Sotto un cielo coperto di stelle di KrisJay (/viewuser.php?uid=100038)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo1
Buon pomeriggio, e buon 1° Maggio a
tutte!
Non ho molto da dire, in questo momento,
l’ansia da prestazione mi sta giocando un brutto scherzo XD
Comunque… quello che state per leggere
è il primo capitolo della mia nuova long. Non so ancora quanti capitoli
saranno, credo che lo scoprirò mano a mano che la storia andrà avanti e… beh,
spero che voi lo scopriate insieme a me :)
Ringrazio già adesso chi leggerà e chi
vorrà lasciare il suo parere in una recensione :)
Per chi non mi conosce, ma vuole
rimanere aggiornata sulla storia o sulle altre che ho in corso, può trovarmi qui nel
mio gruppo Facebook ;)
E adesso vado via XD buona lettura :*
Sotto
un cielo coperto di stelle
Capitolo uno
Bella
Porto di Genova, 11 Febbraio 1887
Osservavo
con attenzione l’enorme nave, quasi in procinto di partire, che si andava
riempiendo con l’avanzare dei minuti. Uomini, donne, bambini piccoli, ragazzi e
fanciulle si apprestavano a salire sul mezzo di trasporto, carichi di bagagli,
aiutati da assistenti e marinai.
Anche
io stavo per imitarli, essendomi ormai rassegnata all’idea di partire.
Avevo
contato i giorni che mancavano alla partenza con timore, sperando che prima o
poi mio padre cambiasse idea e che decidesse di non affrontare più il lungo viaggio,
che stava quasi per cominciare, ma avevo sperato male perché mi trovavo lì, al
porto, davanti a quel mostro di ferro che mi metteva paura.
Non
ero mai salita su una nave, e adesso che stavo per farlo avrei tanto voluto
voltarmi e fuggire dal porto per tornare a casa mia… ma mio padre non me lo
avrebbe mai permesso.
Come
se stesse percependo i miei pensieri, sentii la sua mano poggiarsi con
gentilezza sulla mia spalla e cominciare ad accarezzarla. Mi girai verso di lui
e alzai il viso, incontrando i suoi occhi scuri e così simili ai miei. Lui mi
sorrise, e nel farlo i suoi folti baffi si arricciarono, quasi.
«Cosa
ne pensi, cara?» mi chiese.
«Penso
che ho paura a salire lì sopra…» pigolai, tornando a fissare di nuovo la nave.
«Non affonderà, vero?» aggiunsi, timorosa.
Lo
feci ridere grazie alla mia domanda. «No, non affonderà, tranquilla.» si chinò
di qualche centimetro, e sentii le sue labbra che sfioravano in un bacio i miei
capelli, per poi rialzarsi. «Vieni con me, gli zii ti vogliono salutare.» mi
disse poi.
«Gli
zii? Non sono ancora andati via?» un briciolo di speranza si insinuò nel mio
petto. Forse erano rimasti perché volevano convincere papà a non farmi partire…
«No,
prima di andare vogliono salutarti.» la sua risposta mise fine alle mie
speranze.
“Non voglio partire.” Ripetei dentro la
mia testa, lasciandomi guidare da mio padre in mezzo alla folla di gente che ci
circondava. Non volevo lasciare la mia casa, i posti in cui ero nata e
cresciuta, l’odore e il sapore della mia terra… non volevo partire per
raggiungere un paese a me sconosciuto, e abbandonare così la mia famiglia.
Il
luogo dove io e papà eravamo diretti, si chiamava Brasile. Conservavo ancora
qualche nozione di geografia, grazie alle sporadiche e simpatiche lezioni che
mio zio mi aveva regalato di tanto in tanto durante gli anni, e del Brasile
sapevo solo che si trovava nelle americhe, e che era grandissimo. Forse era tre
volte più grande dell’Italia, ma non ne ero così sicura. E sapevo anche che,
per raggiungerlo, dovevamo attraversare in nave il mare e l’oceano, e
affrontare giorni e giorni di viaggio. Papà mi aveva detto che forse ci avremmo
impiegato due settimane per arrivare lì, se non tre.
Era
un sacco di tempo per un viaggio, ed io non avevo mai viaggiato così tanto in
tutta la mia vita. A dire la verità, non avevo mai viaggiato in tutta la mia
vita. Avevo sempre visto e vissuto sulla mia pelle il sole e le campagne della
Liguria, e mai avrei voluto abbandonarle per andare a vivere in un luogo così
lontano ed estraneo… ma stavo per farlo, proprio in quel momento.
«Eccoli,
sono lì.» smisi finalmente di pensare, e seguii con gli occhi la direzione che
papà stava indicandomi con l’indice: a pochissima distanza da noi, sul
marciapiede sovraffollato del porto, c’erano i miei zii.
La
famiglia che stavo lasciando in Italia, per poter raggiungere una nuova terra.
«Zio
James, zia Victoria!» urlai, allontanandomi da papà per raggiungerli correndo.
Nel farlo urtai alcune persone, ma non mi fermai per scusarmi con loro.
Zio
James sorrise non appena mi vide, allargando le braccia ed invitandomi così a prendere
posto nel mezzo. Mi strinse forte una volta che gli fui vicina, ed io ricambiai
subito la stretta sentendo gli occhi che cominciavano a pungere. Era
inevitabile piangere, e non volevo assolutamente trattenermi.
Zio
James era il marito di mia zia Victoria, la sorella di mamma: erano gli unici
parenti, oltre a papà, che mi restavano. I miei nonni non c’erano più, così
come mia madre, che non avevo mai conosciuto. Papà da bambina mi aveva
raccontato che si trovava in cielo e che vegliava sempre su di me, e quando fui
più grande capii che lei era morta dandomi alla luce. In qualche modo mi
sentivo in colpa per la sua morte, nonostante quello che mi dicevano gli altri.
Ma non potevo farci niente.
Era
stata zia Victoria ad allevarmi, insieme a papà: lei mi aveva cresciuto come se
fossi stata sua figlia, ed io le volevo bene come se fosse stata la mia vera
mamma… e adesso mi dispiaceva da morire lasciarla e partire, soprattutto adesso
che era diventata da poco mamma di un bambino dolcissimo e stupendo. Mi si
stringeva il cuore, al pensiero che forse non avrei mai potuto conoscere meglio
e veder crescere con i miei occhi il mio piccolo cuginetto.
«Ehi,
raggio di sole! Non essere triste, sarà solo una separazione momentanea.» mi
promise zio, carezzandomi la testa.
Mi
scostai giusto quel tanto che bastava per poterlo guardare meglio in viso, che
rispetto al mio sembrava divertito, ma con un piccolo accenno di stanchezza.
«Verrete in Brasile anche voi, vero? Presto?» ci speravo davvero tanto, in
questo, perché saperli così lontani era terribile, ed io non volevo stare loro
lontana.
«Un
giorno, Bella, un giorno.» a rispondermi fu la zia, che si trovava accanto a
me, ed io non me ne ero affatto resa conto.
«Zia!»
sorrisi, e allungai una mano per stringere la sua, quella libera, e nel farlo
una lacrima mi scese sulla guancia.
«Non
piangere, Bella, sai che non devi.» mormorò lei, sorridendomi. Mentre la
osservavo bene notai che aveva gli occhi lucidi, prossimi al pianto. Anche se
non lo dava a vedere, era triste almeno quanto me.
«Ma
non voglio partire, se voi restate qui!» mi lamentai un’ultima volta, nonostante
sapessi che era soltanto l’ennesimo tentativo inutile.
«Vi
raggiungeremo il prima possibile, davvero. Ma guarda, io e tuo zio abbiamo una
cosa per te!»
