Stand My Ground

di Hagne
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Iron ***
Capitolo 2: *** 2 - Pearls Of Light ***
Capitolo 3: *** 3 - Restless ***
Capitolo 4: *** 4 - Pale ***
Capitolo 5: *** 5- Running Up That Hill ***
Capitolo 6: *** 6- The Cross ***
Capitolo 7: *** 7 - The Other Half (Of Me) ***
Capitolo 8: *** 8 - Deceiver Of Fools ***
Capitolo 9: *** 9 - Where Is The Edge? ***
Capitolo 10: *** 10 - Stand My Ground ***
Capitolo 11: *** 11 - Utopia ***
Capitolo 12: *** 12-Extra-Gotta Be Somebody ***



Capitolo 1
*** 1 - Iron ***


Capitolo 1
“Left in the darkness
Here on your own
Woke up a memory
Feeding the pain
You cannot deny it “

[…]

“Raised in this madness
You're on your own
It makes you fearless
Nothing to lose”

[…]

 
You can't hide what lies inside you
It's the only thing you've known
You'll embrace it and never walk away
Don't walk away “

( Iron- Within Temptation)




I fantasmi del passato erano mostri difficili da addomesticare,  creature d’ombra che mal tolleravano le catene alle quali venivano costrette, ed i suoi, di fantasmi, non avrebbero potuto essere imbrigliati neanche se avesse avuto le catene più spesse, pesanti e dure con le quali vincolarli.
Dormire non le era mai piaciuto, ed aveva perso l’abitudine di farlo vista la possibilità di privarsi del risposo e, conseguentemente, dei ricordi che l’avrebbero assalita e tormentata nel sonno.
Ricordi dai quali si sarebbe svegliata urlando, angosciata dai  morsi che avrebbe ritrovato sulla sua pelle, il tocco di  mostri che nella sua testa diventavano reali assieme alle loro voci.
E quello non era da meno.
Reale lo era, e terrificante, tanto da far nascere in lei l’ansia di sapersi preda di un altro incubo, una prigione buia dalla quale cominciava a faticare ad uscire, lì, dove le carezze sul suo capo si facevano più viscide e cadenzate, una sensazione familiare che le inondò il viso di panico.
Perché Yehouda era morto, sua madre, era morta, così  gli altri Creatori, e nessuno, nessuno avrebbe potuto più nuocerle, non a lei, non all’uomo che amava, non alla sua famiglia.
Eppure c’era quella paura, c’era e sempre vi sarebbe stata, a farla contorcere dall’angoscia.
Il terrore di saperli da qualche parte, nonostante tutto, vivi e  forse, forse  in cerca di vendetta, di quel desiderio di rivalsa su di lei, la brama che li avrebbe portati a cercarla in capo al mondo per ricordarle una verità che nonostante gli anni passati, nonostante le gioie conquistate e l’amore ricevuto,  non era mai cambiata.
Ciò che non sarebbe dovuto esistere.
Sapeva di esserlo, di non poter in alcun modo negare una verità che era costata così tante vite, così tanto dolore, ed anche se  ora aveva  un amore al quale poter rivolgere ogni suoi pensiero, ciò  non la ripuliva dalle colpe del passato.
Il motivo di tanta morte, tanta distruzione, tanta disperazione.
Perché Loki aveva sterminato una razza di divinità per vendicare le offese a lei arrecate, e aveva ucciso i Creatori, divenendo giudice e giustiziere per proteggere lei, era sempre, per lei.
Ogni suo respiro, sguardo, pensiero, Loki non aveva mai fatto mistero dell’ossessivo bisogno di saperla  al sicuro, di saperla felice, ma accanto  a lui.
E lei lo era, infinitamente, profondamente felice, ma non al sicuro, non lo sarebbe mai stata.
Perché era la sua stessa condizione a renderla incapace di protezione, incapace di sicurezza persino nei suoi sogni.
Il fiato caldo tornò a soffiarle il viso freddo e imperlato di sudore, ma aspettò, trepidante, di averlo di nuovo vicino per voltarsi e affrontare il mostro dei suoi incubi, quello che gorgogliava nell’ombra e tornava, ogni notte, a infestare la sua mente.
Perché non era più una bambina, ed aveva imparato a reprimere la “paura”, quella che anni prima l’aveva vista morire in un cielo tinto dal blu della sua essenza e del suo cuore pulsante vita ed energia.
La stessa energia che le lambì le mani in una lingua infuocata quando, percepito il tremolio di quel respiro contro la tempia, si decise a voltarsi con la risolutezza necessaria a non cedere alla paura, ma quando lo fece, quando la sua mano calò su di lui, sul suo mostro, qualcosa si mosse nel suo petto, l' urlo col quale sgranò gli occhi sul soffitto  della sua stanza e sull’arto mutilato che si trovò a stringere tra le dita e a gettare, poco dopo, via dal letto.
-  Min dame – sibilò qualcuno al suo fianco, una voce roca e bassa che sentì spirare da una  bocca violacea schiusa su denti bianchi e affilati, una dentatura che vide calare sull’arto che Sunniva azzannò, sollevandola con un braccio mentre arretrava di tutta fretta dal letto che ora fissavano entrambe in agitazione, schiacciate contro la parete.
- State bene? – masticò la Gigante con voce graffiata, abbassando su di lei occhi rossi pulsanti vita, forza, quella che aveva reso Sunniva mal tollerata dai suoi simili, perché troppo piccola di statura per poter  essere apprezzata, e troppo forte di braccia per poter essere sconfitta e sottomessa, come le loro leggi imponevano ai maschi della razza, durante l’accoppiamento.
Usanze verso le quali neanche la sua volontà di cambiamento aveva potuto nulla, vista la rigidità delle loro antiche credenze e il religioso rispetto che serbavano per queste.
I giganti di ghiaccio non amavano essere soggiogati, comandati, non loro che, creature più forti dei novi mondi, erano temuti e odiati più di altri, perciò,  se la presenza di un Re li aveva resi insofferenti, la venuta di una Regina, di una donna, li aveva resi recalcitranti come animali chiusi in gabbia.
E mai avevano perduto occasione di sottolineare quella che vedevano come una debolezza. Si erano mostrati ostili, tanto inospitali da aver preso l’abitudine di distogliere lo sguardo da lei, una volta raggiunti i loro passi lunghi leghe più che metri.
Ma aveva comunque imparato a non accaparrarsi un diritto che quelle creature riconoscevano solo a Loki.
Il diritto di comandare, e di esigere da loro il rispetto.
Un rispetto che lei aveva sempre ricercato, mostrando  loro  la fecondità di una terra arida e aspra ma che, se coltivata, avrebbe potuto sostenere la fame tra i loro neonati e saziare i loro stomaci che tuonavano per il fastidio.
Si era adattata persino alla temperatura rigida, alle loro rozze usanze che più di una volta l’avevano costretta ad accompagnarli nelle peregrinazioni assieme al bestiame sulle vette più alte, dove l’aria diveniva così spessa da bloccarsi nei polmoni in rocce d’acqua congelata, ma aveva resistito, e lottato, non aveva mai smesso.
Perché Loki era uno di loro, e come lei aveva saputo accettare tutto di lui,  come loro lo avevano accettato per diritto di legge, per linea di sangue, così lei aveva sempre cercato di farsi accettare per quello che era.
Una creatura che aveva peregrinato per mondi, senza avere né una patria, non un amore, non una famiglia ma che, alla fine, aveva  conquistato  tutto, ma non la quiete.
Non con  un braccio mozzato sul suo letto, un arto maschile dalla forma tozza e ruvida, col palmo grigiastro abbandonato mollemente sulle lenzuola candide.
- Dobbiamo avvertire il Mester – esclamò Sunniva in agitazione una volta ripresasi dalla confusione – dobbiamo-
- Non dobbiamo fare nulla – la interruppe lei con voce stanca, frusciando via dal braccio muscoloso della gigante con un gemito di dolore che la portò a chiudere una mano sulla gola.
E trovò ciò che l’aveva fatta svegliare urlando, l’unghiata rossastra che la sua fedele compagna fissò rabbiosa prima di stringere le labbra con fastidio.
Perché più del Re, più dei suoi simili, Sunniva era fedele a lei, una devozione nata per riconoscenza, per affetto e per quella compassione che le era stata mostrata da una donna ben più piccola e sottile di lei.
Una creatura  che la rendeva incapace di andare contro le sue preghiere, anche quelle più irragionevoli, perché a lei fedele.
Ma se anche la gigante si fosse irragionevolmente opposta al suo desiderio di tacere, sarebbe stato comunque sciocco da parte sua pensare davvero di poter nascondere qualcosa a Loki, e lo capì, lo comprese quando sentì le porte della stanza schiantarsi con un fischio per accogliere la figura tetra del nuovo venuto.
- Fuori.
Sunniva tentennò per un lungo istante, il braccio allacciato attorno alla vita della sua signora che accanto a sé pareva serena nonostante lo sguardo feroce del Mester levitasse su di loro come una minaccia di morte, ma c’era sempre la sensazione di pericolo a pizzicarle le terminazioni nervose per ricordarle quanto crudele potesse essere il loro signore e padrone.
E collerico, rancoroso, ma incapace di fare del male a lei, la minuta  creatura dai capelli d’arcobaleno verso il quale il Re serbava un amore quasi malato, un’ossessione che lo privava di raziocinio e lucidità, tanto da renderlo irragionevole e crudele verso chi si mostrava arrogante con lei.
Lei che  l’aveva accettata al suo fianco quando nessuno l’aveva voluta, ascoltata, quando nessuno  aveva provato a capire la sfortuna della sua diversità, e accettata, come nessuno avrebbe mai fatto.
Eppure l’aveva voluta, e la amava per quella che era, una diversa.
- Vai – la invitò Astrid con voce morbida, sorridendole gentile per rassicurarla prima di notare come  la schiena massiccia della creatura si fosse irrigidita nel passare di fianco al dio degli inganni, così alto, lì, contro la porta, lui e la sua ombra che si dilungava per metri sulla parete opposta, una chiazza scura che si mosse sinuosa assieme all’uomo che si trovò presto addosso.
Loki aveva mani gelate, dure come pietra per la temperatura che condensava i suoi respiri in nuvole di ghiaccio polveroso, ma erano mani gentili quelle che le accarezzavano la gola, polpastrelli che si muovevano con dolcezza e perizia sulle tre strisce scarlatte.
Una ferita alla cui vista il dio reagì indurendo la mascella e cristallizzando lo sguardo che dal suo viso volò alle proprie spalle, sull’arto che con un suo  schioppo di lingua svanì per smaterializzarsi nel suo studio, un immenso androne dai soffitti alti e dalle pareti stipate di libri che sapevano tendere il viso di Loki di interesse.
Il viso che Astrid lambì nel palmo della mano quando notò il lampo di dolore saettato nell’unica pupilla, quella che diveniva così vigile e attenta, e cattiva, nel guardare il mondo, ma che su di lei pareva sciogliersi, ammorbidirsi come una canzone d’amore sussurrata nel dormiveglia per non turbare il suo sonno leggero.
- Guarirà – gli sussurrò morbida, schiudendo le labbra colorate in un sorriso che però non sembrò intaccare la rigidità di quelle di Loki, tanto strette da scomparire nel pallore cadaverico del viso.
Perché anche se sarebbe scomparsa dal collo che accarezzava distrattamente, lui l’avrebbe vista ugualmente su di lei, l’avrebbe percepita sotto le sue dita quando l’avrebbe accarezza, l’avrebbe sentita pulsare nella lingua quando l’avrebbe baciata.
Non avrebbe dimenticato la profondità, lo spessore, il colore scarlatto, non avrebbe dimenticato nulla, non quell’urlo che lo aveva sottratto ai suoi studi, non quella nuova ferita.
Una cicatrice che non sarebbe rimasta su di lei, ma che avrebbe intaccato il suo orgoglio di uomo, di dio.
Un dio incapace di difendere la donna che amava pensò rabbiosamente, tirando l’angolo della bocca in una smorfia contrita che una carezza delicata provò a sciogliere, così da rendere dolce ciò che non lo era, pulito, ciò che era sporco.
Ma era la sua coscienza ad essere sudicia, lercia, e non c’era nessun inganno, nessuna arte manipolatrice o menzognera capace di  convincerlo di averla ancora integra, intatta, priva di falle, di voragini nelle quali inciampare e scivolare nella lordura delle sue colpe.
Perché era stato sì tanto crudele da sterminare una civiltà, ma ogni morte, ogni anima rubata aveva portato con sé il senso di colpa, il ribrezzo che mangiucchiava come termiti ingorde gli angoli del suo cuore malmesso e scheggiato.
Ogni gesto compiuto nell’impeto della follia aveva intaccato un nuovo bozzo nella sua armatura di divinità, ogni scelleratezza, ogni vendetta guadagnata lo aveva reso sempre più sconsolato, sempre più bisognoso di ricercare qualcosa  di nuovo da distruggere, da piegare a sé.
Una vita, una città, una civiltà, nulla sarebbe mai bastato a riempire il vuoto della sua anima, il male inconsolabile che aveva creduto di poter ostruire con gli stralci di un affetto che mai gli era spettato, non quello silente di Odino, non quello ossessivo di Thor, non quello delicato di Frigga.
Eppure, c’era lei, a dargli l’illusione di non avere più nulla per il quale sentirsi perso, e solo.
Bastava quella voce gentile che sapeva rendere il suo nome sempre così scarno e arido sulla lingua altrui meno pungente, più dolce, amabile come lo sguardo di luce che la sua compagna d’eternità gli rivolgeva ogni giorno, anno, secolo.
Immutabile.
Lo era il sorgere e il calar del sole, lo era  il suo amore per lui, insensato vista la sua natura, il suo passato, le sue colpe, ma lo amava, e bastava il pensiero di saperla sua, di sapere che lei lo avrebbe amato comunque, a dargli l’impressione di non essere così sbagliato, di poter avere ciò che la vita e il destino gli aveva negato con tanto accanimento.
- Guarirà – ripetè ancora lei, schiudendo le dita su quella parte del viso che le cicatrici avevano reso tanto sgraziato, lì dove la pelle diveniva così  tesa e fragile, rigida su zigomi che, in passato, avevano potuto vantare  una beltà invidiabile prima di essere intaccata dalla sua follia.
La stessa follia che lo aveva privato di un occhio, quello che gli avevano cavato, che aveva barattato in cambio della vittoria.
E fu sulla palpebra fragile e morbida che  Astrid premette le labbra, dolcemente, imprimendo in quel tocco ciò che lui più bramava prima di prendergli le mani e avvolgersele attorno al busto.
Lo abbracciò con delicatezza, una  presa gentile  nella quale Loki si lasciò sfuggire uno sguardo stanco prima di abbandonare il capo sulla testa di Astrid e chiuderla nel suo, di abbraccio.
Soffocante, doloroso, ma loro.
Quel piccolo pezzo di mondo nel quale sapevano di poter essere al sicuro, di poter essere accettati, e amati, nonostante tutto.
Le regalò una carezza, una sola, un fuggevole tocco di dita gelate che Astrid sentì chiudersi in pugni prima di vederlo perdersi in pensieri  ben più tetri, e oscuri, lì dove lei non avrebbe potuto proteggerlo, lì dove, per quanto vi avesse provato, non sarebbe mai riuscita a guarirlo del tutto dalla malattia d’amore che lo avrebbe reso sempre così bisognoso di essere accettato, di essere amato.






°°°





Jötunheimr.
La Terra dei Giganti di Ghiaccio.
La Terra della Distruzione la chiamavano alcuni, perché arida e morta, disseminata  di vette altissime sulle quali perire per il freddo, gole profonde nelle quali poter gettare le carcasse del più debole della tribù, e lande desolate, ricoperte di fine sabbia bianca nella quale poter essere inghiottiti.
 Deserti incontaminati e morti  ricoperti però da una distesa di fiori di ghiaccio, gigli dai petali d’acqua cristallizzata dal quale era possibile trarre il latte per i neonati, una delle bellezze che Astrid aveva riportato alla luce scavando nelle profondità della terra per mostrare che persino lì, in quel mondo aspro e crudele, c’era la vita, c’era dolcezza.

Il vento lì dove si trovava  però si affievoliva, divenendo   una litania che sussurrava ai visitatori di chinare il capo, rallentare il passo e volgere lo sguardo al cielo, lì  dove i rami nodosi di Yggdrasill chiedevano rispetto e silenzio, un cheto riguardo che lei offrì con un cenno ossequioso del capo prima di volgere l’attenzione alle sue spalle.
Sunniva ricambiò lo sguardo della sua signora con devozione, intimorita dal movimento sinuoso degli steli che vedeva fluttuarle attorno come braccia candide che guidavano il canto della natura madre, ma non osò abbandonare il manto sabbioso sotto i piedi nudi per raggiungerla, non ne era degna.
Perché quella era la terra dei vecchi Re, degli spiriti della Terra, e nessuno poteva addentrarvisi senza essere punito per l’impudenza.
Si udì una voce di donna frusciare d’improvviso tra le foglie d’acqua, un richiamo verso il quale Astrid volse lo sguardo prima di richiudere il mantello di Loki attorno alla gola  e avvicinarsi al tronco evanescente, il grembo di una vita infinita, la porta verso il mondo di mezzo, lì dove non c’era vita, né morte, solo un limbo nel quale le grandi anime degli antichi dimoravano per dare consigli ai Re della terra.
E quello che la stava chiamando aveva una voce familiare, dolce, morbida come una carezza di artigli d’argento che percepì contro la guancia quando allungò una mano per sfiorare il corpo storto dell’albero.
- Bentornata bambina.
Il dolore la rese cieca per un attimo, e fu con gemito soffocato che serrò le palpebre per contenere le lacrime.
Non era la prima volta che le chiedeva consiglio, che correva da lei per soffocare l’ansia, il timore, eppure, come ogni volta, quella voce riusciva a riportare alla luce quel dolore che non l’avrebbe mai abbandonata.
La perdita che mai sarebbe riuscita ad accettare, per quanto tempo fosse trascorso.
- Madre – bisbigliò  ad occhi chiusi, immaginando nel buio delle palpebre il viso deforme di Semjace, la dentatura affilata tesa in un sorriso aguzzo che, se avesse teso un po’ di più le dita, avrebbe potuto attraversare.
Le sorrise di rimando, abbandonandosi al suolo con le mani chiuse in grembo per seguire la discesa morbida della creatura evanescente che, nel riaprire gli occhi, trovò davanti a sé.
Alta, fiera come una vecchia regina buona che dispensa consigli e abbracci, e in uno di essi si abbandonò con un sospiro pesante, scivolando a terra tanto da non essere più vista neanche da Sunniva.
I fiori le accarezzavano le gambe ripiegate l’una sull’altra, ma era il tocco morbido sul capo a farla sorridere nostalgica.
Dita ferrose ma gentili si immergevano tra i suoi capelli che con gli anni avevano raggiunto i polpacci, li aveva fatti crescere, in realtà, perché  Loki amava immergervi il viso per soffocare il dolore e la solitudine, la paura che dopo tutti quegli anni, non era riuscita ancora a debellare.
Paura di perdere.
Lei, tutto.
- Ha fatto male? – bisbigliò sua madre contro l’orecchio destro, debole ma apprensiva, sfilando un artiglio per seguire la linea sinuosa degli artigli che le segnavano la gola.
Aveva fatto male.
Faceva sempre male.
Non lo disse però, non per mostrarsi stupidamente orgogliosa, ma perché era noto a lei, come a Loki, che ogni ferita inferta sul suo corpo sarebbe stata  molto più dolorosa di quella di un comune essere umano, o di un dio.
Un dolore che nessuno, per quanto vi avesse provato, sarebbe mai riuscito a capire.
Perché non c’era metro di giudizio per lei, non termini di paragone, non possibilità di comparazione.
Lei era unica, e sola, nella sua rarità, e non c’era nulla di più triste che essere gli unici di qualcosa.
Una dinasta.
Una famiglia.
Una stirpe.
Se le era create però, tutte le cose che le mancavano.
Aveva intessuto legami, stretto amicizie, costruito amori, e, per natura delle cose, anche nemici.
C’era stato Yehouda, e H’ava, periti per mano di Loki.
E Thor, Odino, i suoi figli. Tutti, i suoi figli.
Quelli che per capriccio, per follia, per senso di abbandono Loki aveva ucciso, sterminato, nella speranza di ridurre la circonferenza di quel buco al cuore che prima di lei, prima dell’amore, aveva cercato di riempire con qualcosa.
Affetto elemosinato.
Attenzione richiesta, desiderata, obbligata.
Nulla però era servito, non a renderlo più sicuro e meno solo, non a curare il suo male d’amore.
Ci aveva provato anche lei, a dargli conforto, a smorzare quell’innaturale paura, ma sua madre le aveva confessato che era nella sua natura temere di perdere.
Il trono, il potere, lei.
Loki era stato destinato a perdere ogni cosa, l’ aveva perduto alla nascita quando era stato abbandonato da chi avrebbe dovuto proteggerlo e amarlo, avrebbe temuto di perdere fino alla morte.
E neanche lei, per quanto caparbia, per quanto ansiosa poteva nulla contro quella paura.
Ma ora l’aria era morbida attorno a lei, e calda, intiepidita dal respiro di sua madre che continuava a cullarla lì dove tutto si espandeva, il mondo si sformava, ed era circondata da luce.
Morbida e calda luce.
La sua, luce.
Quella per la quale era stata catturata e torturata, la sua condanna, la sua essenza,  la fonte d’energia più potente dell’universo incanalata in un petto capace anche di trasalire per la paura e l’orrore.
Con gli anni però, l’iniziale paura di se stessa, di ciò che era, aveva lasciato posto alla curiosità, alla brama di sapere cosa portasse tante creature a bramarla, cosa potesse spingere gli uomini a uccidere, pur di avere quel potere.
E la risposta l’aveva trovata, anche se malincuore.
Invincibile.
Ogni creatura amava l’idea di sapersi superiori ad  altri, più forti, più potenti,  persino Loki aveva peccato di superbia, di arroganza, persino lui aveva bramato ciò che lei avrebbe portato.
Potere. Tanto, troppo potere.
Più di quello posseduto da un dio, più di quello di  una creatura soprannaturale dai poteri illimitati.
Perché il confine tra quello che si  potesse o non potesse fare, con lei non esisteva.
Era infinita.
Lo era la sua anima che, se chiudeva gli occhi e rilassava la mente, mutava in un vuoto denso di pulviscoli di luce simili a sbuffi di polvere, estesa e tanto vasta da non poterne trovare il confine con lo sguardo, per quanto vi avesse provato.
Un’enormità che però aveva portato con sé anche la solitudine e l’amarezza.
Aveva accettato però  la profondità di quel  potere, la potenzialità delle sue capacità.
Si era accettata, alla fine, come avrebbe voluto che Loki facesse a sua volta.
In quanto Re, in quanto dio, in quando Gigante di Ghiaccio.
- Non angustiarti bambina, non ora, non quando c’è bisogno che tu sia forte per ciò che verrà.
Il gelo che la investì le intorpidì i muscoli, ma riuscì comunque a tornare seduta per guardare Semjace  in viso e cercare la risposta a quanto detto, a ciò che ora, nelle sue orecchie, con il canto degli spiriti a cullare il suo riposo,  pareva la promessa di un nuovo  dolore, nuove morti, nuova distruzione.
- Cosa intendete madre?
Il silenzio le venne in risposta, freddo e ingiusto,  ma fu breve quanto il battito che si trovò a perdere nel  vedere gli steli sui quali era distesa rigettarle in viso uno schizzo di rosso porpora, una tonalità che secoli orsono aveva macchiato le sue mani, un colore  dal quale aveva faticato a ripulire lei e Loki.
Ma quella volta non c’erano lame ad aprire ferite e a ripulirsi su di lei, perché era il cielo  a tingerle  i palmi schiusi di quel rosso scarlatto.
Il cielo verso il quale si trovò a volgere le palpebre sgranate, la voce incastrata in quella gola che sentì bruciare per il bisogno di urlare il nome di Loki, di sua madre, degli spiriti, per ricercare la risposta a quello spettacolo orribile.
Perchè c’erano nuvole di fumo nero  a vorticarle sul capo, e il fischio del vento che sentì sibilare alle  spalle assieme al grido di Sunniva.
Ma ebbe tempo solo di leggere l’orrore negli occhi della creatura, il suo terrore, l’angoscia che le segnava il viso prima di cogliere   il lampo perlaceo saettato nelle iridi rossastre della Gigante, metallico come una freccia scoccatale contro,  grigio come i petali d’acqua curvatisi come lei sotto la forza devastante  dell’onda d’urto.
- Min dame!  




°°°




La pelle tenera del polso si ritirò con un crepitio sinistro quando la miscela corrosiva vi entrò in contatto, una reazione raccapricciante per la quale Loki si trovò però a tendere un sorriso storto prima di richiudere la lastra di vetro e aspettare che l’arto smettesse di agitarsi per il dolore, così da riprendere l’esperimento.
Analizzare le forme di vita inferiori era sempre stato uno dei mille espedienti con i quali amava ingannare l’eterno trascorrere tempo, e torturarli, una volta classificati la loro origine, il loro possibile utilizzo.
Lo allietava sapere di essere il decisore della vita altrui, delle loro sofferenze, dolori, angosce, una sensazione di onnipotenza che zittiva la voce insistente della sua follia, quel desiderio di distruzione e morte che lo rendeva sordo ad ogni preghiera, voce, suono all’infuori di quel profondo e insaziabile brontolio.
Perché aveva fame di morte, di dolore, non avrebbe mai smesso di averne, non lui, non chi sazio mai sarebbe stato di vita,  di calore, di amore.
E per quanto  ne avesse ricevuto, per quanto affetto e devozione Astrid gli avesse riservato, ci sarebbe sempre stata una piccola parte di lui che avrebbe continuato a ricercare la morte, quella che lui stesso aveva portato alla sua stessa famiglia, quella che mai avrebbe smesso di affiancarlo lungo il suo cammino.
Un’ ombra che da bambino lo aveva  atteso appena girato l’angolo, o guardato sotto il letto, o fissato nello specchio per trovare la somiglianza tra lui e Thor.
Ma era  una macchia.
Una chiazza nera che, per quanto si fosse affannato a sfregare, a ripulire, avrebbe continuato a segnare il suo passaggio, a ricordargli chi era, dove sarebbe dovuto essere.
Non nell’oro scintillante di Asgard e della luce riflessa sull’armatura di Thor, di suo padre, ma in uno sfondo monocromatico, asettico e silenzioso come una camera abbandonata al degrado.
Il picchiettare isterico della mano all’interno della teca lo riportò in sé,  in una realtà nella quale  era il Re di qualcosa,  lì dove  ci sarebbe stato qualcuno ad aspettarlo in fondo a quella stanza buia, non un padre deluso, non un fratello amareggiato, non una madre sofferente, ma un amore.
Un amore da poter chiamare e dal quale potersi aspettare di ricevere conforto con un abbraccio, un sorriso, quello che gli tese l’angolo destro della bocca poco prima  di far scattare la mascella nel captare lo schianto alle sue spalle, una volta tornato a percepire il mondo circostante.
Quando il tonfo seguì la caduta del Gigante al suolo Loki si decise a metter via il suo esperimento per osservare con fastidio la creatura riversa a terra, il capo tanto schiacciato al pavimento da aver generato una piccola conca sotto il suo cranio inumano, una cavità nella quale la creatura non osò fiatare, stringendo la mandibola per sopperire al dolore.
- Spero che questa tua irruzione valga la tua insubordinazione – lo riprese piccato,  serrando la presa attorno al suo scettro nel cogliere il lieve irrigidimento della schiena del mostro.
Orgogliosi.
Per quanto gli umani peccassero di superbia, non c’era creatura al mondo che fosse orgogliosa e stupidamente arrogante come i Giganti di Ghiaccio, esseri mastodontici, dalla forza inumana e dall’intelletto sottile e acuto, creature con un enorme  potenziale se non fosse stato per la poca  furbizia e l’eccessiva arroganza.
Perché persino un cane avrebbe  ritirato la coda e serrato le mascelle nel riconoscere la mano di chi puniva l’insolenza.
Una lezione che  i suoi sudditi, a giudicare dal ringhio gorgogliante nella gola del gigante, non avevano ancora imparato.
- Si Mester.
- Ebbene? – scattò cattivo, seguendo con la coda dell’occhio l’ansimare dell’arto mozzato con noia.
Tese il palmo, così da poter flettere il polso e tranciare  di netto la testa del Gigante non appena lo avesse informato del motivo della sua impudenza.
 Un motivo sciocco, indegno della sua attenzione, del suo interesse, perché non c’era nulla da temere, non per il mietitore di vite, il distruttore di mondi, non per il Re dei Giganti di Ghiaccio.
Gli diede le spalle ancor prima di udire la risposta, consapevole che qualunque cosa fosse uscita dalla bocca del servo, non avrebbe comunque potuto richiedere da parte sua  più di un cenno annoiato del capo.
Eppure riuscì a scatenare in lui qualcosa di ben più feroce di un guizzo isterico del viso,  qualcosa di ben più umano di un lieve assenso.
Perché ebbe terrore, e angoscia.
Non per sé, non per il grido d’isteria che la sua anima lanciò, ma per quel cuore raggrinzito  che sentì singhiozzare disperato nell’udire l’urlo fuori le mura
L’urlo con il quale, una volta,  l’aveva perduta.
Il grido di chi mai il mondo  avrebbe smesso di portargli via.





°°°




Grida.
Vagiti.
Voci sconnesse e rese tremanti dal panico.
Non c’era nulla che le risultasse sconosciuto.
Nulla che non avesse già visto, per il quale non avesse patito l’ansia nel petto e la paura nel cuore, ma era rabbia quella che le graffiava la voce, rabbia di vedere i Giganti proteggere con le loro moli la propria progenie, rabbia di sapere la ragione di quell’attacco, rabbia per una caccia all’uomo che non avrebbe avuto fine, fintanto che  lei fosse esistita.
Un lampo perlaceo e il fischio del vento alla sua destra la avvisarono del secondo tentativo dei Giganti di contrattaccare mentre Sunniva e le donne, protette dalla fila di uomini,  scortavano  i piccoli al riparo con i loro ringhi  a cadenzare i passi nella fuga.
Ma era energia quella che proteggeva l’essere dal corpo di metallo piovuto dal cielo, pura e semplice energia dai riverberi scarlatti che riluceva dell’entità astratta presente nell’aria, una presenza che pareva essere ovunque.
Alle sue spalle, sopra la sua testa, davanti a lei.
Occhi che guardavano tutto e niente ma che su di lei parevano catalizzarsi quando osava alzare un braccio per difendere i Giganti da una pioggia di schegge e lampi metallici.
 E c’era qualcosa di orribilmente familiare nel modo in cui quella creatura rigettava i suoi attacchi, una capacità di repulsione che lei stessa aveva potuto saggiare su chi provava a toccarla senza il suo consenso.
Capacità che solo una quantità di energia simile o pari alla sua avrebbe potuto impedirle di raggiungere e distruggere l’essere dal corpo metallico.
Eppure, non c’era energia al mondo simile alla sua,  lo ricordò a se stessa con una smorfia contrita prima di alzare un braccio nel tentativo di  difendersi dalla pioggia di calcinacci esplosa a seguito dell’ennesimo cratere apertosi nel terreno.
Detriti che però non  sentì  cozzare contro la barriera di energia issata a sua difesa, ma che invece  vide scivolare dall’arto dalle vene verdi pulsanti forza issato in sua difesa.
Il braccio che il Gigante di Ghiaccio abbassò assieme allo sguardo rosso  con un ringhio sommesso.
Knut.
Lo riconobbe per la cicatrice obliqua che gli segnava l’occhio sinistro, un taglio profondo che feriva il viso squadrato della creatura come l’artiglio feroce di una belva sanguinaria, ma non era stato un mostro, in realtà,  a lasciargli quel segno.
Era stato Loki, il loro Re, ad aver scavato nella carne  tenera degli zigomi  del Gigante, così da marchiarlo come suo schiavo e mostrare  chi d’ora in avanti li  avrebbe comandati.
Il più forte.
- Dovete tornare al castello – ruggì funesto Knut una volta agguantatala per un braccio, rafforzando la presa attorno all’arto che prese a tirare con forza, ritrovandosi però a tendere le labbra gelate nel non riuscire a muoverla di un millimetro.
Gli sfuggì un ringhio di gola nell’incrociare lo sguardo duro della donna, occhi che lui per primo aveva rifuggito per mostrare la propria contrarietà nell’accettarla come sua Regina e signora, ma era stato costretto a serbarle rispetto e devozione, perché era stato battuto dal Re, ed ora che non era lui il più forte, non aveva più il diritto di dettar legge o di decidere chi lasciar vivere o morire.
E se vi era qualcosa per la quale il re avrebbe potuto ucciderli tutti, era lei.
Perchè avrebbe mozzato loro le teste, tranciato gli arti e cavato gli occhi se lei fosse rimasta ferita, se loro avessero lasciato che ciò accadesse.
- Dovete tornare. Ora.
- No.
Un guizzo isterico della mascella gli costò un’occhiata caustica di Astrid, i talloni affondati nel terreno sabbioso e la veste arricciata sulle gambe flesse per essere pronta a scattare, in caso di ribellione.
Quella che sempre  le avrebbero mostrato, perché compagna del loro Re, un re temuto e mal visto per la propria crudeltà verso il suo popolo ma non verso di lei, così piccola e fragile da far loro ribrezzo.
 Perchè i Giganti di ghiaccio erano mostri che della loro levatura fisica ne avevano fatto un vanto, un simbolo d’onore, di rispetto, e avere creature filiformi  come loro signori era una ferita d’orgoglio che mai Knut sarebbe riuscito a sanare.
- Il Mester non-
- Il Mester capirà – lo riprese severa, allontanando la mano sproporzionata del mostro per tornare a volgere la sua attenzione oltre le file alleate, lì dove lo scintillare metallico li avvisava dell’arrivo oramai imminente della creatura.
Intravide i profili asimmetrici dei giganti, i loro passi scoordinati, i colpi feroci schiantati su ciò che non potevano raggiungere mentre la polvere di ghiaccio rendeva la visuale incerta, ma c’erano le voci di Yggdrasill a bisbigliarle nell’orecchio dove guardare, quando indietreggiare, chi richiamare all’ordine.
Un mormorio che si tramutò in un grido  quando le sovvenne all’orecchio un suono debole, fragile e inudibile ad orecchio mortale,  ma un suono tanto  acuto e   doloroso da farla rabbrividire per l’orrore.
Perché più dei ringhi di scontento dei Giganti, più di bisbigli concitati degli spiriti e del respiro ansante del suo mostro,  vi era un  unico suono capace di strapparle il cuore dal petto e strizzarlo fino a farla piangere per il dolore.
Quello per il quale si era trovata in ginocchio, nel buio di una stanza, con le braccia della sua madre umana strette attorno al suo corpo scosso dai singhiozzi e dalla disperazione.
L’unico suono che avesse mai  voluto sentire  accanto al suo letto oltre al respiro di Loki, quello che non avrebbe mai avuto modo di udire, consolare, zittire nel calore di un abbraccio.
Eppure era lì, a pochi metri da lei, inghiottito dal polverone nel quale nessuno pareva scorgere la figura piccola e abbandonata in terra come un vecchio pupazzo di pezza.
Ma era un bambino, quello  che vagiva disperato,  figlio di Jötunheimr, figlio dei Giganti di Ghiaccio, e indirettamente, anche figlio suo.
Quando Knut la vide muovere un passo schiantò il braccio poco lontano dalla testa della donna, per darle l’ultimo avviso, ma quello che le sue dita callose strinsero fu fuoco, e dolore, il suo,  quando fu costretto a ritirare la mano ustionata con un ringhio prima di  vederla saettare tra loro come una scheggia impazzita, sparendo al di là del muro di fumo e polvere.
La sabbia scivolava sotto i suoi piedi nudi come acqua fresca, quasi a spianarle la strada e raggiungere ciò che il cuore le diceva di proteggere,  ciò la terra la incitava a raggiungere prima dello schianto.
L’ennesimo vagito disperato la fece scartare a destra,  portandola  infine a rallentare l’andatura mentre l’energia sfrigolava dal suo corpo per respingere ogni forma di minaccia, quella che  Astrid sentì frusciarle sopra il capo prima di intravedere nella foschia la schiena ricurva del bambino, e benchè la piccola creatura la raddoppiasse in altezza e in larghezza, lo cinse con un braccio non appena fu abbastanza vicina da toccarlo.
Lo sentì sussultare ferocemente nel percepire il suo tocco tiepido, ma i bambini di ghiaccio, a dispetto degli adulti, avevano imparato a riconoscere e ad apprezzare il suo calore corporeo, perciò, quando il piccolo le si raggomitolò lungo il fianco, afferrandole le spalle con le braccia tozze e gelate in cerca di protezione,  Astrid non potè che schiudere un sorriso affettuoso prima di udire il fischio davanti a sé e caricare il primo colpo.
Un lampo di luce saettò nel cielo come la coda sinuosa di un serpente, frantumando il polverone in nuvole di ghiaccio che Sunniva respirò affannosamente, imprimendo maggior forza nelle gambe nel cogliere il profilo distorto della barriera che la sua signora aveva appena sorpassato, ma il fruscio sinistro  alla sua destra le causò un vuoto allo stomaco che la fece inchiodare con forza nel manto sabbioso.
Persino Knut, ancora irritato per l’onta subita,  non potè che strizzare le palpebre istericamente  nel patire la presenza soffocante al suo fianco, il profilo aguzzo di un volto che lui per primo temeva di incrociare sul suo cammino.
- Pagherete per la vostra incompetenza – gli sibilò di fianco Loki non appena sentì lo sguardo rosso dei Giganti di Ghiaccio scostarsi dalla barriera d’energia per puntarsi sulla  sua altera figura, ritraendosi a spalle ricurve  nel vederlo compiere il primo passo nella loro direzione.
- Si, Mester – gorgogliò Knut, le labbra secche per la paura, stringendo le dita carbonizzate con una smorfia.
Un sorriso affilato tagliò il volto di Loki come una lama intinta nel sangue, ma  fu la furia ad arricciare gli angoli della sua bocca verso il basso, la follia che gli fagocitò il cuore nell’intravedere la figura minuta di Astrid inghiottita nella nebbia.
Raggiungerla costò meno di una manciata di secondi, ma quando l’ebbe davanti, a pochi metri da sé,  non potè che rafforzare la presa attorno al proprio  scettro nel cogliere la sofferenza intrisa nei lineamenti della compagna, ombreggiature che una creatura dal corpo di metallo fissava con freddo distacco dall’alto della sua posizione sopraelevata.
Increspature per le quali  Loki  si ritrovò a masticare bile e saliva mentre l’odio gli corrodeva il fiato e il sangue gli pulsava nelle vene e urlava di rabbia.
Perché il viso di  Astrid era la sua tela bianca e priva di macchie, il quadro dove non avrebbe trovato che sorrisi gentili e sguardi amorevoli e dove persino lui sarebbe apparso migliore, giusto.
Ma era paura quella che le intaccava lo sguardo di luce, e stanchezza, afflizione per quelle parole che la creatura sciorinava senza batter ciglio, indifferente al dolore delle sue pupille, e allo spasmo di qual cuore che Loki sentì ansimargli nel petto prima di rafforzare la presa sul proprio scettro.
Quando la lancia gli grattò la gola con ferocia  Norrin tese il collo e la schiena di riflesso, ritraendosi dal corpo raggomitolato sotto di lui per dirottare la sua attenzione sulla creatura che brandiva l’arma contro di lui.
Era alto, con il viso sfigurato e l’iride chiara cristallizzata in una patina d’odio che se avesse avuto forma, avrebbe potuto ferirlo  come la lama che Loki gli spinse contro la giugulare con forza, frammentando l’epidermide di metallo che Astrid vide crepitare assieme all’imperturbabilità della creatura, quando lo vide riportare l’attenzione su di lei.
E fu nel risentire su di sé i suoi occhi smorti che distolse velocemente lo sguardo, nascondendo sotto le ciglia l’orrore di quel nome che da anni, oramai, aveva smesso di tormentarla.
Un nome che altri avevano scelto per lei, il richiamo ad un passato che ora ridiveniva un' ombra concreta, e non più un fantasma inconsistente dal quale sapeva di non poter ricevere più dolore, altra sofferenza.
Quella che bagnò la lingua di Loki di magia prima di far patire alla creatura uno  schizzo di sangue e lo schianto dello scettro ai suoi piedi.
Il bambino che lei stringeva si trovò a piangere nell’udire il boato del colpo, ma quando la nebbia si dissolse, Astrid non potè che guardare la scia cosmica appena saettata nel cielo con sofferenza.
Perché l’aveva  trovata, la sua risposta.
Il responso alle parole di sua madre, la risposta degli artigli che le segnavano la gola e che ore pulsavano del suo dolore mentre la scia di luce si proiettava verso il pianeta successivo a quello.
Un mondo che un tempo l’aveva vista divenire figlia, sorella, e amica di creature destinate, per uno strano scherzo del fato, ad essere vittima dell’arroganza divina ed ora di quella di una creatura dalle capacità similari alle sue.
Quando Sunniva riuscì ad infrangere la fila di Giganti potè intravedere il profilo ingobbito della sua signora, abbandonata al suolo con una stanchezza che pareva persino smorzare il baluginio delle sue iridi, e alla sua destra, quello ricurvo del loro Re,  chino su di lei come il più semplice degli umani, la mano piena del viso abbandonato docilmente  nel suo palmo.
Perché era stanca, Astrid.
Stanca di ciò che non avrebbe mai smesso di gettare ombre sul suo futuro, su Loki, su se stessa.
L’ombra della sua grandezza e della sua disfatta ora che il destino tornava crudele a chiedere il pagamento dei loro errori, delle morti che avevano generato, delle vite che invece, avevano salvato, dell’equilibrio che entrambi avevano spezzato.
Perché fu Yggdrasill a bisbigliare il segreto taciuto in fondo alla sua gola, il mormorio concitato che Loki sentì strisciare  sotto pelle, lì dove ogni tendine, nervo, e stilla di sangue  si coagulò nei suoi occhi.
Iridi rosse come quelli dei Giganti di Ghiaccio, pupille dilatate all’interno delle quali Astrid non potè che vedere il riflesso di se stessa e chiudere gli occhi in cerca di silenzio.
Ma non ce ne sarebbe stato più, non nella sua testa, non contro il petto di Loki, non nell’abbraccio di sua madre.
Perché ci sarebbe stata quella voce, a ricordarle il suo passato, la sua essenza, una voce metallica che, nei suoi sogni, avrebbe ripetuto il nome che forse mai, il mondo,  avrebbe mai del tutto dimenticato.
Tesseract.



Continua…



Come avevo promesso, ecco la continuazione della quale avevo accennato qualcosa.
Premetto che la storia sarà di massimo 11/12 capitoli, e l'aggiornamento cadrà ogni sabato. Potrà inoltre accadere che gli aggiornamenti avvengano più volte nel corso della settimana visto che  la stesura sta andando molto velocemente, quindi aspettatevi delle sorprese!
Ovviamente ringrazio chi è venuto a dare un'occhiata e chi dalla storia precedente ha deciso di buttarsi in una nuova avventura di Astrid.
Grazie di cuore per la lettura, al prossimo aggiornamento
Gold Eyes

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Capitolo 2
*** 2 - Pearls Of Light ***


Capitolo 2
“After the cold darkness,
in the heart of the forest.
Where birds are singing,
for the new born sun “

[…]

“In the womb of the leaves,
on the branches of the trees,
lies the treasure of the morning,
the pearls of light. “

(Pearls of light – Within temptation)



Tony Stark non era mai stato un uomo di facile comprensione.
Non lo erano mai stati  i suoi pensieri da scienziato folle e megalomane,  non i suoi reali desideri che, il più delle volte,  finivano con collidere con il generale buon senso, figurarsi il motivo di sue  determinate azioni, come l’ immolarsi per il bene dell’umanità e subito dopo proporre una buona cena a base di shawarna.
 Ma  era il suo cuore, in realtà,  ad essere il più grande enigma dell’universo, un cubo di rubik  che Pepper “Potts” in Stark aveva imparato a risolvere con l’unica arma a  disposizione del mondo femminile.
L’ignoranza.
Quella che ogni moglie  sana di mente sapeva fingere per non scalfire l’ orgoglio di chi si credeva realmente  più furbo e scaltro della popolazione mondiale, ma soprattutto, della propria consorte,  e Tony Strak  aveva la frequente tendenza a vantarsi della propria fama di uomo imperscrutabile e di ghiaccio.
Ma era semplicemente egocentrico e insofferente alle critiche, peculiarità che lo avevano reso ingestibile e che,  il più delle volte, lo rendevano l'incubo di ogni anima pia  che aveva davvero creduto di poter trovare qualcosa di più profondo, oltre alla sua vanità.
Non che il Dottor Barner non avesse tentato di raccapezzarsi sul perchè delle schermaglie dell’uomo d’acciaio al quale oramai aveva fatto il callo, ma  Pepper trovava estremamente spossante lo sguardo stizzito e  le  occhiate oblique del marito, badilate di sensi di colpa tanto angoscianti da  far tremare i polsi persino ad una congrega di suore  nel sentire i  borbottii maligni che lo scienziato sciorinava  tra sé e sé, minacciando il mondo intero, uno stupido mondo a suo parere,   sulle conseguenze che sarebbero seguite per aver ferito il suo amor proprio.
Tanto amor proprio, una montagna dalla quale Pepper era rotolata giù  fin  troppe volte per sfidare la fortuna e solleticare la suscettibilità bambinesca del marito, perché  bambino a volte Tony diventava davvero, soprattutto se preso alla sprovvista.
Quella volta però lo furono entrambi quando il  bip acuto dell’allarme li costrinse a schiudere gli occhi assonnati e guardarsi vicendevolmente con nervosismo.
- Vai tu questa volta – brontolò la donna con voce impastata, affondando il naso nel cuscino mentre Tony si trovava ad alzare un fine  sopracciglio nel seguire  il braccio teso della compagna fuori dal letto.
- Perché dovrei andare io? Sarà uno degli acquirenti della ditta, e sei tu il boss in casa tesoro, perciò alza quelle tue belle chiappette pallide e fa il tuo lavoro.
Il calcio nello stinco fu la risposta che lo scienziato si dovette far bastare prima di brontolare di malumore e fissare incattivito la parete color crema della stanza.
- Jarvis!
L’urlo non fu una buona idea a giudicare dal colpo al fianco che Pepper gli rifilò con un sibilo, ma Tony non era particolarmente fine appena sveglio, men che meno alle cinque del mattino.
- Jar-
- Sono qui signore, non c’è bisogno di urlare a quel modo e disturbare la signora – lo riprese con garbo l’intelligenza artificiale, guadagnatosi un pugno alzato da parte della “signora” che lo scienziato fissò trucemente  prima di darle le spalle e ripetere in falsetto il rimprovero di Jarvis prima di trovarsi sul pavimento gelato a gambe all’aria.
- Stupida moglie.
- Ti ho sentito – gli latrò dietro Pepper con rabbia, scostando il viso dal cuscino nel quale avrebbe voluto soffocare anche lui.
- Credi che non lo avessi capito da me ? – berciò di rimando, issandosi a sedere per scoccarle un’occhiata al vetriolo – non credi che l’abbia detto ad alta voce proprio  per farmi udire da te tesoro?
- Signore, mi dispiace interromperla,  ma riguardo il localizzatore -
- Quale localizzatore – saltò su quando la parte più lucida della sua testa captò una parola che portava sempre guai, la fronte increspata per la confusione – io non ho attivato nessuno localizzatore, io non …tu! Tu hai toccato qualcosa che non dovevi non è vero?  Tu e la tua stupida fissazione per quel ridicolo  feng shu-
Un cuscino affogò l’ultimo insulto che Tony Stark si trovò a sputare assieme alla federa, tornando a fissare con astio  la donna in vestaglia che sembrava particolarmente propensa a strozzarlo a mani nude.
- Io non ho toccato un bel niente – si difese Pepper con verve, gonfiando il petto e strizzando incredula le palpebre nel notare lo sguardo compiaciuto con il quale il marito prese a fissarle il decolté prima di ritrovarsi ancora col sedere all’aria.
- Psicopatica di una segretaria!
- Vedi che ti ho sentito!
- Lo so!
- Il localizzatore della signorina Astrid, signore, ha captato un segnale pochi minuti fa nei pressi di Buenos Aires.
Tony Stark non era tipo da sorridere, non un era marito romantico,  un padre  affettuoso o sdolcinato, neanche con una moglie schizzinosa a carico e un figlio scapestrato ad assottigliare mensilmente il suo conto in banca, ma amava a modo suo, e strappargli quello sguardo lucido  era più di quanto ci si potesse aspettare da lui, come reazione.
Uno sfavillio che Pepper aveva avuto modo di cogliere solo  quando il marito aveva stretto tra le braccia il loro primogenito, una reazione che però rendeva persino lei un po’ più emotiva e sensibile al suono di quel nome.
Il nome della sua seconda figlia.
Una figlia adottiva, certo, ed aliena, ma sua figlia, comunque.
L’unica creatura capace di far regredire due dei cervelli più sviluppati  del pianeta terra ad un  ammasso informe di gelatina molle, e molliccio lo diveniva anche l’autocontrollo del quale Tony Stark amava vantarsi sempre.
Ma non ce ne fu neanche un briciolo, non una minima stilla di amor proprio quando lo scienziato, in barba al suo decantato sangue freddo, si ritrovò a sorridere come un beota nel correre verso la cucina.
 Pepper non lo seguì subito,  si concesse un paio di minuti di silenzio, lo sguardo fisso nel vuoto e la mente proiettata ad un ricordo che, per quanto lontano, non avrebbe smesso di strizzarle il cuore in una morsa dolorosa ad ogni visita di Astrid.
Un’afflizione che però non aveva mai avuto cuore di condividere con nessuno, perché madri e figlie  avevano i loro segreti, e quelli tra lei ed Astrid erano fin troppo fragili da poter essere sbandierati ai quattro venti.
Non che Tony fosse manchevole di fiducia, ma c’erano cose che nessuno, se non una donna, poteva capire.
Ed anche se aliena, Astrid lo era, e in quanto donna, sebbene immortale, era  soggetta alle sventure alle quali il mondo femminile poteva incappare.
Ma quella sofferta da sua figlia era stata crudele, una menomazione che persino Pepper, in quanto madre, in quanto essere umano, non aveva avuto modo di affrontare con l’impersonalità richiesta.
Non se era la sua bambina a soffrire ciò che mai nessuna madre avrebbe augurato alla propria prole.
L’urlo isterico che irruppe d’improvviso nella stanza la strappò a pensieri che era meglio stipare in fondo al cuore, perché Tony stava urlando, e da che ne avesse memoria, Pepper conosceva un'unica persona in grado di generare nell’uomo di metallo un grido di quella portata, un misto di orrore e sorpresa che la donna ritrovò sul viso del marito, una volta entrata in cucina.
- Ciao tesoro.
Un viso squadrato.
Occhi grandi ed espressivi di un tenue cioccolato.
E un sorriso sornione fin troppo simile a quello del padre per  poter metter bocca sulla presunta illegittimità del ragazzo.
- Ciao mamma.
- Non ignorarmi! E tu, madre degenere, non sorridere a quel modo a questa progenie infernale! – sbottò Tony Stark nel seguire lo scambio di sguardi tra la consorte e il suo primogenito, il primogenito che sarebbe dovuto essere alla conferenza di Berlino,  non nella sua cucina, e non con  quel sorriso.
- Io non ti sto ignorando papà – se ne uscì l’adolescente con voce annoiata, scoccando al genitore uno sguardo ironico che lo scienziato rigettò indietro con un ringhio – sto solo salutando educatamente la mamma.
- Educatamente un corno! Tu non dovresti essere qui! Non  nella mia maledetta cucina, non con sul mio maledetto sgabello e – gli sfuggì un ansito incredulo  e un tic nervoso all’occhio destro prima che il viso gli divenisse rosso per la stizza – e non con la mia maledettissima tazza preferita in mano!
Marcus Jay Stark si abbandonò ad una risata di gola nel patire l’isteria del padre, tornando poco dopo a sorseggiare elegantemente il suo caffè mentre lo scienziato riprendeva fiato e tornava  a fulminarlo con lo sguardo.
- Non avevi appuntamento con quella Mar-Mer-Mar- qualcosa? -  brontolò caustico.
- Marjorey papà – lo corresse il ragazzo con voce annoiata.
- Quello che è! Ciò che voglio dire è che non dovresti essere qui, non ora che-
-  Astrid sta tornando? È questo che volevi dire  papà?
Il gelo che calò nella stanza fu netto, pesante e surreale, come lo strabuzzar d’occhi che Tony Stark coprì con una mano nel patetico tentativo di ricordare quel piccolo batuffolo di carne e braccine paffute che Marcus un tempo era stato.
Una piccola cosina rosa, innocente,  dolce, e affettuosa,  con di lui e sopratutto con  Astrid.
Si, Astrid.
La sua Astrid.
La piccola aliena dal sorriso gentile e  dallo sguardo di stelle per la quale lui e Barner si battibeccavano ogni anniversario dell' associazione benefica redatta a suo nome.
Una lotta che perdurava da anni, che mai forse sarebbe finita fino a quando uno dei due non avesse smesso di arrogarsi la sua paternità, ma ora non era la reale figura genitoriale di Astrid a preoccuparlo.
Era Marcus.
Il suo primogenito.
Il suo erede, la sua condanna e salvezza.
Quel tenero involtino di carne che però era cresciuto, distruggendo la sua figura tenera e innocente qual’era stata.
Un bambino che aveva smesso di abbracciarlo ma che, in compenso,  pareva aver imparato ad imitare i suoi sorrisi scanzonati e irritanti, e sfortunatamente, il piccolo uomo che aveva imparato a chiamare Astrid sorella, poi cugina, e poi, con l’età adulta, futura moglie.
E non c’era nulla di più agghiacciante che sapere il perché della presenza ingombrante di Marcus nella sua cucina, alle cinque del mattino, senza la sua nidiata di ammiratrici pettegole a tirar le finestre con le loro risatine isteriche.
Perchè  era un uomo, quello che lo fissava con divertimento.
Un uomo capace di intendere e di volere e, a giudicare dall’aria tronfia e soddisfatta, di fare le scarpe al padre miliardario.
-È incesto! Lo sai vero? Astrid è-
- Non è mia sorella papà – precisò il ragazzo con irritazione, scattando in piedi per fronteggiare lo sguardo truce del padre – Astrid non è mia sorella, per quanto tu e Bruce continuiate ad azzannarvi per riservarvi il titolo di suo genitore.
- Ma io sono padre, suo e tuo – lo rimbrottò Tony con rabbia – e in quanto tale devi dare ascolto ai miei consigli.
- I tuoi non sono consigli papà – tornò alla carica il ragazzo, raggiungendolo in due falcate per guardarlo fisso negli occhi – i tuoi sono ordini.
- Io non vedo la differenza – gli sibilò ad un palmo dal naso – ed ora, posa quella maledetta tazza e torna a Berlino.
- No!
- Invece si!
 - E io dico no! No e no!
Continuarono a darsi addosso per un’altra manciata di minuti prima che Jarvis li avvisasse dell’arrivo di una chiamata.
Una chiamata alle cinque del mattino.
Bizzarro, ma non per questo meno irritante.
E lo fu per Tony Stark quando, dopo aver accordato a Jarvis la possibilità di metterlo in videochiamata con lo scocciatore di turno  si trovò con la testa mozzata di Nick Fury a levitare sul piano cottura della sua cucina.
- Buongiorno signor Stark – lo salutò asciutto il capo dello S.H.I.E.L.D., l’occhio vigile puntato sulla smorfia imbronciata del multimiliardario.
- Buongiorno? Questo è un buongiorno secondo lei? Mh? – si ritrovò a strepitare lo scienziato, allargando le braccia per mostrare la presenza del figlio al lato e la sua mise non propria consona ad un uomo della sua levatura intellettuale.
Non che i suoi boxer di Iron Man avessero turbato l’irreprensibile agente, ma non migliorava la visione d’insieme che si poteva avere di Tony Stark.
Non se il suddetto miliardario era così egocentrico da indossare l’intimo con la sua faccia stilizzata disegnata sopra.
Un particolare sul quale Nick Fury sorvolò, preferendo rivolgere la sua attenzione all’unica persona sana di mente in quella stanza.
- Buongiorno signora Stark.
- Buongiorno a lei Fury – lo ricambiò Pepper con garbo, stringendosi nella sua vestaglia mentre il marito e il figlio tornavano ad azzannarsi a suon di monosillabi – a cosa dobbiamo la chiamata, se mi è permesso chiedere?
- Abbiamo motivo di credere che la signorina  Astrid abbia fatto ritorno sulla terra pochi minuti fa. E che ora si trovi a Rio De Janeiro.
La lieve torsione del collo con la quale  Tony Stark si premurò di palesare il suo ritrovato interesse convinse Nick Fury a riportare su di lui uno sguardo pacato, così dissonante da quello arcigno con il quale lo scienziato si riservò di fulminarlo.
- Con “avete motivo” intendi che i tuoi hacker si sono  intrufolati nel mio sistema centrale per prendere controllo del mio localizzatore, non è vero?
- No signor Stark – negò Fury – non abbiamo bisogno dei suoi localizzatori quando possiamo fare affidamento su una spia satellitare ben più accurata e precisa.
- Barner – latrò Tony con rabbia, snudando i denti e lasciando che Marcus riprendesse fiato dalla sua stretta – quel traditore! Ha captato le onde gamma e non mi ha avvisato!
- Precisamente signor Stark, ed ora l’agente Hills lo sta accompagnando alle favelas dove il dottore ha captato il segnale della signori-
- Jarvis!
- Si signore?
- L’armatura, subito! – sbraitò isterico  Tony Stark, lanciando un’occhiata obliqua al capo dello S.H.I.E.L.D.
- Credeva davvero di imbrogliarmi? – lo attaccò feroce, raggiungendo la finestra così da poter spiccare il volo una volta che l’armatura lo avesse raggiunto – crede davvero che non abbia capito che lei sta solo prendendo tempo?
Un fischio coprì il verso sorpreso dell’ologramma, il sibilo con il quale il braccio di metallo si arpionò al braccio teso dello scienziato.
- So che lei tifa per Barner.
Gambale, guanto, collare.
- E so anche che è stata l’Hills ad avvisarvi, ma non  lo lascerò vincere, perché c’è una cosa che quell’idiota verde spesso dimentica – e Tony si trovò a serrare le mascelle quando la luce fluorescente dei comandi gli colorò il viso d’azzurro.
- Che tra noi due, il più veloce sarò sempre io.




 
 
°°°



La paura di morire era una  preoccupazione che, almeno una volta nella vita, giungeva a turbare l’animo dell’essere umano.
Qualcosa di così spaventoso, di così raccapricciante da annientare il raziocinio  e le speranze, un terrore  ben più angoscioso del  pensiero di esser rimasti soli al mondo, perché dalla solitudine si poteva sfuggire, il più delle volte,  la si poteva persino ingannare, mascherare.
La morte no.
Perché arrivava, e quando riusciva a raggiungerti, quando finalmente dimezzava la distanza dal passo svelto con il quale  si era cercato di seminarla, non la  si poteva scongiurare di aver un po’ di tempo più, di aver ancora molte cose da fare, creature da conoscere, bellezze da ammirare.
Arrivava e basta, ed era triste, lei, lo trovava triste, anche se era il corso naturale della vita,  anche se era giusto,  logico, normale, un destino che però  né a lei né a Loki sarebbe mai toccato.
E a volte, nel pensarci, Astrid non aveva saputo come reagire, come doversi sentire, se triste o felice al pensiero.
L’immortalità era qualcosa di agognato, di voluto, di desiderato, ciò per il quale l’uomo avrebbe barattato la propria anima, ma né lei né Loki avevano dovuto dar nulla in cambio, in verità.
Non lui che lo era  per eredità divina, non lei che lo era diventata  per decisione del fato, qualcosa che non aveva mai chiesto, né pensato.
Aveva tuttavia avuto modo di provare la morte, una volta, anche se le era stata imposta.
Perché l’aveva avuta quando non richiesta, era stata indotta più volte, ma quando era giunta,  quando anche lei, nel voltarsi, si era sentita cadere nel vuoto, quando  aveva  avuto l’occasione di essere come tutti gli altri, di morire, come tutti gli altri, aveva avuto paura.
Paura di non sapere il perché, il come, il dove stesse andando.
Paura del buio che l’aveva inghiottita, del silenzio che l’aveva turbata, del gelo che le aveva bloccato il corpo ma non il cervello, sveglio e angosciato dalla consapevolezza di non poter far nulla.
Non muoversi, parlare, o chiamare aiuto.
Aveva tentato di richiamare l’attenzione di  suo padre Bruce, di Pepper, di chiunque, ma era stata un sibilo, non una richiesta di aiuto quello che aveva sentito rimbalzare da una parte all’altra dell’abisso nel quale era affondata, e aveva saggiato il silenzio, e il vuoto,  un profondo  e annichilente vuoto che aveva sentito nello stomaco, e nel cuore, una sensazione di annientamento dalla quale,  per quanto forte si fosse gridato, per quanto veloce si fosse corso, nessuno sarebbe potuto sfuggire.
Nessuno.
Ma lei ce l’aveva fatta, ad uscire da lì.
L’avevano salvata, in verità,  perché qualcuno aveva sentito le sue urla, e l’aveva trovata in tutto quel buio.
C’era stato qualcuno ad afferrare la mano che aveva sempre tenuto tesa fuori dall’acqua ghiacciata nella quale era affondata, nella quale non aveva mai smesso di dimenarsi  nella speranza di essere salvata dalla solitudine, da quell’orribile silenzio nel quale neanche i suoi gesti isterici e agitati facevano rumore.
Ma l’aveva sentita attorno al suo polso,  e l’aveva vista tentare di farla risalire.
Una mano.
Grande, sporca di sangue, ma una mano, la sua mano.

