La maledizione della casa nella laguna di nephylim88 (/viewuser.php?uid=221977)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dannazione? ***
Capitolo 2: *** Riunione di famiglia ***
Capitolo 3: *** Primi segnali ***
Capitolo 4: *** Cosa sei disposto a fare? ***
Capitolo 5: *** Chi sono, in realtà? ***
Capitolo 6: *** Una tragica serata ***
Capitolo 7: *** La vera famiglia Borgia ***
Capitolo 8: *** Marco ***
Capitolo 9: *** Epilogo - Due mesi dopo ***
Capitolo 1 *** Dannazione? ***
Non posso dire di essere mai stato un accanito credente. Proprio per niente. Ma ora che anche un'altra persona è morta, ora che lei è morta, e io ne sono in parte responsabile... come faccio? Davvero, ora sono terrorizzato per la mia anima immortale.
Lo so, nel 2013 tanti trovano assurdo credere nell'anima, quell'inutile suppellettile che ci portiamo dietro per tutta la vita, e che poi, una volta morti, andrà archiviata in uno dei due grandi schedari dei due grandi Signori dell'universo: Satana e Dio Padre. Ma ora, non sono più così sicuro che sia così inutile, quel suppellettile.
Mi chiamo Giorgio. Mi sono laureato cinque anni fa in architettura a Venezia. Ma, con la crisi che c'era, mi sono ritrovato a fare l'agente immobiliare per l'agenzia “Borgia & figli”, agenzia con filiali in tutta Italia, specializzata nella vendita di case antiche, per lo più con una fama sinistra, anche se i proprietari, Rodrigo Alessandro e suo figlio Cesare, sostengono che si tratti di un puro caso. All'inizio trovavo alquanto ridicola l'omonimia tra i miei datori di lavoro e la famiglia più incline agli intrighi nella storia italiana, tanto più che pareva che Cesare avesse anche una sorella di nome Lucrezia, ma ora questa coincidenza non mi sembra più una coincidenza, e mi fa rabbrividire. Mi sono dovuto licenziare. La cosa che mi fa più schifo è che una parte di me concorda con i miei amici e parenti, che sono stato scemo a mollare un lavoro così ben retribuito in questi tempi così tormentati. In fondo, le case che vendevamo erano straordinariamente costose, e interessavano un sacco di ricconi eccentrici che spesso arrivavano a pagarle anche più del loro prezzo! Di conseguenza, la mia percentuale era molto alta. E pare che, se avessi dimostrato i requisiti richiesti, nel corso degli anni non solo la mia percentuale si sarebbe alzata, ma sarei addirittura diventato socio! Ma i miei amici e familiari non sanno cosa sono quei particolari requisiti. E nemmeno io sono sicuro di saperli tutti.
Cominciò tutto sei mesi fa. Ormai era da tre anni che lavoravo per quell'agenzia. Che non assomigliava per niente ad un'agenzia: l'edificio della sede era un palazzo veneziano del 1700, con le decorazioni del soffitto in oro, e un enorme lampadario a gocce nella sala principale. Ero in ritardo, così praticamente corsi fino alla sala principale, dove trovai Rodrigo che parlava in francese con una bella signora sulla cinquantina. Già a vederla, mi resi conto che quella donna era speciale. Mi sentivo già legato a lei, in un certo senso. Non c'era stato il classico colpo di fulmine, ci mancherebbe! E tuttora non posso dire di essermene innamorato. E se lo ero, beh, ero (sono!) abbastanza disilluso da sapere che una storia tra un uomo di trent'anni e una donna di cinquanta difficilmente funziona.
Si voltarono entrambi verso di me.
“Oh, Giorgio!” esclamò Rodrigo, vedendomi “Ben arrivato! Madame, voici l'agent qui vous accompaignera à la maison!”
Lei mi sorrise.
“Bonjour, madame. Je vous demande pardon, je ne parle pas bien français...” le dissi, impacciato.
“Oh, non si preoccupi” rispose lei, sempre con quel sorriso stampato in volto “Parlo abbastanza l'italiano. Anzi, preferisco parlarlo, con lei, visto che devo venire a vivere qui!”.
Devo ammettere che ero impressionato. La sua cadenza francese non era poi così marcata, appena un minimo di erre moscia e un po' di nasali tradivano la sua origine.
“Bene, signora! Allora, che case vuole vedere?”
“Veramente ne ho scelta solo una. Ca' Dario.”
Una brezza gelida mi sfiorò un orecchio. Forse era un presagio, ma non ci feci molto caso, in quel momento.
“Molto bene, signora! Vogliamo andare?”
“Può chiamarmi Geneviève, se vuole!” urlò la signora, per sovrastare il rumore del vaporetto e della gente che vociava intorno a noi.