Scacciando
le lacrime, mi scostai per dare a zio James la possibilità di muoversi e mi
avvicinai a zia Victoria, sorridendole. Lei ricambiò e mi accarezzò piano una
spalla prima di tornare a guardare suo marito, così la imitai anche io.
Zio,
divertito, mi stava porgendo un pacchetto avvolto da una carta marrone e mi
invitava a prenderlo, così lo feci e cominciai a rigirarmelo tra le mani. Non
immaginavo che avessero voluto farmi un piccolo regalo…
«È
un set per la scrittura. Abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere
e spedirci una lettera, di tanto in tanto…» mi spiegò lei.
«È…
è bellissimo, grazie.» mormorai. Non avevo ancora aperto il pacchetto, ma
sapevo che mi sarebbe piaciuto ugualmente, visto che già mi piaceva l’idea di
scrivere delle lettere e di spedirle a loro, magari ogni settimana.
«Ho
scelto bene, sapevo che ti sarebbe piaciuto!» commentò lo zio, pizzicandomi una
guancia. «Charlie! Mi raccomando, fateci sapere il prima possibile com’è andato
il viaggio…»
Lasciai
papà e zio parlare tra loro, e mi concentrai sulla quinta persona che si
trovava insieme a noi e che, in quel momento, stava dormendo beatamente tra le
braccia di sua madre, nonostante il baccano che c’era al porto. Avvolto com’era
nella copertina, riuscivo a scorgere solo una manina, il visino tranquillo ed i
pochi capelli castani di Riley.
Istintivamente
gli carezzai la piccola fronte e mi chinai per baciargliela. Mi sarebbe mancato
moltissimo, mi ero affezionata così tanto a lui in quei suoi pochi mesi di
vita. «È un bambino così bello…»
«Già,
è stupendo.» zia guardò suo figlio, innamorata persa. «Assomiglia a James, non
trovi?»
Ma
prima che potessi avere l’opportunità di rispondere, papà venne da noi e ci
interruppe. Mi guardò in maniera colpevole, sapendo com’era che la pensavo su
quel viaggio che non avevo la minima intenzione di cominciare.
«Tesoro,
è ora di andare.» mi disse mestamente.
Era
una delle poche frasi che non avrei mai voluto sentire, mai e poi mai. Annuii,
rimanendo in completo silenzio, e stringendo allo stesso tempo il pacchetto tra
le mani come se fosse in grado di darmi la forza che stavo cercando, e di cui
avevo un disperato bisogno.
Abbracciai
di nuovo mia zia, non trattenendo per nessun motivo le lacrime, prima di
tornare dallo zio e di lasciarmi stritolare dalla sua presa.
«Presto
saremo di nuovo insieme, è una promessa tesoro.» sussurrò zia, asciugandosi il
viso dalle lacrime.
«Ciao,
raggio di sole.» zio, abbracciando le spalle della moglie, mi lasciò un
buffetto sulla guancia e mi sorrise nuovamente.
Osservai
ancora per qualche istante i loro visi, tristi ma che cercavano di non darlo a
vedere, fino a quando papà non mi fece segno di andare con lui. Aveva già
recuperato i nostri bagagli, che consistevano in due valige di modeste
dimensioni, piene delle nostre cose, e con me che lo seguivo si incamminò di
nuovo verso il molo, dove c’era la nave che ci stava aspettando.
Prima
di salirci, mi girai di nuovo per vedere un’ultima volta i miei zii, ma di loro
non c’era più traccia: erano stati coperti dalla folla, e dietro di me non
c’erano altro che persone che stavano per intraprendere il mio stesso e lungo viaggio.
Con
le lacrime che mi scorrevano di nuovo copiose sul viso, e con i singhiozzi che
cercavo di trattenere, mi voltai e cominciai a percorrere la passatoia della
nave.
***
Ovunque
guardassi, l’unica cosa che riuscivo a vedere era il mare aperto.
Di
un blu che a tratti diventava quasi nero, il mare era l’unica cosa che ci
circondava: la terraferma non si scorgeva già più. E tutta quell’acqua, così
profonda e di cui avevo così tanta paura, mi faceva capire che la mia vita
stava per prendere una piega diversa rispetto a quella che avevo sempre visto e
vissuto.
E
questo cambiamento così improvviso mi spaventava a morte.
Avevo
il terrore di scoprire come fosse in realtà il luogo in cui stavo andando.
Sapevo, tramite le informazioni che papà aveva racimolato, che il Brasile era
una terra baciata dal sole e fertile, ricca di risorse, e dove le possibilità
di lavorare e di avere un tenore di vita migliore erano molto più alte,
rispetto a quelle che avevamo in Italia.
Lì,
purtroppo, le condizioni di vita non erano molto buone. Anche se avevamo la
terra da coltivare riuscivamo a stento a sostentarci, e prima di noi moltissimi
nostri amici e conoscenti erano già partiti in cerca di fortuna, chi negli
Stati Uniti e chi, come noi, in Brasile.
Papà
si era lasciato convincere a partire grazie ad un suo vecchio e caro amico, e
ormai erano anni che si trovava in quel paese. Io non lo avevo mai conosciuto,
e papà mi aveva raccontato che era partito insieme ai suoi genitori quando era
poco più di un bambino… ma si erano sempre tenuti in contatto, anche se le
lettere arrivavano a distanza di mesi, qualche volta anche anni.
Sapevo
anche che l’amico di papà era diventato ricco, e che adesso era il proprietario di
una vasta terra dove si coltivava caffè. Il caffè, a quanto sembrava, era la
coltura più importante e coltivata di tutto il paese.
E
io e papà, una volta arrivati lì, avremmo lavorato nella sua terra. E questa
era una delle poche cose che non sarebbero cambiate laggiù, perché sin da
quanto ricordassi io avevo sempre lavorato nei campi. A casa curavo l’orto,
raccoglievo la frutta e alcune volte lavoravo nelle vigne dei nostri vicini,
anche se non era il periodo della vendemmia.
Sospirai,
poggiando le mani sul parapetto in ferro della nave: erano ormai diverse ore
che mi trovavo lì, con il vento freddo che mi colpiva in viso e che mi
scompigliava i lunghi capelli, e che ogni volta mi faceva rabbrividire. Il
sole, alto nel cielo, non aiutava molto nello scaldarmi, ma dopotutto era ancora
il mese di Febbraio, ed era normale che facesse freddo.
Mi
ero allontanata da papà qualche minuto dopo la partenza, sentendo l’assoluto
bisogno di stare da sola e di sfogare tutta la tristezza che sentivo dentro al
petto, e tutte le lacrime che ancora non avevo pianto. Ma prima di farlo, avevo
riposto il pacchetto all’interno della mia valigia per paura che potesse
rovinarsi.
Avevo
aperto il regalo dei miei zii, spinta dalla curiosità nello scoprire quello che
si celava dietro quella carta. Era, come mi avevano spiegato, un set per la
scrittura: c’erano dei fogli dalla fattura pregiata e alcune buste da lettere dello
stesso tipo, che avrei utilizzato quando volevo spedire una lettera in Italia.
C’erano anche una boccetta di inchiostro e un pennino… ed era tutto così bello
e elaborato che capii che doveva essere costato molto.
Gli
zii dovevano aver fatto molti sacrifici per acquistarlo, per regalarlo a me, e
purtroppo non possedevano molto denaro.
Mi
strinsi nello scialle di lana che avevo sulle spalle, osservando la distesa di
acqua che sembrava non avere più fine. Si notava a malapena il punto in cui il
mare si univa al cielo. Eravamo partiti da pochissime ore, e già desideravo che
quel viaggio finisse. Due settimane sulla nave erano così lunghe, e volevo
disperatamente rimettere i piedi sulla terraferma.