Quella che stringeva delicatamente per rendere Loki consapevole della sua presenza mentre, piegata sulle ginocchia, rimirava l’incisione confusa delle due lapidi di pietra scura.
Le toccò ancora una volta, con gentilezza, seguendo la linea dolce delle lettere scavate rozzamente  mentre il volto burbero di Raul e il suo braccio stretto attorno alla  vita le ricordavano quanto gentile quell’uomo fosse stato con lei.
Un essere umano capace di guardare oltre il colore di pelle e di accettare quello che lei aveva sempre voluto essere.
Una ragazza in cerca d’amore.
Un desiderio semplice il suo, ma  la ragione della sua esistenza.
Lei che non era nata per amore, come spesso Pepper le aveva spiegato, ma per saziare il desiderio di sperimentare, di concepire qualcosa di grande, maestoso, potente, ma insensibile.
Perché era nata senza sentimenti, senza sapere cosa fosse la gioia, la paura, il piacere, ma solo il silenzio della propria mente, un’imperturbabilità per la quale si era scoperta desiderosa di capire il perché di quella sensazione di vuoto, di profondo silenzio.
Ed aveva scoperto il perché di tante cose. Il perché la sua pelle fosse così diversa, i suoi occhi così accesi, e la sua essenza così vacua, come un disegno abbozzato ma mai del tutto completato,  uno schizzo che però lei era riuscita a ricalcare, delineando i profili di ciò che era riuscita a costruirsi da sola.
Una famiglia.
Una patria.
E un amore.
- Sono sicura che sarebbero stati felici di vederti.
La voce giunse soffusa e inquietante dal fondo del terreno spoglio, ma quando la vide sobbalzare a quel modo Estela si trovò a nascondere un sorriso nostalgico nel pensare che Astrid, per quanto tempo fosse potuto passare, per quanto fiacca fosse divenuta la vista e roca la voce,  sarebbe stata sempre la sua “scoperta”.
E di tempo ne era passato tanto, per lei.
Perché ora c’erano rughe a segnare la pelle scura del suo viso, e dolori alle giunture oramai non così forti come un tempo, ma il sorriso non era cambiato.
Sempre aperto,  gentile, e semplice.  
Un sorriso che Astrid  ricambiò quasi subito, tornando in piedi e lasciando scivolare dalla mantella  i boccioli dei fiori che aveva  deposto sulle lapide dei genitori di Estela, un rito che ad ogni sua visita sulla terra non mancava di ripetere.
Perché non avrebbe mai smesso di ringraziare chi in lei aveva creduto, chi l’aveva protetta, aiutata, e amata, nonostante tutto.
Ed Estela era stata la sua maestra delle cose divertenti, la bambina verso la quale persino Loki, per quanto il pensiero di essere debitore di un altro essere vivente lo disgustasse, sapeva d’essere in debito.
Perché senza di lei non sarebbe rientrato in possesso del suo scettro e del cuore di Astrid.
Non avrebbe potuto smaterializzarsi nella fucina.
Non avrebbe potuto sconfiggere i Creatori.
Non avrebbe potuto salvare Astrid, nè se stesso.
Raggiungere le due figure costò all’umana ben  più di qualche breve pausa lungo il viale, ma ancor prima di poter rafforzare la presa sul bastone da passeggio per evitare la caduta ci fu una mano a sorreggerla, un palmo dal colore bizzarro e fluorescente che vide allacciarsi morbidamente attorno al polso in una presa ferrea ma delicata.
Fragile.
Estela lo era sempre stata, lo erano stati tutti quelli che Astrid aveva incontrato.
Fragili e bisognosi di aiuto, di amore,  ma ora, con la vecchiaia ad intorpidirle i muscoli e affaticarle la vista, lo era ancor di più ai suoi occhi.
Morire era triste, veder morire le persone care sapendo di poterlo evitare lo era ancor di più.
Faceva male, perché sarebbe bastato un suo cenno del capo per  rigenerare quella pelle ruvida al tatto, spianare le rughe, rinvigorire i muscoli e rafforzare le ossa, avrebbe potuto, avrebbe voluto, ma non le era mai stato permesso.
Lei, non glielo avrebbe permesso.
Perché Estela aveva  preferito  lasciarsi morire come ogni altro essere umano, come sarebbe dovuto essere, come lei non sarebbe mai riuscita a capire, ad accettare, non con la consapevolezza di non poter resistere ad un'altra perdita.
Non ancora, non dopo tutto ciò che aveva passato.
Non dopo aver perso sua madre, quella vera, quella che le aveva dato la vita e che forse, a dispetto di H’ava e Yehouda, aveva davvero voluto che lei imparasse quelle cose, che avesse una vita, che fosse felice.
Ed anche se Pepper era la sua madre umana, anche se l’amore di Bruce e di Tony le ricordava di avercela, una famiglia, sapeva che avrebbe fatto di tutto per riportare in vita Semjace, per renderla solida e non più spirito, così da poterla abbracciare e lasciare che i suoi artigli metallici le raccogliessero le lacrime.
Lacrime che le avevano rigato il viso tante di quelle volte da renderle ancora più salate, lacrime  per le quali aveva sentito la propria voce tremare e il proprio cuore spaccarsi al pensiero di poter impedire tutto quello, se solo glielo avessero permesso.
 E c’erano stati momenti in cui Astrid aveva  pensato di costringerla, di ridarle la giovinezza perduta per rendere se stessa felice, per essere egoista, per una volta, per salvare almeno lei, ora che ne aveva la possibilità,  ma poi aveva visto i suoi figli nascere, i suoi nipoti crescere, e l’orrore di quanto pensato l’aveva fatta crollare in ginocchio di fronte a quelle stesse lapidi per chiedere perdono.
Perdono per essersi arrogata un diritto che era di Estela, di ogni altra creatura,  quel libero arbitrio che una volta Loki aveva tentato di rubare all’umanità ma che lei, nel suo profondo desiderio di essere come loro,  non era riuscita a togliere.
Il diritto di scegliere.
Un diritto  che lei non aveva mai avuto, perché nata senza.
Persino Loki  lo aveva ricevuto, in quanto dio, in quanto uomo, in quanto essere vivente,   ma lei, lei non era stata voluta, né desiderata.
La sua sola esistenza era capitata per sbaglio, come un errore di calcolo che non può più essere cancellato.
Ed era, un errore, Astrid lo aveva accettato nell’apprendere l’ unico limite impartitole dal fato, il più orribile, il più crudele, forse per  vendetta di Yehouda, per il  rancore di H’ava, ma una condanna, la sua.
Dare sì la vita, ma a qualcosa che fosse già esistito, qualcosa che era stato precedentemente forgiato dai Creatori, gli unici a possedere il potere di creare dal nulla, mentre lei, lei  aveva ricevuto  solo l’orribile e patetica capacità di clonare  ciò che una vita aveva già avuto ma che, per sfortuna o destino, aveva poi perduto.
Il suo limite, il suo più grande dolore.
Perché l’aveva resa una donna difettosa, incapace di sentire la tensione del ventre,  la stanchezza delle mille notti insonni,  l’emozione di sentirlo piangere, ma capace solo  di provare  dolore e la sensazione di vuoto nelle mani che il tocco tiepido del palmo di Estela provò a colmare, strofinando le dita ruvide per tutto il palmo blu.
E si sforzò di sorridere, di mostrarsi forte, di convincersi che forse, il ricordo di aver voluto morire, di averci  provato davvero, di averlo voluto fino a credere di esserci riuscita venisse smorzato dalle mani intrecciate alle sue, quella che Loki stringeva tanto forte da far male, e quella che Estela carezzò con dita deboli ma gentili prima di  torcere il collo al fischio acuto appena saettato sulle loro teste.
Una nuvola di polvere si alzò da terra quando l’elivelivolo provò a riprendere quota dopo aver aperto il portellone d’entrata per permettere a qualcosa di uscire.
Qualcosa di grosso e verde alla vista del quale Astrid si ritrovò a sorridere sofficemente, alzando il viso per guardare la smorfia contrita di Loki che la teneva nascosta sotto il proprio mantello, così da difenderla dai detriti sospinti dal vento.
Persino Estela era riuscita a ricucirsi  un piccolo posto sotto il pesante tessuto nero, così da poter essere protetta a sua volta e seguire divertita l’arrivo di una scheggia rossa appena saettata nel cielo, in diretta collisione con la creatura dalla folta capigliatura verde petrolio.
Tony Stark liberò un rantolo sommesso  quando sentì l’armatura lanciare un grido isterico nell’attutire l’impatto del corpo estraneo che il rilevatore aveva appena fatto in tempo a scorgere, ma allo scienziato bastò quantificare la pesantezza dell’oggetto non identificato per convincersi che Barner aveva messo su qualche chilo di troppo in quell’ultimo anno.
Provò a scrollarselo di dosso con qualche acrobazia che presto lo avrebbe visto ripiegato su se stesso per gli acciacchi, ma le mani callose del mostro continuavano ad essere saldamente arpionate alle sue anche.
- Scendi.subito.dal.mio.scintillante.fondoschiena.
Un grugnito di sfida gli giunse come unica risposta mentre la distanza tra loro e il terreno si accorciava e la chiazza monocromatica del piccolo cimitero si tingeva di blu.
Un profondo e acceso blu per il quale Tony si trovò ad aguzzare la vista prima di sorridere debolmente e sventolare un braccio, in saluto, e quando vide Astrid alzarsi sulle punte per agitare le sue, di braccia, lo scienziato non potè che ammorbidire il viso e indurirlo poco dopo nel patire il primo pugno di Hulk sul suo povero cranio.
- Non si stancano di far sempre così?
Pepper “Potts”  si azzardò a lanciare uno sguardo incuriosito al sedile accanto al suo nell’udire il tono curioso del figlio, ma quando provò a distogliere l’attenzione dalla piccola stradina sterrata che stavano percorrendo per scoprire il soggetto della frase si convinse a riportare l’occhio sulla strada con un sorriso scanzonato.
- Non credo tesoro.
Marcus tese una smorfia nel sentire fin da lì il crack del casco del padre che dall’energumeno non sembrava riuscire a liberarsi.
- A volte mi viene difficile credere che quei due siano gli uomini più intelligenti della terra mamma – lamentò il ragazzo, tornando a posto con lo sguardo accigliato – credi che si siano accorti di noi?
- Sono troppo impegnati a darsele per far caso ad una piccola e innocua jeep come la nostra – lo avvisò pacata, sterzando per evitare una piccola buca.
Non che la strada non fosse già di per sé tanto dissestata da richiedere tutta la sua concentrazione, ma lei preferiva di gran lunga usare i vecchi mezzi di trasporto che usufruire degli appariscenti jet che Tony le aveva messo a disposizione.
Regali per i quali si era ritrovata più volte a storcere il naso, ripiegando sull’utilizzo di vecchie automobili datate ma sicure come carri armati, e quella piccola jeep in particolare le permise di superarli senza esser vista, o almeno, così aveva ingenuamente  creduto.
- Credo che ci abbiano visti – le sussurrò infatti il figlio, allacciando la cintura nel sentire il fischio acuto sopra la testa.
- Fedifraga!
- Ci hanno visto – tornò a sottolineare Marcus nell’udire l’urlo del padre – dai gas mamma! – la incitò ansioso, torcendo il collo per vedere con orrore la discesa del padre e di Hulk che pareva essersi calmato e che ora stava usando lo scienziato come tavola da surf.
Il ruggito del motore attirò lo sguardo delle figure accostate alle lapidi, e quando Loki vide Astrid tendersi verso l’umana con il viso e il corpo non potè che far scattare la mascella e rilasciare un profondo respiro mentre la presa attorno alla mano della compagna si allentava e lo sguardo si puntava minaccioso sull’uomo di metallo.
Frenare richiese più controllo del previsto, ma Marcus e la madre impiegarono poco tempo  per saltare giù e guardare la figura sottile di Astrid correre loro in contro.
- Mamma! – la chiamò lei con un sorriso nell’abbandonare il rifugio dalle braccia del compagno, aumentando l’andatura mentre Loki continuava a far altalenare lo sguardo da lei alla scheggia impazzita che pioveva giù dal cielo.
Sentirsi chiamare a quel modo causò in Pepper un moto di commozione che neanche dopo tutti quegli anni, per quante volte Astrid l’avesse rivestita di quel ruolo, sarebbe riuscita a smorzare.
Perché c’era tanto amore in quella piccola creatura, un amore che Astrid non aveva mai smesso di rivolgere a lei e ai suoi cari, non a Marcus, non a Tony, non a lei.
Ed essere amati da Astrid era appagante, perché quella piccola creatura dagli occhi di stelle e dalla chioma d’arcobaleno amava in modo assoluto, senza se, senza ma, senza quel bisogno di autoconservazione che portava gli esseri umani e l’uomo in genere a frenarsi un po’, a pensare più a se stessi che agli altri, alle proprie reazioni, ai propri dolori.
Ma lei non ragionava come gli umani.
Lei amava e basta.  
- Siamo fortunati. Non lo credi anche tu?
Estela non distolse lo sguardo dalla commovente scena quando sentì l’occhio di Loki puntarsi su di lei, uno sguardo spettrale che non riusciva a trovare la voglia di mostrare interesse per ciò che lo circondava, per lei, o per qualunque cose gli capitasse di guardare.
Eppure, c’era un ma anche per lui.
Un “ma” dal sorriso gentile e dallo sguardo infinito che molti di loro aveva reso un po’ più coscienziosi di quanta bellezza potesse esistere in una sola creatura.
Una beltà non d’occhi, non di labbra, non di arti sottili o spalle minute, ma un fascino che rapiva per la profondità di un’essenza con la quale, una volta venuti in contatto, si  riusciva a  credere che forse, vivere non era poi così terribile, che forse, il mondo non era così crudele, se aveva dato vita a lei.
E come Astrid non avrebbe smesso di ringraziare loro, così Estela che mai  avrebbe smesso di rivolgere al cielo la propria gratitudine per averla incontrata e per essere stata felice.
Perché la sua “scoperta” era la felicità.
Ne portava a chi non l’aveva mai avuta, la regalava a chi non ci aveva mai creduto, e la insegnava a chi non l’aveva mai imparata.
E l’uomo che la accostava, il dio tornato a fissare quel loro “ma” aveva imparato cosa la felicità fosse, e forse, persino a ringraziare per ciò che aveva ricevuto.
Perché Astrid sarebbe potuta nascere da qualche altra parte, come non sarebbe potuta nascere affatto.
Avrebbe potuto incontrare altre creature, amare altre persone, dare la felicità a qualcun altro, ma erano stati loro, a trovarla e amarla.

Ed erano fortunati, lo erano sempre stati.
Lo era Pepper che era diventata di nuovo mamma.
Lo erano Bruce Barner che aveva imparato ad amarsi un po’ di più, e Tony Stark, che a credere negli altri aveva deciso di impegnarsi, e persino lei, che aveva potuto vivere avventure e far parte di un disegno ben più grande di tutti loro.
Un disegno che Astrid aveva abbozzato amando di questo ogni sfumatura, ogni errore, ogni sbavatura.
E Loki sapeva di esserlo sempre stato, una macchia, la macchia che molti avevano scambiato per sporcizia ma che lei aveva pensato come ad un piccola ma graziosa opera d’arte.
Una meravigliosa opera astratta più volte fraintesa e scambiata per altro, ma mai per qualcosa di bello, di utile.
Quando la terra franò loro sotto i piedi Pepper si sentì tirare su da una stretta ferma e decisa mentre Astrid rimaneva allacciata a lei e un braccio verde si chiudeva attorno a loro, raccogliendoli tutti in un abbraccio scomodo e goffo nel quale Tony Stark si trovò ad agitare nervosamente i piedi che non toccavano terra per mostrare il proprio nervosismo.
L’identica e profonda tensione della quale Loki non riusciva a liberarsi, non con lei così lontana, nascosta sotto tutte quelle braccia che parevano volerla soffocare e far un po’ più loro, e un po’ meno sua.
E la paura tornò a farlo tremare, ad irrigidirgli le spalle e inspessirgli lo sguardo come placche di metallo sistemate l’una dietro l’altra, così da rendere la sensazione di angoscia un po’ meno soffocante, un po’ più anonima, meno sua, ma la sentiva comunque.
Perché imparare ad amare era stato difficile per chi come lui non aveva neanche ipotizzato di riuscirci, di scoprirsi bisognoso di qualcosa per la quale chiunque, persino Thor, sembrava disposto a rinunciare a tutto.
Lui che non aveva mai avuto niente da perdere, niente per il quale affannarsi, nulla da proteggere, ma ora che ce l’aveva, ora che sapeva di avere qualcosa sacrificare oltre se stesso, aveva paura.
Paura di perderla, di essere abbandonato e messo da parte come tutti, una volta capito l’orrore della sua natura, avevano fatto.
Perché lei aveva persone che la amavano, oltre lui, creature che, seppur inferiori, avrebbero fatto di tutto per proteggerla, per saperla felice, mentre lui, lui aveva lei.
Solo lei.
E a lei si era legato, anima, cuore e corpo, nella speranza di renderle impossibile vivere senza di lui, nel disperato tentativo di renderla dipendente da lui tanto quanto lui lo era da lei, così da sapersi indispensabile, così da sapersi voluto e desiderato come aveva sempre pensato fosse giusto.
Si toccò distrattamente l’orecchio, dita tremanti e nervose che avvolse attorno al cerchio di metallo del lobo, un’abitudine che Astrid gli aveva trasmesso quando si sentiva insicuro e desideroso di fare dal male a qualcosa, a qualcuno, a se stesso.
Un gesto impercettibile che persino l’umana accanto a lui non sembrò  cogliere, presa com’era dal sorridere raddolcita alla scena, ma qualcuno  a notarlo ci fu.
Quel qualcuno che pareva accorgersi  sempre del suo dolore nonostante il gelo del suo viso, o l’imperscrutabilità dei suoi occhi, quel qualcuno che vide voltarsi con attenzione, rivolgendogli uno sguardo silente che però sembrava bisbigliargli all’orecchio parole di conforto, di amore.
Gli sfuggì un sussulto sorpreso delle spalle quando la vide portarsi una mano all’orecchio, lì dove sapeva, le piccole dita di Astrid nascondevano un monile gemello del suo, il simbolo dell’appartenenza dell’uno all’altro, la prova di averla resa sua, di poter avere un po’ più di sicurezza per ciò che credeva fosse stato un errore.
Perché lui era stato il primo ad incontrarla, forse per destino, o forse per errore, ma lui li amava gli errori.
Perché lo era stato lui, lo era stata lei, lo erano entrambi.
Quando il rumore di passi coordinati giunse loro all’orecchio Estela dirottò lo sguardo alle proprie spalle, riconoscendo lo S.H.I.E.L.D avanzare tranquillamente per il piccolo campo abbandonato, ma si ritrovò a ruotare improvvisamente su se stessa quando percepì l’assenza del dio degli inganni attorno a sé.
E nel voltarsi lo ritrovò più in là, un po’ più distante dall’abbraccio di gruppo, ma pur sempre vicino, accostato a quella figura che lo guardava con dolcezza  prima di tornare a soffocare il viso nel petto di Pepper e dei genitori, ma non era stato il movimento del dio, a lasciarla con le labbra socchiuse per la sorpresa e gli occhi un po’ sporgenti.
Era stato un assenso che Loki pareva aver dato a se stesso, forse persino  alla domanda  posta da lei poco prima, ma pur sempre un’approvazione a quella fortuna della quale lei aveva investito ognuno di loro, persino lui, forse più di tutti.
Un’approvazione per la quale si trovò a sorridere debolmente in seconda fila,  mentre Nick Fury arcuiva un sopracciglio alla visione dell’abbraccio comune e dello sguardo tetro del dio, una scena dalla quale distolse lo sguardo per portare l’attenzione sulle lapidi dei suoi genitori.
E forse, si ritrovò a pensare, quel bisbiglio concitato poteva esser stato un’illusione, la conseguenza dell’anzianità che oramai poteva averla resa un po’ sorda.
Perché non accadeva spesso che il dio degli inganni approvasse il pensiero comune, figurarsi quello di un’umana.

Eppure Estela non potè che sorridere a se stessa e alle lapidi, lasciando su queste una carezza spensierata e delicata prima di riportare lo sguardo su Loki e darsi ragione.
Perché vecchia, per quelle cose, non lo era ancora.



Continua…

Ringrazio tutti per la lettura e l'attenzione.
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes

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Capitolo 3
*** 3 - Restless ***


Capitolo 3
“She embraced, with a smile
As she opened the door
A cold wind blows,
 it puts a chill into her heart “
[…]
Take my hand as I wander through
All of my life I gave to you
Take my hand as I wander through
All of my love I gave to you “

 (Restless- Within Temptation)




Mescolarsi agli umani gli era sempre risultato particolarmente ostico,  bastava il solo pensiero a generare in lui  disgusto e  raccapriccio.
Fin dal suo primo respiro di aria inquinata e aspra inspirata, Loki aveva infatti capito di aver scelto un mondo abitato da creature inferiori, dall’intelletto limitato e da una moralità che il più delle volte erano loro stessi a metter  da parte per un bene maggiore.
E lui glielo aveva dato, quel bene  maggiore, un motivo per  il quale unirsi sotto un’unica bandiera e scoprire che essere governati era nella loro natura mentre   la sua, al contrario, era sempre stata quella di comandare.
Mondi.
Umani.
Giganti di Ghiaccio.
Ogni creatura era predisposta al suo dominio, a sottostare alle sue leggi, a chinare il capo di fronte alla superiorità del suo intelletto e dei suoi poteri divini, eppure, c’erano volte in cui Loki, dall’alto del suo ruolo di tiranno e Re senza pietà né comprensione, veniva spinto giù da un malessere che lo rendeva quanto e forse più impotente degli umani stessi.
Ed era il viso turbato di Astrid, in quel momento,  a lasciarlo inerme lì, accanto a lei, con l’occhio buono catturato dall’ombra di un sorriso che lentamente, parola dopo parola, aveva visto spegnersi fino a diventare il fantasma di una serenità che in lei non trovava più.
- Quindi lo avete già incontrato ? – chiese Nick Fury  con voce tetra, quasi a ricordare a se stesso che fosse oramai consolidato che il loro pianeta fosse divenuta meta turistica di mostri spaziali.
Astrid scostò gli occhi dalle mani strette in grembo con aria tesa,  riportando l’attenzione sul fotogramma che il capo dello S.H.I.E.L.D aveva mostrato a lei e agli occupanti delle sedie accanto alle sue.
Era un’immagine sfocata, ma la scia d’energia rilasciata dalla creatura era troppo familiare per non far aggrottare pericolosamente le sopracciglia di papà Bruce e di Tony.
Un’aria crucciata che l’aveva fatta irrigidire per l’ansia di non poter sbrogliare la matassa di ipotesi che, molto probabilmente, elaboravano ogni secondo.
Perché, qualunque domanda le avessero posto, qualunque quesito le avessero rivolto, lei non avrebbe saputo cosa rispondere.
Avrebbe potuto però confermare il sospetto che increspava il viso di suo padre, ma ogni qual volta schiudeva le labbra per rivolgergli la parola, non riusciva a trovare nè la voce, né il coraggio di dire .
Non ci riusciva, non ne aveva la forza, e non perché temesse una loro reazione, ma perché quel pensiero spaventava anche lei.
Il pensiero di aver trovato qualcuno come lei, qualcuno che emanasse un’energia distruttiva tale da disintegrare la materia e mutare le sorti di una civiltà, di un mondo, dell’universo, del pianeta che lei si era ripromessa di difendere.
Provò ancora a farsi coraggio, facendo scattare la mano verso l’orecchio destro che richiuse fra pollice e medio, sfiorando distrattamente l’orecchino che pareva assorbire il suo calore corporeo, prosciugandola dal sudore che, se avesse continuato a incupirsi ancora, le avrebbe imperlato la fronte.
Ma nuovamente, non riuscì a sillabare una parola.
 Rimase muta, con le labbra socchiuse e lo sguardo incatenato al profilo sfuggente dell’uomo di metallo che, dopo tanti anni, le aveva ricordato un nome che aveva sempre tentato di dimenticare e seppellire assieme ai ricordi più tristi della sua storia.
- Se necessario useremo i Giganti di Ghiaccio come difesa.
Loki potè quasi sentire sotto le dita la pelle del viso di Astrid perdere calore, ma tacque l’agitazione di sapersi responsabile dell’angoscia della compagna quando seppe di essere nel giusto.
Lo era, sapeva d’esserlo, ma ciò non gli impedì comunque di distogliere lo sguardo per non vedere l’orrore negli occhi della compagna.
E lei lo era, orripilata da una possibilità che non avrebbe mai potuto essere concepita in nessuno caso,  ma una possibilità che Loki aveva invece espresso senza l’ombra di emozione, come se la consapevolezza di aver proposto il suo popolo come scudo difensivo dal nuovo pericolo non lo avesse minimamente toccato.
Ma toccava lei.
Perché quelle creature, seppur a lei avverse, ostili e recalcitranti, avevano il suo affetto.
Lo aveva Sunniva, lo avevano i piccoli cuccioli che  avevano imparato ad amare il calore insolito del suo corpo più che respingerlo, gli unici figli che avrebbe mai potuto avere.
Lo aveva quel pianeta che era diventata la sua seconda casa, una casa da proteggere, da difendere, non da sacrificare.
- No.
Lo scatto isterico della mascella del dio portò Bruce a muoversi nervosamente sulla sedia mentre un velo d’ansia frusciava tra i presenti, un’ inquietudine che Tony, contrario ad ogni forma di pessimismo cosmico, tentò di smorzare a suo modo.
- Credo di riuscire a gestire una statuetta degli oscar rivestita di carta stagnola.
- Il signor Stark ha ragione Astrid – lo appoggià Nick Fury, non riuscendo comunque a non tendere una smorfia nel comprendere di aver appena gonfiato l’ego dell’eroe – più di una volta ci siamo dimostrati sufficienti a respingere gli attacchi alieni.
- E poi non dimenticare che abbiamo Hulk – tornò a sottolineare lo scienziato, strizzando l’occhio al dottor Barner che però pareva far caso solo al pallore del viso di sua figlia.
Perchè Astrid non era tipo da spaventarsi facilmente, Bruce lo sapeva, perciò, il  vederla  turbata a quel modo lo rendeva cosciente che il pericolo, quella volta, superava di gran lunga le loro aspettative.
Persino guardandola  sua figlia sembrava urlargli  che non ce l’avrebbero fatta, che quello che stavano per affrontare era qualcosa di così orribile da scuotere anche lei.
Perché ciò che aveva deciso di invadere il loro pianeta, ciò che aveva reso lei così preoccupata e loro così ansiosi era un essere con le sue stesse potenzialità, lo aveva capito lui,  l'aveva capito l’altro nel riconoscere lo sciame di radiazioni gamma disperso dalla  strana creatura, lo aveva compreso anche Tony, ma se l’uomo non riusciva ad esprimere la propria agitazione, lui  era ben lungi da fingersi ignorante, in quel momento.
- Non basterà.
- Come?
Astrid fissò il viso di suo padre con ansia, indurendo lo sguardo nel guardare il fotogramma e la creatura.
- Non basterà – ripetè ancora, e persino Pepper fino ad allora rimasta silente non potè che agitarsi sulla sedia prima di  lanciarle uno sguardo inquieto.
- Cosa non basterà tesoro? – si convinse a chiederle, sebbene la paura di conoscere già la risposta le avesse fatto tremare la voce.
Astrid non rispose subito, prese del tempo, per se stessa, e per ciò che sapeva di dover fare, di dover dimostrare loro così da mettere la sua famiglia di fronte alla realtà, un’orribile realtà che lei per prima non voleva accettare, ma era sua responsabilità difenderli tutti, lei che ne aveva il potere.
 Un potere che se fosse stato davvero comparabile a quello del loro nemico, come temeva, avrebbe richiesto ben più di un pugno di eroi, quella volta.
E aveva paura.
L’aveva avuta la prima volta chi si era vista davvero, la prima e unica volta che si era data la possibilità di “cadere”.
Ma non era stato come guardarsi allo specchio, perché non ci sarebbero stati specchi abbastanza grandi da contenere la sua immagine, e quando era caduta, quando si era lasciata implodere, ciò che aveva visto l’aveva atterrita.
- Tutto – si arrese a bisbigliare nel tornare a guardare in viso suo padre e chi, in quel momento, si accorse con una nota di panico che la stanza, i mobili, cominciavano a sbiadire.
- Non contro questo.
Quando il pavimento scomparve loro sotto i piedi Pepper non potè che lanciare un urlo spaventato mentre l’agitazione tornava a farli trasalire nel notare come il  nero cupo che aveva appena inghiottito il pavimento tornasse loro in contro, un abbraccio di morte che li abbandonò, con angoscia, in un  immenso abisso monocolore, una distesa di buio nel quale, per un attimo, rimasero tutti immobili, e silenti, spaesati,  prima di riuscire a vederla.
Luce.
Minuscoli pulviscoli di luce che puntellavano il pavimento e il soffitto come un cielo stellato, ricoprendo ogni cosa, ma non gli angoli.
Perché non ce ne erano, da nessuna parte.
 Era in un corridoio infinito proiettato verso il nulla, ciò che li aveva inghiottiti, un tunnel  che non sembrava avere nè un inizio, né una fine se non  un centro, ed era davanti a loro, quel centro.
L’unico punto in cui il bagliore diveniva così acceso, così accecante da far male agli occhi, e dovettero tutti schermirsi il viso per riconoscere il profilo di un viso  che portò Bruce a sgranare gli occhi per l’incredulità con un bisbiglio sommesso.   
- Cosa diavolo è ? – sibilò Fury, l’occhio serrato per non essere accecato dalla luce.
- Astrid.
- Come? – saltò il capitano dello S.H.I.E.L.D nel sentire la voce di Loki soffiargli sul viso, come se fosse poco lontano, ma allo tempo irreale, impalpabile come un fantasma.
- Astrid. Tutto ciò vedete intorno a voi è Astrid – tornò a ribadire il dio, accostato alla figura che solo lui poteva guardare senza rimanerne folgorato, perché era una luce alla quale i suoi occhi si erano abituati, un bagliore che, se avesse allungato le mani, avrebbe  visto raggrumarsi attorno al suo palmo come fiamme.
Lingue infuocate che però non l’avrebbero bruciato, né ferito, non lui, non chi avevano imparato a riconoscere e ad amare.
Perché  Astrid era tutto quello.
Cielo, terra, aria e fuoco, non c’era limite a ciò che potesse diventare, essere.
Energia, pura e semplice energia che  nessuno mai era riuscito a controllare, o ad aver per sé.
Ma lui l’aveva.
Poteva controllarla, poteva toccarla senza temere di esserne annientato, guardarla, senza timore di venirne accecato, stringerla, senza aver paura di sentirla svanire dalle  braccia che al suo tocco sarebbero rimaste ustionate.
Perchè Astrid era sì impalpabile, sfuggente come un sogno, ma capace di raggrumarsi tra le sue braccia, se glielo avesse chiesto, e non potè fare altrimenti quando colse il rammarico nei suoi occhi policromatici, la preoccupazione per quegli esseri umani che, sebbene non fossero spaventati da lei, non riuscivano a non provare timore per tutto quello.
Quando la luce smise di sfrigolare Nick Fury sbattè le palpebre più e più volte, disorientato e non ancora abituato al chiarore delicato della stanza, ma era di nuovo nella sala informatica dell’elivelivolo, con delle pareti a confinare il loro spazio e un tavolo sul qual reggersi per riprendere l’equilibrio.
Anche Bruce impiegò qualche secondo a capire di essere nuovamente seduto su qualcosa che non fosse il nulla, e fu con preoccupazione che cercò intorno a sé la figura di sua figlia.
Ma quando non la trovò lì dove l’aveva lasciata, sentì l’orrore fargli tremare le pupille e l’altro cominciare a ruggire per l’angoscia prima che un colpo allo stinco lo convincesse a guardare in cagnesco Tony Stark.
- Se cerchi la piccola è lì, perciò non osare fare lo psicolabile perché non ho nessuna intenzione di farti da analista in questo momento – gli berciò contro lo scienziato, indicando col mento l’angolo della stanza dove l’ombra cupa di Loki inghiottiva una figura più minuta e luminosa, dallo sguardo rammaricato.
- Bene – cominciò Fury con stanchezza, massaggiandosi energicamete le tempie – credo sia il caso di darci la possibilità e il tempo di assorbire questa notizia, ma vi voglio pronti per le otto in punto. Ci stiamo dirigendo a New York  per incontrare il dottor Reed Richards. Pare che lui sappia dove colpirà il nostro amico. Potete andare a riposare.
Le smorfie pensierose degli eroi lo convinsero a congedarli senza altre parole, perché nessuno di loro le avrebbe ascoltate davvero, non dopo la portata di quanto visto.
Perché, se davvero il nuovo nemico della Terra poteva disporre di un simile potere, se davvero l’entità sconosciuta aveva solo un minimo di quelle capacità, allora avevano bisogno di riposare un po’ prima di decidere quale divinità pregare per ricevere un po’ di fortuna.



°°°

 



    
- Ripetimelo ancora una volta tesoro, credo di aver capito male, sai, l’età.
‘Cretino!
 Pepper avrebbe voluto urlarglielo nell’orecchio a pieni polmoni, ma si costrinse ad essere più matura di quell’idiota che aveva capito, aveva capito benissimo, solo che faceva lo gnorri per dispetto e  continuava a fissarla con uno sguardo obliquo dall’uscita dell’hangar.
Non che l’espressione di Bruce fosse migliore di quella dello scienziato, ma il dottore era fin troppo educato per mostrarle apertamente  la propria contrarietà, una carineria della quale Pepper si accontentò, tornando ad indicare col braccio la figura seminascosta nell’ombra di un aereo.
- Andate da lui.
- Continuo a non capire.
- Cosa c’è da capire? – sbraitò esausta, allargando le braccia in un gesto di insofferenza – dovete.andare.da.Loki. – sillabò contrita, ricercando nello sguardo del dottore un po’ di sostegno, ma per quanto dolce e pacato l’uomo fosse, l’idea di rivolgere la parola al dio degli inganni lo infastidiva, figurarsi andare a ricercare di propria iniziativa un confronto verbale con lui.
Non che Bruce non fosse un uomo che preferiva il sano dialogo al mutismo ostile, ma c’era qualcosa in Loki a lasciarlo sempre un po’ perplesso.
Perchè si sentiva sconfitto già in partenza, ancor prima di aprir bocca, una reazione ovvia la sua visto che  quello con cui tentava di instaurare un rapporto era pur sempre il dio degli inganni, e per quanto intelligente fosse, ne sarebbe uscito sempre perdente, in un modo o nell’altro.
- Ma io non.ci.voglio.andare – puntualizzò Tony con sarcasmo, incrociando le braccia al petto e imbronciando le labbra.
Una reazione per la quale la donna si trovò a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani.
- Sei o non sei il padre di Astrid?
Lo sguardo inviperito con il quale Bruce sembrò tornare in sé riuscì a strapparle un sogghigno, ma lei mirava a pesci più grandi, e ora il cetaceo più grande e stupido aveva appena abboccato all'amo.
Perché Tony Stark non era tipo da gabbare facilmente, ma se c’era un modo per attirarne l’attenzione era senza dubbio mettere in dubbio le sue qualità come leader, e ovviamente, dubitare anche solo lontanamente la paternità di Astrid.
- E questo cosa diavolo c’entra ora? – berciò incattivito, aggrottando le sopracciglia.
- C’entra visto che Astrid è tua-vostra figlia – si corresse subito nel cogliere il lampo di frustrazione nello sguardo del dottore – ciò fa di voi i suoceri di Loki.
Ridere avrebbe rovinato l’estenuante opera di convincimento che stava portando avanti, ma Pepper non riuscì a nascondere un risolino divertito nel vedere i due uomini, gli eroi d’America, rabbrividire all’unisono e trasalire come se li avessero punzecchiati con un forcone.
Ma era puro e semplice raccapriccio quello che arricciava il naso di Tony Stark e irrigidiva le pupille del dottor Barne, un profondo e per una volta, comune orrore per una possibilità che non aveva mai sfiorato nessuno dei due.
La risata però scoppiò, e non nel petto della donna, come ci si sarebbe aspettato, ma in quello che lo scienziato colpì con un pugno per ritrovare il fiato mentre ricercava la stessa sprezzante ironia sul viso del compagno.
- Hai sentito Barner? Suoceri . Potts dice che io e te saremmo i suo-suoc- si umettò le labbra più volte per riuscire a dare la perfetta intonazione derisoria – suoceri di quello lì  – ed indicò il dio immobile nell’identica posizione di poco prima.
Bruce stiracchiò un sorriso così, per renderlo contento, non per  vero e proprio spirito di solidarietà.
- Io e te – continuò a cinguettare – suoceri di quello lì, hai capito? – cercò anche di pungolarlo con il gomito prima di torcere il collo verso la moglie e tendere un sorriso sprezzante.
- Ora mi dirai anche che quello lì ed Astrid sono sposati.
Pepper potè  quasi vedere il povero dottore sbiancare di colpo alle spalle del marito mentre un filo di sudore freddo cominciava a imperlargli la fronte, ma lo scienziato non sembrava riuscire a fermarsi.
- No Barner? – tornò a punzecchiarlo Tony, il viso voltato per metà così da riuscire a cogliere la sua reazione – te lo immagini? Astrid, la mia Astrid, moglie del dio degli inganni, non lo trovi divertente?
Ma il dottore non rideva, non sorrideva neanche, pareva invece spaventato da lui e dallo sguardo che lo scienziato aguzzò istericamente nel subodorare qualcosa di orribile.
Una scia che sapeva di menzogna e di un terrore freddo che ora rendeva Barner incapace persino di muovere un muscolo senza sembrare spiritato.
- Non lo trovi divertente Barner?
Un guizzo isterico delle palpebre tradì il suo nervosismo, la tensione che lo scienziato acuì nel tendere un sorriso che ora pareva essere un po’ meno divertito e un po più cattivo.
- Hai visto tesoro, il dottor Barner non lo trova divertente – sibilò, rivolgendo uno sguardo distante alla moglie prima di ritornare su di lui – e come mai? Forse perché sa qualcosa che io non so?
Altro guizzo isterico, altra ruga d’espressione attorno gli angoli della bocca che ora Tony Stark teneva tanto tesi da farlo sembrare un invasato.
- E quale oscuro segreto mi tiene nascosto secondo te? Qualcosa di così agghiacciante da aver paura di condividerlo con il suo più vecchio e caro amico.Perché  siamo amici io e te, non è vero Bruce?
Ma pareva completamente terrorizzato, il povero Barner, un orrore che Pepper preferì smorzare per dargli un po’ di respiro e far capire a Tony, una volta per tutte, ciò che era ovvio a tutti meno che a lui.
- Credevi davvero che non avrebbero fatto il grande passo tesoro?
Tony Stark non era un uomo pauroso, glielo impediva l’aria da belloccio e quel sorriso scanzonato che smorzava la sua indole acida e suscettibile, ma in quel momento era tanto brutto da far spavento con tutti gli zigomi tirati e le pupille pulsanti orrore e fastidio.
- Lo-
- Lo sapevi anche tu ? – lo precedette Bruce con aria sorpresa, attirando su di sé l’occhiata allucinata con il quale lo scienziato lo fucilò prima di guardare la moglie e rantolarle un “donna” piuttosto minaccioso.
- Anche? Cosa diavolo significa anche tu, Barner? Da quanto lo sai? Perché non me lo hai detto? Perché diavol-
- Per lo stesso motivo per il quale io non l’ho fatto tesoro. Sei consapevole di stare delirando vero?
- Delirando? – gracchiò l’uomo con la gola secca e la mano pressata sul petto – credi che io stia delirando? Io?
- Si, perché ti stai innervosendo senza motivo?
- Senza motivo! Donna! Fai attenzione a quello che dirai oppure io-
- Io cosa Tony – lo riprese piccata, alzando il mento in segno di sfida – stai solo facendo i capricci, e solo perché l’idea che Astrid sia cresciuta non ti va giù.
- Non è vero, non è solo per questo.
- E allora perché?
- Perché- perché … lui non mi ha chiesto il permesso!
La smorfia attonita con la quale Pepper si trovò ad accogliere la sua giustificazione sembrò rendere Tony ancora più folle, uno squilibrio mentale che catalizzò sull’ombra immobile del dio, un profilo verso il quale caricò con le narici frementi prima di sentire le urla della moglie e il richiamo concitato di Bruce.
Quando cadde riverso a terra Tony Stark si trovò a strizzare gli occhi con un gemito di dolore mentre i passi frettolosi di Bruce e Pepper lo avvisavano dell’immediato soccorso rivoltogli, tuttavia, anche quando lo raggiunsero preferì rimanere disteso a rimirare il cielo con il viso ancora arrossato per lo schianto contro il muso dell’aereo.
Perché si era gettato contro un’illusione, un vecchio trucco che avrebbe dovuto cogliere, capire, ma per il quale, nella foga del momento, non era riuscito a captare.
Ed eccolo lì, disteso per terra con il naso probabilmente fratturato e la rabbia sfumata per una realtà che aveva in realtà ipotizzato, ma non accettato, dopo tutti quegli anni.
Forse l’aveva sempre saputo, perché lui era un genio, e i geni non si lasciano sfuggire nessun particolare, non il modo in cui Astrid pareva tenere al proprio orecchino, non la presenza di un monile identico sul sinistro di Loki.
Ma capire e accettare non andavano di pari passo, e forse, arrivati a quel punto, avrebbe dovuto accettare la cosa, capire che Astrid era davvero cresciuta, avrebbe dovuto, ma non voluto.
E non lo volle, si limitò infatti ad alzare un pugno in aria e urlare il proprio malumore nella speranza di irritare il dio degli inganni e avvertirlo del pericolo imminente che lui avrebbe presto rappresentato per lui, ma Loki non si diede pena di quelle urla, o delle minacce di morte, non ora che la stanchezza stava assalendo anche lui.
- Non crede a tutte le cose brutte che ha detto, sai?
Loki riaprì gli occhi con un gesto annoiato, ma quando la sentì muoversi tra le sue braccia non potè che inclinare il collo e ritrovare la compagna  con il naso all’insù, gli occhi sgranati per rimarcare la foga della sua confessione.
- Tony - gli spiegò tranquilla – non pensava tutte le cose brutte che ha detto su di te sai? Credo solo che sia un po’ nervoso –  e gli si strinse un po’ di più, cingendogli la vita per affondare il viso contro il suo collo prima di continuare a parlare -  e le persone dicono cose che non pensano quando sono nervose, l’ho letto in un libro molti anni fa.
Gli sfuggì un sorriso obliquo nel sentirla strofinare il naso contro il suo collo, un contatto che oltre a trasmettergli l’elevato calore corporeo della compagna, pareva convincere la palpebra a schiudersi un po’ più dolcemente nel tornare a riposare lo sguardo.
Ed avevano bisogno entrambi di riposare, perché ciò che li avrebbe attesi il mattino seguente avrebbe richiesto un dispendio di energie che Loki avrebbe voluto spendere per altro che per far da balia a quegli irritanti Avengers, ma Astrid non li avrebbe abbandonati, e lui, conseguentemente,  non avrebbe abbandonato lei.
Non nelle mani di incompetenti che non avrebbero saputo proteggerla a dovere, non ad un pugno di umani che minimizzava il pericolo imminente, una minaccia alla quale il dio degli inganni avrebbe potuto dare le spalle e fingere ignoranza, fintanto che la minaccia non avesse colpito lui, eppure, indirettamente, lo aveva fatto.
Perché era una concatenazione di eventi che non avrebbe potuto manipolare, né  rigirare a suoi piacimento, non se erano i sentimenti di Astrid ad aver azionato quel meccanismo.
Un meccanismo del quale lui stesso era venuto a far parte, divenendo uno degli anelli della catena che Astrid non sapeva di avere tra le mani, per nulla consapevole di poter allentare la presa e generare più  dolore di quanto si sarebbe mai aspettata.
Il dolore degli umani, che di lei si erano profondamente innamorati, e il suo, di dolore, quello che Loki sapeva di non poter reggere, non quel tipo di disperazione, non la sua, di perdita.
Non avrebbe potuto, semplicemente.
E non per la dipendenza che oramai lo rendeva schiavo di ogni sua minima smorfia, sorriso o lacrima, ma perché non avrebbe retto, non lo avrebbe fatto il suo cuore, o ciò che ne rimaneva, un ammasso informe che singhiozzava a stento e che di quel calore pareva nutrirsi per rimanere ancora in vita.
Perché Astrid lo era per lui.
Una vita.
Quella che non aveva mai creduto di poter avere, quella che mai nessuno gli aveva dato l’occasione di costruire, perché rinnegato, respinto, abbandonato, e dimenticato, ma lei non l’avrebbe mai respinto o scordato, non lei che lo amava così tanto da fargli paura.
Una paura sciocca la sua, ma ovvia per chi come lui  non aveva mai avuto nulla se non vuoto e silenzio, attorno a sè,  un profondo e gelido silenzio del quale ora ne aveva quasi perduto il ricordo.
Perché c’erano risate a tintinnare nella sua testa, e una voce che non smetteva mai di ripetere il suo nome come una cantilena che gli ricordava che lei c’era, che non era solo, che alla fine, qualcosa di buono lo aveva fatto, ed era stato salvare lei, solo lei, da un annientamento che lui avrebbe potuto accettare  se fosse stato il suo, o quello dell’universo stesso.
Il respiro di Astrid era stato uno dei primi suoni verso i quali avesse mai  imparato a nutrire una profonda ossessione, un bisogno viscerale, un desiderio tanto  folle da averlo portato ad aver  bisogno di sentirlo sempre contro di sé.
Sul viso, sulle palpebre chiuse che lei amava baciare con delicatezza, su quell’orribile  cicatrice che percorreva anche con le dita e con gli occhi in una carezza lieve, ovunque, ma su di lui, vicino, a lui.
Perchè lo  aveva amato fin dal primo istante, da quando quella piccola e strana creatura fluorescente aveva trovato rifugio tra le braccia ammanettate e quella maschera di metallo che nella prigione gli aveva più volte impedito di gettare orribili maledizioni su Asgard.
E quando, notte dopo notte,  lo aveva sentito infrangersi  dolcemente sul proprio collo, con delicatezza,  aveva trovato impossibile addormentarsi senza avere la sicurezza di averla lì dove la sua testa aveva deciso infine che lei sarebbe dovuta stare.
Con lui.
Tra le sue braccia.
Sempre.
Ed era stato stupido, era stato infantile, ma era stata la prima ricorrenza che lui avesse mai potuto chiamare “abitudine”.
E lui, di abitudini, non  ne aveva mai avute. Ma ora, ora aveva imparato ad abituarsi a tante cose, al calore di quel corpo che si ritrovò a stringere un po’ di più nel patire uno spiffero un po’ più freddo, e alla consapevolezza di essere amato.
Profondamente e, con suo profondo stupore, incondizionatamente.
Lui che di incondizionato aveva avuto solo l’odio altrui, ma Astrid, Astrid era la sua abitudine.
Un’abitudine dalla quale non avrebbe mai voluto, nè  sarebbe mai riuscito a stancarsi.
 








°°°




L’andirivieni dell’uomo poteva apparire  snervante, ma le prassi andavano rispettate, e Nick Fury non era uomo da saltare le accurate ispezioni del proprio equipaggio, in nessun caso, a maggior ragione se fra i suoi uomini ritti e seriosi poteva scorgere il profilo annoiato di un miliardario con manie di protagonismo, un dottore con la tendenza a perdere il controllo e distruggere i suoi nuovi aerei da combattimento, e la piccola e graziosa creatura dall’incarnato oltremare che gli sorrideva cordiale tra i due.
Fury amava le persone  carine ed educate, una predilezione della quale nessuno, a parte Maria, era a conoscenza, e l’aliena che ricambiava il suo sguardo con pacatezza era forse l’essere più gentile e di buone maniere con il quale fosse mai venuto in contatto, il che era tutto dire visto il miliardo di esseri umani con i quali aveva avuto a che fare.
Eppure, c’era qualcosa di profondamente rassicurante in lei, un’affabilità che più di una volta l’aveva sorpreso piacevolmente, ma per quanto cordiale e garbata Astrid fosse, rimaneva il fatto che Nick Fury, capitano dello S.H.I.E.L.D, aveva il compito di essere discreto e di mantenere un certo riserbo riguardo alle proprie missioni, e quella, ovviamente, non sarebbe potuta essere né discreta, né riservata.
Non se la sua squadra contava personaggi tanto eccentrici, e non se una di loro poteva vantare uno sguardo che, se si ci fosse soffermati a guardarlo un po’ di più, avrebbe potuto mostrar loro una parte di quelle galassie che la giovane racchiudeva nelle iridi.
Uno spettacolo stupefacente, certo, ma che dava nell’occhio, e quello Nick Fury non lo desiderava affatto.
Quando Astrid vide l’uomo fermarsi davanti a lei non potè che alzare il viso per riuscire a guardarlo bene in volto e capire il perché dell’aria crucciata che continuava a deformargli il viso.
Un paio di sopracciglia aggrottate che su di lei parvero infossarsi ancora di più, dando all’occhio acuto dell’uomo un chè di preoccupante.
- Qualcosa non va signor Fury?
Così educata.
L’uomo si trovò a tendere un sorriso gentile nel sentirla appellarsi a lui con quel ‘signore che su quella piccola bocca colorata dava ancora più importanza ad una forma d’educazione piuttosto comune.
Ma era il Tesseract, la fonte di energia più potente dell'universo ad averlo chiamato ‘signore, e avere quel rispetto da parte sua era già di per sé un vanto.
- Non vorrei essere indiscreto – cominciò pacato, sentendo  su di sé l’occhio pungente con il quale il dio degli inganni lo stava fissando, indurirsi – ma credo che la tua conformazione fisica darà nell’occhio una volta scesi in strada – si arrese a spiegare, sperando davvero di non averla offesa con quella che molti avrebbero scambiato per una discriminazione, ma Astrid era fin troppo intelligente e acuta per travisare le sue intenzioni.
E infatti annuì conciliante, capendo il perché di quella constatazione volta non a sottolineare la sua diversità, ma a informarla che si sarebbe diffuso il panico se gli abitanti di New York l’avessero vista, e riconosciuta.
Perché nessuno aveva dimenticato, non il suo sacrificio che lo S.H.I.E.L.D. non aveva potuto tenere segreto alla popolazione mondiale visto che il mondo intero aveva potuto assistere  alla propria fine scampata, non al perché della sua presenza lì, sul pianeta.
Pericolo.
L’avrebbero pensato in molti, temuto in troppi se mai l’avessero vista passeggiare per le strade, e capiva che ora come ora, con la minaccia imminente ma non ancora del tutto identificata, era meglio mostrare riserbo.
- Capisco – convenne comprensiva, decidendo  di inclinarsi in avanti per incrociare lo sguardo che Loki, nel vedere la chioma policromatica della compagna oscillare morbidamente nel vuoto, si trovò a spostare su di lei e sul sorriso che gli stava rivolgendo – credo però che non ci sia problema, Loki può rendermi un po’ meno appariscente.   
Ovvio.
Nick Fury si diede dell’idiota ancor prima di trovarsi a cogliere il lieve annuire del dio prima di notare con la coda dell’occhio un movimento sospetto alla sua destra, lo scatto repentino che anche qualche soldato si trovò a guardare con curiosità.
Tony Stark non sembrò far caso al fare scocciato con il quale il capitano dello S.H.I.E.L.D. si costrinse a prestargli attenzione, al contrario, si trovò a sorridergli con quel viso stanco e segnato dalle occhiaie che aveva informato molti di loro sulla notte insonne passata dallo scienziato.
E Pepper sapeva per esperienza che il marito, se non dormiva, costruiva, e se costruiva qualcosa, di sicuro quel qualcosa non era niente di sicuro, né di normale.
- Si, signor Stark?
In quel caso, il ‘signore era palesemente ironico, ma l’uomo non parve indispettirsi, una mancata reazione per la quale Pepper e persino Bruce Barner si trovò ad aggrottare le sopracciglia per rivolgerli uno sguardo cupo.
- Io avrei un’alternativa.
- E quale sarebbe?
Il tintinnio portò molti di loro a tendere un po’ di più il collo per capire cosa lo scienziato avesse appena allacciato attorno al polso di Astrid, ma a dispetto della comune aspettativa di trovare qualcosa di orribilmente pacchiano e appariscente, ci fu la semplicità di un grazioso bracciale d’argento a incuriosire ancor di più.
Un monile che Astrid guardò deliziata, sorridendo apertamente nel notare i delicati ghirigori che si intrecciavano tra loro per ricalcare le sagome di fiori.
- Ti piace ?
Bastò il fermo annuire della sua bambina a farlo andare in brodo di giuggiole mentre Nick Fury continuava ad altalenare lo sguardo dal grazioso oggetto all’aria sognante dello scienziato.
- E questo sarebbe l’alternativa? Un bracciale.
Lo sguardo sprezzante con il quale Tony Stark sembrò tornare in sé indispose non poco l’uomo con la benda.
- Non avrei mai costruito solo un bracciale, le pare? – lo rimbrottò innervosito, allungando una mano per afferrare il polso sottile di Astrid e pigiare delicatamente un piccolo rialzo sul monile, impossibile da notare ad occhio nudo.
Si udì un lieve scatto, come di una serratura appena aperta prima che un lampo di luce fluorescente togliesse loro la vista, una manciata di secondi dopo la quale Astrid si sentì addosso sguardi allucinati e increduli senza capire il perché.
- Tu- tu sei malato – sentì sibilare  papà Bruce che ora, voltato interamente dalla sua parte le rivolgeva occhiate fugaci e innervosite per le quali non seppe come reagire, cercando in sua madre o persino in Loki un indizio del perché di tutta quella confusione.
Ma ci fu il braccio di Tony a strattonarla di lato, un braccio che si ritrovò attorno le spalle nel venire premuta contro il suo fianco mentre la sua confusione cresceva  e l’irritazione di papà Bruce aumentava.
- Perché quella faccia signori? Eppure dovreste essere abituati alla mia genialità, non-
- Genialità un corno! – sbraitò Bruce con un diavolo per capello, allungando una mano per afferrare il polso di Astrid e rigirarselo tra le mani – falla tornare subito come prima – strepitò ancora prima di sentirsi spintonare via e tornare a guardare in cagnesco lo scienziato dal sorriso sprezzante.
- Cosa c’è Barner? Geloso?
- Falla tornare come prima!
- Perché dovrei ? – lo rimbeccò acido, guardando con compiacimento la sua opera – Non vedi che è bella come il suo papà.
E fu nel venire strattonata ancora che Astrid si sorprese nel notare che la mano che papà Bruce stringeva non era più blu, o fluorescente, ma rosa e delicata come quella del genitore, come quella che aveva sempre desiderato avere.
Sorridere era una reazione comune tra gli esseri umani, ma quando Astrid sorrideva, lo faceva con un tale trasporto, con una simile carica emotiva da anestetizzare i sensi e lasciare disorientati per la forza di quelle emozioni.
Un disorientamento per il quale Bruce Barner si trovò a guardare  la figlia con indulgenza, anche se quella che guardava era una donna  con occhi nocciola e labbra pallide aperte  su un viso che rimaneva comunque bello, comunque gentile, comunque suo.
E sebbene fosse ancora perplesso per l’ovvia e destabilizzante somiglianza somatica tra Tony e l'umana sorridente che non aveva smesso di guardarlo con amore, il dottore si convinse ad accettare quella stranezza.
Perché Astrid sembrava felice, e se era felice lei, lo sarebbe stato  lui e chi vide la figlia di Tony Stark abbracciare con affetto quelli che, nonostante il colore di pelle, nonostante le differenze, sarebbero stati sempre i suoi due papà.
 
Continua…   

Grazie a chi legge la storia e continua a seguirla!
Al prossimo aggiornamento,
Gold Eyes

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Capitolo 4
*** 4 - Pale ***


Capitolo 4
“I have to try
To break free
From the thoughts in my mind
[…]
Have to fight
'Cause I know in the end it's worthwhile
That the pain that I feel slowly fades away
It will be all right “
[ Pale- Within Temptation]





- Sono così belli.
Era stato meno di un sussurro il suo, un pensiero espresso inconsciamente  ad alta voce, senza che realmente lo avesse voluto, ma c’era stato così tanto incanto in quell’esclamazione da convincere Loki a ricercare la stessa malia che Astrid pareva sempre trovare ad ogni loro visita su quel pianeta.
Una bellezza che però il dio non aveva mai avuto modo di cogliere, incapace di definire incantevole una natura che l’uomo stava uccidendo, o di poter captare il sottile fascino del quale la sua compagna sembrava essere vittima, nel guardare tutte quelle creature.
Esseri umani.
Non c’era forma di vita più abbietta di quella, persino suo padre Odino, dall’alto della sua onniscienza, non aveva mai perduto occasione di biasimarli.
Perché erano creature da compatire, per le quali provare pietà, commiserazione, ma non apprezzamento.
Di apprezzabile in loro, in fondo, non vi era nulla.
Nessuna particolare capacità che li rendesse migliori di altri, o più avvenenti, scaltri, temibili, nulla per il quale valesse la pena perdersi in considerazioni.
Erano banali, molto, intrisi di una  noiosa mediocrità che in lui generava disprezzo, più che rapimento, una profonda avversione verso ciò che l’uomo chiamava “normale”ma che Astrid pareva trovare così affascinante, bello, e incantevole.
Un apprezzamento che lui non poteva e non riusciva a condividere.
Perché, che c’era di così esaltante nell’essere normali?
Quale profonda bellezza c’era in quelle donne tanto identiche tra loro da dar noia a guardarle?
 Chi, tra tutti quegli umani, poteva ritenersi fortunato ad essere così privo di abilità?
Nessuna magia da sfoggiare, nessuna capacità da reclutare, nulla che li rendesse interessanti, o quantomeno utili, il motivo per il quale, l’idea di essere divenuto loro protettore glieli aveva resi ancor più detestabili.
Era stato in fondo compito del padre degli dei, quello di difendere, non il suo, e non qualcosa per la quale non provasse altro che sdegno e irritazione, non un pianeta del quale non gli importava il destino, se la distruzione o la vita.
Eppure, lo era diventato, anche se di malavoglia, per desiderio di quella creatura che persino in quell’involucro di noiosa normalità pareva risplendere più di tutte, risaltare, più di tutte.
Forse, gli umani che sorpassavano nel percorrere il marciapiede si soffermavano a guardarla per curiosità, o per i lineamenti graziosi e gentili, ma era qualcosa di ben più nascosto, di ben più intimo ad attrarli verso di lei.
Luce.
La vedeva scivolare morbida in quelle pupille così curiose e affascinate, bagliori perlacei che lasciavano col fiato sospeso per ciò che lei emanava.
Potenza, e chiunque era stato attratto dal potere, almeno una volta, lo era stato persino lui, tanto ossessionato dalla volontà di divenire invincibile, di divenire tanto forte da poter mostrare ad Odino di essere meritevole del suo affetto, delle sue attenzioni, di quegli sguardi che Thor catalizzava su di sè  fin da bambino.
Un bisogno di apparire migliore di suo fratello, più grande di qualsiasi altro essere vivente verso il quale il padre degli dei avrebbe potuto volgere lo sguardo, ma quando lo aveva guardato, quando finalmente Odino si era deciso a distogliere la sua attenzione da Thor, quello che lui aveva ricevuto era stato solo biasimo.
Una desolazione che aveva sbriciolato il suo amor proprio e allentato la presa su quella mano che aveva tentato di salvarlo dalla caduta.
Ma Loki non aveva mai smesso di cadere, perché nessuno era mai riuscito ad afferrarlo in tempo ogni qual volta la terra gli era franata sotto i piedi, una dolorosa discesa che però qualcosa era riuscito a fermare, e attutire, un terreno che per quanto forte l’avessero colpito, per quanto gli altri avessero provato a sbriciolarlo, non avrebbe mai mostrato crepe o fessure.
La terra promessa che Loki, dopo tanto vagare,  era riuscito a trovare in lei.
- Lo hai sentito?
Astrid potè seguire il sussulto sorpreso con il quale Loki reagì alla sua voce, una reazione per la quale si trovò a scoccargli un’occhiata preoccupata prima di tornare a cercare con lo sguardo la fonte di quel suono.
- Ehi!  Cosa state facendo lì fermi ? – li richiamò Tony Stark nel venire avvisato dalla moglie dall’assenza di Astrid alle loro spalle.
- Ehi!
- Non lo senti?
- Cosa dovrei sentire? – si innervosì a chiederle, agitato dall’apprensione con la quale la vedeva guardarsi attorno.
- Ehi! Mi avete sentito? Cosa-
- Astrid!
Il richiamo secco con il quale Loki la chiamò la convinse a gettare un’occhiata ansiosa alle proprie spalle, ma quando la folla la inghiottì non potè che  aumentare l’andatura e concentrarsi per riuscire ad isolare quel suono e trovarne la fonte.
Sorpassò un paio di umani dall’aria eccentrica mentre il rumore di clacson tornava a rendere quella breve scia sonora ancora più debole, ma quando fu sul punto di svoltare l’angolo percepì la vibrazione farsi più acuta e vistosa alla sua sinistra.
Un passante la colpì rudemente alla spalla nel sorpassarla in tutta fretta, ma riuscì comunque a riprendere l’equilibrio reggendosi ad un lampione e riprendendo la sua corsa affannata.
La voce preoccupata di papà Bruce si levò alta tra la folla, ma Astrid era troppo occupata a cercare con lo sguardo una figura piccola e sola per poter prestare attenzione alla sua famiglia.
Perché lo aveva sentito di nuovo, e non nei suoi incubi, non nella sua testa,  ma lì, a poco metri da lei, un pianto che le aveva strappato il cuore dal petto.
Il disperato lamento con il quale una piccola umana rimaneva ritta sul marciapiede opposto al suo, stretta su se stessa senza essere aiutata da chi, nel captare il piagnucolio, la guardava dispiaciuto prima di riprendere a camminare e preferire non far nulla.
Ma quando finalmente la raggiunse, quando finalmente si fermò, Astrid non pote che scivolare sulle ginocchia e riprendere fiato  mentre aspettava che la bambina si accorgesse di lei.
Era minuta, con un grazioso abito a fiori e una bambola stretta tra le braccine paffutelle con le quali si puliva ad intervalli regolari gli occhi dalle lacrime, occhi che vide sgranarsi sorpresi una volta vistala così vicina.
- Ciao.
La piccola umana  si stupì un po’ al suono della  sua voce, e sembrò titubare sulla possibilità di rivolgere la parola o fare finta di niente, imbronciando le labbra ed intensificando la presa sulla bambola.
- Ti sei persa? – le chiese gentile, sorridendole con calore per risultare amichevole  – sei con qualcuno?
- La mia mamma mi ha detto di non parlare con gli sconosciuti – si lasciò  sfuggire la piccola, stringendosi su se stessa nel tentativo di sembrare un po’ più alta e un po’ più coraggiosa, ma la ragazza che le era inginocchiata davanti era carina, e aveva un sorriso a labbra chiuse che le piaceva, perché era come quello della sua bambola.
- La tua mamma ti ha insegnato bene.
Le sfuggì un sorriso nel sentire il complimento rivolto al genitore, ed Astrid non potè che intenerirsi.
- Se vuoi, ora noi  ci presentiamo, così non sarò più un estraneo e  potrò aiutarti a ritrovare la tua mamma, va bene?
Era un fare un po’ ingenuo il suo, un gioco per rendere l’umana un po’ meno spaventata e lei un po’ meno ansiosa.
- Va bene.
- Allora comincio io. Il mio nome è Astrid.
- Il mio nome è Eleonora, e significa cresciuta nella luce – ci tenne a puntualizzare la bambina, calcando le ultime tre parole per specificare l’importanza nel nome scelto da sua madre.
Una precisazione che la fece ridere sofficemente prima di prenderla tra le braccia e scandagliare i passanti in cerca della madre della piccola.
- Anche il mio nome ha un bel significato come il tuo sai? – le bisbigliò cospiratoria in un orecchio, reggendola  tra le braccia con naturalezza, come se non avesse fatto altro nella vita.
- E qual’ è?  - le chiese Eleonora, affascinata, prima di alzare lo sguardo sopra la sua spalla e accucciarsi contro il suo collo nel vedere un’ombra nera incombere minacciosa su di loro.
- Significa amata dagli dei.
- Astrid!
Il movimento  brusco alle sue spalle e l’improvviso irrigidimento dell’umana la portarono  ad indurire lo sguardo e allungare una mano per allontanare chi l’aveva appena  afferrata per un gomito, ma quando mise a fuoco il viso trasfigurato di Loki si calmò, rilassando la postura e fissando con tranquillità la corsa trafelata con la quale sua madre, e i due uomini a lei appresso la raggiunsero.
- Cosa – cosa ti è preso? – la riprese severo Tony nel piegarsi sulle ginocchia e fare segno di dargli tempo per continuare la sua ramanzina, ma Bruce che di certo aveva una tempra ben più allenata dello scienziato si trovò ad avanzare di un passo con aria inquisitoria.
- Non è modo di comportarsi così all’improvviso – la rimproverò severo – mi hai fatto preoccupare.
- Scusa papà.
- Ehi, anche io mi sono preoccupato sai – saltò su l’uomo di metallo nel sentirsi escluso – e a me? A me non chiedi scusa?
- Scusa papà.
- Tu hai due papà?
Fu il tintinnio acuto di quella voce infantile ad attirare finalmente l’attenzione dei due uomini e di Pepper che, nel vedere la bambina stretta tra le braccia della figlia non potè che sentire una morsa allo stomaco per l’apprensione.
- Astrid? Cosa-
- Lei è Eleonora – si affrettò a spiegare imbarazzata, toccando la mano che Loki aveva allungato sulla sua spalla e che ora sentiva un po’ più dura contro la pelle – si è persa.
Il silenzio attonito che seguì la sua confessione la mise a disagio, ma era in realtà lo sguardo silenzioso del compagno a darle una strana sensazione di vuoto allo stomaco, una staticità che si decise a interrompere,  stiracchiando un sorriso e rafforzando la presa attorno all’umana.
- Io- io l’ho sentita piangere.
- Da così lontano? – si stupì Tony, colpito al fianco da una gomitata con la quale Pepper lo invitò al silenzio prima di alzare uno sguardo comprensivo su Astrid che ora pareva così disorientata su come agire, su cosa dire.
Perché udire il pianto di un bambino tra il chiasso assordante di New York non era normale, neanche per un dio, neanche per un essere soprannaturale come lei, eppure, sua figlia aveva sviluppato una specie di sesto senso  per ciò che riguardava i bambini.
E che fossero i loro primi vagiti, o un pianto scoppiato per capriccio, lei l’avrebbe individuato e da questo sarebbe stata attratta inconsapevolmente, per un istinto materno che, non potendo essere usato per se stessa, si predisponeva all’utilizzo degli altri.
Come l’aiutare una piccola bambina sperduta nel cuore della città, di notte, senza che qualcuno potesse far caso al suo pianto, se non Astrid.
- E come si chiama la tua mamma, tesoro?
Eleonora si strinse un po’ di più ad Astrid, scatenando un sorriso caloroso in lei ed un irrigidimento doloroso in Loki che abbandonò la presa sulla spalla della compagna, indietreggiando di un passo, come a mettere maggior distanza tra loro.
Un particolare che Astrid colse ma non si permise di esprimere assieme all’aria ferita che nascose dietro un sorriso, accarezzando la bambina e guardando sua madre in cerca di qualcosa al quale rivolgere la propria attenzione per non crollare.
- La mia mamma si chiama-
- Eleonora!
L’urlo li fece voltare tutti verso due figure sottili accostate al muro di una pasticceria, un uomo dall’incarnato pallido e una graziosa donna dalla alta coda di cavallo che aveva appena gridato il nome della bambina e che videro correre loro in contro con le braccia tese in avanti.
- Mamma! – strillò la bambina nel riconoscerla, tendendo a sua volta le braccia verso la donna che, una volta raggiuntala, la attirò a sé, fissando in apprensione la giovane dall’aria gentile che da lontano aveva visto stringere la figlia.
- Chi siete?
- Io sono Pepper, e lei è mia figlia Astrid – spiegò Pepper velocemente, allacciando un braccio attorno alle spalle di Astrid che per un momento, aveva visto tremare – abbiamo trovato vostra figlia a piangere da sola, e ci siamo fermate per vedere se servisse aiuto.
- Oh – esclamò imbarazza la donna, arrossendo e sorridendo con nervosismo ad entrambe – vi chiedo scusa allora per la mia reazione, io-
- Non si preoccupi – tentò di tranquillizzarla Astrid, sorridendo gentile all’umana per tentare di far rallentare il pulsare isterico di quel cuore che sentiva battere fin da lì, una reazione per la quale si sentì in colpa.
Perché, quale madre non sarebbe andata in una crisi di panico nel vedere il proprio figlio tra le braccia di un estraneo?
Nessuno, una constatazione che le offuscò lo sguardo di un rammarico per il quale Pepper non potè che stringere aspramente le labbra.
- Allora è meglio incamminarci, abbiamo un appuntamento.
- Oh, certo, e ancora grazie per aver aiutato mia figlia – tentò di rimediare la donna, abbassando lo sguardo nel sentire Eleonora dimenarsi nella sua presa per poter avere la libertà di movimento.
E quando Astrid vide la manina paffuta della bambina trattenerla per la  maglia non potè che sussultare debolmente e osservare la bambola che la piccola le stava tendendo con sguardo serio.
- È per me? – sussurrò incredula, rialzando uno sguardo lucido sulla bambina che vide annuire, allungando ancora la mano.
Aveva le dita che le tremavano, e persino la voce, se mai avesse provato a parlare, sarebbe andata in pezzi, perciò si limitò a sorriderle, e per un attimo, un solo attimo, i suoi occhi parvero illuminarsi come se la via lattea avesse voluto illuminare la via ad una creatura sperduta per indirizzarlo verso la via di casa.
Un fenomeno per il quale l’umana si trovò a fissarla per una manciata di secondi con meraviglia prima di tornare in sé e congedarsi con l’ennesimo ringraziamento.
- Mi ha regalato la sua bambola – ripetè a se stessa con voce trasognata, accarezzando con l’indice il viso morbido della bambola di pezza – mi ha regalato la sua bambola.
- È stato un gesto carino il suo, non trovi ?
Astrid annuì con foga alla constatazione della madre, alzando un sorriso sereno che le si sbriciolò in viso quando incrociò lo sguardo di Loki.
Uno sguardo distante,  muto, un silenzio per il quale si trovò a rabbrividire internamente prima di distogliere lo sguardo e mordersi il labbro inferiore con indecisione nel compiere il primo passo.
Quando Loki la vide passargli accanto senza rivolgergli più uno sguardo indurì il viso e la piega delle labbra che tese aspramente, artigliando l’interno della giacca di pelle con una tale forza da farne udire lo strappo anche agli altri umani che di quella scena non ne capirono il motivo, ma Pepper lo intuì.
Perché era una donna, e quel malessere che portava sua figlia a trincerarsi dietro un silenzio imposto era il senso di colpa, un torto che Astrid credeva di aver fatto a Loki, ai suoi genitori, a chi le voleva bene, perché nata imperfetta e incapace di dargli quello che chiunque, persino il più debole degli esseri viventi sarebbe stata capace di donargli.
Una prole, un erede.
E il freddo distacco con il quale il dio degli inganni tentava di manifestare il proprio disinteresse verso quella nascita neanche voluta, la noncuranza nei suoi gesti e nelle sue reazioni volte a renderla consapevole di un desiderio che lui non voleva e per il quale non la accusava, non la consolava, come Loki pensava avrebbe fatto, ma l’avrebbe ferita.
Perché, per quanto verità vi fosse in quell’inesistente desiderio di un erede, per quanto tentasse di convincerla che credersi causa di un suo malessere immaginario fosse sciocco, ciò non avrebbe cambiato la menomazione della quale Astrid si sentiva vittima.
Una mutilazione che le avrebbe ricordato sempre che, per quanto normale avesse desiderato d’essere, per quanto umana si fosse convinta di poter diventare, vi era un limite, al quale dover sottostare.
Il limite di chi, di soffrire e  sacrificare una parte di sé  per tutto quel potere illimitato ma sofferto, non avrebbe mai smesso.



