo. A molte miglia dalla costa posso contemplarla: la ciclopica sagoma che domina il Creato. Inabissata per metà, quasi dormiente, giace una testa dalle proporzioni indefinibili, quasi una montagna.

Lunghe creste, affondate a metà, si dipanano a raggiera sul quel capo immenso, come una corona preziosa che grava sulla sua memoria. L’oro e il cristallo splendente che le ricoprono feriscono la vista, nell’oscurità del giorno, mentre un singolo occhio rosso mi fissa dalla fessura di una maschera dorata e senza lineamenti.

L’Imperatore d’Oro sogna tempi lontani e anime vissute.

 

Sfioro una rosa rossa come velluto che galleggia nel liquore marino; il mio tocco crea piccole perturbazioni sull’acqua. La prendo in mano e la porto a me: è come leggere il titolo della storia più grande. La storia di un amore impossibile; del cuore che attraversa lo Spazio ed il Tempo. Una storia dimenticata, che verrà ricordata dai cieli e dagli abissi. Le reminiscenze che affiorano alla mente non sono qualcosa che andrà perduto nella pioggia, ma un segreto da custodire.

La mia anima di anime sussurra alle stelle dei più remoti angoli dell’Universo, per cantare il sogno di quel giorno.

Il giorno in cui la Terra negò la sua origine, nascendo una seconda volta.

Il giorno in cui l’Umanità affrontò il dolore del Passato, il valore del Presente, l’incertezza del Futuro.

Il giorno in cui i due amanti estremi rinchiusero nel l’Imperatore d’Oro le loro volontà.

 

Ma forse sarebbe meglio…cominciare dal principio.

 

EXARION

Parte I - Una Storia che si ripete

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Capitolo 2
*** - INTERMEZZO - ***


La Fine ebbe inizio sabato 30 Aprile del 2050.

Quella sera era freddo; un freddo penetrante, sottile, quasi cosmico. Un soffio di spazio che spirava sui cieli neri, frastagliati di nubi biancastre.

Era freddo; freddo dopo un lungo tempo. Era un freddo anomalo, che avrebbe stonato con la stagione già trent’anni prima, e che ora, nella quasi-estate perenne dell’80% della Terra, poteva anche sembrare un miracolo.

Chi si era reso responsabile di scegliere proprio quella data come avvento dei Signori della Luna aveva saputo dimostrare un sarcasmo degno di una legge del contrappasso: a 105 anni esatti dalla morte del suo più grande nemico, l’umanità si sarebbe ritrovata a sostenere ancora la vista della sua effige.

Di certo, gli ufficiali della base Artemis, sul cratere Copernicus della Luna, non potevano essere pronti alla scossa sismica che avvertirono durante le loro ordinarie Operazioni Extra-Veicolari. Era già troppo tardi quando avvistarono le enormi ombre metalliche nere che provenivano in direzione della fossa di Erathostenes. Ebbero appena il tempo di notare le grandi svastiche dipinte sugli scafi dei velivoli, prima che questi aprissero il fuoco su tutto l’avamposto militare-

 

E di certo, nessun’ anima sulla terra poteva essere preparata a ciò che venne dal cielo poche ore dopo.

Sulle città dell’uomo, indorate di migliaia di luci variopinte e gremite di ignari passanti, calò il giudizio della Storia: la sagoma della Luna si offuscò di centinaia di corpi scuri, fitti come uno stormo di corvi. Lingue di fiamme azzurre e lattescenti trapassarono la notte, fendendo i cieli e gli orizzonti a perdita d’occhio. Erano come meteoriti o comete, ma il loro messaggio non era un desiderio: creazioni umane, cortei di gas combustibili che nascondevano tra le loro spire navi metalliche e armi di morte. Le stelle iniziarono a incutere terrore e presto anche l’aria divenne di vapore, fiamme e ingranaggi.

 

E da quel giorno anche il cielo fu d’acciaio.

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Capitolo 3
*** Capitolo 1: Il Lato Oscuro della Luna ***


1.

Il Lato Oscuro della Luna

 

 

Quarantadue giorni dopo. Ore 06:45.

Cella della Siren; Settore-9; base Golgotha. Lato Oscuro della Luna (ca. 5.000 km dal Bacino Moscoviniense).

 

Un canto lieve si levava nell’oscurità sfumata d’azzurro della stanza silenziosa. Una giovane dai lunghissimi capelli intonava una melodia antica, fatta di parole sconosciute e vocalizzi liquidi. Nell’impossibilità di comprendere quel testo chiunque avrebbe potuto sentirci ciò che la psiche suggeriva, vagando tra finti ricordi di epoche mai vissute.

Nella sua grande cella, la donna intonò una seconda strofa, fissando la parete centrale costituita da un’unica vetrata affacciata su un orizzonte di bianca polvere e minuscole stelle.

Un tenue lume turchese si innalzava dalla vasca al centro del pavimento ricoperto di maioliche pregiate e si spandeva sulle pareti buie, mentre i riflessi dell’acqua disegnavano arabeschi argentati su ogni superficie.

 

Und der Herbst-Regen löscht die Erinnerung.[1] – la voce giunse alle sue spalle, cogliendola di sorpresa.

 

La Sirena smise improvvisamente di cantare, voltandosi di scatto con un piccolo sussulto.

Era bellissima, di una bellezza fuori dal mondo.

Inginocchiata con grazia sul pavimento, il profilo sottile e raffinato del suo volto risplendeva come porcellana negli scintillii della luce; lunghissimi capelli setosi le correvano fin sotto la schiena, spandendosi a terra dove sedeva, come una colata d’oro chiarissimo.

Una ciocca di capelli era legata in una treccia che le cingeva la nuca da tempia a tempia; le punte delle chiome sfumavano in un innaturale color rosa della più delicata tonalità. Aveva occhi d’ametista.

Dopo un primo istante di stupore, si rasserenò: “Ah…sei tu.”

“Sembri delusa.” – rispose l’uomo sulla soglia della porta blindata di acciaio, coperta di strani intarsi.

 

Stava a braccia conserte, con la schiena appoggiata allo snodo della porta; non arrivava ai trent’anni. Nell’oscurità generale della stanza, il suo volto era una chiazza bianca incorniciata da una chioma bionda ordinata e un accenno di barba; i suoi occhi sottili erano di un azzurro talmente chiaro da ricordare il ghiaccio. Il resto del corpo si fondeva all’ombra, vestito com’era da una tuta nera sulla quale risaltavano due spille d’argento: un’aquila e una croce celtica.

“Non lo sono.” – rispose lei, con voce tenue – “Tutt’altro: temevo che oggi non saresti venuto.”

“Sai che sarei venuto comunque.”

Un breve silenzio.

La ragazza riprese: “Stai imparando piuttosto in fretta il Linguaggio dell’Acqua: hai tradotto il mio ultimo verso.”

“È uno dei miei preferiti. Sto imparando a riconoscere alcune parole; sentirti cantare mi calma.”

“Calma? Sei agitato?”

 

Lui non rispose, ma si strinse ancora di più nelle spalle e domandò:

Lui è già venuto a trovarti, stamattina?”

“Non ancora.” – ammise lei, chinando lo sguardo – “Credo sia molto…preso dagli accadimenti.”

Il ragazzo si avvicinò lentamente, aggirando la piscina, e le si accostò. Notò che da sotto l’ampia gonna perlata ricamata d’oro spuntavano le caviglie nude della giovane; quella destra era chiusa da una catena cromata che serpeggiava per la stanza. Allungò una mano per provare a forzarla, ma lei si retrasse come se l’avesse scottata e gli trattenne il polso: “No, aspetta!”

Lui restò più contrariato che stupito.

Portando una mano al cuore, lei aggiunse: “Non farlo tu. Lui se ne potrebbe accorgere. Aspetterò.”

“Come vuoi.” – si risollevò in piedi; il suo volto tornò nella penombra. Scoprì il polso sinistro e sul piccolo orologio in argento lavorato notò l’orario. - “Si sta facendo tardi; dovrei andare, ora.”

“Va’ pure.” – annuì lei, rialzandosi – “Dopotutto oggi è il giorno prestabilito.”

Lentamente, avanzò verso la vasca infossata nel pavimento, immergendo un piede scalzo in acqua. Scendendo un gradino alla volta, prese delicatamente tra le dita le spalline di velo rosa, lasciandole scivolare sulle braccia nude e bianchissime. L’acqua le arrivava già alla base della schiena, mentre il lungo abito si allargava e increspava sulla superficie. La sua figura contro il nero ed il bianco lattescente dello Spazio oltre le finestre…era una dea.

Si stava ‘purificando’. Lo faceva sempre, all’inizio e alla fine di ogni rivoluzione lunare.

Ogni volta che la osservava, il ragazzo provava un brivido fin dentro il suo animo. Non era né paura né attrazione: era fascino, con una punta di timore giustificato.

Lei era quasi troppo meravigliosa per essere vera; più volte si era domandato se lo fosse sul serio. Lo era, quello ormai lo aveva capito. Perfino quello strano rituale ora iniziava a sembrargli meno inquietante. Ma i suoi occhi…quegli occhi non poteva toglierseli dalla mente; c’era qualcosa in quella donna senza età che non sarebbe mai riuscito a spiegarsi.

Lei inclinò appena il capo all’indietro, guardandolo con la coda dell’occhio: “Siamo al prologo della Profezia. Non possiamo cambiare il Passato, ma possiamo almeno scrivere il Futuro desiderato. Da adesso sta tutto a te…mio solitario Zeitland.”

 

*   *   *

 

La pesante porta blindata del Settore-9 si chiuse automaticamente alle spalle di Zeitland, seguita da un clangore metallico di meccanismi interni, sigillandola. Prima di uscire, si era assicurato di indossare una maschera nera che gli nascondeva il setto nasale e gli occhi.

Due soldati erano a guardia della porta, vestiti di lunghi impermeabili scuri e ingrassati che ricadevano su armature in fibra di carbonio e kevlar. I loro caschi, marchiati da due “S” bianche e spezzate, coprivano volti nascosti da grossi respiratori neri e protezioni oculari accese di rosso in corrispondenza delle pupille. Lui li degnò appena di un cenno, mentre loro scattarono in un saluto marziale: “Sieg Heil, Oberstleutenant!”

Zeitland Dietrich attraversò il breve vestibolo e raggiunse il trasportatore all’ingresso. Prese il morsetto in dotazione standard che portava alla cintura e lo assicurò a un gancio del mezzo, salì a cavalcioni e indossò il casco lasciato sul manubrio. Con l’azione di una sola leva, il trasportatore si avviò oltre la camera stagna in cui si trovava ed emerse sulla sterminata piana lunare.

Sfrecciò rapido su una singola monorotaia che dalla minuscola prigione metallica correva per oltre un chilometro sul suolo bianco, verso un complesso di edifici mastodontici, grandi cupole geodetiche ammonticchiate e mura squadrate che sembravano scolpite nella roccia.

 

*   *   *

 

Quando Dietrich rientrò nel Settore-12, dedicato alle zone abitative, il solito lungo segnale acustico che risuonava per tutta la Base non si smentì, nel suo essere molesto e puntuale: alle ore 7:00, un nuovo giorno senza alba era iniziato.

Le porte automatiche che aveva varcato si trovavano al livello più alto del Settore-12, dove si congiungeva con il suolo lunare. Sotto di esso, la colonia di Golgotha si sviluppava in una serie di livelli sotterranei, ricavati intorno le pareti di profondi crateri e che scendevano per quasi duecento metri nel corpo del pianeta. La voragine del Settore-12 era rivestita di un vetro rinforzato che lasciava entrare l’albedo della Luna, garantendo una vaga illuminazione naturale, coadiuvata dalle migliaia di piccole e fredde lampadine elettriche che correvano per ogni corridoio, stanza o boccaporto della Base. Le pareti circolari del cratere – come tutto, del resto – erano state rivestite di piastre e tubature di metallo scuro che annegavano la già fioca luce; lungo la circonferenza si aprivano corridoi, porte blindate e ponti in ferro a diverse altezze. Su tutto aleggiava un fumo di un indefinibile color grigiastro, che si levava stancamente dal centro della cavità.

 

Dopo che il segnale acustico ebbe smesso di suonare, Zeitland poté sentire il vociare e lo scalpiccio generale che iniziavano a riecheggiare ovunque, segno che la gente di Golgotha tornava a svegliarsi.

A differenza degli ambienti interni, le sezioni di passaggio – come tunnel o crateri – non erano provvisti di un meccanismo di regolazione artificiale della gravità, quindi Zeitland dovette agganciare ancora il moschettone al corrimano del ballatoio che costeggiava tutta la voragine. Bastò una piccola spinta per iniziare a scivolare lungo di esso.

Raggiunto livello inferiore entrò nel suo appartamento privato: una cella 3x3 e alta due metri e dieci, foderata di metallo, con una sola lampada al centro del soffitto che spandeva un lume malato. Due prese d’aria e un interfono erano collocate negli angoli del soffitto. Un letto, già rifatto prima di uscire, era addossato alla parete antistante la porta; nelle altre erano collocati, rispettivamente, una scrivania in ferro fusa con il muro, 3 aperture rettangolari che dovevano fungere da libreria (vuota) insieme a quello che poteva sembrare un montacarichi al momento chiuso e su cui era accesa una spia rossa, e infine un cubicolo dotato di un rozzo lavandino, un WC chimico estraibile sotto di esso e una rientranza nel muro che ospitava la sua doccia.

Dietrich si spogliò della tuta per operazioni nello spazio esterno e si infilò sotto la doccia. Come ogni giorno, aprì la valvola e i tubi idraulici in alto e ai suoi fianchi gettarono acqua bollente mista a una sostanza che puzzava di canfora. Come ogni giorno trattenne il brontolio di dolore quando l’acqua quasi gli ustionò le spalle e come ogni giorno la pulizia durò trentadue secondi esatti, seguita da quindici secondi di aria calda emessa dalle griglie laterali e sotto i suoi piedi.

In risposta al termine della procedura di disinfezione, la spia del montacarichi nella parete opposta passò da rossa a verde e il vano metallico si aprì di scatto, rivelando un vassoio con degli abiti e un secondo compartimento con un pacchetto rettangolare di circa otto centimetri.

Uscì dalla doccia già asciutto, attraversò nudo la camera e nel montacarichi trovò ad attenderlo la divisa da ufficiale e della biancheria intima, lavate, piegate e impacchettate in una busta numerata. Le prese e prese anche il pacchetto rettangolare: la sua barretta extra di proteine e carboidrati liofilizzati. L’avrebbe consumata a pranzo. Con la rapidità di chi ha ripetuto quei movimenti centinaia di volte, indossò i calzoni e gli stivali di vernice nera, ci infilò dentro la camicia bianca e strinse cinta e cravatta. Abbottonò la lucida giacca nera a doppio petto e si assicurò che le spille, le mostrine e la catenella d’argento del Reich fossero ben allineate sul petto. Sistemò una fascia rossa con Svastica sul braccio sinistro e da ultimo indossò guanti, cappello da Ufficiale e ancora la mascherina nera.

 

Terminata la vestizione, uscì dalla stanza e scese ancora lungo il margine del cratere. Stavolta trovò molti più individui lungo il ballatoio perimetrale: esseri minuti, poco più che emaciati, dalla pelle chiara al punto da mettere in mostra le vene dove era più sottile e con i crani rasati. Indossavano tutti camici e pantaloni di un grigio fumo uniforme, numerati all’altezza degli avambracci e del torace e tutti muniti di una cinta con il moschettone di sicurezza. Procedevano in fila, un po’ camminando e un po’ ondeggiando nella gravità ridotta del cratere, facendo scorrere il moschettone sul corrimano come un gesto istintivo. Ogni volta che incrociavano lo sguardo di Zeitland rispondevano scansandosi per lasciarlo procedere e stendendo il braccio destro per i timorosi “Sieg Heil, mein Herr” o “Sieg Heil, Schwarz Ritter” di rito. Zeitland era ormai arrivato al punto di quasi non sollevare più il braccio e biascicare un “Sieg Heil” di risposta quasi indistinguibile.

 

Arrivato al Höhe -3, subito dopo le due fasce di zone abitative e prima del Livello alimentare, Zeitland si fermò davanti a una porta ad apertura manuale: Medizinische Versorgung (Meisters allein)[2].

Bussò e una voce maschile lo invitò ad entrare.

Guten Morgen, mein Oberstleutenant. Puntuale come sempre.” – fu un uomo sui quarant’anni ad accoglierlo, in camice medico. Aveva capelli grigi e ripartiti con una riga laterale, molto puliti, e un paio di piccoli occhiali tondi. Era accerchiato da endoscopi, 2 lettini medici e un tavolo in acciaio, scatolette metalliche di ignoto contenuto, elettrodi per la rilevazione di impulsi corporei e altri macchinari e arnesi che a cui Zeitland non aveva ancora mai avuto dovuto sottoporsi.

Guten Morgen, Doktor Schulz” – rispose il giovane, togliendosi finalmente la maschera. Il dottor Karl Schultz era uno dei pochi civili di Golgotha ad avere l’onore e onore di guardare direttamente gli occhi di un Meister.

Si accomodò al tavolino in acciaio al centro della stanza piccola e affollata e il medico gli si sedette davanti, con già in mano una cartellina di carta riciclata recante il suo nome.

“Ho saputo che oggi ha in programma una sortita sulla Terra.” – disse Schultz – “Cercherò di non farle perdere troppo tempo.”

Sfogliò la cartella e ne estrasse un foglio con una serie di tabelle stampate, mettendolo sul tavolo ben in vista. Annotò la data corrente con una penna e iniziò a chiedere.

“Dunque. Come descriverebbe la sua condizione fisica attuale?”

“Perfettamente adatta a servire il Reich” – rispose l’altro, ricorrendo all’artificiosa categorizzazione di risposte che quella visita periodica prevedeva.

Gut.” – Schultz spuntò una casella sulla scheda; Zeitland non conosceva il significato di tutti i parametri riportati, ma aveva imparato che i giudizi positivi erano annotati in specifiche caselle. – “E come descriverebbe il suo attuale stato psichico?”

“Perfettamente adatto a servire il Reich.”

“Ha provato desiderio di praticare attività diverse dalla pianificazione mensile?”

“No.”

Sehr Gut.”

Un’altra spunta.

“Ha sognato, di recente?”

“Nemmeno.”

Altra spunta.

“Sente il bisogno di ricorrere a una dose di NBZD?” – questa era fase in cui Zeitland doveva sottoporsi a tediose domande di controllo della sua libido.

“Per ora no.”

“Ha avvertito bisogni sessuali nell’ultima settimana?”

“Non in questa settimana, no.”

Ancora due spunte.

“Ha praticato dell’autoerotismo dal nostro ultimo incontro?”

Zeitland dovette concedersi un paio di secondi prima di rispondere. Era sicuro che la sua condotta fosse in linea con quanto atteso da un non-utilizzatore abituale di NBZD, ma sapeva di poter migliorare ancora. “Una sola volta. Sto provando a portare il limite a dieci giorni.”

“Che pensieri aveva in quel momento?” – a quel punto del questionario la voce di Schultz si venava sempre di uno strano tono e sul suo viso si apriva una smorfia impercettibile.

“Nulla.” – disse apertamente Zeitland – “Avevo solo necessità di finire.”

Gut. È tutto.” – Schultz scribacchiò qualche ultima nota e richiuse la cartella, sorridendo compiaciuto – “Le auguro buona fortuna per la missione di oggi. E che gli spiriti del Terzo Reich la guidino.”

 

*   *   *

 

Poco dopo Zeitland prendeva posto nel refettorio del Höhe -4, il piano alimentare, per consumare la colazione. Come sempre il turno che spettava ai Meister e agli alti ufficiali era quello delle 7:45. Oltre a loro avrebbero avuto accesso alla mensa anche un terzo degli abitanti di Golgotha, mentre il resto della popolazione avrebbe potuto consumare il primo pasto dividendosi nei successivi due turni. Era ancora solo quando si sedette al lungo tavolo centrale, sul quale erano già pronti vassoi pieni. Quattro fette di vitello allevato a gravità ridotta, due fette di pane grezzo a lievitazione accelerata, sessanta grammi di vegetali a foglia verde nate in acquaponica e un bicchiere d’acqua filtrata. Questa sarebbe stata la sua colazione, meticolosamente preparata dagli ingegneri nutrizionisti della Base per garantire la riproducibilità delle scorte, senza sacrificare troppo il gusto e l’apporto di sostanze base. La varietà alimentare era minima, ma andava bene a chiunque fosse nato sulla Luna e non avesse mai assaporato la cucina terrestre.

A Zeitland venne istintivo guardare il vetro infrangibile che costituiva la parete destra della sala. Lo separava dall’enorme mensa comune, un ambiente spoglio come tutto il resto, ma decisamente più illuminato e pulito. Trecentosettantatrè coloni, adulti e minori, donne e uomini, attendevano la loro razione di cibo, divisi in sei lunghe file. Occhiate furtive volavano attraverso la sala in direzione della stanza separata dei Meister. I bambini, rasati anche loro, erano quelli che con più difficoltà si trattenevano dal comparare quel poco che intravedevano del cibo degli alti Ufficiali con le tre puree dai colori appena differenti che invece il resto di Golgotha riceveva come pasto. A consolarli, e in qualche modo a metterli allo stesso livello, era almeno la presenza di due elementi: il primo, la barretta proteica del pranzo che tutti, senza eccezione, conservavano gelosamente durante la giornata; il secondo, la pasticca biancastra che trovavano all’inizio di ogni settimana sui loro vassoi: la NBZD, un mix di neurolettici e benzodiazepine dosato ad arte, con funzioni di antidepressivo (di discutibile efficacia) e inibitore della libido (decisamente più riuscita). Questa, però, ai Meister non veniva somministrata.

 

“È sempre lei, nicht whar? Sei sempre così mattiniero, quando devi visitarla!” – una voce di ragazza, squillante e velata di sarcasmo distolse Zeitland da quella visione.

“Io sono sempre mattiniero, Helena.” – rispose gelidamente, senza voltarsi.

“Questo perché passi così tanto tempo da quella stramba Siren!” – la voce aveva fatto il giro del tavolo ed era davanti a lui.

“Ci sono problemi?” – il giovane alzò la testa, con la pazienza che iniziava a cedere.

La figura esile e slanciata che aveva davanti aveva un abito aderente e complesso, dai colori vivaci, assolutamente alieno rispetto al contesto generale. La ragazza strinse un pugno senza darlo troppo a vedere e si sforzò di risultare il meno interessata possibile: “No. Affatto. Solo vedi di sbrigarti! Manca meno di un’ora al Rat[3] e al Mond-Führer non piacerà affatto se qualcuno ritarda!”

“Non ci sono problemi.” – i venticinque minuti concessi per il turno della colazione sarebbero stati più che sufficienti. Lui mise in bocca una forchettata di carne, deglutì e le lanciò un’occhiataccia: “Ed è Kaiser, non Führer.”

 

*   *   *

 

Sala del Mond-Rat. Settore-1. Stessa Base.

 

La seduta del Consiglio iniziò sempre secondo il medesimo rituale.

Alti pilastri di marmo bianco, sulle cui sommità erano abbozzati dei seggi squadrati occupati da altrettanti individui, salivano lentamente all’interno di un condotto circolare verticale, al termine del quale un’intensa luce bianca filtrava dagli spazi vuoti di una stella a sette punte. Uno ad uno, cinque seggi emersero oltre la superficie di quel bizzarro soffitto, che ora si rivelava come il pavimento di una sala sopraelevata. La sede del Consiglio; una stanza a pianta circolare alta dodici metri e ampia sette, ideata per accogliere i supremi organi decisionali del Quarto Reich Lunare. Gli altissimi scranni si fermarono in corrispondenza delle punte della stella, tranne due: quelle agli estremi Sud e Nord. Quest’ultima, però, sarebbe presto stata colmata. Dietro, le mura in cemento e acciaio grigio della sala cedevano il posto a un’unica, colossale parete a vetri contornata di intricate ramificazioni di in ferro, oltre cui si estendeva l’orizzonte nero e bianco della Luna. Sulle pareti spiccavano quattro lunghi arazzi rossi, recanti una svastica centrale unita tramite una linea spezzata a tre tondi bianchi sopra di essa e altrettanti al di sotto, in una specie di ‘S’. Lo stesso emblema che i presenti portavano legato al braccio sinistro.

 

Poi, con un rumore di ingranaggi in movimento, qualcosa iniziò a sorgere dall’ultima punta rimasta vuota: il Mond-Kaiser. L’Imperatore Lunare.

La torre su cui sedeva era più alta e ricca di tutte le altre, sovrastandole; il trono che si ergeva sulla cima splendeva d’oro, intagliato in curve barocche, imbottito di broccato rosso. Un uomo sedeva avvolto in un’ampia tunica nera, vistosamente ricamata in oro con grandi occhi stilizzati. Una fascia di seta viola gli cingeva torace, spalle, schiena e si inseriva nella grande cintura d’argento, per poi ricadere fino ai piedi del trono. Il suo volto era celato da una maschera dorata arricchita da lunghe piume di corvo. Piume scure, ma non come quei capelli: lunghissimi, di una lucidità innaturale, raccolti alla base del collo e poi lasciati pendere in un fiume nero come la notte.

I presenti stesero all’unisono il braccio destro: “Heil, Kaiser!

Wilkommen, Ratsmitglieders.[4] – li accolse; aveva una voce giovanile, eppure profonda, decisa – “Comincio dimostrandovi la mia soddisfazione. A poco più di un mese dal nostro ritorno sul pianeta madre grandi passi avanti sono già stati compiuti e i nostri progetti si svolgono secondo quanto programmato. Tuttavia, ho saputo che alcune Nazioni della Terra stanno mostrando resistenza più di altre.”

Poi si voltò alla sua destra: “Oberst-Gruppenführer Albrecht.”

 

L’uomo a cui si stava rivolgendo era Erwin Albrecht, noto a chiunque al di fuori di quella sala solo come “Luft-Oberst[5]. A trentotto anni era il secondo uomo più potente sulla Luna, Generale d’Armata del Quarto Reich e Generale della Divisione Schwarz Pik[6], con mandato speciale per la gestione delle relazioni terrestri. Indossava una giacca di lana battuta nera colma di gradi militari, dal bavero abbastanza alto da sfiorargli le orecchie e con due grosse fibbie metalliche per chiusura; sotto la visiera del cappello, si intravedevano basette ingrigite che incorniciavano un volto virile e sbarbato, tagliato in due da una benda nera a coprire l’occhio sinistro.

 

“Gli ultimi aggiornamenti.” – incalzò il Kaiser.

“Gli accordi segreti per la formazione del Nuovo Asse procedono bene. Il Cancelliere tedesco ha siglato il documento per l’assunzione fiscale delle spese di ricerca bellica e stiamo lavorando per sfruttare le dipendenze economiche degli Stati confinanti con la Germania, in modo da creare una cintura politica tra Russia ed Eurasia dell’Ovest. Le nostre talpe ci informano che potremmo ricevere presto anche il sostegno di alcuni gruppi separatisti delle Nazioni Arabiche Unite e del figlio dell’imperatore giapponese.”

Il Mond-Kaiser voltò la testa di tre quarti, rivolgendosi alla donna alla sua sinistra, su un seggio leggermente più basso di quello di Albrecht: “E la questione italiana?”

“Quella fastidiosa incongruenza sui limiti di territorialità è stata rimossa, mein Kaiser.” – ripose l’interpellata, accavallando le gambe – “Di certo la presenza del Vaticano come zona franca sta creando delle frizioni per guadagnare la piena disponibilità dello Stato, ma nulla che possa ritardare i piani.”

 

Fu Katrina Winkler a rispondere. Trentadue anni, slanciata, vestita di guanti e stivali alti e lucidi e di un corsetto metallizzato intagliato a squame di pesce. Sotto la cascata di capelli corvini, interrotti da una lunga ciocca blu che le correva fino al seno, un viso dalla carnagione afro-latina. Era di certo l’unica mosca nera in un mare di mosche bianche, lì a Golgotha. E come mosche ronzavano i commenti, bisbigliati nella curva di un corridoio o tra un boccone di cibo e l’altro, sulle origini di “Undine[7]” e di come fosse potuta arrivare ai vertici dell’Ordine ariano del Reich: Gruppenführer della Divisione Marine Kreuz[8] per le operazioni navali e Capo della Commissione per il Rinvenimento delle sWARd Machines sulla Terra.

Il Kaiser gettò uno sguardo al trono immediatamente adiacente a quello della Winkler, l’unico rimasto vuoto: “Da quel che vedo Ninagal non è ancora stato trovato.”

Sorridendo garbatamente, Undine lo corresse: “Piuttosto non si è ancora risvegliato: il Quarto Soggetto Designato è stato già localizzato con un buon margine, anche se la posizione corrente della Machine resta incerta.”

“E anche se la ritrovaste, cosa vi fa pensare di aver visto giusto?” – dalla parte opposta, su un seggio più basso, una ragazza dall’abito appariscente la interruppe senza troppe cortesie – “Siete davvero certi che la sWARd Machine segua i vostri stessi parametri?”

Il suo intero abbigliamento non poteva passare inosservato: un completo unico – come una tuta di seta e velluto blu dai ricami dorati – la ricopriva interamente; gambe e braccia erano fasciate da guanti e stivali in vernice bianca, mentre sulla testa portava un largo copricapo blu con una retina nera e due grandi fiori di stoffa dello stesso colore. Helena Heathfield, ventitré anni, un genio. Gruppenführer della Divisione Lieblos Herz[9] per lo sviluppo degli armamenti del Reich e Terzo Soggetto Designato alla guida di una sWARd Machine di tipo ibrido. Per tutto il resto di Golgotha, era solo “Manticora”.

 

Dal suo seggio, Zeitland Dietrich squadrò la giovane. Sapeva che quella ragazza aveva la lingua troppo lunga per partecipare a una seduta del Consiglio ma, a dispetto di tutto, il Kaiser si ostinava a volerla tra la cerchia dei suoi protetti. Forse.

“Le analisi statistiche condotte dalla Commissione di Ritrovamento sono sempre impeccabili!” – la leader di Marine Kreuz incrociò le braccia con una smorfia; se c’era qualcosa che Katrina Winkler non sopportava era farsi contraddire da coloro che riteneva inferiori, per grado e autorità. – “I calcoli per la triangolazione seguono le indicazioni contenute nei Registri.”

“La decifrazione dei Registri di Paracelso richiede procedure supplementari.” – una quinta voce si aggiunse alla discussione. Proveniva dall’uomo sul pilastro adiacente a quello di Helena Heathfield e di altezza pari a quella del Generale Albrecht.

 

Era un uomo dalla voce tagliente e impostata, che sedeva con la gamba destra rigidamente accavallata sulla sinistra e con i gomiti ben piantati sui braccioli. Come i suoi pari indossava un completo dalla foggia incredibilmente appariscente: una giacca a doppio petto di velluto scarlatto ricamato con losanghe dorate, polsini di pizzo a sbuffo e alti stivali di pelle ricamata. Il viso asciutto e dalla fronte alta era reso ancor più spigoloso dai capelli grigi impomatati all’indietro. Ma se anche si fosse spogliato di tutto, non avrebbe mai potuto lasciar cadere la lente ottica che gli copriva l’occhio sinistro, sorretta da un intrico di cavi e meccanismi direttamente innestati nel suo orecchio. Adler Jung, l’unico membro della Divisione Seeles Karo[10] e Primo Soggetto Designato. A parte il suo vero nome e l’appellativo con cui si lasciava chiamare dai civili – Schattennarr[11] – era il mistero personificato, come il Mond-Kaiser stesso.

 

Adler Jung continuò: “Sebbene al momento siamo nelle condizioni di tradurre le copie dei Testi Fondamentali restano ancora da chiarire alcune dubbiosità, come la scelta dei Meisters e del reale rapporto tra il Limitatore di Oreikhalkos e l’anima delle Machines.”

“Rimanderemo ad altra sede queste discussioni.” – tagliò corto il Kaiser, come volendo aggirare l’argomento.

Jung sorrise tra sé, tacendo. Sapeva il perché di quello stroncamento a caldo. Sapeva che l’Imperatore non era incline a discutere dei misteriosi manoscritti rinvenuti in un luogo a chiunque sconosciuto ed ora in mano all’Ordine Nazista del Quarto Reich.

“Veniamo al dunque.” – continuò il Kaiser e lanciò un’occhiata al Generale Albrecht.

“Come ho già anticipato al Mond-Kaiser” – spiegò l’uomo – “dal rapporto sulla Convenzione di Ginevra per gli accordi internazionali emerge che la Russia continua a dichiararsi opposta alle nostre condizioni, anche se impegnata in uno stato di non-belligeranza. Ma grazie alla conquista della base Artemis sul Lato Chiaro della Luna abbiamo ora accesso allo storico delle rilevazioni della rete satellitare HAARP-3. Già da qualche mese, le letture registravano delle variazioni elettromagnetiche anomale in corrispondenza del lago Baksheevo, a circa centosettanta chilometri da Mosca. Si tratta di un ex-sito militare che avrebbe dovuto essere dismesso con il disarmo del 2033, ma abbiamo motivo di pensare che stiano sviluppando qualche nuovo armamento. Per questo motivo, io e l’Oberstleutenant Dietrich ci recheremo sul luogo per un accertamento.”

“Ad essere sincero…” – la voce di un giovane uomo impedì ad Albrecht di aggiungere altro – “…era mia intenzione chiedere una sortita in solitaria.”

 

A parlare era stato Zeitland. Ventisei anni, Tenente Colonnello della Divisione Schwarz Pik e Secondo Soggetto Designato come Meister di un’unità sWAn, Zeitland Dietrich era unanimemente considerato il soldato più abile del Reich. Dalla condotta pressoché irreprensibile, trascorreva la maggior parte del suo tempo in solitudine e non aveva mai trasgredito un ordine, mai espresso un parere fuori luogo, a memoria d’uomo. Eppure, nemmeno questo sembrava impedire alla maggior parte degli abitanti lunari di provare una certa diffidenza nei suoi confronti: che fosse molto più vicino al Kaiser di chiunque altro (a parte forse Adler Jung) era evidente, nonostante nessuno sapesse il perché. D’altro canto, come per gli altri Soggetti Designati, rivolgergli la parola era fuori discussione e agli occhi degli altri era solo lo ‘Schwarz Ritter’.[12] Ma per pochissime persone, per le quali le dita di una mano erano sufficienti, lui poteva anche concedersi di farsi chiamare ‘Zeit’.

Una leggera, quasi inconscia, scossa era corsa lungo la sua schiena quando il Generale aveva parlato. In un istante gli era balenato in mente il volto di Arya e le settimane precedenti passate a sussurrare con lei di un fantomatico ‘momento’ che sarebbe dovuto giungere e a cui avrebbe dovuto prendere parte da solo.

Era arrivato.

 

Colto alla sprovvista, il leader di Schwarz Pik si voltò verso di lui: “Da dove esce questa novità? Non me ne avevi parlato.”

“Chiedo scusa, Oberst-Gruppenführer.” – rispose con fermezza – “Ho meditato su questa possibilità solo di recente. Si tratterrebbe di una semplice visita d’accertamento, penso di avere le capacità per poterla condurre in autonomia. Ovviamente solo se il Mond-Kaiser e lei mi benedirete con la vostra fiducia.”

E chinò leggermente il capo, in segno di rispetto.

“Ne sei certo, Schwarz Ritter?” – chiese l’Imperatore, gravemente – “Non credi che avresti almeno bisogno di una scorta?”

“Sei uomini e due Nacht Jägers basteranno.” – il giovane non sembrava avere indecisioni.

Dietrich non era solito imporre le sue decisioni su quelle di un superiore, ma stavolta era diverso; questa volta aveva dovuto farsi sentire prima che la sua occasione svanisse. Non sapeva cosa attendersi da quella missione, ma sentiva che più che seguire un ordine aveva bisogno di risposte a interrogativi ignoti perfino a lui. Qualcosa doveva accadere, qualcuno doveva incontrarsi, ma le modalità e le motivazioni erano avvolte nell’ombra.

Approfittando del silenzio generale, incalzò: “E se le cose dovessero volgere al peggio potrei contare sulla mia Machine. L’Anbar Atanor che era stato rinvenuto è pronto al processo di apertura tramite Elettroconduzione messa a punto da Herr Doktor e con l’aiuto della Siren il suo risveglio dovrebbe poter avvenire senza violare il Limitatore di Oreikhalkos.”

“In effetti anche lo Steins Gatter è pronto all’utilizzo su campo.” – aggiunse Helena – “Grazie ad HAARP-3 il Cancello di Trasporto Materico potrà bypassare i satelliti terrestri e inviare le nostre Unità ovunque.”

Il Mond-Kaiser restò ancora alcuni secondi in silenzio, poi acconsentì.

“E sia. Faremo a modo tuo, Schwarz Ritter. Partirai per la Terra oggi stesso. Ti assicurerai che quello scomodo avamposto militare non ci dia problemi.”

Jawohl.” - Zeitland ribadì il concetto con un cenno della testa – “Vielen Danke, mein Kaiser.[13]

 

Il Kaiser sollevò una mano, avviandosi alla conclusione: “Così è deciso. Ricordate la nostra missione, Membri del Consiglio. Il mondo è corrotto. Ci ha esiliato per non affrontare la sua debolezza, ma ci riprenderemo ciò che ci è stato tolto per lungo tempo e riporteremo infine il sistema all’ordine naturale delle cose.”

Di rimando, i presenti stesero il braccio destro e ripeterono il motto dell’Ordine:

Mögen die Geister des Dritten Reiches uns führen! Heil Kaiser![14]

E il suono di quella parola risuonò ancora, mentre i seggi si ritiravano nel condotto sottostante.

Heil Kaiser! Heil Kaiser! Heil Kaiser!

Ma prima che scomparisse del tutto dalla sua vista, Zeitland poté scorgere il Mond-Kaiser ancora ritto sul suo pilastro, che lo fissava dall’alto. Il giovane Cavaliere Nero ebbe appena il coraggio di sostenerne lo sguardo, poi il buio del condotto lo avvolse.

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “E la pioggia d’autunno cancella le memorie.”

[2] Dal Tedesco; lett.: Assistenza Medica (solo Meisters).

 

[3] Dal Tedesco; lett.: Consiglio, Concilio

 [4] Dal Tedesco, lett.: “Benvenuti, Membri del Consiglio.”

[5] Dal Tedesco, lett.: “Generale dell’Aria.”

[6] Dal Tedesco, lett.: “Picche Neri.”

[7] Dal Tedesco, lett.: “Ondina.”

[8] Dal Tedesco, lett.: “Fiori Marini.”

[9] Dal Tedesco, lett.: “Fiori Marini.”

[10] Dal Tedesco, lett.: “Quadri dell’Anima.”

[11] Dal Tedesco, lett.: “Giullare dell’Ombra.”

[12] Dal Tedesco, lett.: “Cavaliere Nero.”

[13] Dal Tedesco, lett.: “Sissignore. Grazie molte, mio Imperatore.”

[14] Dal Tedesco; lett.: “Possano gli spiriti del Terzo Reich guidarci! Salute all’Imperatore!”

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Capitolo 4
*** Capitolo 2: Nat ***


2.

Nat

 

 

Stesso giorno. Ore 09:00.

Casa del Presidente Novikov; Mosca, Neo-Russia. Terra.

 

Bi-bip. Bi-bip.

 

La sveglia dello smartsquare sul comodino segnava l’ora nell’ologramma proiettato a mezz’aria, mentre l’allarme si ripeteva fisso una, due, poi tre volte. Quattro, cinque…

Quel suono stridulo disturbava la quiete silenziosa della bella cameretta dalle pareti rivestite di carta da parati ricamata, rischiarata dalla fredda luce mattutina che dalle tende. I raggi di sole tagliavano in due la penombra, illuminando sui muri qualche volto di cantante intento in assoli da sgolamenti resi muti da un poster e qualche fiore e motto pacifista ricalcato a stencil.

Sei, sette…

Il fagotto informe rannicchiato sotto la trapunta decise che quel rumore continuo doveva tacere: un sottile braccio dalla pelle chiara si allungò dalla montagna di lenzuola e ricadde sul display dell’oggetto laminato a forma quadrata. Con un brontolio sommesso, qualcosa iniziò a muoversi sotto la catasta scomposta di coperte, incurvandosi sul materasso. Una testa fece capolino e, in una smorfia tutto fuorché connessa al mondo, una fronte si aggrottò nel tentativo di leggere i numeri proiettati a mezz’aria con la vista ancora annebbiata dal sonno. Quando finalmente i contorni eterei dell’orario si fecero nitidi, due grandi occhi azzurri si spalancarono improvvisamente ed un gridolino acuto esclamò: “Это очень поздно![1] Con un improvviso salto sul posto il fagotto informe si risollevò a sedere, mandando all’aria la trapunta rossa e rivelando il corpo di una ragazza in una sottile vestaglia di seta rosa.

Afferrò lo smartsquare, premette il pulsante sul lato destro e il piccolo quadrato di alluminio si divise in due, allungandosi. Sul display allungato si formò una piccola animazione di stelle filanti e la voce cordiale e asettica dell’assistente vocale – Juri, lo aveva rinominato – fu la prima che sentì quel giorno: “Buon giorno, Natasha. Oggi è il tuo compleanno. Vuoi che riproduca una playlist speciale?”