Non
ero una grande amante dei viaggi via mare, e lo avevo già capito grazie a
queste prime ore di traversata.
«Ah,
Bella, sei qui.» ero ancora impegnata a contemplare il mare quando papà mi
raggiunse. Doveva aver pensato che fossi stata sola abbastanza a lungo da voler
desiderare un po’ di compagnia.
Annuii,
tracciando con le dita alcune linee indefinite sul parapetto. Mi girai,
osservando ad occhi bassi le braccia di papà che erano così vicine alle mie. Adesso,
lui era l’unica persona su cui potessi fare affidamento per qualsiasi cosa. Era
la mia unica ancora…
«Bello,
vero? Tutto questo mare…» mormorò, sorridendo, mentre scrutava attentamente
l’orizzonte. Abbassò lo sguardo e si accigliò quando notò che lo stavo
osservando. «Tesoro, hai pianto? Hai gli occhi molto arrossati.»
Subito
li strofinai con una mano, distogliendo lo sguardo dal suo. «Non sono riuscita
a trattenermi, papà.» sussurrai, talmente piano da credere che non mi avesse
sentita.
Subito
le sue braccia mi circondarono e mi strinsero contro il suo petto, e lo sentii
sospirare. «Bambina mia, so che per te è difficile…»
«E
allora perché siamo andati via?» domandai, forse ancora più piano di prima.
Papà
sospirò di nuovo. «Perché così abbiamo la possibilità di avere una vita
migliore, rispetto a quella che stavamo vivendo in Italia. Credimi, dispiace
anche a me essere andato via, ma voglio fare tutto quello che è nelle mie
possibilità per regalarti un futuro migliore.»
Sapevo
già che questa era una delle motivazioni, forse la più importante, che lo
avevano spinto a partire e a lasciare la nostra terra: la possibilità di darmi
tutto quello che in Italia invece faticava a donarmi, ed ero grata a lui per
tutti gli sforzi che faceva per me.
Alzai
il viso, guardandolo di nuovo. «Ma papà, io sono felice, anche con le poche
cose che abbiamo…»
«Lo
so, Bella, lo so… ma sembrerei egoista, se volessi regalare alla mia bambina
tutto quello che desidera e che invece non può avere? Una vita bella, agiata,
piena e soddisfacente…»
«Oh,
papà!» lo strinsi forte, soffocando un singhiozzo sul suo petto.
Restammo
per un po’ in silenzio, estranei a tutto il resto, concentrandoci su quel
momento così intenso ed importante. Scostai il viso per guardare di nuovo il
mare aperto, scoprendo che era diventato ancora più blu di prima. La luce del
sole faceva brillare tutta la superficie come se fosse uno specchio, uno
specchio enorme e quasi senza fine.
«Papà…»
«Sì,
tesoro?» mi osservò, aspettando che continuassi a parlare.
Battei
un paio di volte le palpebre, concentrandomi sui suoi occhi scuri. «Il signor
Carlisle ci aiuterà?» chiesi.
Carlisle
Cullen, era il nome dell’amico d’infanzia di papà. Lo avevo sentito nominare
così tante volte che ormai era come se lo conoscessi da sempre, anche se non lo
avevo mai visto di persona e non sapevo che aspetto avesse. Ma ogni volta che
pensavo a lui, e al suo nome, vedevo nella mia mente un uomo panciuto e ben vestito,
con i capelli grigi e la pelle ambrata, come chi è abituato a trascorrere ore e
ore sotto il sole cocente. Ed in più lo immaginavo come una persona gentile,
perché solo chi è gentile e altruista poteva aiutare un vecchio amico che non
vedeva più da moltissimi anni.
«Sì,
tesoro, ci aiuterà.» mi rispose, baciandomi i capelli. «E’ stato lui a propormi
di partire, e non è la prima volta che lo fa. Sono anni che ci prova, e ancora
mi stupisco che non abbia perso la pazienza dopo tutti i miei rifiuti!» rise,
scuotendo la testa.
Mi
scappò un sorriso. «E alla fine hai accettato…»
«Sì,
ho accettato. Credimi, non so che darei per vedere la faccia che ha fatto il
vecchio Carl quando ha ricevuto la mia lettera!» rise di nuovo. «La sua
risposta è arrivata prima del previsto, credo che non volesse perdere tempo e
comunicarmi il prima possibile che mi avrebbe aspettato, e che voleva che
partissi il prima possibile.»
Non
dissi nulla, presa com’ero ad ascoltarlo parlare. Si capiva benissimo che lui e
il suo amico erano ancora molto legati e che per loro quel ricongiungimento
significava molto. E capii che ero stata egoista ad oppormi a quel viaggio,
solo perché non volevo lasciare gli zii e la nostra casa… non avevo capito che
papà ci teneva così tanto, e che per lui significava molto raggiungere il
Brasile.
«Sai,
ci siamo sempre raccontati tutto, grazie alle lettere. Io ho detto a lui che mi
sono sposato e che ho avuto te, la mia bambina speciale… e Carlisle mi ha raccontato
di aver trovato una moglie meravigliosa che le ha donato tre figli altrettanto
meravigliosi. Parole sue!»
«Tre
figli?» non avevo mai considerato quell’aspetto della vita di Carlisle.
«Sì,
tre figli. I maschi sono i più grandi, e sono gemelli, ma a quanto sembra non
si somigliano per niente! E poi c’è la più piccola, ha la tua età più o meno…
potrebbe diventare tua amica.»
Un’amica…
a questo non avevo proprio pensato. «Sì, penso che potremmo diventarlo.»
«E
poi Carlisle mi ha detto che lì, in Brasile, l’inverno non esiste per niente!
C’è sempre il sole, e fa sempre caldo… non ha nevicato neanche una volta, da
quando lui si trova lì. E questo particolare penso che ti piacerà molto, so che
non ami molto il freddo.» mi pizzicò il naso, ridendo.
Risi
insieme a lui.
Dopotutto,
da come me lo stava descrivendo, non sembrava così male vivere in Brasile.
***
Edward
Fazenda ‘Paraíso’, 20 febbraio 1887
La
vita nella fazenda era, come sempre, movimentata e frenetica.
Il
lavoro era sempre molto, sia se si svolgeva nei campi di caffè e sia se si
svolgeva all’interno dei magazzini, dove veniva stipato il raccolto; una buona
parte del lavoro si svolgeva anche in casa e nei suoi paraggi, grazie all’orto
e al piccolo pollaio che erano situati lì.
Non
si poteva certo dire che morivamo di noia: c’era sempre così tanto da fare da
mantenersi impegnati per la gran parte del giorno. Specialmente durante questi
ultimi giorni, dove il lavoro si era intensificato, ma non a causa delle
piantagioni, o per il raccolto… per quello, era ancora troppo presto.
Era
per via di una notizia, che papà aveva comunicato a me e a tutta la famiglia, e
che ci aveva colti tutti alla sprovvista: stavano per arrivare due ospiti alla
fazenda, due ospiti che avrebbero vissuto insieme a noi a tempo indeterminato.
A
quanto sembrava, il vecchio amico di papà, un italiano di nome Charlie Swan,
aveva finalmente deciso di accettare il suo invito e di venire a vivere in
Brasile. Con lui sarebbe arrivata anche sua figlia, una ragazza di nome
Isabella.
Lui
ci aveva spiegato che per loro vivere in Italia, la loro patria, nonché quella
di mio padre, stava diventando sempre più difficile, e che speravano di
cominciare una nuova vita nel nuovo continente. Papà si era offerto di
ospitarli fino a quando non si sarebbero ambientati e sistemati, e nel
frattempo avrebbero lavorato insieme a noi nella fazenda.
