Il veleno degli innocenti

di _Dark Side
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** _Uno ***
Capitolo 3: *** _Due ***
Capitolo 4: *** _Tre ***
Capitolo 5: *** _Quattro ***
Capitolo 6: *** _Cinque ***
Capitolo 7: *** _Sei ***
Capitolo 8: *** _Sette ***
Capitolo 9: *** _Otto ***
Capitolo 10: *** _Nove ***
Capitolo 11: *** _Dieci ***
Capitolo 12: *** _Undici ***
Capitolo 13: *** Fine. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

Me ne sto appiccicata a mio fratello, con la testa appoggiata alla sua spalla. Lui mi stringe forte forte, per non farmi tremare. Ma ho paura lostesso. Davanti a noi, ci sono uomini e donne di ogni età che ci scrutano dalls testa ai piedi. Ma non osservano soltanto noi due. Nella gabbia a fianco alla nostra ci sono altri bambini come noi che si stingono a vicenda per l'orrore. Cerco di mettere a fuoco la stanza in cui siamo rinchiusi. E' un grande atrio senza porte nì finestre. Le pareti completamente bianche e su ogni parete c'è un solo numero, che va da 1 a 10, proprio accanto alla porticina delle gabbie dove siamo imprigionati. Ho una tale paura! Ma non ricordo nulla di come siamo finiti qui dentro, chi ci ha portati, né chi siano quelle persone che sembrano fissarci interessati.

 

«Non avere paura, Sher. Usciremo da qui, te lo prometto»

«Ho tanta paura, fratellino mio»

«Non devi averne. E' soltanto un gioco...un brutto gioco, ma ci libereranno. Noi e tutti gli altri bimbi, stà tranquilla»

 

Le sue amorevoli parole non mi calmano, così scoppio a piangere un'altra volta. Cerco di ricostruire passo passo ogni tappa del nostro arrivo qui, ma non mi ricordo nulla. E' come se fosse un ricordo annebbiato. Eppure fino a ieri stavamo a casa nostra, con mamma che mi cambiava bavaglino e mutandine ogni dieci minuti, e papà che giocava a calcio con mio fratello in giardino. Mi viene nostalgia, voglio ritornarmene a casa. Mi do un pizzicotto (non sia mai sia un sogno...) e invece non succede niente. E' proprio reale.

 

Alcune di quelle persone che continuano a guardarci e commentare l'un con l'altro puntando i loro diti ricurvi verso noi, si rivolgono ad un omino anziano, ricurvo su un bastone, che ha un grande mazzo di chiavi in tasca. E' lui che, quando quelle persone hanno preso una decisione,apre le gabbie per far uscire solo i bambini scelti e se cercano di fuggire o urlare, il vecchio dà loro un ceffone così forte da farli svenire e ho paura che anche a noi possa fare la stessa cosa. Mi stringo ancora più forte a Rick. Per fortuna non sono sola. Adesso come non mai voglio bene a mio fratello.

 

Ed ecco che una coppia di anziani si ferma davanti alla nostra gabbia. Sembrano interessati a noi. Stanno quasi per rivolgersi al vecchio con le chiavi, quando una donnona alta e dai capelli neri si avvicina alla sbarra a due centimetri dal gomito di Rick.

«Questi sono miei» Urla, e allora il vecchio accellera il passo, come se non avesse nemmeno bisogno del bastone, e apre la porticina. Sento il petto di Rick gonfiarsi, ma non tira ancora un sospiro di sollievo. Trattiene il fiato, proprio come faccio io quando mi arrabbio. Il vecchio ci strattona entrambi fuori dalla gabbia. Cerco di urlare e anche mio fratello, che ripete il mio nome più volte, fino a quando il vecchio e la donna, per tenerci fermi, ci scaraventano a terra. Io batto la testa forte, ma ancora sono cosciente.

 

Rick invece resta immobile. Spaventata faccio per alzarmi da terra, ma non riesco. Il vecchio tira fuori una grande siringa e inietta qualcosa a mio fratello. Poi si volta verso me. Un ultimo movimento, poi sento il picco dell'ago nel polso. L'ultima immagine che ho è lo sguardo divertito della donna. Poi più niente, i miei occhi si chiudono.

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Capitolo 2
*** _Uno ***


«A tavola! La colazione è pronta!»

Fui svegliata da quella voce insopportabile. Mi trovavo a Ingolstow, un paesello dimenticato da Dio. Quattro case e soltanto un negozio vecchissimo di alimentari. Erano passati solo tre giorni dall'arrivo in quella casa, durante i quali io e mio fratello stavamo sempre attaccati come cozze sullo scoglio. La donna, me la ricordavo bene, era quella che ci aveva presi dalle gabbie nella stanza bianca.

Tolsi un lembo di coperta dalla spalla di Rick e provai a svegliarlo, ma farfugliava e cacciava la testa sotto il cuscino.

«Siete sordi o cosa? Ho detto a tavola!»

Di nuovo quella cornacchia. Nei tre giorni passati non ci aveva risposto alle nostre domande e se parlava con noi, era soltanto per chiamarci a tavola. Si occupava solo del suo bel bambino biondo, che non aveva rivolto a me e mio fratello nemmeno uno sguardo. A giudicare dal visetto pallido e sereno aveva due o tre anni meno di me. Forse non andava nemmeno alle elementari, ancora. Non c'era un uomo, perciò avevo dedotto dal primo giorno che doveva trattarsi di una ragazza-madre, anche se dall'aspetto la donna era sulla quarantina.

 

«Forza Rick, alzati! Altrimenti quella viene e ci butta fuori dal letto»

Così riuscii a svegliarlo. Scendemmo le scale di mogano (avevo sempre odiato quelle a chioccola, perchè ogni volta che le facevo mi girava la testa).

Dalla cucina veniva un profumo di bacon fritto e pane appena tolto dal forno, ma c'erano due tavoli in cucina, entrambi da due posti: uno, quello in cui sedevano lei e suo figlio, e l'altro riservato per me e Rick. Il primo era pieno di succhi di frutta freschi, mele, pere, (quel bacon col pane tostato), tutto in piattini di porcellana verde. Nel nostro, invece, c'erano due pezzi di scottex a mo' di piatto, con appoggiate due tazze di latte freddo.

 

Ci sedemmo al nostro tavolo in silenzio. La donna e suo figlio ridevano, si lanciavano affettuosamente briciole di pane. Mio fratello prese la tazza, ma appena vicinata alla bocca, la riappoggò immediatamente sul tavolo e fece una faccia schifita.

 

«Dio, che schifo! Questo latte è andato a male!»

La donna smise di sorridere e fissò Rick con lo sguardo torvo.

«Senti, piccolo insolente. Vedi di berlo o non fai colazione»

«Ma chi sei per dirmi quello che devo fare! Dove sono i nostri genitori? E tu chi sei? Perchè siamo qui?» Rick aveva alzato sempre più il tono della voce, irritando la cornacchia.