“Fai tu e avvia routine ‘buon giorno’!” – e saltò giù dal letto in tutta fretta. Il personal device si connesse alla rete domotica della casa, annunciando che avrebbe iniziato mettendo un po’ di Uplifiting Morning Jazz e proseguendo con il sollevare le serrande della sua stanza e accendere le luci del bagno. Mentre Nat era intenta nelle sue abluzioni mattutine, Juri proseguì con un’anteprima degli audio- e video-messaggi che aveva ricevuto durante la notte. “Auguri” di qua “Buon compleanno” di là venivano pronunciati da amici di vecchia data, compagne del corso di danza, zii e cugini di vario grado. Natasha era intenta a sciacquarsi il viso con l’acqua preriscaldata da Juri quando notò l’icona di un pacco regalo sul display dello smartsquare, segno che la colletta di compleanno le era già stata inviata la mattina stessa. Afferrò pennelli e ombretti che la sua toletta intelligente aveva già selezionato tra quelli utilizzati per le occasioni speciali e si diede un filo di trucco sulla pelle chiara e rosata sulle gote. Si afferrò una ciocca di capelli tinti di magenta e notò che la nuova tinta stava iniziando rivelare la ricrescita, ma sarebbe passata da un parrucchiere in futuro e comunque non si sarebbe notata in un selfie. Si scattò una foto allo specchio arricciando le labbra in una smorfia ammiccante e la caricò sul suo profilo Instant!, curiosa di sapere quanti avrebbero ‘voluto essere lì in quel momento’, ma non prima di aver applicato la caption ‘B-day girl’. Guardò il risultato dello scatto solo dopo averla caricata e sorrise a quanto bene erano venuti in foto i suoi grandi occhi azzurri.

 

Il ventunesimo 12 Giugno di Nataša Novikov iniziò così.

 

*   *   *

 

Ancora in canottiera e shorts, Nat scese rapidamente le scale fino al pian terreno, dove un profumo di soffritto, addolcito da quello del tè sui fornelli, la accolse come un abbraccio non appena mise piede nel soggiorno-cucina pavimentato di parquet, ante laccate di rosso e pregiati mobili in castagno.

 

“Buongiorno, famiglia! – cinguettò allegra, raggiungendo il tavolo della cucina. Un bendidio di cibi mezzi mangiucchiati, ma ancora invitanti, la attendeva: tra uova alla glazunya, pancake imburrati e syrniki spolverati di zucchero a velo e fragoline.

“Buongiorno, tesoro. Tanti auguri.” – le sorrise sua madre, voltandosi dai fornelli a induzione. Arina Novikov, nata Yeshevsky, First Lady quarantasettenne della Russia ed ex-ministro dell’Istruzione, una delle principali fautrici del Nuovo Sistema di Istruzione Uniformato dell’Eurasia.

“Ciao, papà!” – Nataša gettò le braccia al collo dell’uomo seduto al tavolo, intento fumare un sigaro mentre scorreva le e-mail sullo smartsquare con un dito. Gli diede un bacio sulla guancia.

Lui si voltò di tre quarti, ricambiando il gesto: “Ciao, piccola. Tanti auguri.”

 

Il Presidente russo Edvard Novikov, cinquantatrè anni e metà del suo secondo mandato presidenziale. Sua figlia primogenita, Nataša, lo adorava. Fin da piccola non ricordava nessuna figura di sua conoscenza che fosse stata più presente di lui. A volte austero nella sua sobrietà, ma molto più affettuoso di quanto ci si sarebbe potuto attendere un uomo dei lineamenti del viso tanto rigidi e scavati. Se proprio avesse dovuto trovare una pecca nel suo carattere sarebbe stata proprio la sua sconcertante semplicità: eccezion fatta per le occasioni pubbliche, suo padre non indossava mai abiti che potessero dare nell’occhio: un maglione di lana, i capelli brizzolati ben pettinati, un paio di anonimi pantaloni di cotone e quel suo personalissimo sigaro. Con sua moglie avevano addirittura rifiutato di trasferirsi al Gran Palazzo del Cremlino dopo la vittoria delle presidenziali. Ma a lui bastava tanto poco per sentirsi a suo agio e ogni altro lusso che si era concesso – anche di non poco conto – era in quella casa. Tutto ciò che più apprezzava e per cui aveva sudato era nel posto in cui doveva vivere la sua famiglia.

 

Nataša si sedette al suo posto dalla parte opposta il faccino rotondo di un ragazzino sui tredici anni dai capelli lisci le regalò un’impertinente smorfia mista a sorriso: “Sì, sì: tanti auguri, Nat! Così ora potrai essere una zitellona di ventun anni!”

Lei spalancò la bocca, quasi scandalizzata: “Cosa?! Piccolo…!”

“Ma che discorsi sono?” – li divise la madre, frapponendo tra i due una scodella di torta alle mele appena tirata fuori dal forno – “Mangiatevi questa torta, per favore, e non litigate di prima mattina.”

“La Sharlotka!” – a Nat sfuggì un verso di golosità mentre le sue papille gustative si preparavano a ricordare il sapore della sua torta preferita – Grazie!”

“Dovresti mettere una foto su Instant! .” – le suggerì suo padre – “La tavola merita.”

Per quanto alla sua età non provasse più alcuna particolare soddisfazione nel condividere la sua intimità domestica con mezzo mondo, la gioventù di Edvard Novikov era pur sempre avvenuta durante gli anni dell’esplosione dei social network e alcune abitudini era diventante automatismi mentali. Per i suoi figli, d’altra parte, erano veri e propri istinti innati.

“Hai confermato il ristorante per stasera?” – chiese sua madre, sfilandosi la presina da forno.

“Sì, tranquilla.” – fece Nat, iniziando a tagliare una fetta di torta– “Ci vediamo con gli altri alle venti.”

“Perfetto.”

“Beh,” – il signor Novikov trascinò il dito sullo smartsquare, inviando lo streaming di notizie dal dispositivo al grande televisore ultrapiatto in fondo al tavolo della cucina – “diamo un’occhiata anche al resto del mondo.”

Il mezzobusto di un giornalista seduto a una scrivania, sotto la quale scorrevano notizie in pillole, comparve sullo schermo: “E veniamo ora alla politica internazionale. Si acuiscono le tensioni interne al governo d’Eurasia, diviso gli Stati membri che propongono una repressione armata del nuovo gruppo Nazionasocialista e quelli che invece propendono per la via della mediazione. Il Triumvirato d’Austramerica si è dichiarato oggi favorevole a un intervento militare, qualora la pace mondiale fosse seriamente minacciata da quello che il portavoce canadese Fournier ha definito ‘il più grande Crimine contro l’Umanità del Nuovo Millennio’. Dalla Cina arriva l’invito a considerare gli effetti economici che una guerra porterebbe alle fluttuazioni delle monete interne rispetto all’euroyuan, mentre il Vaticano si appella alla coscienza di tutti per gestire la nuova situazione.”

 

“Da non credere.” – mormorò Arina, ancora in piedi a braccia conserte, scuotendo lentamente la testa.

“È già passato più di un mese.” – occhi di Nat si erano velati di paura, l’espressione di voluta ignoranza con cui si era svegliata l’aveva abbandonata – “Com’è possibile che nessuno faccia niente?

Suo padre non rispondeva, mentre affondava il viso magro nella mano destra.

“Se tutto il mondo si unisse contro di loro…vinceremo, no?” – insistette Nat – “È impossibile che ci sia qualcuno che vuole la pace con loro, è troppo grave!”

 

Per Natasha, quei giorni erano pura follia. Come miliardi di altre persone nate dopo i primi terrificanti anni del XIX Secolo, lei non aveva mai esperito l’orrore della guerra. Forse l’Umanità aveva dimenticato cosa significasse intraprendere una guerra basata sul puro e viscerale odio verso il prossimo. E ora, dopo più di cento anni, la minaccia del Reich era tornata a spandere la sua ombra sulla Terra e nessuno che riuscisse a giustificarsi come fosse possibile. Le Nazioni Unite faticavano a trovare una soluzione definitiva, mentre il mondo cadeva ogni giorno di più in balìa della confusione e del timore, tutto mascherato da un velo di ipocrita immobilismo.

 

“Non è così semplice.” – fu l’unico commento che Novikov riuscì a biasciare, con gli occhi fissi sul notiziario.

“…mentre si moltiplicano le azioni di protesta, come quello di ieri sera davanti il Parlamento di Bruxelles.” – continuava il giornalista, sopra la cui voce si avvicendavano spezzoni di cortei di manifestanti dai cartelli pacifisti in mano – “I cittadini chiedono spiegazioni e l’Eurasia resta in attesa del verdetto finale della Russia, l’unica a non essersi ancora apertamente espressa sulla possibilità di conflitto armato.”

 

“Ci faranno del male?” – chiese quasi sottovoce il piccolo Luka, con occhi sgranati.

Edvard continuava a non rispondere. Tutto intorno, gli sembrava che le voci si trasformassero in un unico brusìo.

“Parlano di papà?” – chiese ancora il bambino.

Nessuna risposta.

“Papà?” – incalzò Nat.

“Edvard!” – chiese ancora più forte sua moglie.

A quella voce, il Presidente Novikov fu come scosso da un fremito, ridestandosi dai pensieri. Si voltò vero la sua famiglia ed ebbe bisogno di un paio di secondi per riconnettersi. Ora, i volti che aveva davanti non erano quelli di un giorno di festa. Un innaturale silenzio era calato in quella che fino a poco prima era stata la scoppiettante cucina di casa Novikov. Il telegiornale era finito. La pubblicità di uno scadente detersivo già lo sostituiva, ma il silenzio persisteva.

“No…non…” – faticò a riprendere il discorso, ma alla fine vi riuscì – “…certo che no. Andrà tutto bene.”

Annuì un paio di volte con la testa, cercando di auto-convincersene: “Troveremo una soluzione.”

“È piuttosto tardi, cara.” – proruppe improvvisamente Arina, rompendo la tensione e impostando la sua mente sulla modalità ‘mamma positiva’ – “Dovresti prepararti in fretta, oggi devi anche passare dal dottor Asimov a Baksheevo, ricordi?”

“Forse non dovrei andare.” – rifletté la ragazza, ancora turbata dai discorsi precedenti. – “Non me la sento molto.”

“Stai scherzando?” – anche suo padre si era ‘resettato’ ed era rientrato nel suo ruolo domestico – “Perché no? Sai quanto ci è voluto per accordarti una visita al laboratorio, è una cosa che non ti ricapiterà più prima della Laurea. Forza, va’ a prepararti.”

“E non puoi mica farti trovare così da Miša, quando arriva.” – sottolineò sua madre, indicando con la punta di un coltello la mise della figlia.

“Oh sì, hai ragione!”1 – la ragazza scattò in piedi, piena nuova energia – “Devo ancora fare i miei esercizi!”

E rapidamente uscì dalla cucina, risalendo le scale verso la sua camera. Suo padre fissò prima lei e poi il suo piatto ancora pieno di torta. Non aveva nemmeno fatto colazione, alla fine.

 

*   *   *

 

La home gym di Casa Novikov era un quasi monolocale, con grandi portefinestre affacciate sulla boscaglia che circondava la casa di periferia. Nataša si rialzò dal tappetino sul pavimento, finito il riscaldamento, e si voltò verso la lunga trave orizzontale. I suoi occhi scivolarono lungo la trave d’allenamento, studiandone le misure. Respirò affondo, contraendo e rilassando i muscoli dell’addome asciutto fasciato dalla canottiera aderente. Con un unico, fluido, gesto sollevò la gamba destra verticalmente, irrigidendola; la sorresse con una mano all’altezza del ginocchio.

 

Aveva sempre desiderato essere una ballerina. I suoi genitori apprezzavano molto l’idea che la giovane e bella Nataša potesse dedicarsi a un’attività così nobile, ma nel tempo non avevano mancato occasione di ripetere che un cervello bello come il suo sarebbe stato impiegato meglio dietro la scrivania di multinazionale o tra le aule di un Parlamento, e così era riuscita ad accettare l’idea di iscriversi alla facoltà di Economia della Plekhanov. Ma a lei non importava rappresentare né una causa, né un Paese e né tantomeno un Consiglio di Amministrazione. Non le importava neanche essere un ingranaggio di qualcosa di più grande e migliore…semplicemente voleva essere un’interprete di sentimenti. Voleva danzare sui grandi palchi mondiali dell’Opera, sentire il suo corpo staccarsi dal terreno e mascherare con meravigliosa leggiadria la fatica e l’irripetibilità di quell’istante. Essere Nataša Novikov – figlia del Presidente della Federazione Russa e Stato più influente dell’Eurasia – era un ruolo che le andava stretto.

No, lei era nata per essere Odette: la Principessa-Cigno dalle piume immacolate.

 

Prese un bel respiro e lasciò andare la mente: tre rapidi passi in avanti, un piccolo salto sul posto portato con il piede sinistro e il destro si staccò dal pavimento. Sollevò le braccia, incurvò il torso, afferrò il bordo della trave e con una spinta le sue gambe si sollevarono quasi da sole. Rimase un solo secondo in quella posizione, poi allungò una mano in avanti, facendo un passo in verticale. Ignorò il sangue che iniziava a darle in testa e completò la sequenza in un sol respiro: una, due, poi tre ruote sull’esiguo appoggio offertole dall’attrezzo e per finire infine un salto elegante. Riatterrò in piedi, proprio sul bordo. Ce l’aveva fatta.

Le tempie pulsavano per le innaturali posizioni assunte. Rimase così, con le braccia distese come in volo e le gambe unite, a riprendere fiato. Chiuse gli occhi, ascoltando i suoi respiri. Poi…

Boo!

Con un gridolino di sorpresa mista a sgomento, Nataša perse l’equilibrio e poi capitombolò al suolo sulla schiena.

“Ahiahiahiahi!” – si lamentò massaggiandosi la testa; schiuse gli occhi lentamente e un viso cominciò a essere messo a fuoco: un ragazzo dalla mascella forte e dai grandi occhi verde scuro, in piedi proprio dietro la sua nuca. La frangetta biondo cenere pendeva verso il basso per via della posizione, facendolo sembrare una specie di riccio dalla faccia rossa per la vergogna, appeso sottosopra.

Non appena Nat ebbe riordinato le idee, inveì su tutte le furie:

“Tu, razza di perfetto…!”

Ma le impedì di continuare, afferrandole con forza un braccio e tirandola su di peso. Era un ragazzone di un metro e novanta, dai capelli lisci ma scomposti e dal sorriso sornione e terribilmente idiota: “Buongiorno anche a lei, Ledi Nataša Elizaveta Novikov!”

Miša Vasyljev; di solo un anno più grande di lei. Migliore amico di Nat fin dall’infanzia e cadetto dell’ultimo anno dell’Accademia Militare di Mosca.

“Buongiorno un cavolo! Devo direi ai miei che non ti facessero entrare in casa se non lo dico io.” – protestò lei, tentando di riordinarsi i capelli – “E lo sai che non voglio che mi chiami col mio nome completo. Mi fa…strano!”

“Ma da oggi richiesta una certa formalità, sai?” – continuò lui, assumendo un’aria altezzosa – “Se fossi in America saresti entrata nell’età legale per bere, Nat.”

Lei inarcò un sopracciglio e lo squadrò in volto: “Se bisognasse aspettare ventun anni per bere tu saresti al carcere minorile.”

Lui sbuffò e pestò i piedi come un bambino: “Oh, e dai, Nat! Non posso mai scherzare!”

Lei scoppiò a ridere di gusto, portando una mano alla bocca.

Quella bocca, sì: piccola, sottile, rosea. Delicata come un fiore.

Quanto adorava sentirla ridere in quel modo.

“Ma sì, certo che puoi!” – e lo abbracciò, sorridente – “Grazie per essere passato di persona.”

Un gesto banale, quotidiano. Nataša quasi non dava più importanza a quell’abbraccio, ma Miša continuava a provare lo stesso calore da anni. Tentando miseramente di darsi un contegno, rispose il più burberamente possibile: “Ovvio che sono venuto! Dopo venti compleanni che passo a salutarti, se mancassi il ventunesimo di una rompipalle come te mi toccherebbe sorbirti per tutto il mese.”

“Come minimo!” – ridacchiò lei, iniziando già ad andarsene tutta eccitata – “Dai, abbiamo una giornata piena di impegni!”

 

*   *   *

 

“Allora noi andiamo, eh!” – Nat si infilò l’impermeabile beige di mezza stagione e si avvolse al collo una leggera sciarpa quadrettata, iniziando ad aprire il chiavistello del portone d’ingresso.

“D’accordo ma fate attenzione, intesi?” – li raggiunse la voce di sua madre, dall’altra parte della casa.

“Non si preoccupi, Signora Novikov, ci penso io!” – ripose ad alta voce il ragazzo, che come ricompensa ottenne una leggera gomitata dell’amica.

Edvard Novikov si avvicinò all’ingresso: “Mi raccomando, fatemi sapere quando siete lì.”

Anche se si trattò di una fugace impressione, Nat fu certa di notare un’increspatura nel volto di suo padre: una ruga d’apprensione che sorgeva sulla fronte ogniqualvolta un pensiero oscuro lo attraversava, tentando di rimanere represso.

“Certo.” – rispose lei, con un piede già oltre l’uscio.

Suo padre allungò un’occhiata d’intesa al ragazzo al suo fianco: “E tu vedi di non strapazzarmela troppo, intesi?”

Miša allargò le braccia, sospirando con teatralità. “Magari potessi!”

“Miša!” – seconda gomitata da parte dell’aspirante ballerina in meno di venti secondi.

 

[1] Dal Russo; lett.: È tardissimo!”

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Capitolo 5
*** Capitolo 3: Il Gigante del Lago ***


3.

 

Il gigante del lago

 

 

Lato Chiaro della Luna.

 

Un fumo denso si levò dagli ingranaggi in movimento all’interno cratere Archimedes, sventrato come potrebbe fare un piccone nel ghiaccio. Una lunga rampa di lancio si estese verso l’esterno, direzionandosi in cerca di una traiettoria. Risalendo la gola, una catapulta di trasporto accompagnò due grandi velivoli circolari. Neri, di dieci metri di diametro e sormontati da un’abside più stretta e squadrata; le carlinghe ricoperte da diciture del Reich. Una fila di ologrammi direzionali gialli illuminarono i lati della corsia. All’interno dell’ampio abitacolo rischiarato solo dalla fioca luminosità di innumerevoli schermi, risuonò una voce femminile e atona: “Weltraumkampf Maschinen ‘Haunebu Mk-7’ auf der Startrampe. Kurstkorrekturen gemachen; entfernung von der Geschätzte Reisezeit zur Erde: siebe Stunden.”[1]

L’ologramma dell’aquila del Reich in fondo alla rampa di lancio indicava tra le ali il comando: STARTE. Un motore simile a una spirale iniziò a roteare sotto la pancia del velivolo e i reattori all’idrogeno si infiammarono di turchese. Lo scafo graffiò un paio di volte la pista prima di decollare, lasciandosi indietro a grande velocità la base lunare di Golgotha. I due dischi volanti si allontanarono verso una Terra immersa nel nero trapunto di stelle.

 

*   *   *

 

Russia; Terra.

 

L’antiquato trenino ricoperto di graffiti lungo la rotaia mezza arrugginita in direzione Baksheevo. Era un minuscolo paese della provincia moscovita immerso nel verde, con un bel laghetto, di discrete dimensioni e dalle acque pulite e calme. Nataša lo ricordava da una gita fuori porta, ai tempi delle elementari. Ormai non attraeva quasi più nessuno, tranne un gruppo di militari che si ostinavano a voler portare avanti un avamposto secondario dalla dubbia utilità. O almeno questo era il pensiero comune.

All’interno del vagone, con il mento piantato nella mano destra e il gomito puntato sul bordo del sedile, Nat fissava gli alberi sfilare davanti a lei.

“Certo che a ripensarci è strano che papà ci abbia permesso di andare a trovare il dottor Asimov sul posto di lavoro.” – proruppe lei, articolando con difficoltà la bocca per via della postura – “Io non mi sarei detta di sì.”

“Non remare contro!” – Miša sembrava tutto preso dall’impervio compito di pulire il suo cappotto dai fiocchi di lana grigia della sua sciarpetta e aggrottò lo fronte davanti a quella frase contorta – “Possiamo entrare in campo di ricerca militare, è fichissimo.”

Lei voltò appena lo sguardo, sarcastica: “Oh, certo, tu sei fissato con quella roba. Bel mestiere, la guerra, non c’è che dire.”

“A me non piace la guerra.” – ribatté serio – “Ma se è necessario servire il Paese, allora lo farò. E poi…alle ragazze piacciono i soldati, no?”

E le rivolse una strizzata d’occhio sorniona.

Lei scosse la testa, sogghignando: “Se lo dici tu.”

Fissò ancora il paesaggio fuori dal finestrino e mormorò: “Proprio perché una base miliare, non è tipo…vietata ai civili? Ok che ho chiesto io di parlare con il dottore per la mia tesi, però…in un momento come questo, poi…”

“Nat, tuo padre è il cazzo di Presidente!” – la interruppe lui, con un sorriso a metà tra l’ottimismo e lo sconcerto per il poco entusiasmo dell’amica – “Saprà quello che fa!”

Il ragazzo aveva sempre provato una grande ammirazione verso il padre di Nataša, che a volte sfiorava la venerazione: il carisma semplice e rigoroso del Presidente Edvard Novikov lo catturava.

“Non è da lui.” – mormorò lei, scettica, ma preferì non continuare. Lui notò il silenzio che si era venuto a creare e si ricordò appena in tempo di un modo per risolverlo.

“Ah! Quasi dimenticavo.” – tirò fuori uno smartsquare dal giaccone, lo aprì e tracciò un gesto verso l’alto con l’indice. Di riflesso, il palmare di Nat squillò.

Lei controllò e notò l’icona di un pacco regalo, del tutto simile a quello già arrivatole poche ore prima.

“Ma…” – lo guardò sorpresa, ma felice – “…Misha! Non avevi già partecipato alla colletta?”

“Volevo farne anche uno mio.” – lui si sporse in avanti, con un mezzo sorriso che pregustava il momento in cui lei avrebbe aperto il messaggio – “Un regalino ballerino.”

Lei toccò lo schermo in corrispondenza del pacco, che si slegò del fiocco e si aprì con una pioggia di scintillii, mentre una tessera 3D decorata a foglie sottili ne emerse, roteando su sé stessa. Nat si tirò indietro e batté gli occhi un paio di volte, non proprio certa delle sue emozioni: “Wow. Un…buono sconto per dei prodotti dietetici. Che forza.”

Lui perse tutto l’entusiasmo: “Non va bene? Dici sempre che devi stare attenta al mangiare!”

Le venne da ridere, sventolando il palmare: “No no, infatti! È molto utile, davvero.”

E prima che il discorso potesse proseguire, si sentirono fischiare le ruote metalliche del treno.

“Siamo arrivati.”

 

*   *   *

 

Il bus-navetta – vecchio e malconcio almeno quanto il treno – scaricò come pacchi postali i due ragazzi. Nonostante l’apparente degrado dell’intera area circostante la cittadina di Baksheevo, Miša notò come le indicazioni in cirillico sull’asfalto fossero state riverniciate di bianco di recente, indice che qualcuno continuava a servirsene.

Uno spesso cancello di ferro interrompeva la strada d’accesso. Due gabbiotti equidistanti e quattro guardie armate completavano il quadro decisamente poco accogliente.

Nat lesse il cartello a caratteri rossi che avvertiva con eloquente sobrietà quanto poco gradita fosse la visita del personale non autorizzato: “Proprio un bel comitato d’accoglienza.”

Un uomo in divisa e berretto verde si accorse dei due, avvicinandosi a lunghi passi e ordinò senza troppe cortesie: “Qui non sono ammessi visitatori. Identificatevi.”

Miša mandò giù un groppone alla vista e sollevò una mano in un saluto stentato: “Ehi, come va? Siamo colleghi, eh, io e te!”

Nataša gli assestò un colpetto ricordandogli silenziosamente di evitare comportamenti inappropriati, quindi provò la via della trasparenza: “Mi chiamo Nataša Novikov e lui è Miša Vasyljev. È Abbiamo un appuntamento con il dottor Asimov.”

Il soldato aggrottò la fronte, squadrandola da capo a piedi: “Novikov, hai detto? Quel Novikov? Ragazza, stai scherzando?”

“Sono con me, tranquillo!” – la voce giunse alle spalle del soldato; un distinto signore dai capelli bianchi e curati e dal lungo camice immacolato stava risalendo a grandi falcate piene d’eccitazione la collinetta. Al che la guardia si fece da parte, mentre il cancello automatico iniziava già ad aprirsi. Lo scienziato accolse i due ragazzi a braccia aperte, con un sorriso soddisfatto e pieno di bontà: “Nataša cara, che piacere vederti! Auguri di cuore!”

“Grazie, signor Asimov, anche per me è un piacere.” – gli sorrise lei, ricambiando l’abbraccio appena accennato.

“Fatti vedere.” – la rimirò incantato – “Come sei cresciuta, una vera signorina! Mi ricordo quand’eri piccola…tuo padre ha fatto un ottimo lavoro, con te!” – poi si voltò verso il ragazzo, stringendogli la mano – “E tu devi essere il giovane Miša, vero? Mi ricordo anche di te. Proprio un bel giovanottone.”

“La ringrazio…” – lui restò un po’ inebetito dalla stretta vigorosa di mano – “…sa, io sono un suo estimatore!”

Il signor Klaus Asimov annuì allegramente e li invitò a seguirlo: “Oh, certo, certo. Sono molto contento che siate venuti, ma adesso, forza, seguitemi. Purtroppo, non posso concedervi troppo tempo.”

 

In mezzo a un viavai silenzioso di miliari, attraversarono il campo-base verso un piccolo padiglione. L’avamposto, con tutti suoi capannoni di cemento armato, si sviluppava a raggiera sulla vallata antistante il laghetto dalle limpide acque turchesi, che rifletteva i colli circostanti. Sulla cima di un pendio boscoso s’intravedeva la massiccia sagoma di un hangar d’aviazione. Nataša si sentì fuori luogo come mai prima d’ora in vita sua.

Il professor Asimov li scortò all’interno di un ascensore piccolo e sigillato, componendo rapido un codice sulla plancia digitale.

 

*   *   *

 

Quando le porte dell’ascensore si riaprirono, una sgradevole sensazione di capogiro investì i ragazzi. Lo sbalzo di pressione si sentiva con vigore, evidentemente dovevano essere ad almeno venti metri sotto il livello del lago. Dalla relativa calma dell’esterno ora uno sciame confuso di voci e rumori meccanici pervadeva il tutto: ovunque erano pareti rinforzate, strutture portanti in ferro e sale insonorizzate; uomini in divisa militare si avvicendavano a ingegneri dai camici bianchi o tecnici dalle sgargianti tute gialle.

 

Gli occhi di Miša divoravano quanti più particolari possibili, come un bambino in un negozio di giocattoli: “Questo posto è assurdo, sembra un film di fantascienza!”

“Così sono questi i laboratori di ricerca militare della Russia…” – la mente di Nat era talmente incuriosita da tutte le strane apparecchiature che ora non riusciva nemmeno più a trovarsi a disagio. La loro guida d’eccezione accelerò il passo verso un gruppetto di quattro individui, presi a discutere di qualcosa riportato in un rapporto: “Vi presento la mia gioia più grande ed una delle più brillanti scienziate che il nostro Paese possa vantare: Ekaterina Asimov, mia figlia.”

Un’affascinante donna in camice si voltò verso di loro; aveva capelli biondo grano lunghi sino alle spalle, occhi sottili dietro occhiali dalla montatura allungata e un piccolo neo all’angolo sinistro delle labbra truccate. Li salutò cordialmente, nonostante un velo di durezza le irrigidisse la bocca e lo sguardo: “Ah, voi siete i ragazzi che mi avevano anticipato. Molto piacere.”

Nataša ricambiò il gesto e le sorrise: era una donna di grande bellezza e vantava un’intelligenza finissima. Era un vanto per tutte le donne russe e per la Nazione in generale. Nataša l’ammirava poco meno dei suoi genitori: “Sono così contenta di poterla incontrare dal vivo! Il dottor Asimov le avrà detto che sto scrivendo una Tesi di Laurea sul ruolo della Russia nel combattere il riscaldamento globale. So che anche lei sta prendendo parte alle ultime ricerche e penso che sia fantastico che una donna...”

“Mi lusinghi più del dovuto.” – la dottoressa fece un piccolo gesto d’umiltà con il capo, di fatto interrompendo il fiume di parole.

“Sono certo che qui troverai molti spunti interessanti per la tua ricerca.” – incalzò l’uomo – “Ma credo anche che tu sappia di non poter descrivere troppo dettagliatamente il contenuto di questo laboratorio.”

Ed ecco che tutta l’apparente ingenuità di quell’incontro iniziava a mostrare la classica nota di fondo che Nataša avrebbe dovuto aspettarsi: il silenzio. La consapevolezza di essere testimone di segreti di cui probabilmente non capiva l’importanza ma sui quali in ogni caso sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa.

“Certo. Capisco.” – la ragazza si scambiò un’occhiata d’intesa con il suo amico e poi tacque.

“Molto bene.” – concluse Ekaterina – “Seguiteci.”

 

Nello scortarli attraverso l’unica grande sala di ricerca in cui si trovavano, il dottor Asimov pareva provare un particolare gusto di autoreferenza nel parlare del proprio lavoro. “Questo in cui vi trovate è uno dei più antichi laboratori di ricerca bellica della Russia ancora in funzione, se consideriamo che la maggior parte sono stati dismessi durante il ‘33. Il Complesso di Baksheevo è stato inaugurato dagli inizi del 2000, ciò significa che è in funzione da quasi cinquant’anni.”

Doppiarono un’enorme turbina lunga più di sette metri e puntellata di quadri di controllo.

“Come potete immaginare, qui ci occupiamo di sviluppare nuove tecnologie, con particolare applicazione nel settore della guerra.”

“A nessuno di noi fa piacere creare armi, ma i risultati ottenuti possono essere utili anche in ambiti civili.” – ci tenne a precisare sua figlia.

“Ci sono un totale di venti dipartimenti, ognuno deputato a una diversa fase del processo sperimentale.”

“Ma cosa sperimentate, esattamente?” – Nataša si fermò improvvisamente, cercando di attirare un’attenzione maggiore.

La dottoressa Asimov guardò prima il padre e poi lei, quindi disse con soddisfazione: “Questo.”

Una porta blindata spessa almeno mezzo metro si divise in due proprio alle sue spalle, introducendoli alla sala successiva. La prima cosa che investì le orecchie di Nat e Miša fu un nugolo di sibili acuti e prolungati, mescolati a voci indistinte. Una grande sala si offriva ai loro occhi, sovrastata da una volta in vetro che inondava tutto dei riflessi oscuri del lago soprastante.

Il via-vai di addetti sembrava affaccendato sull’enorme struttura centrale; una sorta di lettiga in acciaio circondata da tre anelli in acciaio spessi tre metri, sospesi a mezz’aria da robusti tiranti. E in mezzo a quell’ambiente di un bianco sterile, una gigantesca figura nera stava distesa su quello strano sistema di blocco.

Nataša mosse pochi passi incerti, osservando meravigliata quello che davvero il lago di Baksheevo celava sul fondale. E intanto, in un angolo remoto del suo inconscio, iniziava a farsi largo un oscuro timore…

“Questa” – proferì il dottor Asimov, beandosi di quanto la scienza avesse prodotto – “è l’Arma Bionica ad Interfaccia Diretta, Unità da Combattimento per le Operazioni Militari Speciali.

“Noi la chiamiamo…‘sWARd Machine’.” – aggiunse la donna.

Una decina di uomini camminava sul corpo grande come un palazzo di quindici piani, sommerso da scintille di saldature, marchi dell’esercito russo e grossi cavi di trasmissione che si innestavano direttamente all’interno della gabbia toracica sollevata: una corazza pettorale aderente a quello che somigliava a un seno femminile era divisa in due, rivelando una sfera di titanio collegata a spessi tubi simili ad arterie ventricolari. Le braccia esili dalle piccole dita acuminate erano rivestite da un’armatura e due piccoli scudi rettangolari sugli avambracci; lunghe gambe terminavano in piedi appuntiti e dai tacchi metallici incredibilmente alti. La testa del gigante, o gigantessa, era chiusa in un elmetto dal visore trapezoidale del colore all’ametista; due presumibili antenne si estendevano ai lati della testa, come eleganti piume di cigno nero. Piume nere come le lamine di metallo che ricoprivano i fianchi dell’unità.

“È gigantesca…” – fu l’unica cosa che Nat riuscì a mormorare.

“È il nostro asso nella manica.” – continuò Asimov, solenne – “La più potente arma di cui disponga il nostro Paese.”

“Quelle sono un paio di tette?” – domandò a caldo Miša cercando di mettere a fuoco il torace della Machine. Quel giorno sembrava proprio che provasse gusto a dar motivo all’amica per colpirlo.

Ignorando il patetico commento, la dottoressa Asimov continuò:

“È un’arma senza precedenti. Il sistema di interfaccia simbiotica collega l’apparato neuro-motorio del pilota con quello della Machine, rendendo la riflessività di entrambi praticamente una cosa unica.”

“Sono più di trent’anni che tentiamo di attivarla, ma sussistono troppi problemi sistematici.”

“Trenta, ha detto? Possedete questo robot da così tanto tempo?” – Miša non aveva mai sentito parlare di qualcosa del genere e il fatto che non si fosse mai attivato suonava ancor più assurdo.

“Quando lo avete costruito?” – incalzò la ragazza.

La dottoressa rivolse per un attimo un’occhiata incerta al padre senza dare una risposta: “Beh…ecco…”

 

Un allarme si levò dall’alto della sala, prima lieve e poi assordante, zittendo ogni altra voce.

 

“Cosa succede?!”

Il Capo-Dipartimento aggrottò la fronte: “Un’intrusione nell’area.”

 

*   *   *

 

All’esterno del laboratorio di ricerca, nel cielo oltre le nuvole, due piccoli punti neri volteggiavano in formazione. Chiunque li avesse avvistate avrebbe potuto gridare ai ‘dischi volanti’.

Planarono fino a pochi metri da terra, quando i motori primari si spensero e i repulsori inferiori ne rallentarono la discesa, spianando l’erba sottostante ed estendendo i carrelli d’atterraggio. Si posarono con uno sbuffo di vapore.

 

Allarmato, un drappello di guardie armate accorse fuori da un casolare dell’accampamento, puntando le armi contro le navicelle. Con un sibilo, un portellone si aprì nella carlinga, estendendo una scala.

Tre uomini e un automa emersero lentamente da ciascuno dei velivoli: indossavano impermeabile lungo fino ai polpacci, elmetti neri ed inquietanti maschere respiratorie. I robot che li seguivano somigliavano a grossi animali notturni, alti oltre due metri e ricurvi sulle gambe innaturalmente articolate al contrario all’altezza del ginocchio; piccole teste meccaniche sormontavano gli ampi toraci, scrutando l’ambiente tramite sei minacciosi sensori rossi. Avanzavano compatti, senza mai lasciare scoperto un settimo uomo, più giovane degli altri, in divisa nera e dagli occhi nascosti da una mascherina. Un soldato al posto di vedetta notò anche che il giovane ufficiale portava alla sinistra della sua cintura un oggetto molto lungo, come un fodero di spada argentato. Un’arma insolita, per quell’epoca.

Due guardie del laboratorio mossero un passo avanti, puntando con più insistenza i fulminatori contro e inveendo una qualche offesa nella loro lingua. I Nazisti si fermarono, bisbigliarono tra loro in una strana variante di Tedesco e poi si fecero da parte per lasciar parlare il giovane al centro.

“Sono Zeitland Dietrich, Oberstleutenant del Quarto Reich.” – si presentò in perfetto Russo – “Confermate che è questo il Campo di Ricerca Militare N-71, della prefettura di Baksheevo?”

“Questa è un’area riservata sotto la protezione delle Nazioni Unite. – il capo della sicurezza si fece avanti, con le mani sui fianchi – “Siete invitati ad abbandonare la zona.”

“Ho ordini di accertamento per quest’area.” – continuò Zeitland, senza batter ciglio.

“Accertamento? E di cosa?” – rispose il capo della sicurezza.

 “Questo dovrete dircelo voi. Io devo solo fare rapporto.”

“Noi però non ne sappiamo nulla, qui.” – ribatté il soldato – “Per quanto mi riguarda non potete muovere un solo passo di più, senza un mandato internazionale.”

“Ho l’autorizzazione del Mond-Kaiser e l’attuale Convenzione di Ginevra delle Nazioni Unite non vieta questa mia visita.” – la voce del Cavaliere Nero iniziava a venarsi di una certa suscettibilità. Ma la sua apparente calma e ostinazione irritavano più del dovuto il suo interlocutore, che inveì perdendo le staffe: “Questa è un’rea speciale non soggetta a quella Convenzione. E per quanto ci riguarda il vostro Kaiser per noi vale meno della m-!”

“L’avverto di sopportare davvero poco le mancanze di rispetto.” – la voce di Dietrich congelò quella del soldato – “Aggiungete anche un comportamento ostile e dovremmo rispondere.”

L’intero gruppo Nazista mosse ancora pochi passi.

Il resto delle guardie fremette d’agitazione, imbracciando le armi.

Ancora un passo.

Con la pazienza che saltava in aria come una bomba, il capo delle guardie gridò esasperato: “Al diavolo! Sparategli addosso, non fateli avvicinare!”

Una raffica di proiettili e scariche stordenti si riversò rapidamente dai mitragliatori e dai taser, colpendo di striscio il piccolo plotone nemico prima che i due Nacht Jägers si frapponessero tra loro, difendendoli. I sei soldati Nazisti si strinsero attorno al leader, che sussurrò tra sé con un lieve ghigno: “Wie Schade.[2]

Senza preavviso, uno dei due droidi da battaglia schizzò sulle ruote delle gambe sottili, raggiungendo il capo della sicurezza e, afferrandolo saldamente per la testa potente con un artiglio meccanico, lo sollevò da terra. Il riflesso dei sei sensori ottici rossi s’impresse nell’iride dell’uomo, ora pieno di terrore, e un sibilo nei meccanismi interni del braccio precedette la doccia di sangue e carne sminuzzata in cui esplosero la testa e il torso dell’uomo, sotto gli occhi attoniti dei presenti. Tentando di riprendere lucidità, le guardie caricarono nuovamente i mitragliatori, facendo fuoco quasi alla cieca, mentre l’altro robot saettava oltre il cancello della base, fendendo sferzate. Quattro soldati vennero squarciati all’addome, alla schiena, al torace. Spruzzi di sangue vermiglio macchiarono le corazze dei robot come violenti tatuaggi di guerra e bagnarono il terreno.

Un cielo di piombo, gonfio e malato, si era andato a formare.

“I carri, i carri!” – gridò qualcuno dall’accampamento e tre robusti tank dalla pittura mimetica emersero da uno dei capannoni più interni, facendo fuoco con i lunghi mortai. Un Nacht Jäger fece appena in tempo a voltarsi prima di esplodere come una bomba. Una decina di militari si affacciò dai bassi tetti delle casupole in cemento, sparando contro gli uomini del Reich. Ne abbatterono un paio, ma nonostante sembrassero incassare in pieno i proiettili non sembravano risentirne. Quelle corazze dovevano essere molto più resistenti del previsto.

Il robot nero derapò agilmente, espellendo due piccoli missili dalle braccia. Sibilarono e strisciarono come serpi tra le truppe: uno si schiantò su un edificio secondario, che franò sopra tre uomini; il secondo puntò diritto un carro armato, facendolo saltare in aria. Un terzo carro fece nuovamente fuoco per due volte, annientando anche il secondo Jäger.

 

L’Oberstleutenant Dietrich serrò i denti mentre i suoi uomini iniziavano a venire circondati dalla rimantenente quindicina di guardie del campo-base.

Mentre l’allarme generale continuava ad assordare, sulla cima della collina l’hangar iniziava ad aprire i battenti.

Affiancato dagli ultimi tre della sua scorta, Zeitland mormorò: “Und so sie wollen nicht aufgeben, nicht whar?[3]

Sentiva il cuore iniziare a pulsare più forte del solito, alla sola idea di ciò che avrebbe fatto di lì a pochi secondi.

Sarebbe stata la prima volta, la prima vera Sincronizzazione con la sua sWARd Machine. Non l’aveva mai effettuata se non tramite le simulazioni ideate dal Dottor Stein. Era la sua occasione, il suo momento. Era ora di mostrare a chiunque quanto davvero valesse l’Oberstleutenant Zeitland Dietrich, lo Schwarz Ritter.

Così proferì ad alta voce, stendendo il braccio destro verso il cielo di ferro: “Resonanz der Seele: türme über den Himmel vom Feuer…Fafner!”[4]

E un complicato diagramma alchemico – un sole stilizzato attorniato da sei circoli esoterici – si estese ai suoi piedi per una grande area.

La spaventosa lucentezza cremisi che si levò da esso accecò i presenti.

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Base Golgotha. Luna.

 

Come un presagio di vita passata, una sensazione tagliente e soffocante trapassò il cuore della Siren prigioniera, mozzandole il fiato. Sgranò gli occhi d’ametista verso la vetrata della sua stanza e portò una mano allo sterno.

“È iniziato.” – sospirò senza voce – “È il primo Risveglio.”

Poi lentamente, con voce soave e malinconica, intonò un canto nella Linguaggio dell’Acqua.

E quel suono si fuse allo Spazio e al Tempo.

 

*   *   *

 

Lago Baksheevo. Terra.

 

Una voce melodiosa, vibrata di una melanconica dolcezza, risuonò senza fonte nell’etere.

Il vento aveva cessato di soffiare.

Attonito e confuso, un soldato russo abbassò la sua arma, volgendo gli occhi stralunati alle nuvole: “Questa voce…da dove proviene?!”

 

*   *   *

 

Grande Sala Macchine; Gorgo della Rinascita. Settore-2. Golgotha.

 

Nella sconfinata sala di ferro popolata da megaschermi e ologrammi di analisi, un grafico ondulatorio mostrò due intrecciarsi una spirale di sincronia. Un addetto tecnico ai livelli inferiori gridò all’altoparlante: “Quantenoszillationen beobachtet in der Nähe des Baksheevo See: bestätigten ‘Siren Effekt’![5]

Il canto riecheggiava ovunque, sembrava quasi che venisse da dentro la materia.