“Solo se lei mi chiamerà Giorgio e ci daremo del tu!”
Sorrise. Sorrideva sempre.
“Come mai ti vuoi trasferire qui, Geneviève?”
“Ho sempre amato l'Italia. In particolare Venezia. E quando mio marito è morto, ho deciso di lasciare la Francia e venire a vivere qui.”
“Mi spiace molto per la sua perdita, davvero!”
“Erano anni che era malato, lo amavo moltissimo, ma devo ammettere che quando è morto è stato un sollievo, in un certo senso. Vederlo soffrire stava uccidendo anche me.” Assunse un'aria malinconica. Una lacrima scese sulla sua guancia. Decisi di cambiare argomento.
“Come mai proprio villa Dario?”
“Come? Oh!” si riscosse “beh, in verità ne avevo considerate altre, ma poi il signor Borgia mi ha fatto vedere le foto di quella villa, e me ne sono innamorata!”
“Lei conosce la fama di quella villa?”
“No, veramente.”
“Gira voce che sia maledetta, visto che è stata costruita su un antico cimitero. Tanti dei suoi proprietari precedenti sono andati in bancarotta, per un motivo o per un altro, e tanti di loro si sono suicidati tra quelle mura. In effetti, era già da qualche anno che la villa non veniva occupata, proprio per questo motivo.”
“Oh, ma sono superstizioni ridicole!”
“è quello che penso anch'io!” risi.
Dio, quanto ci sbagliavamo!
Ciao a tutti! Allora, volevo fare alcune precisazioni su questo racconto.
Ho basato la storia su una leggenda che chiunque vive a Venezia, o l'ha frequentata, conosce.
Cà Dario è un palazzo rinascimentale la cui costruzione è stata commissionata da tale Giovanni Dario, nel 1400 e rotti. Ma, si vocifera, fu costruita su un antico cimitero (addirittura alcuni sostengono che fosse un cimitero templare). La figlia di Giovanni Dario, la cui dote consisteva appunto in questo palazzo, morì di crepacuore a seguito del tracollo finanziario del marito. Da allora, molti dei proprietari fecero una gran brutta fine: morti violente, suicidi, bancarotta, scandali... per dire, anche uno di quelli coinvolti in Tangentopoli, se non ricordo male, si sparò nel 1993 proprio in quella villa. L'ultima morte risale al 2002, quando un americano che l'ha affittata, è morto di infarto nel giro di una settimana. Pare che lo stesso Woody Allen fosse interessato all'acquisto, ma ha desistito di fronte alla sua sinistra fama (opinione personale: è una grande fortuna per il cinema!).
Altra cosa: se esiste un'agenzia immobiliare Borgia, dico subito che non intendo assolutamente farle cattiva pubblicità, tanto più che non ne sono proprio al corrente, dell'esistenza di un'agenzia con questo nome. Il mio intento era di creare una certa ambiguità e un certo legame fra il mondo presente e quello che succede a Giorgio e Geneviève, e una famiglia estremamente famosa per gli intrighi e gli omicidi. E l'unico nome che mi è venuto in mente è proprio “Borgia”.
Detto questo: Buona lettura! Spero che per ora questo racconto vi piaccia! Fatemi sapere!
Baci,
Nephylim
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Riunione di famiglia ***
Fu due giorni dopo, il momento in cui mi accorsi che qualcosa non quadrava. Entrai nel mio ufficio. Mi ero appena seduto, pensando che forse avrei fatto meglio ad andare a procurarmi un caffè, quando entrò Cesare. Era alquanto agitato, non lo avevo mai visto così. Di solito, i miei titolari erano persone quasi fredde. Sicuramente avevano un temperamento scevro da emozioni. Quindi, fu una sorpresa per me, la vista di un Cesare Borgia scarmigliato che spalancava la porta come se dovesse scardinarla. “Giorgio, ho bisogno che ti occupi della vendita di una casa!”
Ecco una cosa che mi sembrava parecchio strana del mio lavoro: i miei titolari non vendevano mai le case direttamente. Se ne occupavano gli agenti che assumevano, e basta. L'unica cosa che importava è che le case venissero vendute, e considerato il target, erano anche abbastanza rilassati su questo. Almeno, credo che lo fossero. Dirò la verità, non sapevo proprio come reagivano se una casa non veniva venduta: non accadeva mai una simile evenienza. All'agenzia Borgia andava gente intenzionata a comprare. Punto e basta.
“D'accordo, ma... Mi scusi, Cesare, ma va tutto bene?” lo scrutai, preoccupato.
“Sì, certo! Sono solo un po' su di giri, oggi arriveranno mia sorella e la compagna di mio padre! È da tanto che non le vedo!”
“La compagna di suo padre? Vuole dire che non è sua madre?”