«Bevi e stai zitto, altrimenti vedrai»

«Vedrò cosa, eh?»

 

Così la cornacchia si alzò dalla sedia e gli mollò un ceffone. Un rivolo rosso iniziò a colare dalle narici di mio fratello. Strappai un pezzo del mio scottex e glielo diedi per tamponarsi il naso.

«Vediamo se con te non dovrò fare come con gli altri»

«Gli altri chi?» Sbottai io, furibonda.

«Ne vuoi uno anche tu, pippicalzelunghe? Allora vedi di stare zitta e bevi il latte»

Feci per riaprire bocca, ma mio fratello mi fece “no” con la testa. Era meglio tacere. Ma sapevo già che lui stava elaborando un piano per fuggire di lì, perchè anche io mi stavo scervellando per trovare una soluzione. E insieme, ci saremo riusciti. Ne ero sicura.




Spazietto della scrittrice.
Come tutti gli "inventori di storie" vorrei con tutta me stessa che questo mio ennesimo lavoro sia di vostro gradimento! Innanzitutto vi ringrazio per aver anche solo aperto la pagina (compreso il prologo, intendo) e ancora di più per averlo letto! Un'ultima cosa... lasciate un vostro parere... che sia un "fa schifo" o "wow, bel lavoro" ...ma almeno avrei la forza di continuare a scrivere il seguito con l'aiuto dei vostri consigli! Grazie ancora per avermi dedicato un secondo della vostra esistenza :)

_Eva

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Capitolo 3
*** _Due ***


Il giorno dopo successe un fatto terribile, il primo di una lunga serie. Mio fratello ed io parlavamo in codice e non osavamo rivolgerci alla donna o a suo figlio. Quel bambino, infatti, ci incuteva terrore. Aveva uno sgurdo torvo, sempre con un ghigno stampato in faccia e quegli occhi... di un colore così tenue da sembrare vuoti, senza vita. La donna non faceva caso a noi e qualsiasi attenzione la rivolgeva solo ed esclusivamente al suo bimbo. Lasciava me e Rick ore ed ore da soli, talpati in camera e chiusi a chiave o in salotto. Ovviamente senza finestre per evitare di scappare.
Ma perchè? Se ci aveva portati via dall' edificio in cui ci eravamo risvegliati, scegliendoci tra decine di altri bimbi imprigionati, come mai adesso continuava ad essere ostile nei nostri confronti e ad ignorarci? Avevamo mille dubbi io e Rick, ma alla prima domanda, la donna (che scoprimmo chiamarsi Theodora), ci mollava uno schiaffo e ci obbligava a tacere per il resto della giornata.
 
Quella mattina mi svegliai presto per andare in bagno, adiacente alla nostra camera -quella mia e di mio fratello- e la prima cosa che vidi fu Theodora in salotto che giocava a rincorrere suo figlio. Sembrava vagare barcollando, con lo sguardo completamente perso e aveva la pelle incredibilmente raggrinzita e scura, la vedevo talmente bene anche dai metri di distanza. Ad un certo punto, ignara del mio spiarla, si nascose tra le tende, immobilizzandosi. Il bambino, ridendo, le andò vicino scostando la tenda che la copriva e proprio in quel momento accadde l'incredibile.
Theodora con un largo sorriso afferrò il bimbo per il collo e, mentre lui cercava di dimenarsi, lo soffocò con un lembo della tenda. In meno di un minuto l'esile corpo cadde a terra e Theodora si chinò su di esso. Avvicinò la testa al petto del bimbo esanime e fu come se succhiasse via l'anima. Quando si voltò, la pelle di Theodora era chiaramente ritornata giovane come il giorno prima, come la ricordavo. Il colore era ritornato pallido ed era scomparsa qualsiasi ruga. Ma ero certa che prima di uccidere suo figlio avesse un altro aspetto. Avrei potuto metterci una mano sul fuoco.
 
Corsi da Rick, che stava ancora dormendo.
«Ehi! Svegliati! Quella ha appena ucciso il figlio! Ho paura, Rick!»
«Ma che diavolo...»
«Hai sentito che ho detto?»
«Ma come è possibile? Lei ama quel marmocchio insolente»
«Eppure ti giuro che lo ha fatto fuori!»
«E adesso dov'è?»
«Sta di là... ho paura Rick! E se quella ammazza anche a noi?»
«Shh. Hai sentito? E' la porta! Se n'è andata...»
 
Mio fratello scese dal letto con il fiatone. Aveva l'ansia che lo attanagliava. In silenzio ci avvicinammo al salotto. Deserto. Theodora se n'era andata davvero, ma avevamo il terrore di vederla riapparire sull'uscio da un momento all'altro, forse con un coltello insanguinato in mano o con una motosega accesa, pronta a squartarci. Eppure, silenzio.
Andammo in cucina e lì per poco non svenni.

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Capitolo 4
*** _Tre ***


Su uno dei due tavolini della cucina era disteso il corpo senza vita del bambino appena ucciso da Theodora, proprio suo figlio.
Mi avvicinai.
All'altezza del petto vi era uno squarcio, la maglietta verde selva strappata e insanguinata, la pelle come se fosse bruciata. C'erano schizzi di sangue persino sulle pareti e altro ne sgorgava ancora dalla ferita. Un buco nel petto, ma la cosa più scioccante, che per poco non mi fece vomitare, fu l'assenza di organi o muscoli in quella parte. Sì, perchè si vedeva solo carne fresca e rossa, col sangue zampillante e sfilacciamenti rossi scuri alternati ad altri bianchi come vermiciattoli. Poi misi a fuoco la situazione, anche prima che mio fratello iniziasse a parlare.
 
«O merda. Questo sì che fa schifo!»
«Non dirmelo... è una pazza! Ho soltanto visto il momento in cui lo ha soffocato, in salotto, con la tenda... ma poi sono corsa in camera da te e nel frattempo Theodora avrebbe fatto tutto questo...»
«Eppure era suo figlio! Che motivo ha...oh, non ce la faccio, mi viene da vomitare»
«Scusami Rick, ma... proprio lì, dal buco si intravedono le costole. E' a sinistra e in alto. Nel petto. Non dovrebbe esserci il...»
«Cuore?»
«Sì! Proprio il cuore! Lo ha...estratto, credi?»
«Se fossi un medico legale potrei fare un'analisi accurata... ma anche un cretino lo capirebbe. Quindi sì, per me gli ha strappato il cuore»
 
Non potei più rispingere i conati, allora corsi in bagno. Quando riaprii la porta, Rick mi aspettava appoggiato allo stipite esterno, con le mani conserte.
«Lo sai che dovremo scappare, vero?»
«Sì. Ma come possiamo...»
«Dobbiamo, Sher. Dobbiamo e basta. A costo di sfracellarmi le budella per buttarmi di sotto, ma dobbiamo andare via e in fretta»
«E se Theodora ci viene a cercare e ci trova?»
«Sempre meglio che rimanere qui ad andare incontro a morte sicura»
 
Le sue parole mi caricarono di un'energia incredibile. Creammo un piano, sicuramente infallibile. Avremmo aspettato la notte, quando Theodora, ritornata a casa e cenato da sola, si sarebbe ritirata in camera sua e ci avrebbe chiusi a chiave nella nostra stanza. Poi Rick mi avrebbe legata ad una cordicella trovata per caso in cucina e mi avrebbe aiutata a scendere dalla finestra della nostra camera almeno fino al cornicione sottostante. Poi mi sarei slegata dalla corda e gliel'avrei passata cosicchè lui potesse fare lostesso. Una volta entrambi nel cornicione, avremmo fatto il giro dell'edificio fino al lato sinistro, dove una conduttura dell'acqua grossa e resistente ci avrebbe retto fino al suolo. Poi saremmo scappati più veloci della luce, salvi.
 