Una scienziata del Reich, molti metri più in là, si voltò verso un uomo sull’alto di una predella metallica: “Gegründet Kontakt mit der sWARd Machine 'Fafner': Unit reagiert auf den Anruf![6]

Sulla passerella sospesa sul grande cratere centrale, un ometto . dai folti baffi e dagli arruffati capelli bianchi strinse le dita guantate sul corrimano di sicurezza: “Ach so?! Dunque, ha intenzione di usarla sul serio!”

Il Capo del Dipartimento Tecnico del Quarto Reich e Maestro Ingegnere di Golgotha non era umano, non del tutto. Herr Doktor, che qualcuno aveva voluto il sarcasmo di battezzare “Zwei Stein” – era la Seconda Replica Biomeccanoide del dottor Albert Einstein, Modello a Funzioni Cognitive Complete. Si affacciò dalla balaustra, ordinando ad alta voce: “Beginne Exhumierung Prozess: ӧffnen des Wiedergeburt Wierbel![7]

Nel pozzo centrale ricoperto da un groviglio di enormi tubi e carrucole, una scia di fari giallastri si accese lungo le pareti del condotto, illuminando un’oscurità senza fondo. Con clangore di ferraglia, un sistema traente si mise in movimento: una bara di titanio nero lunga più di cinquanta metri venne riportata in superficie, scorrendo sul sistema di ancoraggio giroscopico. Si fermò in superficie con un violento scossone.

Starte Electroleitung für neuronalen Aufregung!”[8]

Grandi carrelli cingolati si avvicinarono rapidi. Elettrodi spessi tre metri si avvitarono nelle prese esterne del sarcofago con una pioggia di scintille, irradiandolo di una carica elettrica di migliaia di volt.

Eröffnung des Anbar Atanor! [9]

Un sigillo a forma di croce posto sulla sommità del sarcofago esplose con uno sbuffo di vapore e le pareti si dispiegarono in decine di piastre metalliche, rivelando un corpo gigantesco coperto da una corazza rossa e dorata. Tenaglie idrauliche lo sollevarono per le spalle, mettendolo in posizione eretta.

Una distaccata voce di donna confermò: “Infiltrazione sulla reta HAARP effettuata. Machine bereit für den Satellit Transport.[10]

Scorrendo su binari interni, la grande Machine rossa venne trascinata al centro di una piattaforma di trasporto nella sala successiva e due anelli di ferro vennero calati come una gabbia. Un pulviscolo luminoso iniziava a formarsi intorno al gigante, intensificandosi. Infine, il dottor Stein gridò con quanta più voce concessagli dalle sue vecchie corde vocali sintetiche: “Steins Gatter: übertragung![11]

Il canto della Siren si fuse al sibilo acuto lanciato dai due, percorsi da immense quantità di energia, e l’Unità si scompose in particelle sub-atomiche.

 

Il flusso di fotoni venne trasportato lungo le tortuose condutture della base, attraversando diametralmente la Luna fino alla Grande Parabola di Trasmissione in superficie. L’energia risalì la torretta, la parabola si orientò rapidamente verso la Terra e un fascio di energia scarlatta venne sparato come un laser a velocità-luce. Attraversò la distanza Luna-Terra come una freccia, colpendo in pieno i pannelli solari di un grande satellite in orbita. Le celle fotovoltaiche solari si incendiarono di energia fin quasi alla liquefazione, mentre il fascio di luce veniva deflesso altrove, colpendo e rimbalzando su altri satelliti lontani centinaia di chilometri l’uno dall’altro, disegnando una lunga scia spezzata di luce rossa nell’orbita terrestre. Infine, piegò in direzione del pianeta, trapassando un ciclone in alta Atmosfera.

 

*   *   *

 

Baksheevo.

 

 

Oltre le nuvole, dove l’occhio fatica ad arrivare, un punto di luce rossa si tramutò in una colonna di luce, squarciando le nubi e schiantandosi al suolo, proprio sopra il giovane Ufficiale delle SS, con un frastuono assordante che fece incrinare la terra come in un terremoto. L’onda d’urto si spandé per tutto il lago.

Il canto soprannaturale che veniva dal nulla crebbe di intensità.

Nella nube di fiamme e fumo nero dell’impatto baluginarono scintille accecanti e per un momento qualcuno fu certo di scorgere, nelle forme assunte dalle vampe voluttuose, un’ala e una testa di drago. Poi, lo Spazio-Tempo stesso si incrinò come uno specchio, esplodendo attraverso le dimensioni: un varco di ampi e complessi ingranaggi a orologeria si aprì davanti ai presenti atterriti.

 

In un caos di luci cromatiche e flussi di tessuto dimensionale iridescente, il corpo di Zeitland Dietrich sembrava cadere verso l’alto di quell’abisso meraviglioso; gli abiti stessi parvero ardere di un fuoco freddo e bluastro, mentre il ragazzo avvertì una sensazione di pienezza e vigore per ogni cellula del suo Io.

“Questa…” – ansimò, con la voce strozzata dalle emozioni impetuose – “…è questa la Risonanza?! È una sensazione incredibile!”

Dolore, passione, esaltazione, rabbia, potere. Era indescrivibile.

 

Qualcosa emerse dalla cornice di meccanismi temporali. Un braccio ricoperto da una spigolosa armatura rossa si solidificò dal fuoco. Due cascate di gas incendiato si riversarono al suolo, evaporando e rivelando lunghe e sottili gambe rivestite da un’armatura scarlatta e bianca, incisa con frasi dorate in una lingua sconosciuta. Nonostante i piedi del gigante fossero sottili e appuntiti e i tacchi che li sorreggevano fossero solo lunghe lamine di acciaio affilato, il peso che scaricano al suolo distrusse grandi zolle di brughiera. Un nugolo di fiamme rigonfie lasciò il posto a una piastra pettorale bianca e ora che copriva un piccolo torso e grandi vampe sulle spalle del gigante scivolarono su spallacci dagli enormi speroni. La schiena, irta di spine, si inarcò tra i lapilli e il gigante sollevò il cranio, chiuso in un alto elmo rosso da lunghe corna dorate. Dalle fessure della maschera bianca e zannuta che copriva il volto della Machine, due sottili occhi organici splendettero di un azzurro terrificante.

 

Pareti e specchi circolari si serrarono intorno al Meister del grande robot-drago, creando un abitacolo di guida sferico. In assenza di Gravità, il corpo nudo di Zeitland venne accerchiato da ologrammi di rune misteriose e incomprensibili, disposte ad anello. Grafici e finestre semi-trasparenti si aprirono nell’abitacolo, le cui pareti piene di iscrizioni confuse rivelarono presto una visione completa del panorama circostante.

Il giovane prese un lungo respiro e tentando di trattenere il flusso di vitalità che ora gli scorreva in corpo, recitò la formula d’attivazione:

Startvorgang der erstmaligen Aktivierung. Ionisieren Mercury-D und träge Unterdrückung der Flamels Zimmer. Neuronale Verbindungen, Atmung, Stoffwechsel, Reflexivität: alle gesetz. Doppelgӓnger Rate-Synchronisation: 45%. Mental Kontamination von default: das Oreikhalkos Siegel ordnungsgemäß funktionieren. Energie VRIL: stetig.”[12]

Poi spalancò i taglienti occhi azzurri: “Sternschnuppe Drachen-sWARd Machine: Faner; gezӓhmt![13]

La grandiosa macchina da guerra lanciò un ruggito agghiacciante, che si andò a fondere con le ultime note del canto della Siren.

Questa era la vera forma dell’energia delle stelle.

Era l’essenza della potenza, lo spirito della forza.

Era la bellezza e la ferocia, la nobiltà e il terrore.

Era la passione e la Vita, l’ira e la Morte.

Questa era la vera natura di una sWARd Machine.

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “Macchina da guerra spaziale ‘Haunebu Mk-7’ in rampa di lancio. Apportare correzioni di rotta; distanza dalla Terra: 384.403 km.”

[2] Dal Tedesco; lett.: “Che peccato.”

[3] Dal Tedesco; lett.: “E così non vogliono arrendersi, vero?”

[4] “Risonanza dell’Anima: troneggia sui cieli di fuoco…Fafner!

[5] “Rilevate oscillazioni quantiche nelle vicinanze del Lago Baksheevo: confermato ‘Effetto Siren’!”

[6] “Stabilito contatto con la sWARd Machine ‘Fafner’: l’Unità reagisce al Richiamo!”

[7] “Iniziare processo di riesumazione: apertura del Gorgo della Rinascita!”

[8] “Avviare l’Elettroconduzione per l’eccitamento neurale!”

[9] “Apertura del CyberCasket!”

[10] “Posizionamento armatura secondaria completato! Machine pronta al Trasporto Satellitare!”

[11] “Steins Gatter: trasmissione!”

[12] “Iniziare procedura di attivazione iniziale. Ionizzare il Mercury-D e soppressione inerziale della Camera di Flamel. Connessioni neural, respirazione, metabolismo, riflessività: tutto regolare. Tasso di Sincronizzazione Doppelgӓnger: 45%. Contaminazione mentale nel default: il Sigillo di Oreikhalkos opera correttamente. Energia VRIL : aumento costante.”

[13] “sWARd Machine–Drago Stella Cadente: Fafner; domato!”

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Capitolo 6
*** Capitolo 4: Dono di Dio ***


4.

Dono di Dio

 

Il corpo di Zeitland Dietrich era sospeso nella Camera di Flamel senza alcun peso. Così accerchiato da tutti quegli strani ologrammi runici e dalle schermate d’analisi, quasi non prestava attenzione alla strana sensazione che la sua nudità gli procurava. Piuttosto sentiva ribollirsi il sangue nelle vene, una percezione di forza e potere mai avvertita che permeava ogni fibra del suo corpo.

“E così è questo ciò che significa sincronizzarsi con una Machine?” – strinse un paio di volte il pugno sinistro, ammirando estasiato l’enorme mano robotica ripetere il gesto – “È incredibile.”

Rivolse gli occhi alla vallata: ovunque scorressero le sue pupille due piccoli puntatori le seguivano sugli schermi, identificando ogni elemento della visuale, e per un attimo si posarono su un soldato stremato al suolo dal viso deformato dal terrore, intento a balbettare qualcosa ad una trasmettente.

“Non ho tempo da perdere con insetti come te!” – e allungò la vista oltre. Con una mano tesa in avanti ruotò una finestra di zoom, avvicinando la visuale fino a pelo d’acqua.

Una spia d’avvertimento si accese sullo schermo, puntata sul fondo del lago. Zeit mormorò aggrottando la fronte: “Che cosa volete nascondere, laggiù?”

Strisciando ferito sul terreno, il soldato russo gridò disperatamente al telefono: “Passate alla contraerea! Non permettetegli di localizzare il laboratorio!”

Sulla sommità dei due colli più elevati, la copertura degli hangar di vedetta si ritirò e sei caccia-jet decollarono a grande velocità. Allo stesso tempo, torrette armate, prima mimetizzate, si sollevarono dal fitto della boscaglia, puntando bocche di mitragliatori verso l’intruso. Fafner mosse pesantemente un passo in avanti, prima che il suo Meister si accorcorgesse dei nuovi avversari: “Ce ne sono altri?”

A bordo degli aerei dalle lucide fusoliere grigie, il caposquadra ordinò un comando in russo e otto missili vennero sganciati dalle ali. Scivolarono nell’aria, tracciando lunghe scie di fumo. Fafner portò avanti il braccio sinistro e una vampata si originò dal nulla; avvolse il braccio e si ritirò, lasciando il posto a un enorme scudo affilato dalla forma di fiamma. I razzi lo colpirono ed esplosero senza arrecare danno.

“Avete scelto male.”

In risposta ai suoi ordini quasi inconsci, la Machine preparò una nuova configurazione di guida, mentre una copia olografica dei di decollo si materializzò intorno alle sue caviglie.

Fafner si piegò sulle ginocchia e due piccoli reattori sotto le coperture dei piedi fecero ardere un combustibile sconosciuto. Con un cupo brontolio, la sWARd Machine balzò in alto e il vuoto d’aria creato compresse il terreno in una voragine.

Con un unico gesto, Fafner sfoderò una lunga spada a due mani da un anello alchemico formatosi dal nulla e poi si fermò bruscamente; due aerei si immobilizzarono e un taglio netto e incandescente li divise a metà. Zeit teneva ancora gli occhi fissi sull’orizzonte di nubi di ferro, quando ansimò con un mezzo ghigno di soddisfazione: “Erste…![1]

 

*   *   *

 

Livello -5; laboratorio di Baksheevo.

 

Sordi echi di esplosioni rimbombavano fino alle profondità del lago, facendo tremare la copertura di vetro rinforzato dell’avamposto sotterraneo.

Nella confusione generale che si era formata ai piani bassi, un ansioso ometto in divisa si era precipitato al cospetto del dottor Asimov.

“Signore...sono loro!” – aveva boccheggiato, madido di sudore.

Nonostante fosse già certo della risposta, l’anziano ingegnere sperò di sentirsi venire smentito: “Chi?!”

“I Nazisti!” – sputò tutto d’un fiato il soldato semplice, quasi come fosse il suo peggior incubo – “E hanno anche un...una…insomma, uno di quei affari!

E puntò l’immobile gigantessa nera alle sue spalle. Ekaterina si irrigidì: “Hanno davvero…?”

Miša sentì un brivido corrergli lungo la schiena: per quanto fingesse di essere pronto alla guerra restava pur sempre un cadetto e ora l’idea che dei soldati nemici potessero trovarsi qualche metro proprio sopra la sua testa lo terrorizzava.

“Hanno anche loro quei bestioni?!”

Improvvisamente, una fitta trapassò il cuore di Nataša.

Era più profonda dello sgomento, ma meno intensa del terrore.

Era angoscia. Il totale spaesamento che le strinse la gola come una morsa. Indietreggiò di un passo, come se quelle stesse parole potessero ferirla, e portò una mano tremante alla bocca: “Nazisti? Qui?! Non può essere…”

 

*   *   *

 

Superficie del lago.

 

Quattro torrette balistiche facevano inutilmente fuoco dai mitragliatori contro lo scudo dell’enorme umanoide in armatura rossa, ancora in cielo. Tre caccia di classe Sukhoi T-80 sganciarono sei missili a ricezione.

Zeit tirò a sé una falsa leva di luce e di risposta Fafner retrocedette alla cieca, eseguì un rigido spostamento verticale, uno trasversale e verso il basso e infine uno scatto frontale. Nuovamente i missili mancarono il loro obiettivo, esplodendo a vuoto. Gli uomini alla guida di quei trabiccoli non avevano idea di cosa dovesse essere un combattimento aereo – pensò il giovane – e di certo non comprendevano con chi avevano a che fare.

Lui era Zeitland Dietrich: il gelido Cavaliere Nero del Quarto Reich, l’Asso dell’Aviazione Lunare. Il Meister della grandiosa sWARd MachineFafner’.

Digrignando i denti dalla tensione, Zeit caricò e affondò il pugno sinistra nell’abitacolo a zero-Gravità e la Machine ripeté il gesto con il grande e affilato scudo. Due caccia non fecero in tempo a deviare rotta prima di venire travolti, esplodendo.

Troppo veloce per rallentare, l’Unità dello Schwarz Ritter continuò a precipitare verso le torrette nella boscaglia e altri due aerei la sorpassarono in senso opposto sfiorandone la corazza, fin quando il suo pilota non serrò con più forza possibile i pugni, intimando alla Machine di arrestarsi. I reattori delle gambe si invigorirono, spazzando via gli alberi della collina e fondendo una torretta, che venne poi schiacciata dall’atterraggio del gigante. Zeitland sollevò di scatto la testa: i sottili capelli biondi si scomposero in assenza di gravità assieme a gocce di sudore. Semplicemente pensò di voler raggiungere quegli ultimi due T-80 che ancora lo intralciavano. Gli serviva un’arma adeguata a coprire certe distanze e il suo Fafner lo accontentò: le otto aculei disposti in corrispondenza delle vertebre dorsali si allungarono in fruste meccaniche. Si agitarono, si inarcarono e poi si estroflessero come tentacoli intelligenti.

I due caccia salirono di quota nel vano tentativo di evitarli, mentre le code del Drago schioccavano e serpeggiavano agili e veloci attorno a essi, intrecciandosi e piegandosi rabbiosamente in un contorto gioco di ramificazioni. Un areo e ne rimase trafitto, ma la sua esplosione si perse nella confusione della mischia. L’ultimo T-80 riuscì a sfuggire e il suo pilota ebbe per un istante l’illusione di essere salvo, prima di ritrovarsi la visuale invasa dall’enorme volto di Fafner. Quegli occhi azzurri simili a quelli di un uomo, dietro a piastra facciale priva di altri lineamenti…quella finta mascella prognata irta di zanne…

Per riflesso condizionato, il pilota russo serrò le dita sui comandi, scaricando a vuoto gli ultimi quattro missili dell’areo, che precipitarono nel lago. L’ultima cosa che videro i suoi sensi percepirono fu il palmo gigante artigliato della Machine calare su di lui e un sibilo acuto provenire da un foro posto al centro della mano di metallo e fibre muscolari. Un potente getto di energia rovente come una fornace solare esplose dal palmo, illuminando la plumbea oscurità di quel giorno che già volgeva alla sera.

 

*   *   *

 

Livello -5; laboratorio.

 

Quando i primi quattro missili dispersi in acqua raggiunsero la copertura del laboratorio, una forte esplosione ne scosse le fondamenta. Ma quando anche l’onda d’urto dell’ultimo attacco di Fafner si propagò per il lago, le luci sfrigolarono e il soffitto di vetro si incrinò in più punti. Una delle lunghe e pesanti lampade al neon della sala si staccò dai tiranti, crollando sul pavimento. Per Nat, l’attimo che precedette lo schianto sembrò durare molto più a lungo: le gambe le tremarono per la scossa sismica; quella trave di metallo che ora le cadeva con innaturale lentezza addosso le paralizzò ogni volontà e le suggerì che quella sarebbe stata la conclusione della sua vita breve ma abbastanza ironica da concludersi il giorno del suo compleanno.

Poi…

Il corpo di qualcuno la investì con forza, ghermendola in una stretta e gettandola al suolo.

Uno schianto di lamiere sul pavimento e un crepitio di scintille.

Un generale schiamazzo di voci allarmate e grida di paura.

Restò per un attimo stesa sul pavimento freddo – gli occhi serrati il più possibile e le mani contro il volto – mentre delle braccia forti ma gentili continuavano a stringerla.

Lentamente schiuse le palpebre, mettendo a fuoco la scena capovolta che le si offriva dalla sua posizione: dappertutto cavi elettrici spezzati scoppiettavano pericolosamente e l’acqua del lago iniziava a filtrare copiosamente da alcune incrinature apertesi nel soffitto. Voltò appena la testa e il primo viso familiare che incontrò fu quello malconcio e atterrito di Miša. Il ragazzo la guardò con quei suoi occhi affranti e le chiese: “Stai bene?”

Stare bene? Come poteva ‘stare bene’ dopo aver sbattuto con forza la testa contro il pavimento, a seguito di un’esplosione?

Come poteva anche solo lontanamente avvicinarsi al concetto di ‘bene’, quella situazione? Ma quel ragazzone dalla faccia impaurita si meritava una rassicurazione quasi più di lei, non fosse altro per l’averla coperta con il proprio corpo. Con la poca forza di volontà che trovò, mentì: “Sì…grazie.”

 

Notarono che una piccola folla di persone si era radunata accanto alla grande lampada crollata e faticavano a sollevarla. Quando li raggiunsero, Nat fu colta da un tale senso di orrore che non riuscì a trattenere un grido: steso al suolo e riverso in una pozza di sangue giaceva l’anziano dottor Asimov, il cui corpo trascinato da sotto i detriti aveva disegnato un’irregolare via di sangue. Miša fissò la scena impietrito, mentre nello stomaco di Nataša iniziava ad agitarsi una bile acida. Non aveva mai visto un uomo ridotto in fin di vita, i suoi piedi non erano masi stati lambiti da sangue umano e più di tutto non era mai stata partecipe di un massacro.

Ekaterina Asimov si gettò a terra – il camice immacolato ora intriso di rosso – accanto al corpo agonizzante del padre senza nemmeno riuscire a toccarlo. Lacrime calde già le scioglievano il trucco e le sue labbra tremavano incontrollate: “No…papà…no…sta’ calmo, respira…”

L’uomo la guardò con occhi carichi di dolore e sofferenza – ben più profonda del dolore inflitto dalle ferite – e tentò di articolare una frase: “Tesoro mio…devi…”

Poi una serie di colpi di tosse gli strozzarono la voce; del sangue fuoriuscì dalla sua gola.

“No, non devi parlare!” – lo scongiurò la figlia.

Nataša gridò di disperazione, voltandosi in cerca di qualcuno: “Vi prego, qualcuno ci aiuti!”

“No…lascia stare.” – sussurrò ancora l’uomo, con un fil di voce – “Nat…vieni qui.”

Lei si inginocchiò in silenzio; gli occhi sgranati e la gola stretta.

 scienziato si sforzò di allungare una mano verso la sua guancia, sfiorandola appena: “La Machine…prendi la Machine.”

Nat lo guardò sconcertata, come se di tutti i pensieri possibili quello fosse proprio il meno opportuno: “Che cosa…?”

“Quella Macchina…” – ripeté l’uomo – “…sei l’unica…in assoluto.”

“Papà, ma cosa stai dicendo?!” – lo interruppe sua figlia, quasi innervosita da tanta inutile caparbietà – “Non c’è modo in cui questa ragazzina possa combattere ora!”

“Non è così.” – Asimov iniziava a sentire le sue palpebre chiudersi inesorabilmente – “Puoi riuscirci…devi riuscirci.”

Sostenne ancora la mano lungo il viso di quella ragazza dagli occhi stravolti: “Nataša…tu sei un dono di Dio.” E poggiò la testa al suolo.

“Insomma qualcuno ci aiuti!” – gridò esasperato Miša, mentre due uomini di servizio già iniziavano a caricarsi il corpo pesante del professore. Qualcuno gridò che il soffitto stava per cedere e che le esplosioni iniziavano a farsi più precise.

 

Nataša rimase inginocchiata, con le mani a tapparle le orecchie.

Non poteva credere a ciò che stava succedendo, non poteva accettare ciò che aveva appena sentito, non voleva udire il mondo urlare tutto intorno a lei. La dottoressa aveva ragione: non era in alcun modo possibile che riuscisse a manovrare quel robot. Il segreto del lago, il gigante sotterraneo, la morte di quelle persone, l’attacco dei Nazisti: quello che doveva essere un giorno lieto si stava trasformando in una mostruosità impensabile. E in tutto questo lei era lì: lì dove quasi nessuno dovrebbe essere, lì dove suo padre aveva accettato di mandarla, lì dove chiunque non si era fatto troppe domande sul suo conto. Non poteva trattarsi di un caso: tutta quell’orribile svolta di eventi doveva riguardarla in qualche modo. Ma come rendersi utile? Non era possibile ma avrebbe dovuto. E se fosse morta? Lei era nata per ballare, non per combattere. Ma se non lo avesse fatto, se non avesse neanche provato pur sapendo che l’ultimo pensiero in vita di quell’uomo era stato rivolto a lei, come avrebbe mai potuto guardarsi allo specchio, ammesso che fosse sopravvissuta?

 

Ekaterina Asimov tentò di ingoiare il groppo alla gola che aveva e di riguadagnare lucidità, sollevandosi in piedi e ordinando a un drappello di uomini: “Non possiamo rimanere qui! Evacuate il laboratorio e poi avviate l’autodistruzione! Priorità alla sWARd Machine: non permettetegli di recuperarla!”

“No!” – gridò Nat, alle sue spalle. La donna si voltò a fissarla.

Nataša si era alzata in piedi, sotto gli occhi attoniti dell’amico; strinse un pugno e arricciò le labbra nel tentativo di trattenere le lacrime; i suoi grandi occhi azzurri si erano incupiti in una smorfia di collera: “Salirò io a bordo della sWARd Machine!”

“Cosa?!” – la rimproverò Miša – “Nat, sei fuori?!”

“Dottoressa, la prego, mi permetta di salire a bordo di quel robot!” – ripeté con ancora più forza.

Lei si voltò dalla parte opposta, serrando i denti: “Non posso. Sei praticamente una ragazzina, sarebbe un suicidio inutile.”

Le ho detto di prepararmi all’uscita!” – la ragazza si rese conto che le stava gridando contro – “Se suo padre voleva che fossi io a entrare lì dentro…allora devo almeno provare!”

Un interminabile silenzio.

La figlia del dottor Asimov la fissò a lungo e Nat si chiese cosa stesse pensando, su quali basi avrebbe accondisceso o meno. “D’accordo.” – annuì d’un tratto, senza ulteriori spiegazioni – “Faremo a modo tuo.”

Si voltò verso i tecnici abbarbicati sulla gigantessa nera, intenti nel disinstallarla: “Cambio d’ordine! Procedere al collaudo diretto dell’Unità! Preparare il pilota d’emergenza a salire nella Flam-ber!”

La sala macchine riprese con incredibile zelo le sue funzioni, tentando di affrontare contemporaneamente le difficoltà nel rallentare le perdite del soffitto e dei cali di tensione. La dottoressa Asimov accompagnò Nat lungo l’alta piattaforma di ingresso all’abitacolo, riducendo concitatamente anni di ricerca in poche frasi: “Nat, ora tenta di memorizzare ciò che ti dirò: quando salirai a bordo dell’abitacolo entrerai in contatto con un liquido chiamato ‘Mercury-D’; il suo scopo è aumentare la tua sensibilità per interfacciarti con l’Unità sWAn. Ammesso che funzioni sarebbe la sua prima attivazione, di conseguenza non abbiamo armi da passarti in battaglia.”

“E quindi cosa dovrei fare?” – chiese sempre meno convinta.

“Prendere tempo. Difenderti, magari, ma non ingaggiare una mischia: ne usciresti di certo sconfitta. Cerca solo di convincerlo a demordere.”

Raggiunsero la fine della predella; la sfera di titanio che emergeva dal torace aperto della sWAn attendeva un pilota. La donna guardò ancora Nataša: “Non c’è bisogno di alcun comando meccanico, il sistema di interfaccia diretta si basa sulle tue onde celebrali. Pensi di ricordare tutto quello che ti ho detto?”

“I-io credo di sì…” – pessima bugiarda.

“Bene, perché quando sarai là fuori noi non potremmo aiutarti in alcun modo.”

 

Nataša prese un profondo respiro e saltò nella penombra della Flam-ber.

 

*   *   *

 

“Cosa diavolo c’è la sotto?” – Zeit continuava a far scorrere gli occhi sulle decine rilevazioni del fondo lacustre, che si avvicendavano sugli schermi della sua cabina di guida. I grafici a raggi X si facevano sempre più definiti, finché la sagoma e allungata di un oggetto molto grande a venticinque metri di profondità iniziò a delinearsi vagamente.

“Ma quella non sarà…?”

 

*   *   *

 

Nataša atterrò su quello che avvertì come il fondo concavo dell’abitacolo e udì il pesante portellone ritirarsi nella gabbia toracica, quindi chiudersi ermeticamente con una serie di scatti.

Nel totale buio della cabina sentì affluire un suono acquoso, mentre un in un liquido freddo e vischioso le lambì le caviglie.

Ma cos’è? – pensò un po’ allarmata – Mercurio?

 

Contemporaneamente, i grandi anelli di contenimento della Machine iniziarono a scorrere verticalmente lungo il corpo. Gli altoparlanti della sala macchine erano solo un’accozzaglia di voci sovrapposte.

“Avviare sequenza d’attivazione; scansione biogenica dell’Unità in corso.”

“Registrazione e tuning delle onde celebrali della pilota in corso; configurazione psicometrica completata; restrizioni di sicurezza affidate all’Oreikhalkos.”

“Impostare le funzioni di guida sul modello a bassa scambiabilità; priorità all’incolumità della pilota.”

“Livelli di tossicità psichica e biochimica in percentuali non significative; le funzioni della Flamel’s Chamber sono operative.”

“La tensione elettrica d’accumulazione ha superato il punto critico: procedere con l’avvio per Elettroconduzione.”

Il corpo metallico del robot fu percorso da intensi archi elettrici bluastri, sollecitando ogni fibra muscolare. Sotto il visore d’ametista si accesero due sottili orbite oculari.

 

“A tutto il personale: pronti ad abbandonare il Livello! Arma Umanoide ad Interfaccia Diretta, Unità Biomeccanica per le Operazioni Militari Speciali…” – la dottoressa Asimov sperò in cuor suo che la decisione di impiegare un’arma che non aveva intenzione di muoversi da trent’anni, e in più con una civile come cavia, non equivalesse a un tentativo kamikaze – “…attivazione!

 

Una luce rossastra si accese nella Flam-ber, rivelando a Nat le pareti a specchio che la circondavano. Il liquido argentato che riempiva il fondo prima si irrigidì in una lastra compatta che le imprigionò i piedi e una serie di iscrizioni luminose in una lingua sconosciuta si accesero sulla lucida superficie. Nat rimase attonita a guardare alcuni grossi globi di Mercury-D staccarsi dal resto e iniziare a levitare verso l’alto. Non ebbe tempo di lasciare andare la poco elegante esclamazione a cui aveva pensato.

 

*   *   *

 

Una luminosità sovrannaturale color magenta squarciò il buio delle profondità del lago. Come sospinta dalla mole di un mostro marino, la superficie dell’acqua si incurvò notevolmente e poi esplose con violenza. Una torre di plasma si innalzò fino alle nubi, accerchiata da strani circoli alchemici, si deformò e poi si dissolse in una tempesta di quelle che potevano essere definite piume di cigno, nere come l’inchiostro. In quel turbine nero, la slanciata sagoma della Machine russa s’intravedeva appena.

 

Le pareti della cabina, il mondo esterno, lo Spazio e il Tempo: tutto si dissolse e perse consistenza, attorno a Nataša. Al loro posto, un vortice di colori d’aurora che trascendeva le dimensioni catturò il corpo della ragazza, gettandola in un abisso di indescrivibile bellezza; ovunque danzavano disegni confusi di una lingua dimenticata e fiamme di luce gelida divorarono i suoi abiti. La ragazza strinse le braccia al petto – il suo cuore batteva di una forza mai provata – mentre confuse emozioni suonavano le corde del suo animo.

“Queste sensazioni, quest’energia…da dove provengono? È meraviglioso!” – il calore e la vibrazione che le pervasero il corpo la fecero gridare di puro piacere, misto a vertigini. Udì una musica intensa e veloce, uno stridore di violini: era la sua anima che risuonava nel cuore dell’ignoto.

Anelli di rune luminose le circondarono il seno, i fianchi e le braccia, mentre perfino gli schermi dell’abitacolo tornarono a descrivere uno spazio fisico.

L’eleganza dello spazio, il mistero della notte.

La bellezza del cristallo e la rarità di un cigno nero.

Una nuova sWARd Machine si era risvegliata.

Si ritrovò spoglia e sospesa nel vuoto dell’abitacolo di guida; il Mercury-D sembrava essere scomparso, nonostante fosse certa si trovasse ancora lì.

“Questa sarebbe la cabina di guida?” – si chiese davanti a quella serie di schemi incomprensibili – “Ma non c’è neanche una leva!”

Poi si rese conto di essere completamente nuda e con un moto d’imbarazzo non proprio opportuno strinse braccia e ginocchia, tentando di coprirsi.

In lontananza, la sagoma slanciata di una Machine rosso sangue si voltò nella sua direzione.

“Così è quello l’aspetto dei nostri nemici?”

 

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “I primi…!”

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Capitolo 7
*** Capitolo 5: Congiunzione ***


5.

 

Congiunzione

 

Gli indicatori di Energia VRIL all’interno del Fafner erano raddoppiati, attorniando la ripresa della nuova Macchina nera.

“Una reazione VRIL? Quella sarebbe…un’altra sWARd Machine?!” – la sorpresa poco gradita lasciò Zeit più stupefatto che intimorito – “Dunque anche la Russia ne possedeva una!”

L’idea lo infastidiva, preoccupava e al tempo stesso esaltava: alla sua prima vera missione sulla Terra aveva già scatenato una battaglia tra Divinità Metalliche, come le chiamava il Kaiser. Ma lui era il Cavaliere Nero, era il miglior Meister al mondo, e combatteva per il Reich. Tutto il resto era d’intralcio.

Piegò le gambe e incurvò il busto come un felino pronto a saltare:

“Non ho idea di chi ci sia a bordo, ma in ogni caso non posso permettere che resti in piedi! Vorbereitet, gesichtslose Meister![1]

E il cyborg gigante scattò in avanti, sradicando alberi e terra.

 

Un’ansia nauseante inavse Nataša nel vedere l’inesorabile approssimarsi dell’avversario, mentre tentava di studiare in fretta e furia ciò che riempiva l’abitacolo: “Stamina, libido, sincronia… non ci capisco niente! La dottoressa aveva solo detto di…!”

Pensava troppo lentamente.

I piccoli e minacciosi occhi azzurri di Fafner riempirono lo schermo frontale del suo abitacolo. Quel colore intenso le s’impresse nel cervello.

La investì con tutto il corpo. La Machine nera venne sbalzata all’indietro, rotolando rovinosamente al suolo per decine di metri.

Nataša sentiva tutto il suo corpo rivoltarsi con violenza come quello della sua stessa Unità, mentre arbusti e rocce sembravano schiantarsi sulle pareti della Flam-ber. Sapeva che quella cabina era protetta dalla gabbia toracica del suo robot e che non avrebbe ceduto facilmente, ma ogni singola sollecitazione di quella macchina infernale veniva assorbita e amplificata sulla sua stessa pelle. Pensò istintivamente di voler frenare quella caduta e le dita affilate della gigantessa nera si conficcarono al suolo. Nat si portò una mano al cuore: batteva all’impazzata.

“Il dolore…perché sento tutto questo dolore?!” – ansimò con voce spezzata.

La Macchina-Drago era nuovamente alla carica; la lama della spada falciava gli abeti della radura.

La sWAn nera si rialzò precaria sulle gambe sottili; Nataša non aveva idea di come manovrarla meglio, né di come difendersi. Semplicemente lasciò andare un piccolo gridolino, nella speranza di poter scampare a quel colpo. Sorprendentemente, la sua Machine piegò gli avambracci e poi si lanciò lateralmente: una pantera in fuga.

Fafner affondò a vuoto un fendente, piantando i tacchi nella steppa.

Un respiro di Zeitland rimase spezzato per il rinculo, voltandosi di scatto verso la sua preda mancata: “Wie...?!”

Nat voleva correre, voleva scappare. Non aveva intenzione di combattere, non sapeva come fare. Voleva solo fuggire.

Nell’accelerare il passo, la sua sWAn non faceva altro che incespicare a ogni affondo nel terreno di quegli impratici tacchi acuminati.

Il Luogotenente Dietrich digrignò i denti, pervaso da una collera che sfiorava l’umiliazione: “Vuoi giocare al gatto col topo?! Come vuoi: less’ spielen!”

Ora le due Machines scivolavano sull’aria sorrette solo dai propulsori, sfiorando le acque scure del lago. La spada di Fafner infieriva senza pietà contro gli scudi sulle braccia dell’avversaria, perennemente sollevate a coprirle testa e torso.

Du kannst nicht ewig laufen![2] – gridò Zeit e la sua voce risuonò anche all’esterno del suo robot.

Anche se Nat non aveva idea di cosa l’altro pilota le avesse detto, sapeva comunque che era vero.

“Così non riuscirò mai sfiancarlo! Non posso continuare a scappare in continuazione!” – sentiva che era arrivato il momento di mettere da parte scarpette a punta e cerchietti fermacapelli – “Combattiamo anche noi!

Basta lacrime, basta fuggire. Ora sentiva un nuovo istinto crescere in lei: sopravvivenza.

Le braccia Machine si illuminarono di rune viole e le piastre dell’armatura si fusero in due sottili spade nere. Il filo delle lame brillò d’ametista, sibilando. Rallentò fino a fermarsi a mezz’aria, per poi gettarsi verso il suo nemico in una manovra quantomeno azzardata.

Endlich!” – un sorriso si aprì come un taglio sul viso dello Schwarz Ritter – “Ora possiamo fare sul serio!”

 

Tra i resti del laboratorio militare semidistrutto, quel poco che rimaneva del personale tecnico scortò fuori Miša e la dottoressa Asimov. Qualcuno aveva arrangiato sul terreno un paio di portatili Bluetooth e alcuni rilevatori da campo. Miša rivolse gli occhi verso quei due mostruosi esseri meccanici che si sfogavano l’uno sull’altro con ferocia impressionante: “Lì dentro…c’è davvero Nat?”

Al suo fianco, Ekaterina strinse la catenella che portava al collo: “Le sWARd Machines. Viste da qui sono ancora più spaventose di quanto credessi!”

 

Il clangore metallico delle spade risuonava per le colline di Baksheevo. Scintille sprizzavano ad ogni stoccata, scie di luce sfilavano dalle estremità delle braccia-spade della Machine russa, confondendosi con le lingue di fuoco di Fafner.

Nella Camera di Flamel, Zeitland continuava ad agitare il braccio destro che impugnava una copia luminosa dell’arma; i suoi capelli fluttuavano scomposti nella Gravità-0: “Per quanto tu possa tentare di resistere, sarò io vincere!”

Quando l’Unità di Nataša trovò modo per distanziarsi dal suo avversario, i suoi polmoni poterono finalmente ridistendersi per riprendere fiato. Una perla di sudore le scese lungo la tempia e si staccò, rimanendo sospesa. Era il momento. Strinse il petto nudo in corrispondenza del cuore e con tutto il fiato che aveva in gola…gridò a più non posso.

Le lastre a propulsione che aveva al posto dei polpacci sfrigolarono emettendo uno scintillante pulviscolo bianco e violetto.

Il gigante nero si scagliò e trovò il suo nemico ad accogliere l’invito.

I due giganti metallici sfiorarono appena la superficie del lago. Fafner impugnò a due mani la lunga spada avvolta dalle fiamme; la Macchina nera senza nome incrociò le braccia affilate.

Le lame collisero.

Ci fu un bagliore accecante, per un breve istante: una scintilla più intensa delle altre, una croce di luce che allungò i suoi bracci per centinaia di metri.

Si ridusse a un punto di luce e, con un fragore assordante, una cupola di plasma deflagrò al centro del lago come una bomba atomica. Era terrificante e meravigliosa: una sfera di un blu abissale che risplendeva di milioni di diamanti, come se una Galassia intera vi fosse racchiusa. Il vento impetuoso percosse gli alberi della vallata, sradicandoli e spezzandoli come fuscelli. Le acque di Baksheevo si separarono e innalzarono come un abbraccio intorno all’esplosione.

 

Per un momento, le cabine di guida si annullarono.

Gli schermi scomparvero, la visuale perse di consistenza.

Tutto, dimensioni ed eoni, mutò in qualcosa di indefinito: sembrava di navigare in un fugace attimo d’Universo, irradiato dal fulgore di miliardi di stelle, Nebulose e superstringhe in vibrazione.

E i due Meisters – i corpi nudi resi come pura luce – si videro a vicenda. I loro occhi si incrociarono per un singolo istante in cui miliardi d’anni di vita dell’Universo sembrarono scorrere intorno a loro e dentro di loro.

Era un incontro voluto dal destino. La Congiunzione.

 

La luce dell’esplosione cessò di palpitare e i due umanoidi giganti vennero rigettati diametralmente.

La Machine di Nataša crollò rovinosamente sulla riva del lago, rimanendo stesa con il dorso immerso per metà. La ragazza gemette per il dolore che le attraversò la spina dorsale. Quando riaprì gli occhi, vide l’immensa sagoma rossa di Fafner sovrastarla.

Il robot-drago sollevò un piede e lo piantò con forza sul suo braccio sinistro; la lamina d’acciaio che costituiva il tacco si conficcò nello snodo del gomito, penetrando l’armatura.

Un dolore lancinante le trafisse l’articolazione, mentre il Mercury-D – ora visibile nella sua bizzarra cromatura – iniziò a ribollire in corrispondenza del danno. Nat gridò.

“Non ho idea di chi tu sia, ma non ho intenzione di farti vivere abbastanza per scoprirlo!” – Zeit sputò quelle parole come veleno, fissando trionfante la sua inerme avversaria.

L’euforia della Sincronizzazione gli stava dando alla testa. La sWAn dalle corna dorate sollevò un braccio, puntando la spada verso il volto della gigantessa nera.

La calò con violenza.

In un attimo, Nat vide la sua vita scorrerle nella mente e nell’inconscio chiese perdono alla sua famiglia per non essere stata in grado di abbracciarli ancora una volta. Sentiva l’ultimo alito della Morte e strinse gli occhi, aspettandola.

Ma non arrivò.

Riaprendoli, vide la punta della spada di Fafner puntata a pochi centimetri dalla sua visuale. Ma era ferma, quasi titubante.

Was…?!” – il fiato di Zeit rimase spezzato, nel vedere la sua Machine bloccarsi prima di aver affondato il colpo – “Non ha funzionato?!”

Provò a mimare il colpo con il suo stesso corpo, ma il braccio meccanico non intendeva muoversi di un millimetro.

Verdammt! Perché non vuoi muoverti, Fafner?!”

Per risposta, l’Unità si limitò solo a un brontolio rauco; i sottili occhi azzurri sbarrati e rigidi su quelli della sua vittima.

La mente di Nat incominciava a divenire sempre più fragile: gigantesche armi umanoidi grandi come palazzi, esplosioni e morte ovunque, dolori laceranti che le attraversavano le ossa pur rimanendo illesa. E ora era a un passo dalla morte.

Non importava se quella spada restava sempre là ferma, non importava se quell’abitacolo in cui si trovava poteva essere il luogo più sicuro al mondo. Lei aveva paura.