°°°




Susan Storm era una donna pratica, che dello stacanovismo del suo futuro marito aveva saputo farne il callo, ma odiava non essere considerata, e in particolar modo, odiava non ricevere una risposta alle sue domande.
Perciò, quando, nel  tentativo di avvisare nuovamente  Reed dell’arrivo di ospiti non ne ebbe alcuna reazione, non potè che richiuderlo dentro un campo di forza e sperare che si accorgesse della mancanza di ossigeno che prima o poi lo avrebbe convinto a scollare gli occhi dallo schermo del suo dannato computer.
Una privazione della quale lo scienziato si accorse, annaspando incredulo per l’espressione infastidita con la quale Susan lo stava fissando.
- Scommetto un giro di jack daniel’s che stavolta ci rimane secco – esordì l’Uomo torcia, stravaccato bellamente sulla sua poltrona reclinabile.
- Io credo che se lo meriti.
- Grazie Ben.
- Di nulla tesoro.
- Allora? Hai capito cosa sto cercando di dirti da più di un’ora?
L’espressione rammaricata di Reed rischiò di farla scoppiare in una crisi isterica, ma Johnny odiava quando la sorella cominciava a lamentarsi della noncuranza del suo fidanzato storico, perciò si decise, almeno per una volta, di rendersi utile per il bene della famiglia.
- Ciò che la mia adorabile ed isterica sorella sta cercando di dirti – e lì gli sfuggì un verso gutturale nel patire una pressione invisibile sullo stomaco, come se qualcuno lo avesse colpito – qualcuno sta venendo a farci visita.
- Esatto – continuò per lui Susan, schiudendo la bella bocca per continuare il discorso, ma si trovò invece a liberare il marito dalla morsa nell’udire il rumore di passi nel corridoio.
Passi numerosi e diversificati per categoria, ma bastò poco a tutti loro, e in particolar modo a Johnny, per riconoscere l’affascinante uomo dalla barba curata e dallo sguardo scaltro con il quale perlustrò la sala circolare, fermandosi sull’uomo magro e dall’aspetto emaciato che ricambiava l’occhiata con un po’ di sorpresa.
- Tony Stark! – saltò su Johnny nel riconoscere il multimilionario che della sua sorpresa parve esserne lusingato prima di accennare con il capo un cenno di saluto e lasciare il passaggio libero all’arrivo delle altre figure.
Bruce Barner salutò garbatamente la padrona di casa, provvedendo a non attirare su di sé un’attenzione della quale avrebbe odiato ogni stilla, ma ricordò a se stesso le raccomandazioni di Maria sul suo poter apparire un sociopatico con quel suo continuo estraniarsi dalla realtà.
Un isolamento dietro al quale persino Astrid si trincerò nell’entrare accompagna da Pepper e dalla figura muta di Loki, due passi indietro a lei, sempre, due passi dietro di lei.
Era diventata la loro  distanza di sicurezza, lo aveva appreso con gli anni, lo spazio che il dio le avrebbe concesso per lasciarla ai suoi pensieri, un suo modo per sapersi tanto vicino da  poterla portare via in caso di pericolo e tanto lontano da poterle garantire l’intimità della quale avrebbe potuto aver bisogno.
Una solitudine che lui non sarebbe stato capace di concederle se non attraverso quel misero stralcio d’aria che li divideva, ma era un mondo quello che il dio vide scivolare dolcemente verso l’ampia vetrata della stanza.
Un universo pulsante vita e luce, la stessa luce che Astrid faticava a tenere incanalata dentro di sé tanta era la necessità di liberarsi di quell’involucro che aveva voluto con tutto se stessa.
Ma non si poteva cambiare ciò che si era, e fingersi qualcun altro non aveva portato loro altro che dolore.
Dolore per chi, nato nel ghiaccio e nel buio, aveva bramato e pregato disperatamente di poter ricevere una stilla di calore.
Dolore per chi, consapevole della propria inettitudine, non riusciva a farsene una ragione.
Quando Tony Stark prese posto al centro della stanza, non di lato, non di dietro, ma al centro,  Pepper informò se stessa della possibilità di smetterla di concedergli la sua attenzione per interessarsi di un uomo che, per quanti anni fossero passati, per quante parole sua figlia avesse rivolto in sua difesa, lei non sarebbe mai riuscita a capire.
Perchè Loki era semplicemente troppo.
Troppo da analizzare, troppo da cercare, troppo da mettere insieme.
E se ci si arrogava la capacità di riassumere la personalità caotica e selvaggia del dio come un’ovvia conseguenza del suo cuore nero, allora si commetteva un peccato di superbia.
Perché c’era molto più che un cuore nero sotto un petto che molti avrebbero creduto muto, molto, molto altro.
Non solo orrore, non solo odio e disgusto, ma un profondo  e disperato bisogno di attenzione, e non un’attenzione generale, ma specifica, convergente in quello che Loki avrebbe nominato come il baricentro del suo mondo.
Il centro di gravità che finalmente gli avrebbe impedito  di venire gettato via e allontanato da ciò che, una volta toccato, avrebbe visto morire sotto le proprie dita, un punto di congiuntura tra lui e quella realtà che lo aveva vomitato assieme all’orrore di non aver voluto mai un’esistenza come la sua.
Ma un centro, comunque, ciò che sarebbe dovuto essere il suo perché e il come, ciò che un giorno, forse, gli avrebbe spiegato il perché di tutto quel dolore, di quella disperazione e solitudine che seminava attorno a sé ma per la quale, in verità, non poteva far nulla, perché timido.
Di sicuro Tony avrebbe riso di lei e di quei pensieri, ma Loki, per quanto pericoloso e meschino si fosse mostrato, era una creatura insicura che non sembrava riuscire a credere in nulla, neanche in se stesso.
Un'insicurezza mostrata dal modo in cui, nella sua posizione rigida e severa, pareva tendere in avanti per proiettarsi su una sagoma più minuta e fragile, ma infinitamente più forte di quanto lui sarebbe mai potuto essere.
Perché Astrid era forte.
Lo era la sua anima, e quel cuore che aveva saputo amare ciò che non poteva essere amato, e voluto, ciò che nessuno avrebbe mai potuto desiderare per sé ma che lei aveva amato fin da subito.
Un amore del quale nessuno di loro avrebbero potuto mai capire la profondità, ma solo ipotizzarla, abbozzarla dalla morbosa ossessione di lui verso qualcosa per il quale era stato disposto a sacrificare ogni cosa, un mondo, un unvierso, se stesso, tutto.
E non c’era nulla di malato, di cattivo, nel loro amore, nulla per il quale ergersi a giudice e giustiziere per condannare ciò che ora appariva così chiaro, ai suoi occhi.

Anime gemelle.
Lo erano loro due.
La metà di un’unica entità che senza l’altro non avrebbe potuto vivere, né sopravvivere.
Un pensiero romantico forse, ma un pensiero del quale Pepper ricevette la conferma nel notare il movimento tenue e morbido con il quale Astrid aveva allungato le dita per ancorarsi a quelle di Loki, quasi avesse captato il bisogno di sentirla, di sentirsi, di sentire entrambi.
Un’empatia che ora portava sua figlia a sorridere al riflesso suo e del dio che parve ripulirsi dal grigiore che poco primo pareva averlo fatto sbiadire nella cornice, tanto da diventare una sagoma indistinta, e poi una macchia, solo una macchia, prima di tornare ad avere un corpo, un viso, e un tenero e delicato senso di sollievo.
- Non credo che ci siamo capiti.
Il tono affilato con il quale Tony Stark si ritrovò a rivolgersi al dottor Reed e al suo piccolo gruppo di supereroi costrinse tutti a reagire nervosamente nel captare la tensione che ora tendeva il viso dello scienziato e quello del dottore a lui di fronte, non meno inquieto.
- Io credo invece che siate voi a non capire, signor Stark – cominciò il dottore con voce solenne e rigida – sono stato io il primo a individuare Silver Surfer, perciò  –
- Chi? – lo interruppe stralunato l’uomo, protendendosi in avanti con sguardo confuso mentre una lieve smorfia andava a contrarre il viso dello scienziato.
- Silver Surfer, l’alieno – si trovò a specificare Reed, sentendo il viso andare in fiamme nel sapere che la reazione del multimiliardario non sarebbe stata diverso da quella con cui i suoi compagni avevano reagito al soprannome dato alla creatura.
- Sa, quell’alieno è color argento e bè, sta – sta su una tavola da surfer, quindi – ma la risata profonda dell’uomo gli portò via persino il filo di voce con cui si era ridotto a dar spiegazione del perché di quel nomignolo orribile, un soprannome per il quale persino Pepper, benchè meno rumorosa del marito, si trovò a ridere sotto i baffi.
- Vedi? – lo riprese Tony una volta riuscito a quietare la risata convulsa partitagli dal fondo dello stomaco -  questo, amico mio, è il motivo per cui sono io, quello ad aver ragione, e non perché il fatto che io sia sempre nel giusto sia una legge universale – divagò egocentrico, tirando un sorriso un po’ più pungente e meno scherzoso -  ma perché ci sono tre buoni motivi per cui tu e la tua famiglia vi limiterete a farci da supporto.
Uno, perché  in realtà non siete stati voi i primi ad averlo visto, ma mia figlia – ci tenne a puntualizzare, sforzandosi di non rivolgere un sorriso affettuoso ad Astrid, impossibilitata però a non sorridergli di rimando, sebbene in ombra, per non attirare l’attenzione.
- Due, noi siamo stati autorizzati dal governo a rompere le cose, in più  siamo gli Avengers, il che dovrebbe già bastarvi –
- Ma anche noi – provò a intervenire Jonhnny, subito zittito dall’occhiata affilata che l’uomo d’acciaio gli lanciò di sbieco, tornando a guardare il dottore per alzare il medio e seguitare nella sua elencazione.
- E come terzo e ultimo punto, ricordate  la nube di raggi cosmici che vi ha dato i vostri “piccoli superpoteri”? – e Tony ci tenne particolarmente a imitare le virgolette per ridicolizzare ciò di cui andavano fieri, poteri che sì li rendevano diversi, ma non potenti come il caso avrebbe richiesto.
Ben si stizzì a quel suo modo di fare, ma Susan riuscì a placarlo con uno sguardo serio che riportò sullo scienziato con durezza, rafforzando la presa sulla spalla del marito che pareva altrettanto innervosito, prima di intervenire a sua volta.
- Certo che la ricordiamo, ma questo cosa-
- C’entra mia cara – la zittì mordace, incrociando le dita sotto il mento – perché noi tutti eravamo dentro quella nube cosmica, e per un certo senso, siamo stati noi a causarla. Come credete sia possibile per me vantare una tale avvenenza alla mia età – se ne uscì alla fine, adducendo al viso pulito e maturo, ma per nulla segnato dall’età, come invece sarebbe dovuto essere.
Una particolarità della quale però solo Pepper, Bruce e Tony parevano aver giovato, e non per qualche strana invenzione dei due scienziati, ma per un meccanismo molto più complicato di quello.
- Voi- voi eravate lì dentro? Ma non è possibile! Sareste dovuti morire – saltò su Reed, facendo sobbalzare a sua volta Susan e Ben, appena scattato in piedi assieme a Bruce che si era avvicinato di un passo come reazione.
- Si, ma qualcuno ci ha aiutato a scappare prima di poterlo essere – riprese Barner, invitando il colosso di roccia a tornare a sedere mentre con l’occhio controllava che Astrid stesse bene, perché quelle non erano ricordi che sua figlia amasse riportare alla mente.
La vide infatti irrigidirsi un poco prima di distogliere lo sguardo e stringere in modo impercettibile le palpebre, come per frenare il dolore che sarebbe colato giù a fiotti dalle sua guance se si fosse permessa di cedere.
Perché Semjace era sì con lei, ma il non toccarla, il non poterla abbracciare e sentire contro era ben peggiore dell’averla davvero perduta, e uno spirito lo si poteva vedere, persino seguire, ma non toccare, mai, toccare.
- E credete davvero che noi accetteremo solo di farvi da spalla  ? - se ne uscì Johnny Storm con tono caustico, drizzando la schiena e tendendo i muscoli delle braccia alla cui vista Bruce fece scattare la mascella.
 - Noi siamo i Fantastici Quattro – e l’uomo di fiamma non potè che manifestare un eccessivo adonismo in quella sua constatazione – noi siamo degli eroi.
- Questo lo dubito fortemente – borbottò Tony ad alta voce per rimarcare la propria avversione al riguardo, un’esclamazione per la quale Johnny si trovò a scattare in piedi e allargare le braccia verso Pepper e le due figure che fino a quel momento, nessuno, se non Tony e Bruce, non avevano perso di vista un istante.
- Mentre voi lo siete? – lo riprese mordace – lei è un eroe? – e nell’indicare la moglie del multimiliardario Tony si trovò a serrare la mascella e incupire lo sguardo.
- Io abbasserei quel braccio se fossi in te, e mi rivolgerei alla mia signora con un po’ più gentilezza.
- Johnny – provò a rimproverarlo Susan nel cogliere la tensione nella voce dell’uomo di metallo e nel dottore che poco lontano cominciava ad agitarsi nervosamente.
- Cosa Susan? – aggredì la sorella – non capisci che ci ritengono delle nullità? Noi, mentre loro possono contare solo su un boss dell’alta finanza in gonnella e – si interruppe per mettere a fuoco l’uomo alto e dall’incarnato pallido che affiancava una figura più minuta e graziosa sulla quale si soffermò, schiudendo un sorriso languido alla cui vista Loki si irrigidì.
- Bè, tu credo sia l’unica che si possa salvare qui, dolcezza.
Astrid reagì aspramente al tono carico di sottintesi dell’umano, pensieri che lei non apprezzava e che nessuno della sua famiglia, in verità, sembrò prendere bene.
Persino sua madre non potè che tendere la schiena e incrociare le braccia al petto prima di consigliargli di non rendersi più ridicolo di quanto stesse facendo, un commento per il quale Johnny parve risentirsi ulteriormente.
- Non sono io quello che si sta rendendo ridicolo – le rispose l’uomo piccato, tornando a fissare le due figure e in particolare l’uomo dal profilo aguzzo che non aveva mai smesso di guardarli duramente fin dall’inizio – e tu non credere che non mi sia accorto del modo in cui ci stai guardando amico.
- Johnny ha ragione – brontolò Ben dal fondo della stanza, alzando uno sguardo freddo su quello incattivito che lo straniero non si premurò di mascherare – quello lì non ha fatto altro che rivolgermi uno sguardo che non mi piace.
- Visto Reed ? – chiamò il cognato – Visto? Persino Ben se ne è accorto! Perciò, perché non buttiamo questi buffoni fuori a calci e –
- Chiedete scusa.
Quando l’attenzione si catalizzò  su di lei Astrid non sembrò innervosirsi, né curarsi dell’espressione attonita con la quale l’umano dalle cattive maniere prese a guardarla, come a capire di aver sentito davvero la sua voce.
Ma lei era vera, lo era la sua voce e il comando che tornò a ripetere nel non ricevere quanto richiesto.
- Chiedete scusa.
Susan rabbrividì leggermente nel cogliere la nota autoritaria, una lieve ma profonda fermezza che ora pareva renderla incapace di chiedere il perché, un bisogno del quale suo fratello si disfò con molto meno pazienza di quella che lei avrebbe adottato.
- E a chi dovremmo chiedere scusa dolcezza? – chiese l’uomo di fiamma, sboccato.
- Ai miei genitori – e Astrid indicò con la piccola mano sua madre e i suoi due padri – per la maleducazione con la quale vi siete rivolti a loro.
- Che paroloni per una cosina così piccola come te.
- Johnny dannazione! – scattò su Reed nel non riuscire più a sopportare la boria del ragazzo, perché si stavano comportando come idioti, e soprattutto, si stavano davvero dimostrando inospitali in casa sua, non di quello stupido di Johnny, ma sua.
- E anche a mio marito.
Vi fu un silenzio attonito dopo la sua seconda richiesta, ma Astrid non scostò la mano dal braccio di Loki neanche quando l’umano, dopo aver guardato entrambi per un po', scoppiò a ridere loro in faccia.
- Johnny!
- Ma l’hai sentita? – si difese lui nell’udire il rimprovero in sincrono della sorella e di Reed – marito? – si battè il petto un paio di volte, singhiozzando una risata che tentò di contenere nel tornare a guardarli, ma quando tornò a rivolgere loro la sua attenzione, potè sentire l’aria e il riso strozzarsi in gola assieme al cuore nel petto.
-Johnny?
Ma Johnny non rispose.
Non alla sorella, non al richiamo confuso di Ben, non a Reed, a nessuno, e non perché volesse mostrarsi ancora piccato per il mancato appoggio della sua famiglia, ma perché, semplicemente, non sembrava trovare più la voce.
In verità non riusciva a trovare nulla, neanche la forza di distogliere lo sguardo da quegli occhi cangianti che per un attimo, un solo attimo, vide tingersi di verde, un profondo e acceso verde cristallizzato in una pupilla che vide restringersi fino a sembrare quella di un rettile.
Lunga, sottile, e fissa su di lui che non riusciva a muoversi, per quanto tentasse, e l’impossibilità di riuscire persino a sbattere le palpebre gli causò uno spasmo dello stomaco che gli si accartocciò assieme ai polmoni quando vide il viso dell’uomo scollarsi, come se qualcuno, aiutandosi con un picchetto, gli stesse scrostando la pelle per vedere cosa ci fosse sotto.
E ad ogni strato di pelle asportata, dopo ogni pezzo d’epidermide graffiata, l’orrore di vedere scaglie di un acceso verde acido comporre come un mosaico il viso dell’uomo lo fece annaspare per la disperazione di non riuscire a chiudere gli occhi per privarsi di quell’orrore.
E provò ad urlare il nome della sorella, di Ben, ma aveva le labbra sigillate, e tutto ciò che poteva fare era guardare terrorizzato le pupille oblique della creatura pulsare divertite della sua paura.
Sembrava persino annusarla, ricercarla nell’aria e inalarla in quelle narici sottili e incassate nel viso come fori senza spessore, e  lui puzzava di paura, ne rilasciava ogni stilla di sudore che gli imperlava la fronte, ne sfuggiva via un po’ ogniqualvolta un pezzo di pelle cadeva via assieme al suo coraggio e alla sua baldanza.
Perché non ce ne era più da nessuna parte, e non ce ne fu neanche quanto vide le labbra, ora una sottile linea bianca e liscia, curvarsi in un sogghigno che mostrò il luccichio sinistro di una dentatura  aguzza, canini che Johnny potè sentire premere contro la propria giugulare mano a mano che il sorriso si allargava e la paura lo rendeva simile ad un manichino.
Un manichino del quale avrebbe udito presto  lo strappo quando percepì  il lieve sibilare di quella cosa prima di  vederlo scagliarsi su di lui e affondare con rabbia la sua dentatura nel-
- Johnny!
Lo sguardo allucinato con il quale suo fratello la guardò nel torcere dolorosamente il collo mise Susan a disagio – tutto bene?
- Io-
- Ti stiamo chiamando da più di dieci minuti – lo rimproverò Ben che ora, sorprendentemente, non era più sulla poltrona, ma al suo fianco, assieme a sua sorella e a Reed che lo fissava crucciato.
- Ti senti poco bene? Forse lo scontro con Silver Surfer deve aver alterato anche il tuo sistema immunitario.
- Lo credi davvero? – domandò la donna invisibile con orrore, ritrovandosi a far altalenare lo sguardo ansioso dal viso crucciato del marito a quello pallido e sudato del fratello.
- Io credo che sia solo stanco.
Loki tese un sorriso nel sentire su di sé gli occhi dei presenti, ma era su uno in particolare che la sua attenzione era catalizzata, sulle pupille nere cerchiate d’azzurro che vide tremare dal terrore nell’incrociare le sue, nere e umane, ma non meno agghiaccianti di ciò che aveva mostrato all’umano.
Un' illusione, un avvertimento a non osare altro, non contro di lui, non contro la compagna che di fianco gli stringeva il braccio.
- Come hai detto? – sussurrò Susan con un groppo in gola, sottomessa da una voce che nella sua testa pareva zittire ogni cosa se non quel suono, come la melodia di un flauto magico che, se l’avesse voluto, l’avrebbe guidato verso un precipizio senza che lei avesse opposto resistenza.
Una sensazione che Ben e Reed condividevano, asserviti a qualcosa che non capivano, non vedevano, ma che impediva loro di rispondere all’uomo dal sorriso affilato.
- Credo che  Johnny – e su quel nome Loki sembrò sputare le maledizioni più orribili – abbia solo bisogno di riposare, non è così?
- Io- tentennò l’uomo di fiamma per un attimo, sobbalzando nel risentire la morsa dolorosa alla giugulare, lì doveva aveva sentito i denti affondare e dove portò una mano per coprirsi – io credo di si.
- Quindi siamo d’accordo sulla vostra azione di supporto dottor Reed?
- Io- io credo di sì.
Il sorriso che Loki rivolse loro sembrò cristallizzare le loro espressioni nella smorfia confusa e spaventata con la quale il dio li lasciò, dando le spalle e incamminandosi fuori dalla sala assieme agli Avengers che di quella piccola opera teatrale avevano riconosciuto il compositore.
Il solo che potesse giocare con la mente umana e dilettarsi con il cuore che Loki avrebbe potuto strizzare rozzamente tra le mani se ne avesse avuto desiderio, ma ora non ne aveva, perché annoiato e placato dal tocco delicato di quel piccolo palmo sul suo braccio.
Un braccio che sapeva uccidere, un braccio che, se Astrid non fosse stata al suo fianco, avrebbe affondato nel petto dell’umano per strappargli il cuore e vederlo annaspare, petto contro petto, prima di strappargli a morsi quel suo sorriso osceno e cavargli gli occhi che su di lei avevano osato illanguidirsi in sua presenza.

 





°°°




- Ecco a lei.
Pepper sorrise gentile all’uomo quando questo le tese due batuffoli di zucchero filato  prima di voltarsi a cercare con lo sguardo sua figlia e ammorbidire la linea degli occhi nel  trovarla  ferma in mezzo al via vai di gente.
Nessuno si soffermava a guardarla per più di qualche secondo, giusto il tempo di ipotizzare il perché  del suo viso rivolto al cielo, prima di riprendere a camminare, ma quando  Pepper la raggiunse  non potè che alzare lo sguardo a sua volta e allungarle lo zucchero filato.
Solo allora, nel sentire il breve contatto caldo sulla propria mano  Astrid parve tornare in sé, distogliendo l’attenzione dal cielo limpido per guardare di fronte a sé dove incontrò sua madre e la sua espressione comprensiva.
- Andrà bene tesoro – tentò di rincuorarla la donna, invitandola ad assaggiare il dolce prima di  prenderla sotto braccio e portarla verso una giostra con cavalli e carrozze a forma di zucca.
Pagò per un giro, e sebbene le occhiate stupite delle madri lì accanto la fecero sorridere un po’, guidò sua figlia ai due cavalli che trainavano la carrozza, issando se stessa e aiutando Astrid a salire in groppa al cavallo.
Cavalli minuscoli, non adatti certo a sorreggere il peso di  due donne adulte come loro, ma quando la giostra cominciò a  muoversi Pepper seppe di aver fatto la cosa giusta quando vide il sorriso timido con il quale sua figlia ancorò le mani alle briglie di pezza, osservando divertita come il proprio cavallo andasse su e giù prima di essere colte entrambe da un lampo di luce che portò la donna a roteare gli occhi nel riconoscere la scheggia rossa appena schizzata dal tetto di un furgone dei gelati.
Quando Tony Stark toccò terra non si curò del grugnito con il quale Hulk accolse il suo ritorno, né si premurò di mascherare l’aria estatica con la quale contemplava la fotografia appena scattata per essere poi inserita nel suo album di famiglia.
Un nuovo grugnito da parte del colosso verde lo avvertì però  della contrarietà  del dottore, ma Tony fece orecchie da mercante, decidendosi con aria annoiata di concedere la sua attenzione ai “Fantastici Quattro” che di fantastico, a suo parere avevano solo il nome, oltre a delle tutine davvero ridicole.
- Bene, ora che siamo tutti qui – e Reed non potè perdere l’occasione di lanciare un’occhiata severa al multimiliardario – possiamo prendere posizione ai posti-
- E lui?
L’uomo di gomma si costrinse a continuare di spiegare il piano, ma quando Johnny tornò a lamentare il proprio disagio non potè che sospirare e seguire il braccio del ragazzo puntato sul giovane appoggiato alla ringhiera di ferro del piccolo ponte sul quale avevano deciso di ritrovarsi.
- Lui cosa?
- Perché è qui? Non è mica un Avengers, non è vero ? – si impuntò l’uomo fiamma con acredine, rabbrividendo un poco nel sentire lo sguardo tetro dell’uomo puntarsi aspramente sulla sua schiena.
- Bè, diciamo che lo è per parentela – spiegò Tony a tentoni.
- Per parentela? – si stupì a chiedere Susan.
- Si. Per parentela, ereditarietà, linea di sangue, chiamatela come vi pare, ma lui comunque resta – e il discorso poteva considerarsi chiuso se Johnny non avesse serbato tanto timore per lui e la sua aria affamata, memore ancora degli incubi che lo avevano assalito la notte scorsa e che ora lo rendevano ancora più irritabile.
- Ma ci sarà solo d’intralcio!
- Invece ci sarà di aiuto, più di quanto immagini, credimi – si lasciò sfuggire Iron Man con un po’ di stizza, rivolgendo al “cognato” uno sguardo avvelenato prima di rilasciare un lungo e profondo respiro – diceva dottor Reed?
- Stavo dicendo che ora sarà meglio prendere i posto prestabiliti. Hulk e Susan pattuglieranno il lato est del parco, Johnny e  Ben andranno a ovest, mentre io, Iron Man e  Jean Cloud andremo a sud del parco divertimenti.
Jean Cloud.
Loki non potè non stringere i denti nel sapere con esattezza chi gli avesse dato quel nome, una vendetta infantile per la quale Tony si trovò a sghignazzare.
- Ora bisogna solo aspettare mezz’oretta e –
- Sta arrivando.
- Come?
- Sta arrivando – ripetè Loki, tornando ritto con le spalle rigide e gli occhi puntati verso il cielo terso.
- Che vuol dire sta arrivando? Il mio dispositivo dice che non arriverà prima di mezz’ora – lo contraddisse Reed, sicuro dei propri calcoli.
- Se lui dice che sta arrivando, allora sta arrivando – si trovò a ringhiare Tony mentre  l’aria pareva  farsi più fredda, il cielo farsi più scuro, e la terra cominciava  a tremare leggermente.
Una scossa di magnitudo ridotta, ma sufficiente ad attirare lo sguardo dei giostrai, dei bambini e dei loro genitori verso le nuvole appena condensatesi in un unico punto, un vortice di nebbie scure al centro del quale sembrava si stesse raggrumare una luce incandescente, dai riflessi perlacei che Pepper vide tingersi di rosso prima di guardare Astrid e strattonarla a sé per abbracciarla e urlare per l’orrore che ne seguì.
Il boato che si levò zittì le strilla isteriche e terrorizzate di chi si trovò a strisciare verso i propri cari con un' ombra incombente a gravare sulle loro teste, l’immensa onda d’acqua che i fantastici quattro fissarono con angoscia prima che Susan Strorm alzasse un campo di forza che le costò fin da subito un gemito di sofferenza.
-  Johnny! – gli gridò contro Reed nel vedere un rivolo di sangue scivolare giù dalle labbra della moglie – cerca di far evaporare l’acqua!
L’uomo fiamma annuì meccanicamente, volando lungo la barriera per essere intercettato da Silver Surfer ancor prima di poter anche solo osare un gesto, un capitombolo che lo rigettò nelle profondità del lago mentre l’alieno tornava a riprendere quota per puntare gli umani urlanti e l’immensa ruota paronimica.
- Come-
- Da qui in poi ci pensiamo noi dottore.
- Hulk spacca – proruppe il mostro verde nell’accostare l’uomo di metallo e ricercare con lo sguardo la scheggia d’argento sulla quale era pronto ad affondare i denti.
-  Lì! – lo avvertì Tony nell’intercettare la scia di onde gamma dell’alieno, ma non fu l’amico verde, né tanto meno la Cosa a poter prendere la rincorsa per gettarsi al di là della barriera e saltare in groppa all’alieno.
Fu una figura sottile ed elegante quella che Susan Storm vide passarle di fianco, l’uomo dal sorriso sottile che vide incattivirsi mano a mano che la figura avanzava verso il precipizio.
- Aspetta!
- Dove diavolo pensi di andare? Così ti farai ammazzare! – latrò la Cosa nel vederlo accennare un passo nel vuoto, tendendo un braccio  per afferrarlo, ma ciò che le sue dita di roccia strinsero non fu una giacca di pelle, ma un mantello verde dalle rifiniture dorate, e familiare, orribilmente familiare come l’elmo dalle corna oblunghe che i supereroi videro scintillare del sorriso macabro di chi il mondo aveva sempre temuto ,che mai avrebbe smesso.
- Tu-
Il ghigno causò uno spasmo isterico alla parte deforme del viso, un zampillare di lineamenti bruciati e cicatrici mai del tutto guarite che resero l’unica pupilla buona l’unica cosa umana su quel viso repulsivo.
- Oh sì, io.
Quando lo videro volare feroce contro l’alieno Reed Richard parve non trovare parole, né la volontà di chiedere perché.
Perché stesse succedendo tutto quello.
Perché il dio degli inganni non li avesse uccisi.
Perché, semplicemente, stesse andando tutto così male.
Quesiti ai quali non riuscì e potè dare una risposta, non con sua moglie a pochi passi da lui, accartocciata su se stessa, bianca in volto e con le labbra sporche del sangue che oramai pareva uscire a fiotti persino dalla bocca.
- Lascia andare.
Susan Storm patì lo schianto dell’alieno sulla sua barriera con un rantolo sommesso, strizzando gli occhi per mettere a fuoco lo scintillio scarlatto della creatura che la accostava, l’uomo d’acciaio che le aveva chiesto di lasciare.
- Lascia la presa ho detto – tornò a ripeterle Tony mentre, con Hulk sparito oramai oltre la foschia, sentiva le mani bruciare per il bisogno di prendere  a pugni qualcosa.
- Lascia andare quella maledetta barriera.
- Sei impazzito per caso? Non le vedi tutte quelle persone? Verranno uccisi se lascio andare – gli strillò contro, attirando l’attenzione del marito che anche da lontano riuscì a sorreggerla allungando uno dei suoi arti.
- Fa come ti ho detto.
- Non ci penso neanche.
- Cosa diavolo sta succedendo?
- Sta succedendo che la tua isterica moglie non fa come le si dice – lo informò Iron Man, stufo di fare da balia a quella squilibrata – fa come ti ho detto, lascia.
- Non posso.
- Certo che non può – la spalleggiò Reed sebbene la visione di Susan sofferente lo ferisse – come puoi chiederle una cosa simile? Fra quelle persone c’è tua moglie! Non ti importa di lei?
- Mia moglie in questo momento è più al sicuro che in un botte di ferro, perciò convinci tua moglie a fare come ti dico e aiutami a catturare quello squilibrato o giuro che vi butto giù da questo ponte!
Ricevere l’ordine di lasciare che mille o forse più persone morissero per causa loro era assurdo, ma se era Iron Man, Avengers ed eroe mondiale a chiederlo, allora qualcosa di giusto doveva esserci, e Susan pregò di essere nel giusto, pregò disperatamente prima di lanciare un urlo di dolore e alzare uno sguardo sofferente sull’acqua prima di lasciare che suo marito la portasse via di lì.
I primi ad essere inghiottiti furono i furgoni che costeggiavano il parco di divertimenti, poi i chioschi, dilungandosi in un immenso ventaglio d’acqua gelata dalla quale, per quanto veloce avessero corso, nessuno avrebbe potuto salvarsi.
E i fantastici Quattro assistettero attoniti a quella scena raccapricciante, mentre le urla della gente facevano sanguinare loro le orecchie e gli scontri tra gli Avengers e Silver Surfer rendevano tutto più caotico.
Ma quando l’acqua sommerse ogni cosa, persino le urla, Susan non potè che nascondere il viso nel petto dell’uomo e piangere la propria amarezza prima di sentire un ansito incredulo contro il petto.
- Cosa diavolo-
- è quello ?– finì per lui Johnny, sospeso a mezz’aria con gli occhi strabuzzati e il fiato stretto in gola per lo shock.
Perché c’era qualcosa, lì, in mezzo alla folla gettata a terra, e c’era l’acqua sospesa sulle loro teste, una tonnellata d’acqua ghiacciata che rimaneva ritta e sospesa come una placca di ghiaccio temperato, ma acqua, in verità.
L’acqua che Susan aveva strenuamente tentato di bloccare, l’acqua che videro evaporare sopra le teste di chi non guardava loro, non il vapore che ora li attorniava, ma davanti a loro.
- Non è lui.
- Cosa tesoro ? - si riscosse Pepper nel captare il sussurro di sua figlia.
- Non è lui ad emettere quel potere simile al mio – ripetè Astrid, stringendo gli occhi per ricercare la figura di suo padre e quella di Loki nella foschia – è la tavola, non l’alieno, ad avere il mio potere.
- Oh – si lasciò sfuggire la donna, realmente incapace di dire altro, perché quello non era certamente una delle opzioni messe in contro, neanche una delle più terribili, e di risultanti catastrofiche ne avevano tenuto conto.
Ma se davvero quella creatura non era il vero possessore di quel potere, se davvero quella cosa che Hulk, Tony, e persino Loki riusciva a stento ad imbrigliare, era solo un emissario, allora la speranza non sarebbe servita a molto, quella volta, non contro quello.
- Andrà bene.
- Come?
- Andrà bene. Ci sono io – e forse, se non fosse stata Astrid, se non fosse stata sua figlia, se non fosse stato il Tesseract a pronunciare quel giuramento, ma un semplice eroe, un semplice umano, un semplice dio, Pepper non avrebbe potuto non temere per sé e la sua famiglia.
Ma non era un comune eroe quello che le persone attorno a loro fissavano in silenzio e con le lacrime di gratitudine a bordar loro gli occhi, non era un dio impietosito dalla loro vulnerabilità, ma era Astrid.
Astrid l’umana.
Astrid la moglie di un dio.
Astrid e basta.
Quando James Rhodes diede ai suoi uomini l’ordine di attaccare si ritrovò a coprirsi gli occhi con un braccio e sterzare il manubrio dell’aereo per evitare di andare a collidere contro qualcosa, un gesto che i militari dietro di lui imitarono prima di sbattere le palpebre e provare a vedere cosa avesse generato quel lampo di luce accecante, una luce che molti di loro, impiegarono pochi minuti a riconoscere.
Perché la morte non si dimenticava, né chi da questa ti risparmiava, e lei, quella creatura di luce incandescente immobile nel cielo con la mano stretta attorno alla gola del loro obiettivo era difficile, da dimenticare.
- Signore? Tutto bene? – lo richiamò il centro operativo.
Il soldato si accostò la ricetrasmittente alle labbra per fare rapporto, e forse, un tempo, dopo essere stato informato del pericolo, dopo aver visto quanto davvero fossero deboli contro l’universo, avrebbe optato per una risposta neutra.
Avrebbe potuto, se non avessero avuto lei.
- Tutto bene, sono arrivati i rinforzi.
- Quali rinforzi signore? Qui alla base non è stato ordinato nessun invio di rinforzi.
James non potè che scucire un sorriso e allentare il colletto della divisa prima di umettarsi le labbra e lasciarsi scappare una risata profonda e sollevata.
- Diciamo che questo, è un rinforzo non richiesto, ma ben accetto. Lo è sempre.



Continua…

 

Ed ecco che per farmi perdonare il ritardo anticipo l'aggiornamernto di questa settimana, ringrazio ancora chi legge la storia e viene a dare un'occhiata, al prossimo aggiornamento,
Gold Eyes

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Capitolo 5
*** 5- Running Up That Hill ***


Capitolo 5
“You don't want to hurt me,
But see how deep the bullet lies.
Unaware I'm tearing you asunder.
Oh, there is thunder in our hearts”

[…]

“And if I only could,
I'd make a deal with God,
And I'd get him to swap our places,
Be running up that road,
Be running up that hill,
With no problems”


(Within  Temptation – Running Up that Hill)







Fine.
Quattro lettere. Due vocali. Due consonanti. Un’unica presa di fiato per concedere sfumature d’orrore ad ogni cosa.
La fine di una civiltà, di un mondo, di un’età storica, e di una vita.
La loro,  vita.
Quella che tutti videro passare davanti ai loro occhi e mischiarsi nel cielo cupo dai riverberi scarlatti che il monitor rimandava ad intervalli regolari mentre il sistema tentava di ricercare la fine di quell’immagine.
Ma non ce ne era.
Non quel tipo, di fine, ed era proprio l’impossibilità di confinare quell’orrore, di quantificare il proprio terrore in comparazione al danno che si sarebbe andato a subire, a rendere le loro espressioni tanto affrante, e stanche.
-  Credo che basti così per oggi.
Il ‘click della tastiera cancellò l’immagine dallo schermo, ma non dalle loro menti, perché si sarebbe ripresentata ogni qual volta avessero guardato un amico, un parente, una moglie, un figlio, o un marito pensando che forse, il giorno dopo, sarebbe potuto essere l’ultimo.
Ed essere privati persino del tempo, di ciò che era già una condanna per il genere umano, rendeva la visione di insieme ancora più agghiacciante.
Astrid però, a dispetto di chi aveva già predisposto un controllo all’alieno sedato e disteso sul lettino, continuava a fissare lo schermo in silenzio, ferma in mezzo alla stanza e al via vai di militari che riportavano la presenza di nuovi giornalisti sotto la Stark Tower.
Uomini e donne che chiedevano risposte sul perché della sua venuta, sul perché di quel nuovo attacco, sul come, quella volta, avrebbero potuto farcela, perché c’era consapevolezza, nell’aria.
Consapevolezza di non poter nulla, contro tutto quello, neanche con tutti quegli eroi, neanche con la ferma volontà di proteggere il mondo che stavano distruggendo ma che, in fondo, l’umanità amava.
Un mondo che quella creatura, Galactus si corresse, sembrava voler divorare.
Non distruggere, non radere al suolo, ma mangiare.
Perché l’essere dei ricordi di Silver Surfer non era un mostro comune, ma un universo, come lei, una fonte di energia distruttiva che per vivere doveva annientare.
Ma anche se ora  conoscevano il nome di quella cosa, ciò non li rendevano più sicuri di cosa stessero per affrontare, perché non lo sapevano, in realtà.
Potevano ipotizzare, persino provare a immaginare l’entità del danno, ma non potevano conoscerlo, e ciò li lasciava atterriti e disorientati su come organizzarsi per difendersi.
Perché, come ci si poteva difendere da qualcosa che si cibava di interi pianeti?
Nulla, se non mandargli contro un suo pari.
Lei.
Una responsabilità della quale Astrid si caricò nel vedere attraverso lo schermo la smorfia stanca di Nick Fury.
- Quando?
- Hanno indetto una conferenza stampa tra cinque minuti.
- Cinque minuti? – ringhiò il capo dello S.H.I.E.L.D., la mano corsa al viso sciupato per lisciare le rughe d’espressione che gli accartocciavanogli zigomi – e cosa dovrei dire in diretta mondiale?  Che andrà tutto bene? Che non c’è da preoccuparsi?
James Rhodes incassò le stoccate del superiore a capo chino, in silenzio, senza mostrare la propria angoscia per ciò che li attendeva e che non potevano controllare, così come non avrebbero potuto contenere la reazione della popolazione mondiale alla notizia che quella volta non poteva essere tenuta segreta.
- Il presidente?
- È partito due ore fa per Berlino assieme ai capi delle altre nazioni per parlare del da farsi.
- E ha lasciato il lavoro sporco a me, come sempre d’altronde, in fondo è me che linceranno.
- È per il lavoro sporco che veniamo pagati così tanto amico mio – si lasciò sfuggire Tony Stark nello sfogliare distrattamente i risultati delle onde cerebrali dell’alieno prima di coprirsi  la bocca con una smorfia attonita – o no, io non vengo pagato affatto.
Fury si lasciò sfuggire un rantolo di insofferenza nell’udirlo, ma c’era un po’ di sollievo ora, sul suo volto, un sollievo che James imitò prima di spostare lo sguardo  un po’ più a destra, e più giù, per inquadrare la nuova venuta.
Ritta e composta, il Terreract li fissava in silenzio, le mani intrecciate in grembo e nessun sorriso a rendere la profondità dei suoi occhi un po’ meno agghiacciante, ma ora, era quella stessa profondità, quell’abisso di luce a schiarire il cielo scarlatto impresso a fuoco nelle loro retine.
- Si?
- Io credo che dobbiate dire la verità.
L’irreprensibilità del suo tono la rese un po’ meno dolce, un po’ meno pacata, un po’ meno umana, perché non c’era paura, in quello sguardo, neanche se avessero provato a rovistare un po’ più a fondo, non in lei, non in chi sapeva che a quella stessa infinità avrebbe potuto contrapporre la propria, non chi aveva promesso di proteggere.
Quel mondo, la sua famiglia, e una civiltà sempre sul baratro dell’estinzione.
- La verità ? – si trovò a sbottare Nick Fury senza realmente voler scaricare su di lei il proprio malumore, e ancor prima che fosse la sua coscienza a farlo rinsavire, ci fu uno sguardo, calmo e agghiacciante dal fondo della sala, l’occhio vigile di un dio che nella mente gli rimandò l’immagine di lui stramazzato a terra, senza più  testa.
Un' illusione dalla quale l’uomo si riprese, scuotendo il capo e tornando a guardare lei.
- E quale sarebbe la verità, mia cara?
Astrid indurì le spalle e lo sguardo, ponendo fine all’immagine ingenua e debole di se stessa che gli umani avevano sempre conosciuto, una parte di lei, ma non la sola, non l’unica.
Perché era diventata donna, era diventata moglie, e soprattutto, era diventata una sovrana responsabile della sua gente, di tutta la sua gente.
Giganti di Ghiaccio e umani, gemme di una corona che non aveva mai smesso di pesarle sul capo, ma della quale andava fiera, perché consapevole di aver trovato qualcos’altro da proteggere, oltre al suo amore, e che fossero creature dall’aspetto raccapricciante o esseri esteticamente più apprezzabili, non importava, non era mai importato.
Non il loro aspetto, non le loro origini, non il loro sangue, perché avevano un cuore, uguale, identico al suo, un cuore che avrebbe tremato dall’orrore, urlato per il dolore, ma un cuore che lei avrebbe protetto assieme a chi, prima di lei, non aveva mai smesso di difenderli.
- Che andremo in guerra – e al sentire quella parola chiunque in linea d’aria si trovò a torcere il collo con apprensione, fissando la creatura fluorescente che ora pareva molto più alta, molto più minacciosa di quanto fosse mai stata.
Perchè non era la “guerra” umana alla quale lei si riferiva, ma uno scontro che avrebbe davvero deciso il destino di un’intera razza, della loro, razza, e Nick Fury non potè che stringere le mani in pugni prima di sentire il tocco leggero di quel palmo su di sè.
Un palmo piccolo, dal colore inusuale, ma forte, forse più di lui, più di tutti loro, una forza che però quella creatura sapeva rendere gentile, e calda, come un abbraccio nel quale si sa di essere al sicuro, ed era un abbraccio quello che Astrid voleva concedere all’umanità.
Braccia materne in cui lasciare ogni timore e ritrovare la speranza di non essere soli.
- E che non sarete soli – continuò pacata, alzando il viso dalla mano che stringeva premurosa – perché non ci sarò solo io a proteggervi.
- Cosa-
- Signore, la situazione si sta surriscaldando qui sotto – si levò dal corridoio la voce apprensiva di un militare, una richiesta di aiuto che il capitano dello S.H.I.E.L.D. si impose di accettare, fissando brevemente il Tesseract con serietà prima di stringerle un po’ la mano, come una sorta di ringraziamento, ed ordinare ai suoi uomini di avvisarli del suo arrivo immediato.
- Signor Rhodes?
Il militare si fermò sulla soglia della porta nell’udire il richiamo alle sua spalle, e quando incrociò lo sguardo del Tesseract, Astrid si corresse con un sorriso al pensiero di quanto isterico sarebbe diventato l’amico di vecchia data nel sentirla chiamare sua figlia a quel modo, e non potè che sentirsi come tanti anni fa, quando il cielo aveva vomitato le stesse nuvole, le stesse stelle, lasciando la pace e la tranquillità di un mondo salvato dalla fine.
Una fine che lei aveva evitato, e una fine che, nel guardarla, sembrava un po’ meno vicina, un po’ meno agghiacciante.
Perché una fine, lei, era sempre riuscita a darla a chiunque.
A loro la fine di una guerra.
A Loki la fine di un’eterna afflizione.
A tutti, in quel momento, la fine della paura.
- Vorrei mi facesse un favore.




°°°





Maria Hill era avvezza ai cambiamenti.
Ne era stata spettatrice, critica, e a volte anche vittima, ma mai si era lamentata di tutto ciò.
Perché cambiare non era sempre un passaggio doloroso della vita umana, a volte, come era successo a lei, poteva essere essenziale, e infinitamente appagante veder mutare un aspetto della propria vita, e il suo, di cambiamento, aveva spalle larghe, occhi neri, e un colorito che molti avrebbero attribuito ad un malore improvviso.
Ma Hulk era semplicemente verde, una pigmentazione che ora, col sole accecante di Rio de Janeiro a sbattergli addosso, diveniva ancora più appariscente.
Eppure, era un colore al quale pian piano si era abituata, e che aveva imparato persino ad amare, come l’uomo che dimorava dentro quella creatura sproporzionata.
Bruce Barner  le era parso fin dall'inizio  un uomo gentile, cordiale, ma difficile, estremamente difficile.
Difficile da approcciare, difficile da affrontare, davvero, difficile, una difficoltà che però ora Maria era felice di aver sbrogliato assieme alla matassa di ricordi dolorosi che le avevano stretto il cuore e la gola per le lacrime.
Innamorarsi era difficile, riuscire a farsi amare lo era ancora di più, ma farsi amare da Bruce Barner era quanto meno un pensiero irreale, ma lei c’era riuscita alla fine, a vincere i suoi timori e buttare giù le sue difese.
Difese che avevano già cominciato a cigolare fin dall’arrivo della donna che ora, circondata da uno stuolo di militari, camminava tranquilla per il centro della città con accanto il proprio compagno.
Una creatura dalla quale lei per prima aveva imparato il  vero valore della vita, non semplicemente  umana o alinea, ma della vita in genere, una lezione  che Astrid aveva impartito a tutti loro, a chi era nato libero e di quella vita e libertà doveva ringraziare e farne tesoro.
Perché lei non lo era mai stata, veramente libera.
Non era stata voluta, non aspettata, non prevista, ma quando era arrivata , quando avevano visto il lampo di luce che aveva informato il mondo della sua venuta, tutto era cambiato, e per quel cambiamento, tutti avrebbero dovuto ringraziare.
- Non credevo arrivasse tutta questa gente – le sussurrò di fianco un soldato, impressionato dalla strada gremita di persone, gente delle favelas a giudicare dagli abiti dimessi e dai fisici emaciati, ma una moltitudine che affollava e tendeva le mani verso Astrid al pari di un messia.
Ma era solo una donna, quella che camminava per la strada, una donna che un’anziana dalla schiena ricurva accompagnava in silenzio, lasciandosi guidare dalla mano che Astrid le stringeva per aiutarla a tenere il suo passo mentre attorno a loro, la voce tonante di Nick Fury si elevava dalle radio e dai televisori di qualche bar.
E mentre lo sentivano parlare di guerra, di pericolo, il mondo tremava ma Rio de Janiero sorrideva, sicuro del domani, attratto dalla figura sottile che puntava senza remore la statua imponente del Cristo Redentore.
La camminata fu stancante per tutti quei corpi umani che si accalcavano per vedere e seguirla in silenzio su per la salita, ma quando finalmente arrivano ai piedi della statua Astrid alzò il viso al cielo per ammirare il viso gentile del monumento e le sue braccia aperte in un abbraccio imponente.
- Ed ora?
Estela strinse la mano della sua scoperta quando la vide voltarsi a guardarla con quel sorriso, lo stesso con il quale le aveva chiesto di dare il bastone a Loki, una volta che la battaglia fosse finita, lo stesso con il quale l’aveva vista librarsi e scomparire nel cielo assieme al suo cuore.
E fu il ricordo di quella perdita, seppur momentanea, a convincere l’umana a rafforzare la presa e reggersi un po’ meglio sul proprio bastone per avere più aderenza al terreno, come se si aspettasse di essere strappata via da terra.
- Come lo  chiamate voi  ?
- Come  chiamiamo chi,  tesoro? – la richiamò Pepper da poco dietro.
- Lui – e Astrid indicò l’immensa statua.
- Lui è Gesù.
Gesù.
Astrid sorrise, ripetendo la parola come soleva fare da bambina, quando ancora non conosceva nulla del mondo, e c’era la stessa ingenua curiosità ad addolcirle la voce e il bisbiglio, una dolcezza della quale le sue labbra di impregnarono nel ripeterlo ancora, ma con un altro nome.
Allah.
Buddha.
Re.
Messia.
Epiteti così differenti ma con un’unica radice, un nome che forse nessuno di loro ricordava più, perché abbandonato nel passato assieme all’immagine sbiadita di un profilo imponente come quello ma oramai sbiadito, dimenticato.
Chi, prima di lei, li aveva difesi, protetti, amati come una madre.
Perché una madre ama i suoi figli e basta, non giudica, non punisce, ma ama, e la loro madre, la vita che sentiva pulsare sotto i piedi e battere nel cuore di quel mondo era forte, potente e gentile, infinitamente gentile.
Yggdrasill era il nome che lei conosceva, quello che loro avevano dimenticato ma che Loki aveva imparato a ritenere suo creatore, ma era unico per tutti.
Per gli umani, per gli uomini di Ghiaccio, per ogni creatura vivente.
La vita, quella  che poteva essere concessa ed essere creata dal nulla, il dono che rendeva l’alberò così diverso da lei, quella dimenticanza della quale lei era stata vittima dai Creatori, il limite del loro potere, il suo, limite.
Perché era un grembo fecondo quello che Yggdrasill riempiva d’amore, di vita, mentre sterile era solo il suo, un ventre che non avrebbe mai avuto la gioia di dare la vita a qualcosa, a qualcuno, un' imperfezione che però mostrava come si dovesse sacrificare qualcosa, in cambio di altro.
E il suo sacrificio, quello che i Creatori le avevano imposto era stato quello.
La creazione a discapito del potere, potere infinito, ma incapace di colmare quel vuoto.
Un vuoto che ora però si era fatto più tenue, lì di fronte, con quel viso gentile a guardarla con comprensione e amore, amore incondizionato, proprio come il suo.
Ed era tempo di mostrare all’uomo chi quell’amore aveva sempre riversato e per il quale non si era mai risentito, per quanto dolore le avessero arrecato, per quanto dispiacere le avessero inferto, perché una madre perdona sempre i suoi figli, e quell’emanazione di Yggradrill li amava tutti, senza differenze, senza ma nè  perché.
Quando la videro scostarsi dal gruppo Estela provò a riportala indietro, ma la sua forza era nulla in confronto al magnetismo che attirava la sua scoperta  alla statua, una forza impalpabile della quale nonna Baba le aveva parlato spesso, in passato.
Perché c’era una leggenda, attorno alla solennità che ora impregnava l’aria, un detto popolare che consigliava di non chiudere gli occhi, ma di alzarli al cielo una volta perduto qualcosa, una figlia, una moglie, un padre, un figlio, perchè di quelle perdite sarebbe rimasto qualcosa, accanto a noi, un frammento che ci avrebbe accompagnati, tutelati fino al loro richiamo, quello che li avrebbe ricongiunti tutti ai propri cari.
A chi aveva abbandonato quella terra, ma non loro, non chi avevano amato e che anche nell’aldilà avrebbero difeso, protetto,  e amato.
Ed alzò lo sguardo, Estela, stringendo gli occhi per mettere a fuoco il viso del Cristo e socchiudere le palpebre nell’avvertire una brezza leggera sul viso, come una carezza.
Un tocco fuggevole che cominciò a spirare tra loro, sorreggendo chi non ce la faceva, accarezzando chi non sorrideva, confortando chi non credeva mentre la voce di Nick Fury, dopo un attimo di pausa, tornava a tuonare tutto attorno.
- Perché noi non siamo soli.
Si avvertì una leggera scossa sotto i piedi, una lieve vibrazione che fece urlare qualcuno, sorridere pochi, alzare lo sguardo a molti, a chi sentiva qualcosa di caldo accanto a sé, una presenza confortante che li abbracciava e li spingeva a guardare in alto, verso il cielo che ora pareva così limpido e pulito da dar l’impressione di poter respirare meglio persino con la paura a stringere la gola.
- E mai lo siamo stati.
- Si è fatta grande.
Quando lo udì accanto, flebile come un sussurro ma  presente, vero, Estela non potè che tremare leggermente e stringere il bastone per reggersi sulle gambe che sentiva deboli, terrorizzata da ciò che aveva udito accanto a sé, angosciata dal pensiero di essere impazzita.
Perché quella voce lei la ricorda, l’aveva amata e poi perduta, come era giusto che fosse, ma non lo era risentirla, non così vicino, non ora, non dopo tutto quel tempo.
Eppure, quando l’urlo incredulo di una donna nella folla la convinse a girarsi, il viso che si ritrovò un poco più su rispetto al suo era quello di suo padre Raul.
Seguì un grido sommesso poco lontano, e un singulto strozzato, vicino, tanto vicino da poter richiamare l’attenzione di Astrid che continuava a rimanere ritta e con il viso rivolto al cielo, ferma ai piedi della statua.
Ma Tony Stark non aveva potuto evitarlo, non di sentire il dolore strizzargli il petto e condensarsi in una bolla d’ossigeno che, nell’uscire dal suo petto, era divenuto strozzato, non di sgranare le pupille lucide e fissare attonito il viso squadrato di suo padre Howard, imperioso come ricordava, ma lì, con lui.
- Tu – tu cosa-
- Non sei felice di rivedermi? – se ne uscì l’uomo, scherzoso, raddolcendo il viso nel guardare il figlio e intravedere a lui accanto una donna bionda stretta a due figure sottili e una terza persona, il ragazzo dagli occhi nocciola che fissava l’uomo con occhi lucidi e affranti come quelli del padre.
- Nonno?
 C’erano urla, attorno a lui, strepiti isterici di chi, nell’abbracciare i genitori, figli, mogli perdute, si trovava ad attraversare i loro corpi e guardarsi attorno con angoscia, ma Loki distoglieva lo sguardo con irritazione nel sentirli su di sé.
Lui che era l’unico a rimanere immobile, in silenzio, rigido nella sua posa di spalle tese e labbra strette, una linea retta dal colore della neve, pallida per il dolore che gli avrebbe cavato il cuore dalla gola se si fosse azzardato ad aprire la bocca.
Perché lo avrebbe vomitato, quel cuore, rigettato in terra e calpestato per la frustrazione di provare tutto quel risentimento, e gelosia, un' infida e patetica gelosia per ciò che vedeva.
Madri che abbracciavano i propri figli, figli che abbracciavano i propri padri, nipoti che stringevano piangenti i nonni di cui si era solo sentito parlare, persino l’uomo verde pareva aver perso la propria compostezza, chino ad abbracciare una figura femminile minuta contro la quale piangeva in silenzio, mentre lui, lui era solo, in mezzo a tutto quello.
Nessuno da abbracciare, nessuno da stringere, nessuno dal quale farsi guardare.
Ed anche se erano spiriti  quelli che trovava accanto a sé, la gelosia gli stava divorando il cuore e avvelenando lo sguardo puntato in cielo come gli altri, ma senza aver la possibilità di riabbassarlo sui propri genitori.
Genitori che lo avevano abbandonato mentre quelli che l’avevano amato, quelli che ci avevano provato, li aveva uccisi, smembrati, e fatti cadere esanimi ai suoi piedi, un’immagine per la quale si trovò a strizzare le palpebre e irrigidire la mascella forte per sopperire a tutto quel dolore.
Il dolore di sapersi solo, di aver avuto una famiglia, ma di essere stato allontanato da questa, emarginato come il più infimo delle creature, come il più inutile degli esseri viventi, una sensazione di impotenza per la quale, fin da bambino, aveva sofferto.
Impotente di fronte agli sguardi orgogliosi che Odino rivolgeva a Thor invece che a lui, gli abbracci che Frida soffermava un po’ di più su Thor che su di lui, gli sguardi amorevoli che tutti rivolgevano sempre a Thor ma mai a lui.
Ed erano morti per questo, per quella loro incapacità di amarlo come avrebbe meritato, come sapeva di dover essere amato, ma alla fine, si era comunque ritrovato con le mani sporche di sangue e il cuore ancora spaccato a  metà.
- Loki.
Quando lo vide riaprire gli occhi Astrid sperò di non trovarvi ciò che aveva immaginato, ciò che aveva sempre temuto di riscoprire un po’ più in fondo, in quegli occhi, ma lo trovò comunque, per quanto disperatamente  avesse pregato di non ritrovarlo più.
Eppure era lì, il dolore.
Nelle pupille che ora provavano a tremare un po’ di meno per non mostrarsi debole, sciocco e patetico, ma era proprio quel suo bisogno di mascherarsi a bordarle gli occhi di lacrime, il bisogno di nascondersi per paura di essere deriso, scacciato, biasimato.
Una paura che aveva portato lui a stringer a quel modo gli occhi e lei a voltarsi con apprensione nel percepire il cambiamento in lui, un mutamento che aveva reso la sua figura un po’ più sbiadita e cupa, come se stesse per scomparire, ma era davanti a lei, Loki era davanti a lei ricordò a se stessa, allargando le braccia per invitarlo ad andare da lei, lei che come lui  non aveva nessuno spirito a starle accanto, non su quel mondo dove non aveva niente di suo, nulla che avesse perduto davvero.
Aveva solo lui, come lui aveva solo lei, ed erano entrambi la famiglia dell’altro, una famiglia che si erano scelti perché dalla propria cacciati e respinti.
Due scalini saliti con stanchezza, poi il terzo e il quarto scavalcati assieme, e il quinto, sesto, settimo fatto di corsa, veloce, tanto veloce da privarlo dell’orgoglio con il quale si era ripromesso di raggiungerla per mostrarsi indifferente a tutto quello, ma era da se stesso, che Loki scappava.
Era sempre scappato da se stesso.
Quando lo sentì crollare su di sé Astrid fece forza sui talloni per sorreggere entrambi, per far sapere che quella terra sulla quale Loki aveva creduto di poter finalmente riposare non avrebbe ceduto, che lei, non avrebbe ceduto mai.
Perché lo avrebbe sorretto, difeso, protetto da se stesso e da ciò che credeva andasse ucciso,  da quell’orrore che credeva di essere, uno scherzo della natura del  mai nessuno aveva avuto il coraggio di farsi carico, perché gravido di troppo marciume, troppa disperazione, troppo tutto da poterlo sopportare.
Ma lei lo avrebbe sopportato, ogni dolore taciuto in gola, ogni sguardo lucido nascosto lì dove nessuno avrebbe provato a scavare, avrebbe ripulito ogni cosa, ogni macchia, schizzo che lui credeva di poter diventare.
Lo avrebbe amato come meritava, come lui sapeva di dover essere amato, e sarebbe stata la sua Yssgradill, il suo albero della vita, chi lo avrebbe protetto, confortato, amato senza remore alcuna.
Ed avrebbe fatto in modo di avere le radici più forti, gli arbusti più robusti di ogni altro, così da rimanere piantata a terra e non lasciare a nulla, non vento, non fuoco, acqua a smuoverla lì dove si era piantata, in quel cuore che sentiva pulsare frenetico contro l’orecchio mentre la terra tremava e la vera madre, la vera Yssgradill di quel mondo tornava a mostrare il proprio corpo affusolato, la chioma scarlatta dai rami possenti che un po’ alla volta si tesero verso il vuoto, come mani allungate per afferrare qualcosa, per proteggere qualcosa, i figli che lasciarono di nuovo prima di divenire ciò che prima o poi, ogni uomo sarebbe diventato dopo la morte, un ramo, forte e vigoroso, capace di alleggerire i propri figli del peso della vita.
E mentre l’albero cresceva, mentre l’umanità intera si trovava ad alzare lo sguardo verso le anime di coloro i quali continuavano a proteggerli dall’alto, Loki stringeva a sé il cuore pulsante dell’universo, il suo cuore, quello attorno il quale le radici di Yssgradill si erano intrecciate per darsi la spinta verso l’alto, lì, verso quel cielo fatto di foglie, rami e amore.
L’amore di quelle madri, sorelle, padri e fratelli che mai avrebbero smesso di proteggere chi per loro aveva significato la vita
Perché nessun genitore, alla fine,  avrebbe mai potuto smettere di proteggere  la propria famiglia, né i propri figli.