Theodora rincasò e si tolse i vestiti ancora prima di accendere la luce. Sembrava davvero molto stanca e, senza dire una parola, ci serrò in camera nostra, precludendoci persino la cena. Quando la casa divenne silenziosa e fummo certi che la donna dormisse, Rick prontamente tirò fuori da sotto il letto la corda e me la legò strettamente in vita.
«Tutto ok? Devo ripeterti cosa devi fare?»
«Tranquillo, so cosa devo fare»
«Bene. Mi raccomando, non straccare mai la presa o ti sfracellerai a terra»
«Dio mio, quanto sei tragico! Vorrei ricordarti che...»
«Non c'è tempo per le chiacchiere Shar. Adesso vai, ti tengo forte»

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Capitolo 5
*** _Quattro ***


In una decina di minuti io e Rick fummo salvi. Lì fuori faceva freddo, l'aria era pesante e sicuramente avrebbe piovuto da un momento all'altro. Il buio era stato un ostacolo per noi, perchè più volte avevamo rischiato di mettere un piede nel punto sbagliato della tubatura e avremmo potuto cadere, o “sfracellarci a terra”, come aveva detto mio fratello. Per ora sembrava che Theodora non si fosse accorta di nulla e francamente ritenni la cosa un sollievo incredibile.
«Corri, Shar! Siamo liberi!» Mi spronò Rick.
«E adesso dove andiamo? Chiediamo ospitalità a qualcuno?»
«Credi che non ci farebbero domande sul perchè due undicenni se ne vanno in giro a mezzanotte da soli?»
«Beh, noi risponderemo che siamo stati abbandonati dai genitori!»
«La polizia è ovunque, sorrellina. Siamo a Ingolstow, vorrei ricordartelo. Otto omicidi in un mese, sei rapine e due suicidi. Le pattuglie ronzano intorno come api nel miele»
«E va bene, se lo dici tu...»
«Non è che lo dico io... è così e basta, fidati di me. Dopotutto se siamo riusciti a scappare da quella pazza, è grazie al MIO piano»
 
Ed era proprio così. Rick era sempre stato pi intelligente di me, fantasioso, pieno di entusiasmo e positività. Aveva una grande inventiva a scuola, con gli amici, in casa. Nostra madre era orgogliosa della nostra unione fraterna e papà, felice, ci portava sempre a fare lunghe passeggiate in spiaggia, scattandoci decine di fotografie. Le stesse che il giorno seguente nostra madre rilegava, già sviluppate, sull'album della famiglia.
I nostri genitori mi mancavano ogni giorno che passava, e anche a Rick. Ci domandavamo spesso che fine avessero fatto, se sapevano del nostro rapimento e se ci stavano cercando, magari con l'aiuto della polizia ci avrebbero trovati. O forse no.
 
«Andiamo là, guarda!»
Davanti a noi si spalancarono le porte di un Irish Pub. Era coasì ben illuminato che ci attirò come se fosse la nostra casa, la nostra città.
Alla cassa, una signorina bionda con una camicetta rossa ci rivolse un gran sorriso.
«Buona sera, piccoli. Cosa posso fare per voi?»
«Buona sera! Siamo turisti. Vorremmo alloggiare da qualche parte per la notte... sa per caso indicarci qualche posto?»
Mi stupii della cortesia di Rick, che in quel momento non sembrava proprio un undicenne. E la stessa sorpresa fu per la signorina gentile.
«Ma che bel bambino educato! Al giorno d'oggi i ragazzini sono tutti maleducati e scortesi! Comunque non credo di conoscere albergatori che accettono bambini senza genitori. Siete qui soli?»
«Oh, sì. Le ripeto che siamo turisti. Mamma e papà sono americani e ci hanno concesso una gita fuori città»
 
La signorina bevve quelle menzogne inventate sul momento, forse per non sprecare tempo a sospettare di noi due.
«Allora credo di esservi di poco aiuto... Ehi, tu stai tremando di freddo!» Si rivolse a me.
«Siediti pure, volete qualcosa di caldo?»
«Non abbiamo soldi»
«Infatti, immaginavo. Ma vi offro qualcosa, su. Due tè vanno bene?»
«Sì, grazie mille»
Ci sedemmo ad un tavolinetto in legno di quercia in fondo al locale, in attesa delle bevande calde. Mi guardai intorno: tutto sembrava così tetro! Forse sarà stata l'impressione delle luci soffuse, le molte candele consumate, i teschi dipinti sui muri, la musica di quei cantanti con la voce gutturale, come se avessero un gran mal di gola e stessero tossendo davanti al microfono. La ragazza arrivò, lasciò sul tavolo le due tazze di tè bollente e ritornò dietro al bancone. Proprio in quel momento ci si avvicinò un ragazzo strano: un paio di leggins strappati e neri, una lunga camicia verde che spuntava lunga sotto al cappottino in pelle nero, capelli lunghi e neri come il carbone legati con un codino alla nuca. I lobi pendenti, per via di quegli orecchini che si inseriscono in buchi sempre più grandi. Il volto pallido, gli occhi vitrei, l'espressione triste ma sicura, la voce roca.
 
«Sentivo la vostra conversazione. Se volete, so dove farvi alloggiare»
«Davvero?» Chiesi saltando su dalla sedia, euforica.
«Sì. A costo zero. Anche io come voi sono scappato da bambino e l'unico posto che mi ha fatto sentire a casa è il Bottwell»
Come aveva fatto a capire che eravamo fuggiti? Anche se non aveva azzeccato una cosa: eravamo scappati da una casa che non era la nostra e da una donna che non era nostra madre.
«Il Bottwell?» Ripetè mio fratello.
«Sì. E' un capannone proprio sulla laguna. Vi ci posso portare subito, se volete. Noi ragazzi siamo tutti lì, viviamo insieme da anni. Vedrete, vi divertirete un sacco»
Mio fratello ed io ci guardammo increduli.
«Ma...»
«Credetemi, è la vostra unica possibilità»
«Ok. Portaci in questo Bottwell»
«Sì sì. Vedrete, non ve ne pentirete» E con un sorriso beffardo, ci prese per mano e ci portò via, sotto lo sguardo interrogatorio della gentile barista.