“No, mamma non la vediamo da parecchio tempo. E personalmente non ne sento poi così tanto la mancanza, se mi è concessa una piccola confidenza da uomo a uomo.”
Sollevai appena le sopracciglia, come a dire “Ah.”. A dire il vero, ero anche un po' a disagio.
“Allora” dissi alla fine “qual è la casa che devo vendere?”
“D'accordo, Genéviève, ci sentiamo più tardi!”. Chiusi la telefonata e rientrai in agenzia. Da una parte ero di ottimo umore. La vendita era andata benone. Sospettavo che il tipo a cui avevo venduto la casa fosse un po' scemo, l'avevo proposta a 5 milioni di euro, e lui aveva insistito per farmi un assegno da 7. E sì che gli stupidi non diventano milionari...
Dall'altra parte, ero preoccupato per Genéviève. Il suo umore era peggiorato di parecchio. Credevo che fosse per il lutto, in fondo, da quello che avevo capito, il marito era morto da poco. Decisi che quella sera l'avrei portata in un ristorantino nel ghetto ebraico. Le avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria. In fondo, ca' Dario, per quanto bella, era decisamente opprimente!
“Oh, Giorgio!” la voce secca di Alessandro mi inchiodò lì dov'ero. Dirò la verità: Alessandro mi inquietava non poco. Quando ti parlava, aveva sempre l'aria di uno che non pensa quello che dice. E quando si presentava all'improvviso, nel suo completo Armani, o Cavalli, o Cheaccidentinesoio, prendevi dei fieri colpi!
“Signor Borgia...” feci spontaneamente un mezzo inchino. Altra cosa strana di quell'uomo: aveva un che di autorevole, che spingeva anche l'impiegato meno leccapiedi del mondo del lavoro a diventare servile.
“Come ti è andata, la vendita?”
“Bene, bene. Benissimo, anzi. Anche se è stata un po' bizzarra. Ha insistito per comprare la casa ad un prezzo più alto di quello da noi proposto.”
Alessandro rimase un attimo interdetto, poi scoppiò a ridere. “Sì, in effetti Cesare si era dimenticato che quello era il vecchio Cavanaugh! Ha fatto una scommessa con il suo socio di comprare per sei mesi solo oggetti con i prezzi col numero 7 davanti!”
Rimasi basito. Certo che quei ricconi potevano permettersi davvero di tutto! Comprese le scommesse cretine! Alessandro stava davanti a me e rideva con le lacrime agli occhi. 'Altro esempio di riccone strano...' pensai. Anche se, in termini economici, come ho già detto, non mi potevo certo lamentare, ed era comunque grazie a lui!
“Beh, dai, abbiamo già perso troppo tempo.” farfugliò, appena riprese fiato “coraggio, giovanotto. Sono arrivate mia figlia e la mia compagna. Vieni, che te le presento.”
Entrammo nella sala riunioni, dove Cesare stava bevendo del tè con due splendide donne. In sala riunioni ci sarò stato un paio di volte. Era ampia, con le pareti stracolme di affreschi e i soliti lampadari a gocce tipici di Venezia. In mezzo alla sala stava un ampio tavolo ovale in legno massiccio, con tutto attorno delle sedie imbottite. Ma solo quel giorno realizzai che era tutto lì. Voglio dire, in altre aziende, che io sappia, nelle sale riunioni ci sono computer e proiettori per le presentazioni. Ma nell'agenzia, l'unico pc che avevo visto era quello nel mio ufficio.
Appena mi videro, Cesare e le due donne si alzarono e mi sorrisero. Una era alta, bionda e pallida. Normalmente preferisco le brune, ma lei era comunque splendida. Venne verso di me allungando la mano. “Piacere, Lucrezia!”. Strinsi la mano e sorrisi. “Un'altra omonimia con la famiglia Borgia!” le dissi, quasi ridendo.
“Non ve l'hanno detto? Siamo loro discendenti. E a quanto pare i miei familiari vivono nel mito della nostra famiglia. E ci hanno affibbiato i nomi dei nostri antenati.”
“Ah!” mi limitai a dire.
Si fece avanti l'altra donna. “io sono Giulia! Molto piacere!”
Giulia era di una bellezza che apprezzavo di più. Aveva gli occhi castani e una carnagione meno delicata di quella di Lucrezia. Il suo viso aveva una sorta di luce magnetica che mi affascinava.
“Anche lei è una Borgia?”
“No, no. Il mio cognome è Farnese.”
Sollevai le sopracciglia, ma non dissi nulla. Il suo nome mi aveva acceso un piccolo allarme, ma non riuscivo a capire perché. Così lo misi da parte.
“Allora, Giorgio! Come si trova qui?”
Non feci nemmeno a tempo a rispondere “bene”, che Cesare praticamente mi travolse dicendo “è il nostro migliore agente!”