°°°







“Dottore” era stata la prima parola verso la quale avesse imparato a nutrire sentimenti contrastanti, divisa fra l’amore per il padre che di quel titolo era stato omaggiato dagli abitanti delle favelas in onore del suo buon cuore,  e l’odio per quegli uomini in camice bianco che avevano giustificato le loro torture come il compito di ogni professionista dedito alla scienza.
Ma anche suo padre era un dottore, e sebbene la vista di quel lettino le riportasse alla memoria le volte in cui si era ritrovata assalita dalle convulsioni per la sua poca collaborazione, ricordò a se stessa che non era lei, quella lì sopra, e che quella creatura era stata sedata e trattata più umanamente di quanto avessero fatto mai con lei.
- Se continui a fissarlo a quel modo  il vetro potrebbe andare in frantumi, sai?
Astrid distolse lo sguardo dalla vetrata nell’udire il tono divertito della madre, accostata alla finestra dalla quella era possibile vedere una buona porzione di Yssgradrill, divenuto tanto imponente da aver coperto per un quarto la superficie terreste.
Ma Pepper non fissava più l’imponente albero da un po’, attenta al riflesso di sua figlia, raccolta su se stessa sopra un divanetto, le braccia allacciate alle ginocchia e lo sguardo incollato alla camera insonorizzata dalla quale erano fuggite un ora fa.
Fuggite non era il termine giusto, in verità, perché erano state cacciate, e anche frettolosamente, ma non dai due eroi che, in un moto di iperprotettività verso la propria prole, avrebbero potuto decidere di tenerla a chilometri di distanza dall’alieno sedato, ma da Loki, che nel captare il brivido con il quale la compagna aveva guardato la creatura alla quale lui stringeva il capo per rovistargli tra i ricordi in cerca di notizie su Galactus, le aveva ordinato di aspettarlo fuori.
E Astrid aveva eseguito subito il comando del compagno, fuggendo via tanto velocemente da informare tutti loro che il suo disagio era ben più profondo di quanto avrebbero potuto ipotizzare, ed era stato proprio Loki, l’algido e freddo Loki ad accorgersene, uno smacco per il quale Tony si era ritrovato a imbronciare le labbra e incaponirsi con alcuni calcoli impossibili per distogliere la mente dalla propria inettitudine come padre.
Quando Astrid sentì il tessuto morbido del divano inclinarsi sotto il peso della madre tentò strenuamente di non guardare quella creatura priva di sensi, ma c’era la paura, a costringere le sue pupille a seguire irrazionalmente Loki, suo padre, chiunque in quella stanza fosse in linea d’aria con il suo sguardo.
Paura di non essere abbastanza attenta, abbastanza veloce da intervenire in caso di pericolo, un pericolo che sentiva frusciare nell’aria, sopra la sua testa, come una mano pronta a calare su di lei per strapparla da terra e avventarsi sugli umani.
Perché non era lui, chi stavano cercando, non era Silver Surfer, il loro nemico, e tenerlo imbrigliato a quel modo non avrebbe dimezzato le possibilità di poter essere attaccati, non contro chi aveva il potere di creare portarli come, lei, e per quanto Yssgradrill avrebbe potuto difendere i suoi figli, nessuno avrebbe potuto difendere lei che lo sentiva attorno a sé.
Vicino, tanto vicino da stringerle la gola per l’angoscia di trovarlo seduto di lato, a fissare come lei la vetrata e sorriderle con un viso che non conosceva ma che nei suoi incubi aveva immaginato frammentato come una maschera di creta spaccata per il calore.
- Di cosa hai paura tesoro? – sentì bisbigliare sua madre, apprensiva.
Di cosa aveva paura?
In quel momento di tutto, e di perdere.
Lei, i suoi genitori, Loki, tutto ciò che aveva costruito con tanta fatica, troppa per poter accettare di  lasciare la presa e abbandonare ciò che il mondo non le aveva concesso ma per il quale era stata costretta a lottare, e a uccidere,  quella volta però  il suo nemico era potente, era pericoloso, e ingiustamente crudele verso di lei.
Perché non capiva il motivo di tanto odio, di tanto feroce accanimento verso di lei, verso quelle creature  così delicate e fragile da farle temere di poterle vedere spegnersi davanti ai suoi occhi da un momento all'altro, non capiva il perché di tutto quello.
- So io cosa ci vuole in momenti tristi come questi – saltò su Pepper con un sorriso conciliante, incamminandosi verso il distributore che la donna aveva deciso di inserire nell’ufficio di Tony per evitare di ritrovarlo stramazzato a terra per  astinenza da caffè, ma ciò che l’umana prese per sé e la figlia fu cioccolata.
Calda e densa cioccolata profumata che Astrid annusò con un sorriso quando la madre le porse il bicchiere di plastica gialla.
- Bevi, sono sicura  che ti sentirai subito meglio.
Ed era vero, o forse voleva che fosse vero, ma lo zucchero riusciva a smorzare l’amarezza della bile che risaliva a fiotti dalla sua gola mentre guardava sua madre tornare alla finestra, sorseggiando la bevanda e sorridendole attraversa il vetro, come per controllarla senza essere soffocante.
Ma non lo sarebbe comunque stata, e se anche così fosse stato, non se ne sarebbe lamentata, non ora che aveva bisogno di contatto fisico, tocchi, mani, sguardi che sapeva di poter trovare se avesse alzato il naso un più in su, ma si limitò ad affondarlo nella tazza e osservare il proprio riflesso tremolante.
Il cioccolato era dolce, zuccherino, e caldo, un calore che le colorò le guance di rosa prima che l’afflusso di sangue si interrompesse nel sentire un tocco fuggevole sulla sua testa, ma quando Astrid si voltò a controllare, trovò sua madre nella stessa identica posizione, lì dove l’aveva lasciata.
Immobile.
Nel sentire lo sguardo insistente su di sé Pepper le sorrise conciliante  prima di tornare a fissare il cielo, ma la sensazione di disagio non  abbandonava Astrid.
Tornò comunque  a rilassarsi sul divanetto, chiudendo le palpebre per rilassare le pupille che  avrebbero cominciato a lacrimare se avesse continuato a tenerle tanto sgranate mentre la stanchezza, unita al languore della bevanda, ammorbidiva ogni nervo teso, stendeva i lineamenti crucciati, e permetteva al suo cuore di tirare un profondo e lento sospiro di sollievo.
Un sollievo di breve durata, il tempo di un nuovo respiro incastrato nel petto che Astrid irrigidì assieme al busto nel percepire di nuovo quel tocco sul suo capo, un peso leggero, simile ad una carezza gentile, ma non era gentile, perché c’era qualcosa di sbagliato, nell’odore di quella mano che la sfiorava.
Una puzza di zolfo e bruciato che la portò a stringere gli occhi e il bicchiere di carta nella speranza di scacciare quell’illusione mentre la presa forte di Sunniva attorno alla sua vita le ricordava che lei, quel fetore, l’aveva aspirato fino ad esserne disgustata.
Un olezzo che pareva divenire più forte mano a mano che la mano scendeva a toccarle la fronte, calando sulle tempie dove il sudore cominciava a raggrumarsi, ma continuò  a tenere gli occhi chiusi e la mente rivolta a pensieri felici, ad immagini felici, ma era rosso, tutto ciò che vedeva.
Rosso come il cielo scarlatto che i suoi occhi avevano inghiottito voracemente per quantificare la grandezza del pericolo, rosso come le dita che riscoprì incorniciarle il mento prima che il suo urlo si levasse nell’aria e la tazza finisse rovesciata a terra assieme al suo contenuto.
- Tesoro? Tutto bene?
Astrid guardò la madre con gli occhi sgranati dalla paura, ma non trovò mani artigliate a graffiarle il viso, né un busto privato di un suo arto ad accogliere il suo terrore, era semplicemente sua madre, spaventata quanto e forse più di lei.
- Astrid?
- Io- provò ad articolare, finendo col guardarsi nervosamente attorno e puntare lo sguardo al suolo, sulla ciocolata rovesciata che rimandava la sua immagine tremante e sorpresa.
- Tutto bene?
- Si – si arrese a dire, chinandosi sulle ginocchia per rimediare al danno mentre sentiva lo sguardo apprensivo della madre provare a superare la barriera visiva che aveva creato coi propri capelli, ma si sentiva stupida, in quel momento.
Stupida per essere stata suggestionata da immagini con le quali avrebbe dovuto imparare a  convivere, stupida per aver spaventato sua madre e se stessa per qualcosa che non poteva esserci, non lì non con loro.
Quando sentì i primi passi  seppe di non potersi più nascondere dietro i propri capelli, ma si concesse qualche altro minuto di silenzio prima di sollevare lo sguardo dalla chiazza scura e stiracchiare un sorriso imbarazzato, un sorriso che le si congelò in volto quando li trovò ad un centimetro da lei.
Non piedi, non scarpette graziose, ma zampe dalle unghie curvate in artigli d’avorio che riflettevano il suo viso pallido e l’orrore di quello sguardo che Astrid ebbe paura di sollevare, per timore di sapere cosa si sarebbe trovata davanti, cosa la stava guardando a sua volta, e continuava a tenerle quella mano sulla testa.
Ma non vi furono urla quella volta, solo passi scoordinati e braccia tese in avanti per mettere più distanza possibile tra lei e la creatura inghiottita dal cielo venato di nero che ritrovò davanti a sé, non più il corridoio, non più casa sua, ma fuoco e nero, un nero soffocante che ritrovò sulle mani nell’abbassare gli occhi.
- Tesoro?
Pepper arricciò le labbra nel non ricevere una risposta, ma le spalle, spalle che vedeva tremare debolmente assieme alle mani che Astrid strofinò ferocemente sul suo bel vestito, arrossandole per lo strofinio isterico con il quale tentava di pulirle da quell’orrore, ma era come incollato alla sua pelle.
Un altro passo goffo e incespicato, un altro sguardo attonito che la donna si trovò a rivolgere a sua figlia e alla vetrata dentro la quale nessuno pareva essersi accorto di nulla, e Pepper tentennò un attimo, indecisa sul da farsi prima di notare attraverso il vetro il modo in cui sua figlia assottigliò d’improvviso gli occhi, avventandosi su di lei e causandole un grido sorpreso che l’umana si costrinse ad inghiottire quando lo vide torreggiare su di loro.
Alto, dalle braccia sinuose e dalle spalle larghe che un cielo nero rendeva difficile da separare, perché c’era nero, dietro di lui, nei suoi occhi, sulle sue braccia e in quelle mani artigliate che vedeva pulsare come la carne viva di una ferita inferta a tradimento.
Un incubo, perché era il parto di un incubo la creatura che la fissava con i suoi occhi sgranati e sproporzionati, privi di palpebre, che vide scattare serpentine sulle pupille violacee dilatate dall’eccitamento.
- Notevole.
La puzza di zolfo investì entrambe come una folata di nube tossica vomitata dalle profondità di una palude, ma Astrid si costrinse a rimanere immobile  sebbene la vicinanza con quella creatura le desse un senso di nausea.
Un disgusto che gli vomitò addosso nella speranza di poterlo allontanare, ma lui non indietreggiò, non si mostrò infastidito, ma inverosimilmente deliziato da quella sua reazione.
La pelle che richiuse nel palmo era morbida come aveva immaginato, come sapeva sarebbe dovuta essere, morbida e calda come un respiro di vita chiuso tra le dita, dita che la creature schiuse su quel volto grazioso, stuzzicando le ciglia pallide per convincerla ad aprire un po’ di più gli occhi e mostrargli ciò che per cui era venuto, ciò che la rendeva migliore di lui.
E quando le scorse, quando i profili delle galassie gli rigettarono in viso i loro colori sgargianti, Galactus non potè che rafforzare la presa sulle sue guance nel sentire lo stomaco brontolare,   sorridendo biecamente nel cogliere il lieve spostamento d’aria al lato destro del capo.
Quando il braccio tornò al suo fianco Astrid potè tornare a respirare nel notare la distanza recuperata, ma era comunque vicino, e veloce, lo era stato quando aveva provato ad avventarsi su sua madre che ora le stritolava il braccio con angoscia.
- Tony –  la sentì sussurrare dietro di lei, mentre Galactus raccoglieva il sangue scaturito dalla ferita al viso con l’unico braccio rimasto, perché l’altro glielo aveva tranciato lei stessa, e glieli avrebbe strappato tutti se avesse provato ancora ad avanzare.
- Tony – tornò a chiamare Pepper, e questa volta con più voce, stringendo Astrid contro il petto quando colse il movimento febbrile davanti a lei.
- Non immaginavo così il nostro primo incontro.
- Chi sei?
- Chi sono?
La risata che gli graffiò il petto fu stridente e acuta come il grattare isterico di un gesso sulla lavagna, una cacofonia che Galactus rese ancora più sgradevole digrignando i denti e soffiandovi attraverso il fiato di zolfo – vedo che Yehouda non si è premurato di informarti della mia esistenza.
Il solo sentire quel nome le inondò il viso d’orrore al ricordo di quegli artigli chiusi attorno alla sua gola, una sensazione di soffocamento che si costrinse a zittire, ricordando a se stessa che non era sola, ma che c’era sua madre, accanto  a lei.
Sua madre che era umana, e fragile, infinitamente più vulnerabile di chiunque altro, in quel momento, con quella creatura innanzi a loro.
Lo videro ondeggiare flessuoso sulle gambe lunghe e ossute, sorridendo gentile con una bocca due volte più  larga del nomale, senza labbra, ma con un unico taglio dritto a dargli la possibilità di parlare e ridere di loro.
- Come fai a conoscere Yehouda?
Uno sguardo affilato fu tutto ciò che ebbe in risposta prima di vederlo tendere il viso e schiudere un altro sorriso deliziato.
- Come faccio a conoscerlo? Non credi che ogni figlio abbia il diritto di conoscere il proprio padre?
Il pallore improvviso del suo viso sembrò incantarlo, perché lo vide addolcire il taglio degli occhi e abbozzare un passo prima di cogliere il lieve movimento con il quale Pepper aveva rafforzato la presa, tentando di nasconderla dietro di sé.
Ma Astrid era ben più forte di lei, e per quanto tirasse, per quanto sapesse di essere responsabile della sua protezione in quanto donna, in quanto madre, in quel momento non poteva nulla, non contro quella creatura che, nel posare lo sguardo su di lei, si lasciò sfuggire un rantolo disgustato.
- Umani, davvero? – irruppe con voce incredula, grondante biasimo – vedo che neanche nostra madre H’ava ti ha insegnato ad odiare creature così insulse.
- Lei non è mia madre – rantolò lei.
Un’espressione attonita solcò il viso di Galactus per quelle che le parvero secondi prima che il suo sguardo tornasse a veleggiare sull’umana, scandagliando la sua figura con ribrezzo prima di soffiare tra i denti un verso di scherno.
- E sarebbe lei, invece? Sarebbe lei tua madre? Quell’insulsa -
- Non osare andare oltre – lo minacciò aspra, scaraventandogli contro un’ondata di energia che gli incise una ferita profonda sulla guancia destra, un taglio dalla linea obliqua che gli aprì il viso come se lo avesse frustato con una corda di metallo bollente.
La pelle crepitò sinistra quando Galactrus provò a sfiorarla con le dita e gli artigli, affondando le unghie nel taglio per impregnarle del proprio sangue denso e nerastro e osservare in silenzio l’offesa subita.
Un’offesa per la quale si trovò a brontolare un ringhio bestiale prima di far scattare il braccio e dirottare una scarica di scintille verso Pepper, prontamente difesa dal corpo incandescente di Astrid.
Una smorfia contrita gli tese il viso quando la luce parve accecarlo per un attimo, perché i suoi occhi non avevano mai avuto la capacità di sopportare tanto potere.
- Tanto bella quanto sciocca.
- Bada a come parli.
- Ma sei stata contaminata da quelle creature  - e Galactus accennò con il mento alla figura tremante dell’umana – perciò posso giustificare la tua confusione.
- Confusione? Confusione per che cosa ? – gli ringhiò contro, sentendo la pelle del viso crepitare per le fiamme che oramai la ricoprivano per un terzo.
Perché quelle parole lei le aveva già sentite una volta.
Contaminata.
Yehouda non aveva detto altro da quando lo aveva incontrato, da quando il Creatore si era arrogato il diritto di poter giocare con lei, con la sua mente, e con quel cuore che aveva provato a cavarle dal petto per mostrarle a quale razza appartenesse, a chi dovesse tutto quello.
Ma lei non doveva nulla, non più, non quella vita che si era creata da sé, non quella felicità che i fantasmi del passato tornavano a turbare.
- Io non ho fatto nulla per scatenare il tuo odio. Non ho fatto nulla di sbagliato, nulla per il quale debba sentirmi in colpa. Nulla per dover ancora subire queste torture – e affondò una mano nei capelli per strattonarli e catturare tra le dita schegge di stella mentre il dolore le gonfiava la voce di disperazione.
- Perché non potete lasciare la mia gente in pace? Perché non potete lasciare me  in pace? Perché?
E quello lo urlò, sentendo la gola bruciare per la foga di un quesito al quale non era mai riuscita a dare risposta, una domanda che da bambina si era posta tante di quelle volte da aver creato più interrogativi di quanti avesse voluto.
Ma lei stessa era nata da una domanda.
Come?
Perché?
Chi?
Ed aveva implorato di trovarle da qualche parte, tutte quelle risposte, per comprendere la complessità della sua esistenza, del tormento che non riusciva ad abbandonarla, dell’annichilente consapevolezza di non poter essere felice senza pagare per quella stessa felicità.
Ma quello, quello non lo accettava, l’esistenza di quella creatura, non la accettava, non il suo definirsi come lei, solo perché frutto della follia di una creatura che per la sua crudeltà aveva pagato.
Perché non era come loro, non era come lui.
Lei aveva un cuore umano e  una forza divina, lei era diversa, e quella diversità lei l’aveva accettata, perché non sempre il diverso indica qualcosa di cattivo, ma solo diverso, semplicemente, diverso.
E non accettava di sopportare ancora tutto quello, non poteva sostenere di nuovo quel peso, non ora che ne aveva così tanti.
La sua famiglia.
I Giganti di Ghiaccio.
E Loki.
Loki che aveva sempre avuto paura di perderla, di essere abbandonato da lei, e quella nuova guerra nella quale lei era il premio l’avrebbe solo ferito e reso più disperato nella sua strenua ricerca di tenerla con sé, di saperla accanto a lui, ma forse, era quello il suo pegno da pagare per ciò che era.
Sapere di non poter fare altro che arrecare dolore a chi amava sacrificando se stessa nel tentativo di proteggerli, un sacrificio che a lei avrebbero lasciate ferite aperte sul viso e sul corpo, e cicatrici incurabili dentro di loro.
Eppure, quando vide nel riflesso di quelle pupille lucide il proprio viso stanco, quando sentì l’urlo di sua madre alle spalle e il vento sibilarle di lato, non potè che ruotare il busto e stringere ciò che amava.
Perché non era brava in nulla, se non a fare da scudo e parare i colpi per gli altri, nella speranza di non vederli soffrire e sentirli urlare, ma sua madre lo fece.
Urlò, urlò tanto forte da strapparla per un attimo dal dolore che l'accecò  mentre il nero sbiadiva e si ritrovava a terra, in mezzo al corridoio, stretta nella braccia che dondolavano entrambe e chiedeva aiuto.
Un aiuto che rimbalzava su un muro di vetro dentro il quale però nessuno poteva udirla, non il suo disperato grido di madre, non il suo respiro flebile.
Eppure, poteva vedere il proprio riflesso mischiarsi alla figura altera di Loki, l’occhio sano nascosto dalla palpebra che amava baciare per fargli sentire la sua presenza con labbra che si trovò a schiudere con un rantolo sommesso mentre uno schizzo di sangue imbrattava il pavimento e le braccia di sua madre provavano a trascinarla in braccio verso la porta.
Inciampò, ma Pepper liberò un grido frustrato nel mantenere l’equilibrio e tamponare la schiena squarciata che liberava  una densa scia di sangue mentre lei avanzava, con sua figlia in braccio, il viso inondato di lacrime e la gola bruciante per le urla che nessuno riusciva ad udire.
Ma era disperazione, quella che la portava a gridare ugualmente il proprio dolore, disperazione per quel viso che sentiva pesante sulla sua spalla, pesante come il corpo esile che stringeva al petto e trascinava assieme a se stessa.
Quando cozzò contro il vetro il contraccolpo rischiò di farle prendere la presa attorno Astrid, ma digrignando i denti rafforzò il braccio destro mentre con l’altro prendeva a colpire la lastra, urlando e fissando con le lacrime agli occhi il sangue che oramai le impregnava i vestiti e continuava a gocciolare a terra, inesorabile.
Un fiume che non riusciva ad arginare con la mano che sentiva il bisogno di abbandonare la presa sulla carne viva e sulla schiena squarciata, una mano che zittì il disgusto con il bisogno di essere di aiuto, di poterla guarire, ma era un’umana.
Una stupida e inutile madre umana che non poteva far altro che gridare al vuoto e sentire sua figlia respirare pesantemnte  per il dolore contro la sua tempia.
Un dolore che era stata lei a causare, perché era lei, chi Astrid aveva protetto quando quella creatura si era avventata su di loro, era stata su quella schiena piccola e minuta che gli artigli erano affondati, non nel suo petto, non nella sua gola, ma nella schiena che strinse rabbiosa, battendo la fronte contro il vetro per generare maggior rumore.
Perché Astrid sapeva di non poter morire, sapeva che le sue, di ferite, si sarebbero rimarginate, che il suo corpo, alla fine, avrebbe retto tutto quello, ma non il cuore di chi si sapeva responsabile di quello scempio, non il suo che pareva sgretolarsi dopo ogni stilla di sangue caduta a terra.
Ma era ingiusto, tutto quello, era ingiusto, perché era sua figlia, quella che giaceva esanime sulla sua spalla.
Era sua figlia quella che non aveva potuto proteggere, che mai, era riuscita a proteggere, se non lui, il dio che per la prima volta  implorò, supplicò di guardarla, di sentirla, di ascoltarla, di vederla.
E quando lo vide aprire gli occhi con una smorfia confusa, quando potè rispecchiare la sua immagine nell’iride chiara, vide qualcosa andare in frantumi,dentro di lui  un annichilente sgretolamento che venne giù assieme al suo sguardo sul corpo appallottolato contro il ventre schiacciato sulla  vetrata.
Un fisico minuto e grazioso, dalla fluente chioma colorata bagnata di rosso, un denso e corposo rosso porpora che Loki sembrò inghiottire assieme alla saliva quando ne trovò tanto, troppo attorno a lei.
- Passerà.
Il tremolio isterico del vetro attirò lo sguardo di chi, ancora, il pericolo non aveva sentito, ma nel percepire l’incrinarsi della vetrata Bruce Barner non potè che distogliere lo sguardo dai documenti ammassati sulla scrivania e lanciare uno sguardo alle proprie spalle, intravedendo una piccola crepa nel muro divisorio, prima di vederlo.
Il sangue.
Una pozza, enorme e impiastricciata su una schiena alla vista della quale sentì il cuore schiantarsi nello stomaco assieme all’uggiolio dell’altro nel riconoscerla.
- Cos’hai da agitarti tanto ? – brontolò Tony nel notare il tremolio convulso del corpo del dottore, ma quando le sue narici riconobbero l’odore, la puzza, ghiacciò sulla sedia con gli occhi fissi al monitor e la gola stretta per l’orrore di vedervi dentro qualcosa che non sarebbe dovuto esserci.
Non la figura disperata di sua moglie, non il corpo gracile che lei stringeva fino a farle male.
Una scheggia gli ferì lo zigomo quando la vetrata scoppiò, una pioggia di schegge dalle quali però nessuno, nella stanza, riuscì a proteggersi, o volle.
Quando Pepper scivolò a terra  si sentì reggere da una mano dura e gelata, dita che sentì tremare contro la carne tenera del suo collo prima di scivolare sul suo petto e scostare lentamente la figura raggomitolatele addosso che a quel contatto cadde indietro con gli occhi socchiusi per il dolore.
Un dolore che Loki inghiottì,  la gola vibrante  un urlo che non riusciva a cavarsi dal petto, perché stava soffocando.
Annegava, inesorabile, nella disperazione che lo stava affogando, spingendo la sua testa sotto l’acqua che ingoiava a fiotti e che non riusciva a sputare fuori, perché ce l’aveva già dentro.
Nel sangue, negli arti lividi per il mancato afflusso di sangue che pareva essersi congelato negli occhi divenuti cremisi.
Perché era il Gigante di Ghiaccio in lui, il mostro che covava in petto a tentare di tamponare la ferita, congelando ciò che sarebbe marcito, disgregato nel vedere la sua terra sporca di tanto sangue.
Una terra che sarebbe dovuta rimanere candida, gentile, e pulita, come lui non era mai stato, come lei lo faceva sentire, ma ora stava affogando, e non c’era più nulla che potesse ripulire quel dolore.
Non le grida di quegli umani che come lui non avevano potuto nulla se non guardarla sempre cadere.
Non quella voce che, nella sua stessa,  continuava a rassicurarlo sul dolore passeggero.
Ma non sarebbe passato.
Non il suo.
Non quello di chi, di soffrire, non sembrava destinato a smettere.





°°°




C’era silenzio, una pace finta e indotta che il cigolio del letto e il respiro stanco della  figura raccolta contro il suo petto frammentavano mentre le lacrime continuavano a scorrere sul suo viso.
Pepper si premurava però  di asciugarle in tempo, cosicché non  bagnassero  il capo di Astrid ripulito da sangue che le aveva impiastricciato i capelli e che aveva reso l’acqua della vasca un' orribile melma fangosa dalla quale l’avevano tolta gentilmente, aiutandola ad indossare abiti puliti e profumati di fresco, così da riposare.
Ma non stava riposando, perché non poteva dormire.
Ed erano lì, coricate sul letto, strette l’una all’altra, rinchiuse in quella bolla di silenzi che la donna si sforzava di mantenere per rassicurare sua figlia e se stessa, ma le bruciava la gola, e le lacrime continuavano a bordarle gli occhi nel sentire la cicatrice sotto le dita.
Perché erano stati costretti a ricucirla, lei e la ferita, troppo profonda e troppo estesa per poter essere riassorbita velocemente dal corpo di Astrid che, nel processo,  avrebbe perso altro sangue, sarebbe diventata più debole, e avrebbe fatto sentire lei  ancora più inutile.
Perché Pepper sapeva di esserlo.
Lo era stata lei, Tony, Bruce, tutti, persino Loki che non aveva mai guardato dalla sua parte, come se vedere Astrid ridotta in quello stato gli arrecasse disturbo, e gliene aveva arrecato, a lui, a lei, e alla sua intera famiglia che, ancora una volta, era stata protetta.
Protetta da chi doveva essere protetto, tutelato, difeso, ma che nuovamente aveva difeso loro, inutili e stupidi umani.
E si sentiva stupida, in quel momento, stupida come donna, come essere umano, ma soprattutto, come madre.
Una madre capace solo di guardarla ferirsi per spirito di sacrificio, e soffrire senza aver la possibilità di ricucire le ferite e asciugare le sue lacrime, incapace, semplicemente, di proteggerla, e non c’era nulla di più doloroso che sapere, sapere di non poter nulla, di essere inadeguata e inutile.
Perché era debole, anche con la pistola nascosta sotto il cuscino, anche con le mani incatenate attorno al corpo di Astrid, anche con il campo di forza che aveva chiesto di ergere al marito nella loro camera da letto, così da permettere alla figlia un po’ di riposo, ma era stato inutile.
Lei era inutile, perché aveva davvero creduto che quelle stupide precauzioni avessero potuto fermare quel mostro e impedirgli di toccarla ancora, ma per quanto fragile sapesse d’essere al confronto, per quando inetta potesse diventare, Pepper aveva giurato a se stessa che nessuno, l’avrebbe più ferita a quel modo.
Ed avrebbe sparato, schiaffeggiato, strappato con le unghie  e con i denti  chiunque avesse provato a cacciarla dal suo abbraccio, lì dove era giusto che fosse, lì dove una figlia avrebbe dovuto sapere di essere protetta, e al sicuro.
Non si mosse di un millimetro nel sentire  il cigolare della porta dietro la quale sapeva, il dottore e suo marito andavano a controllarle ogni quarto d’ora, senza però mai entrare,  colmi di vergogna per il senso di colpa.
Ma quello che Pepper sentì fu diverso, ambiguo, e troppo distante dalla porta che pochi minuti fa aveva visto schiudersi per lasciare passare lo sguardo scuro del marito.
Sentì Astrid irrigidirsi nella sua presa mentre la mano correva sotto il cuscino per afferrare la pistola e puntarla davanti a sé, glaciale in quello sguardo che faceva scorrere per la stanza con  rabbia, la mano tremante per l’ansia di non sapersi abbastanza pronta, abbastanza forte, abbastanza giusta, ma era una madre.
Era sua madre, e avrebbe protetto ciò che era suo, anche da un alieno divoratore di galassie, anche da quello che, da quanto appreso, poteva essere un essere uguale ad Astrid, l’unico, uguale ad Astrid.
Lo scricchiolio alla sua destra attirò la mano verso quel punto, per poi scattare nuovamente di lato e sfiorare il grilletto nel cogliere l’ombra grottesca di una figura poco lontana, e vicina lo era davvero, perché ne sentì il peso sulle lenzuola e sulle gambe che Pepper ritirò, richiudendo la figlia contro di lei e alzando il mento per fronteggiare la creatura e vendicare il torto subito.
Ma non era un mostro, quello chino su di lei, o almeno, non un mostro dal quale temere ritorsioni, perché quella bocca di metallo, per quanto orribile alla vista, sorrideva gentile mentre da sotto il cappuccio Semjace fissava morbida la donna bionda che racchiudeva sua figlia in  un abbraccio soffocante.
- Madre.
Entrambe abbassarono lo sguardo su Astrid, un sorriso morbido a ridare colore al viso stanco verso il quale la creatrice tese le dita metalliche, solleticando una guancia che, pur volendo, non avrebbe potuto accarezzare, non come l’umana che in silenzio guardava ogni suo movimento con la pistola ancora stretta tra le mani.
- Mi dispiace – ed era sincero, il rammarico nella voce della creatura, una desolazione che Pepper per prima aveva sentito nel toccare distrattamente la ferita sulla schiena della figlia.
- Lo siamo tutti – si trovò infatti a sussurrare quasi a se stessa, decidendo infine di abbandonare la pistola sulle lenzuola e ammorbidire l’abbraccio nel quale Astrid si rilassò esausta, sbattendo le palpebre per cercare di rimanere sveglia nonostante la stanchezza le appesantisse lo sguardo.
Le sfuggì una smorfia contrita a quella vista, e la donna potè giurare di aver colto lo stesso cocente dolore nelle pupille  inghiottite nel buio del cappuccio.
 Semjace sembrò abbozzare un altro movimento, ma rimase  con il braccio teso a mezz’aria sul viso di Astrid prima di  dirottare  verso il busto che Pepper irrigidì nel sentire il tocco fuggevole della Creatrice su di lei.
- Mia figlia mi ha parlato molto di te.
Essere gelosi di lei non era giusto,  lo sapeva, ma non potè che risentirsi un po’ di quel “mia figlia”, perché Astrid era anche figlia sua, e  non per linea di sangue, non per volontà divina, ma perché si erano scelte entrambe.
- E devo ringraziarti per quello che hai fatto per lei.
-  Astrid è mia figlia. Tutto ciò che ho fatto l’ho fatto perché sono sua madre, perciò non devo essere ringraziata – le rispose dura, ma la reazione di Semjace non fu irritata come Pepper si era aspettata, al contrario, le parve persino di vederla ampliare il sorriso da sotto il cappuccio.
- Allora dovrai essere tu a proteggerla per entrambe.
Il sussulto del petto portò Astrid a sgranare un po’ gli occhi e guardare le sue due madri fissarsi vicendevolmente in silenzio, ma c’era qualcosa sul viso di Pepper, un'ombra di dolore che assalì anche lei nel sapere di esserne  responsabile, ma quando Semjace le toccò la testa guardò anche lei.
Uno scambio di sguardi dal quale l’umana distolse l’attenzione, ferita da quell’affermazione che lei non poteva che negare.
Perché lei non era capace di proteggere Astrid, non ne aveva la forza, né le capacità.
- Vorresti averle?
La sorpresa di sapere a cosa la Creatrice si stesse riferendo le impedì di rispondere prontamente alla domanda, ma il pensiero di poter essere un libro aperto per una divinità come quella confermò la sua ipotesi.
L’aveva sentita, lei e il suo desiderio di poter fare qualcosa, qualsiasi cosa per essere in grado di proteggere sua figlia, una possibilità che ora, quella creatura, quella madre disperata come lei le stava offrendo.
Perché incapace a sua volta di supportarla,  di toccarla, di aiutarla come avrebbe voluto, ma lei, lei poteva stringerla, abbracciarla e baciarle le guance quando l’amore era così forte da guidare le sue labbra su quel viso dolce, e per un attimo Pepper provò compassione per quella creatura, e pietà.
Compassione per un’incapacità che rendeva entrambe succubi del dolore di sapersi impreparate per reggere altro dolore, il suo, dolore.
E lei non voleva sentirsi più così impotente, non voleva più nascondersi dietro le divise e attendere la fine della battaglia, voleva combattere al loro fianco per proteggere sua figlia dal male dal mondo, voleva il potere, non per sé, non per gli altri, ma  per lei, per Astrid.
Ancor prima di poter proferir parola però, sentì la mano della creatura sfiorarle la tempia, affondare nei suoi capelli e attendere una sua risposta, ma Pepper si limitò a sospirare pesantemente prima di stringere la presa attorno ad Astrid e chiudere fiduciosa le palpebre.
- Cosa è stato?
Le rotelle delle sedie slittarono all’indietro quando la voce di Tony Stark tuonò per la stanza con ferocia, ma un militare, intimorito dall’aria cupa dell’eroe si affrettò a controllare le telecamere, e in particolare quella della stanza da letto dove si trovava la moglie e la figlia che il dottore e lo scienziato si contendevano da anni.
Ma il soldato non trovò nulla di strano, o anomalo, solo due figure addormentate placidamente l’una nelle braccia dell’altra.
- Tutto tranquillo signore, anche nella camera da letto.
Un ‘mh stizzito convinse il militare a tornare a sorvegliare il monitor mentre l’eroe raggiungeva a grandi falcate la figura piegata sull’immenso schermo del computer centrale.
- Allora? Nessun segno di quel bastardo?
- Negativo – rispose Maria, china sulla tastiera con l’aria crucciata – ma c’è un problema.
- Quale problema ? – le chiese Bruce dal lato opposto della sala, precipitandosi al fianco della compagna che ruotò su se stessa, fissando i due uomini con faccia scura.
- Loki.
Sfuggì ad entrambi un ringhio sommesso, ma si costrinsero a mantenere la calma vista la situazione di emergenza, anche se erano stanchi ed esausti da quanto accaduto poche ore prima.
- Cosa non va con Udinì?
- Non c’è più.
- Dove? Nella sua camera? – chiese lo scienziato con acidità, memore di avercelo lasciato non più di mezz’ora fa.
- No, non nella sua camera – sussurrò Maria con un filo di voce, tornando a smuovere la sedia per pigiare un pulsante e far apparire un’immagine satellitare del pianeta.
- Sulla terra.


 


Continua…


 

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Capitolo 6
*** 6- The Cross ***


Capitolo 6
“His soul was tortured by love and by pain
He surely would flee but the oath made him stay
He's torn between his honor and the true love of his life
He prayed for both but was denied “
[…]
“Was it worth the ones we loved and had to leave behind
So many years have past toward a noble land of lies
Will all our sins be justified?”
( Within Temptation – Hand of Sorrow)





I morti non erano creature da strappare alle braccia scheletriche dell’oblio, ma quelle stesse braccia Loki le aveva squarciate  non appena l’ombra silenziosa vomitata dalla terra putrida aveva provato a ghermirgli un piede.
Maciullò tra le mani il cranio di un  non-morto appena decapitato, sorridendo biecamente per la paura che le pupille lucide e pallide delle creature attorno a lui riflettevano sul terreno fangoso, mentre la pioggia battente fischiava nelle orecchie il brontolio  inquieto del suo stomaco.
- Non è permesso a nessuno di calpestare queste terre, figlio di Laufiel, neanche a voi – gorgogliò il più possente di loro, l’anima perduta di quello che un tempo era stato il più efferato degli assassini ma che ora scontava la propria colpa nell’oltretomba, lì dove né uomo, né dio, era ben accetto.
Ma le porte di Hel erano state forzate, e ciò che l’esterno  aveva rigettato lì dentro era una creatura meno viva di quanto avessero pensato.
Perché non c’era nulla, ad accendere quella pupilla dilatata, nulla se non follia e fame di sangue, di morte,  un’urgenza che Loki aveva appagato tappezzando gran parte del terreno circostante di cadaveri in putrefazione.
- Devo vedere la vostra regina.
Un grido isterico si levò dalla folla di cadaveri, improvvisamente appiattitisi contro il terreno in posizione animale nell’udire la richiesta del dio degli inganni, un ordine per il quale persino l’assassino si trovò a rabbrividire profondamente.
- La regina non può essere disturbata da un vivo.
La risata che gli ruggì in petto li fece trasalire per la nota malsana e stridente che gli risalì la gola, aggrappandosi alle labbra che videro curvarsi in un sogghigno ben più temibile di quello isterico della loro Regina.
- Ma io non vi stavo chiedendo il permesso – li avvisò asciutto – la mia era solo una semplice constatazione.
- Di qui non si passa! – gridò allora  un’ombra piccola e ingobbita, dalla barba incolta e dagli occhi incavati – ci è stato dato ordine di non lasciar passare nessuno, e nessuno lasc – il risucchio isterico della terra accolse la punta dello scettro affondato nel cranio piantato a terra, e quando il non- morto provò a dimenarsi si ritrovò sgozzato dalla mano che  dio aveva calato su di lui, tranciandogli la carotide di netto prima  di accostare al fianco una porzione del mantello per ripulire lo scettro dallo schizzo di sangue marcio.
- Presumo ancora che non vogliate lasciarmi passare, dico bene? – li riprese divertito, calciando il cranio e alzando su di loro l’unico occhio buono con un sorriso storpiato in una smorfia invasata.
Un singulto di paura sfuggì a tutti loro, ma fu l’assassino, in vero, a piantare la propria lancia nel terreno e alzare la mascella forte mentre alcuni dei suoi compagni tentavano di trovare rifugio sotto terra, scavando fosse dalle quali speravano di non essere strappati.
Ma quando lo videro inclinare il capo di lato e schiudere un sorriso di labbra arricciate, la puzza della loro paura appestò l’aria umida rendendo persino la pioggia acida e gravida del loro terrore.
- Tanto, alla fine, siete tutti destinati ad inginocchiarvi di fronte  a me.




°°°


Quando il corpo venne rigettato malamente sul pavimento scarno una testa grigia si alzò dal braccio magro e puntellato di morsi abbandonato sul bracciolo mentre le porte uggiolavano per la forza con la quale erano state schiantate contro le pareti.
Un viso pallido e incavato fece in seguito capolino dal fondo dell’immensa costruzione diroccata, lineamenti ruvidi senza pelle ad addolcire l’ossatura tanto visibile da poterne contare i segmenti, ma furono gli occhi, orbite cave svuotate da ogni senso di moralità e giustizia a sorridere isteriche nel vuoto, volando oltre il corpo malandato per puntarsi sulla figura immobile sulla soglia della sua dimora.
- Loki.
Una smorfia disgustata tagliò il viso del dio non appena il trillo irritante di quella voce gli perforò il cranio,  una voce che non era cambiata negli anni, ma che era rimasta ugualmente raccapricciante e ugualmente irritante, anche se da bambino, di quella creatura ne era sempre stato intimorito.
Nel vederla saltare in piedi sulle gambe sottili e appuntite come chiodi Loki ricordò a se stesso che nonostante l’aspetto gracile e inquietante di quella piccola cosa, c’era una vera bestia,  a dimorare in lei, una crudele fiera verso la quale persino il Padre degli dei aveva serbato una certa apprensione.
E non solo perché quella creatura fosse sua sorella, ma perché c’era qualcosa di malsano in quel viso emaciato, una fame che non sarebbe mai stata saziata per quanto avesse mangiato e bevuto, una voracità mai appagata che aveva finito col farla impazzire.
Una risata isterica le scosse il corpo secco come se fosse preda di convulsioni, ma era semplicemente il suo fisico ad essere tanto magro da non poter reggere neanche le vibrazioni del suo stesso riso, un tintinnio sinistro che seguì il ‘crack del braccio  che il non-morto si vide strappar via quando la creatura gli concesse la sua attenzione.
- Zenas, mio stupido e piccolo Zenas – canticchiò la dea, afferrando i capelli della creatura con rabbia, sputandogli in faccia la propria irritazione – neanche come cane da guardia vali qualcosa.
- Mi dispiace.
- Ti dispiace? – gli gridò contro, spillando saliva e azzannando l’aria con i denti affilati e cuneiformi – ti dispiace? Vuoi che ti strappi anche l’altro braccio?
- No, mia signora.
- Supplicami.
Il silenzio protratto del mostro parve indispettirla, perché c’era ancora orgoglio, in quel lurido assassino, una furia omicida che Hell aveva sempre apprezzato, come la prestanza fisica di quella carne  che rimaneva comunque possente, anche se oramai tumefatta, eppure era proprio quella scintilla di ribellione ad indisporla.
Il motivo per cui più di tutti lui fosse torturato e lasciato a marciare nei campi dimenticati per diventare preda degli ingordi, sempre affamati di nuova carne putrefatta.
- Vi supplico – e il non-morto fu costretto a mordersi l’interno del labbro per sputare quelle parole – vi prego di perdonarmi mia signora.
La mano si addolcì lievemente, ma tornò a scattare in artiglio come era solita tenerle, perché la poca pelle presente sul suo corpo non le permetteva di fletterle in modo da farle sembrare quanto meno umane.
- Allora Loki? Cosa ti porta nel mio bel regno? Hai finalmente deciso di arruolarti nelle mie legioni? – gli chiese civettuola, sventolando ciglia che parevano più ragnatele rinsecchite che altro.
- Sai come ucciderlo?
Nel mentre che Zenas riusciva a raggiungere l’angolo buio nel quale la dea aveva lanciato il suo braccio Hell era tornata a sedersi sul proprio trono d’ossa, con il mento abbandonato mollemente sulla mano chiusa in pugno.
 - Se non sei venuto per arruolarti, allora qualunque cosa tu abbia da dire non mi interessa.
Gli sfuggì un verso gutturale nel vedere il gesto annoiato con il quale la dea aveva indicato l’uscita, ma Loki rimase ritto e gelido.
- Tu sai come ucciderlo vero?
- Non so di chi tu stia parlando – replicò Hell, palesemente annoiata dalla conversazione.
- Invece sì – sibilò incattivito – ti ho sentito parlare di lui da bambino, tu e mio padre ne parlavate sempre.
Un guizzo isterico del viso della dea lo convinse di essere nel giusto, che Hell ricordava e aveva capito a cosa si stesse riferendo, ma per qualche ragione sembrava voler dirottare il discorso.
- Allora? Tu sai come ucciderlo? – insistette – sai come-
- Non può essere ucciso.
- Cosa?
Il salto con il quale Hell scese dal trono fu felino, calcolato, e osceno, perché ondeggiava più che camminare, e il modo in cui lo guardava fece stringere a Loki la presa sul suo scettro.
- Non.può.essere.ucciso – cantilenò sadica, soffiando una nuvola di aria rarefatta e tanto malsana da sbriciolare  la base della colonna contro la quale si era poggiata con le braccia intrecciate dietro la schiena.
- Che significa che non può essere ucciso?
- Perché credi sia servito l’aiuto di tutti e nove i sovrani Loki? – lo riprese aggressiva, indurendo il viso  congestionato dalla rabbia – siamo dovuti intervenire tutti, tutti per evitare che quell’abominio potesse divorarci tutti. E sai cosa abbiamo fatto?
Negò con un cenno distratto del capo, perché risponderle a voce avrebbe potuto darle l’alibi giusto per cambiare discorso.
- Abbiamo dovuto imprigionarlo, Loki, relegarlo nelle profondità dell’universo. Galactus, quel lurido piccolo bastardo! -  e il suo nome lo urlò fino a privarsi dell’aria che incanalò per un secondo grido frustrato.
- Lui non faceva  altro che mangiare e mangiare anche sapendosi sazio, ed ora, ora è libero, e tutto per colpa tua.
- Mia?
- Si tua! Tua e di quell’altro abominio!
Lo schizzo di sangue imbrattò la parete di polvere come un vaso di vernice gettato a caso, ma la ferita  che tagliava a metà la gola della dea era stata intenzionale, e calibrata, di una precisione millimetrica che impedì alla creatura di ritrovare la voce prima di riassorbire lo squarcio e sputare altro sangue raggrumato in gola.
- Non osare parlare di lei – la minacciò il dio con  asprezza, alzando lo scettro e puntandoglielo alla gola,  pronto a tranciarle la testa di netto – non permetto a nessuno di parlare così di lei.
Hell tossì ancora, coprendo la bocca con la mano che sfregò contro il proprio abito sgualcito per tornare a ridere isterica.
- Non posso credere che davvero tu ti sia invaghito di quella  cosa - e agitò la mano per mostrare il proprio disgusto al riguardo -  pensavo che fossero solo voci di corridoio, ma a quanto pare persino a te l’amore ti ha reso stupido.
- Bada a come parli.
- Altrimenti? – lo stuzzicò, balzando indietro di qualche metro nel cogliere l’agitare frenetico del suo scettro – mi ucciderai come hai fatto con mio fratello? Il padre che ti amato fino a morirne? Allora Loki? Potresti uccidermi tanto orribilmente solo per aver parlato male di lei?
- Ho ucciso per molto meno – ringhiò incattivito, seguendo i movimenti scoordinati con i quali la vide muoversi a destra e sinistra, come a prender tempo.
- Lo so, ho sentito dello sterminio dei Creatori, e tutto per quella piccola nullità!
Un altro schizzo di sangue, e un braccio volato dall’altra parte dell’androne mentre la Dea saltava verso le arcate della cattedrale, reggendosi al soffitto con gli artigli affondati nel marmo cedevole del tetto.
- Sei piuttosto protettivo nei suoi confronti - e c'era una nota d'invidia a graffiarle la voce - non credevo che il dio degli inganni potesse provare simili emozioni all’infuori dell’odio – gracchiò con voce isterica, saltando da una parte all’altra della sala per sfuggire ai raggi di magia scagliatele contro come frecce avvelenate.
- Ma vuoi sapere una cosa? Galactus la verrà a cercare, se non l’ha già fatto ovviamente.
- Perché lo credi?
Un sorriso divertito le piegò le labbra quando le sembrò di cogliere dubbio nello sguardo impenetrabile del dio, una fragilità della quale si cibò, tornando a terra e spolverandosi l’abito sgualcito con l’unica mano rimastele.
- Perché lui è come lei. Gli fu data la vita da uno dei Creatori per usarlo come pattumiera, se mai i loro esperimenti avessero dato cattivi frutti, capisci? Ha la sua stessa forza, ma è nato per distruggere, mentre lei è nata per dare la vita.
- E perché sarei stato io a liberarlo? – chiese disorientato, e questa volta c’era vera paura, a fargli tremare il cuore, il timore che fin da bambino lo aveva spinto ad allontanare il calore di sua madre Fridda e l’iperprotettività di Thor.
Paura.
Paura di essere ferito e tradito da chi ad amarlo aveva imparato, ma nessuno c’era riuscito fino in fondo, e a lui le cose incomplete non gli erano mai piaciute, ma ora, ora aveva davvero qualcuno che lo amava per quello che era.
Qualcuno da proteggere, da amare senza paura di rimanere scottato, qualcuno che forse aveva destinato lui stesso a soffrire per espiare  peccati suoi.
- Perché hai rotto l’equilibrio, Loki. Hai ucciso una razza, e seminato distruzione. Perché  hai distrutto un anello della catena che teneva Galactus relegato, e con la fine di Asgard hai sancito la rinascita di quel mostro e la dipartita della tua bella.
Il contraccolpo con il pavimento gli tolse il respiro, ma fece scattare una mano al viso per lanciare via il suo elmo coperto da una melma corrosiva che Hell gli aveva vomitato addosso prima di colpirlo con le mani artigliate e gettarlo indietro.
- E per questo entrambi dovrete pagare, ma sappi una cosa. Anche se in quanto divinità non possiamo morire, posso sempre condannarti ad un destino ben più orribile della morte stessa, una punizione che servirà a te e a quell’abominio da lezione.
- Tu non la toccherai con un dito – soffiò tra i denti, rimettendosi in piedi e caricando il colpo mentre la dea si acquattava in una posa animale per schiudere la dentatura affilata e sorridere melliflua.
- E chi ha detto che voglio solo toccarla?





°°°




Le immagini sfrecciavano  davanti ai suoi occhi sgranati per l’orrore, un prisma di colori sgargianti sfumanti dal ceruleo tiepido di quello che poteva  essere scambiato per un  fulmine passeggero, ma non era un fulmine, quello che Astrid fissava con angoscia sullo schermo del computer.
Era un portale, una via per l’universo che Loki aveva aperto e imboccato senza avvertirla, lasciandola indietro.
Lasciandola  sola.
- Sono sicura che sta bene, forse è andato su Jotunheim.
- Oppure ha deciso di prendersi una vacanza – ci scherzò su Tony Stark, meno attento della moglie che gli rifilò una gomitata nel fianco per avvertirlo che quello non era il momento di fare il sarcastico, e l’uomo lo capì quando non vide l’accenno di un sorriso sul viso pallido di sua figlia.
- Qualunque cosa sia successa, sono sicuro che quello squilibrato sia capace di cavarsela da sé tesoro– tentò allora di riparare, sospirando pesantemente nel non riuscire a scalfire la sua espressione angosciata.
Perché si sentiva sperduta, Astrid,  e spaventata, gravida di quella “paura” che da bambina aveva imparato a temere più di ogni altra cosa quando il buio della sua prigione l’aveva accolta nel mondo, quando,  per la prima volta, si era sentita abbandonata.
Ed erano una sensazione che aveva creduto di aver dimenticato, ma ora, con quelle immagini impresse a fuoco nella retina,  non poteva che sentirsi ferita da quella che le sembrava una fuga, un fuga da lei, dal dolore che gli aveva inflitto, dalla frustrazione di sapersi coinvolto in guerre non sue.
Un braccio forte la sollevò da terra  ancor prima di potersi abbandonare ad un gemito addolorato, e quando Bruce se la schiacciò contro si premurò di coprirle gli occhi e baciarle la tempia con forza.
- Non pensare a ciò che può accadere, ma a quello che vuoi fare ora – le sussurrò in un orecchio, cullandola dolcemente nel sentirla rilassarsi contro il suo petto e rilasciare un lungo respiro stanco.
Stanco come lo sguardo che Astrid puntava nel nulla, la mente proiettata in immagini di Loki ferito, catturato, o peggio, prigioniero di Galactus, ma si costrinse a non pensarci, perché suo padre aveva ragione.
Perdersi in fantasie non avrebbe fatto altro che farla soffrire, doveva perciò concentrarsi su come comportarsi, su casa fare ora per capire il perché di quel gesto.
- Andrò a cercarlo.
- Andremo tesoro, andremo – la corresse sua madre con un sorriso gentile – andremo tutti insieme.
- Su questo avrei da ridire – intervenne lo scienziato con voce grave, voltandosi a guardare la moglie con durezza – questa volta non credo sia il caso  che tu venga con noi.
Petto contro petto, Pepper Potts si trovò a fronteggiare il viso cupo dell’eroe senza remora alcuna, il mento alto e lo sguardo severo di chi, di sottostare a leggi imposte, non sembrava interessato.
- Invece io verrò.
- No, tu non verrai – la contraddisse arcigno, afferrandola per un braccio con un lampo di dolore per il quale, per un momento, la donna si trovò a schiudere le labbra  – non posso combattere sapendoti in pericolo.
- Ma non lo sarò – e così dicendo si districò dalla presa per accostare il dottore e aiutare Astrid a tornare di fianco a lei – perché sarò troppo occupata a proteggere mia figlia, e non ho il tempo di gettarmi in stupide schermaglie tra mostri e alieni.
Una giustificazione gettata quasi per scherzo, ma c’era qualcosa di strano, nello sguardo di sua moglie, una luce diversa che Tony fissò attentamente per un istante prima di aggrottare le sopracciglia.
- Cosa diavolo hai fatto?
- Io? – si ritrovò ad indicarsi la donna, colpita all’acume del marito che doveva aver annusato qualcosa – io non ho fatto nulla. Ho solo promesso ad una persona di proteggere Astrid.
- E chi sarebbe questa persona? La conosco? – si indispettì lo scienziato.
- Si papà, la conosci – gli rispose Astrid con semplicità –è mia madre.
- Tua madre? Cioè, tu ti sei ripromessa di proteggerla?
Una smorfia divertita le tese il volto nel ripensare alla frase preferita di suo marito, una critica che quella volta, sarebbe stata lei a rivolgergli.
- Hai dimenticato come si conta tesoro?  Quante dita  vedi alzate?
- Due – rispose prontamente lo scienziato, imbronciando le labbra nell’altalenare lo sguardo dalle affusolate dita al sorriso strafottente della moglie, e fu solo dopo molto, troppo tempo per un genio come lui, che Tony Stark si trovò ad impallidire e arrossarsi per la rabbia che gli gonfiò il petto e gli bruciò la gola.
- Tu hai incontrato uno dei Creatori? Quando? Come? Perché?
- Mi spiace tesoro, roba da donne.
- Roba da- mi stai prendendo in giro? Come osi tacere questi particolari?  - e andò avanti a sbraitare fino a diventare paonazzo mentre Astrid, assicuratasi di avere abbastanza forza da compiere quel viaggio, si allontanò dalla sua famiglia per andare in contro al capitano dello S.H.I.E.L.D. chino sull’ennesima scartoffia da firmare per dare il via all’operazione di difesa.
- Signor Fury?
Uno sguardo gettato distrattamente alle spalle, e l’uomo si convinse a lasciar perdere i codici di sicurezza inviati da Selvigg per dare la sua completa attenzione all’alieno, ancora provato da quanto accaduto poche ore prima anche per la sua incompetenza, ma pronto a gettarsi in campo.
- Si Astrid?
- Io e la mia famiglia andremo alla ricerca di Loki. Cercherò di fare il più in fretta possibile, ma renderò  Yssgradrill una difesa impenetrabile fino al mio ritorno, in caso di un attacco in mia assenza – gli spiegò severa, tornando a quella se stessa un po’ più adulta e meno ingenua, un piccolo soldato in gonnella che del proprio dovere non si era dimenticato.
E non lo avrebbe fatto, perché era un suo dovere come umana, come donna, e come Tesseract, proteggere ciò che andava protetto,  e la Terra sarebbe rimasta illesa fintanto che lei fosse stata in vita.
Una fedeltà per la quale l’uomo si trovò a ringraziarla con lo sguardo, richiamando l’attenzione dei sottoposti che scattarono in piedi con le mani portare al capo in un saluto militare che Nick Fury per primo compì.
- Aspetteremo il vostro ritorno allora. Buona fortuna agente Astrid – e c’era reale riconoscimento in quel titolo, un’identità che ora la investiva davvero di un ruolo concreto, e non solo immaginato.
Perché era Astrid, componente onorario degli Avengers, ed ora, soldato scelto degli Stati Uniti d’America.
- Si, si, ora basta con queste sciocchezze che abbiamo da fare. Astrid! Vieni qui vicino a me, non voglio che quella degenerata di tua madre ti spinga sulla cattiva strada, bugiarda com’è diventata – lamentò Iron Man, strattonando la figlia verso di sè prima di molleggiare il braccio e imitare un saluto fiacco e sbadato.
- Mi dispiace contraddirti, ma se c’è una persona che la può condurre sulla cattiva strada quello sei tu – lo rimproverò Bruce, arpionando il braccio destro di Astrid e tirandosela contro mentre dal lato opposto Iron Man si aggrappava al busto della figlia nel vano tentativo di fungere da zavorra.
- Tu che vuoi ora? Vatti a sbaciucchiare la Hills e non appestare me e mia figlia con la tua puzza di piedi!
- I miei piedi non puzzano!
- Ma davvero? Dove credi sia andata la mia colf Barner? In ospedale! E solo perché quella povera donna ha avuto la malaugurata idea di lavare i tuoi dannati calzini radioattivi!
- Non è vero!
- Si che è vero!
Con uno sguardo scanzonato Pepper si insinuò tra i due uomini che parevano fare  a gara su chi distoglieva per primo lo sguardo, salvando Astrid dalle loro grinfie per fare quanto promesso a Semjace.
E quando scomparvero in un tunnel di luce comparso dal nulla, Nick Fury si accostò alla finestra della stanza, osservando attentamente il campo di forza che l’albero sembrava lanciare come una rete sopra le loro teste, la protezione promessa e ricevuta da quella che non era più un alieno adottato, o una fonte d’energia condivisa, ma un eroe.
Il più grande eroe che l’America e il mondo intero avesse mai avuto il privilegio di avere come compagno.




°°°



 
- Dove diavolo siamo finiti?
Il fischio del vento fu l’unica risposta che Tony Stark ricevette mentre l’occhio si perdeva per miglia e miglia di terra ribaltata, cieli cupi e coperti da coltri di nebbia talmente fitta e compatta da sembrare una parete traslucida inchiodata al cielo come barriera dal sole.
Perché non c’era luce, lì dove erano capitati, non una scintilla.
- Sei sicura che Loki sia qui?
La risposta tardò ad arrivare, ma Astrid non riusciva a trovare la voce, incastrata in fondo alla gola assieme al nome che avrebbe voluto urlare, se solo non avesse percepito tutte quelle presenze attorno a sé, ombre sinistre che si agitavano attorno a loro come il riflesso frammentato di uno specchio rotto.
- Stiamo vicini – raccomandò loro Bruce prima di trasformarsi e raddoppiare la stazza, così da rinchiudere tra sé e l’uomo di metallo le due donne e avviarsi.
La terra si sgretolava sotto i loro piedi come creta, costringendoli a deviare per ammassi di rocce coperte di brina sotto i quali, con orrore, Pepper trovò il corpo mutilato di un uomo dal quale il marito la allontanò bruscamente, stringendo la cintura di difesa formata con Hulk che pareva altrettanto nervoso.
Ma più procedevano nella speranza di trovare qualcosa, più il nulla tornava a gettarli nella confusione mentre Astrid cominciava ad avere paura.
- Starà bene, sono sicura che starà bene – la rassicurò sua madre, stringendo la presa sulla mano che la donna portava al petto nel captare scricchiolii, risate sommesse, e dialoghi concitati di ombre che non osavano mostrarsi, forse per la stazza imponente di Hulk, o forse perché gli era stato ordinato di non farlo.
Perché qualcuno voleva che avanzassero, che calpestassero la terra putrefatta e urlassero di orrore nell’inciampare in qualche arto mozzato, una creatura che di quella desolazione era padrone, un mostro che forse, avrebbero trovato nell’imponente cattedrale diroccata a qualche metro di distanza.
Fu proprio nell’aguzzare la vista verso lo sgangherato edificio che Astrid vide un’ombra stesa al suolo, circondata da qualcosa, topi forse, ma erano troppo grandi per poterlo essere, ma avrebbe preferito che lo fossero, perché ciò che vide la disgustò a tal punto da costringerla a coprirsi la bocca per non vomitare.
- Astrid!
Risate isteriche irruppero nell’aria quando l’urlo di Pepper si levò alto, un richiamo per ciò che fino ad allora era rimasto nascosto ma che, nel vedere la piccola figura avanzare da sola, senza protezione, balzarono via dai loro nascondigli per raggiungerla.
E non ci fu più solo la sua ombra a sfrecciare veloce per la terra morta, furono decine, migliaia di figure che Astrid ritrovò davanti a sé, su quel corpo ferito che delle creature parevano torturare, generando urla di dolore che per un attimo, temette appartenessero a Loki.
Il lampo di luce fendette il cielo come la lama implacabile di una divinità, ma non era il suo dio, quello riverso a terra, non era Loki si rincuorò, il respiro affannato e la mano ancora tesa davanti a lei, per far arretrare quelle cose.
Ricadde in ginocchio con il cuore stretto in gola, lo sguardo lucido per ciò che vedeva, lo scempio di un corpo privato degli arti superiori, con il volto esangue e le iridi pallide rivolte al vuoto, come se fosse morto.
Ma lo sentiva respirare, e tanto le bastò per chinarsi a raccoglierlo tra le braccia e aiutarlo ad appoggiarsi al suo petto per ritrovare un minimo di ristoro.
Quando Zenas si decise a schiudere le palpebre lo fece per la meraviglia di sentire un tocco delicato sulle sue membra spolpate, un tocco che non poteva appartenere a nessuno dei suoi compagni che, poco prima, avevano tentato di privarlo di ogni parte del corpo come loro era stato ordinato della regina.
Una punizione alla quale  lui più di tutti era avvezzo, perché d’animo ribelle e violento, ma quella volta, c’era calore, attorno al suo capo, e una luce gentile che gli riempì lo sguardo quando la vide china su di sé.
Il disagio la investì nel sentire i suoi occhi puntati sul suo viso, ma Astrid non riuscì a distogliere lo sguardo come avrebbe voluto, perché c’era qualcosa di doloroso, in quella pupilla vitrea, una sofferenza senza fine per la quale si trovò a stringere le labbra prima di tergere il sangue con un lembo dell’abito e accostare la mano ai suoi arti mozzati.
- Allontanati da lui!
Lo strattone la fece sussultare per la sorpresa, ma Tony non perse tempo a mostrarsi compassionevole come la figlia di fronte a quell’orrore che Astrid teneva in grembo, come a concedergli un minimo di conforto.
- Lascialo!
- Ma è ferito.
- Ma non vedi cos’è ? Non vedi che –
- Cosa? – lo interruppe lei, fissando suo padre negli occhi con durezza – cosa papà? Cosa dovrei vedere? Che è diverso da me? È questo ciò che vuoi dire?
- Io non volevo-
- Solo per questo non dovrei aiutarlo? Solo perché è diverso da me ? – continuò con voce rotta – tutti hanno bisogno di aiuto, persino lui – e si districò dalla presa dell’eroe, tornando a chinarsi sulla creatura e riversare sulle ferite un po’ del suo potere.
Nel percepire il rigenerarsi dei suoi arti, Zenas tese una smorfia dolorosa, ma si costrinse a guardare in alto, su un cielo che aveva  visto sempre nero e cupo, ma che in quegli occhi vide tingersi di luce, un’abbacinante e gentile luce cerulea che lo investì, lasciandolo spossato ma nuovamente integro.
- Tornerò – gli promise, trascinandolo contro una roccia prima di tornare ritta e guardare la costruzione decadente con  occhi pesti e stanchi, mentre il suo corpo tornava ad emettere il bagliore accecante  dal quale le ombre si allontanarono frettolose tornando nella terra da dove erano uscite.
Ripresero ad avanzare, con un po’ meno timore, illuminati dalla scia di stelle che Astrid lasciava dietro di sé, perchè era tornata a proteggerli, come lei sapeva, era giusto che fosse, come era suo compito fare.
Perché, se l’umanità non ci sarebbe riuscita, se un dio non avesse potuto, sarebbe stata lei, a combattere per ognuno, e a mostrare pietà per chi, d’aspetto diverso, avrebbe potuto generare disgusto e avversione negli altri.
Ma non in lei, lei che diversa lo era sempre stata, e che compatita non era mai stata, una mancata premura per la quale Astrid aveva deciso di non privare nessuno.
Non chi escluso era stato, e né chi, assassino e sterminatore di razze, si trovò a vedere la luce per la prima volta.



°°°


Lo scricchiolio  sinistro della porta lì invito ad entrare, ma fu Hulk ad aprire loro la strada, avanzando lento e con gli occhi neri fissi su ogni cosa si muovesse, ma non c’era niente, in quella stanza.
Solo polvere, e i resti di colonne che ancora fumavano per uno scontro consumato con troppa violenza, una ferocia che gli schizzi di sangue sulle pareti imbrattate e le impronte di mani rosse che parevano aver provato a reggersi ad una delle colonne cadute resero ancora più agghiaccianti alla vista.
Pepper si abbandonò ad un rantolo sommesso nel vedere quell’orrore, e fu con fare apprensivo che vide le spalle di sua figlia sussultare ferocemente prima di vederla correre senza fiato verso un angolo buio della sala, lì dove la videro crollare in ginocchio con un gemito stretto in gola.
Le tremavano le mani, ma quando i polpastrelli toccarono le corna lucide dell’elmo Astrid se lo tirò al petto con tanta forza da ritrovarsi senza fiato per il contraccolpo, ma le sue braccia parevano essersi congelate in quell’abbraccio disperato, una stretta nella quale affondò il viso, schiacciando la fronte contro il freddo metallo con un singhiozzo.
- Tesoro? Cosa- la voce si perse nel nulla quando, nell’accostarsi alla piccola figura raggomitolata su se stessa, riconobbero ciò che Astrid stritolava tra le braccia, bagnando l’elmo delle lacrime che rotolavano giù dalle sue guance assieme ai singhiozzi sfuggiti dalle labbra tremanti.
- Forse è di qualcun altro, forse non è il suo – provò a consolarla Tony Stark, ma lui per primo sentiva la menzogna nella propria voce, una bugia che Pepper non ebbe cuore di raccontarle, perché era di Loki, l’elmo macchiato di sangue,  sue le impronte di mani insanguinate che avevano provato a reggersi a qualcosa.
Il dolore al petto non le permetteva di respirare, si sentiva soffocare, e le lacrime le gonfiavano la voce dello strazio con il quale si costrinse ad alzare il viso nel sentire il tocco delicato di una mano sulla spalla.
Ma fu proprio nell’aprire le palpebre serrate che lo vide.
Un luccichio.
Delicato e abbandonato nel buio dell’angolo, ma una luce verso la quale Astrid tese un braccio, strisciando verso il piccolo monile con il quale le sue mani, una volta entrate in contatto,  inviarono una fitta di dolore tra gli occhi, come se qualcuno le avesse appena trapassato il cranio con una lama.
Perché era il suo orecchino, quello che giaceva  a terra tra la polvere, il simbolo del loro amore, il dono con cui era divenuta sua secondo le leggi del suo popolo, la prova di quell’amore che Astrid sentì scricchiolare assieme agli occhi che avrebbero potuto infrangersi come specchi rotti, se non l’avesse raccolto da terra.
E quando lo strinse nel palmo, quando saggiò il familiare gelo, un’ondata di dolore le offuscò la vista, costringendola a curvarsi su se stessa e schiudere le labbra in un urlo che si trovò però ad inghiottire, quando lo sentirono sibilare nel vento.
Una voce.
- Le scale!
Correre le venne naturale una volta seguito il braccio di sua madre puntato alla loro sinistra, lì, dove una scala a chiocciola conduceva ai piani alti, alla fonte di quello che poteva essere stato uno spiffero del vento, ma non c’era tempo per perdersi in supposizioni.
Ed anche se l’elmo la rallentava, anche se l’anello stretto nella sua mano sembrava ustionarle la carne, Astrid non abbandonò mai la presa, salendo scalino dopo scalino con la voce che spingeva per urlare il nome di chi stava cercando, di quell’amore che le era stato rubato e senza il quale sarebbe morta.
Ma quando riuscì ad imboccare una piccola entrata nascosta da un nugolo di ragnatele, quando gli vi si gettò all’interno senza curarsi del pericolo, senza proteggersi da una ferita che avrebbe potuto raggiungerla, potè urlare quel nome, mentre il cuore tornava a battere e a farla sentire viva.
Quando Pepper precedette gli eroi all’interno della stanza dimessa si fermò sulla soglia della piccola entrata, le mani corse alla bocca che vibrò istericamente per il singhiozzo che le sarebbe sfuggito, ma non se lo permise, non di mostrare il proprio dolore per quella vista, persino gli occhi di Hulk si fecero lucidi.
Perché lo aveva trovato.
Steso su un quello che sembrava un altare scheggiato ai bordi, immobile, e con gli occhi chiusi, ma con il petto smosso da un respiro per il quale Astrid si era trovata a ringraziare, perché era vivo, Loki era vivo, ed era lì, tra le braccia che  lo strinsero al petto con disperazione, cavandole dalla gola quel gemito che a lungo aveva tentato di trattenere.
Un pianto silenzio le fece tremare le spalle, ma c’era sollievo, a farle brillare lo sguardo di nuove lacrime mentre le mani correvano ad accarezzare quel volto sfigurato, abbracciando con le dita quella porzione di viso che, benchè deturpata da quelle orribili cicatrici, tornò a farla innamorare.
- Incantevole, non trovi?
Si strinsero gli uni agli altri con uno scatto nervoso quando la udirono, ma la voce impiegò qualche altro minuto prima di disperdersi in un eco flebile e acuto come il fischio del vento.
- State dietro di me.
Pepper annuì severa, accostandosi alla figlia che aveva stretto Loki un po’ più a sé, come a fargli da scudo con il proprio corpo, ma c’erano Hulk ed Iron Man a rappresentare la prima linea di difesa, un muro divisorio contro il quale persino Hell avrebbe avuto qualche difficoltà, perciò fu con l’ennesima risata che venne giù dal soffitto, mostrando la sua  figura secca e rachitica.
- Attendevo con ansia il tuo arrivo – sussurrò melliflua la Dea, alzandosi sulle punte per vedere ciò che con tanto ardore il dio degli inganni aveva difeso assieme al suo onore, e quando  la vide, ne rimase affascinata, e affamata.
Perché pulsava vita, quella piccola creatura dalla pelle di cielo, tanta di quella vita da poter persino saziare lei se non fosse stata quello che era, una forza contro la quale la dea sapeva di non potersi misurare, non direttamente, almeno.
- Che cosa gli hai fatto?
- Io? Io non ho fatto nulla, è stato lui a fare tutto – le spiegò gentile, ondeggiando su se stessa con un sorriso che fu costretta ad inghiottire nel venire bruciata da una scheggia di luce lanciatale contro, una saetta che Astrid caricò nella mano destra, sentendo la furia divampare dentro di lei e bruciare.
- Non devi incolpare altri dei vostri peccati, Tesseract – e nel dire quel nome la dea sputò tutta la sua invidia per ciò che rappresentava – siete stati voi a meritare questa posizione, perché è colpa vostra, se Galactus si è liberato.
- Noi-
- Noi cosa? Voi siete stati la causa di tutto, e Loki ha meritato la sua punizione. Lui ha sterminato una razza per amore tuo, piccolo Tesseract, un amore che gli ha ridato ciò per il quale è stato condannato.
Amore.
Colpa.
 La sua.