Paura di smettere di vivere, paura di cessare di provare emozioni, paura di non poter nemmeno dire a suo fratello che lei era più grande di lui avrebbe dovuto smetterla di prenderla in giro, paura perfino di stare facendo tardi alla sua festa di compleanno e chissà se ora i suoi genitori erano in pensiero per lei, se i suoi amici la stava aspettando inutilmente davanti al ristorante o se qualcuno aveva intuito che quel giorno non ci sarebbe stato nulla da festeggiare, chissà se avevano disdetto il tavolo e chissà…

Che pensieri idioti. – le suggerì la coscienza.

Poi ancora la paura.

“Non voglio morire…non voglio…” – piagnucolò in prede al terrore, con gli occhi sbarrati e umidi di lacrime – “…non voglio morire così!

Con un sibilo acuto, gli occhi della Machine nera si illuminarono sotto il visore d’amestica e un laser dello stesso colore esplose verso l’alto.

Istintivamente, Fafner saltò a oltre duecento metri di distanza, ma non abbastanza in fretta da impedire al raggio di segargli di netto un corno. Atterrò pesantemente al centro del lago, con lo squarcio incandescente sull’elmo ancora fumante.

Quella mossa aveva colto il Cavaliere Nero di sorpresa: “La Machine…si è riattivata?!”

Lentamente, la sagoma slanciata del robot-cigno iniziò a sollevarsi sulle gambe; senza nemmeno fare leva sulle braccia, semplicemente aveva inarcato il dorso e aveva puntato i piedi al terreno. Quel movimento unico e dinoccolato le faceva perdere umanità: somigliava più a un rettile o a un insetto.

Sollevò di scatto la testa.

 

Fissando incredulo la scena, Miša biascicò quel poco che riuscì a mettere in fila: “Che cosa sta succedendo al robot di Nat?!”

“Non ne ho idea.” – mormorò Ekaterina Asimov, osservando con la coda dell’occhio lo schermo del suo portatile sciorinare una cascata di codici binari – “Quell’Unità non si era mai attivata prima d’ora, non posso prevedere cosa questo comporterà!”

 

La Macchina nera si piegò sulle ginocchia e distese le braccia. Parve scomparire alla vista. Fafner fu superato con tale sveltezza da causare un vuoto d’aria e Zeit ebbe appena il tempo di rendersi conto di essere stato scavalcato senza poter muovere un solo dito:

“Che velocità incredibile! Da dove viene tutto questo potenziale?!”

La sWAn draconica si voltò appena in tempo per poter riagganciare il contatto visivo: “Non posso lasciarti vincere!”

E con quanta maggior velocità disponibile i vettori meccanici sulla schiena di Fafner si estesero. Fendettero l’aria gelida, inseguendo la Machine che scivolava a pelo d’acqua; serpeggiavano e curvavano pennellate sconnesse di un pittore folle, senza mai raggiungere il loro obiettivo. Poi, con una rigida virata di novanta gradi, l’Unità senza nome tornò indietro.

La rabbia per l’improvviso capovolgimento degli eventi stava facendo ribollire il sangue nelle vene di Dietrich. Era sempre stato volenteroso, zelante e obbediente per il nuovo Reich e e proprio ora che aveva la possibilità di dimostrare il suo valore in un’operazione in solitaria stava perdendo. E lo stava facendo a bordo di Fafner, la stupefacente arma da battaglia della Divisione Schwarz Pik. Era imperdonabile.

Verschwinden für alle mal![3] – gridò con violenza.

Le fruste meccaniche del Drago-Stella Cadente saettarono e schioccarono con veemenza. L’Arma Umanoide che custodiva la giovane figlia di Novikov saltò a un’incredibile altezza.

I Vettori si impennarono, aggrovigliandosi in una matassa inestricabile. Gli schermi dell’abitacolo di Nat mostravano solo un caotico turbinare di tentacoli affilati in ogni direzione, come un tornado che l’avvolgeva interamente. Lei non faceva niente, non ne aveva la forza: si limitava a stringersi il più possibile le ginocchia nude al petto, in posizione fetale. Piangeva e gemeva, mentre decine di grafici sfrigolavano in sovraccarico. Sapeva di non stare pilotando un bel niente: era quella stessa Machine a muoversi di sua spontanea volontà. Lei, semplicemente, non voleva morire.

 

In caduta libera, la sWAn nera si avvità su sé stessa, fendendo con le lunghe spade le code di Fafner a ogni movimento. Si era aperta un varco; il gigante rosso era ora solo a pochi metri da lei. Scudo e lama si scontrarono. Lo spostamento d’aria sollevò una gran quantità d’acqua. Il la gigantessa nera si portò alle spalle del nemico, allungando un secondo colpo. E un altro. E un altro ancora. Cinque, otto, dieci sferzate portate a distanze e altezze differenti, come un alito di vento tagliente che spirava tutt’intorno all’Unità nazista. Riatterrò conficcando braccia e gambe nel suolo: sembrava un ragno.

Si rimise in piedi e distese il braccio destro: ammassi di plasma ametista si condensarono in una grossa e rozza struttura metallica scura: una specie appena abbozzata di cannone, un lanciatore a ingranaggi che sostituiva l’arto fino alla spalla. Una gigantesca lama frastagliata spuntò dall’imboccatura.

“Cosa…?!” – boccheggiò incredulamente Zeit – “Ha materializzato un’arma del genere con la sola Energia VRIL?!”

Nataša si strinse ancora più forte nelle braccia: “Fa che smetta, fa che smetta! Fallo sparire!”

Un ruggito sommesso risuonò da sotto il casco dell’Unità, nel sollevare l’enorme sperone. Con un rinculo abbastanza potente da farle affondare i piedi per almeno tre metri nel suolo, la lama fu sparata come un missile, trascinandosi dietro a una catena nera simile a una colonna vertebrale.

Fafner si sollevò in volo, per allontanarsi il più rapidamente possibile, ma la lama incatenata continuava a inseguirlo come un cobra intento a non lasciar sfuggire la sua preda, in un nevrotico zig-zag che sembrava non avere fine.

D’un tratto la lama-razzo accelerò più del suo obiettivo, oltrepassandolo, tornando indietro e collidendo contro lo scudo di Fafner. La copertura iper-rinforzata si incrinò vistosamente e un fiotto di scariche elettriche nere si propagò ovunque.

“Il mio Jericho…non reggerà?!” – Zeit sgranò gli occhi nel vedere l’ologramma dello scudo lampeggiare sul suo braccio in modo preoccupante – “Ma come…?!”

Troppo tardi.

Con un’ulteriore spinta, il rostro a propulsione sfondò in mille pezzi lo scudo e tranciò di netto il braccio della Machine. Un fiotto di liquido scarlatto simile a sangue spruzzò dal moncherino con tale pressione da sembrare un idrante rotto. Zeitland Dietrich gridò fin quasi a strapparsi le corde vocali. Il suo braccio era ancora al suo posto ma un dolore inimmaginabile lo pervadeva; le vene erano sul punto di scoppiare e il Mercury-D sembrava impazzito, nel tentativo di assorbire il trauma.

La catena della Machine nera si riavvolse nel lanciatore e poi si dissolse nella stessa luce da cui si era formata. Nel suo abitacolo ormai rosso per la quantità di allarmi aperti, Nataša portò le mani al viso stravolto dall’orrore: “Quel…quel sangue…”

L’arco di liquido scarlatto che continuava a zampillare dal braccio del robot nemico sembrava assumere più consistenza: erano petali di rose.

“…che diavolo sono questi mostri?!

E anche lei – artigliandosi la testa con le unghie – urlò con quanta più disperazione la sua anima gli permettesse di vomitare.

Unendo tra loro le punte delle lunghe braccia-spade, la Machine nera puntò verso il nemico ferito. Il filo delle lame si irradiò di una luce spettrale. Una sfera di plasma sfrigolante si formò davanti al suo torace. Poi, emettendo un verso stridulo, rilasciò la reazione atomica facendola degenerare in un possente raggio.

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Sala di Controllo. Base Golgotha.

 

Istintivamente, alla vista di ciò che si sarebbe di lì a presto consumato sulla Terra, il dottor Zwei Stein ordinò il più in fretta possibile: “Steins Gatter: rückübertragung!”[4]

 

*   *   *

 

Una frazione di secondo prima che il raggio potesse vaporizzarla, la Machine rossa si smaterializzò in un nugolo di scintillii. Il raggio perforò l’oscurità di quella notte e sfondò le dense nubi nel cielo, perdendosi nell’orizzonte puntellato di stelle.

 

*   *   *

 

Sala di Controllo. Base Golgotha.

 

La pioggia di corpuscoli diamantini ricostituì il corpo di Fafner, al centro dei due anelli di Trasporto Satellitare. La cassa toracica del robot si sollevò e la Flam-ber si aprì con uno sbuffo di gas.

Zeitland Dietrich – i cui abiti erano nuovamente integri – aveva perso i sensi.

 

*   *   *

 

Settore-1; Sala del Mond-Kaiser; stessa Base.

 

Sull’enorme schermo al centro del pavimento un’immagine portentosa si prospettava: un pianeta dai colori vividi e incantevoli – la Terra – immerso nel nero dello Spazio e un sottile, vibrante, raggio color ametista che si allungava da esso, verso ignote profondità del Cosmo.

Una maschera d’oro luccicò su un tavolino.

L’Imperatore Lunare sorrise.

 

*   *   *

 

Baksheevo. Terra.

 

Dopo il frastuono, la violenza e le fiamme, il silenzio aveva ora preso possesso della vallata. Tra le nebbie della battaglia, la mole ciclopica e della gigantessa nera troneggiava al centro della scena.

Era buio.

“Sarebbe questa la vera…” – ansimò Miša, in ginocchio.

“…potenza di una sWARd Machine?!” – concluse la dottoressa Asimov, stupefatta del risultato a cui i suoi stessi studi avevano condotto.

Il visore ottico del robot tornò buio.

Crollò fragorosamente a terra.

 

 

 

[1] “Preparati, Meister senza volto!”

[2] “Non puoi fuggire per sempre!”

[3] “Sparisci una volta per tutte!”

[4] “Gatter: trasmissione inversa!”

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Capitolo 8
*** Capitolo 6: Un Labirinto di Rose ***


6.

 

Un labirinto di rose

 

 

C’è un cielo meraviglioso a proteggere quei giardini incantati, dentro i quali si snodano ossessivi labirinti di rose e rovi. Nel cielo trapunto di stelle morbidi oceani soprannaturali disegnano una Via Lattea diversa: al suo centro, lontanissimo e remoto – come un bocciolo di fiore – pulsa un ammasso scarlatto. Una ragazza corre senza mai voltarsi indietro – il suo ampio abito di seta porpora si impiglia e si straccia nelle spine – tra i vicoli tortuosi del roseto. Vetusti ruderi dai marmi immacolati svettano raramente, come fantasmi fatiscenti di tempi passati. Corre ancora, non in fuga ma alla ricerca di qualcosa. E poi la vede.

Tra cespugli di fiori scarlatti, oltre un arco di spine, c’è lei: dalle iridi violette, bella oltre ogni immaginazione, i lunghi capelli le corrono sul corpo vestito da un abito di raso e oro ricamato con misteriose rune. Volge il suo sguardo in direzione della ragazza che corre verso di lei: “Finalmente. Ti attendevo…Nataša Elizaveta Novikov.”

Ora il giardino di rose è scomparso.

Sono su una spiaggia e la notte ha ceduto il posto al giorno. Tutto è sbiadito, stinto. Più che la luce del mattino, si potrebbe dire che ogni cosa ha perso colore. La sabbia, sottile e farinosa, è bianchissima e biancastro è anche il cielo. Il mare quieto è una tavola grigia da cui affiorano strani resti di tubi spezzati e forme calcaree ritorte. Nulla vive.

“Me? Perché attendevi me?” – domanda Natasha, l’abito rosso inzaccherato di sabbia.

 

“Ho sognato questo momento per molti eoni.” – risponde l’altra con un tono che la mente di Natasha non riesce a decifrare tra la serenità o il rammarico – “Tutte noi abbiamo sperato nella Congiunzione.”

“Ma chi siete? Di che cosa parli?”

“La ricompensa che ti attende alla fine dei tempi, il destino che siete tutti chiamati ad adempiere.” – continua la donna senza nome – “La Divinità Metallica del tempo – Fafner – e il suo pilota. E poi tu, Nataša Novikov, e quella con cui la tua volontà ha risuonato, spezzandone il sonno ancestrale: Freya.”

“Fafner…Freya…” – ripeté la ragazza, quasi ipnotizzata.

“Per un breve attimo le vostre anime hanno ricucito l’Infinito, rispondendo all’antico richiamo di Exarion.”

“Chi è…Exarion?”

“L’antico Imperatore d’Oro, che esige un sacrificio per coloro che vogliono servirsi del suo potere: in cambio della tua anima, la Deva Freya esaudirà un tuo preciso desiderio. Dimmi, Nataša, vorresti che tale desiderio si avverasse?”

Sebbene rinchiuso in un angolo inaccessibile del suo inconscio, un desiderio sopito muove il braccio e le labbra di Nataša. La sua mano si allunga incerta e le sue dita si incrociano a quelle dell’altra donna: “Sì.”

I suoi occhi violetti risplendono di raggi ultraterreni e le sue labbra si incurvano in un sorriso che cela emozioni discordanti.

Sussurra: “Il Contratto…è concluso.”

 

*   *   *

 

Ore 8:00. Ospedale centrale di Mosca.

 

Nat riaprì d’impulso gli occhi.

Nella rètina ancora mezza addormentata gli danzavano lunghi fili dorati, viola e rossastri, come brandelli di un sogno lasciato a metà. Quando i residui del sonno si dissolsero, la prima cosa che vide fu il soffitto grigio e stinto della stanza in cui si trovava.

Debolmente si diede un’occhiata intorno: il suo corpo riposava sotto un lenzuolo bianco dalla qualità piuttosto economica e se non fosse stato per un sottile strato di camice da ricovero la sua pelle avrebbe toccato il materasso. Un elettrocardiogramma mandava impulsi stabili, mentre una flebo con dentro un qualche strano liquido opaco aveva smesso di pompare attraverso il tubicino di gomma inserito in una vena dell’avambraccio. Altre due piccole pipette le erano state inserite nelle narici, solleticandole e riempiendole di un pungente odore di ammoniaca mista a qualche altro medicinale.

Sono ancora viva. – pensò tra sé, allungando lo sguardo al resto della scialba stanzetta d’ospedale in cui si trovava.

Fuori dalla porta si sentiva un fitto chiacchiericcio.

“Sei sveglia.” – una voce di donna la colse di sorpresa.

Ekaterina Asimov era in piedi con la schiena contro la parete destra della stanza, reggendo delle cartelle cliniche.

“Dottoressa…” – mormorò Nat, ancora stordita – “…non l’avevo notata.”

 

Macerie, grida, scintille ovunque.

Un uomo anziano riverso al suolo in una pozza di sangue e sua figlia che lo fissa sgomenta.

 

Nat serrò i denti e le palpebre tentando di ricacciare indietro quell’immagine ancora così vivida, ma non vi riuscì.

“Mi spiace.” – disse poi, a bassa voce.

“Come, prego?”

“Per suo padre, intendo. Per caso lui…?”

“Non ce l’ha fatta, no.” – la interruppe la scienziata – “Grazie per averci pensato subito. Il funerale è stato due giorni fa.”

Due giorni. Come era possibile che lo avessero già organizzato?

“Quanto tempo è che sono qui?” – chiese ancora, se possibile perfino più intontita di prima.

“Sono passati quattro giorni. Hai ripreso piena conoscenza solo ora.” – rispose freddamente la Asimov.

“Già quattro giorni…” – ripeté con sconcerto la ragazza.

“Hai visite, comunque. Credo ti farà piacere.” – e si congedò, aprendo la porta della stanzetta.

Oltre la soglia, lo sguardo di una donna sulla cinquantina incrociò il suo e poi si affrettò a entrare nella stanza, seguita da un ragazzino.

“Nataša…!” – sua madre la raggiunse fremente, prendendo il suo viso tra le male e baciandola sulla fronte – “Oh Dio…oh, grazie a Dio! Come ti senti?!”

“Nat!” – suo fratello Luka quasi le si gettò sul letto, stringendole il braccio abbastanza forte da farle sfuggire un gemito.

“Aspetta Luka, fa’ piano, tua sorella si è appena svegliata.” – lo rimproverò senza durezza sua madre; lui si staccò, imbarazzato.

“Mamma…Luka…” – sorrise sua figlia, tentando debolmente di mettersi a sedere sul letto – “Avete aspettato che mi svegliassi per tutto questo tempo?”

“Aspetta, non…”

“Sto bene.” – e si sfilò i respiratori dal naso – “Sono solo un po’ confusa.”

“Oh, tesoro, con tutto quello che è successo!” – la signora Novikov ricacciò indietro le lacrime di commozione che volevano affiorare – “Dobbiamo chiamare i nonni!”

Ed estrasse dalla borsa uno smartsquare per cercare il numero.

Luka chiese ancora alla sorella: “Nat, ma che è successo l’altro giorno?”

“Beh…io non…non sono sicura.” – mormorò lei. Era vero. Non riusciva a capacitarsi di cosa era potuto accadere il giorno del suo compleanno. Laboratori segreti, armi dalla forma di giganteschi umani, Nazisti…se si fosse fatta un trip allucinogeno durante la visione di un film di fantascienza avrebbe avuto visioni più verosimili.

Luka le si avvicinò ancora per non farsi sentire troppo da sua madre, che passeggiava per la stanza mentre annunciava ai parenti che la loro Nat stava bene e che li avrebbe chiamati dopo. “Il telefono di casa squilla da tre giorni. Mamma e papà sapevano più che inventarsi per tenere buoni tutti!” – bisbigliò lui.

“Tutti chi?”

“Beh…tutti!” – ripeté Luka. – “Prima le tue amiche, poi credo dei tizi di lavoro di papà e anche qualcuno della TV!”

“Come la TV?!” – Nat iniziava a riprendere le forze, ma non era del tutto un buon segno.

“Shhh, non farmi scoprire per favore!” – le fece segno il fratello – “Mi hanno detto di far finta di niente, ma secondo me sbagliano loro. Ne hanno parlato anche al telegiornale! Dicono che hanno visto…tipo dei robot giganti, hai presente quelli dei cartoni animati? Hanno fatto un sacco di interviste a quella signora bionda che era qui e anche a papà e lui ora è sempre preocc-“

“Ho avvisato la nonna Anna e anche gli zii.” – sua madre si era riavvicinata e Luka si era automaticamente ammutolito – “Se hai voglia dopo puoi chiamarli, che dici?”

Nat annuì con un verso distratto, cercando di allineare le idee.

Qualcuno l’aveva vista? Milioni di domande, mass-media, inchieste, interviste e casini vari: ecco cosa ne sarebbe venuto fuori. E come se non bastasse, in quella stanza mancava un elemento fondamentale: suo padre. Con tutto l’accaduto, con il trauma appena subìto e una valanga accettabile di domande da porgli a Nataša sembrò assurdo che l’uomo più importante della sua vita non fosse lì.

 

“Dov’è papà?” – domandò d’un tratto.

“Beh, lui…” – sua madre tentò senza molto successo di giustificare l’assenza – “…ha degli incontri molto importanti in questi giorni.”

“Più importanti di me.” – sottolineò Nat con sarcasmo – “A quanto pare.”

 

*   *   *

 

Stanza del Oberstleutenant Dietrich. Settore-12; Base Golgotha.

 

Zeitland riposava supino sul piccolo letto del suo appartamento.

Sollevò il braccio sinistro verso l’alto: era fasciato da bende che lo stringevano fino al torso nudo. Serrò un paio di volte il pugno in aria. Non faceva male ma era ancora indolenzito.

Provò a chiudere gli occhi.

Luci rosse di un abitacolo di guida in perenne lampeggiamento, la sensazione di sentirsi cullato in una bolla a zero-Gravità, una brughiera notturna in fiamme. Quella Macchina: nera, elegante, feroce più del suo Fafner e veloce come un alito di vento. L’Infinito – a un certo punto – aveva anche preso forma, nelle sue infinite tonalità e due occhi azzurri e innocenti come un cielo di primavera gli si erano incisi nella mente. E poi un dolore da strapparsi i capelli che gli pervadeva il braccio; sangue rosso oltre i monitor di guida.

Petali di rosa.

Li riaprì.

Tutto inutile: come da tre giorni a quella parte, le stesse ombre della battaglia continuavano a stamparsi nel fondo del suo cervello.

Chi era quella ragazza? – si chiese.

Era in ritardo.

 

*   *   *

 

Stanza Reale del Mond-Kaiser; stessa Base.

 

Il suono melodioso di un’arpa dorata echeggiava per l’immenso appartamento del Re Lunare. Arya – la Siren, ora libera da catene – ne suonava le corde su uno spalto rialzato rispetto al pavimento. Marmi splendenti ricoprivano ogni superficie e le immense vetrate gotiche aprivano la visuale sul terreno lunare.

“Volevate vedermi, mein Kaiser?” – chiese Zeit, al centro della sala. Si era rivestito, ma il braccio fasciato pendeva ancora dal suo collo.

Il leader supremo di Golgotha era ritto sul piano più elevato, di spalle.

“Soltanto parlarti.” – rispose, voltandosi – “In fin dei conti credo che Luft-Oberst ti abbia già redarguito a sufficienza, nella riunione di eri.”

Senza maschera, l’uomo al vertice del Quarto Reich si mostrava per quello che era: un giovane dal viso di pallido e raffinato, quasi femminile, dagli occhi sottili e scuri come quel fiume di capelli neri. Degli abissi in cui sprofondare. Per essere un uomo la sua bellezza era sconcertante.

Da una bottiglia di nera versò in un bicchiere una qualche bevanda viola e domandò con una pacatezza che inquietò Zeitland più di ogni altra cosa: “Come va il braccio?”

“Meglio. Vi ringrazio.”

Il Kaiser continuò a mescolare il liquore nel calice, poi aggiunse con una nota di sarcasmo: “Doveva certamente trattarsi di un avversario molto temibile se è riuscito a disarmarti così, Schwarz Ritter.”

“Soltanto imprevisto.”

Una ragazza, ecco chi era stato il suo nemico, lo aveva battuto. Imperdonabile.

“Ma certo.” – un’increspatura infinitesimale nel sorriso del leader supremo fece accapponare la pelle di Zeit – “Nessuno di noi si sarebbe mai aspettato che i Russi nascondessero una Divinità Metallica.”

Rivolse un’occhiata agghiacciante alla Siren inginocchiata e Arya dovette chinare lo sguardo. Poi riprese a parlare, con tono più autorevole e formale: “Nonostante questo, però, il miglior pilota del Reich non dovrebbe uscirne sconfitto, danneggiando gravemente anche una delle preziose Machine a nostra disposizione. Com’è stato possibile?”

“Mi sono distratto per un attimo e l’avversario ne ha approfittato, tutto qui.” – si affrettò a rispondere.

Questo lo hai già detto ieri.” – pur tentando di controllarsi, il Kaiser parve perdere improvvisamente la pazienza.

Il bicchiere che stringeva in mano si era incrinato dalla pressione.

Un’ondata di disagio colse di sorpresa il giovane Dietrich. Da quando era nato, sulla Luna, mai una sola volta era stato ritenuto esempio di debolezza e ora non solo aveva miseramente fallito alla sua prima missione in solitaria ma aveva anche suscitato il fastidio dell’Imperatore. Per la prima volta, il senso di colpa gli percorse i nervi fino a fargli sputare le parole successive tutte d’un fiato: “D’accordo, lo ammetto. Ero sul punto di ucciderlo quando Fafner si è bloccato, smettendo di obbedirmi! Non capisco proprio il motivo…mancava così poco!”

Serrò un pugno.

L’Imperatore inarcò appena un sopracciglio in un’espressione di raro stupore: “Ah…dunque è così. Beh, questo cambia tutto. Forse dovremmo riconsiderare l’affidabilità di quella Machine…e magari anche il tuo ruolo come Meister.”

“No!” – Zeit non si rese nemmeno conto di aver alzato la voce in modo così brusco – “Sono io il pilota di Fafner e sono in grado di portare a compimento tutto ciò che mi ordinerà! Posso riscattarmi…magari con un’altra missione.”

L’uomo dai lunghi capelli neri attese un istante e poi iniziò a scendere con passi lenti i gradini che lo distanziavano dal suo sottoposto.

“In questo mondo di freddo e buio in cui siamo esiliati” – disse gravemente – “a voi Meister sono concessi diritti negati a chiunque altro. Voi siete gli eletti. Se non ripagaste questo privilegio con la vittoria del Reich, che enorme spreco sarebbe?”

Zeitland chinò la testa, sotto un peso invisibile. Si vergognava di sé stesso: “Avete ragione, mein Kaiser”.

“La volontà delle Machine è certamente un enigma,” – continuò l’altro, che ora gli passeggiava intorno – “ma questo non può giustificare l’incapacità a comandarle.”

Si fermò proprio difronte a Zeitland, che d’istinto si sentì in dovere di alzare lo sguardo e fissare dritto negli occhi il suo interlocutore.

“Devi essere consapevole che la responsabilità di tutta la gente di questa colonia grava anche su di te.” – concluse il Kaiser.

“Io sono stato scelto da Fafner per pilotarlo, mein Herr.” – affermò Dietrich, inghiottendo un groppo amaro e cercando di riprendere un contegno marziale – “Farò in modo che il nostro grande Reich torni a dominare sul mondo, grazie al potere che la Machine mi ha concesso. Posso garantirlo.”

Il comandante in capo del Reich lunare sorrise appena e poi si allontanò, dandogli le spalle: “Ne sono convinto.”

Fece ancora qualche passo e poi si voltò ancora di tre quarti.

“E un’altra cosa.” – aggiunse – “Una Divinità Metallica in mano ai terrestri è un sacrilegio. Vedi di uccidere quel pilota.”

“Sissignore.” – Zeit strinse il pugno con ancora più forza.

“Ora va’ e medita su ciò che ti ho detto.”

Dietrich girò sui tacchi e si avviò verso l’uscita, quando si rese conto di essere osservato: proprio di fianco alla grande porta, Adler Jung – le braccia conserte con uno sfacciato ghigno dipinto in volto – lo fissava.

“Brucia, eh?” – sibilò Schattennarr, quando gli passò accanto.

Zeitland non rispose.

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 7: Confronto ***


7.

 

Confronto

 

 

Ore 11:30. Sala ‘Truman’; Nuova Sede Centrale dell’ONU – Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. New York; Area Nord degli Stati Federati d’Austramerica.

 

“Eccolo, sta entrando in questo momento.” – con un cenno della testa al suo cameraman, una reporter americana indirizzò l’attenzione verso il fondo della sala; si assicurò che il microfono fosse acceso e il soggetto a fuoco – “Il Capo di Stato della Russia ha varcato ora la soglia della sala Truman e si appresta a prendere posto.”

“…certo, il clima in aula è teso, come è facile immaginare.” – continuò qualcun altro, rivolgendosi ad anchormen dall’altra parte del globo – “Vediamo Novikov scortato dal Ministro alla Difesa Lebedev, che ricordiamo essere la sua nuova scelta per il secondo mandato presidenziale. Mossa abbastanza prevedibile e…”

Non era certo un servizio in esclusiva assoluta, considerando il quasi centinaio di altri inviati dalle televisioni internazionali, in una Babele di lingue diverse.

 

Facendosi largo tra la calca irrequieta, Novikov sostenne e passò oltre lo sguardo accusatore dei Capi di Stato di Grecia, Italia, e qualche rappresentante degli Stati minori Austramericani. Insieme a Lebedev, raggiunse la postazione contrassegnata dalla bandiera russa e dal suo cognome, al grande tavolo ovale posto al centro della sala conferenze. Salutò con asettica cordialità la Presidente francese Caroline Blanchard e il trentasettenne erede dei Windsor, che subito si prodigò nell’alzarsi in piedi. Gli regalò un sorriso di circostanza, che nascondeva la poca fiducia che Novikov riservava al nuovo rampollo dei reali inglesi e alla sua decisione di darsi alla politica internazionale, e poi ognuno prese posto. Intento a sbottonarsi la giacca del completo, che ora gli risultava insopportabile, Novikov abbracciò con la sguardo l’intera sala. Sedeva al tavolo centrale insieme ai rappresentanti delle maggiori potenze economiche mondiali: era affiancato a destra e sinistra dall’Inghilterra e dal Presidente cinese Liu Bingwen; a seguire in senso antiorario trovò la Blanchard dalla Francia (alla cui bellezza, arrivata agli inizi delle sue sessanta primavere, non poteva restare del tutto indifferente) e ovviamente l’invitato scomodo della tavolata: Georg Baumann, l’anziano Cancelliere tedesco che stava così coraggiosamente scendendo a compromessi con i Nazisti, in bilico tra una guerra civile o una minaccia di attacco da parte di coloro che vantavano diritti inesistenti sul suo Paese. Finito il blocco eurasiatico, iniziavano i seggi dedicati ai rappresentanti delle Nazioni Arabiche Unite, tutti rigorosamente maschili, che si attardavano ancora in piedi: Qatar, Egitto, Kuwait, Turchia ed Emirati sembravano decisamente presi da una conversazione concitata, che si alternava a occhiate furtive in direzione di Novikov e dell’Eurasia tutta. L’ultimo spicchio di tavolo era riservato al Presidente del Consiglio dell’ONU e al Triumvirato d’Austramerica: il nord-americano Henry Williams e l’australiano Arthur Jackson (due conservatori, dopo una lunga parentesi democratica), affiancati dall’ecuadoregna Veronica Almeida, prima presidente donna della neonata superpotenza. Alle spalle del tavolo centrale si estendeva il resto della platea composta dai portavoce di tutte le altre Nazioni e infine, sopra tutti loro, lampeggiavano i flash del loggione riservato alla Stampa.

 

“Eccolì la.” – borbottò sottovoce Lebedev – “Adesso possono anche sedere belli comodi in questa aula. Che vergogna.”

Si riferiva ovviamente all’uomo e alla donna alla piccola scrivania aggiunta proprio al centro dell’aula: Erwin Albrecht e Katrina Winter. Novikov non si era nemmeno accorto della loro presenza, tanto era il silenzio che come contraddiceva gli ufficiali del Reich, a metà tra etichetta diplomatica e sdegnoso contegno.

“Auguriamoci solo che la prossima volta non siano direttamente al posto di Baumann.” – commentò Novikov, provando a muovere le labbra il meno possibile.

Attention, please.” – una monocorde voce femminile risuonò agli altoparlanti – “The congress is about to begin in two minutes. Representatives are asked to take their seats. Thank you.

Il chiasso si ridusse fino a un tenue brusìo e sul grande schermo appeso alla parete Nord scomparve il logo delle Nazioni Unite, sostituito da quella che sembrava a tutti gli effetti una foto dei giganti Fafner e Freya, intendi a combattere in lontananza in una boscaglia. La qualità non era delle migliori e chiunque con un minimo di competenze grafiche avrebbe potuto falsificarla, ma se fosse stato così non sarebbe di giunta all’attenzione dell’ONU intera.

Good morning everyone.” – fu il saluto di Omar Mizrachi; questo mese era il turno di Israele a presiedere la seduta; non suonava per nulla allettato – “Alle ore 11:35 si riunisce l’assemblea straordinaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. In base al regolamento, la parola va ai richiedenti la seduta. Prego, parlate pure.”

“La ringrazio.” – Albrecht prese la parola, alzandosi in piedi; parlò in un’inglese scolastico ma dall’ottima dizione, scandendo ogni parola – “Il mio nome è Erwin Albrecht, Oberstgruppenführer del Quarto Reich. In qualità di suo portavoce, informo questa platea che il Kaiser è amareggiato dagli ultimi eventi. Come immagino saprete, quattro giorni a fa ho inviato il mio Oberstleutenant nella periferia di Baksheevo, in Russia, con ordini di accertamento circa un campo-base improvvisamente reso operativo. Trasgredendo ii Patti di Non-Aggressione, il corpo di guardia militare ha deliberatamente aperto il fuoco contro i miei uomini, costringendoci a rispondere.”

Un’onda invisibile ma non meno pesante investì Novikov da ogni direzione. Tutto il mondo aveva gli occhi puntati su di lui.

“Se vi state chiedendo il motivo della visita, sappiate che dall’ultimo bilancio stilato dal Governo russo risaltano numerose incongruenze. Era chiaro che certe spese del settore bellico e gli insensati aumenti alla tassazione pubblica nascondessero qualcosa. Se non sbaglio questo è anche una violazione dell’Articolo 7 della Convenzione di Ginevra; dico bene, signor Presidente del Consiglio?” – e si rivolse in modo molto retorico all’uomo sul palco – “Potete facilmente dedurre dalla foto alle mie spalle che si trattava di un’arma: una macchina robotica dall’enorme potenza, sconosciuta a chiunque di voi. Il Kaiser invita la Russia a esporre le sue motivazioni per un tale atto di tradimento.

Un suono acustico prolungato. Novikov aveva richiesto parola e il lampeggiante che contraddistingueva il suo banco si era acceso di arancione.

“La Russia chiede diritto di parola.” – annunciò l’assistente al Presidente di seduta.

“Permesso accordato.” – confermò Mizrachi, toccando un tasto sulla sua postazione che fece passare a verde la luce dei russi.

“La ricostruzione presentata è parziale e tendenziosa.” – iniziò Novikov; avrebbe dovuto mostrarsi sicuro di sé o Dio solo sa come il mondo avrebbe accolto un suo minimo tentennamento – “L’invasione del sito di Baksheevo non è consentita da Ginevra e rappresenta un’aggressione a cui è possibile rispondere con il fuoco. Inoltre, Mr. Albrecht trascura di sottolineare che nella foto proiettata compare anche una macchina rossa, che mi risulta appartenere al Reich.”

Un altro segnale acustico, dall’altra parte del tavolo circolare: “Il Qatar chiede diritto di parola.”

Omar Mizrachi acconsentì ancora: “Permesso accordato.”

“Forse Mr. Novikov potrebbe dirci perché quella base era ancora attiva dopo il disarmo mondiale del 2033.” – chiese il Primo Ministro Hussein bin Al-Marri, con una vena indiscutibilmente polemica.

“Primo Ministro Al-Marri,” – e Novikov decise in fretta di porgere il fianco a quella piccola sfida – “mi rendo conto che siete da poco parte di una grande formazione economica internazionale, e alcune dinamiche potrebbero sfuggirle, ma il sito di Baksheevo è sotto protezione speciale delle Nazioni Unite e questo è pacifico.”

Un terzo segnale acustico e un terzo “Permesso accordato”.

“Gli accordi speciali pregressi non si dovrebbero applicare alla nuova situazione mondiale.” – fu la Germania a parlare stavolta, provando a cavalcare l’onda dell’aggressione a Novikov.

“Ma stia zitto, lei!” – gli ringhiò contro il Ministro spagnolo, dagli spalti più in alto del secondo anello – “Dopo che ha anche accettato le clausole dei Nazisti! Abbia almeno la decenza di tacere!”

Baumann sobbalzò sulla sedia, la bocca contratta in una smorfia contrariata e iniziò ad inveire a sua volta contro la Spagna e su quanto non avessero percezione della delicatezza della questione per il suo Paese eccetera, eccetera, eccetera. Nel suo scomodo ruolo di mediatore, Omar Mizrachi tentò un paio di volte di riportarli all’ordine con le buone, poi lasciò perdere e mutò direttamente i loro microfoni, facendo passare da verde a rosso il segnaposto luminoso. A chiedere di intervenire subito dopo fu il Giappone.

“Io credo che non stiamo centrando il punto della questione.” – disse solennemente il Primo ministro Torajiro Harada con il suo inconfondibile accento giapponese, i suoi occhietti sottili passarono in rassegna ogni membro dell’anello centrale – “Sarei invece interessato a sapere perché le armi del Reich e della Russia hanno un aspetto tanto simile.”

Un brusìo agitato si levò dalla platea, segno che il passato da procuratore legale di Harada si faceva ancora sentire nelle sue strategie diplomatiche. Novikov dovette ammettere a sé stesso di sentirsi particolarmente a disagio. Non erano in buoni rapporti con il governo giapponese già dal 2040 e quella situazione non faceva che incrinare gli equilibri.

Stavolta fu Lebedev a rispondere: “Non c’è alcun legame tra noi e il Reich e l’inizio degli sviluppi sull’arma robotica risalgono a prima della formazione stessa dell’Eurasia.”

“È facile capire i timori del collega giapponese.” – subentrò ancora il Qatar – “A differenza delle Nazioni Arabiche Unite, la vostra intesa è nata su accordi deboli. Chi può garantirci che non seguirete politiche militari di testa vostra?”

Il dibattito stava per riaccendersi quando Jackson, dell’Austramerica, prenotò il suo intervento.

“Parla a nome suo o del Triumvirato?” – chiese Mizrachi, massaggiandosi in mezzo agli occhi con i pollici.

“Del Triumvirato.” – rispose Jackson – “Signori colleghi del Consiglio di Sicurezza, oggi più che mai la missione delle Nazioni Unite è preservare la pace mondiale. La stessa Alleanza della Faglia del Pacifico è nata per garantire una linea militare coerente tra Austramerica ed Eurasia. Per questo, in quanto Super-Nazione promotrice della RIM-PAC, chiediamo di prendere sotto osservazione l’arma della Russia.”

L’uomo sulla quarantina che sedeva alla destra di Hamada borbottò qualcosa in giapponese tra sé, che a quanto pare non sfuggì al labiale di Henry Williams: “No, non è per colmare il divario militare che invochiamo queste misure. E può sentirsi libero di esprimere i suoi pensieri davanti a tutti, Hamada-san.”

L’uomo s’irrigidì come colpito alla schiena, mentre il Primo Ministro giapponese gli rivolse uno sguardo raggelante con la sola coda dell’occhio.

“Non permetterti mai più.” – sibilò, premurandosi di coprire la bocca con il dorso della mano – “Sconsiderato.”

Torajiro e Isao Hamada. Il Primo Ministro e il Consigliere allo sviluppo dell’Industria Militare. Padre e figlio. Generazione 1 e 2. Aldilà del discutibile conflitto d’interessi ricoperto dalle loro posizioni, l’altro conflitto non meno palese era sempre stato di carattere personale e c’era chi scommetteva sulla caduta del Governo anche solo per un bisticcio familiare.

“Vi prego, vi prego, cerchiamo di mitigare i toni.” – Katrina Winter aveva prenotato il suo turno ma non aveva atteso il ‘via libera’; ora era in piedi, alta e provocante, e tutta lanciata in un’arringa dai tonti tanto patemici quanto artefatti – “Il nostro intento era solo chiedere un po’ di trasparenza ma, vedete, è questo il motivo che ha spinto il nostro illuminato Kaiser a formare il Reich: il caos che regna in quest’aula.”

Il brusìo che fino a quel momento era stato contenuto iniziò a farsi più vivo, ma la leader di Marine Kreuz non aveva orecchie per nessuno: “Vivete su un pianeta sul ciglio del collasso ambientale. Ogni giorno la vostra illusione di Democrazia è minata dagli interessi personali, da accordi nascosti sotto il tappeto, da speculazioni economiche. Ammettetelo: il vostro tentativo di spartirvi la Terra è un fallimento che merita compassione.”

Ora il brusìo era divenuto un vero e proprio chiacchiericcio generalizzato, contro il quale a nulla servirono gli ammonimenti del Presidente del Consiglio.

“Non esiste pace senza legge, e non esistono leggi senza un sovrano. Non pensate a ciò che è il Reich è stato nel passato, ma guardate al futuro! Il Reich è ordine. Abbracciatelo. La Svastica che portiamo sul braccio non è un segno d’odio, ma d’illuminazione! Non è così, onorevole Bingwen?”

E si voltò verso il Presidente Cinese con un gesto quasi caritatevole, che venne ripagato con un’invettiva su tutte le furie: “Non osi paragonare i simboli del Buddha con quello schifo!”

Arrivato a quel punto Omar Mizrachi aveva messo da parte ogni speranza nel moderare la discussione.

“Chiediamo solo un posto in questo mondo.” – proseguì la Winter – “Molte persone, in ogni città, sono entusiaste del nostro ritorno e noi siamo qui per darvi speranza! Mrs. Almeida…”

Stavolta era il turno della Presidente austramericana.

“…glielo chiedo da donna a donna. Non vorrebbe che i suoi figli crescessero in un mondo rinato?” – chiese infine con un cruccio da tragedia greca.

“Ms. Winter.” – rispose seccamente l’altra, trattenendo a stento l’impulso di spezzare una penna nel pugno – “Da donna a donna, è un disonore per tutte noi sentir parlare così una che condivide il nostro stesso colore della pelle.”

Un nugolo di schiamazzi, applausi misti a fischi, si levò dall’aula e fu chiaro a tutti che ormai la diplomazia era andata a farsi benedire. Il clamore terminò solo quando Albrecht fece squillare ancora il segnale acustico, così a lungo che rimase udibile ancora per qualche istante dopo che il silenzio fu tornato. Infine, parlò e ogni sillaba suonò pesante come piombo: “Discutere non porterà a nulla. Vi porto la nostra richiesta: d’ora in avanti siete invitati a dichiarare pubblicamente ogni Machine di cui dispongano i vostri Paesi.”

“E se invece foste voi a nasconderne delle altre?” – chiese il giovane Windsor.

“Siate informati che il Reich è in possesso di tecnologie ben oltre le vostre aspettative.” – furono le ultime parole di Erwin Albrecht che batterono l’ultimo chiodo sulla bara della speranza – “Nazioni della Terra, accettate le nostre condizioni…o rinunciate alla pace. Questo è ciò che demanda il Kaiser!”