Così,
di lì a poche settimane avremmo avuto due nuovi ospiti in casa, e due nuovi
aiutanti, cosa che non dispiaceva: la fazenda era grande, il lavoro molto, e
quattro mani in più facevano sempre comodo. Però, a differenza di papà, io non
ero molto convinto di questo improvviso cambiamento.
Avevo
come il presentimento che tutto questo non fosse una buona idea. Certo,
rispettavo mio padre e sapevo che il suo gesto di generosità, rivolto al suo
amico di cui ci aveva così tanto parlato durante gli anni, era fatto in buona
fede… ma non riuscivo comunque a convincermene.
Forse,
una volta aver conosciuto Charlie Swan e sua figlia, sarei finalmente riuscito
a cambiare idea… ma per adesso, non ci riuscivo.
«Edward,
posso?»
Alice,
mia sorella, mi raggiunse sul portico di casa, dove io mi ero rifugiato per
sfuggire un po’ ai lavori nei campi e per godere di un po’ di riposo. Sapevo
che non sarebbe durato per molto, però: una decina di minuti, quindici al
massimo, e poi sarei scappato di nuovo via.
Mi
voltai verso di lei e le sorrisi, facendole un breve cenno per invitarla ad
avvicinarsi. Lei, sorridendo subito, si staccò dalla parete dove si era
poggiata e si sistemò a sedere accanto a me, su uno dei gradini del portico.
Le
carezzai i capelli scuri, divertito; mi piaceva sempre molto stare in compagnia
di mia sorella. Era la piccola di casa, e l’unica figlia femmina, la più
coccolata e viziata… ma nonostante questo, era dolce e sensibile. Tutto il
contrario di molte altre ragazze della sua età.
«Che
cos’hai, lì?» le chiesi, notando il mucchietto di stoffe bianche che si era
sistemata in grembo.
Scrollando
le spalle, gettò ad esse una veloce occhiata. «La mamma mi ha chiesto di
ricamare questi asciugamani… sono per Isabella.»
Aggrottai
le sopracciglia; dal modo in cui mi aveva risposto, sembrava che quel compito
non le piacesse affatto. «Non ti va di ricamarli?» le domandai allora.
«No,
non è per questo!» mi rispose subito, agitandosi. «Vedi, è che mi sembra strana
questa storia del ricamare gli asciugamani per Isabella, intendo… voglio dire,
mamma non mi aveva mai chiesto di farlo prima, anche quando avevamo degli
ospiti in casa.»
«Beh,
forse vuole solo essere gentile. Isabella e Charlie, dopotutto, vivranno
insieme a noi per un bel periodo.»
Alice,
dopo che ebbi terminato di parlare, abbassò lo sguardo e cominciò a strofinare
le dita sulle stoffe bianche, come se fosse sovrappensiero. Una lunga ciocca di
capelli corvini, sfuggiti al nastro che teneva legato sui capelli, le ricadde
davanti al viso e lei lo scacciò via, quasi scocciata.
«Ma
tu che ne pensi del loro arrivo?» mi chiese allora, voltandosi di scatto verso
di me. «Non sarà stata una mossa… troppo azzardata?»
Scossi
la testa, poggiando le mani dietro di me e chinandomi all’indietro. «Non credo.
Vedi, Alice, il gesto di papà è stato molto altruista e generoso… ha deciso di
aiutare e di ospitare in casa sua il suo vecchio amico d’infanzia e sua figlia,
in pochi al posto suo lo avrebbero fatto. E poi ha detto che sono delle brave
persone, e mi fido del suo giudizio… non penso che sia stata una scelta
sbagliata.» continuai a fissare mia sorella, mordendomi l’interno della
guancia. «Isabella ha la tua età, più o meno… potreste diventare buone amiche,
anche papà la pensa allo stesso modo.»
Le
guance di Alice si imporporarono tutto d’un tratto, e un piccolo sorriso le
animò il viso; diventava ancora più tenera, quando si imbarazzava. «Non ho mai
avuto un amica…» mormorò, grattandosi una guancia.
«Vedi?
Questa è l’occasione giusta per rimediare!» scherzai, e tornai a sedermi per
abbracciarla e per lasciarle un piccolo bacio sulla tempia. «Portai aiutarla ad
ambientarsi qui, e per insegnarle la nostra lingua… altrimenti sarà un po’
difficile per voi parlare, non trovi?»
Una
piccola risata le uscì dalle labbra. «Credo proprio di sì…»
Le
sorrisi di nuovo, le lasciai una carezza sulla spalla e, infine, mi alzai: era
arrivato il momento di tornare di nuovo ai miei doveri, e al lavoro nei campi.
«A più tardi, sorellina.» la salutai.
Lei
sorrise e, restando in silenzio, mi salutò agitando la mano prima di gettarsi a
capofitto nel suo compito di ricamo. Sembrava più tranquilla, dopo la nostra
piccola chiacchierata.
***
Bella
27 febbraio 1887
Un
nuovo giorno di viaggio era appena cominciato. Era il sedicesimo, per essere proprio
precisa.
Durante
questi giorni avevo cominciato a scrivere una sorta di diario personale, dove
annotavo tutto quello che accadeva sulla nave e tutte le varie sensazioni che
provavo mano a mano che il viaggio continuava. Scrivevo tutto su un vecchio
quaderno che avevo trovato tra i miei bagagli, e che non ricordavo affatto di
aver preso. Ma alla fine ero stata contenta di averlo trovato: scrivere mi teneva
compagnia per la maggior parte del tempo.
Non
che la compagnia mancasse, sulla nave. Eravamo più di mille persone, tutte
dirette in Brasile, e c’erano molti miei coetanei. Spesso mi ritrovavo a
parlare con alcune ragazze, che erano poco più grandi di me, ma alla fine l’età
non significava molto quando ci ritrovavamo tutti là sopra, con gli amici e i
parenti lontani.
In
questi giorni, tutti ci eravamo impegnati e avevamo cominciato ad esercitarci
con il portoghese, la lingua che si parlava in Brasile, ma nonostante tutto io
ero riuscita ad imparare solo le basi e le frasi che venivano utilizzate più
spesso. Papà mi aveva rassicurata, dicendomi che una volta arrivati avrei avuto
tutto il tempo di impararla meglio e di interagire con le persone del posto per
capirla alla perfezione.
Sperai
che avesse ragione.
E
ormai non mancava più così tanto al nostro arrivo… anzi, mancava davvero poco.
Il clima invernale ci aveva pian piano abbandonato e adesso intorno a noi si
respirava aria di primavera, ma poteva anche passare per un principio di
estate. Faceva caldo, e ben presto il mio caldo scialle di lana era stato
riposto nella valigia, insieme agli abiti più pesanti, sostituiti da quei
abitini leggeri che indossavo durante il periodo estivo in Italia.
Papà
aveva ragione: in Brasile non sembrava essere davvero inverno, e forse non
avrei mai più risentito sulla mia pelle quel freddo intenso e pungente che
odiavo tanto, e che rendeva più cupi e tristi i paesaggi durante quei mesi
invernali.
Pian
piano avevo accettato il fatto di aver lasciato in Italia la mia vecchia vita e
di starne per cominciare una nuova in Brasile, ma la tristezza, concentrata
tutta nel mio cuore, c’era ancora. Ero triste perché avrei tanto voluto avere
anche gli zii insieme a me e a papà, come una famiglia. Le famiglie non devono
dividersi per nessun motivo al mondo, e adesso era come se sentissi che avevo
lasciato una parte importante di me, una parte che non potevo dimenticare o
rimpiazzare facilmente, su due piedi.