Astrid potè sentire una voce nella sua testa urlare di non ascoltarla, perché quelle parole lei le aveva già udite in passato, una cantilena che il mondo non aveva mai smesso di usare come sua ninna nanna.
Perché era per amor suo, che Loki aveva ucciso la sua famiglia, per difendere lei, la sua dignità, il suo cuore sempre bersaglio della brama ed odio altrui.
- E con la distruzione di Asgard avete liberato quell’abominio dal giogo al quale i nove regni lo avevano costretto, perciò Loki è destinato a scontare la punizione per sempre.
L’orrore di quelle parole, di quella minaccia che sapeva d’eternità la tramortì come se l’avesse appena colpita, ma era stato il suo cuore, a ricevere la punta di quella freccia che le iniettò veleno nelle vene, nelle braccia che sentì afflosciarsi lungo i fianchi e su quel corpo che tornò a fissare con paura, terrore, disperazione.
Un sorriso stucchevole tese le labbra della dea di fronte a quella vista nell’annusare tutta quella disperazione, molta più di quanta lei stessa potesse mai aver nutrito, perché lei non aveva limiti, non nel suo potere, non per quelle emozioni che nella loro infinità avrebbero potuto ucciderla.
E stava morendo dal dolore, Astrid, lentamente, ma stava morendo con quel viso stanco stretto al petto come un salvagente al quale sapeva di non potersi più aggrappare, perché sarebbe venuto giù con lei.
- Non si sveglierà mai più – tuonò la voce della dea, gravida di quell’isterico godimento del quale si tinsero le sue orbite cave risucchiate da quell’immagine, affamate dal dolore che pareva sgretolare ogni cosa nel Tesseract.
Il corpo afflosciatosi al suolo, il viso distorto in una smorfia addolorata, e lo sguardo, frammentato in piccole schegge che sarebbero potute venire giù al suono della sua voce, al suono di quella che appariva come un destino inevitabile.
Ma non lo era, e la dea amava troppo se stessa per poter godere fino in fondo di tutto quel dolore, perché c’era un mostro, al di là dei suoi cancelli, una creatura che l’avrebbe uccisi tutti, una bestia che solo lei avrebbe potuto imbrigliare, ma solo se avesse avuto un motivo per combattere.
E il suo motivo era il dio sul quale aveva abbandonato il petto rigato dalle lacrime.
- Ma potrà riaprire gli occhi, se tu farai quanto da me richiesto.
- Cosa devo fare ? – fu l’immediata risposta che Astrid le diede in un sussurro, senza allontanare il capo dal petto che sentiva alzarsi sotto di sé, a ricordarle quanto dolore aveva seminato per far felice lei, per amare lei.
E si sarebbe caricata di quel dolore, lo avrebbe  preso tutto, senza lasciarne una minima goccia, in cambio del suo risveglio.
Perché si sarebbe sobbarcata di quei peccati che lei avrebbe potuto reggere, dei quali, in fondo, era responsabile, e perché, semplicemente, sapeva di dover sempre sacrificare qualcosa, per ciò che era, ma non lui, mai, lui.
- Devi ridare la vita a ciò che Loki ha distrutto, e quando Asgard tornerà a risplendere, lui potrà riaprire gli occhi.
Ma c’era un ma, nella sua voce, una pausa lunga un respiro con il quale Astrid riaprì gli occhi, osservando il vuoto mentre il cuore le andava in frantumi.
- Ma al suo risveglio, una volta riaperto gli occhi, lui non avrà più alcun ricordo di te o della tua esistenza. Tornerà al tempo della sua prigionia, della sua vecchia avita, senza avere memoria di te. È questo il prezzo da pagare per riaverlo indietro. Resta a te decidere se accettare di pagarlo, Tesseract.
Di nuovo quel nome, il fantasma più ingordo dei suoi ricordi, il suo tormento, il suo strazio, ma ciò che ora le avrebbe permesso di riportarlo da lei, e di fare quanto detto.
Lei che poteva riportare in vita ciò che una vita aveva già avuto, il limite per il quale si era ritrovata a piangere il proprio dolore, il confine per il quale, quella volta, si costrinse a ringraziare.
Fu un bacio lieve, quello che le labbra fredde di Loki accettarono, una bocca tremante che Astrid si costrinse ad allontanare per guardare di fronte a sé.
Non la dea, non la sua famiglia, ma il nulla, un punto che nessuno oltre lei avrebbe visto, perché era dentro se stessa, che si stava perdendo, in quella immensità che la spinse ad avanzare in silenzio, da sola, verso la finestra dalla quale volò giù in un soffio, tuonando a terra come se un fulmine avesse provato a spaccare quella parte di mondo a metà.
Ed una crepa si aprì, ai suoi piedi, mentre il nero del cielo gorgogliava nervoso per il suo cheto avanzare, lento, e solitario come sempre era stato il suo passo.
Perché nessuno avrebbe potuto reggerlo, sopportarlo, ma andava bene così, sarebbe dovuto, andar bene così.
Quando Zenas percepì la presenza calda accanto a lui si costrinse a riaprire le palpebre e a richiuderle frettolosamente per non rimanere accecato, mentre la figura camminava lenta per una via che la crepa tracciava di fronte a lei.
Lei che bruciava e spogliava il terreno da ciò che morto, sotto i suoi piedi, non fu più.
E ci furono erba e fiori, a tendersi verso di lei, verso la vita che gli umani e la dea affacciati alla finestra videro brillare nel vuoto, la guida di chi per strada si era perso, dalla quale era stato scacciato, chi Astrid avrebbe recuperato dal fondo dell’oblio per adempiere al suo dovere, al suo destino.
Pagare per ogni amore conquistato, perire, per ogni lacrima che sulle sue guance evaporava per le fiamme che le lambivano il corpo sottile e stanco.
Si udì un grido, al di là del vuoto, un coro di voci che lo squarcio aperto nel cielo rese più acute, isteriche, disperate, le urla di chi alla vita venne richiamato da lei, quella luce che smise di essere umana e divina, e che aria ed energia pura, si arrese a ritornare per un istante.
Il boato dell’esplosione coinvolse i pianeti a quello vicino, il palpito isterico di un cuore che tutti sentirono tuonare sulle proprie teste, un palpito per il quale Giganti di Ghiaccio ed umani si trovarono a fissare lo stesso punto di luce comparso d’improvviso lì dove nulla vi era più.
Ma era oro, quello che Zenas ed Hell si trovarono davanti.
E torri alte, dagli stendardi d’avorio che la grandezza di quel popolo non avrebbe smesso di mostrare, un’opulenza che l’armatura dorata del dio biondo riflettè nello sguardo tornato blu, senza più luce, né vita, solo uno sguardo che era divenuto stanco e cedevole come un cristallo abbandonato nel fondo dell’oceano.
- Che la tua gente abbia imparato la lezione, figlio di Odino – tuonò la sua voce, storpiata da quel potere che in lei ancora vibrava e che rendeva le sue parole l’eco lontano di anime grandi, antiche,  e solenni.
- La vita vi è stata restituita, ma  per l’ amore che tu per primo hai disprezzato – e c’era rancore, nella voce di Astrid, rancore per le sofferenze subite, e per quell’ascolto che mai le era stato permesso, ma ora avrebbero ascoltato tutti.
E lui, quel dio che in Loki aveva sempre generato amore ed odio, sarebbe stato il testimone delle sue promesse, delle sue minacce, dei suoi comandi.
Perché era il Tesseract, e a lei si doveva la vita, a lei avrebbero dovuto ogni sorriso, respiro, sguardo rivolto ai propri cari ritrovati, d'ora in avanti.
- E quell’amore, figlio di Odino, chiedo che a Loki sia concesso, come fin dall’inizio sarebbe dovuto essere. Perché ora avete la possibilità di riparare l’errore e riprendervi dalla vostra ignoranza, ed amarlo come si merita, questo è tutto ciò che vi chiedo in cambio.
Ci fu silenzio, e sguardi duri rivolti a ciò che di splendere smise in silenzio, ma lo sguardo di stelle mai Thor, dio dei fulmini, abbandonò, per amore del suo popolo, e del ruolo del quale era stato investito.
Protettore di Loki, da lì in poi, responsabile di quel dolore che lui per primo sapeva di aver causato al fratello, e fu per amor suo, che promise.
Fu per amor suo, che Astrid sorrise debomente prima di chiudere gli occhi e smettere di bruciare.
La videro rivolgere loro uno sguardo assente, vitreo e distante, ma quando Pepper non la vide girarsi al suo richiamo sentì le lacrime di disperazione riempirle gli occhi quando udì lo strappo che la figlia generò nel vuoto, uno squarcio dentro il quale ci fu neve e ghiaccio, ad accogliere i piccoli passi di Astrid.
E fu sulla neve, che lei ricadde, le mani affondate fino al gomito nella distesa ghiaccio che le sue lacrime tinsero d’azzurro.
Un pianto per il quale Yssgradrill intera si trovò a tremare mentre Asgard tornava risplendere di un fulgore che lentamente, sul manto innevato, si spense assieme all’urlo con il quale cadde riversa al suolo, il viso rigato di lacrime e lo sguardo stanco di chi, oramai, non aveva più nulla da sacrificare.




Continua…



Hel e il suo regno non sono di mia invenzione, poichè sono descritti nella cosmologia norrena come il regno opposto ad Asgard, che rappresenterebbe il cielo, ed Hel, di conseguenza, l'inferno.
Ringrazio tutti per la lettura, l'attenzione e il passaggio da queste parti!
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes

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Capitolo 7
*** 7 - The Other Half (Of Me) ***


7 - The Cross
“You can't brighten all the gloom
Your heart is afraid and so empty
You glorify the future
Living in a different world than me
The journey ends in death
You are giving up so easily “


[…]

“We are drifting apart
Chilled to the marrow, cause you don't want to go
Cause we've got a different wish at heart
The amulet guides us to the other side
When I go down it's you who'll bleed
I'm not scared to die, as long as I'm with you
You are the other half of me “
 (The Other Half (Of Me) - Within Temptation)





Il fruscio armonico degli steli di ghiaccio aveva perduto la cadenza melodica con la quale aveva  imparato a  cullare il sonno di  Jounheim, una litania che ora, nel buio della sera, col grido isterico della Madre terra a lacerare il silenzio,  appariva più tremante ed incerta, una voce storpiata dal peso del corpo abbandonato sul suo petto.
Un’ombra sottile e minuta che nel suo ghiaccio era immersa per metà, il viso sepolto nella neve  che rendeva incerto il suo profilo, distante il suo sguardo, e  morente il respiro appena accennato che abbandonavano le labbra colorate appena schiuse.
E il suo canto spezzato tornò a librarsi dell’aria ancora una  volta, rotto, la gola stretta dall’angoscia di quel peso che la terra non riusciva a sopportare, non tutto quel dolore, ma era su di lei, che Astrid giaceva, immobile, riparata dall’ombra di Yssgradrill che sotto i suoi rami l’aveva rinchiusa nel tentativo di proteggerla.
Ma a farle male, a ferirla,  era lei stessa, lei e l’elmo stretto al petto che aveva reclamato accanto a sé per avere qualcosa a cui aggrapparsi nella sua lenta caduta.
Un crollo inesorabile e rumoroso che l’aveva vista sepolta nella neve del suo regno con il cuore in pezzi, un cuore che a respirare, non era più in grado, lei, non ne era più in grado.
Non di sopportare quella perdita, non di ribellarsi alle braccia di sua madre che fino ai suoi rami l’avevano trascinata, riparandola sotto il legno possente delle sue braccia che avevano tentato di reggere il peso del suo corpo e del destino che per sé aveva scelto, ma che, alla fine, le aveva spezzato le gambe e la voce.
Una voce che Astrid non aveva più, perché perduta, era tutto perduto, oramai.
Lei, era perduta.
Perche non esisteva.
 Non nel cuore di Loki, non nella sua mente, non in quello sguardo che,  nel calare su di lei, non l’avrebbe riconosciuta, né capito il perché delle sue lacrime.
Ed era ingiusto, tutto quello.
Perché aveva sperato di poter avere almeno lui, con sé, alla fine.
Il primo ad averla amata, il primo ad averla dimenticata.
Ed era il pensiero di non esistere, di essere stata cancellata tanto facilmente dal cuore di Loki a toglierle la forza di rialzarsi, di provare ancora a lottare, ma non ora, non ancora.
Voleva solo riposare, in quel momento.
Chiudere gli occhi e fingere di essere qualcun altro.
Un’ umana, una dea, chiunque ma non se stessa, non il motivo di tanto dolore, non la causa di tanta disperazione, la sua, disperazione, quella che aveva pregato di non provare più, quella dalla quale era stata salvata da qualcuno, perché da sola, ad uscirne, non ce l’aveva fatta.
E il suo eroe si trovava a pochi passi da lei, lì dove Sunniva non si era mai mossa dopo averla seguita, in silenzio e a capo chino, per il manto innevato dal quale sua madre l’aveva sottratta per nasconderla agli occhi del mondo.
Ma quelli della Gigante riuscivano a vederla, parevano persino spezzare i fragili steli per farle sentire la sua presenza, il suo sostegno, perché da lei mai il suo sguardo si era mosso,  memore di un segreto, di una storia della quale lei era la sola custode.
Un storia che parlava di precipizi, disperazione, e un salto che la Gigante non le aveva mai permesso di compiere.
Da quel precipizio però, era infine caduta, una voragine che lei stessa aveva rappresentato per se stessa, il fondo che ancora una volta si era trovata a toccare per una perdita, l’ennesima perdita.
Una brezza gentile e morbida le sfiorò lo zigomo, un tocco per il quale si trovò a far scivolare gli occhi un po’ più in alto nel riconoscere il profumo di buono di sua madre, in piedi davanti  a lei con gli artigli pieni dei suoi capelli.
- È tempo di rialzarsi – la sentì sussurrare nel vento, ma quella volta, non ci fu comprensione, ad accendere il suo sguardo, ma rabbia, una collera che le riempì le mani delle fiamme che le divorarono il viso scattato verso l’alto, su quella figura che continuava a rimanere immobile e severa, come sarebbe dovuto essere.
Perché  non aveva bisogno di essere compatita, confortata, Astrid lo sapeva, ma la ferita era troppo profonda, e bruciava, ardeva del dolore che le graffiava il viso e il petto senza pietà.
- Hai delle responsabilità.
- E gli altri? Gli altri non ne hanno verso di me? – si ritrovò a gridare quando  la frustrazione e la desolazione la assalirono, liberando il rancore che le arrochì la voce e la spinse a tornare in piedi per sfogare il malessere che la stava uccidendo –  Allora madre? Gli altri non ne hanno verso di me?
- I tuoi obblighi verso gli altri sono ben più gravosi dei loro – le ricordò però la Creatrice, quasi insensibile allo sguardo arrossato e alle lacrime che rotolavano giù dalle guance, ma non lo era.
Perché Semjace piangeva, dentro di sé, ed urlava per quella figura che non smetteva mai di guardarsi attorno con quello sguardo sperduto, che di soffrire, non aveva mai smesso, per quanto lei avesse pregato le anime degli antichi di darle conforto.
Ma non ce ne era per lei, non in quel momento.
- E perché ? Perché lo sono? – tornò ad urlare con strazio, gettando a terra l’elmo per avere le mani libere di agguantare l’aria e bruciare gli steli che la toccavano, come a calmarla,  ma non aveva bisogno di parole dolci, non quando era l’odio, ad avvelenarle il cuore, il disprezzo per ciò che le avevano fatto, per ciò che era costretta a sopportare, ma era stanca.
Stanca di comprendere, stanca di sapere, stanca di credere che alla fine, un lieto fine lo avrebbe avuto anche lei, perchè era sempre stata la fine, la sua unica scelta.
- Perché madre? Non ho il diritto anch’io di riposare? Di essere stanca? Perché lo sono – e si battè il petto con il pugno chiuso per farsi male, per mostrarle che quello che lei guardava era carne, e pelle che sapeva aprirsi di ferite, e arrossarsi per i suoi colpi, non metallo, non energia, ma ossa e muscoli – lo sono madre, perché, per quanto io mi sforzi di essere diversa, tutto ciò che mi circonda è  dolore.
- Non è la diversità che devi ricercare, figlia mia – e quella volta c’era tormento, in una voce che sarebbe dovuta rimanere salda, ma non davanti a tutta quella disperazione, non davanti a quelle lacrime.
Le mancò la voce, per un attimo, l’aria risucchiata da quei polmoni che le diedero la possibilità di replicare, ma Astrid non lo fece, non quando  le proprie parole riecheggiarono nella sua testa e le ferirono lo sguardo.
Diversa.
Chinò il capo senza più sapere dove guardare, limitandosi ad osservare in silenzio le mani inghiottite dalle fiamme.
Pensava di averlo accettato, oramai, di aver accettato se stessa, ma erano solo menzogne, le sue,  bugie che aveva scambiato per verità, ma la realtà era ben diversa.
Perché alla fine, dopo quanto accaduto, tornava a porsi la stessa domanda.
Chi?
Chi era lei?
Chi credeva di essere?
Un' umana, un alieno, una divinità, un abominio?
Cos’era lei?
Tutto e niente era la risposta.
Tutto e niente.
- Io volevo solo essere felice-  un sussurro distorto dalle lacrime che le gonfiavo la gola e le annebbiarono lo sguardo – io volevo solo essere felice, madre.
Quando la vide stringere i palmi per liberarli dalle fiamme, quando la vide nascondere il viso tra le mani e scoppiare in singhiozzi ci fu disperazione, a far rantolare la voce della Creatrice, un tormento che non le dava pace e che la uccise quando, nel provare ad accarezzale il capo, si trovò a stringere solo aria.
Ma lei piangeva, e nulla poteva fare per consolarla se non guardarla soffrire, la sua condanna, il suo supplizio, perché era un abbraccio, quello di cui ora aveva bisogno sua figlia, una stretta nella quale rilasciare tutto il dolore per ricominciare a respirare e a vedere se stessa non per ciò che gli altri vedevano, o credevano di sapere, ma per ciò che era, ciò che sempre, sarebbe stata.
Non Astrid l’umana, non la moglie di un dio, ma la sovrana dell’universo, una regina che poteva decidere chi lasciar vivere o morire, l’essere superiore il cui compito sarebbe stato quello di regnare su ogni cosa.
Uomini, dei, mondi, non avrebbe avuto importanza, ma per regnare lei era nata, non per comprendere, non per capire, ma per essere.
L’inizio e la fine di tutto.
Spiegarglielo, tuttavia, non sarebbe servito, perché doveva esser lei stessa a capirlo, a sentirlo, ad accettarlo, ma era pur sempre una donna ferita, quella che piangeva sepolta tra la neve, una creatura infelice della quale l’uomo e gli dei avevano nuovamente abusato, ma era stata lei a permetterglielo.
Lei che credeva di dover provare ad essere un po’ più come loro e un po’ meno come se stessa, in quel  disperato tentativo di avere un’identità, ed era quella stessa identità che lei non vedeva, ciò che era e che doveva ricordarsi d’essere, ma non in quel modo, non affogando in tutto quel dolore.
Il suo lamentò si levò, alto  e acuto come l’arpeggio stonato di una melodia che faticava a mantenere il ritmo, ma ci furono tonfi, a seguire quel suono, decisi come lo scorrere di un fiume, il fragore di una cascata, e ci fu un respiro, a franare su di lei, quello che Astrid sentì soffiare sul proprio capo.
Un respiro pesante e irregolare per la fuga dissennata con la quale l’aveva raggiunta  e poi sollevata in un abbraccio che Sunniva intensificò, serrando le mascelle possenti nel sentire l’umida scia delle lacrime bagnarle il petto.  
Ma le lacrime si erano fermate, mentre gli occhi tornavano a vedere il terreno ribaltato di fiori calpestati nel quale la Gigante si era fatta strada per raggiungerla, contravvenendo alle leggi del suo popolo, disonorando la sua stirpe per aiutare lei, così piccola e fragile tra quelle braccia che però sapevano essere così gentili, sul suo corpo stanco.
E furono d’amore, le lacrime che le bagnarono il viso.
Fu per amore che ricambiò la stretta , abbandonandosi alla dolcezza di un abbraccio che sapeva di gelo, di casa, e di qualcosa che Astrid sentì grattarle il petto.
Energia.
La sua, energia, quella che invano aveva tentato di mitigare, nascondere, adombrare nell’ombra del suo sorriso gentile, ma non ci fu dolcezza, sul suo viso, mentre il cielo si scuriva e i fiori tornavano a cantare e bruciare.
Un canto che si levò forte, fino a diventare un coro di voci che di bisbigliare avevano smesso, lei, aveva smesso.
Smesso di cercare di essere qualcuno che alla fine non era.
Perché aveva sempre cercato di essere l’inizio e mai la fine, ma era giunto il momento,  per lei, di conoscere l’altra faccia di se stessa.
Lei, che i Creatori avevano creato non per essere serva, non schiava, non amica,  ma Regina.
Regina del mondo, della vita.
Di tutto e niente.



°°°
   



L’aria era satura di frasi non dette, maledizioni inghiottite di forza e costrette nelle gole vibranti di chi ricordava ma di punire non aveva il potere, né la possibilità,  neanche il Padre degli dei che dal suo trono d’oro fissava silente la figura dal sorriso ferino e dall’occhio cieco e affamato fisso su di lui.
- È un piacere rivederti fratello.
Una voce sgradevole quella di Hell, dal tono graffiante e acuto come il grido isterico di bambini spaventati dal buio della propria camera, e l’oscurità annidata in quelle orbite vuote sarebbe bastata a gettare ombre su tutti loro, sui guerrieri di Asgard che accostavano Odino e che, nell’udirla, serrarono i ranghi,.
Ma c’era  chi  paura della dea non provava più.
Non timore, non orrore, solo rancore, un sorso di acqua ghiacciata che occluse la gola di Pepper quando la donna si trovò a rialzare il viso dalle mani umide delle sue lacrime per tornare alla realtà.
Una  realtà che ora la vedeva di nuovo madre disperata per una figlia che non era riuscita a proteggere, neanche quella volta.
Ed era colpa sua, di quella piccola creatura dal sorriso sbilenco e dal passo zoppicante, era lei  la causa di quel pianto, del suo, e di quello con cui aveva visto Astrid svanire nella neve, in solitudine, chiudendo la porta alle spalle, quella che Pepper si era sempre augurata di poter aprire senza dover chiedere permesso.
Ma ora l’entrata era talmente usurata, talmente abusata che la vedeva cigolare davanti ai suoi occhi sgranati dal dolore, il passaggio verso un rifugio nel quale sua figlia sperava di non poter essere raggiunta dal dolore, ma  quello aveva imparato ad abbattere le sue difese filtrando sotto la porta, insinuandosi nelle crepe che Pepper aveva sempre provato a tamponare.
Rimedi per una rottura sempre rimandata ma mai del tutto risanata, non quel piccolo cuore che aveva visto sgretolarsi, impotente, assieme allo sguardo straziato di sua figlia.
Ed ora lei ne aveva le mani piene, di quei frammenti, schegge che se avessero avuto forma, le avrebbero martoriato i palmi quando li richiuse in pugni per la rabbia di sapere che era colpa loro, era sempre stata colpa loro.
Sua, degli uomini, degli dei, del mondo, se lei soffriva e moriva di dolore.
Era colpa sua.
- Quanta freddezza mie cari – e questa volta la dea ruotò su se stessa per rivolgersi ai presenti nella sala del trono con feroce ironia – non dovreste osannare chi vi ha ridato la vita? Chi vi ha salvato dall’oblio? Non-
Il tintinnio vibrò nell’aria per una manciata di secondi, echeggiando per la sala del trono con uno squillo che si interruppe  quando la pesante decorazione d’oro massiccio smise di agitarsi, gettando schizzi di rosso porpora sul pavimento immacolato.
Sangue che Hell toccò con dita tremanti sulla propria guancia, gli occhi sgranati per l’incredulità e la bocca schiusa in un urlo che fece tremare l’intera sala ma non lei.
Non l’umana dallo sguardo duro e dalle labbra arricciate in una smorfia sprezzante che non cedette di un millimetro neanche quando vide quella creatura torcere il collo tanto forte da spezzarselo per la fretta di identificare il responsabile di quella blasfemia.
E quando la dea vide la mano rea di averla ferita tesa ancora in aria, come a gridarle che era stata lei, a gettarle contro la decorazione strappata ad una delle colonne della sala,  gridò isterica.
Ma Peppper,  della saliva spillata da quelle labbra secche e spaccate non ne venne impaurita, neanche quando Hell, preda della follia feroce, alzò il braccio per infliggerle la punizione adatta ad un essere come lei prima di arricciare il naso e fermare le dita richiuse improvvisamente in pugno.
- Zenas.
Il non-morto che l’aveva affiancata fino a quel momento a capo chino si trovò a rialzare uno sguardo diffidente all’indirizzo della sua signora, insospettito dal fremere di narici che la dea dilatava rumorosamente, quasi ad annusare il pericolo incombente.
Ma era un’umana, quella che aveva davanti.
Una donna, fragile e disarmata, il bersaglio perfetto da schiacciare e dilaniare, da far urlare per il dolore.
- Puniscila.
Eppure  non così fragile si ritrovò a pensare quando la sua padrona tornò ad abbandonare il braccio lungo il fianco con un lampo inquieto negli occhi, sospetto forse, una diffidenza che però la dea pareva nutrire per la piccola umana.
- Puniscila –tornò a ripetere la divinità, schiumando rabbia nel non notare alcun movimento alla sua destra.
Perché Zenas dubitava, ora, di ciò che vedeva, di ciò che fragile sembrava ma che forse, in fondo, non  era.
- Puniscila ho detto!
Eppure, per quanto recalcitrante fosse, per quanto il suo sesto senso gli urlasse di non rivolgere minaccia alla creatura pallida e dallo sguardo duro, il pensiero di poter essere preda e bottino di guerra dei suoi simili lo convinse a scattare nella sua direzione con occhi cupi.
Occhi che dovette sgranare quando, nell’approcciarsi alla fragile umana, si ritrovò a schiantarsi duramente contro la colonna opposta a lei, respinto non dall’uomo di metallo che aveva provato a tirar via la moglie, non dalla creatura dallo sguardo di pietra, ma da una sottile patina dorata che l’aveva avvolta e protetta dal suo attacco.
- Vedo che Yssgradrill ha scelto una nuova protetta.
Pepper strinse le labbra nel cogliere il fastidio nella voce della dea, l’occhio cieco fisso su di lei e sulla barriera che, una volta percepito l’assenza di pericolo, svanì nel nulla, lasciando alle sue spalle solo silenzio e il gemito di dolore del non-morto che faticò a tornare in piedi.
- Cosa- cosa diavolo è stato? – sbottò Tony Stark quando riuscì a riprendersi dallo shock, tirando la moglie per un braccio, così da leggere direttamente nei suoi occhi le risposte che chiedeva, ma l’umana non provò neanche a scostare lo sguardo dalla dea affamata.
Non con ancora il crepitio dell’energia a formicolarle sotto le dita e sulle spalle che Pepper contrasse, scostando gentilmente la mano del marito dal suo braccio.
- Perché ha scelto te e non me?  – ringhiò Hell, assalita dall’invidia che mai l’avrebbe abbandonata o resa sana di mente, perché lei era nata folle, e nella sua follia aveva imparato ad odiare qualunque cosa lei voleva ma non poteva avere per sè.
E la protezione di Yssgradrill era un dono del quale nessuno aveva mai potuto godere, neanche suo fratello, nessuno se non quella piccola e insignificante umana che quel potere non avrebbe saputo apprezzare a dovere, non come avrebbe fatto lei.
- Perché è il compito di ogni madre proteggere i propri figli – le sibilò contro Pepper, i muscoli delle braccia contratti e gli occhi tanto fissi da dolerle.
- Madre – la riprese la dea con voce gutturale, le labbra piegate per il sorriso affettato con il quale Hell tornò a dondolare, ondeggiando verso il trono del fratello con una risata di scherno rinchiusa in gola – madre.
Il fischio della sua risata mozzò l’aria come uno stiletto piantato nei loro crani, tanto in fondo da costringere alcuni a portarsi una mano al capo e mitigare il pulsare frenetico delle loro tempie, disturbate da quella cacofonia che la dea tornò ad intonare nel volgere uno sguardo feroce agli umani.
I suoi artigli graffiarono l’aria quando alzò il palmo magro e ossuto mentre gli occhi le si riempivano dell’eccitamento per il profumo di sangue giovane che avrebbe fatto spillare da quella piccola e insignificante creatura, protetta sì da Yssgradrill, ma non del tutto immune al suo potere, non chi la circondava e chi su quella stessa protezione non poteva contare.
Perché era una dea, quella che sorrideva loro languida, un mostro dal viso di bambina che di ridere smise solo per porre un’unica e tagliente domanda.
- Madre di chi?
- Mia.
L’orrore  graffiò il viso della dea quando quella voce echeggiò macabra nella sua testa, come se le avessero parlato all’orecchio, un sussurro gelato che si disperse nell’aria assieme alla brezza artica per la quale tutti si trovarono  a trasalire.
Ma non fu per l’improvviso calo di temperatura che molti si schermirono il viso e inghiottirono il grido serrato in gola, non per ciò che si poteva sentire, ma ciò che si poteva vedere e toccare, e temere.
Una paura che Hell sentì scivolare fino in  gola quando sentì qualcosa di ghiacciato tracciare un percorso immaginario sino  alla nuca dove la dea potè sentire la pressione di dita, lunghe e fredde dita blu che Astrid richiuse con forza, stritolando la trachea prima di sollevare il braccio e lasciarla scalciare per la mancanza d’aria.
Un gemito di angoscia si levò alto per la sala quando il pavimento si flesse sotto il passo pesante della Gigante di Ghiaccio ferma all’entrata, gli occhi scarlatti fissi sulla piccola e minuta figura che la dea fissava con occhi dilati  per il terrore e l’angoscia.
- Com-co- rantolò Hell in preda al panico, facendo pressione sul palmo sottile che le stava togliendo l’aria, ma era d’acciaio la presa che la stava stritolando, un acciaio che neanche lei avrebbe potuto spezzare, non il freddo metallico di quel sorriso spietato che piegava le labbra del Tesseract.
Un sorriso per il quale Hulk si trovò ad aggrottare le sopracciglia e stringere i compagni un po’ più assieme, i sensi impazziti per il pericolo che sentiva serpeggiare attorno a loro, una minaccia tanto soffocante da impedire persino ad Odino di proferir parola.
Ma anche se lo avesse fatto, Astrid non l’avrebbe udito, o sentito, non sentiva niente, in quel momento, se non le ossa gracili di quel collo spezzarsi una dopo l’altra dopo ogni sua piccola pressione.
E stringere le veniva semplice, sorridere a quel modo, le veniva semplice.
Essere crudele, le veniva semplice.
- Credevi davvero che non sarei tornata per vendicarmi?
Il rantolo soffocato della dea fu l’unica risposta che ebbe, ma bastò per cavarle dagli occhi la sottile delizia di vedere tutto quel dolore in quegli occhi che ora provavano paura.
Paura di lei, di ciò che Hell vedeva bruciare nelle pupille di stelle in pasto alle fiamme, fiamme che la divoravano da dentro senza sosta, uccidendo ogni cosa avesse imparato.
La morale.
La pietà.
La comprensione.
Non c’era più nulla di umano ora in lei, niente che potesse ricondurla a quei principi che suo padre le aveva insegnato a rispettare, ma nessuno aveva mai avuto rispetto per ciò che lei rappresentava, per quell’incubo che Astrid non aveva mai voluto essere ma che, alla fine, si era ritrovata a diventare.
L’incubo di un mondo che di tremare ad ogni suo passo non avrebbe smesso, non fino a quando il suo dolore non sarebbe stato ripagato con altro dolore, il suo, dolore, quello della dea che le aveva tolto ciò che le rimaneva di buono in lei.
Un amore che, una volta perduto, l’aveva gettata in pasto all’odio e al rancore.
Perché a tenerla in piedi, ora,  era solo quello.
Desiderio di vendetta, di rivalsa su chi, su di lei, aveva creduto di possedere qualche diritto, ma era lei, ad averli, su tutti.
Il diritto di decidere chi lasciare morire.
Il diritto di distruggere ciò che di vivere non si meritava, e quella creatura rantolante non lo meritava, nessuno lo meritava più  per ciò che le avevano fatto, per il dolore che le avevano inferto.
Per le ferite che l' avevano costretta a subire.
- Astrid.
Quando Pepper la vide irrigidire le spalle nel cogliere il suo sussurro incredulo potè percepire il dolore di sua figlia, perché era diventata un fascio di dolore, Astrid.
Lo erano diventate le sue ossa, i suoi muscoli, ogni cosa che sotto il pulsare frenetico della ferita la portava a muoversi, a gesticolare, persino a sbattere le palpebre in un tentativo disperato di espellere dal corpo, come veleno, quel dolore soffocante.
Ed erano i suoi stessi occhi, ad essere avvelenati, le pupille vitree che su di loro, sulle tre figure lanciarono un grido isterico, un richiamo per il quale Hulk si trovò a rantolare il nome di sua figlia che chiedeva aiuto.
Un lampo di fragilità che Astrid inghiottì assieme alla lucidità quando sentì le dita della dea provare a graffiarle il viso, nel tentativo di farle perdere la presa, e su di lei il nero tornò a tingerle la voce e a chiazzarle lo sguardo di punti ciechi nei quali venire trafitti e uccisi.
- Lasc-
- Lasciarti? E perché dovrei? – e serrò la stretta con le labbra tornate a piegarsi per la crudeltà che le grattava la voce – perché è così che dovrei essere? Perché è giusto che sia così? Non credo.
Il grido di dolore fece scattare in piedi il Padre degli dei, ma quando Odino provò a schiudere le labbra si trovò ad impallidire per la paura che gli fece tremare le gambe e che lo riportò a sedersi sul suo trono, gli occhi sgranati per la fitta di dolore che gli aveva trapassato lo sterno, come se qualcosa avesse provato a spezzargli la schiena e la gabbia toracica.
Una sensazione di disfacimento che Astrid riportò sulla dea con una luce folle negli occhi.
- Visto? Anche io posso essere cattiva, molto più crudele di quella creatura che temete tanto.
- Io-
- Sai perché sei ancora viva? Sai perché continui ad appestare l’aria con la tua sola presenza  – un rantolo il suo, una voce che sembrava ripescata dal fondo di una caverna, un eco grottesco che fece rizzare i capelli sulla nuca della dea – non perché sei utile, non perché sei potente, ma perché l’ho voluto io. L’ho sempre voluto io.  
Quando la videro torcere il collo per guardarli tutti in viso ci fu un brivido collettivo a far tremare loro le ginocchia, un fremito che sul corpo della dea divenne un movimento convulso e scoordinato di arti che di lottare, di respirare, non riuscivano più.
- Perché sono io qui a decidere chi vive e muore, non voi, e soprattutto – e nel tornare a risentire su di sé quello sguardo Hell lanciò un uggiolio angosciato – non te.
- M-
- Ma su una cosa hai ragione – la interruppe feroce, incavando il viso con quel sorriso raccapricciante – l’equilibrio deve essere mantenuto, perciò non ti ucciderò, ma ti farò desiderare di essere morta una volta che avrò finito con te.Tu.
Zenas deglutì a vuoto quando la udì, ma tenne gli occhi bassi nella speranza di aver capito male.
Eppure sentiva quegli occhi levitare su di lui come mani invisibili che lo toccavano e spingevano il suo mento a rialzarsi, ciò che fu costretto a fare quando la possibilità di sfuggire al suo comando lo convinse ad arrendersi.

Un lampo di pietà saettò per le iridi di Astrid quando vide il braccio livido della creatura, malamente riattaccato alla spalla, ma mantenne l’aria altera e la voce dura quando lo invitò ad avanzare verso di lei.
Uno, due, tre passi, il non-morto tremava dopo ogni singolo movimento, ma quando la raggiunse, quando si decise a guardarla in viso, seppe di essere perduto.
- Vuoi diventare Re?
La domanda portò via con sé alcuni sospiri increduli, persino i guerrieri di Asgard non poterono che temere per l’incolumità del Padre degli dei, ma Zenas non emise suono, si limitò solo a sgranare le palpebre secche e screpolate per la sorpresa.
Astrid si convinse ad addolcire la piega delle labbra quando lo vide indietreggiare lievemente nel cogliere il movimento della sua mano, un palmo che gli tese in silenzio, le pupille di luce incatenate agli occhi che, anche volendo, il non-morto non avrebbe potuto rivolgere ad altro se non lei.
- Vuoi diventare Re?
- Tu non puoi-non – ma il rantolo sommesso di Hell si ridusse in un verso strozzato per il quale Zenas si trovò a tendere un sogghigno, incurante dello sguardo feroce che la dea gli lanciò, ma non c’era più nulla di minaccioso in lei, non con quella mano stretta attorno al suo collo a costringerla all’ubbidienza.
E d’improvviso, il quesito immotivato della creatura sembrò prender senso e un significato che lo fece sorridere apertamente.
- Nessuno meglio di chi ha indossato le catene può capire la desolazione dell’essere schiavo di un tiranno crudele – e Astrid fissò con crudo compiacimento il viso della dea tendersi per l’ansia e la paura – perciò nessuno  più di te merita la sua corona.
- No! Lui non può – tornò a dimenarsi Hell, una volta riuscita a liberarsi del polpastrello schiacciato contro la sua carotide – quel trono è mio per diritto di nascita, tu non puoi darlo a lui, non puoi darlo-
- Invece posso – la zittì lei, tornando a toglierle la voce e la speranza di potersi ribellare al suo volere – e lo farò, a patto che tu rimanga fedele a me-
- Zenas – le rispose il non-morto, una punta di presunzione a storpiargli la voce arrochita dall’eccitamento – il mio nome è Zenas.
- Allora Zenas, vuoi diventare Re pur sapendo della fedeltà a me rivolta e dovuta?   
Uno sguardo supplice da parte della dea fu ciò che spinse la creatura ad allargare il sorriso e afferrare la mano che Astrid gli tendeva  mentre attorno a loro il freddo si inspessiva e il grido di Hell tornava a levarsi alto.
- Non farà male – la rassicurò, falsamente dolce, quando la costrinse ad accostare la fronte alla sua, i lineamenti tanto storpiati dalla paura da rendere il suo viso simile al teschio corroso di un morto – o almeno, non quanto vorrei ne facesse.
Un lampo.
Non videro altro.
Uno sprazzo di luce che dal nulla calò sulle loro teste con il rombo grottesco di uno stomaco vuoto, ma  ciò che Hell vedeva, ciò che fu costretta a guardare fino a desiderare di diventare cieca era un vuoto infinito tempestato di luci accecanti, pulviscoli di quelle che parevano focolai, e poi lo sentì, lo strappo.
Una lacerazione che la spinse a gridare con una voce che non ebbe più quando si sentì tirare dentro quel mondo senza fine,  trascinata per i piedi verso una profondità che la prosciugò della vista e di quella forza che le impedì di attutire la caduta quando la mano attorno alla sua gola si allontanò.
Il franare silenzioso della dea portò molti dei presenti ad indietreggiare velocemente quando videro il Tesseract avanzare di un passo, ma fu davanti al non-morto che Astrid si fermò, gli occhi irradiati dal potere risucchiato e imprigionato nelle profondità del suo essere, una potenza divina verso la quale Zenas si tese inconsciamente mentre da terra, Hell, alzava le mani per scagliare su di loro la sua furia.
Ma non aveva più nulla da invocare, nulla da lanciare su quella creatura, se non maledizioni e urla deboli come lei era stata costretta a diventare.
Perchè non più dea immortale, non più divinità crudele, ma una creatura senza più  poteri e legioni da comandare.
E quando lo lasciò uscire da sé, quando riversò in quella creatura l’ultima stilla di potere, Astrid smise di soffrire, tornando a guardare al mondo con meno cattiveria, con meno odio, ma con amore, e comprensione.
Perché era anche quello, alla fine, sarebbe stata entrambe per tutta la vita.
Crudele e gentile.
Dolce e meschina.
Ambivalenze che alla fine l’aveva riportata lì dove tutto era iniziato.
Quando Pepper la vide correre verso la porta indicata dal Padre degli dei, il desiderio di seguirla fu forte, ma si trattenne dal cedere ad un bisogno che suo marito e il dottor espressero a loro volta prima di trovarsi con le sue mani a stringere l’avambraccio di ognuno.
Era giusto che la lasciassero da sola, in quel momento, libera di andare in contro a ciò che aveva ripromesso di riprendersi.
Perché non gli avrebbe mentito come loro, non avrebbe tenuto nascosto il suo amore, ma glielo avrebbe gettato addosso come una coperta nella quale avvolgersi per stare al caldo nelle fredde notti d’inverno.
Gli avrebbe insegnato ad amarla di nuovo,  ad amarsi, di nuovo.
Non lo avrebbe allontanato, non lo avrebbe abbandonato, né avrebbe allentato la presa attorno alla mano che mai avrebbe lasciato, a costo di cadere assieme a lui e non ritrovarsi più.   
Ed anche se nel guardarla lui non le avesse sorriso, anche se nel vederla non l’avesse riconosciuta,  non si sarebbe arresa.
Avrebbe lottato per riprendersi ciò che era suo, e una volta recuperato ciò che era andato perduto, gli avrebbe dato ciò che lui per primo, le aveva regalato.
Il simbolo del loro amore, l’orecchino che sul suo lobo sinistro rifletteva lo scintillio delicato del gemello sul suo orecchio destro.
Perché avrebbe lottato per entrambi, non avrebbe mai smesso fino a quando avesse avuto un respiro e un cuore da far battere, un cuore che sentì scoppiarle in petto quando, disceso velocemente la familiare scalinata a chiocciola, si trovò davanti alla porta delle prigioni.
Lì dove per la prima volta l’aveva incontrato, lì dove finalmente, l’avrebbe ritrovato.
Il cigolio dei cardini attirò lo sguardo curioso di Thor verso l’entrata, ma ben presto si trovò ad assottigliare le palpebre nel vedere tutta quella luce, un bagliore per il quale Loki non potè che schermirsi il viso e smettere di massaggiare i polsi segnati dalle manette dalle quali il fratello lo aveva appena liberato.
Durò una manciata di secondi, il tempo di qualche battito nervoso di palpebre che finalmente, nel riuscire a definire il contorno di una figura minuta, Loki si convinse a schiudere lentamente.
E più la luce sbiadiva, più quella figura prendeva forma.
Piedi piccoli e scalzi furono  il primo particolare che il dio degli inganni registrò, ricercando nella memoria una donna dall’incarnato simile a quello ceruleo dell’epidermide appena visibile dalla gonna morbida e di un tenue bianco panna.
Fu poi la volta di un busto asciutto, abbracciato da un abito semplice e grazioso che scivolava come nuvole sulle braccia scoperte della donna, braccia che Loki vide scattare verso il petto che la sconosciuta abbracciò, come a darsi conforto.
E capelli, lunghi e di sfumature tanto contrastanti da dargli l’impressione di star osservando un arcobaleno, ma erano semplici ciocche quelle che le accarezzavano il collo e il seno, sbuffi di colore che addolcivano la tonalità particolare della pelle.
 E una bocca, morbida e dall’aspetto delicato, come un fiore appena sbocciato su un viso per il quale, una volta inquadratolo nella sua interezza, si trovò a trattenere il fiato.
- Cosa ci fai qui?
La voce di Thor fu tetra, pericolosa, ma Astrid non lo sentiva, non lo guardava, non vedeva nulla se non lui.
Loki.
Sentì le labbra tremarle  per il bisogno di gridare il suo nome a squarciagola e  fargli sentire  la gioia che le stava squassando il petto, il sollievo di sapere di averlo  salvato, alla fine, di aver ripagato lo stesso debito che lui, prima di lei, aveva estinto.
Eppure non riusciva a trovare la voce, Astrid, poteva solo tremare d’amore e pregare di essere forte per lei, per lui, per entrambi.
Perché avrebbe dissipato ogni suo dubbio, spiegato ogni dilemma, confessato il perché dei suoi occhi lucidi e delle lacrime che le rigarono il volto, avrebbe pensato ad ogni cosa, persino al dolore che avrebbe taciuto in gola per ogni suo sguardo diffidente e sospettoso, perché lo sarebbe stato con lei, lo era stato con tutti.
Ma gli avrebbe insegnato a fidarsi di lei, lei che non lo avrebbe tradito come gli  altri avevano fatto, ma che lo avrebbe amato fino alla fine dei suoi giorni.
E quando la sorpresa lasciò posto alla diffidenza, quando gli occhi di Loki si assottigliarono per il sospetto, Astrid non potè che sorridere come lui le aveva insegnato a fare.
Un sorriso che profumava di qualcosa di buono, di gentile, un sorriso che profumava di casa, la sua casa.
Un senso di vertigine lo assalì quando, nel fissare inquieto la strana creatura, si sentì intrappolato in quello sguardo lucido e proiettato lontano, tanto lontano da sentirsi perso e spaesato, una sensazione che quel sorriso sembrò mitigare, dandogli l’impressione di aver già vissuto tutto quello.
Ma era un' illusione, quella nella quale era intrappolato, un’allucinazione con la quale quella creatura voleva distrarlo per far sì che suo fratello potesse trovarlo indifeso, e debole.
Eppure, c’era una voce, nella sua testa, che lo invitava a cedere a quell’illusione, a lasciare che quella sensazione di calore, di amore lo affogasse nel suo abbraccio, ma aveva paura di tutto quel calore.
Perché ne sarebbe rimasto scottato, e le sue mani erano piene di troppe bruciature per poterne reggere altre, e in qualche modo sapeva che quella, sarebbe stata la scottatura più dolorosa di tutte.
- Chi sei?
Atroce.
Lo fu la scarica di dolore che le azzannò ogni nervo del corpo, un morso che per un attimo la rese insensibile ad altro se non al dolore, ma si costrinse a tenere il sorriso fermo e lo sguardo morbido conficcandosi le unghie negli avambracci stretti in vita.
E per un attimo, il desiderio di non rispondergli fu forte tanto quando la disperazione che le aveva rinchiuso il cuore in una morsa di angoscia, ma doveva scegliere cosa essere.
Se fingere ancora una volta, di essere qualcuno che non era, o accettare il peso di ciò che rappresentava.
La voce della creatura lo fece trasalire, perché non l’aveva immaginata così potente, come un comando smussato dagli angoli per apparire più gentile, ma furono le sue parole, a indurigli lo sguardo e irrigidirgli il cuore.
Due parole. Semplici, innocue, ma pesanti per ciò che significavano, per il legame che rappresentavano.
Un legame che quella creatura impalpabile e surreale definì con quelle semplici parole.
Parole che Loki, in vita sua, non aveva mai creduto di poter udire sulla bocca di nessuno.
Men che meno su quelle di chi, ora,  si presentava  come  sua moglie.


Continua…




E ci stiamo avvicinando quatti quattri alla fine, con mio enorme dispiacere, ma va bene così.
Ringrazio chi continua a leggere la storia.
Al prossimo aggiornamento, Gold Eyes

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Capitolo 8
*** 8 - Deceiver Of Fools ***


Capitolo 8
“He told the tale so many times
About the dream not meant to be
In a world of the free
He plays with your mind
[…]
Deceiver of hearts, Deceiver of fools
He rules with fear
He rules again ,He feeds on fear
Poisons the truth To gain their faith
To lead the way To a world of decay
He will sell your soul to bitterness and cold
Fear him”

( Within Temptation – Deceiver of Fools)





Spalle rigide per l'ansia.
Mandibole serrate con apprensione.
Gambe flesse per essere pronte a concederle  la spinta necessaria a farle tendere il collo taurino e  azzannargli la gola, strappargli, la gola.

Sforzo apprezzabile il suo, quasi scenico, ed eroico, ma patetico, a suo dire.
Non che la Gigante di Ghiaccio avesse potuto avere davvero la possibilità di raggiungerlo  senza trovarsi senza gambe né braccia dopo aver solo azzardato il primo passo, ma Loki apprezzava comunque quel suo tentativo di intimidirlo.
- Una storia piuttosto fantasiosa, te lo concedo.
Sunniva rafforzò la presa attorno ai braccioli della  poltrona su cui sedeva la sua signora quando lo vide scivolare elegantemente in piedi, ergendosi in tutta la sua altera e cruda bellezza a cui  la cicatrice conferiva un’aria spettrale e inquieta, come il ritratto rovinato di uno di quei Tiranni di cui l’odio della  popolazione aveva fatto scempio.
Ma era l’odio del mondo ad averlo reso il mostro del quale  le storie e i miti cantavano le orribili gesta.
Un essere che aberrava ogni forma di dolcezza, amore, comprensione, preferendovi il dolore, la rabbia e la follia.
La stessa follia che dopo tanti anni era tornata ad inghiottigli il cuore e l’unica scintilla di sanità perita assieme ai ricordi oramai perduti.
La stanza era sfarzosa, con pesanti tendaggi verde petrolio a smorzare la luce filtrata dalle finestre alte fino al soffitto.Vi era anche disposta con una precisione quasi maniacale, una mobilia degna del più ricco ed elegante dei Re, ma era sull’enorme libreria  a muro  che Astrid lasciava vagare lo sguardo,  serena nonostante i movimenti serpentini di Loki fossero volti a metterla a disagio.
Ma cercare di scatenare in lei l’avversione alla sua presenza era inutile, perché era così abituata ad averlo vicino, a sentire il suo odore e i suoi occhi seguirla da ritenerli ovvi e naturali, attorno a lei.
- Quello è uno dei tuoi libri preferiti.
Loki smise di circumnavigare la scrivania quando la sentì parlare, ritrovandosi ad assottigliare pericolosamente  le palpebre  nel seguire lo sguardo morbido che la creatura teneva fisso sulla sua libreria, o, se voleva essere più puntiglioso, su una parte specifica della libreria.
- Davvero? E quale di preciso? – le sibilò mellifluo, cercando sui lineamenti gentili di quella che asseriva di essere sua moglie una qualche incertezza, dubbio, disagio, ma quella bizzarra creatura sembrava abituata al suono tagliente della sua voce, avvezza persino allo sguardo insistente che più di una volta aveva costretto sua madre a ritirarsi con un sorriso nervoso dalle sue stanze, ma lei pareva immune ad ogni suo tentativo di renderla vittima dei suoi giochi mentali.
- Quello con la copertina rosso porpora, ha gli angoli un po’ smussati – gli spiegò gentile, continuando a fissare lo stesso punto senza patire minimamente il peso del suo sguardo.
Quando lo vide muovere le dita lungo la parete, carezzando ogni copertina con leggerezza Astrid si lasciò sfuggire un sorriso nostalgico al ricordo di quanto Loki fosse sempre  stato amante del sapere, persino di quello degli esseri umani, di quelle creature che lui riteneva inferiori, l'ultimo anello della catena, ed era verso quella categoria che lei lo aveva condotto.
- Questo?
- Un po’ più a destra – lo guidò ancora, consapevole che Loki stesse giocando con lei, come a tastare il terreno e capire dove mirare per ferirla, per cavarle dal petto un grido di paura e farla fuggire da quella stanza, una delle arti manipolatrici affinate nel tempo con le quali sapeva che il dio amava torturare chiunque osasse anche solo minacciare la sua solitudine con promesse d’amore.
Promesse che non sarebbero mai state mantenute, non se fatte a lui.
Ed era nel vano tentativo di difendersi da un dolore che lui  sapeva, sarebbe arrivato, prima o poi, che provava a metterle paura, così da farsi odiare ancor prima di poterle dare  davvero qualcosa per il quale allontanarlo, ripudiarlo.
Un istinto di autoconservazione che lo rendeva incapace di accettare ciò che sapeva di non  meritare, che non era mai stato abituato a ricevere.
Le dita titubarono un attimo prima di raggiungere il tomo indicato, ma anche quando Loki sentì la consistenza ruvida sotto i polpastrelli non riuscì a distogliere lo sguardo dalle iridi fumose della creatura, placide come un lago insensibile al ringhio feroce del vento.
E quel vento era lui, lui che con tanto accanimento tentava di increspare le sue acque senza però riuscirvi, un fallimento che cominciava ad incattivirgli lo sguardo e gonfiargli la voce di nuovo veleno.
Perché lui odiava perdere, battaglie verbali, fisiche e mentali, e lei, lei stava annientando ogni sua azione offensiva ancor prima di poter  affilare le armi, come se prevedesse in anticipo ogni sua mossa, come se lo conoscesse.
Una spiegazione che non era disposto ad accettare, perché incapace di comprenderla, di capirla.
Eppure, per quanto recalcitrante fosse all’idea di concederle il beneficio del dubbio, la prova delle sue verità, di quelle che il Tesseract aveva ribadito come la realtà, cominciava a lasciarlo perplesso.
Perché nessuno, non uomo né dio sapeva di una passione per la quale aveva provato imbarazzo, fin dall'infanzia, un disagio profondo, nato dalla consapevolezza che essere stato  affascinato dalle parole di un essere umano, di una creatura  inferiore, tanto debole da far ribrezzo,  era patetico, specialmente per chi come lui asseriva di non poterli considerare che  giocattoli con i quali giostrarsi per far passare la noia di un momento.
Ma da bambino, quando ancora c’era stata la curiosità innocente ad attirarlo verso ciò che non conosceva,  aveva ritrovato in quell’uomo solitario la sua stessa tristezza, un’amarezza che lo aveva mangiato dentro fino a lasciare un buco in fondo al quale più volte  si era trovato a cercare qualcosa, qualsiasi cosa, rimanendo sempre deluso da ciò che aveva trovato.
Niente.
- Cosa ti fa credere che non abbia già ipotizzato un  giochetto da parte tua? Non credi che essere il Tesseract ti dia un grosso vantaggio su di me?
Sentire quel nome uscire dalle sue labbra la ferì molto più di quanto avesse pensato e temuto, e quando tentò di ricomporsi si scoprì incapace di inghiottire l’aria senza emettere un verso affaticato e irregolare, come un singhiozzo.
Uno sfogo che però sapeva di non potersi permettere, non con lui che la guardava e cercava un'altra parete da colpire e buttare giù,  ma c’era riuscito, quella volta, a trovare la falla nella sua difesa.
Un attacco inaspettato contro il quale non potè che sbattere più volte le ciglia nel tentativo di rimandare indietro le lacrime, uno sforzo inutile quando l’affanno di nascondere la piega affranta delle labbra e camuffare il suo dolore rese i suoi lineamenti incredibilmente fragili e vulnerabili ad un nuovo colpo.
Quando Loki la vide chinare leggermente il capo per nascondere dietro i capelli la propria smorfia ferita si preparò a sentire il sottile piacere per quella vittoria guadagnata, per lo scacco matto che il Re era tornato a compiere, divorando ogni pedina su quell’enorme scacchiera che era la sua vita.
Il piacere di sapere  un’altra anima angosciata a causa sua, un godimento che però,  in quel caso, il dio non riuscì a provare.
Ci fu invece il rammarico a bruciargli la gola, a costringerlo a schiarirsi la voce per tenderle una nuova trappola mentale  nella quale cadere, ritrovandosi ancora una volta incapace di  finirla.
Perché  c’era qualcosa di profondamente straziante nella piega docile di quel  collo, un profondo senso di disperazione che gli impedì anche solo di azzardare un sorriso obliquo nella sua direzione, lasciandolo immobile contro la libreria, incapace di ferire lei per paura di ferire se stesso nel tentativo di farlo.
- C’è una frase in particolare che amavi recitarmi – si ritrovò a raccontare Astrid quando il pavimento lucido della sala rifletté l’immagine sbiadita di un sorriso che era riuscita ad aggiustare in qualcosa di meno triste di una smorfia desolata.
- E quale sarebbe questa frase?
La mancanza di freddo sarcasmo nella  voce di Loki la convinse a tornare un po’ più ritta, mantenendo comunque gli occhi fissi al suolo per non tradire l’agitazione che le avrebbe fatto tremare la voce di lì a poco.
- *Chi lotta contro mostri, deve fare attenzione a non diventare lui stesso mostro.
Il rumore di passi le impedì di completare la sentenza, ma ad ogni suo tentativo di ritrovare la voce, un passo seguiva ogni suo tentennamento, costringendo entrambi ad una danza di labbra tremanti e passi concitati, ma veloci, che lo portarono poco alla volta ad un soffio da lei, tanto vicino da permetterle di  fissare la punta delle sue scarpe, e non più il pavimento.
- Continua – lo sentì sussurrare sopra di lei, ma ora c’era qualcosa di pericoloso nel suo tono, un’asprezza per la quale sentì Sunniva tendersi alle sue spalle mentre la sensazione di pericolo attorno a lei si inspessiva divenendo  una sciabola pronta a calare di netto sulla sua nuca e spezzarle il collo, tagliarle la testa.
Si costrinse però ad umettarsi le labbra, serrando le braccia sul proprio busto per trovare il coraggio di affrontare un’altra stoccata, un'altra ferita.
-  E se tu guarderai in un abisso – un respiro troppo vicino da lasciarla indifferente, troppo pesante da farle credere di essere al sicuro, in quel momento, mentre poteva quasi sentire  le  pupille del dio dilatarsi per essere pronte ad inghiottirla.
- Anche l'abisso vorrà guardare dentro di te.
Il ruggito di Sunniva le rovinò addosso assieme alle braccia con le quali la gigante la schiacciò contro la poltrona, sottraendola alla presa di quelle mani chiuse in artigli che Loki, nel vederla fuggire dalle sue spire,  serrò sui braccioli, il viso trasfigurato in una maschera d’odio.
E rantolava, la voce ingolfata per il dolore che gli occludeva la gola, ma era tanto il disprezzo che gli avvelenava il cuore da renderlo insensibile allo sguardo spaventato con il quale lei lo fissava da dietro le braccia della Gigante.
Un disprezzo che nel vederla  venne meno assieme al battito isterico del suo cuore.
Fragile.
Non riuscì a trovare un altro aggettivo con il quale descriverla, non nel vederla così piccola e minuta, e fragile,  lì, affondata nel tessuto imbottito della poltrona, i capelli a nasconderle metà viso, come a porre un’ulteriore difesa tra lei e il mostro che voleva divorarla, una fame che Loki non riuscì a saziare con la   paura, non quella di quel viso, non con quella voce nella sua testa ad urlargli che era sbagliato.
Era tutto sbagliato.
La sua rabbia.
La sua paura.
E lo sguardo sperduto che sembrava cercare in lui qualcosa che non c’era, qualcosa che lei si era convinta di poter trovare.
Ma lui sapeva che non c’era nulla, perché aveva guardato lui stesso, e cercato come lei, preda della disperazione di scoprire ciò che tutti avevano temuto, ciò che persino suo padre  aveva detto di aver visto in fondo al suo cuore.
Buio.
Solo buio, e ombre deformi,  sussurri concitati di un bambino che di gridare non aveva smesso, neanche per un attimo, per paura di tutto quel silenzio, per il desiderio di far udire la sua richiesta di aiuto a qualcuno.
Una preghiera che, anche se ascoltata, tutti avevano fatto finta di non udire.
- E tu? – le chiese asciutto, la voce arrochita dall’amarezza che gli inaspriva lo sguardo – tu cosa hai visto?
Toccarlo le venne istintivo, un bisogno viscerale che Astrid esaudì senza  rimproverare se stessa di stare  bruciando le tappe, di permettergli altro tempo per  assorbire la sua confessione e la sua storia  con i suoi tempi.
Ma non ce n’era per nessuno di loro, non con quella guerra alla porte, non con la consapevolezza che forse quel giorno non sarebbe più tornato, e lei non voleva che lui vivesse nella menzogna, non voleva che credesse ancora in una certezza che solo lei era riuscita a sfaldare.
L’impossibilità di essere amato da qualcuno.
Un qualcuno che però, alla fine, c’era stato.
Ed era stata  lei, quel qualcuno.
Era lei.
Lei che  aveva guardato in quell’abisso fino  a venirne inghiottita, fino a perdersi lei stessa.
 Ma poi, poi  lo aveva trovato, alla fine, quel bambino, raggomitolato su se stesso come a proteggersi dal freddo pungente, il viso affondato nelle ginocchia e il piccolo petto scosso da singhiozzi appena udibili che però nelle sue orecchie erano sembrate urla di dolore,
 gemiti che aveva affogato nel suo abbraccio, lasciandosi cadere accanto a lui per trasmettergli un po’ di calore, un pò di amore.
Perché, per quanto  avesse provato, per quanto avesse tentato di recidere il suo legame con tutte quelle ombre,  non sarebbe riuscita  a sottrarlo da tutta  quell’oscurità, non da quel buio che   faceva parte di lui,  di ciò che era, un’anima che nel buio era nata ma che della luce, benchè non l’avesse mai vista, si era innamorata.
E lei gliela aveva concessa, quella luce,  accettando di condividere quello spazio e renderlo con la sua presenza un po’ più confortevole, meno triste, meno doloroso, più umano.
Eppure dirglielo non avrebbe avuto senso, non per chi come lui non si fidava di ciò che sentiva,  ma credeva solo a ciò che vedeva, ad inganni che avrebbe riconosciuto, perché lui ne era il dio.
Ma lei non gli mostrò menzogne, sogni, desideri, solo  ciò che aveva trovato in fondo a quell’abisso, ciò che entrambi avevano imparato a costruire in quel piccolo spazio angusto.

Bianco.
Loki ne fu circondato, sopraffatto.
Soffice e morbido bianco latte che riscoprì sopra il  petto,  una calda coperta di neve  nella quale si trovava ad affondare le dita con gentilezza, un leggero sorriso ad increspargli le labbra.
Ed era una sensazione strana, quella che lo stava assalendo in quel momento, una sensazione che lo turbò, perché  era una sensazione di calma , di pace  che lo confondeva, che gli  faceva paura, lui che pace non ne aveva mai avuta.
Ed era felice, si sentiva, felice,
sapeva di esserlo.
Sapeva che sarebbe dovuta essere così, la felicità, anche se lui non l’aveva mai sperimentata sulla propria pelle, ma la riconosceva, la sentiva scivolare nelle dita che si stavano riempiendo di quel bianco familiare, come se i suoi  fossero gesti consolidati dall’abitudine, un'abitudine che però lui non ricordava di aver mai raggiunto mai,  con nessuno.
Non lo ricordava, ma in qualche modo sapeva che la presenza di quel colore su di lui era naturale, e giusto.
Perché era tutto giusto.
Il peso che sentiva sotto il braccio sinistro, quello  completamente nascosto da quella cascata di nuvole bianche.
La sensazione di pace all’altezza del cuore.
E quel leggero tocco sulle guance.
Giusto, giusto  come  mai niente era stato nella sua vita.
Una sensazione di legittimità che lo rendeva ebbro di quel silenzio, un silenzio che per la prima volta non lo  feriva, non faceva male, perché  c’era  qualcosa a frammentarlo.
Un profondo e placido respiro che inseguì con lo sguardo sotto le dita, ritrovandosi a scavare  gentilmente sotto quella  neve per scoprire dove quel suono provenisse, scostando onde  di quelli che capì essere capelli  mentre delle sfumature colorate cominciavano a rendere più visibile ciò che ben presto trovò davanti a sé.
Un viso.
Un viso placidamente addormentato.
Il desiderio di toccarlo, di sentirlo contro il palmo fu naturale, istintivo, e quando le sue dita vennero in contatto con la pelle morbida delle guance, quando la sfiorò,  Loki sentì nuovamente quella bizzarra sensazione di familiarità assalirlo mentre  sentiva un nuovo sorriso increspargli le labbra  quando la vide arricciare il naso.
Una reazione che lui ricordava di aver visto tante volte senza riuscire mai ad averne abbastanza.
Non di quella sensazione di pienezza nei palmi.
Non del calore di quel corpo che sapeva di stare stringendo a sé, al quale sapeva di essere ancorato come un naufrago in balia della tempesta.
Ed era lì, la sua ancora, era lei, lei che vide  aprire gli occhi e sorridergli come mai nessuno prima di allora gli aveva sorriso, mai a quel  mondo, mai  con tutto quell’amore.
Quando Astrid lo vide riaprire gli occhi sorrise conciliante per non spaventarlo, per non spezzare il filo di ricordi che gli aveva mostrato per  rispondere alla sua domanda.
E Loki trovò la risposta in quegli occhi che continuavano a fissarlo in quel modo,  anche se il bianco era svanito e il tocco gentile di quella mano gli ricordava di essere tornato ad un’altra realtà, ma una realtà, comunque.
Perché non erano menzogne, quelle che lei gli aveva mostrato, lo sapeva, lo sentiva, e per un breve attimo, pregò di aver ragione, di non avere torto.
Ma non ne aveva, perché era giusto.
Tutto quello era giusto.
- Tesseract.
Bastò quel nome e quella voce tetra a spezzare il silente scambio di sguardi dal quale Astrid venne strattonata bruscamente, irritata dall’intrusione del dio che all’entrata della sala fissava entrambi con un velo di rimprovero.
Ma Thor non parve risentirsi dell’astio della creatura, troppo occupato a tenere a bada i guerrieri che dietro le sue spalle si agitavano nervosi.
- Il padre degli dei vuole parlarti.
Quando Loki vide Lady Sif e i suoi compagni sorpassare il fratello con le armi  tese verso di loro strinse ferocemente la vita della creatura accanto a lui, un istinto difensivo che lo lasciò turbato dal logorante bisogno di protezione che chiedeva di più di una misera mano poggiata sulla schiena del Tesseract.
Un ossessivo bisogno di nasconderla da qualche parte e renderla impossibile da trovare per chiunque, soprattutto per il fratello che pareva essersi adombrato nel captare il suo gesto verso di lei.
La frettolosa ritirata della mano del dio non la sorprese, perché era ancora troppo presto per esigere da lui una risposta più concreta e tangibile ai suoi sforzi, sforzi che ora, dopo aver visto il suo sguardo, sapeva di dover raddoppiare per abbattere le sue difese.
E avrebbe dovuto portare pazienza, verso di lui e  verso quelle stupide creature che credevano davvero di poterla imbrigliare, ma se era la sicurezza ciò  che desideravano da lei,  allora lei gli avrebbe concesso  solo il pensiero, di poterla controllare.
Quando le manette le serrarono i polsi Astrid non potè che indurire lo sguardo e lasciare che il dio dei tuoni la scortasse fuori dalla sala assieme agli altri guerrieri mentre Loki, alle loro spalle, si trovava a richiudere i palmi con gli occhi sgranati dall’angoscia e dalla paura di sapere a chi la sua magia stava per divorare anima e corpo.
Non chi, in quando dio affrancato e figlio riconosciuto, avrebbe avuto il dovere di abbattere come una bestia, ma coloro i quali, nella sua testa, erano diventate solo ombre inconsistenti che gli inquinavano la vista e gli impedivano di seguire la luce in fondo al tunnel.
Un tunnel che il dio degli inganni si trovò ad imboccare con sguardo tetro, il passo strascicato e febbrile di chi sembrava pronto ad avventarsi sulle sagome indistinte di coloro i quali, nel suo mondo, non avrebbe mai dovuto  metter  piede.