 

E nel clamore generale che ne scaturì Edvard Novikov rimase impassibile al suo posto, mentre una singola frase gli attraversò la mente: Nataša. Ormai non posso più tenerla fuori da questa storia.

 

*   *   *

 

Ore 19:57.

Casa del Presidente Novikov; Mosca, Neo-Russia.

 

Aumentano i malcontenti e i cortei di protesta in tutta la Russia per quanto accaduto a Baksheevo, una settimana fa. Il sindaco

continua a negare qualsiasi implicazione nella faccenda e intanto, oggi, si è tenuta a San Pietroburgo la prima manifestazione…

Qualsiasi fosse il canale su ci si sintonizzasse, la storia era sempre la stessa: malcontenti, minacce di sciopero, accuse contro il Governo borbottate a un incrocio pedonale…la tensione e il sospetto su stavano facendo strada fra l’opinione pubblica piuttosto velocemente.

Nat, a cavalcioni sulla sedia della cucina, si limitava a fissare la sarabanda di servizi e di riprese a spezzoni che si avvicendavano sconclusionatamente in ogni notiziario.

“Non c’è proprio nient’altro in TV?” – chiese Arina Novikov, mentre armeggiava ai fornelli.

“Pare di no.” – mormorò Nat.

“Non credo ti faccia bene vedere tutta quella roba.” – insistette sua madre, ma non venne ascoltata.

 

Ogni intervista era un pugno allo stomaco, una maldicenza detta alle sue spalle a cui non poter replicare, una sferzata alla sua coscienza. Ma Nat sentiva che quelle persone avevano ragione, che meritavano di sapere la verità. Avrebbe voluto correre da loro e raccontare tutto in preda alle lacrime, scongiurandoli di mettersi nei suoi panni e darle conforto, ma sapeva anche di non averne il coraggio.

Dire a tutti che ero io a bordo di quel robot? – si chiese, con le guance bollenti – E poi cosa mi farebbero, se lo venissero a sapere? Io…

Il campanello d’ingresso e il rumore della serratura che scattava interruppero i suoi pensieri. Quando suo padre Edvard ricomparve sull’uscio, l’accoglienza che trovò fu piuttosto tiepida: Luka lo salutò a mala pena con un ‘ciao’ dal divano su cui si era stravaccato, sua moglie gli venne incontro e lo aiutò a sfilarsi il soprabito, ma nulla di più; e poi vide lei. Nataša si sollevò appena e con quei suoi grandi e stanchi occhi azzurri lo guardò in viso: “Ciao, papà.”

Lui le si fece subito vicino, abbracciandola e accarezzandole la testa: “Nat, tesoro, come stai? Sapessi quanto sono stato preoccupato.”

Lei si scostò da lui: “Sì, lo immagino. Ora sto bene., grazie. Stamattina un po’ meno.”

“Devi scusarmi. Lo so che oggi ti dimettevano, ma avevo un incontro davvero molto importante. Sono riatterrato poco fa e…”

“Centra con il lago?” – chiese sua figlia, con un filo di irritazione.

 

La cosa lo fece tentennare per un attimo.

Avrebbe dovuto dirle la verità, e cioè che per averla fatta salire a bordo di quel ‘barattolo di latta’ si era attirata contro le antipatie di tutto il pianeta? Avrebbe dovuto dirle delle attenzioni, per nulla rassicuranti, che il Risveglio della sua Machine aveva suscitato? Le avrebbe detto che, d’ora in avanti, la possibilità di salire nuovamente a bordo di quell’affare sarebbe stata sempre più probabile, che una Terza Guerra Mondiale era alle porte e che lei ne avrebbe fatto di certo parte? Sì, lo avrebbe fatto. Come padre, uomo e massima autorità politica aveva l’onere di pensare tanto allo Stato quanto alla sua famiglia e – per quanto gli costasse ammetterlo – era anche questa la gerarchia da rispettare.

Sua figlia era una parte di lui ma la popolazione della Russia contava milioni di vite. E inoltre proprio sua figlia era colei che era stata in grado di attivare la misteriosa sWARd Machine ibernata da decenni. Era l’ultima arma e speranza di cui si sarebbe potuto servire.

 

Mantenendo il controllo e scegliendo tra tutte le risposte possibili, optò per un laconico e sincero: “Sì. Centrava il lago.”

“Lo immaginavo.” – asserì lei, con un sorrisetto amaro.

Ledi Novikov smise di preparare la tavola e Luka si mise tirò a sedere sul divano.

“Ascolta, il fatto è che è stata una mossa avventata.” – tentò di spiegarsi lui – “Combattere contro quegli uomini, intendo. Certo non potevate permettere loro di avvicinarsi, nessuno si aspettava che…”

“Ne sei sicuro?” – lo interruppe bruscamente lei; negli occhi aveva una scintilla di sfida – “Non se lo aspettava nessuno? E com’è, allora, che io ero lì? No perché, sai, è una bella coincidenza che proprio nel giorno in cui ci attaccano i Nazisti io mi trovi lì.”

“Era solo il giorno che avevate stabilito con il dottor Asimov, pace all’anima sua!” – provò a discolparsi suo padre – “Nat, ti trovavi lì per pura coincidenza!”

“Che cavolata.” – le sfuggì una mezza risata nervosa – “Non me la bevo. Asimov ha detto che io ero l’unica in grado di salire a bordo dell’Unità e ‘per pura coincidenza’ era vero.”

“D’accordo.” – concluse l’uomo.

“Edvard…” – provò ad arginarlo sua moglie, intuendo come sarebbe finita di lì a poco.

“Ti prego.” – lui non volle sentire storie, ponendole una mano davanti; si voltò ancora verso Nataša – “Vuoi la verità? Va bene, ok, è giusto così. È un tuo diritto.”

Prese un respiro e poi: “Hai ragione: quello della tesi era solo un pretesto. Il motivo per cui ho acconsentito che andassi a Baksheevo era perché volevo che tu vedessi la Machine. Il dottor Asimov aveva ragione nel dire che solo tu avresti potuto attivarla. Ma ti posso assicurare che non avevo idea che sarebbero arrivati quei tizi, non avrei mai voluto che il tuo collaudo avvenisse così d’improvviso.”

“Perché?”

“Perché, cosa?”

“Perché sono l’unica che può pilotarla?”

“Questo non posso dirtelo.” – disse lui lentamente, quasi dovesse domare una belva feroce – “Non ancora.”

“Ah, non puoi?!” – lei iniziò a parlare più forte, alzandosi in piedi – “Però puoi decidere di farmi salire su qualcosa di cui so a mala pena il nome! Puoi scegliere di mandarmi a farmi ammazzare quando ti pare ma non il perché, mi pare ovvio!”

“Sai che non è questo il mio punto di vista. Io non vorrei mai – mai – che tu ti mettessi in pericolo.”

“Davvero?! E allora non farmi mai più nemmeno avvicinare a quel coso!”

“La cosa non è così semplice.” – avrebbe voluto fare come lei chiedeva ma sapeva essere impossibile; provò a spiegarsi meglio – “Ci sono di mezzo miliardi di vite, sta diventando una questione mondiale.”

“Questo vuol dire che io sto diventando una questione mondiale, vero?! Alla fine tutti vorranno farmi la pelle perché sono stata costretta a salire su quell’affare!”

Quella giornata stava iniziando a diventare troppo pesante anche per il Presidente Novikov, che tentò di tagliare la discussione: “Sei molto scossa, è normale, ma questo è un discorso che dovremo riprendere più avanti, con più calma.”

“No, qui non si riprende proprio niente!” – alzò la voce, con le gote infuocate – “Io ho iniziato e chiuso con questa storia nel momento in cui ho messo piede su quel robot! Ho fatto la mia parte, ma la cosa non si ripeterà mai più! Io non salirò mai più a bordo di una sWARd Machine!”

“Nataša…” – il padre allungò una mano versò di lei.

“No.” – si tirò indietro lei, neanche si fosse ustionata; gli occhi che iniziavano a gonfiarsi di lacrime – “No.”

Si voltò verso le scale che conducevano al piano di sopra.

“La cena…” – il banale quanto timoroso commento di suo fratello le sfiorò le spalle.

“Non ho fame.”

E sparì nella sua stanza, sbattendo la porta.

 

*   *   *

 

Per tutto il tempo che Nataša rimase chiusa in camera, non aveva fatto altro che starsene sdraiata sul pavimento. I suoi occhi erano sempre rimasti fissi sulle scarpette da danza buttate in un angolo della stanza; quelle punte rinforzate dal gesso e quei nastrini color salmone se ne stavano lì nel buio, fermi e scomposti, come giocattoli abbandonati o ricordi di una vita che le sembrava già lontana anni-luce.

Io volevo solo fare la ballerina. – fu il suo pensiero ricorrente, a ogni battito di ciglia.

Tutto ciò che aveva potuto ascoltare, con l’orecchio premuto contro il parquet, erano stati i radi, neutri, commenti della sua famiglia a qualche noioso programma televisivo. Poi, quando la cena fu presumibilmente terminata e il rumore dei piatti che venivano riposti nella lavastoviglie fu finito, sentì uno scalpiccio risalire le scale e bussarle alla porta.

“Nat, posso?” – era Luka.

“Vattene via!”

I passi si allontanarono.

Poi, dopo un tempo imprecisato di nulla assoluto, giunse una voce, dal piano inferiore.

“Allora…hai proprio deciso?” – sua madre.

“Non c’è altra scelta.” – suo padre.

“Ma lei è solo una ragazza! Non sa niente di tutto questo, non è una militare! Non può accollarsi una responsabilità tanto grande!”

“È l’unica che possa farlo.”

“Ma insomma, Edvard, stai parlando di nostra figlia! Di tua figlia!”

“Non credere che mi faccia piacere, Arina. Ma non è qualcosa che possiamo scegliere noi. In quei Registri che abbiamo rinvenuto c’era scritto anche questo. Io per primo non credevo a una sola parola, ma quel che è successo prova l’impossibile.”

“Oh, andiamo, non dirai sul serio?!” – sentì sua madre scuotere una sedia e poi camminare in nervosamente in cerchio – “Adesso ti metti a credere a queste leggende da folklore ortodosso? Ti conosco troppo bene per crederlo possibile.”

“Sono molto di più. E per certi versi sono anche l’unica speranza a cui aggrapparci. Non avrei mai voluto che andasse così, ma…è ora che Nataša cresca. Quando sarà il momento saprà tutto e allora non potrà fuggire dalle sue responsabilità.”

Nella pausa che seguì sembrò quasi che la donna volesse controbattere ancora, ma suo marito parlò ancora: “Vuoi sapere come stanno le cose? È inutile che ci giriamo intorno: tutte le Nazioni stanno evitando l’ostacolo ma la verità è che presto saremo in guerra. Anzi, già lo siamo. Se combattiamo potremo anche perdere, ma se facciamo finta di niente allora siamo già tutti morti.”

 

Basta così.

A Nataša era stato sufficiente quello scambio di battute per darle il quadro della situazione: aveva già intuito che tra Nazisti, strani robot giganti dai poteri soprannaturali e sogni inquieti la sua vita non prevedeva nessuno sviluppo positivo, nell’immediato. Sperava in cuor suo che esistesse un modo – per quanto sofferto – per far finire tutto questo prima che fosse troppo tardi, ma si sbagliava. Era già tutto un casino. La sua esistenza non sarebbe stata mai più la stessa, ma si sarebbe adombrata di nubi oscure portatrici di sventura, fin quando non sarebbe rimasta totalmente inghiottita da quel vortice di eventi e vi sarebbe annegata. Sarebbe arrivata la Terza Grande Guerra, avrebbe visto le città andare in fiamme, il sangue scorrere a fiumi, il cielo cadere in pezzi e milioni di vite estinguersi come ceri sotto una folata di vento.

Le venne da piangere.

Pianse in silenzio, strozzata, con le mani a tapparsi la bocca per non essere udita e le lacrime che le scorrevano dolorose tra le ciglia sottili. La sua famiglia sarebbe stata costantemente in pericolo, le amicizie più care sarebbero andate distrutte e se ci fosse stato qualche sopravvissuto sarebbe comunque finito per allontanarsi da lei, spaventato dal potere che d’ora in avanti si sarebbe addossata.

Guardò ancora le scarpette da danza. Mai avrebbe pensato che imbracciare un fucile potesse essere più probabile che salire sul palco dell’Opera. Non era giusto che finisse così.

Non è questa la vita che sognavo. – pensò tra un singhiozzo trattenuto e l’altro – Però…ci sono riuscita. Sono salita a bordo di Freya – se è questo il suo nome – e ho combattuto. Ho vinto. Forse…

Un minuscolo barlume di speranza si accese nel buio.

…forse posso ancora riuscirci. Forse posso ancora porre fine a tutto questo. La mia famiglia…i miei amici…non posso perderli. Non voglio.

Strinse forte un pugno.

 

*   *   *

 

“Edvard, ti prego di ripensarci.” – Arina serrava lo schienale della sedia tra le dita, cercando di trattenere la rabbia e la paura che ora la invadevano.

Lui scosse la testa, fissando un punto vuoto sul pavimento: “Se non coinvolgo Nat allora non ci sono altre soluzioni: non appena ci attaccheranno, richiederò l’uso dei Missili Nu-”

“Non ce ne sarà bisogno.” – una voce lo interruppe.

Si voltarono e qualcosa di intangibile li colpì nel profondo del cuore, con un tonfo sordo. La loro unica figlia era sul ciglio della porta. Nei suoi occhi c’erano state di certo molte lacrime, se ne vedevano i segni, e adesso vi leggevano paura, sofferenza, ma anche determinazione.

“Ho capito.” – disse cercando di tenere insieme i pezzi della sua voce rotta – “Farò come vuoi tu, papà.”

“Nat, non devi per forza.” – fremette sua madre, ma venne respinta.

“No.” – disse – “Ormai ho deciso. Domani tornerò a scuola – voglio farlo – e poi verrò ovunque vorrai condurmi. Sono cresciuta.”

Nonostante Edvard Novikov sapesse che quell’ultima parola era stata pronunciata più per rivalsa che per coscienza, non poté fare a meno di approvare la decisione di sua figlia con quanto più il suo amore e il suo ruolo gli permettessero. Avrebbe potuto perderla per sempre, ma se anche fosse successo, il mondo intero ci avrebbe guadagnato una martire, una salvatrice. La guardò un’ultima volta e poi accondiscese:

“Come vuoi tu, Nat.”

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 8: Creazione dell’Uomo ***


8.

 

Creazione dell’Uomo

 

 

17 Giugno. Ore 9.30.

Università russa di Economia ‘Plekhanov’. Mosca, Russia.

 

Quel giorno Nataša era tornata a lezione.

I soliti grandi, freddi e scuri muri grigi, gli austeri corridoi traboccanti di pettegolezzi, l’aria sonnolenta e irta di spilli del primo mattino russo: tutto era esattamente come lo aveva lasciato. Tutto perfetto, eccetto una cosa: gli sguardi. Che ne avesse ricordo, Nat non era mai stata considerata un’eccentricità nello sfondo altolocato della storica università moscovita, nonostante il suo status di figlia del Presidente. Ma arrivare al portone d’ingresso scortata da cinque guardie del corpo di suo padre in una macchina a vetri oscurati non era il modo migliore per non dare nell’occhio, specie se fino a pochi giorni prima era solita prendere il magnetram pubblico. Così, dal primo passo oltre la soglia fino alla sua aula, la ragazza aveva potuto godere di una popolarità praticamente assoluta; una popolarità piuttosto diffidente e non incline al dialogo ma che batteva comunque ogni altro centro d’interesse. Il suo ingresso nell’aula di Economia Politica fece scendere un brusco silenzio. Tutte gli studenti del suo corso – e persino il professore, che stava per accomodarsi alla cattedra – la fissarono ammutoliti. Sollevò timidamente una mano in cenno di saluto e senza sapere cos’altro aggiungere si avviò in silenzio verso il suo posto. Visto che il ritorno di Nataša Novikov non aveva causato alcuna esplosione o resurrezione estemporanea di Lenin, gli studenti ripresero presto il loro chiacchiericcio. Solamente due ragazze, ben vestite e dal trucco curato, le fecero segno dall’alto della terzultima fila.

“Irma! Anya!” – sorrise loro, dopo averle raggiunte.

“Ciao, tesoro!” – la salutò la prima, dai lunghi capelli castani raccolti in un crocchio. Era felice, ma non esuberante, e questo non sfuggì a Nat.

“Ti abbiamo tenuto il posto.” – Anya scostò i quaderni dalla seggiola destinata all’amica.

“Scusate se vi ho fatto stare in pensiero.” – disse Nat, abbassando la voce mentre tutti gli studenti iniziavano a prendere posto per l’imminente inizio della lezione. – “Ma perché tutti mi guard-?”

“Ne parliamo dopo.” – la frenò Anya, posandole una mano sulla sua.

E il residuo di sorriso che ancora aleggiava sulla bocca di Nat si spense del tutto.

 

*   *   *

 

Tre ore dopo, erano sul terrazzo dell’università.

“Oh, Dio! Se non mi faccio una sigaretta esco matta.” – Irma fu la prima a emergere dalle scale antincendio, con la solita teatralità che la contraddistingueva e l’accendino già in mano.

“Che cavolo di rientro.” – Nat la seguiva a ruota – “Ma l’avete visti? Mi guardano tutti come un’aliena!”

“Tesoro, sei la figlia del Presidente!” – puntualizzò Irma con un certo sarcasmo, poi dette un tiro al filtro per accendere la sigaretta – “Non hai visto che succede là fuori? È normale che ti guardino.”

“Nessuno ce l’ha con te, Nat.” – la rassicurò Anya, dietro a entrambe – “È che sono – siamo – tutti preoccupati per quello che si sente in giro. Magari sperano che tu sappia qualcosa in più.”

“Ma papà non ne parla a casa!” – protestò Nat, sapendo di mentire.

Raggiunse il cornicione parapetto e si appoggiò, sollevando il viso al cielo per sentire tepore di metà mattinata riscaldarla.

Stracci di nubi candide sorvolavano il cielo di Mosca. Rispetto a qualche giorno prima, era davvero una bella giornata di sole.

Fin dal primo anno di corso, il tetto della Facoltà era diventato il loro ritrovo preferito per trascorrere il meritato quarto d’ora di pausa. Da lì, Nat poteva scavalcare molti isolati e riconoscere la sagoma severa e pesante del Cremlino.

Papà. – le venne da sospirare. Era così distante.

Abbassandolo solo un po’ poteva invece scorgere in tutta la sua ampiezza il campo d’esercitazione dell’Accademia Militare maschile, proprio accanto alla sua scuola.

Miša. – fu il secondo nome che quel posto le suggerì.

Se lo immaginò in mezzo a un gruppo di commilitoni, mentre provava a farsi simpatico con qualche battutaccia maschia e le venne da ridere alla sua stessa fantasia. Ma subito dopo, un’ombra le velò i pensieri: Per quanto ancora potremo fingere di andare avanti? Fino a quando anche lui non verrà coinvolto? Fino a che punto la guerra illuderà di non arrivare mai, per poi investirci? Io, Miša, le ragazze, questa città…verremmo tutti spazzati via?

“Beh, quindi?” – fu Anya a riscuoterla dai suoi pensieri – “Pensi di dircelo, sì o no?”

“Cosa?”

“Come ‘cosa’? Perché sei sparita l’altra sera!”

Nat ruotò gli occhi al cielo: “Ragazze, ve l’ho già detto. Stavo male, mi è presa la febbre! Lo sapete che d’estate mi succede.”

“Nat.” – Irma arricciò un labbro e sollevò un sopracciglio, scettica – “Non ti sei proprio presentata al tuo compleanno. Senza avvertire.”

“E senza neanche Misha.” – rincarcò l’altra.

“Senza neanche lui. E tutto quello che hai da dirci è in un messaggino tre giorni dopo?” – continuò ancora Irma – “Avanti, forza. Che ci nascondete?”

“Ma niente!” – Nat si sentì improvvisamente messa al muro, stentando il più farsesco dei sorrisi di circostanza.

“Io una mezza idea ce l’ho.” – Anya impose le mani sui fianchi, il suo visino ingenuo dai grandi occhiali tondi era diventato tutt’a un tratto inquisitorio; non rideva per niente – “Sparite entrambi, niente spiegazioni, tu che torni a lezione giorni dopo…”

Nat scosse appena la testa, spaesata. Che avessero capito tutto?

“Che idea?” – chiese Irma, scambiandosi occhiate d’intesa con l’amica. Poi spalancò la bocca e la coprì con una mano, fingendo una sconcertante Epifania – “Ma certo! Ha proprio la tipica espressione colpevole.”

“Che? Cosa?!” – Nat aveva iniziato a sudare freddo già da un po’.

Le ragazze la guardarono con occhi di pietra per qualche lunghissimo istante e poi…

“Tesoro…è chiaro che avete scopato!”

Nat rimase un momento interdetta, mentre le sue celluline grigie cercavano di elaborare la cosa: “Eeeeh?!”

“Te lo si legge in faccia!”

“Anzi, direi ‘finalmente’, a questo punto.” – Anya si diede il cinque con Irma – “Com’è stato?”

“Ma…!” – Nat schiaffeggiò sulle spalle prima una e poi l’altra – “Ma siete due psicopatiche! Non è successo niente!”

“Certo, come no!” – e risero ancora.

“Ho detto di no. Se mai ci sarà qualcosa sarete le prime a saperlo, ma non è successo nulla.” – tagliò corto Nat, indecisa se cancellarle dalla lista delle amiche o mettersi a ridere – “E passami una sigaretta, che dopo questa ne ho bisogno anche io!”

Spirò un alito di vento, portandosi via le loro risate.

 

*   *   *

 

Superficie lunare. Mare Frigoris.

 

Lo shuttle di sorveglianza grigio scuro sorvolava silenzioso i grandi crateri e le piane polverose del Mare lunare, sondando la zona con le lunghe antenne inferiori. Una squadra di mezzi operativi lavorava con solerzia lungo l’argine di un cratere, dissestato da quello che doveva essere stato un impatto catastrofico di qualcosa di cui ora rimanevano solo rottami anneriti e sparsi ovunque come ossa.

“Eccolo lì.” – disse Zwei Stein, guardando oltre l’oblò a tenuta stagna – “Il cratere del Wichtig Wotan. Proprio sotto di noi giacciono i resti di un passato inglorioso.”

“Sarebbe quella la grande nave con cui il Terzo Reich abbandonò la Terra?” – chiese Helena, a braccia conserte.

“Esattamente.” – Katrina Winter, presente anch’essa e seduta dall’latro lato delle quattro poltrone, continuò – “Si dice che il giorno in cui cadde il compianto Adolf Hitler una parte dell’esercito fuggì sul Wotan, fondando le colonie lunari. Tuttavia, il piano era di spingersi molto più in là nel Sistema Solare.”

Herr Doktor riprese la parola: “Ci fu un uomo, un Meister che i Registri di Paracelso non avevano previsto, che preferì sacrificare sé stesso e la sua Machine per segregarci su questo pezzo di grigia pietra morta.”

“Esistevano Machine già all’epoca?” – chiese la ragazza.

“Non se ne sa molto, al riguardo.” – rispose la Winter – “Solo che Alberyck fece affondare il vascello del Reich e si sigillò per sempre negli abissi lunari. Proprio in quel punto…”

Passarono sopra il centro della scena: in mezzo a mucchi di enormi piastre di ferro una voragine oscura e profondissima penetrava nelle profondità della Luna, senza riuscire a vederne il fondo.

Poco distante, gli aerei spaziali di cantiere stavano faticosamente sollevando un’enorme mole: una sagoma appena definibile, che un tempo doveva essere stata umanoide ma che ora versava in uno stato di sfacelo e degrado rivoltante. Organi e ossa gigantesche cadevano dalle membra inerti coperte dai resti di un’armatura viola quasi totalmente distrutta. Una sWARd Machine decaduta.

 

“Ma quella…!” – esclamò Helena, appoggiando una mano al finestrino – “Non sarà per caso la Machine di cui stavamo parlando?!”

Nein.” – commentò seccamente il cyborg – “Quella non è Alberyck. Si tratta di una sWAn molto più antica, caduta sulla Luna millenni fa. Il crollo del Wotan ha schiacciato l’Atanor sepolto e questo è il risultato.”

“Ma allora…” – Helena sorrise appena; se così stavano le cose significava che quella che aveva sotto gli occhi era la Divinità Metallica che stavano cercando da tempo – “…Sigrun!”

“Proprio così.” – annuì Undine – “Quello è il trofeo che ti era stato promesso. Ma è troppo malridotta per poter essere utilizzata; dovrete lavorarci su parecchio.”

 

Malridotta? Che importanza aveva?  Era lì e quello bastava. Finalmente sarebbe giunto il suo momento, pensò Helena Heathfield. L’avrebbe riportata al suo antico splendore, trasformandola in un modello ibrido che perfino lei – una Meister mezzosangue, come la definiva Adler Jung – avrebbe potuto pilotare. E poi l’avrebbe usata per vincere. Ci sarebbe voluto del tempo, ma ci sarebbe riuscita. Lei era un genio, dopotutto.

 

“È perfetta, invece.” – sogghignò compiaciuta, e i suoi occhi magnetici si ancorarono al corpo esanime del robot – “Presto! Presto tu ed io faremo grandi cose, Sigrun!”

 

*   *   *

 

Mosca, Russia.

 

Il calore della mattina torrida iniziava a stemperare appena, riversando il sole dorato delle cinque sugli studenti che ancora si attardavano sulla scalinata della Plekhanov.

Nat stava ancora parlando con Irma e Anya – solo leggermente più rinfrancata, rispetto a qualche ora prima – quando quest’ultima si fermò di colpo.

“Oh-oh.” – fece, guardando oltre il vialetto – “Nat, hai un bel po’ di compagnia.”

Lei si voltò e trovò ad aspettarla due volti, uno noto e l’altro meno: erano Miša e un altro uomo in completo nero, che l’attendevano entrambi a una certa distanza l’uno dell’altro.

“Mi sa che ti lasciamo, eh.” – disse Irma.

“Meglio di sì.” – commentò Nat, prefigurandosi già tutto un programma poco allettante.

Appena gli sguardi si incrociarono, Miša le venne incontro a passi svelti.

“Nat! Ehi!” – si fermò vicino a lei, nel suo giaccone verde militare, sorridendole ampiamente – “Non avevo capito che eri già tornata a lezione, ho dovuto chiedere a tua madre. Tutto ok il rientro?”

“Più o meno.” – si sforzò di risultare cordiale.

“Meno male.” – le sopracciglia di Miša si inclinarono in un gesto di sollievo, per poi aggiungere sottovoce – “Non te lo avevo ancora detto, ma c’è mancato poco che non me la facessi sotto dalla paura, l’altra volta! Quel tuo robot era diventato una specie di animale! Come hai fatto a…?”

“Non ho molta voglia di parlarne.” – lo frenò, esausta.

Lui arrossì un po’, evidentemente imbarazzato: “La delicatezza non è il mio forte, eh? Però è stato davvero…insomma, è pazzesco! Mi devi ancora dire tutti i dettagli.

“Miša, davvero, adesso non sono proprio in vena.” – lei si sentì decisamente infastidita dalla leggerezza con cui il ragazzo trattava l’argomento – “E dovrei andare.”

Lui sembrava deluso da tanta freddezza: “E dove?”

E fatti gli affari tuoi!

“A casa.” – rispose con più diplomazia.

“E ci vai con quegli uomini?” – indicò con lo sguardo la macchina nera parcheggiata.

“Sì.” – adesso iniziava davvero ad averne abbastanza, di quel terzo grado.

“Non credo che sia una buona idea.” – lui scosse la testa – “Ti accompagno io, se vuoi.”

“Grazie, ma è tutto ok.” – fece per voltarsi.

“Insisto…” – lui la trattenne per un braccio.

Insomma, Miša!” – quell’urlo le scappò proprio fuori dalle labbra.

Lui si irrigidì, mollando la presa.

“Come ti pare.” – allargò le braccia, sconfitto, e se ne andò offeso.

 

Quando Nat salì sulla vettura, trovò suo padre sui sedili posteriori.

“Andato bene, il rientro a scuola?” – chiese senza vero interesse, quasi per pura forma.

“Alla grande.” – e lei rispose con ancor meno trasporto.

 

*   *   *

 

Quartier Generale del Corpo di Difesa Nazionale Russo (nuova sede permanente), ala ovest; Mosca.

 

Potenti fari si accesero sulle le pareti di freddo acciaio che costituivano la cella di standby della misteriosa Arma Umanoide nera, svelandone il corpo a bruschi tratti. Quando l’ultima coppia di luci si accese sulla testa del robot, Nataša ebbe un sobbalzo.

Da dove si trovava – lì, su di una piattaforma sospesa poco sotto lo sterno dell’Unità – quel miracolo di ingegneria biomeccanica le appariva perfino più impressionante: soltanto il cranio era almeno tre volte la statura di Nat e fu certa di aver visto sfumature d’un ametista che non era di questo mondo sotto il visore ottico. Era davvero enorme.

“Non la ricordavo tanto grande…” – mormorò insicura la ragazza, sollevando la testa per poterla osservare – “…sono davvero salita a bordo di una cosa simile?”

“Esatto.” – riecheggiò la secca voce della dottoressa Asimov, a pochi passi dietro di lei – “Sincronizzandoti con essa sei riuscita dove tutti hanno fallito, sconfiggendo perfino un’altra Machine.”

“Ci hai salvati, Nat.” – disse lentamente suo padre, accanto alla donna.

“Sì, però…non è stato tutto merito mio.”

Ripensare che, senza alcun motivo preciso o preavviso, quella specie di gigantesca bambola meccanica si fosse rialzata in piedi e avesse iniziato a colpire con ferocia il suo avversario la fece rabbrividire. E il pensiero che tutto questo fosse avvenuto non per sua volontà la turbò ancor di più.

“Non ha importanza di chi sia il merito.” – disse la scienziata – “Ciò che conta è che tu ne sia uscita vincitrice. I dettagli sono quasi irrilevanti.”

“Sarà anche come dice, ma io non capisco!” – Nat la squadrò con la coda dell’occhio, contrariata e spaventata – “Come può una macchina inerte agire di propria volontà? Cosa è successo, in quel momento?”

“Non lo sappiamo ancora con sicurezza.” – rispose, calcandosi gli occhiali con l’indice – “I dati raccolti non sono sufficienti per formulare una tesi certa, ma è probabile si sia trattato di un codice di emergenza innescatosi automaticamente.”

“Un codice?”

“Precisamente. Un meccanismo di difesa istintivo, come il rilascio di tossine da parte di una pianta.”

“Le piante sono esseri viventi.” – sottolineò infastidita la ragazza, come se si sentisse trattata peggio di una bambina – “Che istinto può esistere in un computer?”

“Il sistema operativo della sWAn è programmato per difendersi da minacce esterne. Per auto-preservarsi, in pratica.” – fu il signor Novikov a parlare, questa volta – “Inoltre, durante la Sincronizzazione, l’obiettivo primario dell’Unità diviene l’incolumità del pilota.”

Nat rimase ad ascoltarlo confusa e assorta. Evidentemente suo padre ne sapeva quanto la Asimov, se non di più. Continuò a parlare: “Nei momenti di stress, paura eccessiva e ansia il cervello produce una quantità superiore di cortisolo e adrenalina. È probabile che la Machine abbia riconosciuto in te uno stato d’eccitazione critico, facendo subentrare una sorta di…”

 

Nella mente del Presidente Edvard Novikov baluginò una parola, limpida come una scritta a caratteri bianchi su fondo nero: Risveglio.

 

“…pilota automatico.” – preferì scegliere come sinonimo.

“Quindi può muoversi anche senza di me!” – a Nat parve incredibile, oltre che ingiusto, che lei fosse costretta a salirvi a bordo, se era possibile farne a meno.

“No.” – la smentì la Asimov – “La presenza di un pilota al suo interno è fondamentale. Tuttavia, il sistema Doppelgänger conferisce alla Machine anche un’autonomia ristretta, per correggere le imprecisioni mentali.”

“Ma quello che è successo a me va molto oltre questo!” – Nat alzò la voce, convinta che quel giro di parole non rispondesse ai suoi interrogativi.

“Dev’essersi trattato di un calo d’efficienza del Limitatore di Oreikhalkos.” – la donna indicò il diadema incastonato sull’elmo della gigantessa – “Si tratta di un dispositivo inibitore ad algoritmi casuali. Se cessa di operare correttamente la percentuale di autonomia della Machine aumenta.”

“Non voglio salire su qualcosa che può fare come le pare. Non voglio che sia lei a prendere il controllo, come l’ultima volta!”

“Ma, nonostante ciò, ha permesso di vincere le battaglia e di farti sopravvivere.” – puntualizzò con più fermezza suo padre – “Ha assolto alla sua funzione.”

Nat fece per replicare ma si trattenne.

Dopotutto cosa si aspettava? Freya – o qualunque fosse il suo vero nome – era una macchina da guerra. Era scontato che fosse stata programmata per portare a termine ogni missione con meno danni possibili.

Rimase in silenzio.

“Ci rendiamo conto che questa faccenda della guerra non deve essere semplice da accettare, ma da parte nostra avrai tutto l’appoggio possibile.” – il solito vano tentativo di suo padre nell’addolcirle la pillola.

Semplice? ‘Impossibile’ sarebbe stato un eufemismo.

“L’ultima volta non avevate nemmeno delle armi.” – puntualizzò lei, scettica.

“Stiamo lavorando anche a questo.” – annuì Ekaterina – “La prossima volta che scenderai in campo potrai contare su tutto il necessario.”

La prossima volta. – quelle parole rimbombarono nei pensieri della giovane – Ancora un’altra volta. E un’altra ancora. Quante altre volte sarò costretta a provare quella paura, a sentire quel dolore? Fin quando riuscirò a rimanere illesa? Un giorno potrei rimanere ferita, quello dopo potrei rompermi un braccio…e poi…poi…

Il calore ruvido e saldo delle mani di suo padre le cinse le spalle, distogliendola dalle lacrime che erano sul posto di riaffiorare.

“Nat.” – le disse, fissandola diritta negli occhi; le labbra rigide e asciutte – “Tu sei mia figlia. E quella Macchina è l’unico esemplare di cui disponga il nostro Paese. Siete entrambe troppo importanti perché io vi getti in guerra in ogni occasione: scenderai in campo solo quando sarai l’ultima risorsa e in quel caso sta pur certa che farò in modo che non ti accada nulla. In cambio ti chiedo solo di avere un po’ di pietà per me e di non rendere tutto ancora più difficile. Vedrai, presto o tardi tutto finirà e potremmo tornare alla vita di prima. È una promessa.”

Lei lo fissò con i suoi grandi occhi azzurri, femminili ed innocenti, piena di amore e di paure. Quell’uomo era suo padre e il Presidente della Russia. Avrebbe dovuto fidarsi, ma in qualche modo non vi riusciva. Eppure, sentiva che doveva sforzarsi a farlo, perché l’idea di diffidare dall’unico uomo che le era davvero stato accanto dal primo vagito la uccideva e la faceva sentire una figlia disonorevole.

Il suo corpo nudo sospeso a mezz’aria, rune luminose incomprensibili che si agitavano attorno a lei, piume di cigno nere emerse dal nulla e rose scarlatte che fuoriuscivano come sangue da ferite aperte: c’erano così tante cose che ancora non capiva di quell’arma, così tante domande ancora prive di risposta…così tanti segreti che quell’armatura nera ancora nascondeva.

Una creazione dell’uomo poteva davvero somigliare a una tale mostruosità? Non poteva capire tutto ora, questo lo sapeva, la sua mente faticava già a concepire la situazione in cui si trovava.

Avrebbe atteso – sì – e un giorno, forse, avrebbe compreso.

“D’accordo.” – accondiscese infine, con un fil di voce – “Immagino di non avere poi molte altre scelte.”

“C’è sempre un’altra scelta…ma stavolta questa è quella giusta.”

Nat restò un momento ancora in silenzio, stringendosi nelle braccia: “Voglio solo che tutto torni come prima.”

“Un giorno sarà così.” – suo padre le prese le spalle – “E ti giuro che quel giorno tu sarai ancora viva.”

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Capitolo 11
*** Capitolo 9: Macchinazioni ***


9.

 

Macchinazioni

 

Ore 18:00.

 

Una raffica di proiettili. Un’altra. Spostamento a sinistra: ecco uno degli aerei nazisti. Pressione sul grilletto. Esploso in una cascata di codici binari. Spostamento a destra: ne arriva un secondo, in virata. Grilletto. Molti 0 e 1 che spruzzano come scintille.

 

Nat avvertì il suo battito cardiaco farsi più affannoso e sonoro e sentì il suo alito tornarle indietro, nel respiratore di plastica.

 

Un sibilo alle spalle. Quel manichino stilizzato dalle forme appena abbozzate che dovrebbe rappresentare Freya si volta alle spalle, preme ancora il grilletto del mitragliatore appositamente progettato e colpisce appena in tempo un UFO nemico a pochi metri da lei. Altro suono di un rapido sciamare. Prova a voltarsi in fretta, in quella realtà virtuale fatta di esili contorni azzurri e rosa, ma i due caccia avversari stanno già facendo fuoco. Freya si scompone in una cascata di cubi.

 

Una scarica elettrica pervase ogni fibra del corpo di Nat e la visuale dai colori chiari e asettici si disfece rapidamente, lasciando il posto a un reticolato verde su fondo nero, ronzante. Il monitor le proiettava quel disegno sugli occhi, infastidendola.

Di colpo, Nat si ritrovò ad avvertire il peso del casco HMD per le simulazioni che da ormai due ore le indolenziva il collo. Tornò anche a rabbrividire per la sensazione ambigua che le dava quella sostanza vischiosa, simile a gel, in cui il suo corpo era immerso. Era come galleggiare in una vasca di miele, liquido e leggero, che le permetteva di muoversi solo a rilento. E tutto questo doveva farlo alla cieca, con gli occhi sempre impegnati da terreni computerizzati o da quel maledetto schermo fisso nero.

“Esercitazione numero trentacinque terminata. Obiettivi abbattuti: cinque.” – le risuonò nel casco una voce anonima.

“Hai impiegato 4,2 secondi per mettere a tiro l’ultimo bersaglio.” – questa era la Asimov, fredda e calma come sempre – “Cerca di ridurre il tuo gap di puntamento di altri tre quarti di secondo.”

“È inutile, non ci riesco!” – ansimò la ragazza, nella mascherina che le permetteva di respirare in quella specie di muco – “È tutto il giorno che proviamo, non ce la faccio più.”

“Soltanto un’altra prova, per favore.” – concluse la donna – “Riprendiamo tutto dalla sequenza 66; mappa urbana numero 5.”

E il visore si accese di nuovo.

 

Nell’angusta saletta di osservazione, la dottoressa Asimov studiava alternativamente i computer di analisi e le vetrate frontali, oltre le quali una grottesca figura meccanica si agitava in una stanza bianca molto più grande. Una capsula simile a una crisalide conteneva il corpo di Nataša, immersa in uno strano gel verde, vestita solo di un corpetto aderente simile a un costume da bagno. Un pesante elmetto d’acciaio pendeva all’interno, coprendole metà viso; un respiratore a doppio tubo usciva direttamente dal casco e numerosi elettrodi e sensori le ricoprivano gambe, braccia e fianchi. Ai lati del sistema erano connesse quattro lunghe, esili e sgraziate strutture metalliche, che si agitavano, come un paio di gambe e braccia scheletriche. Infine, un cranio meccanico sproporzionatamente più piccolo era stato fissato sulla sommità, mentre una sacca sintetica nella giugulare si gonfiava ritmicamente, simulando il respiro della ragazza; due puntatori sottili come antenne si agitavano nelle orbite, imitando il movimento delle sue pupille.

“Il tasso di simbiosi sfiora il 36% e i livelli di stamina e pulsazioni sono positivi: tutto sommato i risultati sono promettenti, anche se ancora insufficienti.” – meditò la donna, ad alta voce.

“Lo stress psico-fisico l’ha molto provata, ma il tasso di focus medio oscilla tra il 48 e il 50%.” – disse l’operatore seduto al PC, senza smettere di digitare – “È come se si sforzasse di mantenere alta la concentrazione nonostante tutto.”

“È chiaro.” – annuì lei – “Per quanto quella ragazza detesti essere coinvolta in questa guerra sta prendendo la faccenda molto sul serio. Probabilmente lo fa solo per ripicca verso Novikov, ma se riusciamo a spingere sul suo lato psicologico potremmo ottenere un’ottima pilota.”

Guardò ancora i goffi movimenti di quell’enorme marionetta robotica: era chiaro che non avrebbe potuto migliorare ulteriormente, entro la giornata. Concluse: “Per oggi basta così, sospendi tutto.”

 

Le pareti sferiche della capsula si aprirono con un sibilo e il gel sincronico fuoriuscì denso e grumoso. Nat ne venne fuori a fatica, tossendo e cercando di ripulirsi dalla pelle e dai capelli la sostanza viscida e appiccicosa. Tre addetti tecnici le si avvicinarono per coprirla con dei teli termici, insieme alla Asimov: “Sei stata brava, Nataša. I tuoi punteggi sono aumentati di tre punti.”

“Ma non è abbastanza, lo so.” – replicò la ragazza, a denti stretti – “Se non riesco a migliorarmi finirò ammazzata.”

“Un passo alla volta. Impara a non chiedere troppo a te stessa.” – Nat apprezzò il tono comprensivo con cui, per una volta, la Asimov le si stava rivolgendo e si– “.”

Nat apprezzò il tono con cui, per una volta, la Asimov le si stava rivolgendo ma non poté fare a meno di sorprendersene, e ne fu ancora più stupita quando le fece la rara concessione di un accenno di sorriso e di un “Possiamo farcela.”

Se quello che aveva spinse la dottoressa a questo moto di comprensione fosse malinconia, rispetto o forse solo pietà, Nat non seppe dirlo.