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Capitolo 6
*** _Cinque ***


«Non fate caso a Beth. E' una vecchia rompipalle. Comunque mi chiamo Steve. Voi siete...?»

«Io sono Richard, ma puoi chiamarmi Rick. E lei è mia sorella Sharon, ma abbrevia in Shar»

«Bene. Fate come se foste a casa vostra»

 

Quel ragazzo era letteralmente piombato nel modo più assurdo nella nostra vita. Eravamo bimbi inesperti all'epoca e di sicuro non ci saremmo mai immaginati chi fosse realmente, chi fossero tutti quei pazzi maniaci del Bottwell, cosa ci avrebbero fatto in seguito.

Ma procederò per gradi nel racconto.

Entrammo nel capannone malmesso presso la laguna, il cosiddetto Bottwell. L'interno di quell'edificio era raccapricciante: era enorme, con pochissime finestre. Ovunque c'erano dipinti di donne nude sporchi di sangue secco. Un tanfo di morte aleggiava nell'aere e, dato che entrava nelle narici, fui costretta a trattenere in respiro, prima di tapparmi il naso con la manica. Rick andava già gironzolando qua e là, convinto di trovarsi in una specie di set cinematografico. Era ridicola la sua euforia e continuava a parlare e scherzare con Steve. Ad un certo punto mi allontanai dai due gioiosi e corsi fuori dall'edificio, giusto per prendere un po' d'aria fresca.

 

Lì fuori, al buio, la mente lucida mi consigliò più volte di ritornare dentro, prendere Rick per il colletto e convincerlo ad andarcene. Perchè mi sembrava proprio che fossimo caduti dalla padella alla brace. Nel senso che anche quel posto sembrava un inferno, come la casa di Theodora, la donna che ci aveva rapiti. I miei pensieri si confusero con il ritmo rilassante delle leggere onde della laguna, l'acqua nera per il buio. Non si sentiva anima viva, solo la musica rock proveniente dall'interno del Bottwell.

Quando feci per rientrare, davanti a me si materializzò una donnina piccola e ricurva su se stessa. Sembrava Einstein al femminile. Un occhio di vetro, le unghie incredibilmente lunghe e nere, i profondi solchi nel volto, i capelli ridotti ormai ad un ciuffetto bianco svolazzante al vento.

 

«Scappa finchè puoi! Vattene via da qui, in fretta! Non immagini quello che possono farti, come giocano malignamente con la tua mente! Come ti manipolano fino alla tua...»

«Beth! Vecchia strega! Vattene! Cosa ti dice la testa? Non vedi che è una ragazzina? Vattene o ti prendo a calci e ti faccio affogare in laguna!» Urlò Steve col fiatone. Aveva corso?

La vecchia se ne andò a passo di lumaca, mentre io bofonchiavo un flebile «Ma no... non farle del male» e Steve mi ricondusse dentro.

«Vedi Shar, quella è malefica. Ti riempie la testa di cazzate e alla fine se ci credi sei fottuta»

Io, incredula, mi facevo cullare dal suo braccio intorno al mio collo. Richiuse pesantemente la porta dell'edificio e fu proprio in quel momento che capii di essere in trappola. Fuggire sarebbe stato impossibile.

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Capitolo 7
*** _Sei ***


Vidi Rick sputare sangue circondato da ragazzi vestiti come Steve. Corsi spaventata verso mio fratello.
«Rick!»
«Vai Shar...vai via!»
Un altro calcio serrato sul suo piccolo corpo da undicenne.
«Basta! Che gli state facendo?»
«Ragazzina, non dovresti fare domande»
Steve mi prese e mi portò sul divano, pesantemente. Sentivo mio fratello urlare di dolore, mentre quei quattro, o forse cinque ragazzi lo massacravano di botte. Cercavo di divincolarmi dalla stretta di Steve, ma era impossibile.
«Sta ferma, cagnetta» Mi sussurrò eccitato all'orecchio.
«Che vuoi farci? Perchè ci...»
La voce mi si spense in gola. Steve si stava sbottonando la camicia, si era già tolto i pantaloni e adesso si accingeva a strapparmi la maglietta di lana che indossavo. Si premette sempre con più forza sopra di me, strusciando quella cosa che solo i maschi avevano. Mi strinse più forte, fino a quando iniziò ad emettere gemiti gutturali.
Tremavo, sudavo. Urlavo per la paura. Cercavo di spingerlo via, di liberarmi, ma non ce la facevo proprio. Mi stringeva troppo forte. E intanto mio fratello si contorceva di dolore per terra, urlando il mio nome.
 
Dopo un tempo che mi parve interminabile, Steve mi lasciò andare. Avevo ancora i leggins abbassati ed ero a petto nudo. Mi vergognavo come una ladra. Quei ragazzi mi videro e iniziarono a ridere di gusto. Poi si rivolsero a Steve che, nudo, stava stappando una bottiglietta di birra. Ero terrorizzata.
Corsi verso mio fratello, immobile accasciato a terra.
«Rick! Rick! Svegliati! Ehi!»
Mi accorsi con dolore che era ricoperto di sangue. Poi uno di quei ragazzi mi strappò dal braccio di mio fratello e mi scaraventò a terra. Per un attimo colsi sul suo viso un leggero senso di colpa, che però svanì in una frazione di secondo.
«Ehi, Steve! Che facciamo con lei?»
«Shar mi piace. Portiamola alll zio, saprà cosa farne»
 
Così mi diedero una maglietta (oltretutto a maniche corte, col freddo che faceva) e mi trascinarono a forza fuori dall'edificio, lasciando steso a terra, esanime, mio fratello. Piangevo, gridavo il suo nome, imploravo che si svegliasse, prendesse un coltello dalla cucina e uccidesse tutti quei ragazzi, come un eroe. Ma stavo solo sognando.
Due si sedettero davanti, mentre Steve e gli altri tre andarono nei posti dietro al furgoncino. Sedevo accanto a Steve e davanti a un biondo che continuava a ridere.
«Ehi, bellezza» Mi disse, e allungò la sua mano ruvida e sporca di sangue verso le mie gambe. All'idea che quello fosse sangue di mio fratello, rabbrividii e per poco non svenni.
Chiusi istintivamente le cosce. Non riuscivo a parlare, tanto ero terrorizzata. Dopo un po' il furgoncino si fermò, Steve mi fece scendere e, sempre tenendomi con forza per la spalla, mi spinse verso una porta grande e nera. Dove sarei andata a finire?