°°°


- Non mi piace.
Pepper rafforzò la presa attorno al braccio del marito quando ne udì accanto il sussurro scontroso, ma si costrinse a mantenere per entrambi quel freddo distacco che la situazione richiedeva loro, un’indifferenza che però il dottor Barner faticava a piegare al suo volere  quando colei che veniva accusata ingiustamente era sua figlia.
La figlia che ritrovava  nel mezzo alla sala, circondata da lame e parole che tentavano di ferirla, di farla a pezzi, mentre il cigolare delle catene che da terra costringevano il Tesseract a tenere i polsi flessi verso il basso assottigliava la lucidità di ognuno di loro.
- Mi dispiace per questo – esordì il Padre degli dei, indicando con il capo le costrizioni alle quali la creatura era stata obbligata, come a scusarsi di un’ospitalità mancata che non erano soliti mostrare se non ai loro nemici – ma è per la –
- vostra sicurezza – finì Astrid per lui, osservando il proprio riflesso nelle spesse manette magiche prima di alzare il viso e ammorbidire la piega dura delle labbra nel vedere la sottile figura appena accostatasi al Padre degli Dei.
Loki inghiottì la morbidezza di quello sguardo con un deglutire rumoroso, incapace di contenere in gola la sorpresa di tutto quel calore, un calore bruciante che sentì scivolare come fuoco nel spetto, togliendogli il respiro per la forza di quel sentimento che la piccola creatura non aveva fatto altro che riversare in ogni suo sguardo, gesto, tocco a lui rivolto.
E rimasero a fissarsi in silenzio fino a quando non  lo udì.
Un fiotto di bruciante disperazione le si accumulò in gola  quando colse il lieve cigolio che aveva spezzato il loro incontro di sguardi, il cigolio della catena 
  stretta aspramente attorno al collo della guardia ritrovatosi  a rantolare mentre Sunniva sollevava lo sguardo sulla figura altera e minacciosa della sua signora, ancora incatenata, immobile, ma con il sottile collo blu teso dalle vene pulsanti che nei suoi occhi parevano divenire  il battito isterico di una stella che muore.
- Lascialo!
Il grido di Frigga tuonò per la sala con l’angoscia di una madre che di proteggere i suoi figli non sembrava più in grado, una cupa e profonda disperazione per la quale Astrid si trovò a ruotare il busto per fissare la donna mentre poco lontano, il soldato che aveva tentato di costringere la Gigante all’umiliazione delle catene continuava a rantolare.
Ma se l’era meritato, quel trattamento.
Perché era su di lei, che il loro odio poteva inasprirsi fino a ferire la gola, era su di lei che la loro paura e ignoranza sarebbe dovuta essere puntata, non su Sunniva.
E lo ricordò loro, sibilando ciò che le era stato promesso, la libertà della sua famiglia in cambio della sua collaborazione, della sua falsa sottomissione, ma gli dei non mantenevano mai le promesse ricordò a se stessa con acredine  quando sentì la voce roca del dio dei tuoni raschiarle la tempia, come se avesse davvero provato a grattarle la pelle per scoprire tendini e muscoli da colpire con i suoi fulmini.
- Lascialo.
- E perché dovrei ?  – lo zittì cattiva, sorridendo biecamente nel patire il freddo del metallo del suo martello sull’avambraccio destro – è stato il tuo stupido sottoposto a non rispettare i patti.
- Ma è una Gigante di ghiaccio – le ricordò aspramente il dio dei tuoni, rafforzando la presa attorno al manico di ferro – non posso lasciare che-
- Che cosa? Che viva?
Il freddo che piovve su di loro fu secco, violento come se una lastra di ghiaccio temperato avesse comincato a scivolare giù dal tetto, macinando aria e rinsecchendo la lingua di chi la saliva non riusciva più  a trovare per parlare.
Neanche Thor, dall’alto della sua levatura, parve trovare parole utili a maledire quell’abominio che gli sorrideva crudele dal basso, un sogghigno che Astrid rese tagliente come la lingua incastrata tra i denti.
- Cosa ti fa credere che tu possa avanzare una simile pretesa su di lei?
- Mio figlio è giovane – la interruppe con voce grave il padre degli Dei, sollevato di aver riportato su di sé quegli occhi di stelle ora adombrati da una patina perlacea che rendeva le sue pupille di cristallo – non riesce ancora a comprendere.
Un guizzo isterico sul viso della creatura lo costrinse a tacere mentre il freddo si inspessiva e la gravità di quello sguardo gli inchiodava i piedi a terra, come se qualcuno gli avesse appena conficcato dei chiodi nei  piedi per impedirgli di fuggire da quegli occhi che rappresentavano l’abisso e dalle parole che Odino per primo sapeva tinte di verità.
Un’orribile e cruda verità che lui, in quanto padre, non era riuscito mai ad accettare.
- È questa la vostra giustificazione? La giovinezza? – una risata fredda le tuonò in petto prima che il capo che aveva gettato indietro sotto la vibrazione del riso non la portasse nuovamente ritta, nuovamente crudele.
- Ed è per questo che Thor ha tentato di uccidermi appena nata?
Loki udì uno strappo echeggiare attorno a lui, vibrare sotto i piedi e tamburellare l’interno del suo petto, ma più i suoi occhi cercavano la fonte di quel suono, di quell’isterico ‘crack, più si accorgeva che era dentro di lui, che qualcosa aveva cominciato a scricchiolare.
Era il suo cuore, quello che aveva sentito  incrinarsi nell'udire quelle parole.
- È per questo che ha provato a far del male a degli innocenti?
- Tu non sei mai stata innocente – la aggredì Thor con voce tonante, ritrovandosi a stringere le labbra nel trovarsela ad un soffio dal viso, le manette a tenerle lontano le mani che se avesse voluto, Astrid gli avrebbe affondato nel petto per strappargli quel cuore egoista.
- Io sono stata la vittima della  tua frustrazione, figlio di Odino. Vittima innocente di quella rabbia che ti ha reso cieco a tal punto da non vedere che Loki era felice con me, piuttosto che nella tua ombra, lì dove lo hai sempre lasciato.
Il vibrare isterico del martello attirò lo sguardo distante di Loki, ghiacciato accanto alla madre che gli teneva una mano sulla spalla, come a rincuorarlo, ma il dio quella mano non la sentiva.
Ciò che udiva, ciò che scivolava morbidamente giù per il suo essere era quella voce, arrochita dalla rabbia, che nonostante la lieve incrinatura nel tono non lo feriva, non lo gettava nella disperazione di sapere che aveva ragione su tutto.
Su quella felicità mai ricevuta.
Su quel ruolo di antagonista che gli era sempre toccato, perché tinto dal buio della sua anima e dal nero di quell’ombra troppo grande da potervi sfuggire.
Su quella verità che risultava così chiara, nella sua testa, con quella voce, mentre nuove immagini rimpinguavano la fila di ricordi nei quali Loki sapeva di essere stato felice, davvero felice.
- Lui è mio fratello – soffiò il dio dei tuoni con rabbia, facendo irrigidire i presenti per il movimento consulto della mano libera ora chiusa in pugno, come pronta a colpire, a ferirla.
- No – e il sussurro di  Astrid parve un grido lanciato dal fondo dell’anima – tu non sei mai stato suo fratello.
Il vibrare di quelle pupille cerulee non la intimidì, ma rafforzò quella verità che lui per primo non era mai riuscito ad accettare assieme alla consapevolezza di aver fallito con Loki.
- Tu, tutti voi – e Odino trasalì visibilmente nel cogliere il guizzo di quegli occhi tornati a inchiodare il dio dei fulmini al suolo – lo avete tradito, umiliato, relegato a ruolo di comparsa, quando invece Loki avrebbe meritato molto più, e tutto ciò che voi non avete avuto il coraggio di dargli, io gliel’ho dato.  Io l’ho amato – e c’era disperazione ora, nella sua voce, un’angoscia che le incupiva lo sguardo di dolore e  le cospargeva le labbra di un tremolio sconnesso mentre Loki continuava a fissarla, muto.
- Io l’ho protetto e difeso, quando nessuno aveva voluto farlo.
Verità.
Non c’era menzogna, in quelle parole, non ce n’era in lei, nella creatura che il dio degli inganni guardava con la gola secca e il cuore a pulsare nelle  mani, nei  piedi, nella testa che sentiva pesante, affaticata dal dolore che gli bruciava le labbra e gli occhi.
Il dolore di essere stato  respinto da chi amava, rinnegato, da chi credeva, l'avrebbe accettato, abbandonato, da chi aveva promesso di proteggerlo da bambino.
Un bambino che però era sempre rimasto due passi dietro a tutti, affranto dalla  consapevolezza di essersi perduto e di non poter più trovare la via di casa, ma ora, ora Loki la riusciva a vedere, la sua via, una stradina sottile illuminata da quelle che sembravano lucciole, piccoli bagliori che sfrigolavano per essere toccate, per fargli da guida.
E d’un tratto parve vederle levitare attorno a sé, accanto a suo madre, davanti  a suo padre, piccole scintille che oscillavano come un’onda e si gettavano in avanti, verso il mare d’amore che il Tesseract continuava a far scivolare dalle labbra e dagli occhi lucidi di pianto.
- Lui è la mia famiglia.
Il primo passo gli costò fatica, perché si sentiva stanco, e confuso, e spaventato, ma sicuro che se l’avesse raggiunta, se l’avesse stretta tra le braccia, quella sensazione di vuoto sarebbe scomparsa, annichilita dalla pienezza di quegli zigomi abbandonati nei suoi palmi, di quello sguardo affogato nel suo.
- E lui è la mia.
Rosso.
Se ne tinse il suo sguardo, le sue labbra in procinto di urlare quando udì quel  lieve vibrare, il fioco e debole singhiozzo che Astrid si lasciò scappare quando le mani rudi del dio la afferrarono per la schiena.
Una schiena che qualcuno prima di lui aveva provato a incidere con le proprie dita, un’impronta che Thor non ebbe modo di lasciare quando lo sentì schiantarsi contro lo zigomo.
Il lungo stridio che l’armatura del dio emise nel raschiare il suolo costrinse molti a proteggere l’udito dalla cacofonia mentre le mani di Loki correvano a sorreggere il corpo gracile del Tesseract che raccolse tra le braccia.
E quando ne incrociò lo sguardo sofferente, quando la vide tendere quel sorriso che sapeva, era solo suo, Loki si sentì combattuto, diviso tra il prepotente desiderio  di credere a quelle belle parole e la paura di poter essere tradito da lei, da quella piccola creatura che non aveva fatto altro che professargli il suo amore.
Un amore che  lo terrorizzava, perché troppo grande da poter essere accettato senza porsi delle domande su di lei, ma avrebbe avuto tempo per sbrogliare quei pensieri, avrebbe potuto lasciarsi sopraffare dall’ansia e dall’angoscia il giorno dopo, quando la paura di perderla, di scoprirla un’illusione, una bugia come era stata la sua intera esistenza,  sarebbe tornata a sussurrare nelle sue orecchie.
Ma ora, ora aveva solo  bisogno di affogare in quel calore e lasciarsi alle spalle il silenzio di quella stanza che fin da bambino aveva abitato ma dalla quale, per quel giorno, si sarebbe fatto coraggio ad abbandonare per afferrare la  mano tesa nel vuoto da  chi non riusciva a vedere bene  in viso, ma chi, lui  sapeva, non aveva mai smesso di sorridergli, neanche per un istante.




°°°

  

Accadeva spesso, nel ciclo vitale di un essere vivente, di ritrovarsi a dover tirare le somme della propria esistenza  e venire a patti che alla fine ci sarebbero state le conseguenze delle proprie azioni, da dover fronteggiare, e se lo si faceva  a testa alta o a capo chino, ciò non importava, perché, in un modo o nell’altro, si sarebbe dovuto alzare il proprio  sguardo smarrito per incrociare quello di chi sulla propria strada si era incrociato.
Un momento dal quale persino un dio, persino lui,  non poteva fuggire, un momento che tuttavia nel suo caso rappresentava un istante perpetuo che si concretizzava nelle ombrose figure tra le quali si sarebbero potute scorgere facce conosciute, alcune odiate, altre, terribilmente amate, ma quelle che Loki si trovava davanti agli occhi, quelle che il dio degli inganni fissava in silenzio erano nemici.
Solo nemici.
Davanti, di lato, dietro di lui.
Ovunque.
Ne era stato circondato, soffocato come l’anello di una catena che attorno a lui si serrava, sui polsi che teneva morbidi contro la veste pregiata, sul capo ritto e adombrato dall’odio che gli inghiottiva le pupille, e su quelle labbra che di sfrigolare sotto la forza dei suoi gorgoglii sinistri e di riprendere forma umana non sembravano avere intenzione.
Ma non li biasimava, né distoglieva lo sguardo tetro dalla moltitudine di pupille dilatate su di lui, iridi sgranate per l’orrore di rivedere chi per l'uno  aguzzino, chi per l'altro  peggiore incubo lo aveva scambiato, ma c’era anche  chi, semplicemente, lo riteneva lo  scarto di un’esistenza che non era stata all’altezza di quanto sperato.
Ed era su quello sguardo che più di tutti gli rigettava l’odio per ciò che non era mai riuscito ad essere, per chi  della sua patetica malformazione fisica non provava pietà ma sdegno che Loki si convinse a catalizzare la propria attenzione,  colorando il viso di un livore che gli chiazzò le labbra del viola cupo del proprio, di disgusto.
Padre.
Laufey non aveva mai  meritato quel titolo, ma Loki non aveva altro modo di chiamarlo se non con un titolo che il Re dei Giganti di Ghiaccio non aveva mai rivendicato, perché non lo aveva voluto, né desiderato.
Lui lo aveva semplicemente  abbandonato sulle cime sperdute di quei deserti di neve dal quale Odino lo aveva raccolto, credendo di poter essere per lui ciò che quella creatura non era mai stata.
Ma Odino lo aveva cresciuto solo per usarlo, uno volta divenuto adulto, lo aveva amato per dargli motivo di sentirsi debitore di quell’amore, di doverlo ricambiare, una volta avuta la possibilità, e il dio lo aveva ripagato  con la punizione alla quale il padre degli dei aveva condannato la sua razza di divinità dorate credendo di potersi servire  di lui, di poter esigere qualcosa da lui.
Lui che non aveva desiderato altro che amore, un amore che non avrebbe dovuto chiedere, nè  ripagare.
Ma tutti si erano arrogati una parte del suo cuore, avevano rivendicato  un posto nella sua mente, il pegno da pagare per avergli dato il proprio affetto quando lui, lui aveva solo desiderato non doversi privare di una parte di sé per avere ciò che tutti ricevevano senza dover sacrificare qualcosa.
Laufey però non aveva chiesto nulla, perché il nulla era ciò che rappresentava per lui, e quella mano appena serratasi attorno alla sua caviglia mentre la terra sotto i suoi piedi crollava non aveva voluto fargli credere che forse  avrebbe potuto essere almeno  quello, un sostegno, ciò che avrebbe potuto addolcire  la sua discesa negli inferi, inferi nei quali Loki sapeva di avere un posto d’onore.
Lì dove suo padre e le mani tese verso i suoi abiti lo avrebbero voluto trascinare, per ricordargli che anche lui sarebbe dovuto cadere, prima o poi, e quando lo avrebbe fatto, quando sarebbe arrivato il suo turno, tutti loro sarebbero stati lì ad attenderlo, ad aspettarlo.
E quelle stesse mani che a lui si aggrappavano, quelle stesse dita che avevano  provato a lasciarsi il segno del loro passaggio prima di sprofondare nel vuoto, avrebbero potuto incidere sul suo viso una tacca alla volta, il conteggio di quanto dolore avesse generato, quante morti avesse causato, quanto odio lo avrebbe seguito, una volta finito lì.
Eppure ci fu una mano che a fargli male non ci provò, preferendo sostare immobile sullo zigomo freddo che il palmo, muovendosi leggermente, tantò  di  caldare per dare un colore sano alla pelle olivastra che Astrid continuò a strofinare, non aspettandosi di vederlo aprire gli occhi.
Ma quando lo fece, quando vide le pupille del dio dilatarsi  un poco prima che il riconoscimento lo convincesse a ritirare la mano dal suo collo rimase a fissarlo, immobile, la mano abbandonata sul viso che non lasciò, perchè  Loki non sembrava esserne infastidito.
Una carezza fuggevole e delicata, si era costretta a renderla tale, a non imprimere troppo forza, troppo sentimento, perché riabituarlo alla sua presenza era stato difficile, rieducarlo al tocco delle sue mani, delle sue labbra continuava a non essere semplice vista la facilità con la quale il dio faticava a mantenere un contatto fisico prolungato, se non era lui a iniziarlo.
E forse non avrebbe dovuto toccarlo, forse  avrebbe dovuto farsi bastare l’abbraccio con cui Loki l’aveva riportata nella camera e poi deposta sul letto, in silenzio, senza mai guardarla in volto, come se temesse di farle leggere nel suo sguardo qualcosa che non sarebbe dovuto essere scorto, visto, riconosciuto da lei.
Avrebbe dovuto farsi bastare tante cose, ma non c’era più tempo e lei languiva di quell’amore che le urlava di nascondergli il capo nel petto e cullarlo fino a farlo riaddormentare, e dirgli che lei ci sarebbe stata al suo risveglio, che lo avrebbe aspettato e vegliato per tutto la notte.
Avrebbe potuto, se solo non fosse stato tutto così dannatamente complicato, ciononostante,  mantenne il contatto per quanto potè, sorridendo debolmente per convincerlo a sbattere le ciglia, a non aver paura di perderla di vista, perché lei non lo avrebbe lasciato neanche se lui l’avesse costretta a farlo.
E quando non lo fece, quando non espresse il fastidio di essere toccato, di essere  guardato con occhi che lei sapeva essersi ammorbiditi nell’avere quella concessione, Astrid si fece temeraria, decidendo di sfidare la sorte, per una volta.
Andargli in contro le era sempre venuto naturale, ed era accaduto  spesso, anche in passato, che in Loki vi fosse rimasto il residuo del suo vecchio se stesso, del fuggitivo che dai sentimenti preferiva nascondersi per non ripresentarsi più, ma aveva imparato a frenare la sua fuga e bloccargli ogni via d’uscita.
Perché dall’amore, dal suo amore non lo avrebbe lasciato scappare, e quando riuscì a coglierlo di sorpresa, quando riuscì ad cingergli il capo in un abbraccio per spingergli il viso contro il   petto si aspettò di sentirlo irrigidirsi prima che l’istinto lo portasse a stringerle i fianchi per allontanarla.
Per respingerla.
Ma Astrid non glielo permise, mantenne la presa rigida, affondando il naso nei capelli profumati di Loki mentre sentiva le sue mani spostarsi sulla  schiena per afferrarle le spalle e convincerla ad allentare l’abbraccio,  per liberarlo, ma più lui si mostrava desideroso di sfuggirle, più i suoi occhi si serravano per convincersi di stare facendo la cosa giusta.
Perché la creatura che stava soffocando in un abbraccio aveva solo paura.
Paura di lei, dei suoi sguardi, dei suoi sorrisi.
Paura dell’amore.
Loki aveva paura dell’amore, di amare, di essere amato, di dover ripagare chi quell’amore gli donava con qualcosa di suo, un compromesso che da bambino il dio si era costretto ad accettare, concedendo un sorriso timido e incerto ad ogni sguardo rivoltogli, il tentativo di un  abbraccio a chi a lui provava ad accostarsi, ma dopo essersi svuotato, dopo essersi privato di una parte di sé, dopo aver ceduto qualcosa in cambio, nessuno aveva più avuto motivo di amarlo ancora, una volta avuto ciò che fin dall’inizio tutti quanti avevano desiderato ricevere da lui.
Obbedienza.
Controllo.
E Loki aveva imparato a perderlo, quel controllo, aveva imparato a non permettere più a nessuno di metterlo nell’angolo, preferendo non dare fin dall’inizio la possibilità di tradirlo, impedendosi ogni contatto con l'esterno, affinchè  nessun altro potesse divenire importante per lui, necessario, per lui.
Lui che aveva imparato a fidarsi solo di se stesso, esclusivamente di se stesso.
Ma era stanco, si sentiva stanco, e quelle braccia erano così morbide e profumavano di buono, di casa, una casa che non ricordava ma della quale lei gli parlava ogni giorno, spiegandogli di come fossero stati felici insieme, e lui voleva illudersi, per un momento, di poter aver bisogno di qualcuno dopotutto, e quel qualcuno poteva essere lei.
Avrebbe lasciato che fosse lei.
Perché lo abbracciava come aveva sempre voluto essere abbracciato, e lo guardava, come aveva sempre voluto essere guardato.  
Lei era chi aveva sempre voluto avere per sé.
Qualcuno con cui spogliarsi della solitudine per accettare ciò che per la prima volta non chiedeva nulla in cambio.
Lei, non gli chiedeva nulla in cambio.
Astrid impiegò qualche istante ad accorgersi di come le mani che fino a poco prima le avevano stretto duramente i fianchi si fossero ammorbidite, abbracciando gentilmente la pelle arrossata dalla pressione delle sue dita, ma quando si rese conto che stringere non era più necessario, che lui non sarebbe scappato, non potè che inghiottire le lacrime e avvicinarselo un poco, così da permettere anche a lui di averla vicina, di sentirla vicina.
E quando si ritrovarono a stringersi, quando la familiarità di quel contatto convinse Loki di poter davvero fidarsi di qualcuno, Astrid sorrise tra i suoi capelli, rilassando il cuore e il viso nel percepire il respiro tranquillo del dio contro di sé.
Trascorsero minuti di silenzio, minuti nei quali Loki decise di non pensare, di non provare a giocare con lei, perché  non se lo meritava,  e lui non lo voleva, ora come ora, voleva solo chiudere gli occhi e dormire, riposare.
Un riposo che in qualche modo, per qualche ragione, sapeva di poter avere con lei accanto, come se lei, sua moglie, potesse davvero diventare uno scaccia incubi, uno scudo contro il quale, per quante volte quelle mani avessero potuto avventarsi, per quanto forte quella di suo padre avesse provato a sfondarlo, non avrebbe ceduto.
Perché lo avrebbe protetto, lo avrebbe vegliato, lo avrebbe amato in un modo che non poteva paragonare a nulla, perché quel tipo di amore lui non lo aveva mai provato, ricevuto, e  per una volta, non era desideroso di respingerlo, anche se era sconosciuto, anche se aveva paura di scoprire che anche quello, alla fine, sarebbe venuto meno.
- Andrà bene.
Astrid lo disse senza accorgersene, senza aver realizzato di aver dato voce all’incoraggiamento che ogni notte dava a se stessa per continuare a provare, a credere che il giorno dopo sarebbe risultato tutto un po’ meno confuso.
E lo ripetè ancora, e ancora, una litania che accompagnò con il corpo, cullandosi  per augurare ad entrambi un lieto fine, quello che la sua voce sempre più bassa, lenta e lontana pregava di  concedere loro.
E per la prima volta Loki si sentì di credere a quelle parole, a quella voce che lo stava conducendo, mano per mano, fuori dalla sua stanza buia.
Il suo rifugio, il silenzio nascondiglio nel quale lei e la sua voce portarono un pò di luce.
Perché, se era lei a dire che sarebbe andato bene, allora lui avrebbe potuto provare a crederci.
A lei,  e all’unica storia  nella quale  era lui ad essere il protagonista.
Non Thor, ma lui.
Lui.
Lei.
Loro.



Continua…

* La frase è di 
Friedrich Nietzsche;
 - Ringrazio tutti per continuare a seguire la storia, in settimana la storia dovrebbe concludersi perchè i capitoli finali sono stati già scritti, devono solo essere revisionati e corretti, perciò manca poco ormai!

Ancora grazie, al prossimo aggiornamento
Gold eyes


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Capitolo 9
*** 9 - Where Is The Edge? ***


Capitolo 9
“Where is the edge
Of your darkest emotions?
Why does it all survive?
Where is the light
Of your deepest devotions?
I pray that it's still alive”
[…]

Even though you don't know what the price is
It is justified
So much more that you've got left to fight for
But it still doesn't change who you are
There is no fear you'll ever give in to
You're untouchable
'Cause you're losing your mind and you sleep
In the heart of the night”

( Where is the Edge? – Within Temptation)







Non ricordava quanto tempo fosse passato dall’ultima volta in cui  si era sentita tanto stanca, ma ora che si guardava per la prima volta dopo aver passato tanti giorni a mantenere i confini sicuri, Astrid non riusciva più a riconoscersi, perché la donna che ricambiava il suo sguardo era stata prosciugata da ogni cosa.   
Gioia.
Speranza.
Non c’era più niente a muoverla  se non la disperazione.
Ed era la disperazione stessa a convincerla ogni giorno ad aprire gli occhi per scoprire se lo sguardo di Loki risultasse un po’ meno diffidente, un po’ più suo, e se così non fosse stato, se il riconoscimento non l’avesse trovato, avrebbe provato  a sforzarsi ancora un poco con la speranza  che forse, i ricordi che stavano riaffiorando non lo avrebbero fatto impazzire, che non li avrebbe respinti come avrebbe fatto con chiunque, che avrebbe provato anche  lui a combattere per entrambi, a salvare entrambi, ora che di quelle  battaglie Astrid cominciava ad essere stanca mentre la fine di quella guerra non si riusciva a vedere ancora, e non c’era rimasto più tempo.
Lei non ne aveva mai avuto, in verità, un paradosso per un essere  immortale come lei, ma era così,e  né lei, né Loki avrebbero potuto fare nulla contro i rintocchi dell’orologio.
E come se ciò  non bastasse, le rappresaglie di Galactus non avevano fatto altro che aumentare, e aumentare, tanto che le ferite che le segnavano il corpo asciutto non avevano ancora avuto il tempo di rimarginarsi del tutto, non che riposarsi le fosse stato possibile, perché c’erano gli umani da tenere d’occhio, e gli dei da controllare, i non-morti, e i Giganti di Ghiaccio, quella, in verità, era la sua più grande preoccupazione, la prima fonte di angoscia.

Non che quelle creature non le avessero mai dato motivo di preoccuparsi di loro, ma la situazione era degenerata da quando Loki aveva perso ogni memoria del passato, di lei, e del suo ruolo di Re e Tiranno, un posto vacante che Knut avrebbe tentato di fare proprio se non vi fosse stata Sunniva a comandare in sua vece di aspettare il ritorno del loro Re, perché lei lo avrebbe aspettato, anche se fossero stati necessari cento e più anni.
Anche se non c’era tempo, anche se lui non aveva ancora ricordato, anche se continuava ad essere sola in quella lotta contro il mondo e contro chi nel loro amore non aveva mai creduto.
Ma lei ci credeva, ci aveva sempre creduto, e sapeva che anche Loki, in fondo al cuore, aveva cominciato a farlo.
Perché lo aveva sentito quando si erano sfiorati, quando lo aveva toccato e aveva scorto la crepa minuscola dalla quale poco prima aveva solo potuto sbirciare dentro la stanza nella quale Loki si era nascosto, mentre ora, ora poteva allungare la mano e sentire il palmo gelato dall’altra parte sfiorare timidamente le sue dita.
Era ancora spaventato.
Da lei, da quell’amore che gli offriva senza volere nulla in cambio pur sapendo che forse non sarebbe riuscita a fargli recuperare la memoria, da ciò che gli veniva dato perché gli era dovuto.
 Ma se la sua mente ancora faticava ad accettarla, a ricordarla, il suo corpo non aveva dimenticato nulla, non dove chiudere le dita sapendo di generare piacere in entrambi, non dove i suoi baci le avrebbero fatto inumidire le ciglia.
Non aveva dimenticato il suo calore, perché quando l’aveva inghiottito, quando era implosa sotto di lui, non si erano respinti, non si erano allontanati, ma si erano riconosciuti entrambi.

- Non credevo che potessi  riuscire a sorridere ancora per qualcosa.
Fu come se qualcuno le avesse conficcato una lama nel petto,  un mancamento che si costrinse ad inghiottire assieme all’urlo che le aveva gonfiato i polmoni per la stizza e la frustrazione di sapere di chi era quella voce, ma avrebbe attirato l’attenzione, e avrebbe dovuto dare spiegazioni che non aveva, che non poteva giustificare.
Perciò, anche se le  palpebre erano stanche, arrossate  dal sole che ora moriva,  si costrinse a socchiuderle, così da non dargli la soddisfazione di vederla cedere, di godere della desolazione che ancora le incupiva lo sguardo e che la rabbia calpestò quando se lo ritrovò davanti.
Se mai l’anima egoista di Yehouda avesse potuto scegliere un involucro diverso dal suo, Astrid sapeva che sarebbe stato deliziato dal quello che Galactus aveva scelto per sé, perché quell’emanazione racchiudeva in sé l’orrore del mondo divino e umano, un gusto per l’orrido che le ricordava Hell, la piccola e scheletrica divinità alla quale aveva rubato i poteri, della quale aveva deciso il fato, la punizione.
Ma per lui, per la creatura che nel riflesso dorato del sole calante le sorrideva languido con la sua bocca priva di labbra non sarebbe riuscita a trovarne una abbastanza crudele, abbastanza opportuna.
Non avrebbe avuto motivo di colpirlo, perché avrebbe sentito crepitare sotto le sue dita chiuse in pugno solo il rivestimento metallico della colonna nella quale si specchiava, ma la sua mano volò ugualmente sulla sua gola, sgretolando il materiale ferroso che sentì grattarle il polso quando vi affondò il braccio, ma lui continuava a sorridere, e a guardarla con quell’orribile sicurezza di averla in pugno.
- Non sapevo ti fosse mancato così tanto toccarmi – chiocciò irriverente, ondeggiando il busto per mettere in mostra l’arto mancante, quello che non sarebbe ricresciuto più, perché era stata lei, ad amputarglielo, lei che era la vita e che di ridarglielo ne aveva il potere, ma non la volontà.
- Il desiderio di cavarti  il cuore dal petto non ha mai smesso di tormentarmi – fu la sua unica risposta, il tono secco e tagliente ripescato dalle profondità della gola, lì dove l’odio le arrochiva la voce e tingeva di sfumature cupe il suo sguardo di luce.
Galactus liberò una risata bassa, profonda come il ronfare di un gatto che sa di non poter essere afferrato, per quanto in alto si fosse saltato per raggiungerlo, e Astrid non avrebbe potuto toccarlo, per quanto in fondo le sue mani fossero affondate nella colonna, perché avrebbe stretto solo metallo,  non la gola impalpabile del corpo riflesso di fronte al suo.
Il tocco che lui le concesse sul polso non lo percepì veramente, ma potè comunque immaginare la brama con la quale avrebbe voluto sfiorarla, un desiderio di possessione  che non aveva nulla a che vedere con il desiderio sessuale.
Era più simile  alla volontà dell’animale più forte  di sapere di avere la carcassa più grande, succulenta e preziosa tra le sue fauci, e che quella creatura la paragonasse ad un premio, ad un oggetto la indisponeva.

Perché aveva passato anni, secoli a sentirsi chiamare con un nome che non era mai stato suo, che non era stato lei a scegliersi, un titolo che la relegava ad essere un’arma priva d’anima e cuore, capace di sterminare intere razze senza battere ciglio, come se la morte non la toccasse mai, ma l’aveva toccata.
La morte di sua madre.
La morte  seppur momentanea di Loki.
La sua  morte l'avevano toccata, e  avevano scavato un buco che mai, mai sarebbe riuscita a colmare, per quanto amore avesse ricevuto, per quanto felice fosse stata, perché erano ferite che non si sarebbero rimarginate, che non si sarebbero riempite come il grembo che sarebbe sempre rimasto sterile, e muto.
Un silenzio che l’avrebbe accompagnata in eterno, perché una fine per lei non ci sarebbe stata.
Lei che non poteva essere distrutta, ma solo disarmata, indebolita, ma non uccisa, mai uccisa.
Perché l’energia non si può annientare, non si può distruggere, ma si può vederla languire in eterno, in un ciclo senza fine nel quale, da sola, non sarebbe riuscita a sopravvivere senza desiderare di uccidersi.
E aveva provato, una volta, a farla finita con le proprie mani, a zittire quel dolore sordo al petto che non aveva smesso di tormentarla, di ricordarle quanto sbagliata, quanto inutile e vuota fosse.
Un oggetto danneggiato che non si può ridare indietro nella speranza di averne uno migliore, nuovo, funzionante.
Lei era rotta, era nata così, e nessuno, per quanto avesse provato, sarebbe riuscito ad aggiustarla.
Una condizione per quale aveva pagato, aveva pianto, cadendo in una depressione cupa e profonda che l’aveva convinta per un attimo, un solo attimo, di non meritare di vivere, di non meritare tutto quello.
Un  segreto, il suo segreto, quello che mai avrebbe rivelato, non a sua madre, non ai suoi due padri, non a Loki, soprattutto a Loki che dalla sua esistenza era dipendente, da lei, era dipendente, e non gli avrebbe più dato motivo di soffrire nel sapere di poterla perdere.
Non avrebbe più concesso alla propria disperazione di offuscarle la ragione e renderla cieca al dolore che dalla sua morte, dalla sua volontà di annientarsi sarebbe sopraggiunta, un dolore che non sarebbe riuscita a reggere, a consolare, perché sarebbe stato troppo  profondo, troppo scuro e troppo frammentato da poterlo rammendare.
Per questo non aveva permesso a Galactus di indebolirla con quelle apparizioni, con le sue parole, con i pensieri che leggeva nella sua testa e che ripeteva di propria bocca per metterla di fronte alla debolezza che lei tentava di celare, di nascondere a tutti, anche a se stessa.
 - Stai solo posticipando ciò che deve accadere.
- E cosa dovrebbe accadere? – lo riprese piccata.
Un guizzo di eccitazione gli tese il viso e la bocca schiusa in uno di quei sorrisi che le facevano ribrezzo.
- Ciò che sarebbe dovuto essere sempre. La tua presenza al mio fianco, come compagna.
Il raccapriccio le arricciò le labbra e appesantì le ciglia mentre l’orrore di quel pensiero, il disgusto per ciò che lui credeva giusto, naturale, ciò che lui chiamava destino, la faceva trasalire,  come se lei fosse destinata a unirsi a lui, in quanto sua metà mancante, ma non era così.
Perché lei non era nata per compiacere lui, non era nata per essere un’arma di distruzione nella mani delle masse, no, lei non era nata per tutto quello.
Lei era nata per amare Loki.
Era nata per lui, era stata fatta, per lui, solo per lui, e per nessun altro motivo.
Perciò, se qualcuno poteva arrogarsi il diritto di sapere a chi fosse votata la sua esistenza, se davvero c’era qualcuno che poteva  rivestirsi di quel ruolo, di sua metà, quel qualcuno era Loki.
- Per quante volte io lo abbia ripetuto – cominciò a rantolare, distendendo le dita per allentare la presa e cominciare a sfilare il braccio dalla colonna che non si era accorta di essere stata in procinto di dividere a metà.
- Ciò che tu credi sia il mio destino, non è quello che ho scelto per me, perché non sei tu il motivo della mia esistenza. Non gli umani, non gli dei, ma solo lui. Perché io sono nata per Loki – e quel nome scivolato dalle sue labbra sembrò racchiudere in sé l’amore del mondo, la dolcezza incontenibile di un cuore che di battere d’emozione per lui non avrebbe mai smesso – per lui soltanto.
Quando lo vide tendere una smorfia e irrigidirsi, come per sferrarle un pugno,  si tese a sua volta, avvertendo l’elettricilità statica punzecchiarle la nuca e i capelli abbandonati in petto, ma ancor prima di poter rilasciare il sibilo di minaccia, ancor prima di poter anche solo allungare la mano per cancellare la sua immagine da quella colonna, vi fu una voce, a piombare sopra di loro con la tonalità cupa di quelle corde vocali.
Un suono che molti avrebbero ricondotto al sibilo del vento per quanto debole e freddo fu,  ma fu  una voce, quella che Astrid sentì avvicinarsi assieme al passo cadenzato ed elegante del dio, ed era il suo nome, quello che Loki stava chiamando, era lei, chi lui stava cercando.
Sorridere le venne istintivo. Ammorbidirsi e sciogliere lo sguardo in un moto di tenerezza fu naturale, come lo fu voltarsi al suono di quella voce e sentire il cuore palpitare isterico nel petto, come la prima volta in cui lo aveva visto.
Ma era sempre quello, l’effetto che Loki aveva su di lei, un’emozione che non voleva tramontare o smorzarsi con l’andare del tempo.
Non lo avrebbe fatto il sorriso gentile con il quale lo raggiunse a passi veloci, come se volasse su ali che non aveva.
Non lo avrebbe fatto l’amore che le riempiva lo sguardo e la rendeva così bella e felice.
Solo per lui.
Fece scivolare la mano nel palmo rigido del dio quando riuscì a raggiungerlo, costringendolo in una presa dalla quale, in un primo momento, Loki sembrò volersi ritrarre, ma fu questione di un attimo, un battito di ciglia che gli ripulì lo sguardo dal timore che gli aveva offuscato le iridi prima che la calma, la quiete tornasse  a gettare qualche luce in fondo a tutto quel buio.
La luce di quella creatura che in silenzio, a passi quasi volutamente lenti, come a poter saggiare meglio la dolcezza di quell'attimo, a sottolineare quella che poteva essere una sua prerogativa, un loro momento speciale, seguitava il suo passo, fiduciosa e abbandonata al suo tocco che non le avrebbe fatto male, che al solo pensiero l'avrebbe fatto inorridire.
Perché era divenuto debole, di fronte a lei, e vulnerabile, con un fianco scoperto che per quante volte lei avesse potuto avere davanti non aveva mai neanche guardato  nella speranza di infleggergli il colpo mortale.
Quello che chiunque gli avrebbe inferto, una volta riuscito ad abbattere le sue difese, ma lei, lei non ci aveva neanche provato, e il solo pensiero pareva inorridirla, ferirla, e se Loki aveva imparato una cosa  da quando l’aveva vista per la prima volta nelle prigioni di Asgard, era che sapersi responsabile del suo dolore era qualcosa di così angosciante da togliergli il respiro e lasciarlo agonizzante.
Ed aveva sognato più volte, mentre lei lo teneva stretto, di ferirla, di essere il colpevole del suo dolore, e ogni volta che la vedeva andare via, ogni volta che si trovava immobile, senza possibilità di muoversi né di urlarle di fermarsi, moriva un po’.
Una morte dalla quale Loki sapeva che  era stata lei a strapparlo, perché incapace di vivere senza di lui, perché lui era il suo punto debole, ciò che la teneva ancora in piedi, ciò che Galactus sapeva, rappresentava l’ostacolo che li divideva, il confine che il Tesseract avrebbe dovuto oltrepassare per avvicinarsi a lui, per scegliere lui.
E se non era attraverso i ricordi dolorosi di lei che l’avrebbe avuta, allora si sarebbe servito  di quel dio, di quell’uomo che amato era da lei senza realmente conoscere la profondità di quell’amore, senza realmente capire quanto favorito fosse stato dalla sorte per avere lei  al suo fianco.
Ma la fortuna era bendata, e se sopra quel  capo la sua mano misericordiosa si era posata, allora Galactus avrebbe fatto in modo che fosse proprio lui, proprio quel dio ingrato a farla girare, a portarla su  chi avrebbe capito e realmente apprezzato il dono di quel cuore che lei, tanti anni prima, non aveva temuto di strapparsi dal petto per deporlo tra le  mani insanguinate del dio con un sorriso.




°°°





Giungere a compromessi era alla base dei rapporti civili, rappresentava le fondamenta delle relazioni che si sarebbero instaurate in futuro, rapporti che si predisponevano a ciò che richiedeva quell’accorgimento, ma se tra i propri simili era difficile riuscire a scendere a patti, pretendere di costringere quattro razze diverse a coesistere in uno spazio ristretto senza provare ad uccidersi a vicenda era quanto meno impensabile.
Eppure, il tavolo attorno al quale gli esponenti di ogni specie sedevano  tremava sotto i pugni di chi di agitarsi sulle sedie ne aveva abbastanza, e che fossero umani, dei immortali o non morti, ciò non importava, perché prima o poi le recriminazioni sarebbero giunte da ognuna delle parti, anche solo per il semplice desiderio di contraddire l’altro.
- Perciò tu credi che io mandi mia figlia in prima linea solo perché quel vecchio crede che sia la tattica migliore? – tuonò la voce aggressiva di Tony Stark,  l’unico ad essere scattato in piedi assieme al dio dei fulmini che della sua impudenza nei confronti del padre degli dei ne aveva avuto abbastanza.
- È l’unico modo per sfondare le linee nemiche – gli ripose a tono Thor, le gote arrossate per la stizza che lo portava a digrignare i denti rumorosamente – ora che anche *Mùspellsheimr si alleato con Galactus, non possiamo che agire di conseguenza.
Il vendicatore soffiò tra i denti una bestemmia rivolta al dio, a suo padre, ad ogni divinità presenta nella sala, stringendo le dita sul   tavolo attorno al  quale, alla sua destra, il dottor Barner fissava in rigido silenzio il confronto tra i due, una tensione che in lui diveniva visibile solo dalla vena pulsante contro la tempia, un particolare del quale nessuno, se non Maria e Fury,  erano consci.
Perché era pericoloso il suo silenzio, lui, era sempre stato pericoloso, barricato in quel mutismo che taceva un’ira animale, una volontà di distruggere, annientare e calpestare ogni cosa davanti a sé, e Thor sarebbe stato tra i primi a saggiare l’odio che tentava di zittire se non avesse smesso di pretendere il sacrificio di sua figlia.
Sua figlia, non loro.
Quella che Bruce aveva trovato per primo, aveva voluto per primo, la figlia che era stato lui a crescere, lui ad  amare, per la quale aveva compreso di poter ancora ricevere  qualcosa dalle persone, e non solo paura, non solo timore, e quella stessa figlia ora gli veniva tolta, strappata a quelle braccia che il dottore non avrebbe mai voluto allontanare da lei.
Perché si era ripromesso di proteggerla, di renderla felice, di difenderla da chi avrebbe voluto ferirla, e tutti in quella stanza, a proprio modo, le stavano facendo del male.
Un dolore che Astrid non mostrava sul viso impassibile, ma  un dolore che Bruce notava nelle mani raccolte in grembo sbiancate per lo sforzo di non gridare, di non compiere gesti avventati mentre attorno a lei il mondo tornava a decidere per lei, ad usarla come arma finale, come il Tesseract.
E Bruce conosceva lo sguardo spento con il quale ora sua figlia guardava di fronte a sé, aveva imparato a temerlo quando lo aveva visto per la prima volta, quando, stretta in un camice bianco, senza più voce né lacrime, gli si era accasciata davanti per la crudeltà dell’uomo, una cattiveria dalla quale l’avrebbe difesa con il suo corpo, se fosse stato necessario.
- È l’unica soluzione possibile – continuava a dire il dio mentre un guizzo isterico faceva vibrare le braccia conserte sul petto del dottore – sembra quasi che abbiate dimenticato che il Tesseract sia immortale – e fu il tono accondiscendente con il quale parlò loro, l’ovvietà con la quale la chiamò a quel modo o forse lo sguardo severo con il quale fissò Astrid a spezzare qualcosa dentro di lui, ma qualcosa a rompersi ci fu, e non fu solo il tavolo sul quale Hulk schiantò il proprio piede per balzare addosso al dio dei fulmini.
Quando i due rotolarono a terra sotto le urla sorprese dei presenti, Astrid si sentì strattonare indietro con forza mentre un braccio correva protettivo a circondarle le spalle e  il tavolo accoglieva il fisico possente del dio che il dottore colpì ferocemente mentre Lady Sif e Pepper tentavano di allontanarli l’uno dall’altro, ma  senza successo.
E più i colpi divenivano feroci, più Astrid si agitava in preda all’angoscia di non riuscire a tollerare anche quello, di non poter accettare che suo padre si ferisse per colpa sua, ma ancor prima di poter azzardare un passo che Loki non le avrebbe permesso di compiere, vi fu un’ombra scura a calare sul dio per strattonarlo lontano.
Zenas fece scrocchiare la mascella con rabbia quando Thor provò a divincolarsi dalla sua presa, ma era due volte la sua stazza, e tenerlo inchiodato contro una colonna gli costò poca fatica, perciò lasciò che la creatura verde avesse il tempo di rimettersi in piedi prima di allentare la presa e tornare con lo sguardo sulla donna dai capelli arcobaleno che, nell’incrociare il suo sguardo vitreo e senza vita, gli concesse un sorriso grato.
Una riconoscenza che il non-morto inghiottì assieme alla strana contrazione nel petto che percepiva sempre nel guardala, un rimescolio di organi che non ricordava di avere ancora, perché putrefatti dal tempo e dalla sua condizione, ma lei che era divenuta la sua salvatrice, la sua dea, pareva riaccendere in lui la vita perduta molti anni fa.
Ma ciò che provava, la profonda attrazione che nutriva per ciò che lei rappresentava, per ciò che era diventata per lui, non poteva in alcun modo venire alla luce, perché sarebbe stata fagocitata da quello sguardo che Zenas sapeva di avere sempre addosso.
Occhi per i  quali aveva avvertito un senso di smarrimento mai provato, neanche in vita, neanche di fronte ad intere armate, ma quella creatura, quel dio che tutti in quella stanza sembravano temere, per il quale sembravano provare repulsione e diffidenza nascondeva qualcosa di oscuro, dentro di sé, una fame di morte che persino lui non riusciva a capire,  a comprendere.
Ma una cosa l’aveva capita.
Lei non andava toccata.
Mai.
Quando Astrid vide suo padre cercare il suo sguardo con l’ansia e la preoccupazione a tendergli il viso sfiorò debolmente la mano che le stringeva la spalla, come ad avvisarlo della sua volontà, del bisogno di correre da lui, e quando Loki sciolse la presa, quando lo sentì irrigidire il busto e farsi da parte gli regalò un sorriso prima di correre verso suo padre e affondare nelle braccia che Bruce Burner serrò attorno alla sua schiena, tremando leggermente mentre la sua natura umana tornava a prevalere.
Vi fu un guizzo, improvviso e tanto celere da passare inosservato, fra di loro.
Il frusciare di un’ombra che per un attimo, un solo istante, aveva sfiorato la piccola figura che il dottore dondolava tra le braccia, una sagoma evanescente che Loki e Zenas seguirono con lo sguardo in silenzio, entrambi irrigiditisi per la ciocca rosa che intravidero nelle mani della creatura prima che questa scomparisse dietro l’angolo.

Ma ancor prima che il non-morto potesse anche solo azzardare un passo in quella direzione, lo svolazzare ipnotico del mantello verde lo avvisò dell’impossibilità di procedere oltre, di ergersi a protettore di una creatura che Zenas ricordò a se stesso, non andava toccata.
Non da lui, non da un’ombra che per  aver preso qualcosa di suo, avrebbe pagato con la vita.






°°°





Procedeva spedito, il passo appesantito dalla rabbia che gli gonfiava il petto di un calore che gli si condensava nello sguardo duro come una coltre di nuvole in procinto di fagocitare nella sua ombra un povero villaggio.
Ma ciò che il dio fissava incolore era l’ombra scura che sibilava nel vuoto passando di corridoio in corridoio senza mai fermarsi o voltarsi indietro, come a confonderlo, ma lui quei corridoi li conosceva fin troppo bene, li aveva odiati e poi amati per le nicchie sicure che gli avevano donato quando lo sguardo di suo padre diveniva troppo amareggiato da poterlo reggere.
E fu proprio in uno dei suoi nascondigli, poco lontano dall’uscita alla parte alta del palazzo, che lo trovò.
Una figura slanciata, nascosta da una mantella che delineava un profilo aguzzo e inghiottito dal buio del cappuccio, ma benchè non gli vedesse il volto, Loki capì che c’era qualcosa di pericoloso negli occhi che non vedeva  ma che sapeva, lo stavano fissando.
La sua attenzione e il suo sguardo erano però catalizzati sulla ciocca che nel buio della mantella pulsava di luce propria, come a sottolineare che non era il suo posto, quello in cui si trovava, che quelle mani, non avrebbero dovuto neanche toccarla.
- Stupefacente, non trovi anche tu? – lo sorprese la voce bassa e arrochita che sibilò fuori dal cappuccio mentre la sagoma, quasi come se avesse notato il suo sguardo insistente, alzava il braccio per riportare alla luce la ciocca abbandonata tra le sue dita rosse venate di nero.
Aveva  artigli oblunghi, spessi come se fossero fatti d’ossa umane, di un nero pece che rivaleggiava le tonalità scure delle venature che si ramificavano per la sua mano e sembravano voler rubare il colore caldo della ciocca di capelli di Astrid.
- Ho avuto ogni genere di oggetto nelle mie mani, e ognuno di loro è appassito tra le mie dita non appena ne ho sfiorata la superficie, ma questa – e la voce divenne graffiante mentre la mano si serrava con foga sulla ciocca che Loki avrebbe voluto strappargli dalle mani per non sentire quella fitta al petto nel pensare ad Astrid richiusa tra quelle grinfie assieme a quei capelli  - questa è l’unica cosa che non è morta a contatto con la mia pelle. Non lo trovi stupefacente Loki?
Sentirsi chiamare per nome da quella cosa non gli piacque, come non gli piacque la possessività con cui quelle dita tornarono a nascondere la mano e ciò che stringeva all’interno della mantella, come se volesse portargliela via dagli occhi, come se volesse mostrargli la facilità con la quale avrebbe potuto portargli via lei, e capì Loki, chi avesse davanti.
Lo comprese con un moto d’isteria quando riconobbe l’odore di zolfo e catrame che appestava l’aria circostante, una cappa di terra putrida e morta di cui quella creatura, Galactus sembrava essere formato.
E il pensiero di avere davanti il loro nemico, di trovarsi faccia a faccia con il mostro di cui Odino temeva la sola presenza, la consapevolezza di trovarsi di fronte il responsabile dell’angoscia e delle ferite di Astrid,  chi terrorizzava sua moglie, lo rese cieco di rabbia, tanto che quando il suo braccio gli trapassò il petto, affondando nella parete alle sue spalle,  pensò di averlo solo immaginato.
Ma ora che lo aveva ad un centimetro da sé, ora che poteva annusare la puzza che più di una volta aveva trovato tra i capelli di Astrid e i vestiti che  aveva bruciato per cancellare ogni traccia di lui su di lei, l’impotenza di non poterlo toccare, di stare attraversando solo aria e null’altro lo uccise nel profondo.
- Credevi davvero che fosse tutto così semplice? – lo rimproverò amabile Galactus quando, nel vederlo ritrarsi da sé, raggrumò la misera quantità d’energia che riusciva a filtrare la barriera e che lo rendeva innocuo a bloccare il braccio che il dio avrebbe voluto sfilare.
- Credevi davvero che uccidermi fosse possibile per te? Che lei avrebbe permesso che tu fossi alla mia mercè con tanta facilità?
Loki strattonò il braccio con un ringhio frustrato, ma più provava a dimenarsi per allontanarlo da sé, più gli  si ritrovava vicino, come se fosse stato inghiottito dalle sabbie mobili che lentamente, un po’ per volta, ingoiavano una parte di lui.
- Tu non sai quanto potente lei sia – e c’era rancore, nella voce di Galactus, come se lo stesse incolpando di essere così ignorante dei poteri di Astrid, di quanto pericolosa potesse diventare  - non hai la minima idea di cosa significhi essere voluti da lei, essere protetti, da lei, perché è lei a proteggere te, non il contrario.  
Avrebbe voluto gridargli di fare silenzio, di non provare neanche a giocare con la sua mente, perché era lui il dio degli inganni, era lui che si dilettava a rendere folli le masse attraverso l’inganno, la menzogna, le illusioni, e più di tutti Loki avrebbe dovuto capire che Galactus voleva solo instillare il dubbio in lui, che lui voleva solo trovare il suo punto debole per colpirlo.
Quel fianco che aveva imparato a scoprire per lei ma che ora cercava di coprire con entrambe le mani, come a tamponare una ferita che ora cominciava a scavargli la pelle, ad incidergli nel corpo la paura che sebbene fosse riuscito a smorzare continuava a frenarlo, ad impedirgli di abbandonarsi completamente ad Astrid.
Ed era su quella paura che quel mostro tentava di fare leva, lo sapeva, ne era cosciente, ma ciò non significava che fosse immune da quei pensieri, pensieri che lui per primo aveva avuto, che gli avevano fatto chiedere più volte  perché lei l’avesse scelto, perché continuasse a seguirlo.
Perché aveva voluto lui.

- Tu non sei degno di lei.
- Fa silenzio!
- Non hai avuto il coraggio di accettarla, perché non ne sei in grado, perché tu stesso sai che non la meriti, che non meriti neanche una stilla dell’amore che lei riversa ogni giorno in te mentre tu, ingrato, continui a nasconderti. Perché sei un vigliacco, figlio di Laufey, un codardo che non riesce neanche a  vedere che è solo la pietà  quella  che la spinge a volerti.
- Taci ! – e quella volta lo ruggì, lo urlò tanto forte da sentire i polmoni bruciare per l’odio, la disperazione che aveva cominciato a graffiargli lo sguardo e a fargli tremare il cuore d’angoscia, di consapevolezza.
Di riconoscimento.
Perché erano i suoi stessi pensieri, quelli che Galactus gli stava sibilando nell’orecchio mentre il fiato spezzato gli usciva in rantoli sommessi dalle labbra secche e spaccate per il freddo, il gelo che lentamente  lo stava prosciugando da ogni stilla di calore presente in corpo.
Erano le sue paure, quelle che sentiva sibilare da una voce che non era sua. I suoi dubbi, le sue incertezze, le spiegazioni che aveva provato a dare a ciò che stava vivendo, alla felicità che sentiva, al motivo della presenza di quella creatura al suo fianco.
Ed era proprio il perché della sua vicinanza  a frenare il suo bisogno di amore, il suo desiderio di cedere e lasciare che lei lo amasse, che potesse raggiungere il suo cuore e toccarlo,  e prenderlo, se lo avesse voluto.
Ma aveva paura, ed era un terrore ancestrale quello che ora tornava a rinvigorirsi dentro di lui, il timore di sapere che lei, che Astrid era divenuta sua moglie perché spinta dal bisogno di sdebitarsi per ciò che lui aveva fatto.
Salvarle la vita.
Sapeva di averlo fatto, lo aveva ricordato, lo aveva sentito dalla bocca degli Avengers, e quando lo aveva saputo, la speranza di essere davvero voluto da lei aveva cominciato a vacillare.
Spirito di sacrificio.
Loki sapeva che Astrid ne era capace. Immolarsi per lei era naturale, e farlo per lui sarebbe stato semplice, giusto, ovvio dal momento che lui l’aveva salvata, lui che  doveva essere ripagato per ciò che aveva fatto, per l’attimo di bontà, di umanità nel quale aveva deciso di ridarle il suo cuore.
Un gesto d’amore il suo, lo era stato, lo sapeva, lo credeva, ma un dono che ora dava nuove sfumature, nuovi significati a tutto.
Al perché lei fosse lì, con lui.
Al perché continuasse a rimanergli accanto.
Al perché, semplicemente, non potesse lasciarlo solo.
Pietà e senso di gratitudine.
Non amore.
Non affetto.
Ma ciò che Loki aveva temuto di ricevere dagli altri, per il quale aveva lottato, nella speranza di sapersi comunque odiato, temuto, qualunque cosa, ma non commiserato.
Eppure quello era tutto ciò che aveva ricevuto, che ora, riceveva da lei.
Galactus si lasciò scappare un sorriso quando udì i passi veloci poco lontano da loro, una corsa che avrebbe portato lì chi voleva, chi finalmente avrebbe capito quanto sbagliato fosse tutto quello.
E sarebbe stato proprio lui, proprio l’uomo che stava crollando di fronte a lui, divorato dai dubbi e dalla paura che stava avendo la meglio sul suo raziocinio, su ciò che in fondo al cuore sapeva, erano solo bugie,  menzogne, a darle l'ultimo colpo.
Perchè  Loki era nato da una bugia, e ingannare se stesso e gli altri era naturale, per lui.
Credere di non essere amato era più semplice, per lui.
Perciò accettò ciò che gli veniva offerto, la scappatoia ad un dolore che non era in grado di tollerare, una via di fuga da una felicità che Galactus, con voce suadente e vibrante astio, gli offrì.
- Se così non fosse, se non fosse stata davvero la pietà a convincerla a rimanere al tuo fianco, a sacrificare per te la vita che le hai donato, non credi che dopo tutto il tempo passato insieme, non avesse voluto avere un figlio da te?
Il dolore sordo che lo colpì al petto gli appesantì lo sguardo di lacrime che ingoiò a fatica, il respiro affannato che si faceva flebile e stanco, come il braccio che abbandonò inerte nel corpo di Galactus, sconfitto da ciò che sapeva, lo avrebbe ucciso.
- Non credi che avrebbe voluto dare vita al frutto del vostro amore? O non sei consapevole dell’orrore e del ribrezzo che le avrà fatto il pensiero di avere un figlio da te, un mostro, uguale a te?
Quando finalmente lo lasciò andare, quando Astrid lo raggiunse, fu troppo tardi, per entrambi.
E inorridire di fronte alla presenza oscura accostata a Loki non servì a nulla, chiamarlo e chiedergli se stava bene, non servì a nulla.
Perché Loki non sentiva più niente, se non il vuoto, e stanchezza.
Un’annichilente e antica debolezza che gli fece sentire tutto il peso dei suoi anni, secoli passati a lottare per trovare un posto nel mondo, un posto che però, dopo tutto quel tempo, aveva compreso di non poter avere.
Neanche con lei.
Mai con lei.
Il lampo di luce colpì Galactus al fianco, ma era tornato ad essere inconsistente e impalpabile come l’aria, ma Loki non si muoveva, continuava a darle le spalle, ed o Astrid cominciava ad avere paura.
Paura di non poter controllare il tremore della propria voce, né il dolore e l’angoscia che doveva averle sformato il viso in una maschera di disperazione, perché sentiva, che c’era qualcosa di sbagliato, nella schiena rigida di Loki.
Che doveva essere successo qualcosa, mentre lei non c’era, qualcosa di così orribile da impedirle persino di attirare l’attenzione del dio.
Il dio che non la guardava, né la sentiva.
Un dio che pareva essere diventato ignorante della sua esistenza e del singhiozzio isterico del suo cuore.
- Tesoro-
- Allontanati da lui! – strillò isterica quando vide Galactus ridere sotto il cappuccio, come se vederla cedere, finalmente, lo divertisse, ma lei voleva solo che si allontanasse da Loki, che lo lasciasse in pace, che li  lasciasse in pace ora che lui cominciava a credere, ora che finalmente, era riuscita a farsi accettare.
Pepper tentò nuovamente di bloccarla per un braccio, ma Astrid fuggì dalla sua presa per compiere un paio di passi in avanti, allontanando la folla che ora cominciava a riempire l’androne, gli spettatori di una tragedia che lei non era disposta ad accettare.
E fu con paura che provò a toccargli la spalla, la mano tremante per l’angoscia mentre la bocca secca tentava di schiudersi per pronunciare il suo nome.
- Loki?
Fece male.
Vederlo voltarsi, fece male.
Riconoscere il vuoto di quello sguardo spento,  fece male.
Capire di stare per perdere tutto, ancora,  fece male.
Ma respinse la paura e il dolore, perché doveva essere forte entrambi. Doveva esserlo.
-  Stai bene? – si costrinse allora a sussurrare, la voce resa sottile dalla preoccupazione mentre la mano continuava a rimanere sulla sua spalla e l’immobilità di quelle  pupille cominciava a spaventarla, lui, cominciava a spaventarla.
- Cosa è successo? Ti ha fatto del male? – e la paura quella volta trasparì dalla sua voce – cosa è successo Loki? Ti prego, parla con me. Cosa-
- È così orribile?
La confusone di sentirlo parlare così piano la fece trasalire, e se non gli fosse stata così vicina, Astrid non lo avrebbe sentito, ma lo aveva sentito.
Aveva avvertito il dolore cocente che pareva bruciargli la lingua e la voce e vedeva che era distrutto, annientato da qualcosa che lei non capiva, da qualcosa che lei sapeva, in cuor suo, di non poter combattere, non quella volta.
- Cosa è orribile Loki?
- Il pensiero di poter avere un figlio da me.
Il silenzio che cadde poco dopo il suo sibilo disperato fu smorzato dal gemito che Pepper aveva coperto con la mano mentre gli occhi le si inumidivano nel vedere la schiena di sua figlia tendersi come se l’avessero appena sparata.
- Deve averti fatto ribrezzo, non è così? Pensare di aver in grembo un figlio mio – e la sua voce sembrò riprendere forza, gonfiarsi della disperazione che ora rendeva il suo sguardo lucido e che aveva portato la sua mano a serrarsi attorno al polso gracile di Astrid mentre la vedeva chinare il capo, come ad ammettere la sua colpa.
E fu nel vederla nascondersi sotto i propri capelli che Loki si sentì morire, odiandosi per averle creduto, per aver davvero pensato di poter essere amato da lei, di poter essere stato desiderato così tanto da averla spinta ad aspettarlo in eterno, a concedersi senza remore alcuna.
Perché era tutta una bugia.
L’amore che lei aveva professato per lui.
La devozione con la quale lo aveva seguito e aspettato, accostato nonostante i suoi tentativi di respingerla.
Tutto. Era stata tutta una bugia.
Lui, era una bugia.
- Perché sono un mostro vero? – continuò a rantolare con la voce ingolfata dal dolore mentre qualcuno da qualche parte attorno a lui gli chiedeva di smetterla, di non continuare, di non andare oltre, ma lei avrebbe pagato, come tutti, per quell’amore che gli aveva teso e poi sottratto con tanto crudeltà.
Avrebbe pagato per averlo illuso, per avergli fatto credere di meritarla davvero, di aver trovato in lei il suo posto nel mondo.
- Allora? Il senso di colpa è tanto profondo da averti zittito?
- Ti prego, ora basta – lo implorò Pepper con disperazione, la voce rotta dal pianto che le soffocò la voce quando vide il dolore sommergere sua figlia, mangiarla da dentro.
- Cosa hai-
- Mi hai mentito.
Il suono di quella voce spaventò tutti, lui per primo, persino Galactus non potè impedirsi di trasalire quando la voce del Tesseract sembrò superare la barriera del suono per quanto acuta fu, come lo strimpellare stonato di un violino scordato.
- Mi hai mentito.
- Tesoro-
- Mi hai mentito – e la sua voce si gonfiò di un umore nero, di un’ilarità grottesca che spinse Loki ad abbandonare la presa e indietreggiare di un passo, disorientato da come le spalle della donna presero a tremare sotto la profondità della risata.
Ma quando Astrid alzò il viso non ci fu alcun sorriso a piegarle la bocca, nessun divertimento ad accenderle lo sguardo, solo il tremore convulso di chi sembrava indeciso se scoppiare a ridere o a piangere.
E avrebbe fatto entrambe, se avesse potuto, perché la disperazione era strana, e lei trovò una via di mezzo, in tutta quella follia.
La mano corse ad intrecciarsi ad alcuni ciuffi mentre la sinistra correva a premere il proprio stomaco, come a frenare una risata che non si decideva ad uscire mentre la bocca era piegata in un sorriso triste e guizzava isterica verso il basso per impedirle di rimettere, di vomitare il dolore che la faceva tremare.
Perché non era il riso, a scuoterla, non era la forza della risata trattenuta a gonfiarle il petto e la voce, ma il pianto disperato che Astrid tentava di arginare, ripetendosi che Loki non pensava davvero quelle cose, che lui non poteva sapere, che non ricordava quanto avesse sofferto, quante volte le avesse ripetuto che non gli importava dei figli, che non gli importava di nulla se non di lei.
Bugie le sussurrò la voce isterica del suo cuore, bugie per tenerla calma, per non farle compiere gesti avventati, ma lei lo aveva fatto, ci aveva provato, e lui non lo sapeva.
Lui non sapeva niente.
Niente.
Quando le gambe le cedettero non ci furono mani a reggerla, ma qualunque mano sarebbe rimasta ustionata se avesse tentato di bloccare il suo collasso, una crisi nervosa che esplose assieme all’urlo con il quale si accasciò in ginocchio, le mani corse a serrarsi con forza attorno al capo mentre bruciava e il mondo si sformava sotto la forza del suo dolore.
Ci furono urla di orrore per gli squarci apertisi d’improvviso nel soffitto, come una lama che affonda crudelmente in un lenzuolo sdrucito, stralci di mondi che sulle loro teste parvero  essere sul punto cadere, di schiantarsi come stelle impazzite che avevano perduto la direzione, la via di casa, ma era lei ad aver perduto la via, mentre il mondo attorno si spaccava a metà assieme al suo cuore.
Il panico costrinse molti a riparare sotto le colonne e fissare con orrore gli umani, i non-morti e i Giganti che dalle loro porte sul loro mondo li fissavano con uguale paura, uguale confusione, uguale timore mentre le sue urla aumentavano e sgretolavano, un poco alla volta, ciò che rimaneva di lei, una figura piangente che di dolore bruciava senza avere nessuno a cui reggersi mentre la disperazione e le lacrime la affogavano.
Qualcuno però tentò di raggiungerla, qualcuno ad avvicinarla ci fu davvero, ci provò, ma quando la mano venne respinta, quando la pelle pallida si arrossò per le fiamme che gli venarono il palmo di piaghe e sangue, Loki sentì un grido acuto spaccarlo a metà da dentro.
E quando tornò a tendere una mano, quando provò a raggiungerla, a toccarla, il dolore lo accecò per un istante prima che qualcuno lo afferrasse per le spalle e gli impedisse di perdere un braccio, nel tentativo di afferrarla.
Ma la voce nella sua testa continuava ad urlare, ed urlare senza dargli modo di pensare ad altro se non al dolore che lo squarciava, alla disperazione di sapere che tutto quello non sarebbe dovuto accadere, che la sua mano non si sarebbe dovuta bruciare, che lui non poteva essersi bruciato.
Perché sapeva, sapeva che non sarebbe dovuto accadere, mai , perché bruciare significava essere respinti da lei, dalla sua essenza, dalla sua anima, dal suo cuore, e lui non voleva, lui non poteva essere respinto da lei, non l’avrebbe sopportato.
Eppure era stato lui, era stato lui a costringerla a farlo gli sibilò la voce amara che aveva smesso di urlare, perché voce non aveva trovato più, una voce uguale alla sua,  ma diversa, arrochita dal pianto che gli aveva gonfiato i polmoni e gli impediva di respirare.
Perché era colpa sua, se ora lei piangeva.
Era colpa sua se la sua mano era ustionata.
Era colpa sua e di quella patetica paura che gli aveva fatto dire cose che non pensava, parole risentite di chi di nascondersi non riusciva a smettere, ma ora voleva che lei lo guardasse, voleva solo che lei alzasse il viso e vedesse il suo dolore, il suo pentimento, la sua disperazione.
Ma anche se lei lo avesse fatto, anche se davvero Astrid avesse sentito la sua voce  che la chiamava e implorava il fratello di lasciarlo andare da lei, non sarebbe servito a nulla, perché c’era lui, ora, a dividerli.
Il mostro che nel delirio aveva ripreso forza da quel dolore, rimpolpando l’essenza che lo aveva reso evanescente ma che ora gli permetteva di riempire la mano  del viso che Loki sapeva era suo compito abbracciare nel  proprio palmo.
Quando il cappuccio calò sulle spalle, ogni creatura presente si cristallizzò in un’espressione di paura per la quale Galactus tese un sorriso deliziato prima che le sue orbite vuote tornassero a guardare lei e quei suoi occhi liquidi che il colore acceso delle fiamme rendeva tanto lucide da potersi specchiare attraverso.
Uno sguardo spento che Astrid non mosse da lui mentre un pollice di quella mano le accarezzava delicatamente la gota, scatenando un coro di urla isteriche che non la raggiunsero.
- Povera piccola creatura innocente – la consolò delicato, piegandosi sulle ginocchia per essere lei di fronte e lasciare che il dio degli inganni vedesse ciò che aveva fatto, ciò che aveva distrutto con le proprie mani – non dovresti reagire così mia cara, lui non poteva sapere che tu non puoi concepire.
Thor sentì il corpo che tentava di trattenere divenire un blocco di ghiaccio sotto le proprie dita, un irrigidimento dal quale Loki stentò a liberarsi mentre l’orrore gli gonfiava la gola di un urlo che avrebbe voluto sfogare, di un perdono che avrebbe voluto implorare, e la consapevolezza di non poter provare altro dolore, di non poter reggere altro veniva frantumata da una verità nascosta che Astrid non ebbe la forza di tacere, perduta in se stessa e in quell’universo parallelo nel quale Galactus si specchiava compiaciuto.
- Come nessuno di loro sa che hai tentato di ucciderti buttandoti giù dalle alte montagne di Jotunheim, quando il dolore era diventato troppo da sopportare.
E fu il turno degli umani, di irrigidirsi e trasalire per l’angoscia, per l’orrore che colorò i loro sguardi di disperazione quando una lacrima rigò il viso blu di Astrid nel sentire il suo nome bisbigliato dalle labbra tremanti dei suoi genitori, come a cancellare quanto detto, a diluire un dolore che Loki non riuscì più a reggere, finendo con il lasciare che fosse suo fratello a reggere entrambi, perché lui non ne aveva più la forza, né la volontà.
Perché aveva sbagliato, aveva sbagliato tutto quanto.
Ed era stato lui a mentire per tutto il  tempo, era stato lui il bugiardo, non lei, non chi davanti alla verità lo aveva spinto, spostato di peso per fargli comprendere la profondità di quanto vissuto assieme, di quanto lei lo avesse amato mentre lui, lui non aveva fatto altro che ferirla.
Perché ancora non la ricordava, perché non avrebbe potuto chiedere di dargli l’anello che lei gli aveva raccontato, le aveva donato per renderli l’uno il compagno eterno dell’altro, l’anello che lei aveva promesso di riconsegnargli una volta che avesse ripreso possesso della vita che aveva avuto, per continuare a costruire quella che sarebbe venuta.
Una vita che lui aveva spezzato per egoismo, per paura, per codardia.
- Ed ora guardati, guarda dove ti ha portato il tuo vero amore – e sembrava prenderla in giro, con quel tono lamentoso volto a mostrarle quanto ingenua e stupida fosse stata - a morire di dolore per uno come lui.
E quel lui la fissò, la guardò fino a consumarsi gli occhi, fino ad attirare la sua attenzione e il suo sguardo con la forza della sua disperazione, del suo bisogno di essere guardato, di essere ascoltato, di essere visto da lei.
E quando lei lo guardò, quando quelle pupille che Astrid aveva tenuto mute per tutto il tempo si mossero nella sua direzione, ci fu un guizzo, in quegli occhi, un lampo di qualcosa che Loki non riuscì a comprendere mentre il Tesseract alzava una mano per toccare quella che le reggeva il mento, come in una carezza gentile.
Un tocco leggero, come il battito d’ali di una farfalla, per il quale Galactus sorrise vittorioso, rinvigorito dal sapore della conquista, del trionfo che finalmente, con quel gesto, lei gli aveva riconosciuto.
Un trionfo che però, quel giorno, non fu di chi ci si sarebbe aspettato.
Lo schizzo di sangue che le frustò il viso fu copioso, e rancido, ma Astrid rimase indifferente all’urlo di dolore con il quale Galactus si ritrasse mentre lei buttava in terra il braccio che gli aveva strappato  e si fletteva sulle ginocchia con un ringhio animale che spinse molti ad arretrare con terrore.
E quando la videro caricare, quando la videro spostare di peso la creatura per rigettarla nello squarcio di neve e ghiaccio ci furono urla, a richiamarla a gran voce mentre Jotunheim gridava d’orrore per quella presenza straniera sul suo suolo, un ruggito che Astrid cavò nel colpire Galctusa, una, due, tre volte, fino a quando non lo vide evaporare dal terreno sul quale era accovacciata e che improvvisamente vide tremare.
Il rimarginarsi degli squarci avvenne senza rumore alcuno, ma c’era il grido del vento gelato a graffiarle nell’orecchie, e il passo pesante di chi le stava andando in contro per accogliere lo straniero che nella terra del Giganti aveva osato metter piede, e quando Knut osservò la piccola figura dalle mani e dal viso imbrattate di sangue abbandonata sulla neve ringhiò minaccioso, attirando lo sguardo di chi correndo  lo aveva raggiunto.
Sunniva era ferita, Astrid lo notò con ciò che rimaneva della sua lucidità che andava spegnendosi mentre nel tornare in piedi stirava le dita chiuse in artigli per ripulirsi dal sangue che la sporcava, ma si ritrovò ancor più lercia di prima, senza però curarsene veramente.
Perchè chi l’aveva ferita, chi aveva segnato il viso dell' unica presenza amica in quella terra ostile doveva essere lui, il Re che dal proprio trono era stato spodestato  da un suo simile con arti minuscoli e sottili, un trono che Knut sembrava volersi riprendere ora che a sfidarlo per aggiudicarsi il comando non c’era più una divinità lontana, un re caduto, ma era rimasta la sua regina.
Era rimasta lei.
- Sfida me.
Il sibilo del vento si caricò delle sue parole come l’incoccare di una freccia pronta a colpire il grosso bersaglio rosso che le si stagliava davanti, e il suo, di bersaglio, era altrettanto grosso, e pallido, dalla pelle livida e il viso sfregiato ora arricciatosi in una smorfia divertita, canzonatoria.
Un divertimento che Astrid gli tirò via dal viso con la forza che adoperò per colpirlo al ginocchio e afferrargli il collo, così da averlo ad una spanna dal  viso e mostrargli che c’era ancora lei, da battere, che qualcuno da sconfiggere era ancora rimasto.
- Sfida me.