 

*   *   *

 

Sala Macchine – Area Riparazioni; Base Lunare ‘Golgotha’.

 

Una folata di vapori che puzzavano di ferro investì le narici di Zeitland, non appena le spesse porte automatiche a tenuta stagna gli si aprirono davanti. Mosse qualche passo sulla predella metallica verso il gigante rosso che spicavva tra i fumi dei macchinari: Fafner attendeva silenzioso la prossima uscita, ancorato da una decina di blocchi di sicurezza come pareti. La piastra pettorale era sollevata, mostrando lo spazio d’alloggiamento per la Camera di Flamel e l’elmo era stato rimosso. Un cranio scheletrico ricoperto di pelle grigiastra da rettile mostrava i piccoli denti aguzzi; due occhietti azzurri ruotarono in direzione del pilota, seguendolo attentamente.

“Come procedono le riparazioni, Herr Doktor?” – domandò sollevando la voce oltre il rumore degli ingranaggi in movimento.

“Ah! Ach so!” – l’anziano e arrugginito ometto in camice chiazzato di grasso nero si rialzò dalla postazione su cui era chino, incrociando le braccia al petto – “Eccoti qui, Oberstleutenant Dietrich!”

“Dormito bene?” – chiese lui, con un finto sorriso.

“Molto divertente, Zeitland!” – borbottò il cyborg, con quella sua disfunzione del fonodizionario che gli conferiva sempre quel caratteristico accento sulla ‘r’ da Tedesco fine secolo – “Anche se fossi programmato per dormire non ne avrei il tempo, con tutto il lavoro che c’è qui!”

“Non mi dirà che non è in grado di rimetterlo in sesto, vero?”

“Che domanda inutile!” – sbuffò con sommo disappunto; uno dei pochissimi passatempi che Zeit si concedeva era far inviperire Zwei Stein. – “Certo che sono in grado, ich bin ein Wissenschaftler![1]Ma aggiustare Fafner richiederà tempo.”

“Quanto?”

“I danni all’armatura sono ingenti, ma nulla che non si possa riparare.” – Stein scuoteva la testa come se ci stesse riflettendo solo ora – “Tuttavia, l’autorigenerazione del braccio impiegherà non meno di due mesi.”

“Non si può accelerare?”

“Dannazione, nein! Questa non è una macchina come le altre! Questa…” – e puntò il dito contro il gigante rosso, con tutta l’indignazione che i suoi muscoli artificiali gli consentivano – “…è una sWARd Machine, Zeitland Dietrich!”

“E sarebbe preferibile farla rientrare tutta d’un pezzo.” – una voce femminile lo colse alle spalle.

Zeit ruotò gli occhi al cielo: “Helena.”

La solita ficcanaso impertinente. Eppure, era lei, dopo Herr Doktor, la coordinatrice del Progetto per lo studio e l’impiego delle Divinità Metalliche.

“Ben svegliato, Zeit. Oggi non passi a trovare quella noiosa Siren?” – chiese con il solito tono saccente di cui non poteva fare a meno.

“Non sono affari tuoi e comunque no.” – la trovava veramente fastidiosa – “Sono qui per Fafner.”

“Ah, già.” – si fermò a pochi centimetri da lui, che la superava nettamente in altezza – “Certo che è ridotto male, poverino. Il Secondo Soggetto Designato che riporta alla base la sua Unità in questo stato…non è proprio da te.”

“Hai ragione, sono una delusione.” – ribatté lui, con un falsissimo cruccio – “Ma tu sei più fortunata di me. Se dovessi perdere, nessuno se la prenderebbe più di tanto.”

 

Helena si sentì pietrificare. Di tutte le ingiurie che avrebbe potuto sputarle addosso, aveva scelto davvero la peggiore: insinuare addirittura di non essere in grado di ottenere alcun successo. Che stronzo. Però, ai suoi occhi, lui era così perfetto, così inarrivabile! Talmente tanto – talmente bello – che ogni cosa spiacevole sembrava perdere consistenza paragonata a lui. E lei si sentiva sempre così disarmata, davanti a tanta perfezione.

 

“È inutile che scarichi su di me i tuoi demeriti.” – la ragazza alzò il mento con aria di sfida – “La mia Machine non è pronta, quindi non azzardare pronostici!”

“Insomma, basta voi due!” – inveì Stein, separandoli e agitando nervosamente le mani – “Mi farete fondere i circuiti! Helena, tu piantala. E tu, Dietrich, vedi di farti bastare il tuo blackbird per le prossime uscite. Ora vieni con me, voglio mostrarti una cosa.”

 

Herr Doktor li scortò attraverso i Livelli adiacenti inferiori del Settore-2, oltrepassando l’area di produzione in serie dei velivoli militari, tra cui Zeitland riconobbe il Siegried: un blackbird dalle ampie ali ricurve e ripiegate verticalmente, come ali di un chirottero, mentre il collo era sollevato da un sistema a scorrimento, rivelando la cabina interna. Poggiava su carrelli d’atterraggio simili più ad artigli, che a ruote.

Superate le piattaforme di smistamento degli Haunebu, e raggiunta la sezione destinata all’industria pesante, si ritrovarono a fronteggiare l’immensa mole di un cannone di calibro spropositato, che svettava oltre gli eterni vapori e le scintille di Golgotha. Lungo oltre duecento metri, era sorretto da due equilibratori e da un sistema di sollevamento alti come palazzine e tempestato di enormi bulloni e rivetti. Gru e bracci meccanici si contorcevano dal soffitto, disponendo grandi piastre di ferro sulla copertura superiore della canna. Una ventina di uomini era abbarbicata sui pioli e sulle predelle disposte ovunque sulla sua struttura, rinforzando saldature o lanciandosi ordini attraverso la sala.

“Eccolo qua. Un cannone al cui confronto Gustav e Dora sono solo timide fantasie infantili!” – la voce di Herr Doktor, così ben programmata per esprimere costante tripudio verso il Reich, sovrastava appena il rumore del cantiere. – “L’Arma Finale che ci garantirà la vittoria! Il Gravitonenpartikelkonzentration-Superschwerekanonen[2]!”

“Un’arma in grado di uccidere anche gli Dèi…” – mormorò Zeitland, studiandolo – “…proprio come richiesto dal Kaiser.”

Il mustaccio bianco di Zwei Stein si incurvò in un sorrisetto: “Götterdämmerung.”

Poi, mentre procedevano per i ballatoi laterali, spostò l’attenzione verso la sezione della gigantesca camera di scoppio, dove la culatta aperta rivelava un reattore connesso a spessi tubi e cavi che pendevano fino al suolo.

“Gli studi condotti dal Terzo Reich non si fermavano al Motore a Vuoto Perpetuo degli Haunebu e al Cancello di Trasporto Materico. Anche la scoperta dei gravitoni è una loro eredità e ora che siamo finalmente riusciti a realizzare la camera di scoppio tensoriale potremmo finalmente renderle giustizia.”

“Un’arma del genere avrà bisogno di molta forza per essere manovrata.” – puntualizzò Dietrich – “A che punto è la creazione del Nidhoggr?”

“Sta venendo ultimato nel sito di costruzione nascosto nel Mare della Serenità.” – rispose Helena – “Data la distanza che lo separa del resto della base, siamo stati costretti a cannibalizzare componenti del Wichtig Wotan schiantatosi sul Lato Chiaro, compreso il motore degenerativo.”

“Il solo equipaggio umano non sarà sufficiente a riattivare il motore del Wotan, dopo oltre un secolo.” – continuò ancora Stein – “Quest’arma è stata pensata per essere utilizzata in combinazione con almeno due Machines.”

E nella mente di Zeit iniziarono a farsi largo fantasie di vittorie e di riscatto: “Dobbiamo accelerare il Risveglio delle altre Unità.”

 

*   *   *

 

Ore 21:35. Mosca, Russia.

 

“...no. Non lo farò. Non scendo a patti di questo tipo.”

Nel buio della stanza, rischiarato solo da una lampada al neon, Edvard Novikov era chino sulla scrivania in metallo. Se ne stava in piedi, troppo teso per sedersi sulla seggiola a rotelle che aveva scansato di lato, e reggeva in mano il telefono cordless a linea criptata. Nonostante sapesse che le parenti in cemento armato di quel posto erano state insonorizzate, non riusciva a combattere l’istinto di trattenere il più possibile la voce.

“Non ha molte alternative.” – dal telefono venne la vece di uomo, sfrigolante e distorta, come stesse chiamando da un luogo molto lontano – “E le altre sono tutte peggiori.”

“Ma in un centro abitato?!” – Edvard strinse i denti e assottigliò la voce ancora di più, se possibile – “No, non posso farlo. I danni sarebbero enormi e io…”

“Perderebbe credibilità.” – l’uomo al telefono non sembrava sorpreso – “E quella Machine di certo verrebbe sigillata dalle Nazioni Unite.”

“E crede di privarmi così della mia miglior difesa?” –Novikov azzardò un tono di sfida – “Per mettermi con le spalle al muro di mia volontà?!”

“Sappiamo entrambi che la politica non cambierà l’esito di questa guerra.”

Breve pausa.

“No, infatti. È per via dei ragazzi, ovvio.” – Novikov si sentì improvvisamente seccare la bocca.

“Uno, in particolare.” – precisò la voce – “Sistemato lui tutto sarà concluso. L’Umanità sarà salva.”

“Ma per quel giorno…dovremmo aver concluso il Progetto, giusto?”

“Esatto. Se la sua Unità verrà presa in custodia gli studi procederanno molto più in fretta, ma una cessione volontaria insospettirebbe chiunque. Quando le conoscenze saranno adeguate anche l’Arma Risolutiva potrà essere conclusa.”

Ancora i sospiri a capo chino del Presidente.

“Faccia come le dico e avrà ciò che vuole.” – e l’altro chiuse la conversazione.

Novikov riagganciò il telefono nell’alloggiamento scavato nella scrivania e girò i tacchi. Attraversò il miniappartamento, tra computer, pannelli domotici e scaffalature cariche di cibi a lunga conservazione. Raggiunse la porta blindata, digitò il codice e l’aprì, salì in fretta i pochi gradini di cemento nudo subito dopo e spinse una sezione quadrata del basso soffitto che aveva sulla testa. La botola sul pavimento della stanza di disimpegno si sollevò, l’uomo ne emerse e se la richiuse dietro, quindi uscì nell’aria della sera. Attraversò il breve tratto di giardino che separava la finta dépendance dall’ingresso della residenza Novikov e rincasò.

 

Poco dopo, Edvard Novikov si abbandonava sul letto matrimoniale, sul quale trovò ad attenderlo sua moglie, nel suo pigiama rosa salmone, con un libro in mano alquanto denso. Novikov si lasciò andare a un sospiro di sollievo mentre si infilava sotto il lenzuolo, inforcava gli occhiali da presbite che aveva imparato ad accettare con l’età, e accendeva il tablet sul comodino.

“Tutto bene?” – chiese Arina, con lo stesso trasporto di un lettore vocale e senza staccare gli occhi dal suo libro.

“Ora che sono a letto, sì.”

“Di che si trattava?”

“Mah, niente di che.” – nemmeno lui traboccava d’entusiasmo, mentre si accingeva a scorrere le ultime notizie di finanza internazionale – “Le solite rotture di lavoro.”

“Certo.” – quella parola suonò venata di indiscutibile sarcasmo – “Niente che posso capire.”

Edvard si staccò solo un po’ dal telefono, guardandola da sopra l’asticella degli occhiali: “Non ho detto questo.”

“Non c’è bisogno che lo dici.” – sua moglie continuava a fingere di leggere – “In fondo io sono brava solo a fare da cena e salutare in pubblico.”

“Ma che stai dic-?” – a quel punto Novikov aveva lasciato andare lo smartsquare, mentre il sesto senso maritale iniziava ad avvertirlo che la serata sarebbe andata in bianco – “Ora qual è il problema?”

“Non lo so, dimmelo tu. Non mi dici mai nulla.”

“Ma…ma non è vero!” – anche gli occhiali iniziavano a pesare troppo, sul naso di Edvard – “Ti racconto tutto, ci diciamo ogni cosa!”

Ogni cosa?” – ripeté lei, fissandolo negli occhi.

“Tutte quelle che contano.” – e lui sostenne il suo sguardo, duramente.

“Bene.” – anche lei decise che posare il libro sarebbe stato più comodo – “Allora dimmi di cosa parlavi al telefono.”

Lui continuò a tenerle gli occhi ancorati addosso, ma non per audacia. Lo aveva interdetto, quella domanda, quasi come se un piccolo cortocircuito fosse avvenuto dentro di lui e non potesse muovere un solo muscolo per qualche istante. Lei annuì molto lentamente con la testa, con un ghigno amaro ad incresparle la bocca.

“Perché questo terzo grado, adesso?” – le chiese, sconfitto.

“Perché sento di non sapere più niente, Edvard.” – la voce le si era fatta più debole, gli occhi struccati più gonfi – “Sento che non ti conosco più. L’uomo che ho sposato, che ha pianto davanti ai risultati dell’ecografia, non avrebbe mai anche solo pensato di poter decidere della vita di sua figlia.”

L’uomo si tirò a sedere sul letto, facendo appello a tutte le poche forze e autocontrollo che gli erano rimasti quella sera: “Ancora questa storia? Arina, ti prego! È già abbastanza difficile così. Te l’ho detto e ripetuto, te l’ho giurato sulla mia vita. Devi. Fidarti. Di me. Andrà tutto bene. Io amo Nat, amo Luka…e amo te!”

E cercò i suoi capelli, sfiorandoli: “Capito? E tu, invece?”

Lei fissò un punto nel vuoto, tra le sue gambe coperte dalle lenzuola, e con la voce impastata da lacrime trattenute sfoggiò la più diplomatica delle risposte, con quel tono artefatto che la vita da first lady russa le aveva insegnato tanto bene: “Ma certo che ti amo.”

Lui fece per baciarla, sfiorandole con le dita la mascella, ma lei si retrasse.

“No.” – era tornata a non guardarlo – “Sono mesi che dici che non sei in vena, ora non usarlo per farmi stare zitta. Buona notte, Edvard.”

E si coricò, dandogli le spalle. Lui fece lo stesso e il sonno ebbe pietà di loro.

 

 

 

 

[1] Dal Tedesco; lett.: “io sono uno scienziato!”

[2] Dal Tedesco; lett. “Cannone super pesante a concetrazione particellare gravitonica.”

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Capitolo 12
*** Capitolo 10: Di Nuovo ***


10.

 

Di nuovo

 

 

Dipartimento Ricerca e Sviluppo; Quartier Generale del Corpo di Difesa Nazionale Russo; Mosca.

 

I passi del Caposquadra Sergej Ivanovič risuonarono freddi e ridondanti sul pavimento di ferro maltrattato da anni di stivali militari. Quando si fermò davanti all’uomo e alla donna che lo attendevano batté i tacchi e si portò una mano alla fronte:

“Il soggetto richiesto è arrivato, signore.”

“Fallo entrare.”

 

La porta automatica rinforzata si aprì e Miša Vasyljev mosse pochi passi incerti verso l’interno. Salutò marzialmente e parlò con più calma possibile: “Voleva vedermi…signor Novikov?”

La giacca elegante che stava fissando si voltò di tre quarti, mostrandosi come il padre di Nat; il suo sguardo era più cupo del solito, le sopracciglia inclinate; al suo fianco l’onnipresente dottoressa Asimov. Miša non poteva fare a meno di pensare a qualche relazione non strettamente lavorativa tra i due.

“Sì. Ben arrivato, Miša. Volevo parlarti a proposito di un progetto a cui stiamo lavorando.” – spiegò subito – “Salterei i convenevoli, dato che credo di potermi fidare di te.”

“M-ma certo.” – il ragazzo deglutì; se da un lato quella frase gli infuse soddisfazione, dall’altro lo mise all’erta.

“Penso sia inutile fingere riguardo a quanto successo a Baksheevo; la posizione di mia figlia, in questa storia, è ormai chiara.”

“Già. Me ne rendo conto.” – il ragazzo abbassò lo sguardo.

Nat: la sua migliore amica, fin da piccolissimi. La piccola, bella, delicata Nataša Novikov; la ballerina sorridente e a tratti petulante a cui si era abituato aveva improvvisamente assunto un altro aspetto, ai suoi occhi. Una pilota di robot da battaglia, un’eroina impreparata. Forse persino una rivale.

“Non voglio coinvolgerla oltre il dovuto ma non posso neanche impedirlo.” – continuò l’uomo – “Tu sei un militare e sei suo amico; meglio di chiunque altro dovresti comprendere la delicatezza della situazione.”

“Sì. Certo.” – annuì ancora, per nulla allegro.

“Quindi voglio che tu la protegga.”

“Cosa?” – la testa del giovane scattò meccanicamente, colto alla sprovvista.

“Presto dovrete compiere una missione e voglio che te ne faccia carico, che ti renda responsabile della sua vita.” – disse ancora, duro e privo di empatia – “La sua incolumità deve essere il tuo obiettivo primario.”

Ok, qui si inizia a correre un po’ troppo.

“Un momento, non saltiamo subito la parte dove devo ancora accettare!” – gli venne istintivo mettere le mani avanti – “Io voglio molto bene a sua figlia, lei lo sa, ma non so se posso accollarmi una simile responsabilità!”

“Sei un soldato, no? Non c’è bisogno che sia tu ad autorizzare un mio ordine.” – le parole Novikov pesarono come macigni – “Io devo essere un punto fermo per un’intera Nazione. Tu pensi di poter badare a una sola persona?”

Stava quasi per rispondere di no, ma con che coraggio? Stava parlando con il Presidente in persona. Stava parlando col padre della ragazza che da sempre era stata il suo unico chiodo fisso.

Si parlava di Nat. Rifiutare di proteggerla sarebbe stato un gesto di viltà peggiore che vendersi al nemico.

“Io…cioè…” – si morse un labbro e ingoiò, poi sospirò – “…cosa vorrebbe che faccia?”

Edvard annuì con il capo e si voltò verso la donna al suo fianco:

“Dottoressa?”

“Abbiamo analizzato i tuoi ultimi risultati alle esercitazioni volo.” – disse lei, calcandosi i sottili occhiali e scorrendo con lo sguardo il tablet che reggeva – “I tuoi punteggi oscillano oltre la media, il che è rilevante per uno della tua età. Pensiamo tu sia adatto.”

“Adatto per cosa?” – chiese sospettoso.

“Per questo.”

 

Con un cigolio meccanico, una struttura simile a una gabbia si sollevò dal grande spazio hangar oltre il loro piano, ruotando lentamente oltre la loro altezza: un caccia da guerra era saldamente ancorato in verticale. Era molto più ampio di quelli standardizzati, con ali ricurve a ‘W’ e alettoni stabilizzanti extra sulla fusoliera e sulla coda, senza contare le due strutture rigonfie su di esse inserite che Misha riconobbe subito: box di sganciamento missilistico automatizzati, una rarità. La forma era elegante e i post-bruciatori diversi dal solito: stretti e rettangolari, senza cono centrale di deflusso termico, probabilmente alimentati con un combustibile differente dalla nafta b-4. E, soprattutto, come non notare l’appariscente – forse perfino fuori luogo – tinta rosso magenta?

Miša sentì pendergli la mascella: “È strepitoso…non ho mai visto nulla del genere.”

“Motore a propulsione ibrida: azoto liquido e biomasse combustibili; intelaiatura termica a trattamento anti-subzero; sistema di puntamento automatico, ventiquattro missili termo-ricettori e due testate speciali all’astrolite.” – spiegò la donna, con una vena di autocompiacimento – “La struttura è internamente integrata con fibre staminali sintetiche e il computer di bordo adotta gli schemi neurali dei rapaci.”

“Sarai tu il suo pilota.” – aggiunse Novikov, sorridendo impercettibilmente.

Miša rimase a fissarlo come un bambino davanti a un nuovo giocattolo: Io pilotare una cosa simile? Un aereo del genere…sarebbe imbattibile!

Non si rese nemmeno conto di aver presto dimenticato il suo cruccio per Nat.

“Lo abbiamo denominato Stealth Fighter Multiruolo di decima generazione, Modello Sperimentale ad Algoritmi Bionici, ma dato che si tratta di un aereo rivoluzionario forse meriterebbe un nome con più…carattere.” – riflettè ad alta voce la Asimov.

Rivoluzionario, sì…un termine più appropriato non sarebbe potuto esistere. Un mezzo con cui compiere la propria personale Resistenza, con cui dimostrare a tutti il proprio valore. Essere vicino a quella ragazza, proteggerla. E poi, ovviamente, purgare la Terra da quella feccia d’uomini in nero. Non era un compito di poco conto, ma il fatto che lo avessero affidato a lui lo riempiva di orgoglio e quell’aereo la avrebbe aiutato ad adempiervi.

Earnest.” – un sorriso soddisfatto si dipinse sul volto squadrato del giovane cadetto – “Lo chiamerò così.”

 

*   *   *

 

Giorno seguente, ore 16:21; Mosca.

 

Nat attendeva già da qualche minuto l’arrivo della metro, quel giorno stranamente in ritardo. Sedeva sulla panca della metro moscovita, che versava in uno stato di decoro che avrebbe potuto vedere giorni peggiori, ma di certo ne aveva visti anche di migliori. A dispetto del resto dell’elegante Linea 3 – il biglietto da visita della rete sotterranea di Mosca – la stazione del quartiere in cui quel giorno si era trovata a dover frequentare preferiva il freddo e squadrato marmo scuro ai muri bianchi e agli eleganti lampadari che adornavano le fermate risalenti alla metà del XIX secolo.

Se ne stava rincantucciata in una delle nicchie antistanti i binari, con un paio di auricolari a isolarla dal mondo esterno. Avrebbe dovuto vedersi con Irma e Anya alla fermata di Park Pobedy – erano state loro a insistere per una passeggiata dopo la sparizione di Nat di qualche giorno prima – e nonostante l’idea di poter trascorrere un po’ di tempo tra sole ragazze non le dispiaceva, sentirsi pienamente felice le riusciva impossibile. Probabilmente captare i mozziconi dei discorsi dei passanti, che accennavano tremanti alle ultime notizie di politica internazionale o azzardavano teorie cospirazioniste intorno alle foto di Baksheevo non la aiutavano.

Era sul punto di messaggiare le sue amiche del lieve ritardo in cui versava, quando lo smartsquare si accese e vibrò. L’ icona di un lucchetto sullo schermo e la parola ‘ENCRYPTED’: una chiamata sulla linea privata che Novikov le aveva fatto installare. Si sentì ancor più sconfortata di prima e si preparò passivamente a cambiare i piani del pomeriggio già prima di rispondere. La notizia che le venne comunicata dalla voce di uno sconosciuto segretario di suo padre la costrinse a cambiare il “metro in ritardo, 10 min” che aveva intenzione di scrivere in “contrattempo, non posso venire. sorry”. A poco servì la chiamata di Anya, tempo un paio di minuti dopo, scongiurandola di graziare le sue amiche di un po’ del suo tempo, specie per un impegno preso da tempo e a cui lei replicò con le giustificazioni più blande e generiche che la fantasia le suggerì.

 

*   *   *

 

Poco dopo.

Sala privata insonorizzata; Ministero di Difesa Nazionale.

 

Quando Nat entrò nella stanza strategica non si aspettava che le sarebbe apparsa così: relativamente stretta, non più lunga di sette od otto metri e di uno sgradito color grigio-bluastro; un tavolino di acciaio su cui galleggiava l’ologramma del planisfero occupava il centro della stanza mentre ai lati erano posti due bassi divani e perfino un frigo-bar. La parete in fondo era occupata da un enorme schermo curvo, sul quale si ripeteva fisso il logo dell’ONU.

Non si sarebbe neanche aspettata che una stanza del genere avesse potuto ospitare tanta gente: in tutto dovevano esserci quasi una ventina di persone, tutti in divisa militare. Tranne uno.

“Sei arrivata, finalmente.” – suo padre, che tentò di rivolgerle un’espressione di sintetica serenità.

“Che sta succedendo?” – chiese lei, passando in rassegna i volti poco amichevoli dei militari in piedi.

Poi ne notò uno, seduto nel divano di destra, gomiti sulle ginocchia: “Miša? Che ci fai tu, qui?”

Lui abbassò in fretta lo sguardo, stentando appena un sorriso di circostanza.

“Stavamo per discutere della prossima missione.” – Novikov riprese la sua attenzione.

“Quale missione?” – decise in fretta che l’argomento non era dei suoi preferiti.

Il Presidente iniziò a far scorrere con l’indice la mappa del pianeta, concentrandosi e zoomando sulla Polonia: “Domani si terrà un incontro a Varsavia tra il Presidente polacco e un portavoce del Reich. In quanto Stato confinante con il nostro Paese, non possiamo permettere che venga assorbito dall’Asse: perderemo un anello della nostra cintura di sicurezza troppo delicato.”

“Mi scusi, signore.” – intervenne il sottoufficiale Ivanovič – “I nostri nemici possiedono aeronavi molto più all’avanguardia delle nostre; a cosa servirebbe un controllo territoriale, se possono attaccarci dal cielo? Senza contare quella Machine rossa, che sembra potersi materializzare ovunque.”

“Vero.” – asserì l’altro – “Ma per quanto potenti le loro armi non sono infinite. Anche se non lo danno a vedere, ci temono. È per questo che sperano di rompere le nostre Intese internazionali: per privarci di risorse.”

“Non starete pensando di boicottare l’incontro?” – li interruppe Nat, contrariata – “Così, aprendo uno scontro, in mezzo a una città per giunta?! Che immagine daremo di noi?!”

Un lieve brusio si levò in sala, interdetto ma in qualche modo accondiscendente.

“In vero c’è la probabilità di una manifestazione popolare antinazista.” – precisò l’uomo – “Dati i precedenti è quasi certo che apriranno il fuoco contro i civili, a quel punto avremo un pretesto per passare all’azione.”

“Ma non ha senso!” – Nat alzò la voce, contravvenendo a ogni norma di rispetto verso un capo di Stato – “E poi combattere in piena città? E i danni?! Chi ha pensato a questo piano?!”

Ivanovič e Novikov si scambiarono uno sguardo allucinato, tossendo con disappunto.

“Nat…” – Miša avrebbe voluto arginare i disastri ma lei era già oltre.

“Non siamo nemmeno certi che ci sarà la rivolta!”

“Ne siamo piuttosto certi.” – la corresse suo padre, irritato dalla tanta sfiducia della figlia.

Quando la ragazza capì che tentare di far valere le proprie ragioni era del tutto inefficacie buttò fuori l’aria dai polmoni e tentò di calmarsi, solo per aggiungere dopo: “Che cosa mi hai chiamato a fare?”

“Prenderai parte alla missione.”

Una sfera di piombo era cascata al suolo. Un soffitto era crollato, una bomba era esplosa nel bel mezzo del nulla. Quella frase. Quella singola frase stordì Nat come un pugno.

“Che…cosa?” – le sembrava di non avere più lo stomaco e che il pavimento si stesse incurvando come un’onda.

“Mi dispiace dirtelo con così poco preavviso, ma non c’è scelta.” – commentò suo padre con gli occhi di tutti puntati addosso.

“Nat, stai tranquilla…” – Miša le si avvicinò ma lei si fece da parte, lo sguardo perso e terrorizzato.

“Avevi detto che non mi avresti sempre tirata in mezzo.” – mormorò rivolta al padre – “Che avresti ricorso a me solo come ultima scelta.”

“Questa è una situazione d’urgenza.” – rispose lui.

“No…non è possibile…non puoi…” – iniziò a salirle la nausea e le lacrime le offuscarono la vista – “…non di nuovo! Non puoi chiedermi di combattere ancora, non così presto!”

“Nataša, per favore.” – Novikov sollevò le mani, quasi ad arginarla.

“No!” – gemette lei, portandosi le mani nei capelli, parlando a bocconi – “Io…non posso…non ce la faccio! Non lo voglio fare!”

E fuggì via dalla stanza, le guance in fiamme: “Ho bisogno d’aria!”

Prima che il silenzio divenisse ancora più imbarazzante, Miša la seguì rapido, lanciando un’occhiata al Presidente: “Ci penso io.”

 

Fuori, Nat mosse pochi passi nervosi per il corridoio, portandosi le mani al viso umido di lacrime, passandosi le dita tra i capelli; si poggiò al muro con le spalle, preda di un singhiozzo irrefrenabile.

“Nat! Ehi!” – Miša comparve dall’angolo; provò a sfiorarla ma lei lanciò un gridolino.

“Per favore, lasciami! Basta!” – fremette tra le convulsioni che le impedivano perfino di udire le parole del ragazzo, ridotte a un ronzio confuso.

“Dai, aspetta, calmati!”

“No, lasciami, lasciami! Non voglio, non voglio…!”

Stava raggiungendo il limite dell’isteria, quando l’amico l’afferrò per le braccia e la scosse con vigore: “PIANTALA!”

Lei si congelò.

Le aveva urlato contro con una violenza e una forza che non si sarebbe mai aspettata, ma in qualche modo non ne rimase offesa.

“Adesso calmati!” – continuò lui, con la voce tremante dal senso di colpa ma senza mollarla – “Guardami, Nat!”

Lei gli rivolse un’espressione persa e disperata.

“Andrà tutto bene.” – la rassicurò, con il tono di chi cerca di far calmare un neonato – “Affronteremo questa cosa insieme.”

Lei scosse la testa, provando a trattenere altre lacrime: “Alla fine ha coinvolto anche te…”

Suo padre. Dopotutto era riuscito a invischiare nella melma nera e disgustosa della guerra anche il suo migliore amico. Iniziava davvero a odiare quell’uomo che l’aveva messa al mondo.

“Questo non è un problema.” – fece Miša, accarezzandole la spalla che prima stringeva – “Mi sta bene così, se siamo insieme. Farò in modo che non ti accada nulla, vedrai.”

Lei annuì piano. La cosa non le dava per niente sicurezza e di certo non le faceva andare più a genio l’idea di salire a bordo della spaventosa Arma Umanoide del Lago Baksheevo, ma d’altro canto sapeva che in un modo o nell’altro suo padre avrebbe ottenuto ciò che voleva. Tanto valeva rendere meno complicato il processo. Scrutò ancora negli occhi ingenui e melanconici del suo amico, con quel suo sorriso forzato che cercava di trasmetterle fiducia. Quel viso le dava così tanto conforto. Ma nonostante ciò era certa, intimamente convinta, che alla fine di tutta quella storia non ci sarebbe stato spazio per entrambi.

 

*   *   *

 

Giorno seguente. Ore 8:07.

 

Con un grande frastuono una squadra di dieci Sukhoi T-80 si sollevarono dalla pista di decollo della base militare di Mosca; al centro della formazione un gigantesco aeromobile squadrata dalla tinta verde scuro diresse i suoi repulsori verso il basso, sollevandosi in verticale. Un Dollhouse: un cargo operativo da trasporto, supporto e manutenzione temporanea appositamente ideato per una sWARd Machine. Essa e la sua pilota stavano volando verso il prossimo rimpianto.

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 11: Fiori Calpestati ***


11.

 

Fiori calpestati

 

 

Ore 12:00. Varsavia; Polonia.

 

Tre avveniristici dirigibili neri lunghi più di duecento metri ciascuno galleggiavano in formazione nel cielo sopra Varsavia; spesse funi d’acciaio li tenevano ancorati alle mura dell’ambasciata polacca, con gli arpioni a sfondare senza riguardo i marmi di rivestimento. In fondo alla lunga via che collegava alla piazza iniziavano a riecheggiare cori indistinti.

 

*   *   *

 

Ambasciata degli Esteri.

 

Due soldati Nazisti armati di mitragliatori coprivano la porta in legno dell’ufficio d’ordinanza. Appoggiato alla parete di sinistra Zeitland osservava il suo superiore tentare con ottimi risultati di intimidire il Presidente polacco.

“Pensa di aver riflettuto abbastanza?” – chiese in un ottimo polacco e con una vena di impazienza il Colonnello Albrecht, fissando con il suo unico occhio buono l’emaciato politico appiattito, più che seduto, alla scrivania.

“Dovrei davvero firmare questo Trattato?” – le mani rigide e anziane dell’uomo tremavano – “Consegnare il mio Paese in questo modo?”

“Abbiamo già ottenuti accordi con Berlino e sa bene che per la politica militare dipendete dalla Germania, al momento. Non vorrete trovarvi contro, quando sarà il momento?”

Il Presidente sorrise amaramente, scuotendo il capo:

“Proprio come più di un secolo fa…ma che diavolo vorrete da questo Paese? Il nostro esercito è praticamente…”

“Con o senza il suo consenso otterremo comunque il risultato voluto.” – lo zittì Albrecht – “Faccia la scelta giusta e lo renda indolore.”

L’uomo era sul punto di replicare quando un vociare sciamante e cadenzato come tamburi ben scanditi fece vibrare la finestra alle sue spalle. Albrecht si avvicinò e guardò fuori: giù, nella via antistante la piazza, un fiume ondeggiante di umanità gridava e marciava verso l’Ambasciata, stendendo in alto grandi cartelli e striscioni imbrattati di frasi scritte in polacco. ‘MEGLIO PERDERE LA VITA CHE LA DIGNITÀ’, ‘POLONIA LIBERA SEMPRE’, ‘MORTE AI NAZI’.

“Come previsto. Che seccatura.”

“Me ne occupo io.” – Zeitland aveva già un piede oltre la porta – “Lasci fare a me.”

 

*   *   *

 

Dietrich raggiunse a rapidi passi l’esterno del palazzo, dove una folla scomposta, urlante e contrariata inneggiava cori di protesta.

A reprimerli si erano parati una decina di soldati delle SS che, gridando ammonizioni in Tedesco lunare, sparavano ai piedi dei manifestanti per farli retrocedere. A ogni raffica grida di paura mista a rabbia si levavano e il corteo indietreggiava per pochi metri, solo per rifarsi nuovamente avanti.

Un uomo sbraitava rabbiosamente dalle scale dell’Ambasciata, impartendo ordini a destra e a manca: il grasso, corpulento e – secondo perfino l’opinione di diversi membri di Golgotha, Zeit compreso – l’insopportabilmente vizioso Sturmbannführer Otto Schleiser.

“Indietro! State indietro se non volete che vi riempia di piombo, cani schifosi!” – gridava sbracciandosi per dirigere le sue truppe – “Non li fate avvicinare! Sparate! Sparate finché non si allontanano!”

“Che sta succedendo, qui?” – Zeitland gli comparve alle spalle.

L’uomo si voltò e lo guardò con gli occhietti piccoli e infossati nel lardo della sua testa rotonda sormontata dal piccolo cappello nero; parlò con una voce roca di irritazione mista a paura: “Mein Herr, non vede?! Questi viscidi ribelli terrestri ci insultano!”

“Con dieci uomini a disposizione non riuscite a contenerli?”

“Sono troppi e non recedono!” – protestò l’uomo in modo quasi infantile – “Se non ne butto giù qualcuno non si fermeranno!”

“Gli ordini sono di non sparare finché la situazione non sia critica.”

Schleiser inveì verso la folla: “Al diavolo gli ordini! Io li imbottirei tutti di-!”

Un sibilo acuto sorpassò ogni altro suono, salendo in aria e poi ricadendo veloce: un fumogeno artigianale, che rotolò dalla folla fino al centro della piazza.

“Basta così, mi sono stufato!” – gridò Schleiser con la gola riempita del fumogeno – “Contrordine: aprite il fuoco e sparate a vista!”

E nel caos ovattato e vermiglio dei fumi artificiali crepitarono presto i colpi di numerosi mitragliatori. Urla di spavento, dolore e foga rimbombarono; persone che cadevano con il cuore crivellato di piombo senza nemmeno avere il tempo di capire da che parte fosse provenuto il colpo e sopra tutta la confusione stridevano i vetri di case e negozi che andavano in frantumi.

Zeitland era rimasto sulle scale dell’Ambasciata, piegato in due dai colpi di tosse che il fumo gli provocava. Riusciva a intravedere ancora il suo Siegfried e l’Haunebu della scorta di Schleiser, fino ad ora illesi al margine della piazza. Allungò lo sguardo oltre la coltre di fumo rosso che iniziava a diradarsi, scorgendo le sagome nere dei suoi soldati sparare ovunque. Provò a rialzarsi e ad affrettarsi verso il suo aereo coprendosi la bocca con un braccio, quando una sagoma entrò di corsa nella sua visuale e lo investì con violenza. Caddero entrambi al suolo e Zeit avvertì un peso sul suo corpo. Aprì gli occhi solo per incrociare il volto di un uomo, sporco di polvere e sangue: nel suo sguardo c’era tutto l’odio che una persona può serbare. Sollevò di scatto la mano in cui stringeva a sangue una scheggia di vetro e la calò verso Dietrich, che riuscì ad afferrare il polso prima che potesse piantargliela negli occhi. Con uno sforzo non indifferente sollevò il torso e gli assestò un colpo di fronte sul naso; l’uomo gemette e il soldato lo spinse via con un calcio. Barcollò all’indietro, incespicò e cadde. Il cervello di Zeitland inserì il pilota automatico: cercò la pistola nella fondina della cintura, la estrasse e fece fuoco tre volte verso il torace dello sconosciuto, che si contrasse a terra un paio di volte e poi tacque. Zeit riprese respiro ma sentì presto i suoi muscoli fascicolare sotto l’istinto predatore che gli scorreva nel sangue. Si voltò di scattò e sparò contro il suo obiettivo prima ancora di metterlo a fuoco: un ragazzo che non doveva avere più di vent’anni, con una felpa rossa sporca e bruciacchiata; brandiva una spranga ritorta come fosse una mazza. Non fece nemmeno in tempo a sollevarla che un proiettile volò verso la sua testa, si aprì un foro e trovò l’uscita dal lato opposto, con una nuvola di sangue e trucioli di materia grigia e cranio. Il ragazzo cadde all’indietro istantaneamente, come un giocattolo a cui si ha staccato la batteria. Zeit rimase ad ansimare, con la pistola ancora stretta e la canna fumante; una pozza scarlatta che si allargava dalla testa di quel ragazzino. Deglutì e per un attimo udì solo il suono di quel gesto.

Ne ho ucciso un altro. – si trovò a pensare per la prima volta dopo molto tempo – Ho ucciso un altro uomo.

 

*   *   *

 

Albrecht osservava la scena dallo studio del Presidente.

Si lasciò sfuggire uno verso di insofferenza: “Ne ho abbastanza di questa situazione. Si sbrighi con quella firma.”

Il Capo di Stato della Polonia poggiava con i gomiti sulla sua scrivania, la testa sorretta dalle mani sudate e tremanti.

Poi il suo polso destro fu afferrato con forza e strattonato verso il foglio di carta bollata che aveva davanti; il Colonnello Albrecht gli infilò a forza la stilografica in mano: “Ho detto: firmi quel dannato Trattato.”

Un po’ con le sue forze e molto per via dei movimenti dell’Ufficiale il Presidente polacco produsse qualcosa che era più uno scarabocchio che una firma. Ma per consegnare la sua Nazione in mano al nemico andava bene anche così.

“Ha fatto la scelta giusta.” – Albrecht era già quasi fuori dalla porta, scortato dalle guardie – “Andiamocene.”

 

L’anziano Presidente restò solo nel suo studio, sprofondando nelle urla che non smettevano di riecheggiare.

 

*   *   *

 

All’esterno, il confine tra manifestazione repressa e guerra civile era scomparso. Uno dei dischi volanti delle SS si era sollevato in volo e ora mitragliava alla cieca sulla folla, che aveva iniziato ad arrendersi troppo tardi dal massacro gratuito. Meno di un centinaio di momentanei superstiti tentavano di fuggire per la via principale, correndo senza premura sui cadaveri.

Una giovane coppia di genitori si era dovuta fermare al centro della corrente, tentando di far rialzare il figlio di cinque o sei anni che era inciampato nella fuga. Piangeva forte, nel frastuono.

“Detesto i mocciosi che frignano!” – Otto Schleiser andò su tutte le furie, strappando di mano l’arma a un suo soldato – “Da’ qua!”

Si avvicinò a grandi falcate verso i tre, sollevando il fucile oltre la testa, pronto a colpire il bambino. Suo padre gli si gettò ai piedi supplicandolo in un incomprensibile polacco, ma finì solo per ricevere un colpo alla tempia.

“Osi metterti in mezzo?!” – gridò il soldato, con gli occhi dilatati e i denti digrignati – “Ti ammazzo, cane schifoso!”

Iniziò a pestarlo e riempirlo di calci, sotto gli occhi terrorizzati dei familiari: “Ti ammazzo, ti ammazzo, ti ammazzo!” Si fermò solo quando uno spruzzo di sangue zittì i lamenti dell’uomo, imbrattando il grigio della strada. La moglie urlò fuori di sé, stravolta, e gli scagliò contro, gridando e graffiandogli il viso. L’uomo la strattonò con forza, la costrinse a voltarsi e l’afferrò saldamente per i lunghi capelli arruffati. Le puntò la canna del mitra contro la spina dorsale e sibilò leccandosi le labbra: “Le donne che urlano troppo mi danno i nervi.”

Zeitland Dietrich fissava la scena da una quindicina di metri; si sentiva pietrificato, disturbato, confuso. Com’era possibile? Com’era possibile che lui, il grande Cavaliere Nero totalmente devoto alla causa del Reich, potesse ora temporeggiare? Provava forse orrore? Risentimento? Era pietà quella che provava per quella donna i cui occhi ora lo fissavano disperati, come a voler implorare ‘Aiutami!’. Poi una raffica di pallottole le squarciò il petto e anche il più misero segno di vita abbandonò gli occhi e il corpo della donna. Zeit rabbrividì, come scosso da una scarica elettrica.