“Beh,” tentennai un po' “in realtà sono l'unico... almeno qui a Venezia...”
“Non fare il modesto, Giorgio! Fidati, nelle altre succursali non facciamo tanti soldi come li facciamo qui!”
Feci per rispondere che, in fondo, è la città di Venezia a richiamare così tanta clientela. Ma poi decisi di starmene zitto. In fondo, i complimenti mi facevano piacere...
Rimasi in silenzio per il resto del tempo che passammo in sala riunioni, ascoltando le loro chiacchiere e fissando le due donne. Passi i nomi della famiglia Borgia, ma perché quello di Giulia Farnese mi metteva addosso quell'ansia così opprimente?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Primi segnali ***
Rientrai in casa. Era stata una giornata abbastanza infruttuosa, a dire il vero. Ma non era un particolare problema, con la vendita di Ca' Dario, mi ero garantito almeno un paio di mesi senza troppe preoccupazioni finanziarie. Forse anche di più, considerando che non sono mai stato il tipo che va in giro a far bagordi.
Mi guardai in giro. Adoro casa mia, anche se è discretamente vecchia e un po' in decadenza. Credo che lo stabile fosse del 1800, o giù di lì, con il pavimento in legno, di quelli che quando ci cammini sopra scricchiolano da matti e sembra quasi che sotto ci sia uno spazio vuoto. Mi avviai verso il bagno, facendo scrocchiare il mio collo irrigidito. Aprii il rubinetto e lasciai scorrere l'acqua per un po', per farla scaldare. Nel frattempo mi spogliai, poi mi cacciai sotto l'acqua. Mi ritrovai a pensare che, in realtà, il mio lavoro non mi piaceva poi molto. In fondo le case antiche non si vendono così tanto, non capita spesso che un milionario venga nella nostra agenzia per comprare ville. Il che rendeva il mio lavoro molto noioso, sebbene molto remunerativo. A dire il vero, Alessandro Borgia mi diceva sempre che non era necessario che mi presentassi tutti i giorni, bastavano un paio di volte a settimana. Ma io conoscevo perfettamente la mia indole, e l'inoperosità mi rendeva depresso. Così, passavo giornate intere a telefonare a ricconi (per lo più americani, gli unici che sapevo essere abbastanza interessati a case con un alto potenziale di infestazione di fantasmi). Oppure a cercare case in vendita da prendere su commissione, non solo a Venezia, ma anche nei dintorni. Beh... dintorni è un eufemismo, visto che ormai praticamente giravo per tutto il Veneto! In pratica funzionava così: periodicamente, tre giorni a settimana li passavo in ufficio a telefonare in giro, e gli altri due li trascorrevo girando per le varie città e cittadine del Veneto. Ero arrivato fino a Feltre, così facendo. Certo, non potevo girare per tutto l'anno a cercare case da acquisire e rivendere. Ok che avevo un rimborso spese, ma non volevo esagerare!
L'acqua improvvisamente si ghiacciò. “Dannazione!” strillai, come una donnetta. Ma perché diavolo l'amministratore non faceva riparare quella dannata caldaia? A quel punto mi insaponai rapidamente e poi mi sciacquai ancora più velocemente. Poi uscii dalla doccia, bene intenzionato a chiamarlo e a dirgliene quattro. Allungai la mano verso il cellulare. Fu a quel punto che venni colto di sorpresa da una chiamata in entrata. Guardai il display per identificare il numero, ancora un po' stordito dal nervosismo che mi aveva preso. Poi risposi.
“Ciao Géneviève!”
“Ciao Giorgio! Disturbo?”
“Assolutamente no!” farfugliai mentre mi asciugavo un paio di gocce che mi stavano colando sul petto. Erano trascorsi un po' di giorni dalla vendita di Ca' Dario. Io e Géneviève ci eravamo scambiati il numero, e ci sentivamo tutti i giorni, per un motivo o per l'altro. Devo confessare che la sentivo molto più vicina di parecchie persone che conoscevo da molto più tempo. Quasi più vicina del mio migliore amico.
“Mi chiedevo se stasera hai da fare.”
“No, assolutamente!”
“Che ne diresti di venire qui a cena, allora?”
“Nella tua casa maledetta?? Brrrr!” scherzai. Lei scoppiò a ridere “Certo che ci sarò! Devo portare qualcosa?”
“No, non ti preoccupare! Ti aspetto per le otto, allora!”
Guardai l'ora. Erano le sette e mezza.
“Forse tarderò un pochino, dipende se faccio a tempo a prendere i mezzi.”
“Ti aspetto!” ripeté. Poi riattaccò.