Continua…

 

* Muspellsheimr:  è il regno del fuoco nella mitologia norrena, qui vivono i Giganti di Fuoco;

Grazie per la lettura,
Gold Eyes

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Capitolo 10
*** 10 - Stand My Ground ***


Capitolo 10
“I can feel That its time for me to face it
Can I take it?
Though this might just be the ending
Of the life I held so dear
But I wont run, there’s no turning back from here “
[…]
“Stand my ground, I wont give in
No more denying, I got to face it
Wont close my eyes and hide the truth inside
I just know theres no escape
Now once it sets its eyes on you
But I wont run, have to stare it in the eye
All I know for sure is I'm trying
I will always stand my ground”

[ Stand My Ground – Within Temptation]





Sapersi osservata, sola e vulnerabile in mezzo a tutta quella neve chiazzata di sangue, senza una presenza amica abbastanza vicina a ricordarle che qualcuno per lei c’era avrebbe dovuto intimidirla, avrebbe dovuto spaventarla, ma non c’era mai stato posto per la paura in quella terra.
Lì, provarne era sinonimo di debolezza, e i Giganti di Ghiaccio aberravano ogni forma di fragilità fisica e mentale più della morte stessa, perché persino  morire era un atto di forza se si era morti combattendo, senza provare timore per la propria fine, una fine che sarebbe toccata ad uno di loro.
Ed Astrid sapeva che Knut non aveva creduto, neanche per un istante, che potesse essere lei la vincitrice della lotta per il potere che avrebbe deciso il loro destino.
Il terreno scelto per lo scontro era disposto su una delle cime montuose più alte di Jötunheimr, uno spiazzo arido  circondato da spuntoni che sarebbero potuti servire come lame di pietra da affondare nel corpo dell’avversario, lì dove  persino il ghiaccio che Astrid sentiva gelarle le piante dei piedi avrebbe potuto divenire un’arma da usare contro di lei.
  Perché avrebbe potuto perdere l’equilibrio con tutto quel sangue che gocciolava lungo le sue mani, mani che non avrebbero potuto avere una presa salda su qualunque cosa  fosse risultata  utile per reggersi in piedi, per non cadere in ginocchio, ma se anche l’avesse avuta, se anche un aiuto dall’ambente vi fosse stato, non lo avrebbe usato, non quando sapeva che ogni Gigante di Ghiaccio avrebbe visto in quel suo gesto un segno di debolezza, di sconfitta, un atto che una regina, la loro regina non avrebbe osato compiere.

Perché cercare aiuto non era nella loro natura, contare su altro all’infuori di se stessi, non era nella loro natura.
E loro aspettavano solo di trovare un motivo per giustificare la loro diffidenza, per la recalcitranza che lo  sguardo di Sunniva tentava di smorzare, minacciando con un ringhio chi incitava Knut a strapparle le braccia e gettarla di sotto, ma si sarebbe fatta bastare  il suo sguardo e le fiamme che ancora le lambivano il viso e il petto per gridare al mondo che lei non avrebbe risparmiato colpi, che non avrebbe avuto pietà, in quella lotta, come lei sapeva che Knut non ne avrebbe avuta per lei.
Perché  così sarebbe dovuto essere, così le loro leggi dicevano, ma  non c’erano regole da seguire in quel  combattimento, niente proibizioni su quale parte del corpo risparmiare dai colpi, come non ci sarebbe stato il fischio di inizio a metterla in guardia, e lei ne era cosciente, perché quell’avviso mancato  lo vide giungere come  il primo pugno con il quale il Gigante di Ghiaccio le si avventò contro.
Indietreggiare fu necessario per evitare che la mano della creatura le fracassasse la gabbia toracica, ma fuggire da quei colpi non era tra le opzioni  possibili, non era un gesto da Gigante di Ghaccio, men che mano da regina, perciò Astrid si trovò ad irrigidire i muscoli delle braccia da calare sull’arto che Knut era pronto a ritirare per caricare un altro colpo, un colpo che lei non gli permise di rivolgerle.
Quando l’ombra gigantesca della sua schiena la inghiottì, si elevò un coro di ruggiti attorno a lei mentre gli occhi delle creature osservavano con malcelata sorpresa come il loro capo, il più forte tra loro si trovasse fermo a mezz’aria, sollevato dalle mani che la piccola creatura, la compagna del vecchio Re gli aveva serrato attorno all’avambraccio per staccarlo da terra e tentare di impedirgli movimento alcuno.
Ma Astrid non aveva tenuto conto della caparbietà di quelle creature, di Knut, , e quando lo vide gettare  indietro la testa per colpirla, lei si trovò ad atterrare  malamente verso il limite del precipizio sul quale senza fiato  si trovò stesa a metà.
E Knut non le diede tempo di rialzarsi, di riprendere fiato, di provare a fuggire, perché le si rovesciò sopra come una valanga di muscoli che le immobilizzarono braccia e gambe, lasciandola con il collo teso per lo sforzo di non rovesciare la testa sul vuoto che le soffiava tra i capelli l’aria gelida delle sue profondità.
Sunniva lanciò un grido di rabbia nell’assistere a quella scena, provando a muoversi nella direzione della sua signora che continuava ad essere schiacciata da Knut.
Knut che non l’aveva mai accettata, capita come aveva fatto lei, lui che non poteva capire quanto la piccola creatura che tutti loro faticavano ad accettare, la minuscola ombra che su di loro aveva vegliato materna fin dal loro arrivo, in silenzio, senza farsi vedere, si era già conquistata un posto nel loro mondo.
Lei che non era una misera femmina straniera, nè la  compagna del vecchio Re, ma la loro regina, quella per cui Sunniva era pronta ad inimicarsi la sua stessa razza, pur di proteggerla, pur di farle capire che qualcuno a seguirla ci sarebbe stata anche senza dimostrazioni di una forza che lei aveva, una forza  di fronte alla quale chiunque, persino Knut, sarebbe impallidito.
Una forza che però Astrid aveva adoperato per  tamponare la ferita che  le parole di Loki le avevano scavato nel petto.
Parole che lei aveva sempre temuto di sentire, di ricevere da lui, e pensava di essersi preparata al peggio, di aver acquisito abbastanza  autocontrollo da poter accettare tutto, da potersi impedire di crollare ancora, così da  non permettere a Galactus di giocare con la sua mente.
Ma era col suo cuore, che quel mostro aveva giocato, con quello di Loki che aveva riempito di dubbi, di paura, e di risentimento per se stesso e lei.
Soprattutto per lei.
- Questa è la nostra  terra – berciò il Gigante di Ghiaccio con rabbia, la voce pregna di quel disgusto che per lei, per la sua conformazione fisica che gridava debolezza  e la sua diversità non aveva mai perduto occasione di esternare – e tu  qui non sarai mai  la benvenuta, figlia di Yssgradrill.
Un rantolo sommesso le sfuggì dalle labbra quando la creatura fece scivolare una mano attorno al suo collo, stringendo le dita tozze nel tentativo di soffocarla, ma erano state quelle parole, quell’ennesimo rifiuto a farle salire le lacrime agli occhi mentre le incitazioni a finirla, a uccidere la straniera si alzavano nell’aria come un canto di guerra.
Una guerra contro di lei, contro il nemico.
Ma Astrid non aveva mai voluto essere il nemico di nessuno.
Lei  voleva essere solo capita, e aveva passato la vita a cercare di compiacere gli altri, di adattarsi ai loro costumi, alle loro usanze, andando contro se stessa, sempre, contro se stessa.
E tutto ciò che aveva avuto in cambio, tutto quello che aveva ricevuto era stato solo disprezzo e lo schianto di una porta che di aprirsi per lei, di lasciarla passare  non ne aveva mai avuto ragione, né volontà.
E lei, lei avrebbe voluto urlargli che loro erano tutto ciò che le rimaneva, che lui, era tutto ciò che le rimaneva, che i Giganti di ghiaccio erano ciò che le restava  della  famiglia che aveva costruito con Loki, l’unico contatto con un mondo che aveva perduto, l’anello della catena attorno alla quale le sue dita insanguinate erano disperatamente aggrappate.
Ed erano loro, a tenerla ancora in piedi, perché era la sua ultima battaglia, l’ultima che poteva ancora vincere per riconquistare un pezzo di  Loki, un frammento che  loro, i Giganti, rappresentavano, in quanto suoi simili, in quanto suoi pari.
Loro erano ciò che le rimaneva di lui, l’ultimo appiglio al quale potersi aggrappare per non arrendersi, per non decidere di averne abbastanza di tutto quello, di lasciare la presa e cadere una volta per tutte, senza provare più a frenare la discesa.
E lei aveva bisogno di quello, aveva bisogno di loro, di ognuno di loro.
Di essere accettata, voluta,  e accolta come una di loro.
Aveva bisogno persino di Knut, lui che più di tutti le ricordava lui e quel mondo costruito con la  forza e governato dall’ orgoglio.
Un orgoglio che lei aveva ammirato da lontano, che per prima aveva messo da parte,  un orgoglio che ora Knut, per lei, avrebbero dovuto mettere da parte.
E lei glielo chiese con la mano che serrò attorno a quella rozza del Gigante, glielo bisbigliò con la voce rotta dal dolore e dal pianto, sperando di poterlo convincere che lei non voleva comandarli, che non aveva mai voluto essere loro nemica.
Avrebbe voluto spiegargli che loro erano il suo ultimo legame con Loki, chi le impediva di crollare, chi lei avrebbe potuto amare come avrebbero meritato se solo  le avessero permesso di essere qualcosa per loro.
Non una regina, non una tiranna, ma una madre, quella che non era mai potuto essere, quella che Yehouda le aveva impedito di diventare,  ma quella che per loro, per i suoi figli, per il popolo dell’uomo che amava sarebbe potuta essere, se glielo avessero lasciato fare.
Ma se c’era una cosa che Astrid aveva imparato in quegli anni, era che dai Giganti di ghiaccio non si poteva pretendere nulla, non il rispetto, non la comprensione, e che l’unico modo per riceverlo era chiederlo con la forza bruta.
E così fece.
Quando Knut si trovò a fissare il cielo terso di   Jötunheimr seppe  di essere stato appena battuto.
Ancora una volta.
E il pensiero di poter essere marchiato di nuovo, di dover sopportare la vergogna di sapersi sconfitto lo convinse che la morte sarebbe stata la scelta migliore, che l’avrebbe pretesa da quelle mani che lo schiacciavano a terra.
Le mani di una femmina.
Una piccola e stupida femmina che non apparteneva neanche alla loro razza.
Una creatura che in passato aveva denigrato, respinto con rabbia, una minuscola e sciocca creatura che nella neve aveva continuato ad affondare pur di mostrargli di essere degna della sua considerazione, di avere il diritto di essere riconosciuta come loro pari, come uno di loro, ed ora, di fronte al suo popolo, lei lo era diventata.
Degna di ricevere rispetto, degna di ricoprire il ruolo che aveva sempre inseguito e che aveva infine raggiunto e stretto tra le dita.
E il suo primo compito di regina, secondo le loro leggi, secondo la sua stessa volontà, sarebbe stato quello di uccidere chi in battaglia aveva perduto il diritto sulla propria esistenza, su una vita della quale lei avrebbe potuto farne scempio umiliandolo di fronte ai suoi simili, o uccidendolo lentamente, per ripagarlo della crudeltà che le aveva rivolto, del dolore che le aveva inferto.
E avrebbe preferito la morte, perché il suo orgoglio non avrebbe retto ad un'altra umiliazione, perciò attese in silenzio, lo sguardo perduto nella vastità della sua terra per trovare qualcosa di familiare a cui aggrapparsi durante la caduta.
Ma ciò che sentì, ciò che percepì contro di sé  non fu la pressione di una mano affondata nel torace in cerca del cuore da strappargli, fu invece un peso diverso da quello che si aspettava, il tocco di una fronte abbandonata sul suo stomaco con stanchezza.
Perché  sul corpo del Gigante, sul petto che secondo le leggi lei avrebbe dovuto squarciare per prendergli il cuore e impedirgli l’onore di ricongiungersi con la madre terra, Astrid si svuotò di ogni cosa.
Sunniva la raggiunse in silenzio, attirando su di sé lo sguardo dei suoi simili che ora parevano smarriti, e confusi da tutto quello, ma lei non era smarrita, perché lei non aveva mai perso la fiducia nel cuore buono di quella creatura.
Un cuore grande e gentile che le aveva dato un posto in cui stare, e  quando lo riprese, quando affiancò la sua signora lasciò che Knut la guardasse da terra per qualche istante prima che una mano piccola e blu lo portasse ad abbassare lo sguardo.
Un gesto che prima lo avrebbe disgustato, per il quale avrebbe preferito cavarsi gli occhi per non vedere, ma quando lo fece, quando sentì le piccole dita seguire il segno della schiavitù, della sua prima e unica sconfitta, non riuscì a scostare lo sguardo dal mondo di luci che vedeva tremolare per disperdere calore.
Un tepore gentile e soffice come la carezza che  gli sfiorò il volto, un tocco che Astrid compì con gli occhi bordati dalle lacrime che lasciò cadere, raccogliendo  con le dita la vergogna di una creatura che di quel gesto ne fu sorpreso, confuso, ed infine turbato.
E quando il peso di quella vergogna smise di segnargli il cuore e il viso, quando sentì la pelle arricciata distendersi sotto quel tocco gentile, lo squarcio che il loro Re aveva inferto venne risanato e l’orgoglio ripagato dell’onta subita.
Perché era stato risparmiato, e Knut non riuscì a trovare nullo di sbagliato, nulla di errato nell’umanità con la quale aveva deciso di ridargli la sua libertà.
 Quando tentò di rialzarsi Astrid seppe con un sorriso amareggiato che non aveva più la forza di compiere un passo, ma c’era Sunniva accanto a lei, e lei l’avrebbe aiutata, perché era sua amica.
La sua un’unica amica.  
Eppure non fu la Gigante a raccogliere da terra la piccola regina stanca, ma  Knut.
Knut che ora fissava il cielo con una quiete, una pace che non gli aveva mai visto in viso  mentre si caricava  del suo esile peso e  la Gigante che lo fissava guardinga seguiva la sua risalita verso il cielo, come se temesse un atto scellerato verso di lei.
Ma ciò fece fu   sollevare la piccola creatura sulla propria spalla, cosicché risultasse più alta di lui, più alta delle montagne, più alte di ognuno di loro.
Perché quella che Knut reggeva con forza, quella che il suo ruggito animale acclamò mentre il primo pugno prendeva a battere sul suo  petto, la piccola creatura che Sunniva continuava a guardare con orgoglio era la loro regina.
La Regina dei Giganti di  Ghiaccio.
Quando Knut prese a discendere la montagna, quando tutti lo seguirono, Astrid si sentì smarrita, confusa, e disorientata da ciò che vedeva, che non capiva,   mentre  lo sguardo si perdeva sull’immensità di quel pianeta che ora, per la prima volta, senza un reale perchè, le appariva un po’ meno ostile, un po’ meno freddo, un po’ più suo.
Loro.
E si abbandonò contro la spalla del Gigante, incapace di fare altro se non guardare di fronte a sé e lasciare che il vento gelido di Jötunheimr le  asciugasse le lacrime e soffiasse su quella ferita che lentamente, sotto il suono di quei passi e il battito di quel cuore sotto la mano smise di sanguinare, smise di soffrire.
Perché c’erano quelle voci a dirle che una battaglia l’aveva vinta, che finalmente, la sua scelta era stata fatta, e che una risposta, finalmente, avrebbe potuto dare alla domanda della sua esistenza.
Chi era lei?
Regina di   Jötunheimr   sussurrò flebile, la voce incrinata dall’emozione che le fece sgranare gli occhi su un mondo che ora poteva chiamare casa, un pianeta che riecheggiava di un titolo che ogni Gigante di Ghiaccio ruggì nell’aria, per ricordare al mondo di tremare e ai popoli di ricordare chi fosse il più forte tra loro.
Perché c’era un nuovo sovrano, a sedere sul trono di  Jötunheimr, e non era né un uomo, né un Gigante di Ghiaccio.
Non era stato subito, né costretto, ma scelto.
Lei, era stata scelta.
Una donna.
Una regina.
La prima regina di  Jötunheimr.

°°°

 


Raccogliere da terra ciò che altri avevano abbandonato credendo di non averne più bisogno era un’azione che Loki sapeva di aver già compiuto molte volte in passato, da bambino.
Aveva memoria di qualche episodio in cui aveva atteso che Thor mettesse da parte il giocattolo che il padre degli dei gli aveva appena  donato per rubarlo e riporlo con cura nel piccolo nascondiglio ricavato in una delle nicchie del palazzo, la sua caverna delle meraviglie, tesori che aveva sì rubato, ma solo perché nessuno avrebbe potuto apprezzarli come avrebbe fatto lui.
Perché suo fratello aveva sempre avuto la  sciocca tendenza di annoiarsi facilmente di ciò che gli veniva concesso, una conseguenza della eccessiva  frequenza con cui tutti esaudivano ogni suo capriccio mentre lui trovava difficile non tenere a tutto ciò che gli veniva donato.
Un libro, una vecchia palla, ogni cosa, una volta passata nelle sue mani, diveniva una reliquia da conservare con cura, un’attenzione maniacale che con l’andare del tempo si era tramutato in un tratto distintivo del suo carattere.
Era diventato meticoloso e pedante, e quel suo bisogno di ordine, di perfezione aveva trovato sfogo nei piani di vendetta che aveva meditato e trasformato in azioni, una volta divenuto abbastanza grande da poter liberare la rabbia che lo aveva divorato e incattivito nella sua infanzia.
E come allora non aveva potuto fare a meno  di piegarsi sulle ginocchia mentre nessuno guardava per raccogliere da terra ciò che Galactus aveva lasciato cadere quando Astrid lo aveva spinto brutalmente nel portale.
Solo che quella volta non aveva rubato niente a nessuno, perchè si era invece riappropriato di ciò che era suo.
Quella ciocca di capelli era sua, non di quella creatura che per primo l’aveva rubata, non degli umani che si definivano la sua famiglia e che forse, l’avrebbero rivoluto indietro.
Ma non erano loro la sua famiglia, Astrid lo aveva detto chiaramente.
Erano loro due, la famiglia dell’altro, solo loro due.
Una famiglia alla quale  era stato lui a voltare le spalle per una volta, non il contrario.
Quella volta non erano stati gli altri a decidere di non credere in lui, non era stato tradito, non era stato respinto, ma era stato lui, quello che l’aveva lasciata sola.
Era stato lui a lasciarla indietro.
Mi hai mentito.
Chiudere gli occhi non sarebbe servito a cancellare il dolore di quello sguardo vitreo.
Smettere di pensarci non gli avrebbe permesso di dimenticare la voce rotta dal pianto che le aveva stretto la gola.
Rinchiudere quella ciocca nella prigione crudele delle sue dita non gli avrebbe permesso di bloccare il tremore di quelle spalle minute.
Perché lei non avrebbe smesso di tremare e piangere e bisbigliare con voce tradita un’accusa dalla quale non aveva saputo come difendersi, lui che di averla ferita non lo aveva capito, di averla appena  uccisa, non lo aveva capito.
Si era preoccupato solo del suo dolore, si era sempre curato del suo dolore, senza rivolgere uno sguardo a chi lo circondava, senza tener contro della sofferenza, della disperazione che era stato lui a causare, una sofferenza che  tutti si  meritavano di ricevere da lui, ma lei, lei non se lo meritava.
Lei non avrebbe dovuto essere vittima del suo rancore, non aveva motivo di odiarla come odiava suo padre, come odiava Thor  e chiunque aveva professato il proprio amore per lui.
Il motivo per cui lo avevano perseguitato come un criminale, il perché fosse rimasto rinchiuso nelle profondità di Asgard senza avere la possibilità di rivedere mai la luce del sole.

Perché lo amavano.
Ma se davvero lo avessero amato, se davvero il padre degli dei avesse nutrito un poco dell’amore che lui stesso aveva tentato di soffocare, allora lo avrebbe perdonato, e capito, avrebbe provato ad ascoltarlo, a sentire le sue ragioni.
Perché era per lui, che aveva compiuto ogni gesto, era  sempre stato per lui.
Per renderlo fiero, per sapersi degno dell’ affetto elemosinato fin da bambino.
E dopo tutto quello che aveva fatto per lui, dopo aver compito gesta degne di un vero Re, dell’unico Re, lui aveva scelto Thor, sempre Thor.
E lo aveva lasciato andare, lo aveva lasciato cadere con quello sguardo che aveva continuato ad ammonirlo  fino alla fine.
Ma lei, lei  lo aveva amato davvero.
Astrid, sua moglie, la sua famiglia, non aveva fatto altro che sorridergli e tenerlo stretto quando la notte calava, quando i pochi ricordi riconquistati si mescolavano alle illusioni create dalla sua mente, incubi dai quali si svegliava urlando.
E quando accadeva, quando riusciva a liberarsi da tutte quelle mani che tentavano di trascinarlo giù, non c’era sua madre a calmare i suoi ansiti, non c’era suo padre, né suo fratello, ma lei.
Lei che era sempre lì ad aspettare  che il suo respiro si calmasse, che il suo dolore si placasse e che il suo sguardo sperduto  si accorgesse di lei.
Dei suoi occhi colmi d’amore che gli avrebbero dato qualcosa di sicuro e familiare a cui aggrapparsi.
Della voce che non avrebbe smesso di bisbigliargli parole di conforto.
Delle  braccia strette attorno alle sue spalle per tenerlo vicino a trasmettergli un po’ di calore.
Di quel sorriso che ora, dietro le palpebre chiuse vedeva sformarsi sotto la forza di quell’urlo che lo costrinse a gemere dal dolore mentre le mani correvano a coprirgli le orecchie e il viso.
Per non vedere.
Per non sentire.
Per non soffrire per quei ricordi che neanche adesso riusciva a riprendersi.
E lo avrebbe voluto, lo desiderava più di ogni cosa, più di quanto avesse mai desiderato  ricevere l’approvazione di Odino,  più di quanto avesse mai voluto  essere riconosciuto come unico e vero Re di Asgard.
Lui rivoleva quei ricordi.
Voleva sentirsi felice come sapeva lei lo aveva fatto sentire, voleva tornare ad essere il  dio di cui lei si era innamorata,  l’uomo che Astrid aveva trovato dietro la paura e l’orrore.
Rivoleva lei.
Quando le porte della sua camera si aprirono sotto la spinta esigente delle sua mani, quando abbandonò il letto sul quale si era lasciato cadere senza più voce, il silenzio che fino ad allora aveva cullato i suoi pensieri venne spezzato dalle urla che echeggiavano per il palazzo, voci animate che parlavano di eserciti da schierare per  marciare verso la fine dell’universo dove Galactus e i suoi alleati li attendevano per lo scontro finale.
E più Loki si avvicinava alla sala del trono, più la sicurezza di dover correre da lei, di doverle chiedere perdono per lasciare che lui la toccasse e la  rendesse introvabile per chiunque  eccetto che per lui si fece soffocante, tanto che quando si trovò alle spalle degli umani non ne fu pienamente  cosciente fino a quando non udì qualcuno chiamarlo.
Perché di lui qualcuno si accorse.
- Loki?
Pepper si affrettò a raggiungere il dio non appena lo vide voltarsi al suo richiamo, un nome che la donna aveva sussurrato per non attirare l’attenzione del marito e di Fury, di nessuno degli uomini che per quella venuta non avrebbe provato altrettanto sollievo.
Ma ritrovarlo lì, ancora in piedi, l’aveva confortata con il  pensiero di non dover raccogliere i pezzi di un cuore diverso dal proprio, di non dover consolare qualcun altro oltre se stessa, perché non ne avrebbe avuto la forza.
- Hanno deciso di attaccare domani all’alba – gli spiegò frettolosa, così da  non lasciar cadere il silenzio, così da  non permettere ad entrambi di sprofondare nella commiserazione che sarebbe sopraggiunta una volta che  avesse taciuto.
E Loki dovette comprendere lo stesso bisogno di mantenere un contatto con il mondo esterno per non crollare, perché si decise a raggiungerla a metà strada, lo sguardo fisso sugli uomini sul piede di guerra che vedeva accalorarsi gli uni con gli altri.
- Domani?
- Si – assentì Pepper, non trovando la forza di distogliere lo sguardo da lui, perché in qualche modo contorto il dio la faceva sentire vicina a sua figlia, ed ora lei aveva bisogno di sapersi saldamente legata a lei, nonostante la lontananza.
E il suo anello di congiuntura era Loki.
Loki che guardava ma non vedeva veramente, che la ascoltava, ma non la capiva, perché i suoi occhi cercavano un'altra figura che non era lei.  
- E Astrid?
Dire quel nome gli costò fatica, e più fiato di quello che aveva creduto, perché aveva dovuto scacciare l’amarezza della bile che gli aveva impiastricciato la lingua, ma bastò dirlo, bastò trovare il coraggio di ripetere quel nome per avvertire la dolcezza invadergli il palato come se avesse trangugiato un fiotto di miele.
E a lui,  che le cose dolciastre non erano mai piaciute, si scoprì incredibilmente toccato dalla sensazione di piacere che gli pizzicò ogni nervo teso come una mano corsa a lisciare ogni sua ruga d’espressione, ogni smorfia contrita, ogni linea ferita.
Una mano piccola, dalle dita sottili che la sua memoria gli ricordò di aver già sentito in passato, sul proprio viso, prima di chiudere gli occhi e abbandonarsi al buio.
Un buio che ritrovò dietro le palpebre ma che nel pensare a lei non gli fece paura, perché ad aspettarlo trovò una risata, dolce e morbida come un bacio soffiato sopra l’orecchio.
- Oh,  Astrid tornerà – la sentì sussurrare al suo fianco con un filo di voce mentre un sorriso nostalgico che lui non poteva vedere tendeva il viso dell’umana con una familiarità che avrebbe colto, se l’avesse guardata.
- Per quanto la cosa abbia sempre irritato mio marito,  lei è sempre riuscita a  trovare  il modo di tornare da te.



°°°




Non ricordava che respirare fosse un’azione così difficile da compiere, che costringere i suoi polmoni a dilatarsi per incamerare aria fosse così faticoso e spossante, ma lo era, e Astrid cominciava a capire il perché di alcuni tratti comportamentali di Loki.
Il modo sospetto in cui il suo petto riusciva a risultare così incredibilmente controllato persino nel compiere un gesto naturale come la respirazione che sarebbe dovuta risultare più rumorosa e visibile, mentre la sua non lo era.
O la cura con la quale  le sue labbra si schiudevano per lasciar passare solo un filo d’aria, non un po’, non di più, ma una quantità sufficiente a scivolare tra lo spazio inesistente concesso da quella bocca, dando come l’impressione che lui non stesse respirando veramente,  che non avesse bisogno di farlo per sopravvivere come gli altri, come tutti, persino gli dei.
Suo padre in passato aveva detto la sua, al riguardo, spiegando che quello del dio era solo un modo per inquietare chi gli stava vicino con una delle molteplici e grottesche abilità che gli permettevano di trovarsi alle spalle del nemico come un’ombra minacciosa e incorporea, ma ugualmente letale.
E se i suoi genitori fossero stati lì con lei, se suo padre l’avesse guardata, Astrid era certa che ognuno di loro avrebbe espresso il proprio sconcerto nel vederla imitare un tratto distintivo del dio.
Ma faticava davvero a respirare normalmente, e non per volontà di emulare l’uomo che amava, di essergli ancora più vicina, ancora più coinvolta, ma perché doveva sforzarsi di non occludere la trachea con più aria di quella che sarebbe riuscita a far passare per le vie respiratorie ostruite dal ghiaccio che aveva rivestito i suoi organi interni.
- Come ti senti?
Ruotare il busto per seguire quella voce le costò fatica, perché non si sentiva più leggera e veloce come prima, non con quella sensazione di costante spossatezza che rendeva i suoi movimenti così stanchi, affaticati, falsamente eleganti.
Ma era solo fatica quella le appesantiva il cuore e lo sguardo che Semjace incrociò, persa nella contemplazione silenziosa del mutamento fisico dal quale sua figlia era stata colta impreparata quando i primi segnali di cambiamento l’aveva informata del reale peso delle sue scelte.
E l’onere della spessa corona che Sunniva le aveva posto sul capo sotto lo sguardo dei Giganti, di Jotunheim, era stato ben più gravoso di quanto previsto, di quanto pensato.
Perché, quando l’intricata struttura di ghiaccio e brina cristallizzata era venuta a contatto con l’epidermide, quando il suo intero corpo aveva provato a rigettarlo come un organo incompatibile, un corpo estraneo, il gelo le era penetrato nelle ossa assieme alle spirali di ghiaccio che sotto la pelle tenere della tempia si erano insinuate come nuove vene che invece del sangue facevano circolare ghiaccio, divenendo un tutt’uno con i capelli ora divenuti di un colore più tenue, più freddo.
- Io – provò ad articolare, sforzandosi di risultare il più chiara possibile nonostante sentisse la lingua pesante –  io mi sento stanca.
Ed era vero, ma quella stanchezza non l’aveva mai provata o  sentita prima,  perché non era stata  scatenata da  nessuno sforzo fisico.
Era più che altro un affaticamento mentale che la rigidità dei suoi arti congelati rendeva ancora più palese per chi la guardava, per chi probabilmente sembrava estremamente posata, come Loki pensò accigliata, ripensando all’indolenza con cui compiva ogni azione, un’indolenza che molti, troppi avevano scambiato per un gesto di superiorità da parte sua.

Lui che  risultava algido nella sua postura composta,  e parlava solo quando lo riteneva opportuno, si muoveva solo quando lo considerava necessario.
- Non è come pensi,  la fatica che senti è  causata dall’assestamento con cui il tuo corpo sta cercando di abituarsi al cambiamento. Né Loki né i Giganti di Ghiaccio ne sono affetti. È la loro natura, ma non la tua.
- Oh – un’esclamazione quasi sciocca la sua, ma Astrid non sapeva come reagire, come abituarsi ai cambiamenti a cui il suo corpo stava andando in contro.
Mutamenti che non interessavano solo la sua essenza rarefatta come il respiro di ghiaccio che soffiava pesantemente dalle labbra, ma anche l’involucro della sua anima, quel corpo che tornò a guardare attraverso le mura di cristallo della sala del trono.
E quando le ciglia imperlate di brina le permisero di notare il rosso borgogna che le affogava l’iride, quando si strofinò le braccia per liberarle dallo strato di ghiaccio che l’aveva rese un po’ più pallide e traslucide come un velo impalpabile, Astrid sentì un moto di orgoglio per ciò che vedeva, per ciò che era diventata.
Perché la se stessa dallo sguardo velato e le labbra blu acceso sembrava felice.
Felice di ciò che vedeva, delle somiglianze che ora la rendevano una Gigante di Ghiaccio.
La regina dei Giganti di Ghiaccio.
E ora, neanche avere la pelle rosea come quella degli umani le importava più.
Cercare di sembrare come loro, non le importava più, perché ora anche lei apparteneva ad una specie, ad una razza, ad un popolo con cui condividere le proprie caratteristiche, la propria bellezza, e quella che ora rendeva lei  eterea e fuggente come un soffio di vento  la rendeva fiera della scelta presa.
Il frusciare di vesti e il tocco leggero sulla spalla la convinse a spostare lo sguardo dalla corona che non avrebbe più potuto sfilare dal  capo per quanto forte avesse tirato al viso metallico di sua madre, un viso segnato da una felicità che la portò a schiudere un sorriso emozionato.
- Sei felice? – la sentì sussurrare con un filo di voce, e c’era così tanto bisogno di sapere, così tanto desiderio di saperla finalmente felice, dopo tutto quel tempo, da bordarle gli occhi di lacrime che vide tramutarsi in piccoli cristalli di ghiaccio che, a contatto con il suolo, tintinnarono assieme  alla sua risata commossa.
- Si madre, sono felice.
Ed era vero.

Era felice, davvero  felice, e non per qualcun altro, ma per se stessa, per il posto che finalmente si era riuscita a ritagliare nell’universo, nel mondo.
Ed era su quel trono, tra quelle terre, in mezzo ai Giganti che sarebbe dovuta stare, non tra gli umani, non tra gli dei, non in una teca di vetro, ma lì, proprio lì.
La carezza con cui  sua madre le sfiorò lo zigomo le fu data con dita tremanti, dita che Astrid afferrò con delicatezza, rigirandosi tra le sue braccia per guardarla in viso e gridarle con gli occhi che aveva vinto.
Una vittoria per la quale riuscì a non pensare a nient’altro che a quella bolla di felicità che le solleticava il cuore ferito, un cuore che avrebbe riparato, pezzo per pezzo, ora che sapeva di avere un posto in cui tornare, una volta che tutto fosse finito.
E avrebbe voluto correre da Loki per raccontargli che l’avevano accettata, che i suoi simili, il suo popolo, l’avevano accettata come Regina, come loro regina, e che insieme avrebbero potuto costruire qualcosa di bello, qualcosa per cui lei avrebbe combattuto, così da  realizzare il sogno di ognuno di loro.
Perché c’era ancora una guerra da finire, e uno scontro da iniziare ora che di scappare non c’era più la possibilità.
La battaglia più difficile, quella che forse l’avrebbe vista perdente, ma anche vincitrice.

Non vi era certezza quella volta, neanche per lei, e la cosa non la spaventava, Galactus, non la spaventava più.
Avrebbe trovato il modo di sconfiggerlo, di rendere impotente ciò che non poteva essere distrutto, lo avrebbe trovato, ma quella risposta fu sua madre a dargliela, come dono per ciò che era riuscita a raggiungere, a conquistare.
Un compito che Astrid non aveva preso coscienza di aver assolto.
La matita di un grande disegno che Yssgradrill e gli spiriti del passato avevano finalmente finito di guidare.


Continua...


 

 

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Capitolo 11
*** 11 - Utopia ***


Capitolo 11
“Burning desire to live and roam free
It shines in the dark and it grows within me
I'm dreaming in colours of getting the chance
I'm searching for answers not given for free
They live inside as they lie within me  “
[…]

I'm dreaming in colours, no boundaries again
Dreaming the dream we all seem to share
The search of the door to open your mind
The search of the cure of mankind “
[ Utopia – Within Temptation]




La speranza non aveva forma in sè.
Non aveva un volume, un’unità di misura, e per quel motivo nessuno aveva un’idea precisa di cosa fosse,  a  cosa assomigliasse, se davvero esistesse. Ciononostante, se qualcuno lo avessero domandato, molti  avrebbe potuto affermare con sicurezza di averla vista almeno una volta nel corso della propria esistenza.
E che una forma alla fine ce l’aveva, in realtà.
Alcuni dicevano che assomigliasse ad una bambina dalle trecce bionde e il viso spruzzato di lentiggini.
Altri giuravano di averla vista sotto le mentite spoglie di  un vecchio anziano dal bastone nodoso e occhi tanto chiari da sembrare trasparenti come specchi.
Altri ancora parlavano di entità astratte, angeli, credevano in molti,  esseri soprannaturali che se si era abbastanza accorti, se si era abbastanza fortunati, si potevano percepire accanto a sé come un soffio di vento caldo, di quelli che convincono i fiori a schiudere i petali e mostrare al mondo la propria bellezza.
Ma nonostante l’esistenza di tutte quelle voci, di tutte quei racconti,  nessuno era ancora riuscito  a dargli una forma definita,  anche se secondo quelle storie la speranza ce l’aveva, una forma definita, solo che decideva di non mostrarsi sempre con lo stesso aspetto,  per non annunciare una venuta che sarebbe dovuta risultare casuale e non premeditata.
Perciò,  quando ti veniva a cercare, quando la speranza decideva che era il momento giusto per farti sentire il suo alito di vita contro la guancia, sulle cigli bagnate di lacrime, allora questa  assumeva le sembianze di chi meglio in quel momento di sconforto, di dolore, avrebbe incarnato la nostra idea di aiuto.
Perché ciò che si sperava di ricevere non erano miracoli, o magie, o un deus ex machina che avrebbe avuto il compito di salvarci dalla crudeltà del mondo, da noi stessi.
No.
La speranza non era neanche  la bambina che ti chiedeva curiosa,  se stessi bene, e neanche il vecchio anziano che sembrava fissarti ma che in realtà, non ci vedeva bene.
La speranza, quella vera, quella che non aveva forma, quella che giungeva inaspettata, era la caramella sciolta dal caldo che la bambina avrebbe tirato fuori dalla tasca del suo vecchio abito scolorito per convincerti a farle un sorriso.
Era il bastone nodoso del vecchio che ti avrebbe colpito duramente alle ginocchia per convincerti a buttare a terra la prima sigaretta che gli amici ti avevano consigliato come sfogo per la tua rabbia.
Era l’angolo di un appunto divertente che avresti trovato nascosto in quel vecchio e pesante libro che non avevi voglia di leggere  ma che forse, una volta aperto sul piccolo tavolo sgangherato della biblioteca, ti avrebbe strappato una risata sincera.
La speranza non aveva un aspetto preciso perché era  multiforme, eclettica, e soprattutto, capace sempre, in qualsiasi tempo, in qualsiasi angolo dell’universo, di sorprenderci con l’insospettabile forma che avrebbe assunto per noi.
E per loro, per i militari che erano costretti a tendere il collo per scrutare da sopra le spalle dorate dei guerrieri divini, per i non-morti che negli angoli bui della sala faticavano a mantenere il contatto con tutta quella luce, per i Giganti di Ghiaccio che dal fondo scrutavano con malcelato nervosismo di fronte a sé, per i leader, regnanti di ogni specie, la speranza aveva preso un’unica forma.
Quella che nessuno si sarebbe aspettato di fissare con tanta intensità, o sospetto, perché era solo una mano, e le mani non erano capaci di salvare, non erano capaci di concedere un desiderio o di vincere una guerra, eppure, quell’organo tattile di cui tutti in quella stanza erano stati dotati dalla madre terra, dalla vita, in quel caso appariva davvero, così diverso.
E non perché fosse blu, o piccolo, o cosparso da brina e cristalli di ghiaccio, no.
Non era il colore né la forma a lasciarsi combattuti, così confusi sul perché ora quella stessa mano risultasse così fondamentale, necessaria da stringere.
Ma sapevano di doverlo fare,  chiunque, in quella stanza, di fronte al corpo nodoso e fecondo di Yssgradill e alla piccola figura che la guardava in silenzio, con le mani tese in avanti, voleva raggiungere quei palmi e stringerli nei propri con forza, lasciando che la saggezza e il coraggio fluisse in loro.
Il coraggio di combattere per la salvezza del proprio pianeta, delle propria gente, della propria famiglia.
La risolutezza con la quale Nicholas Jack Fury allungò il braccio, afferrando la mano della donna che fissava fiducioso, e grato, fu netta e repentina  mentre il cuore tremava e lo sguardo veniva attirato dall’albero che parve divenire un po’ più luminoso, a quel contatto.
E quando il nero del suo palmo venne racchiuso nella mano gelida e putrefatta di Zenas l’umano non battè ciglio,ma rimase immobile, le pupille dilatate su qualcosa che nessuno oltre lui, ed ora, oltre il non- morto, poteva vedere.
Ma rimaneva ancora una mano da afferrare, e stringere, una mano che Odino fissò in silenzio, facendo scivolare lo sguardo sul profilo regale del Tessaract che non lo guardava, né lo costringeva ad stringerle la mano come le altre due creature avevano fatto con la sinistra.
Perché era una loro scelta se accettare o meno ciò che lei gli avrebbe concesso.
E non sarebbe stata la vittoria, un lieto fine, e neanche l’immunità da un destino di morte e sangue oramai prossimo, no.
Ciò che Astrid stava offrendo loro, ciò che la Regina di  Jotunheim stava concedendo  era una possibilità.
Possibilità di vincere.
Non una certezza, non una sicurezza, ma una possibilità.

Una possibilità che ognuno di loro avrebbe dovuto trasformare in realtà, loro, non lei.
Perché lei non era la salvezza, lei non era il miracolo, lei era solamente la via che si poteva decidere di imboccare per raggiungere ciò per cui loro avrebbero dovuto lottare con le proprie forze.
Ed Odino, che di scelte sbagliate sapeva di averne fatte molte, decise di fare la cosa giusta, per una volta. E quando afferrò la sua mano, quando lo vide,  quando l’Albero della Vita gli mostrò quella possibilità, quando l’eco dei vecchi Re, dei grandi spiriti della terra sussurrarono nelle loro orecchie ciò che si sarebbe potuto fare per raggiungere la salvezza della propria stirpe, sentì  la mano del Tesseract scivolare tra le sue dita come  acqua mentre Yssgradrill tornava a tacere e riprendere il suo fulgore gentile e rassicurante.
- Che quanto visto non esca dalle vostre bocche.
Sentirla parlare con una voce che, in un primo momento, nessuno riuscì ad associare al suo aspetto minuto, perché troppo maestosa e suadente da appartenerle, li colse impreparati,  ma quando videro che le sue labbra colorate non si erano mosse, la consapevolezza di averla nella propria testa impedì loro di risponderle.
Le bastò  ricevere un cenno d’assenso dal capo prima di decidere che il suo compito era finito, che ora, il destino del loro popolo era nelle loro mani, non più nelle sue.
Perché Astrid non avrebbe più potuto caricarsi del loro futuro, non ora che aveva un suo popolo, da difendere, la sua gente, da schierare, e quando Knut fuoriuscì dall’ombra della colonna, quando gli umani, intimoriti dalla sua stazza e dal suo passo minaccioso si aprirono a ventaglio per lasciarlo passare, lei si concesse un ultimo sguardo ad ognuno di loro, soffermandosi su Odino.
Odino che più di tutti, più di altri,  avrebbe dovuto tenere a mente il suo comando, ricordando di non poter indugiare su pensieri che lo avrebbero potuto tradire in presenza di quel figlio che con quella stessa mente aveva imparato a giostrarsi.
Un dio che se avesse visto, se avesse capito, avrebbe compromesso la loro unica possibilità di salvezza, di vittoria, e lei non poteva permetterlo, il Padre degli dei, non poteva permetterselo.
E fu per accortezza, o per semplice desiderio di parlargli, di strappargli un’altra promessa che Astrid lo invitò con un cenno della mano ad accostarla, l’ennesimo ordine al quale Odino non potè rifiutarsi, perché glielo doveva.
Le doveva la vita, e il ritorno di un figlio che sapeva, stava cercando sul suo viso il motivo di tanto silenzio, dell’apprensione che l’umano, Nick Fury, si era lasciato sfuggire prima di tornare dai suoi uomini.
Un’apprensione che l’uomo aveva rivolto a lei, alla Regina che fin dal suo arrivo non aveva guardato nessuno, ma aveva ordinato, e chiesto di seguirla, di non rivolgere domande, perché lei non avrebbe risposto.
E lui ne aveva tante di domande da porle, ma più di tutto, più del bisogno di sapere perché ancora non lo avesse guardato, perché, una volta tornata lì, non lo avesse cercato, Loki aveva la necessità di chiederle di perdonarlo.
Di non odiarlo.
Perché sarebbe potuto morirne di quell’odio, se era lei a rivolgerglielo, e lui non poteva, non voleva lasciarla passare senza provare a parlarle.
L’avrebbe costretta ad ascoltarlo, perché era egoista, e perché aveva bisogno che lei sapesse che anche se ancora non ricordava, anche se ciò che aveva tra le mani erano stralci di una vita che non conosceva ma di cui cominciava ad avere nostalgia,  gli sarebbero bastati.

Lei, gli sarebbe bastata.
Essere fissata non le dava fastidio, sentire di fianco la presenza silenziosa del padre degli dei, non le dava fastidio, sapere di non doversi guardare intorno in cerca della sua famiglia che sapeva, la stava guardando con apprensione, non le dava fastidio.
Perché non poteva, ora che era la Regina, ora che al primo posto non poteva più mettere i propri sentimenti, ora che non poteva concedersi di essere egoista.
Non poteva guardare i suoi genitori e spiegar loro che anche se il suo corpo era cambiato, anche se c’era una corona a pesare sul suo capo, lei li amava, non avrebbe mai smesso. Ed  anche se le sue labbra non potevano muoversi, anche se dalla sua bocca non sarebbe potuto uscire un fiato, Astrid glielo sussurrò gentilmente con la mente.
Le parve quasi di sentire,  di vedere il sorriso aprirsi sui loro volti un po’ meno apprensivi, un po’ meno spaventati, e tanto le bastò per continuare il suo cammino mentre Knut la aspettava alla fine di quel corridoio umano.
Il Gigante che l’aveva accettata come regina, e la regina di  Jotunheim sarebbe dovuta essere la più forte.
Sarebbe stata  lei a comandare, a condurre quella battaglia, in quanto sovrana del popolo più forte dell’universo.  
E forte si impose d' esserlo, costringendo il cuore in un’imbracatura che le impedì di farlo fuggire, di vederlo gettarsi sull’ultima componente della fila, il dio che Astrid avrebbe dovuto superare per raggiungere Knut, per finire ciò che aveva cominciato.
Ma quando vide una mano del dio scattare verso il suo braccio si sentì morire, incapace di respingere un contatto che desiderava, un contatto che qualcun altro però riuscì a bloccare.
- Non ora Loki.
Odiare gli era sempre venuto naturale, ma il dio degli inganni potè giurare di non aver mai odiato tanto suo padre come in quel momento.
Perché stava commettendo lo stesso errore di quando era bambino, il motivo del suo rancore.
Gli stava impedendo di raggiungere ciò che voleva.
E quella volta non era il suo trono.
Non era la sua approvazione.
Ma lei.
Sua moglie.
Sua.
- Mid dame.
E la loro regina gli sussurrò una voce lontana, un bisbiglio che lo portò ad abbandonare il braccio lungo il fianco mentre la guardava spezzare il contatto tra i loro sguardi e allontanarsi con suo padre.
Lontano, sempre più lontano.
Da lui.
E da quel ‘mi dispiace che nessuno oltre lui  riuscì ad udire.


°°°




Asgard era bella vista da lassù, forse  un po’ troppo opulente per i suoi gusti, ma per lei che era cresciuta nella povertà  delle favelas il dover ricoprire ogni superficie d’oro scintillante non aveva molto senso.
Eppure, Astrid si trovò a stirare un sorriso mentre il sole che moriva all’orizzonte faceva brillare ogni cupola, casa, e strada come stelle, minuscole e brillanti stelle dorate che la sua corona imprigionava nelle spirali di ghiaccio  che la componevano, facendo brillare anche lei, come una stella.
Chiuse gli occhi con un respiro stanco, beandosi del calore di un sole che non avrebbe più avuto la possibilità di baciarle il viso, o sfiorarle la pelle, o bagnarle i piedi,  perché non ci sarebbe stato nulla di tutto quello ad attenderla, lì dove sarebbe tornata.
Non ci sarebbero stati prati verdi  o erba fresca ad accogliere il suo passo, ma laghi ghiacciati e sentieri tanto ripidi da condurre su, sempre più su, sulle cime di quelle montagne così alte da scomparire oltre le nuvole nere che oscuravano i cieli di  Jotunheim.                                     .
Ma non era quello il  tipo di calore che le sarebbe mancato, non quello del sole, ma delle braccia degli umani che dabbasso, se tendeva le orecchie, poteva sentire parlare tra loro, litigare tra loro.
Origliare non era educato, suo padre Bruce non aveva fatto che ripeterglielo da bambina, ma Tony, l’altro suo papà, le aveva spiegato che alle volte, se si aveva un super udito come il suo, non si poteva fare a meno di impicciarsi degli affari degli altri, e lei, in quel momento, voleva far finta di essere là con loro.
Riconobbe la voce posata di sua  madre,  il tono di rimprovero di suo padre Bruce,  e riuscì persino a cogliere la nota stizzita con la quale Tony stava ordinando a suo figlio Marcus e ad Estela che non li avrebbero seguiti in battaglia l’indomani, non importava quanto a lungo avessero gridato, o quanti sguardi truci gli avessero rivolto, loro sarebbero rimasti a casa, al sicuro.
La loro casa.
Sentì il bisogno impellente di sporgersi e provare a vederli, di smorzare l’agitazione che la assalì nel ricordare la sua camera, quella che papà Bruce aveva condiviso con lei assieme alla  vecchia coperta di lana nella quale amava avvolgerla prima di stringerla a sé, o quella luminosa, dagli alti soffitti che suo padre Tony aveva tinto di rosso per ricordarle di lui, dell’armatura che l’aveva protetta da sveglia e che nei suoi incubi l’avrebbe vegliata.
La sua prima casa, quella che avevano costruito attorno a lei per farla sentire sicura e amata, quella che non aveva dimenticato, che Jotunheim  non avrebbe sostituito, perché erano le sue radici, loro, erano le sue radici.
Ed aveva bisogno di guardarli, ora. Aveva bisogno di vedere il cipiglio austero di suo padre Bruce e il sorriso a mezze labbra di suo padre Tony, e lo sguardo pacifico di sua madre, aveva bisogno di vederli, di ricordare come fosse stare con loro, sapersi con loro, perché non l’avrebbe più fatto.
Perché lei aveva creduto di poter affrontare tutto quello, di poter compiere quanto necessario senza essere assalita dalla nostalgia, ma era stata sciocca a credere davvero che essere diventata regina significasse essere diversa.
Lei era sempre la stessa, sarebbe stata sempre la stessa, anche se con  una corona in testa, perché sotto questa  c’ era lei.
Una bambina cresciuta troppo in fretta, una ragazzina  che di crescere, di  diventare adulta l’aveva desiderato troppo presto, ed ora che lo era diventata, ora che era donna e regina, la consapevolezza di aver comunque bisogno dei suoi genitori, dei suoi papà e della sua mamma le stringeva la gola per il dolore che avrebbe voluto sfogare in un sospiro tremulo.
Quello che invece scivolò via dalle labbra fu un gemito di sorpresa, un singulto che le sue spalle seguirono mentre la testa scattava indietro e gli occhi lucidi abbandonavano le figure che aveva provato a portare con sé lassù  per smorzare la sua solitudine.
Ma non era più sola, perché la causa della sua distrazione, il motivo di quel singulto di spalle e labbra era stato Loki.
Loki che ora la fissava e che, nel cogliere la sorpresa del suo sguardo, rafforzò la presa sulla sua spalla.
E non piangere sarebbe stato impossibile, non con lui lì, non ora che si sentiva così scoperta, e sola, e vulnerabile, incapace di mostrarsi serena come si era augurata.
Perché lui era lì, Loki era lì, e pensare di poter far finta di nulla, di poter ignorare  il battito isterico del cuore salitole in gola e il tremore delle mani che avrebbe voluto alzare per incorniciargli il viso e lisciare con le dita quella smorfia di dolore e rammarico  era impensabile.
E lo fece.
Gli sorrise per impedire alle sue labbra di tremare.
Strizzò gli occhi per  arrestare le lacrime che le avrebbero reso impossibile vedere, lei che ora voleva vedere tutto.
Quegli occhi simili a specchi rotti che nel sentire le sue mani sul viso, nel percepire il calore delle sue dita contro la cicatrice  sembrarono ritrovare l’incastro di ogni pezzo caduto.   
Perché lo stava rimettendo in piedi, lei che ne aveva sempre avuto il potere, lei che sapeva quale tasto toccare per avviare quell’operazione di ricostruzione alla quale Loki si abbandonò, lasciando che lo toccasse quanto volesse.
E quando si ritrovò con lei tra le braccia, quando si accorse, non senza una certa sorpresa, di essere seduto sul davanzale della finestra situata nella torre più alta di Asgard, lì dove l’aveva guardata da lontano per ore prima di decidere di raggiungerla e parlarle, Loki non trovò la forza di fare altro che abbandonare il mento sulla testa di Astrid mentre le braccia correvano a raccoglierla contro il suo petto, affinchè non cadesse, affinchè non lo lasciasse.
E lei non provò a fuggire, si limitò solo a sistemare il capo nell’incavo del suo collo e rilasciare il primo vero respiro della giornata, quello che carezzò la mascella del dio con gentilezza, una carezza di dita invisibili che lo spinse a chiudere gli occhi per la stanchezza che ora lo assaliva.
Ma aveva bisogno di scusarsi ricordò a se stesso con voce dura.
Doveva chiederle scusa per averla ferita, per averle dato della bugiarda, a lei e a quell’amore che menzognero non era mai stato, lei, non lo era mai stata.
Affinchè si liberasse del dolore di sapersi responsabile di tutta quella tristezza che le offuscava lo sguardo, affinchè lo perdonasse, affinchè non lo odiasse.
- Io non ti odio.
 Sentirglielo dire fu strano, e spaventoso, perché Loki sapeva di averlo solo pensato, di non aver parlato, e soprattutto, di non aver avvertito nessuna intrusione, nessuna mano intenta a rovistare nei suoi pensieri, ma non si era accorto che lei ora lo guardava di sottecchi e che glielo aveva letto in viso.
In un viso che il dio osservò preoccupato nel riflesso dorato delle pareti alle sue spalle, ma non trovò nulla di sbagliato, nulla di diverso, se non una minuscola e banale contrazione dell’angolo destro delle sue labbra.
Un movimento impercettibile del quale neanche lui si era accorto, ma lei sì.
Lei se ne era accorta.
E la consapevolezza di risultare così chiaro, di non riuscire a nascondersi dietro la sua maschera lo colpì, convincendolo a guardarla negli occhi per capire, per mettere alla prova quella sua strana empatia e vedere quanto  lo conoscesse,  quanto in profondità potesse scavare per grattare la superficie del muro che aveva sempre eretto attorno al suo cuore.
La vide sorridere con gentilezza, e il modo in sui i suoi occhi si ammorbidirono per lui gli causarono un vuoto allo stomaco, una sensazione di vertigine che però risultava piacevole, estremamente piacevole.
- Credo che tuo padre abbia compreso il tuo bisogno di attenzione, sai?
Quello non se l’era aspettato.
La comprensione di un malessere così intimo e infantile, non se l’era aspettato.
Quello sguardo indulgente, non se l’era aspettato.
- Ho avuto modo di parlare con lui mentre stavamo revisionando le truppe – e Astrid si costrinse a rendere la voce simile ad un soffio per non spaventarlo, per non rendere quello sguardo ancora più sperduto – e posso dirti con sicurezza che lui l’ha compreso, che sarà disposto ad ascoltarti, quando ne sentirai il bisogno. Lui ha capito, Loki. Ti ha capito.
- Perché?
Glielo disse con  voce rauca, graffiata dalla frustrazione di non sapere perché.
Perché, nonostante tutto, si fosse lasciata toccare.
Perché, ancora volta, era stata disposta ad aspettarlo.
Perché, semplicemente, continuasse a cercare di renderlo felice.
 - Lo sai perché – e c’era durezza nella voce di Astrid mentre un’ombra di fastidio  le attraversò il viso quando lo vide stringere le labbra e grattare la gola con un ruggito che non la spaventò.
Lui, non la spaventava.
- No invece – sibilò cattivo – io non lo so perché continui ad insistere con me.
- Invece lo sai, solo che non vuoi accettarlo.
- Accettare? – lo aveva quasi urlato, ma era stato un urlo fatto con un filo di voce, un fischio che gli ronzò nelle orecchie fino a renderlo sordo alla sua stessa voce, quella che nella sua testa gli ordinava di smetterla, di non cercare di essere infelice.
Perché era quello che stava facendo.
Rendersi infelice.
- Non sono io quello che non riesce ad accettare la realtà. Io non sono l’uomo di cui parli, non sono più l’uomo di cui ti sei innamorata – e dirlo gli fece male, pensarlo, gli faceva male – io non sono l’uomo che vuoi.
Lo schiaffo giunse inaspettato, ma non fu uno schiaffo eccessivamente doloroso, non fece neanche lo schioppo, perché la mano scattata sulla sua guancia, corsa a coprire la cicatrice di cui Loki non ricordava il responsabile, non aveva fatto male.
Lei non voleva fargli male, era stato lui a fargliene, era sempre lui, a fargliene.
- Io non mi sono innamorata di un uomo, né di un dio, io mi sono innamorata di questo – e la mano che Astrid aveva tenuto abbandonata in grembo corse a coprire un’altra porzione di pelle, il pettorale sopra il quale schiuse le dita, come a riempirsi il palmo del cuore di Loki.
Il cuore che piangeva e tentava di non soffocare, senza farsene accorgere.
Ma lei se ne era accorta, lei se ne sarebbe sempre accorta.
- Io mi sono innamorata del tuo cuore, Loki. Non della bellezza di un uomo, non della potenza di un dio,  è del tuo cuore, che mi sono innamorata, lo stesso cuore dell’uomo che ha dimenticato, lo stesso cuore che io non ho mai smesso di amare, neanche per un istante.
Le lacrime che le rigavano il viso erano state involontarie, ma scivolavano assieme alle parole, ad una confessione dalla quale Loki non ebbe il tempo di schermirsi, di  nascondersi, e lo colpì.
Lo colpì dritto al cuore, con forza.
E quando cedette, quando sentì la rabbia venir meno e l’angoscia sciogliersi come neve al sole si arrese.
A lei, a quell’amore che non poteva più rifiutare, a quella vita che lei aveva cercato di migliorare.
Vederlo chiudere gli occhi fu commovente, ma Astrid si tenne per sé i propri commenti, preferendo ritornare a posare l’orecchio contro il cuore che sentiva battere veloce.
Veloce come se fosse emozionato.
Veloce come se fosse stato liberato.
E fu allora che Astrid seppe che si sarebbero presi cura di lui, che Loki avrebbe avuto la famiglia che meritava, il padre, che meritava, che avrebbe potuto crearsi nuovi ricordi per riempire il buco che lei non era riuscito a richiudere.
Ma ci avrebbe pensato Odino in sua vece, ad amarlo, a dargli un posto nel mondo.
Perché lei era la regina dei Giganti di Ghiaccio.
Le creature nelle quali Loki non si era mai riconosciuto, una stirpe che lui aveva ripudiato e che forse, mai sarebbe riuscito ad accettare.
Ma andava bene cosi.
Avrebbe fatto in modo che andasse bene così.





°°°



“Le guerre non erano mai giuste” aveva detto qualche vecchio moralista nei suoi anni di massimo senso civico, ma su quello Nick Fury dovette dissentire duramente.
Le guerre non era giuste,  su quello poteva concordare, ma qualche volta potevano diventarle, potevano esserlo  quando si doveva  proteggere qualcosa di caro.
E quello era sensato, quello, era giusto.
Lottare per proteggere una vita lo era.
Muovere guerra per proteggerne più di un miliardo lo era.
Ed erano tutti lì, radunati in file ordinate, disposti in plotoni che di respirare avevano smesso quando sul pianeta disabitato su cui avevano scelto di battersi misero piede loro.
 Múspellheimr era un nome che non faceva suonare nessuna campanella di riconoscimento nella testa di Fury, ma la stazza e lo sguardo crudele delle creature che con quel nome definivano la loro razza era spiacevolmente familiare.
Perché quelli erano Giganti, dalla pelle scarlatta e dal corpo frastagliato di piaghe, ma pur sempre Giganti.
E facevano paura.
Ne facevano a lui, ai suoi uomini che di trattenere il fiato non avevano smesso, e persino alle divinità che nelle loro belle armature dorate avevano sentito il cuore pompare di paura, di disperazione.
Persino Odino non aveva potuto evitare di mostrare un lampo di apprensione alla vista dei Giganti di Fuoco, e Thor stesso aveva sentito le dita tremare quando il loro capo, il loro Re si era mostrato loro.
Più alto di ogni altra creatura avessero mai avuto la sfortuna di incontrare, e spietato, una crudeltà che i suoi occhi dorati ruggivano assieme a quella bocca di denti aguzzi che esalano respiri  di gas maleodoranti e acidi.
Puzzavano di zolfo, di morte, e di sangue rappreso, le chiazze che tempestavano i petti glabri di ognuno di loro senza mostrare le ferite da cui era potuto fuoriuscire, ma non ce ne erano, perché non era il loro, quel sangue.
Non  sarebbe stato mai il loro.
- Dove sono?
Aveva una voce sgradevole il Re di Múspellheimr, *Surtr, ma tutti rimasero fermi, immobili.
Sordi.
- Dov’è la piccola sgualdrina di  Jötunheimr   ?
Quella volta il movimento però vi fu, ve ne furono molti in verità, e maledizioni masticate a denti stretti, urla inghiotte di forza in gole nervose e bisognose di fargli rimangiare quelle parole, di fargli rimangiare quell’insulto.
Ma nessuno si mosse, nessuno fiatò,  rimase solo fermi, ad aspettare che lei si presentasse, ad attendere che Astrid arrivasse.
- Allora? Credete che sarete sufficienti a distruggere la mia armata? A distruggere lui? Voi patetiche-
- Vedi di fare silenzio o ti strapperò la lingua e ci farò una zuppa di jambalaya – ruggì  Tony Stark dalle prime file, contravvenendo all’ordine di non fiatare, di aspettare il segnale, ma non c’era mai stata la reale possibilità di imbrigliare la sua lingua, non quando era sua figlia, quella che stavano chiamando sgualdrina.
Sua figlia.
E se Iron Man aveva mai avuto modo di mostrare quale tasto in lui andasse toccato per inimicarselo, era senza dubbio quello di rivolgersi ad Astrid in un modo che non gli piaceva, e il modo in cui l’aveva chiamata, il modo in cui l’aveva insultata non gli piaceva.
Non gli piaceva per niente.
- Quale parte dello “stare in silenzio e fermi” fino al mio segnale non hai capito Stark? – gli sibilò di fianco Rhodes, un velo di sudore ad imperlargli la fronte.
Lo scienziato gli concesse solo uno sguardo sfacciatamente irritato prima che il ringhio animale del Gigante li zittisse nuovamente, ma Tony non smise comunque di gorgogliare, covando in petto  bestemmie che neanche in mille anni avrebbero mai potuto eguagliare.
E gliele avrebbe urlate tutte, gliele avrebbe sputate in faccia se lo scoppio alla sua destra non lo avesse fatto sbiancare.
Un grido di terrore si alzò tra le file dei non-morti quando la palla di fuoco che uno dei Giganti aveva vomitato si schiantò su di loro, facendo saltare teste e arti che con orrore alcuni militari calciarono via quando una di quelle cose provò a toccarli.
Ma Zenas, che dalle prime file aveva assistito in silenzio alla scena non mostrò pietà per quello scempio, ma sibilò ai suoi sottoposti di tacere e tornare in file ordinate anche senza una gamba, perché anche così avrebbero potuto combattere, e fu con qualche grido isterico che quelle creature o almeno, ciò che ne rimaneva, ripresero il loro posto.
- Interessante – se ne uscì Fandral, la testa bionda rivolta ad una di quelle cose senza braccia che lo accostava e che, nel sentirsi osservata, gli sibilò contro come una piccola serpe velenosa.
- Fa attenzione – lo rimproverò Lady Sif con acredine, rabbrividendo nel sentire l’ “idiota” con cui Loki aveva esternato il proprio disgusto nei confronti del guerriero che di rispondergli non ne ebbe il coraggio.
E non perché, in linea di massima, andare contro Loki avrebbe significato  perdere la vita nel tentativo di farlo, ma perché in quel momento il dio degli inganni non lo avrebbe considerato abbastanza interessante da convincerlo a distogliere lo sguardo dal cielo che fin dal loro arrivo non aveva mai abbandonato.
Perché era da lì che lei sarebbe giunta secondo quanto riferito da suo padre e gli altri leader delle specie, ma Astrid non era ancora arrivata, e quello strano senso di pericolo che lo aveva portato a stringere le palpebre per il sospetto di annusare qualcosa nelle espressioni imperscrutabili dei Re non fece che acuirsi e dare adito alle sue supposizioni.
Ipotesi su come fossero eccessivamente rilassati, tutti loro, troppo posati, troppo rigidi, come se gli fosse stato imposto di mostrarsi così controllati, come se lo facessero per nascondere qualcosa, come se suo padre volesse nascondergli qualcosa.
E Loki odiava i segreti, quegli stessi segreti che avevano dato un nome a quella sensazione di abbandono che da bambino non si era mai riuscito a spiegare, e provava la stessa e profonda paura di sapere che ciò che Odino sapeva, ciò che ognuno dei quattro uomini sapeva, non gli sarebbe piaciuto.
Il respiro trattenuto del soldato alla sua destra lo distrasse dai suoi pensieri, distendendo le rughe di preoccupazione quando sentì un insolito crepitio sopra la testa, come se qualcosa si stesse preparando a calare su di loro, come se qualcuno stesse per arrivare.
E quando venne, quando il cielo lampeggiò di luce viva e pulsante, nessuno, neanche il Re di Múspellheimr   poté impedirsi di serrare le palpebre per non rimanere folgorato dall’esplosione che inondò di luce l’intero pianeta, portando attimi di paura per cosa lo avesse generato, per chi, finalmente fosse arrivato.
Armature.
Quella fu la prima cosa che gli uomini e i non-morti videro di fianco a sé, negli spazi lasciati liberi secondo le direttive, una scacchiera che ora si componeva anche dei suoi talloncini bianchi, gli elementi mancanti che ognuno di loro ritrovò nei Giganti di Ghiaccio.
Numerosi, tanto numerosi da averli resi una tavolozza di colore monocromatica, una chiazza perlacea che una punta di colore verde interrompeva, il verde brillante dell’elmo sotto il quale  il viso della Regina di  Jötunheimr  si mostrò in tutta la sua agghiacciante e terribile bellezza.
Un elmo che Loki sapeva  di aver indossato durante ogni combattimento imbastito, ma un elmo che non ricordava di aver perduto, o rovinato.
Ma mancava un corno dorato al suo copricapo, ed   scheggiato, graffiato da piccole dita che il metallo avevano tentato di infossare per raggiungere l’ossatura nascosta.