Finalmente Schleiser poté voltarsi verso quella che era stata la sua preda fin dall’inizio: il bambino con le ginocchia sbucciate, ormai troppo scioccato anche solo per piangere. Lo fissò come un cane fissa sbavante il suo osso. Serrò le dita sul grilletto.

Da lontano, Zeit vide solo una manciata di sangue schizzare oltre la sagoma del suo sottoposto e il tonfo di un corpo che ricadeva a terra.

“No.” – le sue palpebre si sgranarono, le pupille ridotte a due fori minuscoli e il sangue che ribolliva come magma nelle vene – “NO!

Si ritrovò a correre e gridare verso quel lardoso ammasso di inutilità che aveva sempre disprezzato, piantandogli addosso le mani come artigli e voltandolo con tutta la sua forza. Lo Sturmbannführer fissò sconcertato il suo superiore perdere del tutto il controllo e urlargli in faccia, mentre lo scuoteva per il bavero della divisa: “Che cosa hai fatto?! CHE DIAVOLO HAI FATTO?!”

Poi un rombo distante, elevato e riecheggiante, distrasse la loro attenzione.

 

In alto, nel cielo terso oltre le nubi di ferro, uno stormo di piccoli punti scuri volava rapido.

 

“Sono loro.” – disse Zeit, con la voce ancora contratta dai nervi – “Proprio come aveva detto il Mond-Kaiser.”

“C-Chi?”

“I Russi.” – e il ragazzo lo mollò dov’era, dirigendosi rapido verso il suo blackbird.

“E io che cosa dovrei fare, adesso?!” – gli gridò da dietro l’omone.

Offri la tua vita al Reich.”

 

Mentre il Siegfried accendeva i propulsori, lasciando il terreno, Schleiser si voltò lentamente. In quel poco che rimaneva della piazza, tra macerie di ogni sorta e carcasse carbonizzate, delle sagome ricurve iniziavano a sollevarsi: superstiti simili più a zombie divorati dal rancore a esseri umani.

Per la prima e verosimilmente ultima volta in vita sua lo Sturmbannführer Otto Schleiser provò vera paura e vero dolore.

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 12: Assalto ***


12.

 

Assalto

 

 

Interno del Dollhouse; altitudine dal suolo di Varsavia: 850 mt.

 

“Raggiunto il punto previsto.” – disse al microfono uno dei due operatori dell’enorme hovercraft – “La quota d’altitudine minima per il lancio della sWAn è regolare.”

“Obiettivi localizzati sotto di noi.” – aggiunse il co-pilota, continuando ad aggiustare interruttori e levette colorate – “Il dirigile più grande è in fase di decollo.”

“A tutte le unità: mantenere la formazione.” – ordinò ancora l’altro, portandosi il ripetitore alle labbra.

Roger.” – ripeté qualcuno, dall’altra parte.

Da dietro gli stretti oblò del mezzo, Nat fissava vide la colonna di fumo nero che esalava dai i cumuli di auto e cassonetti del centro città; gli Zeppelin neri del Reich avevano ritirato le ancore e iniziavano a librarsi più in alto, mentre il dirigibile-cetaceo aveva già superato la loro quota attuale; una decina di dischi volanti ronzavano in formazione come mosche inquiete.

“La città.” – mormorò la ragazza, con il battito sempre più accelerato – “La stanno distruggendo.”

“Il nemico sembra essersi accorto della nostra presenza!” – esclamò una voce all’altoparlante, probabilmente appartenente al Capitano Ivanovič – “Impossibile mantenere la posizione di copertura, ingaggiamo battaglia!”

“Ricevuto, Capo-Rosso.” – confermò il co-pilota – “Procediamo con il distacco della Machine.”

Era arrivato il momento tanto temuto. Quella frase pronunciata con tanta freddezza e distacco, neanche fosse la cosa più naturale del mondo, sanciva ufficialmente la seconda entrata in battaglia di Nataša Novikov in poco più di tre settimane.

Mentre un uomo la scortava lungo la predella che circondava l’interno cavo del cargo si rese conto che la flebile speranza di non dover mai più rientrare nell’abitacolo di Freya – speranza di cui aveva tentato di autoconvincersi – era stata smentita ancora.

La Machine la attendeva in ginocchio, attorniata da grossi cavi collegati agli alimentatori a batterie nucleari installati a bordo. Compì un passo oltre il bordo della capsula in titanio – spalancata fuori dalla gabbia toracica – e si ritrovò ancora con le caviglie lambite dalla sostanza fredda e densa chiamata ‘Mercury-D’. Chiuse gli occhi mentre il portellone si sigillava e la Camera di Flamel si ritirava nel torace della gigantessa meccanica. Udì lo scatto dell’armatura pettorale che si richiudeva e nelle sue orecchie risuonarono confusi comandi pronunciati da terzi: “Preparativi completati; configurazione del Flam-ber per il collegamento neurale.”

“Avviare l’Elettroconduzione tramite batterie d’emergenza: tensione elettrica oltre il punto critico.”

“Arma Umanoide per Operazioni Militari Speciali: distacco!”

Ci siamo. – pensò nell’istante in cui la prima bolla di Mercury-D si sollevò dalla massa compatta depositata sul fondo.

 

*   *   *

 

Il portellone ventrale del Dollhouse si spalancò e Freya iniziò a precipitare a grande velocità.

Per la seconda volta in vita sua, Nat rivisse l’inebriante stordimento che lo spazio alternativo della Camera di Flamel era in grado di procurare: una caduta verso un Ignoto luccicante, con bambole di carta e geroglifici luminosi che danzavano intorno al suo corpo, i vestiti andavano dissolvendosi e un’ondata di intenso trasporto la fece gorgogliare. Poi l’oscurità multicolore di quell’attimo si disfece e tutto quello che rimase furono solo nubi bianche che le venivano incontro a grande velocità e qualche finestra digitale che ora le si apriva davanti.

Si rese conto di stare precipitando.

Lanciò un urletto di spavento e Freya si portò quasi immediatamente in posizione eretta. I repulsori sulle gambe e sotto le lamine del gonnellino si irradiarono di una polvere atomica color ametista, arrestandone a mezz’aria la caduta. Nat riprese a fatica il respiro mozzato dall’improvviso calo di pressione, mentre iniziava a realizzare di ritrovarsi nuda e senza peso, attorniata dagli anelli di rune luminose dell’abitacolo. Guardò sotto di sé: poteva vedere le gambe nere della sua Machine sospese a un centinaio di metri sopra i palazzi.

“Ci sono.” – si disse ad alta voce, provando a razionalizzare senza andare in panico – “Sono in campo.”

Sollevò lo sguardo e in alto, sopra le nuvole, i localizzatori automatici di Freya inquadrarono il Dollhouse: era precipitata davvero in fretta. Poi, rombando minacciosi, due grandi oggetti le passarono accanto, facendo vibrare le giunture dell’abitacolo: un aereo della sua squadra e un disco nero del Reich. Nat si richiuse su sé stessa dalla paura, tappandosi le orecchie: di certo dovevano aver sorpassato la testa del suo robot ma gli schermi a trecentosessanta gradi del Flam-ber erano tanto realistici da darle la sensazione di non essere stata urtata per un pelo.

Dollhouse a Cigno Nero.” – la voce di uno degli addetti al trasporto risuonò nell’abitacolo – “Cigno Nero, prepararsi a ricevere supporto balistico.”

“S-Sì!”

Dall’alto, l’hovercraft sganciò come un proiettile un grande contenitore di titanio sigillato, che si aprì con una piccola detonazione per liberare un enorme mitragliatore nero appositamente creato per la Machine. Imitando i movimenti della sua pilota, Freya protese le mani in alto e afferrò con estrema goffaggine l’arma e poco ci mancò che non la lasciasse cadere. La strinse forte al petto per assicurarsi che non la perdesse. Nat ansimò con le braccia chiuse a sé e si disse: “Ok, ok…ci sono. L’ho presa!”

Lanciò un grido quando una scarica di proiettili colpì le spalle della sua Unità, facendola tremare; non sentì che poco più di un formicolio alla schiena ma l’impatto la lasciò comunque tentennante. Vide sul monitor un velivolo nazista che l’aveva sorpassata di circa duecento metri e che ora le veniva addosso. I cannoni dello scafo inferiore ruotarono verso di lei: stava per far fuoco. La mente di Nataša reagì finalmente in modo proficuo: senza pensarci due volte drizzò il mitra nero verso l’obiettivo e premette il grilletto: una scarica di proiettili formato Machine sventrarono il disco volante, facendolo esplodere. Nat rimase impassibile per un singolo istante, prima di mettere a fuoco la situazione.

“Ho sparato.” – si disse tremante e incredula – “Ho sparato sul serio a delle persone…”

Poi nella sua mente baluginò fugace l’immagine di una croce dalle braccia uncinate.

Se lo meritano. – in quel pensiero si dissolse ogni ulteriore esitazione.

Freya imbracciò saldamente la sua arma e la indirizzò verso lo sciame di aerei di opposte fazioni nel cielo di Varsavia e sparò senza remore. Non aveva previsto il rinculo dell’arma e per questo il tiro fu impreciso, disegnando una ‘S’ di bossoli volanti che riuscirono comunque ad abbattere un Haunebu a oltre trecento metri di distanza. Per poco non rimase coinvolto anche un aereo della Russia, dal quale provenne un rimprovero via-radio: “Ehi, sta’ attenta, dannazione! Ci siamo anche noi, qui!”

“D’accordo!” – rispose la ragazza, troppo impegnata ad abbattere un nuovo bersaglio, in alto, e agganciandone con la vista un secondo che discendeva pericolosamente verso i tetti dei palazzi.

“È come al simulatore, è solo come al simulatore!” – continuava a ripetersi Nat, stringendo i denti dall’ansia.

Il mitragliatore gigante non smetteva di scoppiettare nella sua intermittente ‘X’ di polvere da sparo, ma i colpi andarono a vuoto per un lungo tratto. Molti tetti rimasero sfondati.

“Porca…!” – sibilò la ragazza in un impeto di paura e rabbia.

Freya ruotò il torso con più rapidità e i proiettili raggiunsero, scoperchiarono e infine abbatterono il nemico. Nat spostò ancora lo sguardo e fu colta dal panico quando vide un Haunebu a distanza ravvicinata, con i portelloni laterali già aperti e pronto a rilasciare i razzi. Non sarebbe riuscita a evitarlo.

Nat temette per il dolore che sarebbe giunto, ma una scarica di colpi si immise da destra, annientando il velivolo. La ragazza sobbalzò dallo stupore e si voltò velocemente al lato. Un grande caccia rosso, rinominato ‘EARNEST’ a caratteri bianchi sulla fusoliera, si portò alla sua altezza. Una targhetta identificativa comparve sulla parete-schermo; in corrispondenza dell’abitacolo del caccia: RED-1/VASYLJEV.

“Miša!” – esclamò con un lampo di speranza che le ridiede forza.

“Nat, stai bene?” – la voce risuonò un po’ lontana e meccanica, ma sempre premurosa.

“I-io credo di sì!” – rispose lei, arrossendo tanto per l’emozione quanto per il timore che – così come lei poteva nitidamente vedere lui – Miša riuscisse a notare la sua nudità. Si era un attimo dimenticata che a dividerli c’erano solo diecimila piastre di armatura corazzata.

“Cerca di mantenere l’attenzione e segui lo schema!” – disse ancora Miša, ma stavolta suonò più come un ordine – “Combatti solo ad alta quota, alla città penseremo noi!”

Lei annuì con decisione: se c’era lui al suo fianco, sentiva di poter tornare a casa viva.

“Capo-Rosso a Cigno Nero!” – una terza voce: quella di Ivanovič – “Cigno Nero, il dirigibile ammiraglio ha raggiunto la quota del Dollhouse: impediscigli di fuggire! Fa’ in fretta!”

Lei sentì un fremito correrle per il corpo e si inumidì le labbra senza un motivo preciso. Guardò ancora l’aereo del suo amico.

“Coraggio! Possiamo farcela!” – la voce di Miša accompagnò un pollice sollevato oltre i vetri del cockpit.

Lei serrò un pugno: “Sì!”

E Freya decollò verticalmente, lasciandosi dietro solo una fugace scia di luce viola.

Nel cuore della battaglia, due Haunebu roteavano intorno a un Sukhoi russo. Spararono dalle quattro canne giroscopiche, crivellando di colpi il bersaglio che esplose violentemente. Le due unità lunari fecero appena in tempo a sciogliere la loro formazione che tre razzi le raggiunsero e distrussero. Un T-80 contrassegnato da un ‘7’ sull’alettone posteriore oltrepassò il banco di fumo e il suo pilota proferì: “Rosso-7 a Capo-Rosso: abbiamo perso Rosso-5!”

Nel trovarsi in linea di tiro, Rosso-3 aumentò di velocità e una sezione sotto la pancia del caccia si aprì: un braccio meccanico sganciò una fascina di torpedini. Sfrecciarono in linea retta per un buon tratto, poi i legami ad anello si ruppero e si divisero singolarmente in opposte direzioni. Un paio colpirono altrettanti UFO marchiati di svastica e i due rimanenti sfrecciarono oltre le linee nemiche, andando a collidere contro la carena di uno Zeppelin, senza però arrecare danno visibile.

“Fuori due!” – Capo-Rosso batté un pugno sulla cloche, entusiasta, solo per rimangiarsi le parole poco dopo: il dirigibile nero appena colpito spalancò le fiancate, vomitando fuori altri sei Haunebu.

Il sottoufficiale trattenne a stento una bestemmia.

 

Molto più in alto Freya volava a mach-3, con l’aria sempre più gelida a fenderle fischiante la corazza. A meno di mezzo chilometro da lei, l’Eisen Wolke continuava la risalita con una velocità inaspettata per la sua stazza. Nataša focalizzò l’attenzione verso il propulsore di coda dell’aeronave, mentre due puntatori scorsero sullo schermo fino a inquadrarlo. Freya mirò il mitra senza rallentare e sparò un paio di volte, ma la velocità di volo le fece mancare l’obiettivo. Per risposta i quattro blocchi di cannoni da tre mortai ciascuno, posti sullo scafo del Wolke, scorsero sulle rotaie fino a raggiungere la poppa; i cannoni indipendenti si voltarono ed emisero un otto fasci di luce rossa. Con una prontezza di riflessi che sorprese sé stessa, Nat pensò di evitare il colpo e la sua Unità la accontentò ruotando con rapida grazia verso sinistra, schivando i laser. Ma quando vennero proiettati i successivi quattro raggi non fu abbastanza rapida da cambiare manovra: la colpirono in pieno.

Cadde.

Cadde a lungo e molto velocemente, con quelle lance di luce scarlatta che la spingevano in mezzo al torace, rendendolo incandescente. Nat gridò di dolore mentre il Mercury-D ribolliva sul suo sterno che le pareva andare in fiamme. Perse quota in modo disastroso senza riuscire a rallentare, la potenza e la gittata di quei laser era spaventosa. Quando finalmente si estinsero, Freya si era già schiantata rovinosamente su un palazzo, schiacciandolo sotto il peso. Persino la Gravità-0 della Camera si annullò localmente e Nat si ritrovò con la schiena nuda contro il fondo della cabina. Batté la testa e perse i sensi.

 

“Nat! Nat, mi senti?! Stai bene?!” – Miša fece appena in tempo ad accorgersi con la coda dell’occhio di quanto accaduto, sperando di avere risposta tramite il contatto-radio. Nulla.

Nonostante gli schermi della sua cabina permettessero una visuale a duecentosettanta gradi, non riusciva comunque a raggiungere con la vista il gigante nero alle sue spalle.

“Capo-Rosso a Rosso-1.” – lo distrasse il suo superiore – “Rosso-1, ci serve fuoco di copertura per gli Zeppelin!”

“Ma…” – si inumidì le labbra improvvisamente secche, combattuto se proseguire verso i suoi nemici o indietreggiare per assicurarsi che la pilota del robot stesse bene.

“Il target di Cigno Nero ormai è fuori portata, non possiamo farci più nulla. Concentrati sullo squadrone rimasto!”

A malincuore e con mille altre opzioni che la sua coscienza gli suggeriva, Miša Vasyljev serrò i pugni sulle leve di movimento: “Ricevuto.”

Earnest accelerò diretto verso uno dei dirigibili, quando da quest’ultimo dipartì una raffica di proiettili che Miša riuscì a evitare di pochi metri con una brusca virata. Si ritrovò sotto il ventre dello Zeppelin: le lamine dello scafo del dirigibile iniziavano ad aprirsi come una bocca sdentata, rivelando altri UFO pronti al decollo.

“In giro ce ne sono già abbastanza, di voi!” – Miša selezionò uno dei due missili all’astrolite di cui disponeva e premette il pulsante sulla leva di sinistra. Una torpedine si sganciò da sotto l’ala destra e volò all’interno dell’hangar.

L’ultima cosa che il ragazzo vide fu la scia del suo missile perdersi tra gli Haunebu che stavano per spiccare il volo, poi esplosioni a catena e un mare di fuoco presero il loro posto, mentre squarci fiammeggianti si aprivano come piaghe in tutto lo scafo nero.

Nonostante rigurgitasse fumo scuro e denso, il grande Zeppelin si voltò lentamente, deciso a non crollare.

“È ancora in grado di muoversi?!” – Miša quasi si morse la lingua nel tentativo di parlare, guardare indietro e manovrare il suo aereo contemporaneamente.

Poi, con un rombo continuo – dapprima debole e poi sempre più distinto – un punto nero si profilò in lontananza. Un blackbird modificato, quasi zoomorfo. Era veloce.

Si avvicinò con uno scatto inatteso, si rovesciò sul dorso come un acrobata e passò a un metro dalla sua fusoliera.

Quella frazione di secondo parve decisamene più lunga e nel riflesso translucido dei vetri dell’abitacolo Miša fu certo di scorgere qualcuno alla guida del jet nero: un volto di giovane uomo, dallo sguardo severo. Un ardore nelle iridi che era come se volessero sussurrargli all’orecchio: “Sarò io il tuo avversario.”

Poi quell’attimo eterno finì di colpo e i due caccia si ritrovarono a grande distanza, l’uno dall’altro.

Il caccia rosso sperimentale invertì direzione. Il blackbird fece allo stesso modo e qualcosa di rosso luccicò fugacemente sul metallo nero: quattro laser cremisi si dipanarono diagonalmente, piegarono ad angolo retto e si fiondarono in avanti.

Miša strattonò con forza i comandi e il suo aereo frenò bruscamente su cuscini d’aria, quindi i repulsori inferiori lo sospinsero in esatta verticale. I raggi rossi piegarono in alto e si gettarono all’inseguimento, torcendosi e saettando come mossi da vita propria. Le mani del ragazzo russo tirarono fino al limite le due leve, riuscendo ad anticipare di solo mezzo secondo quella serie di tentacoli di luce rovente.

“Come riesce a far curvare i laser?!” – Miša fece roteare il suo aereo due volte sull’asse a distanze diverse, prima di riuscire a distanziare i vettori del Siegfried. Aumentò le prestazioni dei propulsori, puntando alle nuvole più alte.

I due avversari trapassarono un nembo grigio come ferro, avvolti da stracci di aria condensata che si sfilacciavano dalle loro ali.

Erano al di sopra di tutte le altre unità in campo. Soli.

Soli nel cielo aperto, prossimo all’imbrunire.

Soli in quel mondo d’aria in cui orchestrare scontri privi di confine.

A bordo del suo aereo, Zeitland squadrò di sfuggita il suo avversario rivestito di metallo magenta. Sorrise: “È bravo. Vediamo ora quanto.”

E portò all’estremo il regime dei motori, superandolo. Reagendo all’impulso primordiale della sfida, Miša serrò i denti, svuotò la mente dei pensieri che lo zavorravano, portò la mano sul graduatore di velocità e spinse fino al massimo consentito.

Iniziarono.

Due velocissime code di combustibile che salivano di quota, si oltrepassavano a vicenda e poi tornavano ancora l’una contro l’altra. Un turbinio di traiettorie incrociate, curve ampie fin quasi a uscire dal campo visivo e poi altre strettissime. Oltre ogni limite, oltre qualsiasi freno inibitore. Solo velocità, cielo a perdita d’occhio, macchie bianche che si avvicendavano sconclusionate oltre i vetri delle cabine. E poi ancora virate diametrali e improvvisi voli in picchiata, dove due schegge di rosso e nero si avvitavano e fronteggiavano in una danza a spirale.

Proiettili arroventati sparati a tale velocità da far dimenticare a chi dei due appartenessero. Miša prese l’iniziativa ed Earnest rilasciò dal ventre cinque razzi termosensibili, che serpeggiarono veloci verso il blackbird, che saettava a più altezze, emettendo contemporaneamente i suoi laser. I missili esplosero convulsamente spargendo fiamme ovunque e i laser rossi schioccarono e si dibatterono nell’aria come fruste, creando una trama di luce frenetica. Si scontrarono in un’unica coda di esplosioni allineate, da cui emerse il caccia rosso, solo per ritrovarsi sorpassato ancora dall’aereo nero.

Davanti agli occhi di Misha due puntatori scorrevano sugli ologrammi opposti di due anelli, che ingabbiavano il nemico in prospettiva; quando si fermarono – e la scritta azzurra ‘TARGET LOCKED’ comparve tra di essi – Miša sputò tutto d’un fiato: “Ti ho preso!”

Il suo mezzo rallentò solo per un istante e altri otto razzi vennero espulsi dai contenitori sulle ali e sul dorso di Earnest. Ancora una volta tracciarono indistinguibili forme nel cielo polacco, intrecciandosi veloci in spire di fumo, tra le quali luccicava lo straordinario aereo da battaglia del Cavaliere Nero. Questi sganciò dalla coda una manciata di flares rossi e attirando i razzi termo-ricettori come lupi affamati, che finirono per esplodere a vuoto.

Non c’era ancora alcun vincitore.

 

Lentamente, i sensi di Nataša iniziarono a ritornare, presentandosi come un formicolio debole e diffuso. Aprì piano gli occhi ma per un lungo momento la visione fu solo un’onda nera e confusa; i suoni erano ovattati, echeggianti, lontani come in un sogno. Poi si fecero più squillanti e le sagome lontane di aerei in volo e palazzi in rovina si delinearono più nette. Era ancora viva. E la battaglia non era ancora terminata.

Non posso restarmene qui. – pensò la ragazza, sollevandosi dolorante sui gomiti.

Guardò per puro caso alla sua sinistra: la strada, gli alberi e i palazzi circostanti erano ridotti a un cumulo di rovine scomposte.

Guardò con più attenzione e notò che il braccio sinistro della Machine era penetrato nella facciata di un edificio adiacente, demolendo almeno quattro piani. Nat aguzzò la vista e gli occhi di Freya zoomarono sulla sua stessa mano. E lo vide. Tra i blocchi di cemento armato e travi di ferro ritorte che spuntavano dai muri portanti come ossa rotte s’intravedevano sagome rigonfie e curve, accatastate come sacchi tra le dita meccaniche giganti.

Una schiena coperta da una maglia lacerata, un torso riverso all’indietro in una posizione innaturale e un paio di braccia e gambe che non avrebbero dovuto trovarsi a quella distanza dai corpi.

Rigagnoli rossi scorrevano lenti tra i mattoni denudati.

 Nat rabbrividì. I suoi occhi azzurri si spalancarono dall’orrore, le sue pupille si restrinsero e una sensazione di nausea acida le risalì in gola. Lentamente la Machine tentò di rialzarsi e portò la mano alla sua vista. L’enorme palmo che comparve sugli schermi della cabina diede conferma a Nat di quel timore che le si era rapidamente insinuato dentro: sangue. Sangue rosso sul nero degli artigli affilati di Freya.

 

“Quelle persone…” – le labbra di Nat si mossero quasi da sole; non poteva ripetersi solo nella mente quello che aveva fatto – “…io…le ho uccise.”

Una parte della sua coscienza le bisbigliò subito che no, non poteva averle uccise lei. Probabilmente erano già morte prima dell’impatto o forse sarebbero morte comunque. Forse lei era atterrata solo su una casa già distrutta dalle esplosioni.

Ma i tre quarti della sua mente le suggerirono: “Quali esplosioni?”

La sua squadra stava facendo di tutto per mantenere lo scontro ad alte quote e – per quanto le suonasse strano e contradittorio – persino i soldati delle SS non sembravano avere interesse a bombardare la città. I tetti che apparivano sfondati erano stati ridotti così dalla sua scarsa capacità di tiro e la sua caduta aveva dato il colpo di grazia.

E quei corpi…quei cadaveri spezzati che avevano annullato la vita di un’intera famiglia.

Lei. Era stata lei.

“È colpa…mia?” – la bocca le tremò nel fissare le mani sporche di sangue del suo robot; guardò le proprie e le parve di essere altrettanto macchiata.

Paura, senso di colpa, vertigine, disgusto, orrore.

E poi rabbia. Solo, esclusivamente, integralmente, puro odio verso quegli uomini in nero che seminavano morte e tragedie a ogni passo.

Se non fosse stato per loro, se non fossero mai tornati sulla Terra…

 “…io non sarei mai stata costretta a combattere! Non avrei mai ucciso nessuno!”

Doveva uccidere loro. Loro erano gli unici colpevoli.

Le venne da gridare. Forte, lacerante. Gridare e basta.

Freya si rialzò del tutto. Un ruggito confuso provenne da sotto il casco; due sottili occhi rossi lampeggiarono sotto il visore; le antenne simili a piume si estesero, le finiture fosforescenti lungo il corpo brillarono e le esili braccia si trasformarono in due enormi lame nere.

Come poche settimane prima.

Era pronta a porre fine a quello scontro.

 

Siegfried ed Earnest erano notevolmente discesi e sorvolavano il campo di battaglia invaso dai due dirigibili neri e dagli UFO del Reich.

Zeitland lo affiancò a breve distanza, ma il pilota russo tirò con forza la cloche verso di sé e i repulsori sotto la punta frontale del suo aereo emisero un forte getto di fiamme ossidriche.

Il caccia russo s’impennò e retrocedette a enorme velocità per più di mezzo chilometro.

“Una manovra cobra?!” – Zeit si voltò appena in tempo, sbalordito e furioso allo stesso tempo; doveva ammettere di aver trovato un concorrente più che valido.

Da lontano, il posteriore del caccia rosso dischiuse un vano nascosto: due, quattro, sei missili terra-aria vennero sputati fuori.

Curvarono in basso e attraversarono speditamente l’aria ormai satura di fiamme. Con un anticipo di due secondi e mezzo, Dietrich invertì rotta, fece vorticare sul proprio asse il blackbird ed emise un pari numero di vettori laser, intrecciati a spirale.

Si scontrarono e una grande vampata si frappose tra i due.

Tra le fiamme e il fumo baluginarono rapide due o tre croci di luce; una raffica di munizioni sfondò e diradò la coltre che li divideva ed Earnest emerse a grande velocità. La pazienza di Miša cominciava a esaurirsi, mentre notò con fastidio di aver esaurito tutti i missili, eccetto la torpedine all’astrolite; gli sfuggì una specie di ringhio nel pensare che avrebbe dovuto cavarsela solo con gli RK-68. Sparò un paio di volte una breve serie di colpi che si persero tra gli edifici più alti, nel tentativo di inseguire il bagliore rossastro dei propulsori del suo avversario, sempre avanti a lui. Uno Zeppelin sotto di loro spalancò la copertura dorsale, rivelando dodici cannoni. Fasci ortogonali di luce rossa lampeggiarono sulle imboccature, per poi estendersi in verticale come aghi d’istrice.

I due caccia sfrecciarono tra i laser rossi che tagliavano il vuoto, quando uno di essi pose una considerevole distanza tra i due.

Sul monitor di Zeit tre indicatori –distanza, traiettoria e velocità angolare del bersaglio – si centrarono finalmente sulla sagoma del suo nemico e un’icona rossa indicò la condizione ottimale per una determinata manovra.

Dies ist das Ende![1] – esclamò premendo sul pedale.

Le ali e il collo del velivolo si snodarono in più punti e l’intera intelaiatura s’incurvò, i carrelli di atterraggio e parte dello scafo si allungarono in qualcosa che assomigliava a degli artigli. Sembrava un dragone nero, non era qualcosa che un umano avrebbe potuto ideare.

“Ma che ca-?!” – Miša non riuscì a terminare la sua frase che l’impatto di quelle zampe meccaniche contro il suo aereo gli mozzò il respiro.

Si mantenevano in aria con difficoltà, come un rapace sulla sua preda. Il Cavaliere Nero minacciò qualcosa in Tedesco che suonò assolutamente incomprensibile alle orecchie di Vasyljev, che per tutta risposta ringhiò: “Non ho capito una parola!”

E batté un pugno sullo schermo tattile, espellendo l’ultimo razzo all’astrolite. Il missile si sganciò dall’ala ma rimase incastrato tra i due aerei, troppo vicini per permettergli di allontanarsi; si divincolava e sbatteva contro gli scafi come un pesce in una rete.

Miša pregò vivamente che l’altro pilota avesse a cuore la vita, perché di morire in una mossa suicida non aveva affatto voglia.

Quando Zeit si rese conto che lo shell protettivo dell’astrolite era sul punto di rompersi lasciò andare i comandi e Siegfried scalciò via l’aereo di Miša come se ne fosse rimasto ustionato.

Il razzo si divincolò fuori dalla stretta, zigzagò in aria per un buon tratto ed esplose.

Concedendosi un solo secondo per allentare la tensione, Miša guardò indietro e si rese conto che i problemi maggiori dovevano ancora arrivare.

 

Freya spiccò il volo a una tale velocità che le poche finestre integre dei palazzi circostanti si sbriciolarono sotto l’urto d’aria. Lunghissime protesi di energia violetta triplicarono le dimensioni delle sue spade, che tese dietro di sé mentre il suo corpo superava la velocità del suono. Puntava al dirigibile già per metà in fiamme; quello sbagliato, dato che tra i due costituiva di certo la minaccia minore. Nat aveva gli occhi gonfi di lacrime, i denti stretti per un dolore e un’ira mai provata prima e tutta la sua attenzione indirizzata contro ciò che presto avrebbe ridotto a un cumulo di rottami. Non si accorse nemmeno di un indicatore al suo fianco che continuava a segnare valori sempre in aumento di qualcosa a lei ignoto che suonava come ‘VRIL’. Non sentì minimamente i dati allarmati che i piloti del Dollhouse tentavano di comunicarle, né tantomeno le voci dei suoi compagni di squadra che le intimavano di cambiare obiettivo. Nemmeno quando Miša le gridò dal voice-only di fermarsi lei seppe riconoscerlo. Freya accelerò ancora e in un soffio attraversò da parte a parte il gigantesco aeromobile nazista, fermandosi solo molto oltre esso, quasi fosse incorporeo.

Allargò le braccia e le richiuse al petto; le lunghe lame di luce si estero in trasversale, separando l’orizzonte in un filo d’ametista, e poi si ridussero a un punto.

Per un momento tutto tacque.

Poi uno squarcio disegnò una bocca sfrangiata sul muso dell’aeromobile, e si estese sempre più affondo fino a separarlo per lungo in due metà, le quali – cigolando e muggendo come strani animali morenti – iniziarono a precipitare lentamente sulla città mentre le pareti arroventate dal taglio tossivano fumo nero come ciminiere.

Nat si voltò inorridita: “No…non così!”

Aveva sbagliato ancora. Spezzare in due un aereo già grande di per sé e farlo affondare come una balena sugli isolati civili non sarebbe potuta essere un’azione più avventata e sconsiderata.

Fissò impotente ciò che rimaneva dello Zeppelin schiantarsi sui palazzi di Varsavia, scivolare a lungo sulla terra e produrre sempre più danni, mentre le insegne del Reich che sventolavano sulla fusoliera ardevano crepitanti.

“Oh, no, questa è la cosa peggiore!” – gridò qualcuno della sua quadra.

“Nat!” – la voce di Miša – “Nat, perché lo hai fatto?! Che cosa succede?! Mi senti?! Rispondimi!”

Ma la sua mente aveva già staccato il collegamento con il presente.

Che cosa ho fatto? Che disastro ho combinato? – le sue labbra tremavano convulsamente, mentre le sue mani tentavano di coprire il volto pieno di vergogna e disperazione – Altra gente…ho solo ucciso altra gente!

Una spia rossa iniziò a lampeggiare nervosamente nel Flam-ber e un segnale acustico si fece sempre più stridulo e asfissiante, sommandosi alle voci che le risuonavano nei timpani e alle numerose icone di pericolo che iniziavano a riempire gli schermi, accavallandosi l’una sull’altra.

 

A bordo del Dollhouse il co-pilota di destra armeggiava ansioso sul computer, mentre quello di sinistra tentava di rispondere alle domande che Ekaterina Asimov – dalla base di Mosca – gli poneva via radio.

“Non lo sappiamo, ha agito da sola!”

“Effetto Destrudo in corso! Il grado di interfaccia Doppelgӓnger è al di sotto della norma!”

“Curve armoniche in distorsione! C’è il rischio che perda il governo dell’Unità!”

“Impossibile riprendere il dominio del circuito! I sistemi di controllo remoto sono in crash!”

 

“Sono un mostro! Non sono capace di niente!” – la voce di Nataša moriva strozzata nei palmi delle sue mani, le cui dita le artigliavano il viso. Avrebbe voluto strapparsi la pelle dalla faccia e cavarsi gli occhi, così non avrebbe visto il cimitero di fiamme in cui aveva ridotto la città.

La sua Machine barriva fuori controllo, piegandosi sul ventre e stringendosi la testa. Gli occhi luminosi sotto il visore lampeggiavano come impazziti. Poi parve perdere le forze e iniziò a precipitare a peso morto verso il basso.

Le pareti della Camera si tinsero di rosso e strane rune nere sfrigolarono ovunque, mentre la Gravità-0 si annullò. Nat urtò con il viso il fondo della cabina.

Cadde ancora e poi successe qualcosa che non avrebbe creduto possibile: i vetri dei monitor sembrarono liquefarsi, le giunture che saldavano le pareti cedettero, i grossi cavi nascosti dalle piastre metalliche si disfecero come interiora e persino i suoi abiti tornarono intatti, un filo dopo l’altro.

L’armatura di Freya si polverizzò in un nugolo di brillii e ingranaggi e per un attimo un gigantesco corpo ricoperto da pelle grigiastra rimase visibile. Poi si sgretolò anch’esso: venne via la pelle, quelle che sembravano ossa, muscoli e strani organi finché non rimase altro che una sfera di titanio. Precipitò sulla città e poi si smaterializzò. Nat si ritrovò senza nulla sotto i piedi da un’altezza di tre metri. Portò le braccia al volto mentre avvertì con dolore tutto il suo corpo collassare sull’asfalto.

 

*   *   *

 

Lago Baksheevo.

 

Fu un attimo: un bagliore nel cielo, un lampo di luce e lo spazio si contorse come stretto da una cucitura mal eseguita: Freya emerse dal nulla e si schiantò sulla sponda del lago.

 

*   *   *

 

Ci volle qualche istante prima che Nat trovasse la forza per ignorare il dolore e aprire gli occhi: si ritrovava con una guancia a terra, una ferita alla testa che poteva anche trascurare e gambe e braccia sbucciate. Intorno solo desolazione, zolle di strada ribaltate come terra smossa, finestre in fiamme, fuliggine ovunque e sirene rimbombanti. Nero, grigio e rosso. In alto ancora qualche aereo e un dirigibile nero.

Non aveva idea di cosa fosse appena successo, ma non poteva rimanere distesa in quel modo.

Devo andarmene. Devo nascondermi. – pensò razionalmente e si sollevò a fatica, incespicando sulle gambe lancinanti, in cerca di un riparo.

 

“Nat! Nat!” – gridò disperato Miša dal suo aereo, mentre già iniziava a puntare verso la città, ma la voce di Ivanovič lo fermò.

“No! Non puoi andare, Rosso-1.”

“Ma Nataša è caduta laggiù! Devo andare a cercarla!”

“Impossibile, siamo rimasti solo in tre! Dobbiamo ritirarci, non possiamo farci più nulla!”

“Ma…!”

“È un ordine!”

E senza poter replicare ulteriormente, Earnest fu costretto a cambiare direzione.

 

Quel poco che rimaneva dello squadrone ‘Stella Rossa’ si librò verso le nuvole più alte, sfuggendo alle ultime e stanche raffiche di colpi, lanciate quasi come un gesto di derisione. Si stavano dando alla fuga, come cani bastonati. Quella città per la quale si erano battuti era caduta nelle mani del nemico.

Avevano perso.

 

[1] Traduzione: “Questa è la fine!”

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Capitolo 15
*** Capitolo 13: Oltre il Dominio dei Sensi ***


13.

 

Oltre il dominio dei sensi

  

Nat arrancava alla cieca tra le rovine dei palazzi, un tempo delicati ed eleganti nelle loro tinte calde e ora ridotti ad un cumulo senza forma di cemento accatastato in mezzo alla strada. Talvolta risaltava qualche intarsio su blocchi di gesso che prima dovevano aver formato raffinati balconi e cornicioni.

Era strano indugiare in quella morta distruzione, illuminata solo dalle scintille che sprizzavano da lampioni sfondati, e vedere che più in lontananza i grattacieli del centro finanziario di Varsavia svettavano illuminati e intatti. Ogni passo trafiggeva i suoi tendini con aghi di dolore che le piegavano le gambe, ma l’istinto di autoconservazione la spronava a proseguire e a cercare un luogo dove nascondere il proprio corpo stanco e debole. Non c’era quasi anima viva nel giro di dieci isolati e quei pochi sguardi che incrociava nella penombra di un sottopassaggio semidistrutto si nascondevano in fretta, scomparendo in scantinati ancora integri.

Tutti gli altri esseri umani che aveva incontrato giacevano sotto tonnellate di massi spruzzati di rosso. Una fitta più acuta delle altre le fece mordere un labbro per non urlare e una lacrima le si gonfiò tra le ciglia; si costrinse a guardare verso il cielo ormai notturno e il rumore di aerei in lenta discesa – come avvoltoi sazi delle carcasse divorate – le diede il giusto incentivo per trovare un nascondiglio il più in fretta possibile.

Un negozio.

O un piccolo magazzino, un deposito di cassette di legno? Non avrebbe saputo dirlo, dato il penoso stato in cui versava. Era a una decina di metri da lei, in una traversa di un palazzo in mattoni dai muri crepati e dalle insegne sradicate. Mentre accelerava il passo pensò che fosse già un miracolo sufficiente che quel buco stesse ancora in piedi. Spinse la porta e si affrettò a immergersi nel buio di una stanzetta grigia e polverosa, occupata da colonne di scatole di legno macero e sacchi contenenti qualche strana sabbia scura e granulosa. Scelse l’angolo più a destra possibile, protetta tra una pila di scatolame e una parete sporca e rovinata. Si strinse le ginocchia ferite al petto e vi affondò il viso, con la mente e il cuore stravolto.

Mi sono nascosta. E ora? Li sento volare…e se mi trovano? Mi uccideranno. Ho paura di morire, non voglio morire. E anche se non mi trovano, come me ne vado? Sono lontanissima da casa e nemmeno mio padre mi può ritrovare. Non so come scappare, non so nemmeno perché quel rottame è scomparso nel nulla. Che cosa è successo? Miša…che cosa penserà di me? Dopo il disastro che ho combinato, dopo che ho mandato a monte tutta la missione…non sono stata capace di nulla. Mi odieranno tutti. Anche lui. E quelle persone; le persone che ho…che ho…

Iniziò un pianto sommesso, continuo e attutito come un pigolio lontano tra fronde di un albero, interrompendole perfino i pensieri.

E nel buio spezzato solo da una sudicia finestrella rimase in ascolto dello stridore di potenti motori che planavano tra i palazzi, avvicinandosi sempre più al terreno. Sempre più a lei.

 

*   *   *

 

Quattro ore dopo. Centro Strategico di Difesa Nazionale; Mosca.

 

Gli unici tre membri superstiti della squadra ‘Stella Rossa’ e i due piloti del Dollhouse attendevano in una silenziosa agitazione l’arrivo del Presidente, avendo già percorso su e giù almeno mezzo chilometro lungo lo stretto corridoio che collegava la Sala Centrale di Controllo Operativo allo stanzino privato per le riunioni classificate. Rientrati meno di mezz’ora prima, avevano già fatto rapporto al Generale – non che ci fosse poi molto da aggiungere – ma non c’era nemmeno stato tempo per redarguirli.

I piloti dell’hovercraft discutevano tra loro a voce appena percettibile, interrogandosi a turno sul perché o per come la Machine nera fosse scomparsa e ricomparsa in prossimità di Baksheevo. Il soldato alla guida di ‘Rosso-4’ poggiava con le spalle al muro e le braccia conserte, gli occhi persi sul grigio logoro del pavimento e ormai lucidi di lacrime soppresse: un’intera squadra spazzata via, i suoi compagni morti. Gente con cui aveva prestato servizio da parecchio tempo. Gente che non avrebbe più rivisto. Ivanovič non smetteva di camminare avanti e indietro, piano e regolare ma con ansia crescente. La nascondeva bene, certo, a questo era stato abituato. Avesse perso la calma davanti ai suoi sottoposti allora che fine avrebbe fatto il punto fermo degli ‘Stella Rossa’? Ma dentro di sé sapeva bene che quel contegno era inutile. Non c’era più nessun plotone a cui mostrarsi intransigente.

Soltanto Miša sedeva sulla seggiola di plastica a fianco di una magra pianticella da sala d’attesa; aveva i gomiti piantati sulle ginocchia e le bocca premuta contro il dorso della mano. La sua gamba destra non smetteva di agitarsi ed il tallone tambureggiava contro il pavimento a un ritmo quasi maniacale. Gli occhi erano persi in un punto vuoto, con la testa tutta da un’altra parte: Nat.

Nat, Nat, Nat.

Solo ed esclusivamente lei.