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Capitolo 8
*** _Sette ***


Sbattei violentemente la faccia a terra. Steve aveva mollato me e mio fratello in una stanzetta buia e poi se n'era andato insieme agli altri ragazzacci violenti che ci avevano portato lì. Si sentì il motore del furgoncino, segno che quei maniaci se n'erano andati.

Procedevo a tentoni, perchè non si vedeva nulla.

«Rick, dove sei?»

«Eccomi, Shar. Sono qui»

«Dov...»

Un rumore. La porta ad un tratto si spalancò facendo entrare un grande fascio di luce. Sullo stipite apparve un uomo, a giudicare dalla corporatura robusta, incappucciato. Aveva scoperte soltanto le mani, con le quali stringeva una siringa.

«Eccoli, vieni» Si rivolse a qualcun'altro che stava fuori dalla stanza.

Ed ecco che apparve un altro uomo col passamontagna che si scagliò su me e Rick, mentre urlavamo terrorizzati.

«Venite, venite qui»

Il primo uomo afferrò il mio braccio e iniettò un siero scuro. Quanto a Rick, fece lostesso. In un batter di ciglia io e mio fratello ci addormentammo.

 

«Dobbiamo chiamarla. Non possiamo tenerli qui fino a venerdì»

«Ma che cazzo dici? Se la facciamo venire prima del previsto quella ci ammazza»

«Perchè? Non siamo forse noi che dobbiamo fare il lavoro sporco? Beh, allora chiamala e basta. O mene vado, e subito»

«Mi dai anche ordini, adesso? Chi ti credi di essere?»

«Sono soltanto il burattino di quella specie di...»

«Shh! Hai sentito? I marmocchi si sono svegliati. Adesso voglio vedere che faranno!»

Scoppiarono entrambi a ridere.

Rick ed io avevamo ascoltato quella breve conversazione ancora storditi dal siero. Eravamo legati entrambi al muro, una parete spoglia di una specie di laboratorio. Le pareti beige sporche da schizzi di sangue e in fondo, vicino alla porta, c'erano persino dei pezzi di cervello, budella o quello che era, spiaccicati nel muro, ormai seccati.

 

«Ma guarda guarda... i gemellini sono ritornati a farci compagnia!»

L'uomo più alto, ancora incappucciato mi venne vicinissimo.

«Fateci scendere! Cosa volete da noi? Che abbiamo fatto per meritarci tutto questo...»

Mio fratello assunse un tono disperato e le lacrime gli sgorgarono dagli occhi.

«Siete nati, ecco cos'avete fatto. E perciò vi siete inflissi una pena. Colpa vostra»

«Ma...» Protestai.

«Niente “ma”, ragazzina. Al mondo si viene per una ragione ben precisa. E voi siete nati per morire»

A quel punto l'altro uomo mise un CD nel vecchio registratore appoggiato ad uno dei tavolini in mezzo alla stanza. Conoscevo quella canzone. E mi piaceva. “We are born to die”, di Lana Del Rey. E proprio quel momento capii perchè avevano scelto quella musica. “Noi siamo nati per morire”, l'inglese lo conoscevo bene, nonostante la mia giovanissima età.

 

«Cos'è, uno scherzo?» Mio fratello cercò di liberarsi, ma più si contorceva e più quei lacci spessi gli si stringevano attorno. Ancora un po' di movimenti e l'avrebbero soffocato.

«Niente scherzi. Anche se siete bambini, qui non si scherza. Non siamo al paese dei balocchi, come vedete»

«Ma perchè? Perchè?» Urlai, disperata.

«Ve l'ha già detto lui. Siete nati e questa è la vostra condanna. Punto e basta» L'altro uomo, quello che aveva messo il CD, aveva una voce molto più bassa dell'altro, quasi come se sussurrasse.

Cominciarono a dolermi le braccia, per la scomodissima posizione... non ero mai stata appesa alla parete! Cercai lo sguardo rassicurante di mio fratello, ma lui teneva la testa bassa, stremato.

La caonzone finì e ne inziò un'altra. Questa volta era “Main Tail”, dei Rammstein. Era la preferita di mio fratello. Una semplice coincidenza?

Entrambi gli uomini iniziarono a ballare, euforici. Ma quando anche quella canzone terminò, spensero il lettore CD e il laboratorio piombò nel silenzio.

«Cosa ci avete iniettato?»

«Nulla di che. Un semplice veleno per farvi fare un sonnellino»

«Un sonnifero, quindi... perchè hai detto “veleno”?»

«Perchè è ciò che è, Sharon...giusto? Se si trattava di un semplice sonnifero avrei detto “sonnifero”. Ma non lo è»

«Spiegati meglio!» Lo comandò Rick.

«Ehi, bambinetto. Modera il tono o ti stacco quell'insignificante cuoricino che hai nel petto»

 

Il cuore. Proprio la stessa parte che era stata prelevata dal figlioletto di Thodora, da lei ucciso. Ed era stato strappato... perchè l'uomo aveva usato lo stesso verbo?

«A quello ci penserà lei... leggi qui, mi ha inviato un messaggio» L'uomo gli porse il cellulare.

«Sto arrivando» Lesse ad alta voce l'altro. «Perfetto, hai visto? Ha deciso di venire prima! Così abbiamo risparmiato una telefonata!»

«Oh, sì! Vediamo di cocludere il tutto... ho un sonno pazzesco» L'uomo dalla voce flebile richiuse lo sportelletto del suo Nokia. Io e mio fratello ci scambiammo uno sguardo.

«Chi sta arrivando?» Chiesi.

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Capitolo 9
*** _Otto ***


«Bene, io vado a farmi una birretta. Vieni anche tu? Tanto questi due non scappano»
Effettivamente...legati come salami alla parete, come avremmo potuto scappare?
«Ma sì, rinfreschiamoci un po' il palato»
I due uomini ci lasciarono soli. Rick fece un lungo sospiro. Poi si voltò verso me.
«Ehi, sorellina! Pronta a filarcela di qui?»
«Cosa? Come credi di poter...»
In quell'istante mio fratello aprì il palmo della mano. Una lametta!
«Dove l'hai…»
«Shh! Abbassa la voce, o quelli ritornano e ci ammazzano. L'ho fregata a quel tipo del furgoncino.... Steve. E l'avevo infilata nei pantaloni. Quei due hanno creduto di avermi addormetato...poveri illusi!»
«Cioè? Vuoi dirmi che non ti hanno iniettato il veleno?»
«Certo che me l'hanno messo in vena. Ma ricordi? Sono intollerante ai sieri che non siano vaccini e la reazione allergica ha cercato di combattere il siero, lo ha intaccato. Perciò ho solo fatto finta di addormentarmi»
«Sei un grande! E quindi hai visto dove ci hanno portato!»
«Beh, in parte. Ho dovuto tenere gli occhi chiusi tutto il tempo. So soltanto che la prima stanza a destra di qui ha una finestra. Basta raggiungerla e...»
«Ce la faremo?»
«Sì, te lo giuro»
 