Ma
mi avevano promesso che presto sarebbero partiti anche loro e ci avrebbero
raggiunto, che la nostra era solo una separazione momentanea… questo pensiero
mi rendeva meno triste, ma non del tutto felice.
Smisi
di annotare gli ultimi appunti sul mio diario improvvisato, e alzai la testa
per puntare gli occhi lontano, verso l’orizzonte. Il sole forte e brillante mi
costrinse a portare una mano sulla fronte per ripararmi da tutta quella luce.
Subito, notai una cosa che prima non c’era e che mi incuriosì molto… ma era
così lontana che non riuscivo a capire bene cosa fosse.
Mi
alzai il piedi, e continuando a guardare verso quel punto lontano mi incamminai
lungo il ponte della nave. Volevo raggiungere i membri dell’equipaggio, che
spesso si riunivano sempre in gruppo nei pressi della prua e con cui avevo
parlato spesso, in cerca di informazioni sulla durata del viaggio o su altro.
Erano sempre gentili, e neanche una volta avevano mostrato fastidio per le mie
domande, che ponevo più spesso di quanto avrei voluto in realtà.
Mi
strinsi il piccolo quaderno contro il petto e sospirai, continuando a
camminare. Accelerai il passo quando intravidi la figura di Antonio, uno dei
sottoufficiali con cui avevo stretto una debole amicizia. Stava fumando una
sigaretta, da solo, e sperai davvero di non disturbarlo.
«Antonio?»
lo chiamai piano, mentre mi avvicinavo.
Lui
si voltò verso di me come mi sentì, e mi sorrise. La sua barba grigia
nascondeva quasi del tutto le labbra, ma si vedeva benissimo che non era
scocciato dal mio arrivo. «Ciao Isabella!» mi salutò, e gettò via la sigaretta
anche se sembrava essere stata accesa da poco. «Non ti avevo ancora visto,
oggi… va tutto bene?»
Arrossii,
annuendo. «Sì, va tutto bene, grazie.»
«Ne
sono felice.» Antonio mi sorrise di nuovo. «Sei venuta per sapere come procede
la navigazione?»
Risi:
ormai sapeva alla perfezione cosa mi spingesse a cercare lui, o i suoi
colleghi. «Sì, ma volevo chiederti anche un'altra cosa…»
«Ti
ascolto, dimmi tutto.»
Mi
schiarii la gola. «Ecco… ho notato che laggiù si scorge qualcosa, ma non riesco
a capire cosa sia, di preciso.» gli spiegai, e allungai un braccio per
indicargli il punto preciso. «Vedi? Laggiù.»
Antonio
seguì i miei movimenti, poggiando le mani sul parapetto. «Quello lì, dici?» al
mio cenno di assenso, continuò. «Quello è il Brasile, Bella. Siamo quasi
arrivati.»
Sgranai
gli occhi per la sorpresa. Eravamo quasi arrivati! Avevo atteso così tanto
questo momento che adesso quasi non ci volevo credere. «Siamo quasi arrivati?
Davvero?» domandai, stupita.
Lui
rise, vedendo la mia reazione. «Sì, ormai manca davvero poco. Un paio d’ore,
massimo tre, e arriveremo al porto di San Paolo.» mi sorrise, avvicinandosi a
me e lasciandomi un leggero pizzico sulla guancia. «Ti consiglio di andare a
sistemare le tue cose, piccina.»
«Grazie
molte, Antonio, corro subito!» strinsi lievemente la sua mano e poi scappai
via, contenta per quello che avevo saputo.
Eravamo
quasi arrivati! Nel giro di poche ore sarei scesa dalla nave e avrei visto con
i miei occhi la nuova terra che mi avrebbe adottata, e in cui avrei vissuto da
quel momento in avanti.
Corsi
lungo il ponte per tornare dagli altri passeggeri, che si trovavano poco
lontano. Dovevo assolutamente trovare mio padre e dirgli che presto saremmo
arrivati in Brasile, e dal suo amico che ci stava aspettando da così tanto
tempo.
Ben
presto mi ritrovai circondata dai miei connazionali, che cantavano, ballavano e
che si divertivano come solo loro sapevano fare. Erano sempre così allegri e
felici, nonostante tutti i problemi e i dispiaceri che la vita aveva dato loro
da affrontare.
Riuscii
a scorgere mio padre, impegnato a parlare insieme a un gruppo di signori con
cui aveva stretto amicizia durante quei giorni, e lo raggiunsi ignorando i
canti e i balli che mi circondavano. Mi buttai addosso a lui, abbracciandolo.
«Ehi,
Bella!» protestò lui bonariamente, facendo ridere tutti gli altri.
Sorrisi,
alzando lo sguardo. «Ciao papà!»
«La
piccola Isabella va sempre di fretta!» commentò il signor Rodolfo, ridendo.
«Già,
sempre di fretta. Devi dirmi qualcosa, tesoro?» papà scrutò attentamente il mio
viso, in cerca di informazioni.
Annuii.
«Ho appena parlato con Antonio, il sottoufficiale… siamo quasi arrivati, papà!
Manca pochissimo.»
Le mie
parole bastarono per far accendere negli occhi di mio padre una nuova luce,
brillante, una luce che non riuscivo a scorgere più da moltissimo tempo.
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo2
Salve a tutte!
Ecco qui il nuovo capitolo di “Sotto
un cielo coperto di stelle” :D avrei voluto postarlo oggi pomeriggio ma EFP
faceva i capricci, quindi ho preferito rimandare :)
Sono super contenta di come è
cominciata questa storia, e anche delle 6 recensioni che mi avete
lasciato! Non avevo mai ricevuto 6 recensioni in un prologo di una
storia *-* – mi
entusiasmo con poco, loso, ma voi non fateci troppo caso XD
Adesso vi lascio leggere, ci sentiamo
in basso ;)
Sotto
un cielo coperto di stelle
Capitolo due
Bella
Porto di San Paolo, 27 Febbraio 1887
Mi
sembrava di star rivivendo lo stesso momento di due settimane prima, solo che
le parti si erano invertite. Se prima avevamo lasciato il porto per salire su
di una nave, adesso stavamo scendendo da essa per raggiungere il porto. C’era
una sola e unica differenza, in tutto ciò: non c’era nessuno che ci stava
salutando, o che stava aspettando il nostro arrivo.
Come
mi aveva assicurato Antonio qualche ora prima, eravamo finalmente arrivati alla
fine del nostro lungo viaggio ed avevamo raggiunto San Paolo, una delle più
grandi e più importanti città del Brasile. Non avrei saputo dire se fosse una
città bella, oppure se non mi piacesse: fino a quel momento avevo visto solo il
porto dalla nave, ma ero sicura che una volta scesa avrei visto meglio il nuovo
posto in cui ero appena arrivata.
Rimanendo
accanto a mio padre, carichi dei nostri bagagli, avevo atteso il nostro turno
di scendere e non avevo smesso per un istante di guardarmi intorno. Non c’era
nulla di veramente interessante da vedere e ne ero consapevole, ma non ne
potevo fare a meno. Sentivo molti parlare in portoghese, e molte delle parole
che usavano non riuscivo a capirle…
Smisi
di girare la testa di qua e di là solo quando vidi un uomo dalla carnagione
ambrata, in completo elegante, venire incontro a me e a mio padre: stringeva un
cappello scuro tra le mani e sembrava a disagio. Mi chiesi subito chi potesse
essere.
«Scusatemi, siete per caso voi il senhor
Charlie Swan?» l’uomo parlò in portoghese, ma rispetto a poco prima riuscii
a capire cosa stesse dicendo. Quella, era una delle poche frasi complete che
avevamo imparato durante il viaggio.