Mezzora dopo ero al cancello di Ca' Dario. Puntuale come le tasse, dice sempre mia madre. Le mie piccole paranoie sul mio eventuale ritardo erano completamente infondate. Avevo persino fatto a tempo a fermarmi in una pasticceria a prendere un po' di pastine, giusto per non arrivare a mani vuote. Lei mi aprì, e quando mi vide, sorrise, raggiante.
“Sei anche arrivato puntuale, hai visto?”
Le sorrisi di rimando, poi la seguii dentro casa. Mi colse una sensazione molto strana, entrando. Come se stessi entrando in un mondo sconosciuto. E sì che ci ero già entrato altre volte, lì dentro! Mi riscossi, pensando che, dopotutto, ero solo molto stanco. Tanto più che la casa, che era discretamente illuminata, sembrava in qualche modo oscura. Tetra. Sì, decisamente ero stanco!
Seguii Géneviève in soggiorno.
“Ma lo sai” mi disse “che il tuo stupido racconto su questa casa mi ha impressionato?” rise “Ora sento presenze strane dappertutto!”
“Davvero? Tipo?”
“Beh, magari sto leggendo, e mi passa un soffio d'aria fredda a fianco.”
“Sarà uno spiffero, tieni conto che questa casa è antica.”
“Oppure vedo qualcosa muoversi con la coda dell'occhio.”
“Sono sicuro che questo è dovuto al fatto che devi ancora ambientarti.”
“Sì, ne sono certa! Ma ammetto che fa impressione!”
“Madame Dubois?” una voce interruppe la nostra conversazione. Mi voltai, e vidi una signora anziana sulla soglia, vestita con una divisa da cameriera “Je peux servir le diner.”
“Oh, merci, Julie!” le rispose Géneviève.
“Ah, beh!” la presi in giro “non mi avevi detto che hai anche una cameriera!”
“Julie lavora per me da quando mi sono sposata. A dire il vero non mi interessava poi molto che mi seguisse in Italia, ero disposta a mandarla in pensione, ma lei ha insistito per continuare a lavorare con me. Siamo molto affezionate l'una all'altra. E ora andiamo a mangiare! La cena è pronta!”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Cosa sei disposto a fare? ***
Trascorsero diverse
settimane. La mia vita andava avanti tranquilla. La vendita delle
case andava straordinariamente bene. Ne vendevo una ogni due
settimane, più o meno. Uscivo con i miei amici, chiacchieravo con
Lucrezia Borgia e Giulia Farnese. A dire la verità, sospettavo che
entrambe ci provassero spudoratamente con me. Quante volte entravano
nel mio ufficio con una scusa qualsiasi, e con quelle minigonne che
lasciavano ben poco all'immaginazione! E vogliamo contare le numerose
carezze dietro la nuca, o il saggiare continuamente i miei (?)
muscoli? E gli sguardi maliziosi che ogni tanto bersagliavano la
patta dei miei pantaloni?
Se da un lato il
mio ego maschile prendeva il volo, dall'altro ero a disagio. Non
avevo la ragazza, né intendevo trovarmene una nell'immediato. Stavo
bene così come stavo, nella mia solitudine e tranquillità. E avere
quelle donne (e una di loro era la compagna del mio capo!) che mi
facevano il filo mi metteva non poca confusione! Oltretutto mi
facevano sentire un pivellino alla sua prima cotta! Ed era successa
una cosa un po' particolare. In realtà, inizialmente sembrava molto
insignificante. Talmente insignificante che solo la sera della morte
di Généviève capii che non lo era poi così TANTO. Anzi!
Ero in ufficio.
Avevo appena contattato un cliente molto interessato ad una villa
veneta nell'alta padovana. Una villetta piuttosto insulsa, secondo
me. Non era molto grande, né molto famosa. Avevo parlato con alcune
persone del luogo, e metà di loro non conosceva nemmeno il nome di
quella magione! Ma, nonostante questo, aveva anche lei le sue
leggende. Quella che mi era rimasta impressa parlava di un buco nella
chiesetta della villa, sotto una piastrella rotta, che pareva non
avesse fondo. Mi accordai per trovarmi col cliente due giorni dopo.
Gli avrei fatto visitare la villa. Era già interessato a comprarla,
anzi mi aveva già fatto un'offerta. Ma era prassi fargli almeno
vedere dove sarebbe andato ad abitare!
Avevo appena messo
giù il telefono, quando entrò Cesare, seguito da Lucrezia. Avevano
entrambi un sorrisetto gelido stampato in faccia.
“Hai concluso
ancora, eh, Giorgio?” la voce di Cesare era alquanto tagliente.
Onestamente, ebbi paura. Ero convinto di fare qualcosa che non
andava. Come si spiegava quello sguardo, sennò?
“Ha bisogno di
qualcosa, Cesare?” domandai, cercando di stare tranquillo.