Rick iniziò piano piano a tagliare la corda con la lametta. Continuavo a ripetermi che era un impresa impossibile...una corda del genere non si sarebbe mai e poi mai spezzata. Ma in qualche modo mio fratello riuscì a tagliare il primo tratto e l'altro pezzo venne via da sé.
Sceso, Rick si affrettò verso me, svelto come una lince. Non aveva fatto rumore nello scendere dalla parete, perchè eravamo scalzi.
«Fa' in fretta! Possono ritornare da un momento all'altro!»
«Tranquilla. Ti hanno legato molto meglio di me... non riesco a tagliare questo pezzo qui»
«Forza, forza!»Sussurrai.
«Ecco!»Rick ce l'aveva fatta.
Piombai a terra. Le gambe non mi sorreggevano in piedi e mi chiesi come aveva fatto Rick a ritrovare l'equilibrio al primo colpo.
In punta di piedi, lesti, percorremmo la parete in lunghezza, verso la porta. Avevo la fronte imperlata di sudore, nonostante fuori facesse molto freddo. Ed era notte.
Rick mise la testa fuori dallo stipite. Poi si voltò verso me.
«Via libera»Disse.
 
In quel piccolo tratto di corridoio si vedeva la stanza in cui erano i due uomini. Stavano tracannando una Guinness, ridendo e dandosi piccoli colpetti alle spalle. Sarebbe bastato che uno di loro si fosse voltato verso noi e sarebbe finita. Un solo sguardo.
Mio fratello mi fece il cenno di non guardarli negli occhi... infatti quando si fissa una persona a lungo, alla fine quella, osservata, si gira verso chi l'ha guardata.
Distolsi lo sguardo. Ma troppo tardi, perchè l'uomo più alto mollò immediatamente la birra e si mise a seguirci, richiamando l'attenzione dell'altro.
«Corri a destra, Shar!»Mi incitò a gran voce mio fratello.
Ormai eravamo vicinissimi alla stanza con la finestra. Girato l'angolo, la raggiungemmo.
«Chiudi a chiave, presto!»
«Ma non c'è! Non c'è una stramaledetta chiave!»
«E allora spingi più forte che puoi! Se quelli entrano ci ammazzano, Dio!»
Spinsi la schiena contro la porta per tenerla chiusa, con tutta la mia forza. Rick intanto spalancava la finestra e tirava su la persiana. Gli uomini arrivarono e dovetti resistere ai loro fortissimi colpi. Non sarei durata un altro secondo di più. Ma fu proprio quello che ci permise, a me e mio fratello, di scappare. Rick si buttò dalla finestra ed io, lasciata la porta, corsi sul davanzale e gli uomini entrarono immediatamente nella stanza, cercando di acciuffarmi. Mancarono al presa. Caddi al suolo, accanto a Rick.
«Per fortuna era basso! E adesso corri, corri!»
Ci rialzammo subito, diretti chissà dove. Era buio e non si vedeva a un palmo dal naso.
Sentii gli uomini precipitarsi fuori dall'abitacolo e inseguirci, ma anche loro trovarono l'ostacolo della notte. Ad un certo punto scorsi una figura in fondo al viottolo. Avremmo potuto chiedere aiuto! Finalmente qualcuno che ci avrebbe aiutato! Ero colma di speranze.
«Rick! Rick! Guarda, laggiù!»Sussurrai a mio fratello.
Lui si diresse verso quella persona ignota ed io lo seguii.
 
Con gli uomini alle calcagna, raggiungemmo finalmente quella figura, che aveva assunto un'aria familiare ai miei occhi. Ma Rick sembrava non accorgersi di nulla. Gli si precipitò ai piedi, sfinito.
«La prego, ci aiut...»La voce gli si spezzò in gola.
Io mi bloccai di getto.
Altro che persona a cui chiedere aiuto... mi si gelò il sangue nelle vene.
Theodora.

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Capitolo 10
*** _Nove ***


Un dolore fortissimo al petto mi fece sobbalzare.

Poi, delle gocce mi caddero sul viso e, quando aprii definitivamente gli occhi mi accorsi che era sangue. Ero sdraiata a terra, legata ai piedi di un grosso albero, probabilmente una quercia. Ogni tentativo di slegarmi si rivelò inutile. Facevo persino fatica a respirare nonostante fossi all'aria aperta. Dov'era finito mio fratello? E quella goccia di sangue da dov'era caduta? Ero in preda ad un attacco d'ansia.

Poi cadde un'altra goccia, proprio sotto il mio mento e fu in quell'istante che mi accorsi da dove proveniva il sangue.

Lassù, tra la chioma folta della quercia, c'era un corpicino esile immobile e anch'esso legato. Da lì gocciolava il sangue. Cacciai un urlo, speranzosa che qualcuno potesse salvarmi. O meglio, salvarci, anche se non vedevo bene chi fosse quella personcina agonizzante tra le foglie. Sperai con tutta me stessa che non si trattasse di mio fratello, ma ero certa che Rick fosse più alto. Questo bastò per consolarmi. Ma subito dopo rispresero a pulsarmi le tempie e la voce sempre più acuta ormai stava diventandomi flebile, ridotta quasi ad un sussurro. Tanto non mi sentiva nessuno lostesso.

Così tentai di parlare all'ignoto tra le foglie, che continuava a perdere sangue. Non potevo nemmeno spostarmi per evitare che le gocce cadessero sulla mia faccia, dato che la corda era saldamente legata al tronco possente dell'albero.

 

«Ehi! Puoi sentirmi?»

Nessuna risposta.

«Se sei vivo muovi un piede, una mano... ti prego!»

Nessun cenno di vita.

«Ti prego! Ti scongiuro!»

Questa volta però qualcuno venne. Per mia immensa sfortuna, però, chi si materializzò ai miei piedi era l'ultima persona che volevo vedere al mondo. Theodora.

Ed ecco che mi tornò alla mente tutto: la sera precedente, io e Rick eravamo scappati dai due uomini e anziché ricevere aiuto, eravamo finiti di nuovo tra le grinfie della donna. Ma poi non ricordavo più nulla. Buio totale.

 

«Ma insomma, piccola Sharon. Possibile che proprio non volete ubbidirmi tu e quella canaglia di tuo fratello?»

Si mise a punzecchiarmi con una siringa il braccio sinistro e cercavo di schivarla, inutilmente.

«Che...che hai fatto a Rick?»

«Oh, non preoccuparti. Il tuo adorato fratellino è in gran forma. Pensa che il suo sangue è quello che preferiscono i miei amici!»

«Cosa? L'hai ucciso? Vipera! Strega! Ridammi mio fratello, subito!»

«Prova a urlarmi un'altra volta e ti sgozzo come si fa con le galline. Ti ho detto che Rick è vivo. E non insultarmi o lo riempirò di buchi fino a farlo morire dissanguato, capito?»