Un coro di ruggiti si levò alto tra le fila di Giganti di Ghiaccio quando li riconobbero, quando li videro.
I loro opposti, i loro nemici naturali, i suoi  nemici naturali Astrid ricordò a se stessa con una punta di durezza, lasciando che lo sguardo vagasse fra loro con ferocia, inghiottendo ogni loro sospiro trattenuto,  indugiando sulle  somiglianze col suo popolo, somiglianze che  non  trovò.
Perché ciò che batteva nel cuore dei suoi soldati, ciò che induriva lo sguardo di Knut e oscurava il viso di Sunniva era orgoglio, fierezza, e  non ce n’era dall’altra parte, non ne trovò in nessuno di loro.
Solo follia, e odio,  quello che  trovò nello sguardo delirante del Re di quelle creature che l’aveva nominata con  impudenza, un’impudenza che andava punita con il sangue per l’orgoglio ferito di una Gigante di Ghiaccio.
Vederla muovere un braccio scatenò una concatenazione di eventi che Astrid osservò con indolenza, registrando il lieve irrigidimento dei soldati alle  spalle, il rantolio sommesso di Knut al suo fianco,  e il digrignare di denti dei Giganti di Fuoco, di tutti i Giganti di Fuoco.
Ma a lei non erano gli altri che  interessavano, non erano loro chi lei stava cercando, chi avrebbe voluto torturare fino a fargli chiedere pietà, a fargliela implorare.
Chi cercava, chi voleva  era la figura che nell’ombra di Surtr  si stava nascondendo, chi sapeva, attendeva trepidante la sua prima mossa.
E Astrid non gliela negò.
Non gli avrebbe negato nulla di quello che si sarebbe meritato di ricevere da lei.
Quando la videro accostare le dita alla propria corona, in un primo momento nessuno capì il perché di quel gesto, la pericolosità di quell’atto, ma quando si udì un fruscio, quando sentirono  qualcosa scivolare dai suoi capelli, quello che si udì dopo  fu solo un sibilo, lo schioppo secco di uno sferzare d’aria ghiacciata in grado ferire, di tagliare.
Una ferita di cui nessuno si accorse, perché non  un’arma  era stata usata, non un’arma era stata vista.
Eppure, qualcosa era stato colpito, qualcuno era stato tagliato, e fu  sotto lo sguardo attonito di chi ancora non riusciva a vedere, di chi ancora non riusciva a capire, che  il terreno cominciò a puntellarsi di rosso.
Un rosso corposo e denso che il Re di  Múspellheimr    sentì impiastricciargli le dita della mano che aveva portato con fastidio al collo quando si era sentito pizzicare, quando aveva avvertito qualcosa mordergli la gola, ciò che non aveva visto arrivare ma che, nel tremolio della pupilla che lo avvisò del dolore imminente, ritrovò ai piedi della donna.
Sangue, il suo sangue, quello che la frusta di ghiaccio abbandonata con indolenza  al suolo spillava ancora, frusciando nella neve per tornare ad essere parte di una corona che tornò bianca e immacolata ,come se sangue non avesse mai visto, come se  morte non avesse mai procurato.
La morte di quella creatura  impudente che in un ultimo e ansimante battito di ciglia non trovò più nulla da stringere quando la testa rotolò a terra, quando gli organi collassarono e la mano che ora stringeva il vuoto si accartocciasse assieme al corpo decapitato che ricadde con un tonfo, ammutolendo tutti eccetto lui.
Lui che rideva di quel corpo smembrato e la fissava con eccitamento da sopra quel lago di sangue, schiudendo le labbra sottili  in quello che sarebbe apparso  il ringhio più orribile, se qualcuno non l’avesse anticipato.
E qualcuno lo anticipò.
Knut, lo anticipò.
Poi giunsero un po’ assieme, il ringhio  rancoroso  di un non-morto che dal braccio era stato derubato e quello di un uomo, di un essere umano  che di avere provare paura, di strare immobile non riusciva più.
E ci furono mille altri  di quei ruggiti, urla di mostri che di morire non aveva paura, nessuno, aveva paura, perché prima o poi sarebbe giunta la loro fine, e ciò che potevano fare era decidere come morire, e farlo nel tentativo  difendere le proprie famiglie, perire per proteggere il loro futuro non faceva paura.
Non ne faceva più.
Fu come assistere  al cozzare isterico di onde su scogli che erano gli unici a rimanere fermi, gli unici a non venire trasportati via dalla corrente di gambe e braccia tese in avanti per sparare, strappare e cavare dal petto il cuore dei propri nemici.
Gli scogli che Astrid e Galactus rappresentavano, loro che non avevano fretta di uccidersi e accelerare una fine che non avrebbero potuto rappresentare per l’altro, solo una tortura, una lenta e dolorosa tortura eterna.
E lui preferì aspettare, assaporare con calma  l’emozione di quello sguardo che si induriva sempre di più nel calare su di lui.  Preferì aspettare di vederla avanzare con quel suo mento alto che non era riuscito mai a farle abbassare, a guardare lì dove avrebbe voluto che lei guardasse.
Avrebbe avuto anni, secoli per rivendicare il suo diritto su di lei, per insegnarle a dovergli tutto, d’ora in poi, ma c’era qualcosa che avrebbe potuto insegnarle ora, una regola che persino l’uomo aveva imparato nei suoi primi anni di vita.
Quel dente per dente con cui l’avrebbe ripagata  per  gli arti che gli aveva strappato, dei quali lo aveva privato.
L’urlo che le esplose nel petto la rese preda di sguardi apprensivi, spaventati, sguardi che Astrid conosceva, di cui poteva sentire vivo il dolore di ritrovare la sua piccola mano  stretta attorno al braccio che lasciava ciondolare di lato, mentre  la mano sana veniva  sporcata del sangue che Galactus aveva sputato quando lo aveva colpito in viso per allontanarlo da sé e riprendere fiato.
Ed anche se era forte, anche se era pura energia, quella che le scorreva nelle vene, fece male ricevere un pugno da lui, farsi spezzare le ossa da lui, perché  lui avrebbe potuto ferirla come lei avrebbe potuto ferire lui, con la stessa forza inumana che aveva usato per privarlo di entrambe le braccia.
Braccia che non sarebbero più ricresciute e che  Galctus  aveva dovuto sostituire con arti di metallo, mani che aveva sentito affondare dolorosamente nella sua spalla destra per lussargliela, per rompergliela.
Una rottura che le aveva tolto il respiro per il dolore che l’aveva accecata, resa insensibile ad ogni altra cosa  prima che l’istinto, il bisogno di ripagarlo  l’avesse portata  a contrattaccare, a riprendere il controllo, a pensare a come doversi preparare per il prossimo attacco.
Percepì un respiro pesante dietro di sè, ma non si diede pena del Gigante di Fuoco che aveva provato a riservarle lo stesso trattamento concesso al suo Re,  un mostro che  ora si ritrovava senza quel braccio che su di lei aveva alzato, il braccio che Sunniva gli aveva strappato  con i denti prima di calciarlo via e gettarsi nella mischia, come avevano concordato.
Perché lei non avrebbe dovuto pensare a difendersi da nessun altro se non da Galactus,  perché né gli dei né i suoi alleati avrebbero potuto anche solo pensare di poterlo distrarre senza ritrovarsi con il proprio cuore pulsante stretto nelle mani di quel mostro.
Un mostro che Astrid sentiva respirare attorno a sé, scivolare sinistro tra i corpi che cozzavano tra loro con forza, spillando sangue, saliva e lacrime dopo ogni ferita inferta, ferite che su di lei si sarebbero rimarginate, se non fosse stato lui a infliggergliele.
E la sua spalla non si sarebbe rigenerata, non così in fretta.
Sarebbero servite settimane a permettere al suo corpo di ristabilirsi, ma a lei serviva solo qualche altro colpo, solo qualche altro minuto per riuscire a completare parte del piano che con tanta foga aveva proibito ai Re di  far parola con alcuno.
Un piano che era stata Yssgradrill stessa a suggerirle, raccomandandole di essere precisa nei colpi, di indebolirlo il più possibile, di renderlo innocuo anche solo per una manciata di minuti, perché sarebbero bastati per quello che sarebbe andata a fare, per quello che i leader erano stati informati di compiere, una volta ricevuto il segnale.
Ma più tempo avrebbe impiegato a  finire il lavoro, più le possibilità di veder morire qualcuno dei suoi sarebbero aumentate, perché le armature avrebbero retto per poco se lei avesse continuato ad indebolirsi, e le barriere che ogni corazza gettava sugli umani a cui ogni Gigante era stato affidato avrebbero perduto elasticità e potenza difensiva.
Perciò doveva sbrigarsi a finirlo, a renderlo quanto meno incapace di alzarsi per un paio di minuti, così da darle il tempo di fare ciò che andava fatto. E  l’occasione si presentò quando, scrutando tra la polvere e i corpi ammassati riconobbe lo scintillio sinistro delle sue braccia di metallo.
Aspettare di rientrare nella sua traiettoria sarebbe stato sciocco e controproducente, ma farsi colpire era l’unico modo per essergli tanto vicina da infliggergli una ferita mortale che avrebbe faticato a rimarginarsi in fretta.
Quella era la sua unica possibilità di accelerare i tempi, di salvare vite, di non dover piangere sulle tombe dei propri cari.
Attese dunque di sentirlo vicino,  di percepire il suo respiro affannoso contro la guancia sporca di terra, e quando lo vide caricare la mano per sferrare l’attacco, quando intravide il bagliore dell’energia accumulata nel palmo strinse i denti con forza per prepararsi al dolore che sarebbe arrivato, un dolore al quale non si negò, sgranando gli occhi per non perdere l’occasione di colpirlo, di strappargli qualcosa.
Il crack’  della sua gabbia toracica la informò di cosa le mani di Galactus avevano  cercato di strapparle, cosa aveva tentato di togliere,   il polmone destro che quel mostro  riuscì  solo a lesionare, causandole  un’ emorragia interna per la quale sputò sangue, ma non poteva permettersi di sbagliare.
E  approfittò della vicinanza per affondargli le dita  nel petto, poco lontano da quel cuore che riuscì solo a graffiare  prima che entrambi venissero sbalzati via dal contraccolpo generato dai loro poteri.
Grattò la schiena per un paio di metri prima di ritrovarsi a fissare il cielo con gli occhi pieni di lacrime e un rivolo di sangue a bagnarle il mento mentre la mano sana correva a tamponare la ferita profonda che le incideva il fianco.
Non riusciva a respirare, ed ad ogni boccata d’aria sembrava di respirare sabbia per quanto pesante e faticoso le risultasse ora, ma l’elmo le aveva impedito di ferirsi al capo e rallentare la guarigione forzata dalla quale tentava di riprendersi il più possibile.
Sputò sangue, rovesciandosi di lato per non inghiottirne e ritrovare un po’ di stabilità nel terreno che fissò ansimante, sfiorando con le dita scorticate ciò che l’aveva protetta, l’elmo che aveva indossato con orgoglio per non far dimenticare al mondo chi fosse l’uomo che lei amava, per portar via con lei qualcosa che glielo avesse ricordato, qualcosa da poter stringere nelle notti buie.
 E il bisogno di cercarlo, di saperlo vivo  la portò a cercarlo con lo sguardo come si era promessa di non fare, ora che aveva altro a cui pensare, ma i suoi occhi non la ascoltarono, continuando a scandagliare la terra che ora cominciava ad essere tappezzata di corpi umani e mostruosi.
Sentì il bisogno di chiudere gli occhi quando le parve di riconoscere un militare schiacciato dal corpo di un Gigante di Ghiaccio, e la rabbia le fece prudere gli occhi prima che un lampo verde attirasse la sua attenzione.
Respirare cominciava ad essere difficile, e parlare non sarebbe stato possibile per molto tempo a causa della ferita al polmone, perciò non riuscì a bisbigliare il suo nome, ad esprimere il suo sollievo, quando lo trovò vivo.
Loki era vivo, e la ferita al fianco non faceva più così male, perché, se lui era vivo,  se lui riusciva a tener testa a tutti quei Giganti di Fuoco da solo, allora lei avrebbe potuto rimettersi in piedi e cercare Galactus per infliggergli un  colpo che quella volta gli avrebbe impedito di rialzarsi, di fare ancora del male.
- Sempre lui.
Il gelo di quella voce le azzannò la nuca quando,  anche sopra tutte quelle urla, anche con tutte quelle voci riuscì a riconoscerlo, a cogliere l’invidia, la rabbia di quella voce che seguì angosciata, ritrovandosi a fissare il viso deformato del mostro dei suoi incubi inginocchiato poco lontano.
Ed era un mostro ferito, quello che la fissava con rabbia e  una mano premuta al petto sanguinante,  ma aveva ancora la forza di muoversi, di fare del male, di scaricarle addosso l’odio per un rifiuto che non accettava, per una preferenza che non capiva.
Perché Galactus non capiva cosa ci fosse in quel dio ad attrarla tanto.
In cosa fosse migliore di lui.
Lui che era la fine di tutto, mentre lui, mentre quel dio riusciva ancora a respirare solo grazie alle  origini di Gigante di Ghiaccio che gli conferivano la forza di un mostro, più che di un dio.
Ed era perché era stato graziato da una forza sovrumana, che non  moriva. Era per quel sangue che lui ripudiava, che lui non aveva raggiunto i corpi dei suoi simili a terra.
E il fatto che ancora respirasse, il fatto che gli fosse stato concessa tanta fortuna,  che ancora riuscisse ad attirare lo sguardo di lei, di chi suo padre aveva creato per lui, di chi avrebbe dovuto sceglierlo senza pensarci due volte, glielo fece odiare ancora di più.
Avrebbe dovuto divorargli il cuore per vedere il suo corpo crollare e il suo sguardo divenire vitreo molto tempo prima, ma c’era stata sempre lei, a frapporsi tra loro, a proteggerlo da lui.
Ma ora lei era terra, esangue e incapace di aiutarlo,  e da solo quel dio, senza la sua protezione  non avrebbe potuto reggere un suo attacco, non lo avrebbe visto arrivare, e quando si fosse accorto di lui, del suo potere, sarebbe stato troppo tardi, e lei sarebbe stata sua.
Solo sua.
Quando la terra prese a tremare nessuno sembrò curarsene, non quando c’erano colpi da parare e compagni da salvare dal nuovo attacco, a cui pensare, ma quando si udì il grido della terra, quando finalmente lo sguardo di tutti si puntò in basso, fu troppo tardi.
Tardi per gridare un nome che Astrid si ritrovò imprigionato in gola, senza possibilità di avvisare, senza la possibilità di salvare.
Le urla che riempirono l’aria furono di disperazione, di paura, e quello che Maria Hills lanciò fu agghiacciante, simile al pianto di una bambina che sapeva di stare per cadere e di non poter fare nulla per evitarlo.
Qualcuno tentò di raggiungerla,  la mano tesa in avanti per toccarla, ma più la terra si spaccava, più la donna risultava irraggiungibile anche per chi nel non riuscire più a mantenere salda la presa sul braccio del compagno si trovò a cadere nel vuoto.
Ma lei non voleva cadere, non voleva morire, non ora che voleva sposarsi, e avere figli, e convincere il dottor Barner ad accompagnarla allo spettacolo teatrale che non aveva mai avuto il coraggio di proporgli per paura di essere respinta.
E  le sembrava così stupido essersi fatta sfuggire così tante cose, aver perso così tanto tempo a rimuginare, ora che tempo non ne aveva.
Ora che moriva.
Eppure, più il vuoto la chiamava con il suo grido sinistro, più le sue mani tentavano di affondare nella terra e tentare di riportarla su, per  permetterle di rivederlo ancora una volta, di dirgli ti amo, ancora una volta.
Perché non voleva morire senza dirglielo,  non voleva morire, non voleva cadere, ma  la mano era debole, lei era debole, e quando il suo grido di paura le esplose nel petto ci fu una mano, a tirarla su di peso, trascinandola verso un corpo ferito sul quale Maria abbandonò il capo con gli occhi ancora  sbarrati dalla paura.
- Sei al sicuro ora. Sei al sicuro – la rassicurò Bruce Barner con voce affaticata, il fisico debilitato incapace di far altro se non  strisciare verso il burrone e metterla al sicuro   mentre lo sguardo si perdeva nelle profondità  di quella voragine  con cui Galactus aveva voluto  raggiungere il suo obbiettivo sacrificato metà del suo esercito.
Ed il suo obiettivo era stato il nemico di molti, di tutti, ma non  suo, non dell’unica mano che in avanti si era lanciata nonostante le ferite e il sangue su cui era scivolata nel gettarsi verso di lui.
Perché era stata lei, ad impedirgli di cadere. Era di Astrid la mano sporca di sangue e lacrime saldamente  ancorata sul polso di Loki . Era  la Regina di  Jötunheimr  a puntare i piedi  terra per reggere entrambi, per salvare entrambi.
Quando l’elmo le scivolò giù dal capo e i capelli, ricadendo sul viso rigato di lacrime,  gli solleticarono le guance, Loki riuscì a riprendere coscienza del proprio corpo  prima di sentirla, e quando alzò il capo dal vuoto da cui sembrava essere sempre destinato ad essere inghiottito, quando si specchiò in quegli occhi sgranati sul suo viso con disperazione seppe che lei non lo avrebbe lasciato.
Perché chi gli stringeva il braccio, chi, senza curarsi del proprio dolore, del sangue che le colava giù dal viso e dal braccio smorto abbandonato lungo il fianco non era un padre che era sempre stato sordo alle sue richieste.
Non era un fratello sciocco ed egoista che di lui non aveva mai avuto rispetto.
Era lei.
E per quanto forte avesse gridato, per quanto disperatamente l’avesse pregata di lasciarlo cadere, di non caricarsi del suo peso, sapeva che lei non l’avrebbe lasciato,  che Astrid, sua moglie,  non lo avrebbe abbandonato.
- Lascialo.
Il gemito di dolore che inghiottì le causò uno spasmo doloroso del petto, ma era la schiena che bruciava, la pelle bruciata che gridava per l’energia che Galactus le aveva lanciato contro assieme al suo comando, al suo ordine.
- Ho detto di lasciarlo.
Un cenno di diniego compiuto con foga dal capo e una corona insanguinata fu tutto ciò che Astrid si concesse prima di stringere i denti e rafforzare la presa sulla mano del dio che continuava a scivolare e tirarla verso il vuoto.
Giù, sempre più giù.
- Lasciami.
 Loki si sentì morire per quel ‘no sillabato con forza da  labbra sporche di sangue che non potevano dare voce a tutta la disperazione che le accendeva lo sguardo, labbra che il dio  vedeva indurirsi quando  il terreno cedeva un pò mentre la voglia di gridare con una voce che non aveva che non lo avrebbe lasciato, che non importava quante ferite quel mostro le avrebbe procurato, lei non lo avrebbe lasciato cadere la convinceva a non cedere, a non lasciare quelle mano.
Non voleva.
Non poteva.
Non se lo poteva permettere.
- Lasciami – e quella volta Loki non si preoccupò di mascherare la nota incrinata della sua voce, perché voleva piangere, e non sapeva se per gratitudine o per  il dolore di vedere quel viso così ferito, e disperato, e rotto – lasciami, ti prego.
‘No gli sillabò ancora con labbra tremanti, riprendendo a tirare e a gridare al suo corpo di non cedere ora, di darle ancora un po’ di tempo, solo per tirarlo su, solo per salvarlo un’ultima volta, e poi, poi avrebbe potuto riposare, solo allora avrebbe potuto riposare.
E pregò, pregò  su madre, pregò Yssgradill di aiutarla, solo per quella  volta. La pregò di ascoltare le sue preghiere ed esaudire i suoi desideri,  così da permetterle di compiere il suo destino, di ristabilire l’equilibrio. E sorrise, grata,  quando un soffio di vento gelato le scompigliò i capelli, asciugandole le lacrime che si trovò ad inghiottire nel far forza sulle ginocchia sbucciate e cominciare a tirare, a tornare in piedi sotto la forza di quella spinta invisibile che persino Loki avvertì, ritrovandosi a irrigidire i muscoli per allungare una mano verso il terreno sul quale, una volta affondato le dita, fece forza per riportare entrambi a terra, ansanti e stretti in un abbraccio che sapeva di sangue e lacrime, ma un abbraccio che nessuno dei due riuscì a sciogliere.
Astrid lo strinse con disperazione a sè, con rabbia, e  solo quando seppe che quel contatto le sarebbe bastato  si decise a scostarsi da lui, lasciando che Loki le accarezzasse una guancia e cercasse nel suo viso la risposta che rimaneva sempre la stessa, la risposta ai suoi perché.
Chiudere gli occhi per memorizzare il calore di quelle dita fu necessario  per tracciare nel buio delle palpebre il suo viso, per ricordarsi che lei lo aveva avuto, che si erano amati,  che lei avrebbe continuato a farlo, che per quanto tempo fosse passato, lei non avrebbe dimenticato nulla.
Non l’amore, fragile e delicato, che lui le aveva concesso di avere.
Non una vita che neanche nei suoi sogni più arditi di bambina avrebbe avuto la possibilità di sperimentare.
Quando tornò in piedi lo fece con lentezza, così da lasciare il tempo a Loki di abituarsi al distacco, ma la mano del dio continuava a rimanere ancorata al fianco sul quale era scivolato mentre lei   guardava lontano, scavalcando i corpi ammassati di creature innocenti, scivolando in alto quando l’unica chiazza di colore in quel deserto bianco le colorò gli occhi di luci, di energia.
La lancia gli trapassò il petto quando Galactus si sentì spintonare brutalmente sull’arma affondata in una roccia, un’espressione di dolore a deformargli il volto mentre lei continuava a guardare quella farfalla colorata, graziosa e delicata, andatasi a posare dietro di lui, ad attendere, dietro di lui.
E giunse il momento, per ognuno dei Re, di fare quello che gli era stato richiesto, ciò che andava fatto.
Odino non risparmiò colpi quando il lembo di terra si colorò d’oro, una pozza dorata nella quale la sua lancia si conficcò, causando il suono di uno strappo che nessuno oltre lui, oltre loro riuscì ad udire.
Ne seguì un altro, appena più udibile mentre Zenas sfilava il braccio dall’aria rarefatta improvvisamente tintasi di rosa, come un corpo impalpabile che esplose in scintille colorate.
E fu al terzo colpo, fu con lo  sparo di  Nick Fury rivolto al cielo terso che Astrid decise di avanzare.
In silenzio, senza guardare l’espressione atterrita del dio che si vide scostare la mano  da quella vita che non voleva abbandonare ma che fu costretto a lasciare per permetterle di andare.
Dove, nessuno lo sapeva, ma lei sì.
Lei lo aveva sempre saputo.
Lo scintillio di una lacrima attirò lo sguardo di Loki, un baluginio che catturò con una mano, stringendo le dita su ciò che lo aveva attirato, che lo aveva distratto dalla sagoma che lenta si allontanava con passi stanchi e macchiati di sangue.
Ma ciò che i suoi occhi trovarono non fu una scia bagnata, non fu una lacrima, ma  un orecchino puntellato di rosso, un minuscolo anello di metallo scivolato dal viso che ora Astrid privò di ogni emozione mentre lo raggiungeva, mentre il richiamo di sua madre si faceva più forte, più deciso.
E fu con decisione che tese il braccio da affondare nel petto di Galcatus, immobile di fronte a lei, con quell’espressione di eterno godimento per un male che era felice di generare, di una morte che era orgoglioso di portare, ma era giunto il momento di sradicare l’errore degli dei, dei Creatori, un’ultima volta.
- Tu non puoi uccidermi – rantolò il divoratore di mondi quando la ebbe tanto vicina da essere petto contro petto, ma in quello del Tesseract non c’era nessuna  lancia, nessun braccio a spezzarle il respiro – noi non possiamo morire.
- Lo so – sussurrò lei, ampliando la ferita al petto che sussultò nell’avvertire il corpo estraneo affondare sempre più in fondo, sino a raggiungere ciò che gli era dietro, ciò che le dita di Astrid, per un istante, titubarono a stritolare, prima di farlo.
Prima di recidere l’ultimo legame fra il loro mondo e chi, fin dall’inizio della vita, lo  aveva tenuto unito.
- Ma neanche tu puoi sfuggire a questo.
Il tentativo di Galactus di risponderle, di chiederle cosa avesse fatto fu interrotto dal sibilo con il quale Astrid ritirò il braccio, mostrando tra le dita serrate l’ala colorata della farfalla che aveva ucciso, del legame che aveva reciso.
E quando la terra sotto i loro piedi riprese a tremare, quando vennero inghiottiti da un vuoto che fagocitò la figura urlante del mostro, una dimensione oscura  nella quale, con un gemito di sorpresa,  i superstiti si trovarono a levitare Loki capì quale segreto suo padre avesse celato.
Perché ciò che ora la Regina di  Jötunheimr  stringeva tra le dita tremanti non era più una piccola farfalla, ma un cuore, il cuore che l’emanazione di  Yssgradrill si era lasciata  strappare per spezzare la via tra i mondi e rinchiudere nel vuoto senza fine chi non poteva essere ucciso, chi di tornare, senza più quella via, sarebbe riuscito.
- Sei stata brava.
La prima lacrima le costò un respiro affannoso, perché il polmone lesionato non era riuscito ancora a cicatrizzarsi, ma Astrid non riusciva a frenarle, a non guardare tra le lacrime sua madre Semjace.
La madre a cui aveva dovuto strappare il cuore.  La madre che,  ancora una volta, si era sacrificata per lei, per l’amore di  sua figlia.
- Hai fatto la cosa giusta, sai che è così – sussurrò Yssgradrill con voce gentile, sorridendo morbida a quel viso che ora poteva abbandonarsi al dolore e mostrare quanto difficile fosse stato per lei compiere quel gesto, quanta sofferenza le avesse arrecato.
- No, non è vero – le rispose con voce rotta – non è vero, non è mai stata la cosa giusta da fare.
E c’era un tale strazio in quel lamento disperato, un tale disperato bisogno di essere toccata, di essere consolata da costringere molti, tra gli umani, a provare a raggiungerla, ma né Tony, accasciato al suolo con l’armatura oramai priva d’energia, né Bruce riuscirono a raggiungerla, ad asciugare quelle lacrime che facevano male a vederle.
Avevano sempre fatto male.
- Andava fatto – la riprese indulgente l’Albero della vita che ora, con il viso metallico di Semjace le mostrava un sorriso sereno – ricorda cosa ti abbiamo detto, giovane Regina. È meglio così.
- Non è vero – la contraddisse ancora con un filo di voce, stringendo le mani attorno a quel cuore che sentiva morire lentamente tra le sue dita, un poco alla volta – non è meglio così. Perdere mia madre non è meglio, non  per me. Io ho ancora bisogno di lei.
La stretta in cui l’Albero della Vita la richiuse era saldo e sicuro come i rami che dall’universo si stavano ritraendo lentamente, rendendo il profilo sfocato di Semjace un po’ più solido da stringere, da abbracciare, e la Creatrice pianse quando finalmente dopo tanto tempo potè di nuovo toccarla, ora che poteva consolarla come aveva desiderato fare.
Astrid soffocò un singhiozzo contro la spalla della creatura quando la sentì sussurrare con voce tremante contro i suoi capelli parole che conosceva, che l’Albero e gli spiriti le avevano ripetuto fosse giusto.
Perché una via per l’universo non sarebbe più servita ora che lei aveva riunito i loro cuori, ora che era lei a rappresentare un’unione che non era più fisica, ma spirituale, e non c’era motivo di piangere, di abbandonarsi alla tristezza, ma era sua madre quella che la Regina stava stringendo, una madre che non voleva lasciare, che non voleva perdere ancora.
Ma era il prezzo da pagare, il sacrificio da compiere per liberarli da Galactus, per riportare la pace e ristabilire l’equilibrio.
Eppure Astrid si sentiva spezzata, perché non c’era armonia, in lei, non c’era stabilità, né la pace che avrebbe dovuto sentire sapendo di aver salvata ancora una volta la Terra, l’intero universo.
Era caduta in pezzi ancora una volta, e l’unica che avrebbe potuto toccarla, l’unica persona che avrebbe potuta raccogliere le sue lacrime stava svanendo dalle braccia che irrigidì attorno al suo busto, tentando di tenerla lì con lei, di non lasciarla andare via, non ancora.
La pregò di non lasciarla sola, perchè non avrebbe potuto sopportare tutto quello, non di nuovo, non ce l’avrebbe fatta, e non bastò il sussurro di sua madre, la sua promessa di rimanerle comunque accanto a tenerla in piedi. E quando cadde in ginocchio, quando le caviglie cedettero e il corpo tra le sue braccia si disperse in pulviscoli di luce non ci fu più nulla da fare se non abbandonarsi ad un pianto muto e smettere di pensare.
Vedere quelle piccole spalle sussultare, assistere impotente alla disperazione di sua figlia convinse Tony Stark a privarsi dell’armatura oramai inutilizzabile per provare a raggiungerla zoppicando, ignaro dello sguardo dolente che Nick Fury si costrinse a distogliere da quella scena per non vedere, per non dover rispondere alle domande che lo scienziato gli avrebbe rivolto, una volta capito che il prezzo di quella libertà ritrovata, lo avevano pagato anche loro.
Il respiro era pesante e spezzato, affaticato da quella ferita al fianco che Iron Man non considerò, non quando mise a confronto le sue ferite con quelle di sua figlia, quando si rese conto che chiunque altro non avrebbe retto a quelle di Astrid, nessuno, neanche un dio avrebbe potuto impedirsi di  morire dal dolore.
E si sentì umiliato, da tutto quello.
Si sentì stupido, e piccolo, e inutile con lei davanti, lei che era stata di nuovo piegata, e ringraziò che Pepper non fosse lì a guardare, perché ne sarebbe morta come lui, piano piano, si sentiva morire dopo ogni passo.
- Astrid, tesoro – provò a chiamarla, tossendo per sopprimere la nota spezzata  che gli fece tremare la voce – tesoro sono qui, siamo qui – e Bruce Barner lo ringraziò per quel plurale, lui che non aveva la forza di muoversi, né di parlare, ma solo di guardare sua figlia, la sua piccola e spezzata piccola Astrid piangere da sola, in silenzio, in un vuoto che sotto di lei pareva essere più angosciante che in altri punti.
- Astrid?
Non giunse  risposta ai suoi richiami, come se lei non lo sentisse, o non lo volesse ascoltare, possibilità che gli fecero venire la nausea mentre quella sensazione di impotenza tornava a stringergli la gola.
- Astrid, tesoro, guardami – nulla, non un cenno, non un suono in risposta, solo spalle tremanti e uno sguardo che ancora non si decideva a guardarlo – tesoro, ti prego, ti scongiuro, guardami. Sono qui, sono qui per te.
Ancora il vuoto, ancora la nausea e un bisogno di piangere, e gridare.
- Ti prego tesoro, cerca di capirmi,  io ho bisogno che tu mi guardi – disperato, Tony Stark sapeva di sembrarlo, di esserlo, e non gli importava di sembrare così fragile, e stanco, e vecchio, non gli importava nulla se non poteva fare il padre, se non poteva esserlo con lei.
- Per favore, non-
- Non può sentirti.
Lo sguardo che Nick Fury sentì sulla schiena lo fece irrigidire, ma si costrinse ad incrociare le pupille dilatate dell’avengers, perché glielo doveva.
- Come hai detto?
- Non può sentirti, non ora che Yssgradrill è morta.
Se avesse avuto il tempo di piangere, lo scienziato lo  avrebbe fatto, e sarebbe stato un pianto rumoroso quello che gli avrebbe gonfiato il petto, ma non aveva tempo per quello, non quando voleva delle risposte.
- Cosa significa che non può sentirmi – sibilò, incattivito dal dolore che cominciava a risalire per la gola – cosa-
- L’ho sempre ritenuta un uomo intelligente signor Stark – e non c’era nessun ironia nella sua voce, nessun sarcasmo, solo rammarico, e dispiacere per un dolore che sapeva di stargli dando –  sono sicuro che lei abbia capito esattamente  cosa significa.
Ed era vero, Tony lo sapeva, sapeva di saperlo, ma non lo voleva accettare, non poteva accettarlo.
Perché credere ai suoi pensieri, dare voce alle sue paure avrebbe reso tutto più reale, avrebbe reso quella perdita, ancora più reale, e lui, lui non poteva sopportare di perderla ancora.
Perciò decise di sfidare la sua intelligenza, di mettere alla prova quella maledetta intuitività che lo aveva portato lontano, che lo aveva reso un eroe, e quando si schiantò contro il nulla, quando, nel tentativo di accorciare le distanze e toccarla per mostrare di aver torto, per una volta, di aver sbagliato, si rivide respinto, non ci fu possibilità di errore.
Perchè Tony Stark non sbaglia mai.
E quando quel vanto lo lasciò senza forze,  le braccia abbandonate sui fianchi e gli occhi lucidi, quando udì il respiro strozzato di Bruce Barner alle spalle, si odiò.
Perché avrebbe voluto essere stupido, non così perspicace, non così dannatamente  arguto, ma non poteva farci niente, lui, non poteva fare più niente.
Il pianto di quell’umano era difficile da guardare, ed anche se non poteva sentirlo, anche se poteva solo vedere quelle spalle muscolose abbassarsi e quel petto teso gonfiarsi dal pianto, Odino volle concedergli la sua comprensione, lui che sapeva cosa significava perdere un figlio.
Quello stesso figlio che, alle sue spalle, continuava a rimanere seduto, in silenzio, lo sguardo freddo e smorto fisso sul minuscolo orecchino che Loki non aveva smesso di guardare per un istante, come se non si fosse accorto di quanto avvenuto, come se non fosse lì con loro, in quel momento.
- Cosa è successo?
La voce di Thor era stanca, persino il suo viso sempre così duro e irreprensibile era segnato dalla fatica che aveva lasciato spossati tutti loro.
- Cosa è successo?  - ripetè il Padre degli Dei, come a distogliere l’attenzione  da quelle figure piegate dal pianto, da quei genitori che avevano appena perduto una figlia – è successo che quella donna ci ha salvato, tutti quanti – e il dio dei fulmini si risentì per la  nota di rimprovero con il quale sottolineò quel ‘tutti.
- Era questo che vi ha mostrato quella volta? – gli chiese in un sussurro Lady Sif, il viso insanguinato e il braccio allacciato con fare materno attorno alle spalle di un Fandral svenuto – che Yssgradrill sarebbe dovuta morire?
- È  stato l’Albero della vita a spiegarci cosa fare, dove colpire per recidere i rami che univano il nostro  mondo a lei – spiegò Odino, chinandosi a raccogliere la lancia che sfilò dal manto nero che li aveva inghiottiti nel vuoto – la terra per il mondo  degli dei, il cielo per la terra degli uomini, e l’aria per il mondo dei non-morti, Yssgradrill ha fatto in modo di rendersi solida solo per un istante, così da darci il tempo di colpirla.
- Perciò quell’umano ha sparato al cielo per  colpire l’emanazione?
- Si.
- E il Tesseract? – chiese Thor, un  velo di rammarico a incupirgli la voce – cosa ha dovuto distruggere lei per rompere il legame con l’albero?
- La farfalla – soffiò la guerriera sovrappensiero, attirando lo sguardo interrogativo del dio dei fulmini.
- La vita – la corresse il Padre degli dei, l’occhio catturato dal movimento silenzioso con cui alcuni Giganti di Ghiaccio cominciavano a ricongiunsi alla loro Regina – lei che aveva il potere di estirpare le radici, ha dovuto distruggere la vita che Yssgradrill rappresentava, così da rompere il legame tra i mondi e permettere a Galactus di venire esiliato nel vuoto.
- E adesso? Cosa ne sarà di noi? Cosa- ma il rantolio sommesso con cui Volstagg da terra diede voce alle proprie  paure venne interrotto da un susseguirsi di strappi che lanciò su quel mondo di ombre lampi di luce, chiazze di colore che tutti ritrovarono alle proprie spalle, riconoscendo nei paesaggi sfumati dal chiarore del giorno la propria città.
Il Padre degli dei invitò tutti  a  raggiungere il portale, lasciando a Thor il compito di guidarli verso l’uscita, perché Odino aveva ancora un figlio da ascoltare, e quando strinse la spalla di Loki tra le dita si concesse un sorriso morbido illuminato dal  bagliore dorato di Asgard.
- È ora di tornare a casa.
*- Loki amico.  
Aveva una voce graziosa, quella piccola e strana creatura, ed anche se era acuta non gli arrecava fastidio, neanche il modo in cui storpiava il suo nome con la sua voce di bambina, neanche le parole che ripeteva alzando le dita per contarle lo infastidiva.
Lei lo incuriosiva.
- Dobbiamo sbrigarci – gridò James Rhodes quando i primi soccorsi giunsero attraverso il portale, riversandosi nello spiazzo buio per prestare le prime medicazioni ai superstiti e preparare nuove barelle sulle quale condurli fuori.
Ma Bruce Barner non si lasciò sollevare,  non si lasciò toccare, perché non poteva andarsene, non poteva lasciarla sola, non poteva abbandonarla, e quando le mani di Maria gli afferrarono il volto che teneva ostinatamente rivolto ad Astrid, quando la donna lo costrinse a nascondere il viso contro la sua spalla smise di agitarsi.
- Dobbiamo andare – la udì sussurrare contro il suo orecchio,  la voce rotta dalle lacrime che si raccolsero sul suo mento, bagnandogli il colletto della camicia, ma quando Maria si scostò, quando lo costrinse a guardarla in viso si accorse che non erano sue, le lacrime.
Non era lei, a piangere.
Era lui.
- Dobbiamo andare.
- Loki non è cattivo.
Sentiva tutti quegli sguardi su di sé, tutto quell’orrore, su di sé, ma lei continuava a rimanere ritta e a stringergli la mano, a condividere con lui quell’odio che con lei vicino non faceva male.
Il suo amore, non faceva male.
- Tiratelo su – li aggredì Thor quando i due soldati sopraggiunti in aiuto tentarono di sollevare il dio, ma entrambi furono costretti ad indietreggiare frettolosamente quando uno sprazzo di magia tentò di bruciare le mani che avevano tentato di toccarlo.
- Thor!
 - Mi dispiace.
Respirare era difficile,.
Inghiottire le lacrime, era difficile, ma quando udì quel sussurro accorato, quando la vide sorridergli incerta prima di bruciare e volare via da lui, andare lontano, da lui,  continuare a vivere, era divenuto  difficile.
- Spostatevi.
- Cosa dobbiamo fare? Non si lascia toccare – ragionò ad alta voce Lady Sif, osservando con tristezza il soldato carbonizzato accostato al corpo rannicchiato del dio, immobile nella stessa posizione in cui lo avevano lasciato.
- Padre?
- È per me? – sussurrò commossa, guardando con occhi lucidi l’orecchino che gli sfilò dalla mano per indossarlo con mani impacciate, sorridendo tra le lacrime che Astrid tratteneva per non risultare troppo sciocca.
Ma non lo era, non lo era mai stata.
Era solo bella, e dolce, e sua.
Lo era sempre stata.
-  Dobbiamo andare.
- Loki?
- Mi senti fratello? Dobbiamo tornare a casa.
- Loki?
- Non credo riesca a sentirmi, Padre.
- Fa provare me – consigliò Frigga, accorsa al capezzale dei figli non appena l’avevano avvisata dell’apertura del portale nel quale avrebbe potuto trovare il Padre degli dei.
- Loki!
- Loki?
Il sorriso nervoso di Frigga si velò  di sollievo quando riuscì a strappare una reazione dal figlio poco prima immobile, riuscì persino a toccarlo senza essere bruciata, e ne approfittò per accarezzargli la spalla e ammorbidire lo sguardo.
- Loki, sono tua madre. È ora di tornare a casa.
- Dov’è Astrid?
La voce gli uscì rauca, aspra come se non parlasse da anni, come se  avesse appena ingerito acido, ma era solo bile quella che gli appesantiva la lingua mentre i muscoli indolenziti delle gambe seguivano con stanchezza il suo tentativo di tornare in piedi dopo aver passato così tanto tempo nella stessa posizione.
Sentì il calore di una mano alla base della  schiena, ma la allontanò bruscamente, perché a lui non gli piaceva essere toccato, in particolar modo da quel dannato dio dei tuoni.
Thor registrò la reazione violenta del fratello come il frutto della confusione che doveva provare, ma non fu confusione ciò che trovò nello sguardo di Loki quando, non ricevendo risposta alcuna, il dio alzò su di loro uno sguardo che in passato aveva fatto perdere al Padre degli dei un figlio.
Lo sguardo tradito e rancoroso di un uomo che non aveva dimenticato.
- Dov’è Astrid?
- Io non capisco a  chi tu-
- Dov’è mia moglie ? – e l’ultima parola  la gridò, la urlò affinché tutti potessero udire e sapere che lui ricordava.
Ricordava la bambina che nel suo petto si era rannicchiata in cerca di calore, quando nessuno lo aveva voluto vicino.
Ricordava la ragazza che dal mondo umano non aveva fatto altro che farsi accettare, scegliendo di essere come lui, alla fine di tutto.
Ricordava la donna che non aveva mai smesso di amarlo, e di conoscerlo, di farlo innamorare ancora  una volta di lei.
La donna che lo aveva cercato, e seguito, e aspettato. La donna  che aveva riportato in vita un’intera razza solo per ridargli la forza di riaprire gli occhi su un mondo sconosciuto che gli aveva fatto paura, un mondo in cui un posto lui continuava a non avere, ma un posto che lei, con pazienza e gentilezza, gli aveva spiegato di aver sempre avuto, per lei.
- Loki? Cosa-
- Dov’è lei? – sibilò ancora, incattivito dalla mancata risposta che tardava ad arrivare.
- Cerca di calmarti – lo ammonì Thor, l’aria ferita di chi non si aspettava tutto quell’odio – né io, né nostra madre possiamo far più nulla per lei – lamentò irritato – oramai non c’è più nulla che tu o io possa fare per-
Il verso strozzato portò i soldati di Asgard a rivolgere uno sguardo sorpreso all’erede al trono, e quando riconobbero la mano dell’uomo  che teneva il dio dei fulmini per la gola, quando il Padre degli dei capì che non ci sarebbe più stato spazio per il perdono, nel cuore di suo figlio, si lasciò sfuggire uno sguardo stanco prima di stringergli una spalla ed invitarlo ad allentare la presa.
- Lascialo Loki.
- E perché dovrei? – lo sentì rantolare, riempiendo la voce e lo sguardo di un odio, di un rancore che Odino si era augurato di non dover più ritrovare, perché il Loki confuso e stanco era stato ucciso da quel mostro che li aveva sterminati senza batter ciglio, lo stesso mostro mosso solo dal bisogno di distruggere  e punire chi lo aveva ferito in passato, chi si era meritato il suo cuore nero.
- Perché tuo fratello ha ragione – e il dolore che lesse in quegli occhi che da bambino lo avevano fissato con un bisogno di attenzione che lui non aveva mai capito lo ferì più delle parole con le quali la Regina lo aveva messo di fronte ai suoi errori, ai suoi sbagli.
Perché lui aveva sbagliato, con Loki. Non aveva ascoltato abbastanza, capito, abbastanza, e ciò che vedeva, il dio che tutti erano tornati ad odiare e temere era colpa sua, sua e di quell’amore  di padre che gli aveva fatto mancare, che lei, era riuscito a risanare.
Si assunse perciò la responsabilità di quel dolore che pareva spaccarlo a metà, distogliendo lo sguardo da quello ferito di suo figlio per guardare la piccola figura che un Gigante di Ghiaccio stava conducendo in braccio verso Jotunheim.
- È troppo tardi.
No.
Loki avrebbe voluto urlarlo, ma non aveva avuto neanche la forza di dar voce alla sua disperazione, al terrore che lo assalì quando la guardò, quando il suo cuore, nel riconoscerla, nel vederla davvero, lanciò un grido sommesso.
- Loki-
- No – lo zittì mordace, gettando di lato il fratello per allungare il passo e seguire quella  figura che nel braccio muscoloso della creatura sembrava svanire per quanto piccola era – no – ripetè ancora, e quando, nel tentativo di aprirsi una via tra i soldati che trasalirono nel vedere la sua espressione, compì un passo di troppo, si sentì spingere via da una forza, da un muro che non riusciva a vedere ma che, fisicamente, gli impediva di avanzare.
Di raggiungerla.
- Non puoi tornare da lei Loki – echeggiò sinistra la voce di Odino – ora che Yssgradrill è morta nessuno può abbandonare il proprio mondo. Tu, in quanto dio, non puoi lasciare questo posto.
- Astrid!
- Loki, ti prego – lo supplicò sua madre, ma il dio non la sentiva, non con quel fischio nelle orecchie a renderlo sordo a tutto tranne a quel nome che urlò ancora, e ancora, fino a sentire i polmoni bruciare. E quando udì le voci alle sue spalle, quando si sentì chiamare, gridò loro di fare silenzio, perché con tutto quel rumore lei non l’avrebbe ascoltato, non si sarebbe voltata.
Ma lei continuava ad essere così lontana, e piccola, tanto minuscola da costringerlo a stringere le palpebre per metterla a fuoco, e faceva male, tutto quello.
Vederla andare via, sapere cosa fosse l’orecchino che fino a poco prima aveva fissato con diffidenza, quello che lei aveva promesso di ridargli una volta ricordato il suo valore,  faceva male.
E lui l’aveva ricordato, aveva ricordato ogni cosa, ma lei non era lì a sorridergli commossa, a dirgli che sarebbe andato tutto bene, che sarebbero potuti tornare finalmente a Jotunheim.
A casa loro.
Quando lo videro tornare indietro vi fu un lampo di sollievo a ripulire il viso di Thor dall’ombra cupa con la quale si era arreso a fissarlo, un’ombra che tornò, crudele, ad oscurargli lo sguardo quando assistettero inorriditi alla scena.
Perché Loki non era tornato indietro per ricongiungersi a loro, ma per prendere la rincorsa e scontrarsi duramente con la barriera nel tentativo di infrangerla e fuggire da lì, da loro, da una famiglia che non riconosceva più, che non voleva più, che non era mai stata vera.
Mentre lei, lei era la sua famiglia,  e il suo cuore, il suo mondo, la sua casa.
Lei era tutto.
- Loki!
Il primo scricchiolio causò sgomento, e incredulità sul viso di chi non riusciva a credere a quanto potere quel corpo sottile celasse, ma più la barriera tremava e sfrigolava dopo ogni urto, più il Padre degli Dei riconosceva il cambiamento, sul volto del figlio.
E fece finta di non udire le preghiere della moglie, le sue suppliche, perché era giusto lasciarlo andare ora che Loki aveva accettato il proprio passato, ora che finalmente, aveva accettato se stesso.
Lui che un dio non era mai stato destinato ad essere, a diventare, perché Loki era sempre stato qualcos’altro.
Qualcosa che nessuno, neanche lui, in tutta onestà,  aveva potuto capire e accettare fino in fondo, ma lei, quella piccola creatura era riuscita in quello che Odino, come padre, non era mai riuscito a fare.
Renderlo felice.
Ma ci provò, per una volta, a farlo, a spianargli la strada dagli ostacoli che loro, lui  stesso aveva rappresentato.
E zittì chi, nel vederlo trasformarsi in ciò che era sempre stato, in ciò che aveva sempre temuto di diventare, si era lasciato sfuggire un urlo di orrore, ma voleva che il loro ultimo saluto fosse diverso, per una volta.
Perciò rise per nascondere il pianto nella  voce, per concedergli una fuga da un mondo dal quale non era stato mai accettato per  lasciarlo tornare da quel pianeta che mai davvero lo aveva abbandonato.
Il respiro era stanco, lei, era stanca, ma la pelle gelida di Knut le diede sollievo dalla febbre che doveva essersi insidiata nel suo fisico provato quando l’infezione raggiunse l’organo lesionato, costringendola a chiudere gli occhi per riposare la mente.
Ma ci avrebbe pensato Sunniva a fasciarle il petto una volta tornata a casa, e lì, sul suo letto, nella sua stanza,  avrebbe potuto passare qualche mese a riprendersi da quelle ferite che sarebbero guarite, ma per le altre, per quelle del cuore, non sarebbero bastati anni.
Perché quelle non si sarebbero mai rimarginate, e né lei, né i Giganti avrebbero potuto riempire quel vuoto. Avrebbe solo dovuto imparare a conviverci, e per quello avrebbe avuto tutto il tempo, avrebbe avuto l’eternità.
- Knut?
Lo aveva chiamato con un filo di voce, ma era chiara in lei la sorpresa di aver sentito i suoi muscoli contrarsi attorno a sè, inspessirsi come se avesse captato qualcosa di orribile, qualcosa di pericoloso.
E l’orrore di sapere che Galactus fosse riuscito a fuggire in qualche modo dalla sua prigione, la paura di sapere di aver fallito, di aver reso vano il sacrificio di sua madre la portò a sgranare le palpebre e sporgersi sulla spalla del Gigante per vedere cosa lo avesse fatto irrigidire a quel modo.
Knut tentò di fermarla, persino Sunniva, notato i suoi movimenti febbrili si avvicinò per calmarla e farla tornare distesa, ma Astrid si ribellò alle loro mani, tossendo con forza quando riuscì a poggiare il mento sulla spalla del Gigante, abbandonandosi su questa con gli occhi che bruciavano per il sonno.
Ma quando lo vide, quando le sue pupille riconobbero la sagoma indistinta di una figura in avvicinamento temette per la sua vita, per quella del suo popolo che ancora non aveva attraversato il portale, che ancora in salvo non era.
Ed avrebbe urlato, se solo avesse avuto la voce per farlo, ma anche se l’avesse trovata, anche se ci fosse riuscita, non sarebbe stato un grido di paura ad abbandonare le sue labbra, ma un nome.
Solo un semplice nome.
- Min Dime! – la chiamò apprensiva la Gigante quando la videro scivolare frettolosamente dalle braccia di Knut e zoppicare verso il sentiero che dopo ogni suo passo sbiadiva, cancellando il ricordo di quanto avvenuto, il passo di chi lì non sarebbe potuto giungere.
Eppure, qualcuno a ripercorrere la via ci fu, e fu verso quel qualcuno che Astrid si mise a correre, la mano premuta al fianco e gli occhi pieni di quelle lacrime che non credeva di avere più, ma lui, lui sarebbe sempre riuscito a fargliele trovare.
Perchè quelle che le rigavano il viso illuminato dal suo sorriso incredulo e spezzato erano lacrime di gioia, una gioia che sentì esploderle nel petto quando dall’ombra che li aveva inghiotti uscì la figura vista da lontano, una sagoma di fronte alla quale ogni Gigante di Ghiaccio si fermò, riconoscendo la somiglianza nella creatura che ora stringeva la loro regina come se ne andasse della sua vita.
Ma lei era, la sua vita, e quando Loki capì di esserci riuscito, di averla trovata, di averla raggiunta, lasciò il suo corpo a tremare per  riprendere la sua forma umana e  abbracciarla come aveva sempre desiderato  fare fin dal primo momento.
Quando la sollevò tra le braccia, quando affondò il viso tra i suoi capelli, quando sentì le mani di Astrid stringersi alla sua nuca e le sue lacrime bagnargli il collo seppe di essere tornato a casa, finalmente.
 E mentre  Jotunheim  svaniva in silenzio, mentre l’equilibrio della vita si risanava e il cuore di suo figlio trovava  il suo posto nel mondo, il Padre degli dei sorrideva, orgoglioso  di aver mantenuto la  promessa che lei era riuscita a strappargli.
Lasciare a Loki la scelta di decidere da chi lasciarsi amare.

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Capitolo 12
*** 12-Extra-Gotta Be Somebody ***


Cause nobody wants to be the last one there.
Cause everyone wants to feel like someone cares.
Someone to love with my life in their hands”

Il pranzo domenicale era uno di quei riti familiari ai quali Tony Stark, da vecchio lupo solitario qual’era,  non aveva mai amato presenziare, a maggior ragione se il numero di bambini in preda ad un overdose di zuccheri  superava di gran lunga quello degli adulti.
Non che essere diventato  nonno non gli avesse strappato più di un  sorriso bonario e qualche bizzarro pupazzo gigante nascosto dietro un altrettanto gigante albero di natale, nel corso degli anni , ma sottostare alle leggi di una nidiata di bambini urlanti che pretendevano la sua attenzione imbrattandogli il viso con i propri omogeneizzati non era l’agognata pace che si era augurato di avere dopo aver salvato il mondo così tante volte.
Eppure, vi era sempre una via di fuga, quella che iil lavoro aveva sempre rappresentato per lui e per la sua sanità mentale e fisica.
Costruire aveva sempre alleggerito pensieri che a tarda notte, quando la casa era silenziosa e le luci erano spente, divenivano tanto gravosi da costringerlo a fissare il vuoto per ore e ore nella speranza di svuotarsi da quella sensazione di incompletezza.
Un’imperfezione dovuta ad un sorriso mancato tra le foto di famiglia, ad una sedia vuota durante le cene di natale, ad un letto freddo e perfettamente ordinato al quale alle volte si ritrovava a cambiare le lenzuola per dargli un'aria vissuta, una ferita al cuore e nell’anima  causata dall’assenza di un componente che era andato perduto anni fa, quando il mondo aveva vinto, ma  sacrificando qualcosa di suo, ancora una volta.
Ed erano stata dura confessare a Pepper di averla perduta ancora, di non essere riuscito a proteggerla, di aver fallito come uomo e come padre, ed era stato difficile non piangere sulla lapide di Estela, spirata dopo la tragica notizia che l’aveva  resa incapace di accettare quella privazione, quella perdita.

"Cause nobody wants to go it on their own
And everyone wants to know they're not alone"


Eppure la vita era andata avanti, loro, avevano provato ad andare avanti, ma crescere non voleva dire dimenticare, e Tony Stark, sulla soglia dei suoi ottant’anni non aveva dimenticato nulla.
Non quel viso sorridente che si era ripromesso di continuare a cercare.
Non quegli occhi che aveva giurato di incrociare ancora una volta, anche se ci  fossero voluti anni per trovare il modo di colmare il divario dei due mondi, e di conseguenza il vuoto nel suo cuore.
Ed eccolo lì, ciò che la sua mente aveva partorito.
Aveva impiegato mesi per trovare i pezzi giusti, anni per avere le coordinate adatte, minuti per  stabilizzare il sistema di controllo e renderlo attivo, ma aveva avuto pazienza, se l’era imposta quando il pensiero di rivederla, di poter regalare a sua moglie uno di quei sorrisi che con la perdita di Astrid si erano affievoliti e fatti più meccanici, lo aveva spronato a continuare, a non perdersi d’animo.
Perchè Tony Stark non era mai stato un uomo che si arrende facilmente, e con sua figlia, specialmente con sua figlia, per quanto tempo fosse potuto passare, per quanto a lungo avesse dovuto lavorare per riaverla con sè,  non si sarebbe mai arreso.
Mai con lei.

"Is there somebody else that feels the same somewhere? "

Quando gli ingranaggi cominciarono a grattare tra loro e il monitor si azionò con un sospetto ma necessario ronzio Iron Man si allontanò dal motore del suo proiettore stellare con la fronte madida di sudore e un sorriso speranzoso a spiegazzarli il viso e la gola.
Vi fu   un ambiguo rumore di sottofondo a seguire l’accensione del motore, uno scricchiolio che lo fece irrigidire per l’ansia di aver sbagliato qualcosa, di dover ricominciare tutto da capo, di dover tornare a cercare, un suono che però non sembrava provenire dal monitor improvvisamente occupato dal profilo sfocato di un pianeta azzurro, ma da dietro la scrivania verso la quale lo scienziato torse il collo con aria inquieta.
E fu nel ritrovare gli occhietti vispi di due minuscole e colorate bambine sorridenti.
Fu nel sentirle gridare un ‘è pronto al quale seguirono numerosi  tip tap di passi che Tony Stark capì che la sua segretissima operazione “Trova Astrid” non era mai stata veramente segreta, glielo avevano solo lasciato credere.
Loro che lo  avevano sempre definito come un  perfido e cinico manipolatore, e forse lo era stato davvero, un tempo,  prima dell'arrivo di sua moglie probabilmente.


"Tonight out on the street out in the moonlight
And damn it this feels too right"


- Finalmente! –  lamentò un indaffarato Marcus Stark, attento a non rovesciare i popcorn quando le figlie di undicianni lo raggiunsero gongolanti, invitando la nonna e uno stuolo di persone che Tony non ricordava di aver invitato al suo pranzo domenicale di prendere posto sul pavimento del suo laboratorio, ora più simile al ritrovo per anime sole che al covo di un supereroe tecnologico.
Ma cacciarli via sarebbe stato impossibile, credere di poter spostare lui  da lì senza trovarsi con una tonnellata di arrabbiati muscoli verdi abbandonati  pigramente  sul suo stomaco, sarebbe stato impensabile.
Bruce Barner si accomodò in prima fila, gli occhi sgranati  e un po’ lucidi intenti a divorare ogni fotogramma, ed anche se quello  era il suo posto, quando  Pepper gli si  sedette di fianco con il viso delicato un poco irrigidito dalla tensione lo scienziato si arrese ad afferrare una manciata di popcorn e raggiungere il pannello di controllo con un brontolio sommesso.

"So I'll be holding my breath
Could this be the end?"

Pigiò un paio di pulsanti, cadenzando con il ‘click della tastiera il respiro che tutti nella sala si ritrovarono a trattenere mano a mano che il proiettore zoomava il pianeta, rendendo visibile  solo il profilo di un enorme prato fiorito sul quale  qualcosa di piccolo e colorato sembrava essersi abbandonato, una figura sulla quale Tony si affrettò a mettere a fuoco la lente, mordendosi le labbra nel riconoscere il verde acceso di un mantello che diede a molti la possibilità di sperare per il meglio.
Perché se lui era lì, se Loki, che ora tutti fissavano con angoscia, era lì, allora ci sarebbe stata anche lei, con lui.
Lei era sempre con lui.
- Ruota l’immagine – bisbigliò  Bruce con il cuore stretto in gola mentre sulla sua spalla la presa di Maria si faceva quasi dolorosa, ma ora c’era uno stralcio di vestito a fare più male.
C’era il profilo sfocato di una figura che il dio degli inganni, abbandonato su un prato di fiori di ghiaccio, stringeva tra le braccia a bordare gli occhi di lacrime.

"Cause nobody wants to be the last one there
Cause everyone wants to feel like someone cares.
Someone to love with my life in their hands. "



- Vuoi cercare di mettere a fuoco quella dannata lente! – esplose Marcus quando l’immagine si fece improvvisamente distorta, come se qualcuno si divertisse a strizzare i loro cuori assieme al fotogramma che mostrava solo sagome indistinte, nulla che potesse davvero calmare l’agitare frenetico delle loro pupille.
Il verso isterico del padre lo avvisò  però di non tentare la fortuna, perché era lui ad essere il più isterico tra loro.
In fondo era stato lui a costruire quel dannato aggeggio, erano state le sue lacrime quelle che avevano agito da lubrificante a quei dannati ingranaggi, era stato il suo orgoglio di padre a cercare nell’universo ciò che doveva essere trovato, e avrebbero dovuto ringraziarlo, non gridargli contro con le loro stupide bocche piene di pop corn mentre lui si affannava a manovrare il controller mantenendo la presa salda nonostante la commozione.
E sarebbe dovuto essere lui quello a sbraitare, non loro, ma Tony Stark aveva preso coscienza, col passare del tempo, di essere divenuto oramai il capro espiatorio preferito per l’isteria comune, meno che per la propria.
- Credi sia semplice ? – si ritrovò infatti a sibilare, afferrando una penna laser per modificare un filo saltato – invece di lamentarti e ingozzarti perché non vieni qui ad aiutarmi? Io ho salvato il mondo sai? Perciò cerca di  –
-Eccola!
Pepper lo aveva gridato, urlato come si urla di fronte a qualcosa di tanto terribile, di tanto potente da togliere il fiato e rendere incapaci di fare altro se non boccheggiare in cerca d’aria, e quella visione fu da togliere il fiato.

"There's gotta be somebody for me like that.
Cause nobody wants to go it on their own "



Era identica a come l’aveva lasciata, lo pensò Bruce con il magone mentre osservava con il viso rigato di lacrime quello sorridente di sua figlia, una figlia che ora, dopo tanti anni, dopo tutto quel tempo passato a domandarsi come stesse, cosa stesse facendo, sapeva salva, e felice.
Lo era Astrid.
Astrid che sorrideva al mondo, a loro, e all’uomo contro il quale era abbandonata, avvolta nel mantello verde col quale Loki la riparava dal freddo pungente, una premura per la quale Tony Stark grugnì, tirando su col naso, sperando di non aver attirato l’attenzione di nessuno.
Ma Pepper lo notò, perché c’era così tanta luce nello sguardo di suo marito, così tanta felicità, e orgoglio, da far male solo guardarlo.
- È lei? – chiese una delle due gemelle, affascinata dalla giovane donna che suo padre aveva detto essere loro zia perduta, quella che il nonno non aveva mai smesso di cercare dacché l’aveva smarrita – è lei, papà?
- Si – le rispose dolce Marcus, lo sguardo rotto dall’emozione di ritrovare la creatura che in gioventù avrebbe voluto sposare, una sorella che non aveva avuto modo di amare a lungo, ma una donna alla quale doveva la vita sua e quella della famiglia che si era creato col tempo.
Maggie e Valery continuarono a fissare lo schermo con gli occhietti sgranati, attirate dallo sguardo strano ma magico che la loro zia puntava in giù, verso qualcosa che il mantello copriva parzialmente ma che entrambe, uniche a non essere distratte dalle lacrime,  riuscirono a scorgere torcendo un po’ il collo mentre attorno a loro il pianto silenzioso dei grandi portava via il loro respiro sorpreso.
- Cos’è quello?
Ignorare quel ditino paffuto puntato con foga contro lo schermo sarebbe stato impossibile,  ma Bruce Barner e Tony Stark ebbero lo strano e comune istinto di ignorarlo, di far finta di nulla, perché la parola “quello” unito alla loro piccola e dolce Astrid non aveva nulla di confortante.
Eppure Maggie, offesa dal mancato interesse da parte dei suoi nonni si incaponì, e correndo via dalle braccia del padre si gettò contro il monitor, schiaffando la mano sull’ombra verso la quale Astrid apriva il sorriso più dolce che mai avessero avuto modo di vedere sul suo viso, un sorriso che Pepper riconobbe all’istante, perché ogni donna, prima o poi, si sarebbe trovata a tendere la stessa curva.
Una curva dolce per la quale nuove lacrime le rigarono il viso mentre sotto la mano di sua nipote si mostrava il viso paffuto di un bambino dagli occhi verdi e i capelli color ghiaccio.
- È un bambino – strillò la piccola saccente, colpendo l’immagine per attirare l’attenzione dei due uomini che si erano scoperti a guardarsi l’un l’altro con l’identico e profondo orrore – avete capito? Lui è un bam.bi.no.
- Tesoro, non credo abbiano bisogno di uno spelling – tentò di ammansirla Pepper, divertita dal frenetico ‘click con il quale il proiettore aveva inquadrato solo il viso di Loki, zoomando sul sorriso sottile di fronte  al quale Tony Stark mosse nervosamente una palpebra prima che il fischio della sua armatura e il ruggito di Hulk franasse loro addosso assieme ai resti del monitor verso il quale i due Avengers si trovarono presto a sfogare la propria indignazione.
- Io ti troverò! – sbraitò lo scienziato mentre un altro pezzo di intonaco veniva giù assieme all’ululato dell'altro eroe– e quando ti troverò vorrai non aver mai deflorato la figlia di Tony Stark e Hulk - si affrettò ad aggiungere quando il dottore diede segno di non aver gradito la mancanza dell'uomo nei suoi confronti-  Ci hai sentito Udinì?

"Is there somebody else that feels the same somewhere?"

- Loki?
Il dio sbatté le palpebre un paio di volte prima di riuscire a scrollarsi di dosso quell’insolito pizzicore dietro l’orecchio, come se qualcuno avesse provato a urlargli qualcosa, ma ora c’era Astrid che aveva sollevato su di lui uno sguardo preoccupato, e avanzare ipotesi sul perché avesse avuto la sensazione di essere stato maledetto da qualcuno non era fra le sue priorità.
Non quando c’era sua moglie tra le sue braccia, abbandonata contro di lui con  il viso che accarezzò dolcemente, guidando  la testa contro il petto sul quale Astrid si ritrovò a ruotare lo sguardo, osservando il piccolo fagotto stretto tra le  braccia.
Sorrise dolce quando lo sentì gorgogliare qualcosa di incomprensibile ma tenero, e strofinargli il naso contro la guancia fu necessario per ricordarle che era tutto vero, che Draco era vero.
La pelle morbida che baciava, la risata dolce che le abbracciava l’udito era vera, suo figlio, era vero, e non c’era nulla di più bello di quello.
Aveva gli occhi di Loki, occhi che aveva visto aprirsi e guardarla con innocente curiosità prima di sentirlo ridere e tendere le braccine  verso di lei.
E in lui aveva visto la vita, quella vera, quella che le era stata negata, quella  che era riuscita a dargli in quanto nuova Yssgradrill, in quanto unica via tra gli spiriti della terra.
Una via che ora, per la prima volta, era stata lei ad imboccare per raggiungere quel pezzo di cuore che  stringeva  tra le braccia.
- Va tutto bene – le sussurrò Loki tra i capelli con voce morbida, sfilando una mano per raggiungere la guancia di Draco e sfiorarla debolmente,  in un gesto quasi distratto ma presente come Loki  si era ripromesso di essere, una volta tornato alla sua vita,  una vita che avevano riconquistato con fatica, e sangue, e lacrime, ma ne era valsa la pena.
Ne era sempre valsa la pena.
Lottare contro se stesso per lasciarla entrare.
Soffrire e morire pur di renderla felice.
Accettarsi per riaverla indietro.
Amarsi,  amarla, ne era sempre valsa la pena.
Perché aveva trovato il suo  posto nel mondo, un mondo che la risata di suo figlio gli ricordò essere pieno di gioia e felicità, quella che con lei era riuscito a trovare dopo tanto vagare,  dopo tanto cercare, assieme a ciò che gli era sempre stato negato  ma che con lei aveva infine avuto.
Un lieto fine.
Un eterno lieto fine.


"So I'll be holdin my breath
Right up to the end
Until that moment when
I find the one that I spend forever with "






* La canzone è dei Nickelback- Gotta Be Somebody
Piccolo Extra per concludere la storia, sono emozionata per questa fine, perchè volevo davvero dare un "felice e contenti" a Loki ed Astrid, finalmente.
Ringrazio chi è riuscito a giungere fin qui, davvero, grazie per avermi seguito in quest'avventura.
Un saluto, Gold Eyes

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