“Oh, su,
rilassati! Non sono qui per mangiarti!” scoppiarono entrambi a
ridere. Quando smisero, l'espressione sembrava più cordiale.
Ciononostante, notai, avevano entrambi lo stesso sguardo gelido dei
serpenti.
“Allora...?”
bofonchiai.
“Siamo qui per
parlarti di lavoro!” cinguettò allegra Lucrezia. Si sedettero
sulle sedie di fronte alla mia scrivania. Intrecciai le dita sul
piano del tavolo, e mi misi in ascolto.
“Come sai, noi
siamo una ditta in continua espansione. Questa storia di vendere case
antiche attira la clientela! Specie se sono 'infestate'!” Cesare
fece il segno delle virgolette con le dita. “Ora! Quello di cui
abbiamo bisogno per espanderci è un team estremamente dinamico,
pronto a qualsiasi cosa pur di vendere! E, come ti abbiamo già detto
quando ti abbiamo assunto, se questo team lavora bene, lo premiamo!
Certi agenti sono diventati addirittura soci!”
Dove voleva andare
a parare?
“Abbiamo
controllato il fatturato delle nostre filiali. Beh, la sede di
Venezia è quella che rende di più. E questo grazie al tuo
fantastico team!”
“Composto solo da
me...” borbottai.
“Non fare il
modesto! Tu hai inventiva, spirito di iniziativa, voglia di lavorare!
Da solo hai venduto più case del team di Roma! Questi sono alcuni
dei requisiti per diventare nostro socio!” era così eccitato che a
momenti se la faceva addosso... Lucrezia stava seduta al suo fianco
con un sorriso misterioso stampato in faccia.
“E quali
sarebbero gli altri requisiti per diventare socio?”
“Diciamola
così...” intervenne la donna, sempre con quel sorriso enigmatico
“cosa sei disposto a fare, pur di riuscire nel lavoro?”
Rimasi zitto per un
po', prima di rispondere un incerto “Beh, in verità non lo so...”
“Vorresti
diventare nostro socio?” Lucrezia e Cesare mi guardarono pieni di
aspettativa.
“Sì, certo!”
“Ok. Al momento
giusto valuteremo noi se sarai... degno... di quel ruolo!”
Detto questo si
alzarono e se ne andarono. Io rimasi a fissare la porta dell'ufficio,
stranito. Davvero mi volevano come socio? Come diavolo avrei dovuto
fare per dimostrare di essere 'degno' di quel ruolo?
E quando non era il
lavoro a mettermi in difficoltà, c'era Généviève. Ormai ero
sempre più preoccupato. Non si faceva vedere, né sentire, per
parecchi giorni di fila, e quando lo faceva era sempre più
abbattuta.
“Généviève, ti
manca così tanto, tuo marito?” le domandavo spesso. Era una
domanda scema e priva del benché minimo tatto, lo so, ma era l'unico
sistema che avevo per capire meglio i suoi sentimenti. Con un “stai
bene?” ricevevo solo una laconica alzata di spalle. Non che, alla
domanda su suo marito, rispondesse tanto di più. Un vago “suppongo
di sì” era la norma.
Oltretutto, Julie,
la sua domestica, se n'era andata. Di punto in bianco. Aveva mollato
lì la sua datrice di lavoro, che chiaramente stava male. Se l'era
svignata, quella stronza! Ero indignato al massimo, quando Généviève
me l'aveva detto. Ma lei... lei sembrava fregarsene. Girava per casa
con quello sguardo vacuo che metteva i brividi. Ormai ero da lei
tutte le sere, per assicurarmi che mangiasse almeno una volta al
giorno. Non posso dire di essere mai stato particolarmente testardo.
Con un'altra persona, prima o poi avrei mollato la presa, e l'avrei
mandata a quel paese, con un lapidario “se non vuoi aiutarti tu da
solo, perché devo farti io da psichiatra?”. Ma con lei non ce la
facevo. Proprio non ci riuscivo! Forse era la sensazione che mi
prendeva quando varcavo il cancello di villa Dario. Una sensazione di
gelo terribile. In un momento di idiozia, avevo detto sghignazzando a
Marco, il mio migliore amico, che capivo perfettamente che cosa
provava Harry Potter quando aveva a che fare con un dissennatore.
Scemo che non ero altro! Avevo cercato di buttare in ridere una
questione serissima. Quando entravo lì, mi sentivo come se ogni
singola cellula del mio corpo fosse svuotata di ogni energia. Quella
casa era opprimente. Tuttavia non riuscivo a portare Généviève
fuori di lì. Sembrava quasi legata a quel posto. Quando tornavo a
casa mia, mi sentivo come se avessi le pile scariche. Nonostante
questo, la sera dopo ero lì, più battagliero. Non intendevo in
nessun modo lasciare Généviève lì da sola!