«Sì, sono io.» rispose papà, usando la sua
stessa lingua.
L’uomo
rivolse a me e a papà un grande sorriso. «Meno male! Ho chiesto a moltissime
persone, e finalmente sono riuscito a trovarvi! Il mio nome è Marcelo, piacere
di conoscervi.»
«Piacere
mio, Marcelo.» papà strinse la mano che Marcelo gli stava porgendo. «Lei è mia
figlia, Isabella.» aggiunse infine.
«Piacere,
signorina. Lieto di conoscerla.» mi sorrise con calore dopo che mi ebbe baciato
il dorso della mano, una riverenza che nessuno mi aveva mai concesso prima di
allora. «Il senhor Carlisle vi sta
aspettando poco lontano da qui, mi ha chiesto di venire a cercarvi. Venite con
me…»
Intimorita,
al pensiero che a pochissima distanza da noi ci fosse Carlisle, il grande amico
di papà, mi strinsi nello scialle come per cercare calore, anche se non era
necessario: lì faceva davvero molto caldo.
Io
e papà seguimmo Marcelo, che si era offerto di prendere la mia valigia, lungo
il porto, e presto entrammo in un grande stanzone pieno di persone; ne
riconobbi alcune, che fino a poco prima si trovavano sulla nave insieme a noi.
Continuammo
a camminare. Presa com’ero a guardarmi intorno, incuriosita stavolta, mi fermai
solo quando sentii che mi ero scontrata contro qualcuno; quel qualcuno era mio
padre.
«Oh
papà, scusami!» mi affrettai a dire subito.
Lo
feci ridere. «Non preoccuparti Bella, non preoccuparti. Non è successo nulla…»
mi lanciò una rapida occhiata divertita prima di riprendere a camminare.
Finalmente
raggiungemmo il fondo dello stanzone, dove c’erano meno persone, ma quelle che
c’erano mi sembrarono, a prima vista, persone benestanti. Erano tutte vestite
bene, alcune anche più di Marcelo.
Una
di quelle persone, vestita con un semplice completo beige, si era distaccata
dalle altre e stava camminando dalla nostra parte. Si tolse il cappello, dello
stesso colore dell’abito, rivelando dei capelli biondi molto chiari pettinati
all’indietro. Il sorriso emozionato che ci stava mostrando indicava che stava
aspettando proprio noi.
Quindi…
quel signore doveva essere senza dubbio Carlisle Cullen.
«Senhor Carlisle, li ho trovati!» lo
informò Marcelo non appena gli fummo vicini.
Carlisle,
senza smettere di sorridere, annuì alle parole di Marcelo ma non si voltò per
guardarlo: era impegnato a guardare mio padre. Notai anche che aveva gli occhi
lucidi.
«Charlie,
amico mio!» disse, con voce pacata e intrisa di commozione. Si avvicinò a mio
padre e lo avvolse in un caldo abbraccio, che venne ricambiato quasi subito.
«Quanto tempo è passato!» mi accorsi solo in quel momento che stava parlando in
italiano.
Sorrisi,
stringendomi nello scialle. Stavo assistendo alla riunione di due grandi amici
che la vita, per vari motivi, aveva diviso forse troppo presto. Papà mi aveva
detto tantissime volte che erano soltanto dei bambini quando Carlisle partì e
lasciò L’Italia insieme alla sua famiglia. Era… bello, vedere che dopo tanti
anni la loro amicizia e il loro affetto era rimasto immutato.
«È
una gioia vederti di nuovo, Carl.» sussurrò papà.
«Anche
per me, non sai quanto.» i due uomini smisero di abbracciarsi e si sorrisero,
anche se continuarono a restare vicini e a ridacchiare di tanto in tanto. Mi
avvicinai a papà e gli carezzai una spalla, in un gesto di affetto, e lui
subito coprì la mia mano con la sua mentre con l’altra si strofinava gli occhi.
Carlisle
mi notò e mi sorrise calorosamente. «Charlie, lei è tua figlia?» domandò poi
rivolgendosi a papà.
«Sì,
è mia figlia. Isabella.»
«Isabella…
un bellissimo nome italiano.» Carlisle mi porse la mano e non appena la presi
con la mia mi fece un baciamano, come aveva fatto poco prima Marcelo. «Sono
davvero molto contento di conoscerti, Isabella.»
Arrossii,
annuendo. «Il piacere è tutto mio, signor Carlisle.»
Aggrottò
le sopracciglia. «Non chiamarmi ‘signore’ cara, non ce n’è affatto bisogno.»
ridacchiò. «È davvero una ragazza deliziosa, Charlie.» commentò.
«Non
sei il primo che lo nota, Carl.»
Carlisle
sorrise di nuovo. «Bene. Prima di andare via dobbiamo attendere ancora qualche
minuto. Dobbiamo prima registrare il vostro arrivo e firmare qualche documento,
me lo hanno spiegato prima… poi possiamo andare a casa. Esme è impaziente
all’idea di conoscervi!»
Esme
era la moglie di Carlisle, se non ricordavo male. E l’idea di conoscerla,
pensai, piaceva molto anche a me.
***
Terminato
il processo di registrazione e tutte le altre questioni, a cui non avevo
mostrato particolare attenzione, per essere onesta, eravamo stati liberi di
lasciare il porto. Da quel momento in avanti, potevo dire tranquillamente che
stavo per cominciare la mia nuova vita da brasiliana! Mi divertiva vedere la
situazione in quel modo.
Marcelo,
seguito a breve distanza da noi e da Carlisle, ci aveva condotto verso una
carrozza e, dopo averci fatto salire e dopo aver caricato le nostre valige,
avevamo lasciato il porto.
Non
avevo smesso un secondo di guardarmi attorno, spinta dalla curiosità morbosa di
vedere con i miei stessi occhi come fosse la città in cui ero appena arrivata.
Mi piaceva moltissimo, così piena di vita e di allegria. Ovunque guardassi
c’era un particolare che mi spingeva a scoprire qualcosa in più.
Ero
così impegnata a guardare le strade, le case, i negozi e le persone che
riuscivo a stento a prestare attenzione a quello che si stavano dicendo papà e
Carlisle. Anzi, forse era meglio dire che non li ascoltavo per nulla. Era come
se mi fossi rinchiusa in uno spazio tutto mio, dove non c’era niente e nessuno che
riuscisse a disturbarmi.
«Bella,
mi stai ascoltando?»
La
voce di papà mi fece sussultare e voltare verso di lui. Spaesata com’ero, non
ero riuscita a capire cosa fosse successo. «Che… che cosa c’è?» chiesi, un po’
stupidamente.
«Non
mi stavi ascoltando, vero?» domandò, riprendendomi bonariamente.
Arrossii.
«Scusami, è solo che… che mi sono distratta…»
Carlisle,
che era seduto di fronte a noi sulla carrozza, rise e si sporse per carezzarmi
gentilmente una mano, che tenevo poggiata sul ginocchio. «È perfettamente
comprensibile, mia cara. Ti piace la città, vero?»
Annuii,
imbarazzata.
«Stavo
appunto parlando di questo con tuo padre. Staremo in città soltanto per oggi,
nella casa di mia suocera, poi domani raggiungeremo in treno la fazenda dove viviamo.»
«Fazenda?» chiesi, confusa. Era una delle
tante parole portoghesi che ancora mi erano estranee.
«Puoi
anche chiamarla ‘fattoria’, Bella. È li che viviamo, e sempre lì coltiviamo il nostro
caffè. Sono sicuro che ti piacerà. So che ti piace molto la campagna, me lo ha
raccontato tuo padre…»
«Beh,
ho sempre vissuto in campagna… e ho imparato ad apprezzarla, con il tempo.»