Piangevo. Come avrei potuto sopportare quello strazio? In testa mi frullavano mille domande. In che senso il sangue di mio fratello era il più amato dai suoi amici? Lo avevano ucciso? Erano cannibali?

 

Theodora si allontanò a passo veloce, lasciandomi lì col volto coperto di sangue... non il mio fortunatamente, ma quello del bimbo (si capiva che aveva la stessa età di me e mio fratello dalla stazza) sanguinante dalla cima della quercia.

«Tu, lassù...ti supplico, se sei vivo, fammi un gesto! Un solo gesto!» Ero disperata.

In tutta risposta, Theodora ritornò accanto a me, mi fossò con quegli occhi neri pieni di odio e sul suo volto apparve un soprriso malefico, un ghigno soddisfatto.

«Penso che anche un cretino capirebbe che è morto. Ma visto che ancora non l'hai capito... verifica tu stessa»

Con un rapido gesto della mano fece scorrere la corda che teneva attaccato al ramo più alto il bambino. Di colpo il corpo cadde a terra, proprio accanto a me.

«Ecco qui. Lui è Martìn»

 

Ciò che vidi fu scandaloso. Credo sia stata la cosa più schifosa che avessi mai potuto immaginare. Il corpicino esile del ragazzino era ormai ridotto ad uno scheletro ricoperto da brandelli di carne putrida e insanguinata. Capii subito perchè anziché scorrere rivoli di sangue scendeva a gocce: non c'era più sangue dentro quelle vene, non scorreva altro che aria e vermi.

Il volto era una fossa in cui le orbite grigie sembravano guardare nell'inferno. La lingua era a metà, come quella dei gatti morti. La pelle violacea del volto e di tutto il resto (quel poco che rimaneva) emanava un tanfo indescrivibile. Ma la cosa che più mi fece venir voglia di vomitare fu i brandelli di carne che penzolavano dalle costole, nella gabbia toracica. Sembravano pezzetti di carta velina staccate dai bambini sul muro degli asili.

Vomitai. Vomitai anche quello che non avevo mangiato. Infatti sembravano secoli che non mettevo qualcosa sotto i denti. Cercai Theodora con lo sguardo, ma se n'era andata. E lì dovevo sopportare quella vista orripilante, uno scheletro semi intatto di quel Martìn. Povero bambino. Poteva essere un nostro amico di giochi, cugino, fratello. Se solo la vita non l'avesse condannato a quella fine ingiusta...

 

Con quel poco fiato che avevo ancora in gola urlai. Theodora ricomparve, e stavolta in mano teneva un vassoio di ferro.

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Capitolo 11
*** _Dieci ***


Mi ci volle un po’ per capire cos’era appoggiato sopra al vassoio. Una fiala riempita di liquido scuro, nero come la pece. E una siringa col tappo sull’ago. Theodora si avvicinò con aria sempre più divertita e intanto la mia mente iniziava a elaborare la situazione e ad inventare possibili utilizzi della siringa su di me. Tremavo e sudavo freddo e quando se ne accorse, Theodora rise di gusto, scoprendo denti sporchi di sangue.
 
«Tutto quello che devi fare adesso è tenere la bocca chiusa. Non urlare o ti infilzo la gola con le unghie» Mi mostrò le dita. Incredibile, aveva unghie lunghe e nere… ma non di smalto, di sporco! Sembravano artigli, tanto erano incarnite.
«Co-cosa hai in mente? Che diavolo vuoi farmi! Dov’è Rick? Dov’è, strega!»
Senza rispondermi, Theodora mi sventolò davanti al naso la provetta col liquido nero. Puzzava. Lessi l’etichetta piccola e quasi staccata. C’era soltanto una scritta minuscola, “IVDI”.
«E adesso, si gioca» Detto questo, Theodora mi iniettò con una tale forza quel siero scuro, che sembrò staccarmi la pelle. Era dolorosissimo e mi tornò alla mente il mio primo vaccino, doloroso la metà.
Immediatamente mi sentì svenire, e infatti persi del tutto i sensi. Le mie palpebre si socchiusero.
 
Una luce accecante mi svegliò, seguita da un boato pazzesco. Pochi secondi dopo realizzai che la luce, sì, esisteva davvero ed era un neon, ma il rumore era stato soltanto frutto della mia mente ferita. Riconobbi accanto a me le esili gambette di mio fratello e, come d’istinto, urlai il suo nome.
«Rick! Rick, mi senti? Svegliati, per la miseria!» Giaceva su un fianco e fui terrorizzata dall’idea che potesse essere morto. Che sollievo quando si mosse! Sbuffò, poi mi fece l’occhiolino. Capii immediatamente. Dovevo tenere la bocca chiusa.
«Se quella ci sente, sarà la fine. Fa finta di non esserti ancora svegliata. Se si allontana, saremo pronti e svelti a squagliarcela» Mi sussurrò Rick.
«Credi che ci lascerà qui da soli anche sospettando che siamo ancora svenuti?»
«Sì. O almeno è l’unica cosa a cui mi possa aggrappare»
Mi voltai e vidi Theodora camminare su e giù per il corridoio. Ma essendo di vetro la stanza in cui stavamo mio fratello ed io, noi potevamo vedere lei e lei poteva vedere noi. Un minimo errore nostro sarebbe stato fatale.
Con la coda dell’occhio Rick sbirciava ogni singolo movimento della donna. E io facevo lo stesso. Con mia grande sorpresa, Theodora si allontanò dal corridoio. Sarebbe stata via per tre secondi? Dieci? Un minuto?
«Ecco. Che ti avevo detto? Svelta Sharon! Sbrigati» Rick mi stava indicando una finestra.
 
In un batter d’occhio ci gettammo mano nella mano dalla finestra. Atterrammo su qualcosa di morbido e puzzolente, davvero stomachevole. Appena mio fratello ed io ci accorgemmo su cosa eravamo atterrati, vomitammo.
Una decina di corpi in putrefazione erano stati messi lì, proprio sotto alla finestra, per impedirci di saltare. Ma l’euforia di poter fuggire non ci fece accorgere della loro presenza prima del salto dal cornicione.
In una frazione di secondo, Theodora ci fu per l’ennesima volta davanti.
 
«Ma allora siete proprio testardi, eh! Ma si sa… i bimbi bastardi sono tutti così!»
«Bastardi? Ma come ti…»
«Zitto, maschiaccio!»
Mi sentii offesa. I miei capelli corti non mi toglievano affatto la femminilità!
«Volete delle risposte? Ebbene, ve le darò. Ma poi… rivelato tutto, sarò costretta ad ammazzarvi!»
«Ma…»
«Oltretutto era una cosa che avevo in mente di fare» Continuò Theodora imperterrita.
Cercai invano di divincolarmi un attimo dopo, mentre quella donna prese me e mio fratello di peso per ricondurci all’interno dell’edificio.
Ci legò i polsi ad un lettino, per tutti e due era troppo piccolo, ma lei sembrò non farci proprio caso. Rick continuava a ripetermi di stare tranquilla, che tutto sarebbe finito presto. Ma in cuor suo anche lui sapeva che avremo fatto una brutta fine.
 