Quella sera andai
di nuovo da lei, con il necessario per fare una pasta alla carbonara.
Aprii il cancello, che emise un cigolio sinistro. Da quel momento mi
riprese la sensazione di nausea opprimente che ormai avevo imparato a
collegare a quella casa. Guardai attentamente il cortile e la casa.
Sentii i muscoli tendersi, come se stessi per essere attaccato. Sono
sicuro che ci fosse qualcuno, lì. Una presenza indefinita. Alzai lo
sguardo verso le finestre. Una tenda venne scostata. Con mia enorme
sorpresa, vidi un uomo affacciato alla finestra. Ma fu una visione
alquanto fugace. Si tolse immediatamente alla mia vista, e la tenda
ritornò al suo posto.
Perplesso, mi
avviai verso la porta d'ingresso. Bussai. Genéviève venne ad
aprirmi dopo un tempo che mi parve infinito. Mi sembrò stare meglio
rispetto alla sera prima.
“Oh, ciao
Giorgio...” anche il suo saluto sembrava meno fiacco.
“Genéviève,
tutto bene?”
“Certo...
perché?”
“Oh, nulla.
Senti, ti vanno degli spaghetti alla carbonara?” misi in mostra il
sacchetto della spesa.
“Ah... ehm... no
grazie... io... beh, stasera preferirei stare sola.”
La guardai. Era
pallida, evidentemente dimagrita. La luce dei suoi occhi sembrava
spenta. Avrei tanto voluto dirle di no, che sarei rimasto. Ma era
anche vero che in quel periodo forse le stavo un po' troppo addosso.
Con riluttanza, annuii. In fondo non era sola, c'era sempre
quell'uomo che avevo visto alla finestra. Me ne andai. Una volta in
strada, tirai fuori il cellulare e chiamai Marco per andare a
prendere uno spritz. |
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Chi sono, in realtà? ***
Due ore dopo, ero
ancora con Marco, a parlare del più e del meno. E, a dirla proprio
tutta, eravamo alquanto alticci.
“Sai” mi disse
lui, sorridendo col suo sorriso sghembo da 'non sono brillo, ma non
mi ci vorrà molto per diventarlo' “l'altro giorno sono passato
davanti alla tua agenzia, e ho visto un pezzo di gnocca da levare il
fiato vicino all'entrata!”
“Bionda o bruna?”
“Ti pare che
rivolga le mie attenzioni ad una comunissima bruna? Lo sai che sono
per le perle rare! No, bionda, bionda!”
“Allora era
Lucrezia! Bella, eh?”
“Bella? Divina!
Che dici, un appuntamento lo si potrebbe combinare?”
“Che fai,
scherzi? Quella è milionaria, figurati se esce con uno spiantato
come te!” ridacchiai.
“E andiamo! Un
tentativo lo possiamo fare, no? Non hai detto che c'è anche una
bruna?”
“Sì, Giulia.
Molto bella anche lei, devo dirlo. Più di Lucrezia.”
“Se è bruna,
impossibile! Dai, proviamo a proporci! Una bella uscita a quattro!”
Il bello è che, da
come mi guardavano, forse avrebbero anche accettato. E credo che
avrebbero accettato una sveltina. Ma questo non lo dissi a voce alta.
Ok, alticcio, ma non ubriaco fradicio! Restammo zitti per un po'. Poi
Marco fermò una cameriera e ordinò un caffè.
“A dire la
verità” mi disse “ho notato una cosa un po' strana, di quella
ragazza. Nel senso, avevo l'impressione di averla già vista. Come
hai detto che fa, di cognome?”
“Borgia.”
“Lucrezia
Borgia?” le sopracciglia di Marco quasi volarono via dalla fronte
per lo stupore. Poi scoppiò a ridere. “E vorrai mica dirmi che ha
un fratello di nome Cesare?”
“Certo.” Marco
smise di ridere, chiaramente chiedendosi se per caso lo stessi
prendendo in giro.
“Beh...” mi
misi sulla difensiva “Lucrezia mi ha spiegato che vivono talmente
nel mito di quei Borgia, che gli sono stati appioppati gli stessi
nomi. A quanto pare, sono loro discendenti.”
Marco continuò a
fissarmi. Poi tirò fuori il suo telefono e cominciò a digitare
qualcosa. Dopodiché me lo passò. Guardai lo schermo luminoso. Avevo
un'immagine davanti, il cui titolo era “presunto ritratto di
Lucrezia Borgia”. Mi guardava una donna con i capelli biondi e
quell'aria enigmatica tipica delle donne dipinte nel Rinascimento.
C'era una vaga somiglianza con la Lucrezia che conoscevo, ma non
capivo dove volesse arrivare Marco. Lo guardai, perplesso.