«Spero
tanto che riuscirai ad apprezzare anche la nostra, di campagna, mia cara.»
Carlisle sorrise. «Non sarà come essere in Italia, lo ammetto… lì le cose sono
molto diverse, o almeno lo erano molti anni fa, prima che venissi a vivere in
Brasile. Però è un bellissimo paese, questo. Ci si abitua presto a viverci.»
«Sono
sicuro che sarà così, Carl.» disse papà. Mi abbracciò, passandomi gentilmente
il braccio lungo le spalle. Sorridendo, ricambiai il suo gesto e poggiai la
testa sulla sua spalla, sospirando.
«Non
appena arriveremo a casa potrete riposarvi. Esme stava preparando le vostre
camere quando sono uscito, ormai deve aver finito…» Carlisle si voltò e osservò
la strada, sorridendo. «E noi siamo quasi arrivati! Manca pochissimo.»
Alle
sue parole, alzai la testa e mi misi a guardare anche io fuori della carrozza:
notai subito che dovevamo trovarci in una zona della città molto ricca, benestante;
le case che riuscivo a vedere erano tutte belle e ben curate, circondate da
giardini altrettanto ben curati. Alcuni avevano anche delle piccole fontane…
La
carrozza si fermò poco dopo, davanti a una casa che a prima vista mi sembrò più
bella di tutte le altre. Era… enorme, con colonne bianche davanti alla porta di
ingresso e una balconata, al piano superiore, nello stesso e identico stile. La
facciata era tutta sui toni del bianco, e quel colore le donava eleganza e
raffinatezza.
Il
giardino, invece, rispetto alla casa era piccolo, ma a parte quel particolare
era comunque carino. C’erano delle piccole siepi tutt’attorno alle ringhiere
che lo delimitavano e lungo il vialetto che portava all’entrata, senza contare
le piante di rose tutt’intorno alla casa… o almeno, a me da quella distanza
sembravano rose.
«Che
bella casa.» mormorai, ancora impegnata ad osservarla.
Carlisle
rise. «Qui abita la mia suocera, Bella. Dovresti dirlo anche a lei, sono sicuro
che apprezzerà. Vieni, ti aiuto a scendere…» dopo essere sceso dalla carrozza
mi porse la mano, aiutandomi a scendere e a poggiare i piedi sul marciapiede.
Marcelo
scaricò le nostre valige e ci precedette, aprendoci il cancello e facendoci
entrare nel giardino. Carlisle fece passare me e papà per primi, indicandoci la
porta di ingresso e guidandoci attraverso il giardino fino a raggiungerla. Era
buffo, ma io in tutto quel tempo non potei fare altro che… guardarmi intorno. Sembrava
che in quella giornata ero destinata a fare nient’altro che quello.
Ma
c’erano così tante cose da vedere, ed io ero curiosa di scoprirle tutte e nel
più breve tempo possibile.
E
dopo aver studiato per bene il giardino, entrai in casa. Già l’ingresso mi fece
capire che la proprietaria doveva essere una persona ricca, molto ricca. I
pavimenti in legno, lucidati alla perfezione, e una cassettiera in noce
sormontata da uno specchio dalla cornice dorata mi colpirono moltissimo. E
alzando gli occhi verso il soffitto bianco, vidi un piccolo lampadario di
cristallo.
«Beh,
eccoci qui.» Carlisle si tolse il cappello dalla testa e lo poggiò sulla
cassettiera, spostandosi lungo il corridoio d’ingresso. «Esme, tesoro, siamo
qui!» chiamò successivamente.
Sentii
subito alcuni passi affrettati e leggeri venire verso di noi, e qualche secondo
dopo vidi arrivare una donna, vestita elegantemente, che si avvicinò a
Carlisle. Lui, dopo averle sorriso, le prese le mani e le baciò una guancia.
«Tutto
bene, tesoro?» le chiese dolcemente.
Esme,
ridendo, annuì. «Sì, tutto bene. Stavo leggendo un libro mentre vi aspettavo,
ma a dire la verità mi stavo annoiando molto.» si voltò, guardando verso il
punto in cui ci trovavamo ancora io e papà, insieme a Marcelo, e strabuzzò gli
occhi. «Sono loro?» domandò stupita.
«Sì,
cara. Loro sono Charlie Swan, il mio vecchio amico di cui ti ho tanto parlato,
e sua figlia Isabella.» le spiegò Carlisle, mentre si avvicinava a noi e faceva
avvicinare a sua volta anche Esme.
Potei
osservarla meglio da vicino, così. Esme era una bella donna, con i lineamenti
del viso delicati e davvero molto dolci; ogni volta che sorrideva, le si
formavano sulle guance delle piccole fossette. Aveva gli occhi verdi e i
capelli castano chiaro, che in quel momento erano raccolti e tenuti sulla
sommità della testa in un morbido chignon.
«Charlie,
non sai quante volte mio marito mi ha parlato di te! Sono felicissima di
incontrarti, finalmente.» disse emozionata, rivolgendosi a papà. «Scusami, ma
il mio italiano non è molto buono!» rise nervosamente, arrossendo sulle guance.
«No,
è perfetto. Siete molto brava, Esme. Lieto di conoscerla.» rispose lui,
chinando la testa in segno di saluto.
Sempre
sorridendo, Esme si voltò verso di me e, dopo essersi avvicinata, si sporse per
abbracciarmi. Ricambiai timidamente il suo gesto, dato che non me lo aspettavo.
Era una persona così gentile… cominciava già a piacermi soltanto alla prima
impressione, proprio come era successo precedentemente con Carlisle.
«Benvenuta,
piccolina.» la sentii sussurrare mentre continuava tenermi stretta nel suo
abbraccio. Quando si allontanò, mantenne le mani ferme sulle mie spalle e mi
sorrise calorosamente. «Stai bene? Hai l’aria stanca.»
«È
per il viaggio…» mormorai, sentendomi un po’ in soggezione nel risponderle.
«È
comprensibile, cara. Perché non andiamo a rinfrescarci un po’, ti va? Charlie,
vieni anche tu.» propose Esme, comprensiva e sempre molto gentile.
«Certo,
andate entrambi. Fate con calma: vi date una rinfrescata, riposate un po’…
possiamo rivederci tranquillamente per l’ora di cena.» aggiunse Carlisle, che
nel frattempo si era avvicinato a sua moglie e le aveva cinto le spalle con un
braccio.
***
Esme,
impeccabile nel ruolo di padrona di casa, ci fece salire al piano di sopra e ci
mostrò le stanze che avremmo occupato per quella notte; non di più, perché da
quello che avevo capito la mattina dopo avremmo lasciato tutti insieme la città
per raggiungere la fazenda dove viveva la famiglia Cullen. Dopodiché, grazie a
Anita, la governante che lavorava per la madre di Esme, aiutò me e papà ad
accompagnarci nei bagni e a fornirci abiti puliti e tutto quello di cui avevamo
bisogno per sistemarci.
Mi
imbarazzai moltissimo per tutte le premure e le attenzioni che mi rivolsero.
Abituata com’ero a fare tutto da sola, a casa, ritrovarmi in un bagno che non
era il mio, assieme ad Esme che sistemava la biancheria pulita su di uno
sgabello e con me immersa fino al collo nella vasca da bagno, era una gran
bella differenza.
Non
ricordavo nemmeno più quando era stata l’ultima volta che qualcuno mi aveva
vista nuda… sicuramente dovevo essere ancora piccola, e con me doveva essere
presente senza dubbio zia Victoria.