Continuamente, ossessivamente, come un martello penumatico che gli batteva in mezzo al cervello. Quelle iridi azzurre e quei capelli porporini si imponevano nei suoi pensieri in modo prepotente. A scatti la sensazione di adrenalina della battaglia e le intricate trame di fumo che aveva disegnato in cielo con i razzi del suo aereo gli spezzavano l’attenzione, pompandogli nuova eccitazione nelle vene, ma subito sparivano al suono delle esplosioni che ancora gli rimbombano nelle orecchie.

Un vero campo di battaglia, una vera guerra.

Non aveva mai preso parte prima d’allora a uno scontro, si era solo limitato a qualche esercitazione. Tutto sommato poteva perfino complimentarsi con sé stesso per l’incredibile prestazione offerta, al limite dello spettacolo coreografico.

No, per niente. Non c’era nulla di cui andare fieri.

I palazzi in fiamme, decine di persone morte, i suoi compagni morti. E poi Nataša e ancora lei. E il suo gigantesco robot che precipita e si dissolve nel nulla. Tutto era andato per il verso sbagliato: un fallimento su ogni fronte. E ora lei dov’era? Era viva? Stava bene? Il nemico l’avrebbe catturata? In questo caso sarebbe stato meglio che fosse morta prima, perché di certo quei diavoli in nero le avrebbero fatto scontare di essere sopravvissuta.

Forse sperava fosse morta.

No, ma come poteva anche solo pensare a una cosa simile? Stava impazzendo, lo stress gli stava friggendo i neuroni. Come mai avrebbe potuto pensare a una vita senza di lei, accettandone la scomparsa? Non poteva perdere la speranza che l’avrebbero ritrovata. Ma comunque ora non era lì e Novikov stava arrivando.

Edvard Novikov: il Presidente, la massima autorità su suolo russo. Il padre di Nataša. Con quale coraggio avrebbe trovato le parole per giustificare la sconfitta e la scomparsa di sua figlia? Provò a convincersi che lui era perfino troppo giovane per partecipare a una guerra, che la colpa era stata anche di quello sconsiderato del padre di Nat…ma non vi riuscì del tutto. Era un gran casino e proprio mentre iniziava a mettere in fila qualche fac-simile di scusa decente un suono di tacchi lo riportò alla realtà.

Era lui: a passi irrequieti Novikov stava attraversando il corridoio, diretto verso di loro.

Ivanovič eseguì senza nemmeno troppa cura il saluto marziale e si affrettò verso di lui: “Signore, sono mortificato ma siamo stati costretti a …”

“So già tutto, Ivanovič. Si risparmi le scuse.” – lo sorpassò privandolo perfino di un’occhiata, la voce durissima e distratta.

Oltrepassò Miša neanche fosse invisibile, diretto verso la saletta privata dalla porta blindata, ma il senso di colpa mosse i muscoli del ragazzo, che gli si fiondò alle spalle, costringendolo per un braccio a voltarsi.

“Mi dispiace!” – aveva il volto paonazzo di vergogna e rabbia verso di sé – “Mi dispiace davvero, io volevo…volevo aiutarla, sul serio, ma lei ha agito da sola e…e allora…”

“Lasciami immediatamente.” – una vibrazione di pura collera in un tono di voce apparentemente pacato fece rabbrividire il giovane a tal punto che la sua mano gli ricadde lungo il fianco.

“Io…” – boccheggiava come un pesce fuor d’acqua, senza riuscire ad articolare più di una sillaba – “…mi…”

Novikov perse le staffe e lo afferrò per il bavero del giaccone, inchiodandolo al muro: “Tu dovevi proteggerla! Una cosa ti avevo chiesto – una sola – e tu non l’hai fatta! Sarà meglio per te che lei stia bene!”

E lo rispinse indietro in modo brusco, sparendo subito dopo nella stanza di alta sicurezza.

 

Miša sentì gli zigomi andargli a fuoco e le lacrime che non riusciva a lasciare andare, continuando a mordergli la coscienza dall’interno. Si passò le mani tra i capelli e con una smorfia di nervi assestò un pugno contro la parete, finendo perfino per farsi male.

Si sentì un incapace mentre tutto il suo mondo iniziava a sgretolarsi sotto il peso dell’angoscia.

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Varsavia; Polonia.

 

La notte era ormai discesa, gelida e crepitante degli ultimi bracieri della battaglia, sulla città ferita. Infaticabili, dopo quasi quattro ore di costante ricerca, i soldati del Reich si attardavano ancora nello scalare tumuli di macerie e perlustrare palazzi semidistrutti, con in mente un solo obiettivo: il pilota della Divinità Metallica dall’armatura corvina. Non sapevano se fosse uomo o donna, giovane o meno, ma qualsiasi cosa che si fosse mossa nel loro campo visivo avrebbe costituito bersagli di cattura. Zeitland si fermò per un momento a riprendere fiato. Una nuvoletta di vapore si condensò al suo respiro e lo sguardo ricadde su un vicolo buio e umido, nascosto, che prima non aveva notato.

Una porticina da retrobottega socchiusa. I suoi sensi formicolarono. Avvisò i suoi sottoposti di continuare le ricerche nell’isolato, mentre lui avrebbe ispezionato altrove.

 

Sospinse l’uscio tenendo il braccio diritto, puntando la pistola verso il buio della stanza come il protocollo di difesa base imponeva.

Nell’oscurità del suo riparo, Nat era ancora là. Non aveva perso nemmeno per un istante il timore di essere scoperta e adesso che la porta era stata aperta capì che la sua vita sarebbe continuata ancora per poco. Un brivido le percorse la schiena e le venne quasi da urlare ma strinse la bocca con le mani.

Non farti sentire. Non farti sentire.

Quel posto era un buco, l’avrebbe trovata di certo. Era la fine. Sentì crescere la paura della morte sempre più vigorosamente, fin dentro le ossa, per quello che sarebbe presto accaduto. Sua madre, suo fratello, i suoi migliori amici, suo padre: non li avrebbe più rivisti, ormai ne era certa. Quell’orrenda giornata sarebbe stata l’ultima della sua vita, prima di andarsene per sempre con una pallottola in testa.

Lentissimi passi di stivali in pelle scricchiolarono sul pavimento.

Sarebbe stato doloroso? Forse, almeno, sarebbe stata una cosa rapida. Era quasi sul punto di smettere di preoccuparsi di rimanere nascosta e pensare solo al modo in cui se ne sarebbe andata dal mondo, ma una parte di lei ancora non si arrendeva. Doveva far silenzio.

Zeit avanzava con passo e mano ferma. I suoi occhi si stavano adattando all’oscurità, attento a ogni movimento. Non c’era alcun motivo particolare per indugiare tanto a lungo in quel posto ammuffito, ma qualcosa – un sussurro, una sensazione primitiva – gli stuzzicava i sensi e lo convinceva a ogni secondo di essere vicino a qualcosa di molto speciale. Cercò hi un interruttore ma le lampadine erano comunque fulminate.

Nat si strinse ancor più nelle ginocchia, provando a ridurre il suo corpo il più possibile dietro le scatole di legno marcio. Tremava in silenzio e si rese conto di non aver mai pregato tanto Dio in vita sua quanto in quegli istanti, quando qualcosa le solleticò il polpaccio. Guardò i trenta centimetri di gamba scoperta dai corti pantaloni militari e si accorse della presenza di una macchiolina scura che risaliva molto lentamente: un ragno; neppure molto grande, ma abbastanza da poter distinguere le ossute zampette che si tendevano dinoccolate. Se c’era qualcosa che la disgustava più della guerra e dei Nazisti erano i ragni: quelle orribili e inutili creaturine le facevano saltare tutti i nervi; tentò di reprimere un grido e sgrullò appena la gamba ma la bestiaccia non accennava a scendere e di toccarla a mani nude non se ne parlava. Era il colmo, c’era quasi del tragicomico in quella situazione.

I passi si erano fermati per un istante – forse il ‘qualcuno’ che non riusciva a vedere era in attesa – ma il ragno maledetto che stava iniziando a detestare era sempre più vicino al suo ginocchio.

Non ce la faceva più a trattenere il formicolio che le attraversava i tendini e lasciando da parte razionalità e buon senso distese con più vigore la gamba, scacciò via l’animale e urtò inavvertitamente le scatole al suo fianco.

Il rumore che provenne da destra fece sobbalzare Zeitland, cogliendolo di sorpresa, ma in una frazione di secondo la sua lucidità rispose con prontezza: si avvicinò in un solo passo alla colonna di cassette nell’angolo e l’aggirò, puntando l’arma verso il fagotto umano rannicchiato al suolo.

Stop!” – gridò verso Nat; la canna della sua pistola a mezzo metri dalla sua testa – “Stop oder ich schieße![1]

L’aveva trovata. Nat sollevò lo sguardo impietrito dalla paura e lanciò un gridolino, appiattendosi contro la parete.

Wer bist du?!” – l’uomo che aveva davanti continuava a gridare parole in Tedesco senza che lei riuscisse a capirne una sola – “Antworte! Schnell![2]

Tutta quell’accozzaglia confusa di suoni le venivano strillati contro senza comunicarle nulla e l’unica cosa che le venne in mente per farsi capire, per quanto suonasse stupida da dire in un momento simile, fu: “I don’t speak German!

Dal suo canto, Dietrich si rese conto che la ragazza che aveva davanti non avrebbe distinto una parola nemmeno se gliel’avesse ripetuta mille volte a rallentatore; piuttosto l’occhio gli cadde sugli indumenti in tessuto tecnico rinforzato e tra i caratteri in cirillico ricamati riconobbe i simboli dell’esercito russo. Una soldatessa, dunque. Quel viso…qualcosa di antico si rimescolò dentro Zeit, sorprendendolo: la ragazza di Baksheevo, la pilota della Macchina nera che lo aveva sconfitto. Il momentaneo stupore lasciò il posto alla rabbia e il Cavaliere Nero l’afferrò con rudezza per un braccio, parlando stavolta in un Russo perfetto: “In piedi!”

La tirò su di peso e la condusse al centro della stanza, lasciandola andare a sbattere contro la parete opposta. Lei l’urtò con la spalla, facendosi male, e ricadde a terra. Strascicò i piedi sul pavimento, scivolando, provando a comprimersi contro il muro. Trovò il coraggio per fissare in volto il suo carceriere e colui che vide fu un giovane che non arrivava ai trent’anni, dai lineamenti eleganti ma torvi: lo stesso viso che settimane prima le era apparso durante lo scontro contro il robot-drago scarlatto. Una piccolissima parte nel suo subconscio femminile riconobbe perfino un certo fascino in lui, ma il nero della sua divisa ornata dei vessilli del Reich e il simbolo sulla fascia che gli stringeva il braccio le ricordò subito che l’essere che aveva davanti era solo un altro fantasma del passato.

“Sei tu la pilota della Divinità Metallica?!” – l’ennesima domanda che suonava più come un ordine – “Rispondi! Ti manda la Russia, vero?! Come avete fatto a entrare in possesso di quell’Unità? Dove l’avete rinvenuta?!”

“I-io…io non lo so!” – balbettò nel panico, non sapendo nemmeno se scegliere tra il confessare la verità e sperare di essere risparmiata o morire in silenzio.

“Che diavolo dici?!” – le ringhiò lui, puntandole contro la pistola – “Come fai a non saperlo?! Sei tu la Meister, giusto? Come puoi non saperlo?!”

Meister…?” – quella parola non le diceva nulla.

Meister, esatto: la pilota di una sWARd Machine, una Divinità Metallica. E ora dimmi dov’era il suo Anbar Atanor! E come fai a sviluppare tutto quel VRIL?!”

“VRIL, Anbar Atanor…” – Nat portò le mani alle orecchie, tutta in un tremito – “…io non capisco una sola parola che dici! Non so nulla, a me non dicono mai nulla!”

“Ti avverto, la mia pazienza ha un limite.” – Zeit si inumidì le labbra mentre la voglia crescente di premere il grilletto lo assaliva – “Non prendermi per idiota e vedi di rispondermi.”

“Ti ho detto che di tutto questo non so nulla!” – strillò lei sul ciglio di una crisi isterica.

Bang.

Un colpo di pistola partì in linea retta, le sfiorò di due millimetri la tempia e si conficcò nella parete. Lei si azzittì di colpo con la bocca contratta dallo spavento; con la coda dell’occhio poteva vedere il foro del proiettile.

“La prossima volta non sbaglierò.” – disse freddamente lui.

Caricò il cane della pistola con il pollice, stingendola saldamente: “Non importa se non parli. Se ti ammazzo ora toglierò di mezzo l’ostacolo più grande del Reich. In ogni caso avrò completato la missione e tutta la guerra potrebbe anche considerarsi chiusa.”

Un bel riscatto, dopo la sua sconfitta. L’idea gli piaceva non poco.

Era chiaro che a quel tizio non importava nulla della vita di Nataša e lei lo sapeva; gli importava solo delle informazioni che poteva offrirgli e in ogni caso l’avrebbe fatta fuori, a prescindere dalle sue risposte. Ma lei – davvero – non ne sapeva nulla.

Si sentì improvvisamente stanca e affranta: non voleva morire ma non escludeva la possibilità; non avrebbe mai tradito il suo Paese ma anche volendo non aveva una risposta per nessuno di quegli interrogativi. Qualsiasi cosa avrebbe fatto sarebbe stata una mossa falsa e non c’era nulla che potesse fare per uscire da quella situazione. Tutto quello le riuscì fu un supplichevole:

“Ti prego, non uccidermi.”

Zeitland rimase interdetto per un istante. Qualcosa in quella ragazza gli impediva di porre fine in fretta alla faccenda, ma la metà raziocinante del suo cervello la riconosceva solo come un nemico: “Dammi un solo motivo per non farlo.”

Che motivo poteva dare? Se i ruoli si fossero invertiti, forse perfino lei avrebbe premuto il grilletto.

“Non voglio morire…”

Zeitland avvampò: non voleva morire? Che razza di stupido motivo. Dopotutto chiunque muore, presto o tardi, e in guerra si dovrebbe darlo per assunto. Come se tutti quelli che aveva ucciso avessero gradito il regalo…chi credeva di essere lei? Perché proprio lei avrebbe dovuto meritare la sua pietà?

La sollevò con forza e le premette un braccio sulla gola, comprimendole la trachea; le puntò la pistola all’altezza dello sterno e le sibilò carico di disprezzo: “Tu mi hai umiliato. Tu – insulsa ragazzina sovietica – hai osato mettermi in ridicolo. Dovrei ammazzarti in questo istante.”

Lei provò a divincolarsi, mentre le lacrime le rigavano il volto; la voce le uscì spezzata e soffocata: “Per favore…mi dispiace.”

Quella parola si conficcò nello stomaco del ragazzo come una lama.

Dispiacere: lo si prova quando ci si sente colpevoli. In guerra non si dovrebbero avere rimpianti, pensò. Un nemico, poi. Compiangere un avversario non ha senso. Forse non lo sapeva nemmeno lei perché lo avesse detto. In verità, le dispiaceva di tutto: per non essere più forte, per non poter proteggere coloro che amava, per aver combinato solo danni; le dispiaceva per i suoi familiari, per Miša, per i cittadini di Varsavia. Forse perfino per quell’uomo crudele da cui ora dipendeva la sua vita: a lei non fregava nulla della guerra, né tantomeno di essere una Meister migliore di lui e se questo lo infastidiva avrebbe dovuto sapere che ci era stata obbligata, a combattere.

Lui allentò la presa e lei scivolò lungo il muro, sedendosi ancora.

Lui si piegò sulle ginocchia, per squadrarla meglio. Si guardarono.

Non la ricordava tanto bella: così fragile ed esile; pura nel suo sguardo distrutto dalla paura, una paura che accomuna ogni essere vivente. Talmente effimera e ammantata di sofferenza da ricordare una rosa. Una rosa rossa, una cosa bella che chiunque può uccidere, schiacciandola nel proprio pugno. Forse anche per quello – sapere che la sua vita era ora merce di sua disposizione – che Zeitland si sentiva così frastornato, contrariato e insieme interessato. Gli parve quasi di sentire la voce del dottor Schulz che gli chiedeva delle sue pulsioni fisiche durante le visite periodiche; ebbe per un momento la sensazione che gli occhi del Kaiser, o di Albrecht o forse di Helena (o magari di tutti quanti insieme) lo fissassero e lo giudicassero, in parte annuendo e in parte ghignando malignamente.

Nat ansimava piano, senza il coraggio di guardarlo negli occhi, in cui ora le tracce d’odio sembravano sfumare in una profonda solitudine. Quel viso, quelle mani…cose che le pareva di conoscere da un lungo tempo, come una giostra che su cui si andava da bambini e che ora arrugginisce sperduta.

Un impulso contradditorio, incomprensibile e silente li mosse entrambi. Una tensione reciproca, come centri di gravità in avvicinamento.

Lui poteva sentire il suo odore di femmina; lei il suo alito caldo che iniziava a lambirle il collo. Cosa fare? Concedersi? Svendersi come merce, nella speranza di assopire gli spiriti omicidi di un uomo, soddisfano i più bassi desideri di un maschio?

La pistola cadde a terra e delle mani sfiorarono i fianchi; le gote ora vicine; le fronti corrugate.

Perché? Perché, infine, le loro labbra premute l’una sull’altra, come un bocciolo che si richiude per paura di nascere?

Una breve colluttazione – Nat provò a rifiutare quell’assalto – conclusasi molto in fretta.

E nel flusso del sangue che faceva pulsare i cuori l’irrefrenabile e inconsapevole libido mandò direttamente in blackout le menti.

 

Le mura della stanza sembrano disintegrarsi nell’orizzonte senza limite dell’Universo, il pavimento diviene fluttuante liquido nero, il mondo intero si capovolge nello specchio del Creato, affondando nel suo negativo. I corpi perdono i loro vincoli, abbandonandosi a una caduta senza dimensioni tra gli scintillii di stelle lontane anni-luce, e i pensieri risuonano confusi, sospesi.

Questa sensazione. Cos’è questa sensazione?

Il mio cuore che vibra, la mia mente che cede: cosa sarà?

Un calore che unisce, vuoto che diventa luce. Paura, senso di colpa, gioia effimera: piacere.

Le loro membra bianche come spettri contro le tenebre dello Spazio, un abbraccio leggero come piume in caduta libera.

Un bacio. Braccia che si incontrano: una cosa piacevole, una cosa che da conforto.

No, non è conforto. È un piacere diverso.

Un piacere diverso, un piacere sbagliato. Perché non riesco a smettere?

Dovrei smettere. Smettere di provare piacere.

Le loro ombre bianche si liquefanno come latte, come linfa vitale, e colano a precipizio negli abissi del nulla, intrecciandosi in bellissimi nastri.

Due corpi che si uniscono fino a fondersi in uno.

Il corpo di un uomo, il corpo di una donna: cose create da altri uomini, cose che si disfano nel tempo.

Si solidificano in un uovo bianco che si gonfia e poi s’incrina, esplodendo in una nebulosa cosmica.

Il tempo si disfa in altro tempo, come l’amore muore nel piacere.

Ormai sono solo voci senza corpo, due pulsazioni alate di luce che danzano senza coscienza tra le ciclopiche galassie diamantine che emergono da differenti linee temporali.

Svenimento, ricordi confusi, inebriante senso di vertigine.

Una sensazione prima dei Tempi: è come esistere da sempre, senza essere mai nati.

Eterni: è come essere e insieme non essere. È come uno spirito senza involucro.

Soltanto un’idea, come un ricordo.

A mala pena riescono a distinguere le proprie voci, mentre precipitano verso il cuore radioso di una Via Lattea che va tingendosi di scarlatto, come un fiore intriso di sangue.

Un ricordo impossibile da ricordare, che qualcuno ha annebbiato ma che è ancora lì.

Qualcuno…qualcosa che non si riesce a portare alla memoria, che soggiace tra le pieghe del tempo, in attesa. È forse di quel ‘qualcuno’ la sconfinata iride rossa che ora forma la galassia? Sono forse sue le colossali mani ricoperte di affilate lamine di metallo che emergono dalle nebulose, chiudendosi lentamente su di loro?

Ricordare…che cos’è…che devo ricordare?

 

Tutto finì.

La mente di Nataša ci impiegò qualche lunghissimo secondo per tornare alla lucidità. Non sentiva più su di sé il peso di quell’uomo e le sue labbra erano ora libere da quel gesto che doveva essere durato pochi istanti, ma che sembrava averla privata di qualche anno della sua vita. Ora lui era in piedi, accanto alla porta dalla quale era entrato, intento a riabbottonarsi la giacca della divisa.

Qualcosa era riuscita ad attivare un interruttore ben nascosto nel lato conscio di Zeitland, riportandolo alla realtà appena in tempo per fermarsi. Che diavolo gli era passato per la testa? Ora come si sentiva talmente rivoltato e disarmato che perfino l’idea di afferrare la pistola e finire il lavoro iniziato gli parve inattuabile.

Inghiottì un groppo e parlò con quanto più controllo possibile:

“Considera il fatto che tu sia ancora viva come una possibilità che ti ho concesso. Ora potrai tornare a casa e avvertire il tuo Paese che il Reich vincerà in ogni caso e che sarà meglio per voi firmare un armistizio il prima possibile.”

Fece un passo e oltre l’uscio.

Era buio e freddo e una pioggia leggera iniziava a ricoprire Varsavia. Si voltò appena, perché qualcosa in lui non voleva ancora abbandonare quel luogo: “Io sono lo Schwartz Ritter del Reich Lunare e il Meister della sWARd MachineFafner’. Il mio nome è Zeitland Dietrich. Tienilo a mente.”

E se ne andò.

Nat rimase lì dov’era; il suo corpo esausto non le concedeva nemmeno forza per rimettere a posto le idee, lasciandola con una scatola vuota al posto della testa. Era viva perché l’uomo che fino a pochi minuti prima voleva spararle un colpo in fronte l’aveva risparmiata. L’aveva baciato. Non era nemmeno sicura fino a che punto il delirio onirico di cui era stata preda avesse camuffato la realtà, ma per adesso era certa solo di questi due fatti. Restò in silenzio, in solitudine. In quella situazione, mai si sarebbe interrogata sull’utilità di quella piastrina incollata proprio sotto il risvolto del colletto, sotto la quale un chip sottile come un filo d’erba continuava a registrare…

 

*   *   *

 

Contemporaneamente. Luogo ignoto.

 

Un minuscolo puntino rosso pulsava sulla mappa olografica sospesa al centro dell’austera stanza, indicando un quartiere di Varsavia, in Polonia. Dalle casse acustiche sulle pareti proveniva il suono ritmico di un respiro di giovane donna.

“Il secondo Contatto è avvenuto, confratelli.” – una voce maschile provenne da sotto uno dei cappucci neri che riuniti in quella stanza.

 

Una congrega di dodici mantelle di velluto nero sedeva a un lungo tavolo di noce che percorreva il perimetro della stanza. Dita coperte da seta bianca stavano intrecciate davanti a pettorine decorate con soli e occhi, mentre maschere dorate senza lineamenti e cappucci appuntiti coprivano volti sconosciuti. A guardarli meglio, alcuni di loro – che sedevano dentro delle celle in vetro – apparivano eterei, translucidi. Ologrammi anch’essi e le poltrone che li ospitavano. Al centro del pavimento in marmo campeggiava un grande mosaico di tessere nere e oro: tre cerchi concentrici attraversati da dodici linee spezzate, come raggi stilizzati di un Sole. Lo stesso simbolo che era ripetuto sulle pesanti collane dorate che portavano al collo, sui loro anelli e sui due contraltari ai lati opposti della sala. Sul soffitto affrescato con indescrivibili intuizioni cosmiche e celestiali, un grande Cristo crocifisso era appeso prono, senza testa.

 

“Proprio come previsto dai Registri di Paracelso!” – esclamò una delle figure presente solo in forma di ologramma, in un Inglese da madrelingua.

“Cosa accadrà ora?” – chiese qualcun altro; anche se il suo viso era coperto, un’inconfondibile nota di timore tinse la sua voce.

“È il punto di non ritorno.” – aggiunse un uomo dall’accento dell’Europa dell’est, forse russo – “L’Effetto di Accumulazione, la sacra legge che guida il destino dell’universo, renderà i loro ricordi sempre più vividi finché per non potranno sottrarsi a quanto stabilito.”

“Che il VRIL ci conduca verso il nuovo mondo!” – fu il motto unisono dei presenti.

L’uomo dall’accento russo fissò ancora il localizzatore sulla mappa mentre il respiro registrato di Natasha Novikov aleggiava nella stanza. La immaginò stanca e sola sul pavimento sporco del deposito, dopo essere stata stretta in una morsa di passione con un Nazista. Per qualche motivo quel pensiero gli risultò detestabile e pensò che se qualcuno avesse saputo della disponibilità con cui la ragazza si era concessa al nemico nemmeno un miracolo avrebbe potuto salvarla dalla Corte Marziale. Ma, nonostante ciò, non poté fare a meno di pensare: Tutto come nei piani.

Strinse un pugno e l’anello dorato luccicò sul suo anulare.

 

[1] Traduzione: “Ferma! Ferma o sparo!”

[2] “Chi sei?! Rispondi! Svelta!”

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Capitolo 16
*** Capitolo 14: Fango ***


14.

 

Fango

 

 

All’alba del giorno seguente, il mattino salutò con addolorato rispetto la città martoriata di Varsavia.

Molte anime fortunate uscirono dalla veglia durata tutta la notte, riprendendo a vivere, mentre molte altre piangevano i dispersi di del giorno prima sgretolatosi in morte.

Quando il plotone di soccorso irruppe nel nascondiglio dal quale Nataša non aveva avuto il coraggio di allontanarsi, gli uomini dai caschi oscurati la raccolsero, la coprirono con coperte termiche e la condussero sull’elicottero militare con la promessa di riportarla in patria. Non le concessero risposte a nessuna delle domande che pose loro. Né chi fossero, né come avevano fatto a trovarla, né tantomeno cosa significasse la scritta ‘ECHELON’ sotto il logo delle divise: un cerchio a circuiti stampati, con una ‘E’ stilizzata a formare una specie di occhio.

Mentre l’elicottero si innalzava oltre le cime dei palazzi, Nat non ebbe la forza di guardare la desolazione che si estendeva al di sotto e alla quale lei stessa aveva contribuito.

 

*   *   *

 

Ore 14:00.

Clinica militare di Mosca.

 

Nat lasciò l’ambulatorio a piccoli passi, avvolta ancora nella coperta termica che doveva riscaldarla da un freddo che sembrava non volerla più abbandonare. Nella sala d’attesa dell’ospedale – un luogo che ormai iniziava a essere meta fissa – i suoi familiari le vennero incontro per abbracciarla. Sua madre e suo fratello, che non smetteva mai di ringraziare abbastanza per esserle sempre al fianco, e questa volta anche suo padre. Non l’aveva privata della sua presenza come l’ultima volta; ora era lì, per dimostrarle che l’avrebbe protetta, che avrebbero affrontato insieme come una famiglia anche gli orrori della guerra.

Nat si lasciò sprofondare nell’abbraccio di sua madre, piangendo forte a singhiozzi.

“È tutto finito.” – lei l’accarezzò con dolcezza, trattenendo a sua volta un pianto che le costava davvero molto non liberare – “Ora sei con noi, sei a casa.”

Quando ritrovò fiato per respirare, Nat si scostò appena verso suo padre: aveva un volto strano, che non sapeva decifrare. Sembrava crucciato, per nulla sollevato, forse persino deluso…ma nei suoi occhi e nelle rughe che gli solcavano la fronte si leggevano profondo amore e compassione. Lo fissò per un istante e poi lo strinse forte, affondando il viso nel suo forte torace coperto dalla camicia diplomatica che profumava di canfora.

“Sono qui, tesoro mio. Sono qui.” – mormorò lui, chiudendo gli occhi per assaporare quel momento; le regalò un bacio sulla nuca – “Te lo avevo promesso che non ti sarebbe successo nulla.”

L’aveva trovata, l’aveva salvata. Lei non sapeva come c’era riuscito ma era andata così. Quell’uomo era davvero grandioso, era un vero leader e un padre meraviglioso. L’aveva sempre amato moltissimo e si sentì una vigliacca nel pensare che aveva anche solamente osato dubitare di lui. Quando poi si scollò anche da lui si mise a sedere su una poltroncina e guardò verso il fondo del corridoio. Eccolo là. C’era anche lui. Non poteva crederci, le sembrava un sogno. Non era nemmeno sicura che fosse sopravvissuto e vederlo a pochi metri da lei le fece avere un sobbalzo al cuore talmente forte da non riuscire nemmeno a distinguere la gioia dalla tristezza. Gli occhi di Miša si ravvivarono come accesi da un faro e accelerò il passo fino a raggiungerla; lei si alzò appena ma le braccia di lui le erano già intorno.

“Nat!” – esclamò serrandola in un abbraccio dove stava scaricando tutta la paura provata in quelle ore – “Grazie…oh Dio, grazie.”

“Miša…Miša!” – ricambiò il gesto, premendo le mani contro la sua schiena forte e poggiando il mento sulla sua spalla. Non riusciva a fare altro che ripetere il suo nome, la paura di non esserne più in grado era stata talmente grande che ora voleva pronunciarlo fino a convincersi di non stare sognando.

“Io…non hai idea della paura che ho avuto.” – che bello poter poggiare la propria guancia sui capelli dell’amica, sapere di poter stringere il suo corpo ancora pulsante di vita – “Non dovevo lasciarti. Non volevo.”

“Mi dispiace…mi dispiace…” – disse poi lei, tra calde e amare lacrime che le scendevano copiose, mentre voleva sprofondare sempre di più nel corpo del suo amico.

“No, non devi.” – la rassicurò lui, scuotendo la testa – “Non hai nessuna colpa. Ora è tutto a posto, ok?”

Ma non lo era.

Lei lo sentiva dentro, l’indicibile segreto di cui si era macchiata. Le dispiaceva del casino combinato, le dispiaceva di aver messo tutti in ansia ma più di tutto le dispiaceva – anzi la faceva inorridire – ciò che aveva fatto: concedere le proprie labbra a Zeitland Dietrich. Non aveva mai baciato alcun uomo prima d’ora e Miša non era mai stato un serio oggetto di desiderio ma si rese conto che dopo tutto il bene fatto, dopo tutti gli anni spesi assieme, dopo tutto ciò che li aveva uniti forse avrebbe dovuto essere lui il suo primo ragazzo. Aveva sempre immaginato il suo primo bacio sotto un albero in un pomeriggio caldo, o magari sfiorati da una leggera neve di quegli inverni rari nell’eterno surriscaldamento globale del 2050. Aveva sempre sognato che il primo bacio tanto difficile da strapparle avesse avuto il sapore delle ciliegie o il profumo del vischio. Qualcosa di speciale, insomma. Invece il suo primo gesto d’amore fisico sarebbe per sempre rimasto nella sua memoria come un’esperienza stordente, surreale e consumata nella sporcizia di un pavimento ammuffito tra irrefrenabili ondate di un trasporto ferino. Con un Nazista. Era disgustoso a pensarci, ma le aveva dato un incredibile piacere, sul momento. Pensò di essere davvero una figlia degenere e un’amica indegna e si sentiva imbrattata di una vergogna inconfessabile, come se nuotasse nel fango.

“Sono stata sporcata…” – le venne da gemere disperatamente, piantando le dita nella schiena di Miša, per non lasciarlo andare – “…sono stata sporcata!”

 

*   *   *

 

Stesso giorno. Settore-12; Golgotha.

 

Guten Tag, mein Oberstleutenant!”

Zeitland fu accolto da un dottor Schultz particolarmente di buon umore – “Ho saputo dell’ultima vittoria sulla Terra. Niente di meno, dallo Schwarz Ritter del Quarto Reich.”

“La ringrazio.” – e si sedette al tavolo dell’ambulatorio.

Schultz prese la solita cartellina per il check-up periodico: “Dopo un risultato del genere il nostro piccolo appuntamento è solo una formalità. Cercherò di fare in fretta.”

Come da rito, le prime due domande attennero alla forma fisica e psicologica in cui versava il suo interlocutore, che rispose positivamente senza tentennamenti. Poi venne la terza: “Ha avvertito bisogni sessuali nell’ultima settimana?”

Zeitland ne rimase interdetto.

“Questa domanda viene dopo, di solito.” – si tirò indietro sulla sedia, come se improvvisamente nulla quadrasse più.

“Non si preoccupi.” – Schultz sventolò una mano e sfoggiò il più conciliante dei suoi sorrisi pronti. – “Risponda alla domanda.”

Il giovane gerarca rivide nella sua mente la scena consumatasi nella cantina di Varsavia e, guardando il proprio riflesso sulle lenti degli occhiali di Schultz, avvertì un indescrivibile senso di allerta.

“Nessuno.” – rispose dopo qualche secondo.

Gut. E…” – il medico annotò la risposta, scorse la lista di domande sulla sua tabella e poi chiese ancora – “…sente il bisogno di ricorrere a una dose di NBZD?”

Un’altra domanda anticipata.

“Non capisco davvero perché sta-”

“Si limiti a rispondere, per favore.”

Di nuovo, Zeit non poté replicare prima di un paio di secondi: “No. Non mi serve. Grazie.”

E Schultz si premurò di aggiungere un altro sorriso: “Ottimo.”

 

*   *   *

 

Poco dopo, Zeitland contemplava la volta stellata da sotto i vetri della cupola geodetica che copriva la serra privata dei Ratsmiglieders. L’odore penetrante dei roseti artificiali blu e neri gli riempiva le narici. Abbandonatosi su un divano – la giacca sbottonata e la cravatta allentata – si era dato all’attività che più lo distingueva: l’elucubrazione in solitudine.

Quella visita psicoattitudinale lo aveva messo a disagio, per la prima volto dopo moltissimo tempo. Aveva fatto bene a mentire? E prima ancora: aveva mentito? Un bacio non-del-tutto-consensuale si poteva considerare desiderio sessuale? Non aveva mai baciato una donna. Non ci aveva nemmeno mai pesato, in realtà. Così preso dall’essere il migliore, così rinchiuso nei rituali di sopravvivenza della vita sulla colonia lunare, che non si era mai posto il problema di cos’altro potesse desiderare il suo corpo o il suo spirito. Sapeva solo di essere un figlio della Luna, nato in un popolo cacciato dal proprio pianeta d’origine. Erano loro le vittime, non i terrestri! Avrebbero avuto la vendetta che meritavano! A lui bastava andare avanti con questa convinzione. Ma adesso, dopo essersi sentito strappato in due tra le voglia di uccidere la pilota della Machine nera e quella di farla sua, iniziava a chiedersi di cos’altro sarebbe stato capace. Era lei la ragazza di cui sempre parlava Arya? Perché proprio lei, tra le infinite casualità della vita, aveva dovuto incrociare la sua strada?

 

“Ma guarda chi si vede.” – la voce di Adler Jung ruppe il silenzio – “È permesso?”

Ma il permesso se lo era già preso, seguito dalla sagoma più minuta di Helena Heathfield.

“A che ora il ‘bel principe addormentato’ ritiene opportuno alzarsi?” – chiese lei, aggirandolo.

Uno sbuffo spazientito fu l’unica risposta che ricevette. Helena si divertì ad avvicinarsi a passi leggeri e con una mezza giravolta si sedette sul bracciolo del sofà, accavallando una gamba: “Per essere uno che ha appena aggiunto un Paese al nostro Asse non sembri molto felice. È successo qualcosa, laggiù?”

“No. Nulla.” – nel giro di mezza giornata aveva imparato bene a mentire senza suonare innaturale.

“Nemmeno quando sei stato sconfitto sembravi così di pessimo umore.” – insistette lei, davanti a quell’atteggiamento incomprensibile – “Sei certo che non ci sia niente che dovremmo sapere? Siamo i tuoi compagni di squadra. Potremmo aiutarti, se parli.”

Era sinceramente preoccupata per lui, ma la sua voce suonava sempre troppo petulante e sempre troppo poco empatica.

“Ho detto che non c’è nulla di cui parlare.” – Zeit capì che il suo ritiro meditativo era finito e si alzò, ricomponendosi.

“Non insistere, Helena. È chiaro che il nostro amico vuole restare un po’ con i suoi pensieri.” – la frenò Adler, ma intanto sogghignava intrigato – “Ad ogni modo, Zeitland, perfino Albrecht e il Kaiser sono rimasti molto colpiti dal tuo lavoro. Fossi in te ne sarei lieto.”

“Ovvio che lo sia.”

Era ormai quasi fuori dalla serra, quando la voce allegra del suo collega lo raggiunse: “Tienici aggiornati, eh!”

Quella frase suonò più come una minaccia che una richiesta.

 

*   *   *

 

Giorno seguente. Ore 9:00.

Quartier Generale del Corpo di Difesa Nazionale Russo (pista di decollo).

 

L’aria tremava e ondeggiava come un fluido, sotto il calore dei repulsori verticali dell’enorme apparecchio militare- un Tupolev Tu-95NZ quadrimotore – dai quasi sessanta metri di apertura alare. Si stava sollevando dal suolo molto lentamente, la gabbia metallica sulla quale Freya era stata ancorata con spessi tiranti.

Il Presidente Novikov osservava la scena direttamente dalla pista, il soprabito nero scosso dal vento. Si voltò verso i due uomini alle sue spalle

 

Una macchina di servizio si era fermata al margine della pista e Natasha Novikov ne era uscita in tutta.

“Che cosa sta succedendo?!” – chiese a voce molto alta, cercando di sovrastare il frastuono prodotto dall’aereo.

A pochi metri da lei, suo padre stava finendo di stringere le mani di altri due uomini in soprabiti scuri: uno dei due era di certo asiatico, l’altro sarebbe potuto provenire da qualunque altra parte del mondo occidentale. Accortisi dei lei, si scambiarono un ultimo cenno di assenso con Novikov e si congedarono, oltrepassandola. Prima che fossero troppo distanti, Nat riuscì a scorgere un paio di loghi, rispettivamente sul tesserino plastificato appuntato sull’impermeabile dell’asiatico e sulla ventiquattrore del caucasico: SEONG-WANG ELECTRONICS e REINFOLD HEAVY INDUSTRIES. Corea e America? Forse.

“La prendono in custodia.” – suo padre la guardò duramente; il tono era calmo ma anche lui doveva sforzarsi per farsi udire – “Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha reputato le sWARd Machines ‘non idonee alla difesa internazionale’. La sigilleranno fino a nuovo ordine.”

“Ma non possono!” –si oppose lei, ma preferì attendere che l’aereo fosse alto nel cielo terso e che il suo rombo si fosse affievolito prima di riprendere – “Non possono privarcene così, come faremo ora a difenderci?!”

“Il nostro Paese si arrangerà come può.”

“Non puoi permettere che me la portino via!”

Quelle parole sorpresero profondamente Novikov, ma provò a mantenere il suo distacco: “Da quando hai iniziato a considerarla come una tua proprietà?”

Nat non si era nemmeno resa conto di ciò che aveva appena detto.

Avrebbe voluto replicare, ma sapere che i suoi stessi sentimenti riguardo quella storia si erano contraddetti da soli la fecero tacere.

Suo padre parlò per lei: “Con un po’ di fortuna i Paesi alleati potrebbero sviluppare delle nuove Unità da affidare a soldati professionisti. La guerra non deve essere una faccenda personale. Ringrazia il Cielo per potertene tenere lontana, almeno per adesso.”

Le stava dicendo che avrebbe combattuto ancora. E ancora e poi ancora, fino a quando lei o i suoi nemici non sarebbero stati più in grado. Le andava bene, ormai. Aveva rinunciato all’idea di poter vivere in serenità quindi quella breve pausa che le si prospettava sarebbe solo stata un’occasione per meditare su quanto accaduto.

Quei mostri la stavano cambiando, rovinando la vita e costringendo a fare cose terribili che per sempre le avrebbero marchiato a fuoco i suoi incubi. Doveva combattere per uscire da quell’inferno. Avrebbe atteso per la prossima occasione. Avrebbe atteso per quando sarebbe stata più forte e allora avrebbe avuto la sua rivincita.

 

*   *   *

 

Sala del ‘Mond-Rat’. Settore-1. Stessa Base.

 

La seduta straordinaria di quel giorno aveva acceso un’aria di trepidazione tra i membri del Consiglio Lunare. Come sempre la stella a sette punte mancava di un trono, che ora era tenuto d’occhio con crescente interesse.

“Vi porto grandi notizie, Membri del Consiglio!” – esordì il Kaiser – “Dopo mesi di ricerche, la Commissione di Ritrovamento delle Machines ha individuato il luogo di sepoltura del Drago delle Maree!”

Compiaciuta del suo operato, Katrina Winter lanciò un’occhiata verso il condotto d’ingresso dell’ultimo seggio: la settima colonna di marmo bianco stava emergendo emerse dal baratro sottostante, fermandosi poco sopra la piattaforma centrale. Qualcuno scese. Risuonarono i passi di tacchi neri e stivali di pelle blu. Dei pantaloni aderenti e gessati sotto una giacca barocca color blu cobalto e dai polsini a sbuffo. Rose grigie appuntate sui rever assieme a catenine dai decori marini. Un piccolo strascico di morbidi nastri pieghettati dello stesso tessuto dei pantaloni, fissato con dei bottoni sulle code della giacca, ondeggiava a ogni passo. Una mascherina dorata a ricami blu nascondeva gli occhi e gli zigomi di un piccolo volto contorniato da corti capelli neri dalle punte turchesi.

Quella figura si fermò al centro della stella: era minuto come potrebbe esserlo un ragazzino, e nemmeno molto alto, ma nessuno lo guardò con sufficienza. Se il Kaiser voleva la sua presenza significava che quel tipo doveva essere molto speciale.

“Diamo il benvenuto all’ultimo membro del nostro Consiglio e nuovo pilota della Divisione Marine Klee. Il Quarto Soggetto Qualificato, il Meister del Drago delle Maree! Accogliamo...Ninagal!”

 

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