Senza dire una
parola, Marco si riprese il telefono e digitò qualcos'altro. Poi me
lo ridiede. A quel punto mi prese un colpo. Adesso stavo guardando la
foto di una statua di cera rappresentante una donna bionda, sulla
trentina, di una bellezza sconvolgente, lo sguardo gelido. Il titolo
dell'immagine era “statua di Lucrezia Borgia”. E poi il nome di
un museo. Cominciai a sudare freddo. Quella donna era identica alla
Lucrezia che conoscevo io. Ma che diavolo...?
“Ho fatto una
stupidaggine a farti vedere prima il dipinto, visto che i dipinti
sono fuorvianti nel farti capire il vero volto delle persone. Spesso
venivano 'abbellite' secondo gli standard dell'epoca, per cui una
donna orribile diventava stupenda in un suo ritratto.”
“Mi stai dicendo
che...”
“La tua datrice
di lavoro è un caso genetico molto raro. In fondo, le
caratteristiche genetiche vengono ereditate fino ad un massimo di
sette generazioni dopo averle tramandate, poi si perdono. Oppure
quella donna è Lucrezia Borgia. La vera Lucrezia Borgia, nata
nell'aprile del 1480.”
Inghiottii saliva,
prima di rispondere “Ma andiamo, magari hanno preso ispirazione
dalla mia datrice di lavoro per fare la statua!”
“Sì. Può darsi.
Niente di più probabile. Ma non tirerei un sospiro di sollievo, se
fossi in te. Quella statua è stata costruita circa ventisette anni
fa. Questo vuol dire che la tua datrice di lavoro aveva... due anni?”
Cominciai a
tremare. “diciamo pure che do per buona l'ipotesi del caso
genetico.”
“Io invece no.
Non possiamo sapere esattamente che aspetto avevano i nostri
antenati. La maggior parte di noi, anche andando a cercare molto
indietro nei secoli, ha origini molto umili. Per cui discende da una
famiglia che non poteva permettersi ritratti. E quelli che si
potevano permettere ritratti, comunque li facevano falsare, per
nascondere difetti fisici.”
“E allora come
fai a sapere che quella è la vera Lucrezia Borgia?”
“Te l'ho detto.
Basta un semplice programma al computer e una conoscenza di base
dell'estetica rinascimentale, e si è in grado di ricostruire
qualsiasi viso. E un pizzico di logica. Come mai la tua datrice di
lavoro è precisa identica ad una statua costruita quando lei aveva a
malapena due anni, in un'epoca dove i programmi che ti ho citato
prima non esistevano, o comunque non erano certo a disposizione di un
museo poco famoso come quello dove si trova la statua?”.
Tacqui. Ormai
sembravo avere perso ogni capacità di rispondere a qualsiasi persona
mi sottoponesse a domande pressanti.
Marco digitò
rapidamente qualcosa sul suo smartphone. Poi me lo fece vedere di
nuovo. Non ci volle un genio per capire che davanti avevo il ritratto
di Cesare. Che assomigliava anche lui vagamente al mio datore di
lavoro. Per non parlare del ritratto di papa Alessandro. Ci misi un
po' a realizzare che erano tutte sciocchezze. Scossi la testa
“Andiamo, Marco, sei completamente ubriaco! Questi ritratti hanno
solo una vaga somiglianza coi miei datori di lavoro! Come diavolo
puoi aspettarti che io creda ad una totale assurdità come quella che
mi stai propinando?”
“Sei il solito
zuccone” sbottò lui, inacidito. Era sempre stato molto permaloso.
Calò di nuovo il
silenzio. Poi, Marco mi chiese “Come fa di cognome, Giulia?”
“Farnese. Si
chiama Farnese.”
Trattenne il fiato
per un nanosecondo, poi replicò “Tu sai chi era Giulia Farnese,
vero?”
Scossi la testa,
senza specificare che il nome mi ricordava comunque qualcosa.
“Giulia Farnese
era il nome di una delle amanti di papa Alessandro. Probabilmente fu
quella che amò di più.”
Lo fissai. “In
effetti, Giulia è la compagna di Rodrigo Alessandro.” esalai,
aggrottando la fronte.
Marco mi fissò di
rimando, gli occhi che chiaramente esprimevano qualcosa tipo 'e tu
credi ancora che sia una coincidenza?'.
“Marco, io...
insomma, non posso credere che i miei datori di lavoro siano gli
stessi cospiratori del Rinascimento. Se anche fosse, cosa diavolo
sarebbero? Demoni? Zombie? Fantasmi?”
“Non lo so.
Giorgio, non lo so proprio. Ma non riesco a credere alle pure
coincidenze, e lo sai.”
“Già. Infatti
per spiegarti le cose inventi assurdità paranormali!”
Detto questo, misi
i soldi sul tavolo per pagare la mia parte, e me ne andai.
|
|