Theodora si mise seduta sul bordo del letto e iniziò a parlare con un tono di voce così flebile come se stesse raccontando una fiaba ai suoi bimbi.
«Non vi siete mai chiesti come mai vi inietto quei sieri?» Prese un coltello e iniziò a punzecchiarmi il petto. Goccioline di sangue macchiarono la maglietta. E il dolore divenne via via sempre più forte.
«Siete voi stessi gli artefici del male che vi faccio. Perciò io non ho colpe. Quelli sono veleni che preparo io stessa, con le mie mani, servendomi del vostro inutile sangue e di un liquido fenomenale, che, mischiato al sangue, diventa un sonnifero. Perciò mentre voi fate i vostri sonnellini, io vi tolgo tanto sangue quanto ne bevo. Sì, perché se ne avanza qualche goccia…» Rise. Rick ebbe un altro conato di vomito.
«Quando non servite più a nulla, però, vi tolgo di mezzo. E sapete quando diventate inutili?»
Fece una pausa, durante la quale si sentirono soltanto i nostri respiri soffocati.
«Quando lo dico io. E… mi dispiace per voi, ma la vostra ora è arrivata» Col coltello tagliò di netto il polso di Rick, che iniziò ad urlare disperato dal dolore allucinante. A me vennore le lacrime agli occhi e mi sentii così impotente… non potevo aiutare mio fatello!
Theodora riprese il coltello che le era scivolato di mano e riaffondò più volte la lama nella carne di Rick. Ancora, ancora e ancora, finchè di mio fratello non rimase un’orrida pozza di sangue coperta di carne a brandelli. E la cosa più orripilante era che stavo esattamente sotto di lui. 

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Capitolo 12
*** _Undici ***


Iniziai a piangere a dirotto, sembravo un fiume in piena. Mille pensieri si susseguivano dentro la mia testa e non c’era modo di tenere a freno quella voglia incredibile di ribellarmi, attaccare Theodora e ammazzarla. Cristo, se l’avrei fatto! Guardai ancora ciò che ne rimaneva di mio fratello… lui, che era sempre stato un pezzo fondamentale della mia vita, il più bel bimbo della scuola, il migliore amico che tutti avessero mai desiderato. E adesso, era soltanto un mucchio di ossa con brandelli di carne rossa, il tutto ricoperto da sangue che scolava nel pavimento, seguendo le righe perfette delle mattonelle.
«Prega Dio che nessuno scopra che mostro sei e non vengano a cercarti» Urlai furibonda.
«Tieni il becco chiuso. Non sai che le bambine insolenti finiscono all’inferno?» Fu la risposta di Theodora.
«Tu andrai all’inferno. Puoi starne certa»

Lei se ne andò, lasciando il piccolo cadavere di Rick sul pavimento. Mi guardai i polsi, con gli occhi ancora annebbiati dalle lacrime. Erano rossi, perché legati da troppo tempo. Mi ferivo cercando di liberarmi, ma le sbarre del lettino non sembravano aver intenzione di cedere. Poi, all’improvviso, sentii dentro me una voce che, a gran tono, mi diceva “Uccidila. Vendetta.”

Mi diede gran forza, sì, ma non avevo la minima idea di come concretizzare quel “consiglio”. Theodora ritornò in fretta e furia davanti al lettino a cui ero legata e salii con entrambi i piedi sul ventre squartato di Rick. Piansi di nuovo e vomitai. Lei continuava a sorridere e poi ridere di gusto, per poi tornare seria e ricominciare tutto d’accapo. Sembrava un’invasata, in realtà era un mostro. Avevo voglia di toglierle quel sorriso beffardo, di distruggerla. Di farla soffrire, di squarciarle il petto ed estrarre a mani nude il cuore. Se mai lo avesse avuto.
«Il Veleno Degli Innocenti, ecco cos’è. Cercavi risposte, le hai trovate. Leggi tu stessa»
Mise davanti ai miei occhi gonfi la provetta con scritto IVDI, capii il gioco delle iniziali.
«E’ una vita che cerco di andare avanti nelle mie ricerche… seguo sempre i bimbi più belli per poi impossessarmene, perché il vostro sangue, mocciosi, è il migliore che si possa desiderare! Ho provato con gente grande ma… niente. E’ voi che prediligo»
«Tu…»
«Io cerco solo un modo per rimanere così come sono. Mordo, taglio, ammazzo, mangio, bevo, godo. Mordo, taglio, ammazzo, mangio, bevo, godo. E poi riinizio. E nessuno di voi può farci nulla. Siete piccoli e infami, ma io lo sono più di voi»
Detto questo, Theodora si avvinghiò sul mio braccio destro. Era già dolorante, ma il suo morso lo portò a livelli di svenimento. Staccò di netto un pezzo di pelle, che poi si gustò in bocca prima di inghiottirlo. Gridai così forte che per un attimo credetti di ucciderla con la sola voce. Lei schivò il mio calcio, perfettamente, e strappò un altro angolino di pelle ma questa volta dal polso. Altro dolore, altre grida, altro sangue. Poi passò alla lingua. Prese a leccarmi tutto il braccio, gustando la mia piccola peluria da bambina.
Ad un certo punto, però, fu costretta a fermarsi. Decine di persone sfondarono la porta della stanza, la circondarono e si precipitarono su di me. Mi slegarono ed io, improvvisamente, svenni.

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Capitolo 13
*** Fine. ***


Riaprii gli occhi. Le uniche parole che riuscii a distinguere furono “Morfina”, “Asportare” e “Salvatela”. L’unico volto fu quello della donna che aveva sofferto dandomi alla luce. La vista e l’udito continuavano a crearmi un brutto scherzo. Ero morta? Non sembrava, eppure tutto andava e veniva. Non capivo cosa fosse la realtà.
Luce, buio.
Buio, luce.
Goccioline di sudore mi imperlarono il volto, continuavo a schiudere gli occhi per osservare intorno a me, ma per una frazione di secondo e infatti nessuno si accorse che stavo riprendendo i sensi. Lentamente. Grida, silenzio. Il cervello mi stava andando in tilt. Era come precipitare al buio in un baratro senza fine, con la consapevolezza di cadere giù, giù, sempre più giù ma di non sapere dove. Né il perché. Finalmente ogni rumore cessò e fu proprio in quel momento che realizzai di essere sola. Ripiombai in un sonno profondo.
 

“Vedi, Sharon? La vita, la morte, sono tutte cazzate. Il sangue, solo quello è reale. Perché dove c’è sangue c’è vita. Dove c’è sangue c’è morte.
E dove è sparso del veleno, ci sono sempre degli innocenti.”

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