Esme
molto probabilmente capì il mio imbarazzo, perché mi sorrise gentilmente e,
sempre molto gentilmente, uscì dal bagno e mi lasciò da sola, assicurandosi che
avessi tutto quello che mi serviva e che la avessi chiamata se avessi avuto
bisogno di aiuto.
Ma
non ne ebbi bisogno; mi lavai, asciugai e vestii tranquillamente. Scoprii anche
che gli abiti puliti, che avevo indossato, non erano i miei e che sembravano
essere del tutto nuovi, o se non lo erano appartenevano ad una persona che non
li aveva indossati per molto tempo. Poi, ricordai che Esme aveva una figlia,
più o meno della mia età, e che molto probabilmente quelli erano i suoi
vestiti.
Mi
sentii a disagio nell’indossare abiti che appartenevano a qualcun altro, ma
sapevo anche che non potevo di nuovo indossare i miei, di vestiti. Avevano
bisogno di una bella pulita e me ne rendevo conto persino io… dopotutto,
restare quasi tre settimane su di una nave non era proprio il massimo della
pulizia.
Pettinai
i capelli, ancora umidi, e li sistemai dietro la nuca fissandoli con alcune
forcine. Andai dritta nella camera che Esme mi aveva mostrato e che avrei
occupato per quella notte, quando finii, ma non avevo alcuna intenzione di
riposare. Ero stanca, ma non avevo sonno… forse era solo una sensazione quella
che stavo provando.
Una
volta chiusa la porta, restai con le mani strette sulla maniglia e poggiai la
schiena contro il legno scuro, scrutando con occhio vigile la stanza; era
bella, comoda e luminosa, grazie alla grande finestra e alle tende scostate. Ma
era anche molto… elegante. Si vedeva lontano un miglio che faceva parte di una
casa aristocratica e di proprietà di persone importanti. Avevo quasi il timore
di toccare i mobili e di sedermi sulle lenzuola, impaurita che potessi
rovinarli o sporcarli con il minimo tocco.
Alla
fine, riuscii a lasciare la maniglia e a spostarmi, e cominciai a sfiorare con
la punta delle dita qualsiasi oggetto, o mobile, al quale mi avvicinavo. Lo
schienale di una sedia, la superficie della specchiera, l’anta dell’armadio… mi
sembrava tutto così nuovo, anche se ero consapevole che non lo fossero in
realtà.
Arrivata
davanti alla finestra, chiusi gli occhi e lasciai che i raggi del sole, caldi e
familiari, mi avvolgessero. Mi era sempre piaciuto stare al sole, quando
lavoravamo nei campi spesso e volentieri restavo immersa nei miei pensieri,
stando sdraiata sull’erba, e mi beavo dei raggi che mi riscaldavano.
Ero
contenta di vedere che almeno quel piccolo dettaglio, per quanto poco
importante, fosse ancora presente.
Così,
spostai una delle sedie che erano presenti nella camera e la posizionai davanti
alla finestra. Rimasi seduta lì davanti per gran parte del pomeriggio, senza
fare nient’altro che non fosse osservare le altre case e le persone che
percorrevano la via a piedi, o all’interno delle carrozze.
Il
sole stava calando, e stava diventando meno caldo, quando qualcosa di nuovo
attirò la mia attenzione: una carrozza che si fermò davanti al cancello della
casa, e da cui scese una donna ben vestita.
Non
capii chi potesse essere la nuova arrivata, cosa assolutamente normale, in
fondo… conoscevo solo Esme e Carlisle, senza contare Marcelo e Anita. E non
potei neanche vedere meglio chi fosse, perché non riuscivo più a scorgere la
figura della donna dalla finestra.
Tornai
a sedere composta, con la schiena dritta e con le mani strette sulle ginocchia.
Esme mi trovò in quella posizione quando venne a chiamarmi pochi minuti dopo,
annunciandomi che mancava poco meno di mezz’ora alla cena e che sarebbe stato
meglio scendere.
«Mi
piacerebbe molto presentarti mia madre.» annunciò, allegramente, mentre eravamo
impegnate a scendere le scale; Esme teneva una sua mano poggiata sulla mia
spalla, come per assicurarsi ulteriormente che fossi lì insieme a lei. «È
appena rincasata, ha trascorso la giornata fuori…» continuò.
«Capisco…»
mormorai, non sapendo bene cosa dire. Avevo scoperto grazie a lei, però, che la
persona arrivata a casa prima era sua madre, ovvero la proprietaria della casa
in cui mi trovavo in quel momento. Avrei potuto anche capirlo da sola, stando a
quello che mi avevano detto prima, ma a quanto sembrava qualcosa doveva essermi
sfuggito dalla mente.
Ma
mi sembrava una buona idea conoscerla, anche perché in quel modo potevo
ringraziarla per la sua gentile ospitalità, seppur di breve durata.
Guidata
da Esme entrai nel grande salone, che si trovava accanto all’ingresso, e che
era già occupato da un paio di persone: una era Carlisle, e l’altra invece era
una signora di certa età, la madre di Esme. Il primo pensiero che mi venne in
mente, osservandola, fu che aveva un aria altezzosa: me lo suggerì il fatto che
sedeva sulla poltrona in maniera rigida, senza contare le labbra, che teneva
strette come se si stesse astenendo dal pronunciare un commento pungente.
Non
appena io e sua moglie facemmo il nostro ingresso nel salone, Carlisle sorrise
e ci raggiunse, quasi sollevato nel vederci. «Oh, eccoti qui cara! Hai riposato
bene?» mi domandò subito, apprensivo.
Annuii,
regalandogli un piccolo sorriso. «Sì, grazie.» mormorai, non riuscendo a
parlare con un tono di voce più alto. «Dov’è mio padre?» aggiunsi, poi.
«Sta
ancora dormendo, ho pensato di farlo riposare ancora un po’.» mi spiegò lui,
cingendomi le spalle con un braccio e facendomi avvicinare alla donna seduta
sulla poltrona. «Allora, tesoro, lei è la signora Violante Oliveira, la mia
cara suocera.»
La
signora Violante scoccò un occhiata raggelante a Carlisle, come se avesse
appena sentito qualcosa di sconveniente e non una normale quanto educata presentazione.
Passò poi a guardare me, e sotto l’attenzione dei suoi occhi azzurri e freddi
sentii un brivido percorrermi la schiena, ma cercai di reprimerlo.
«Violante,
cara, lei è Isabella, la figlia del mio amico Charlie.» aggiunse poi,
completando la presentazione.
Uno
sbuffo uscì dalle labbra della signora Violante. «Altri italiani, come se non
ce ne fossero già troppi in Brasile! L’unica cosa buona che ha è il nome,
davvero grazioso, ma per il resto…» e poi aggiunse qualcos’altro in portoghese
che non riuscii proprio a capire.
Ma
Carlisle doveva aver capito, perché aggrottò le sopracciglia e fissò Violante
con ostinazione, avvicinandosi ulteriormente a lei. «Non ti permetto di dire
cose simili sui miei amici, Violante, è irrispettoso.»
La
donna batté le ciglia lentamente, gli occhi puntati sul volto del genero, e
alla fine si alzò dalla poltrona. «Difendi pure i tuoi compatrioti, Carlisle,
fa pure tranquillamente. Non mi aspetto altro da te, sei identico a loro
dopotutto.» disse, tagliente, e si incamminò verso l’uscita del salone, dove
c’era Esme che, stringendosi le mani, guardava arrabbiata la madre. «Non mangio
con la plebaglia, cara, dillo pure ad Anita.» aggiunse prima di sparire.
«Madre!»
esclamò lei, seccata e punta sul vivo. Mormorò a me e a suo marito un veloce
“scusatemi”, e poi corse via per raggiungere la signora Violante.
Sentii
Carlisle sbuffare, al mio fianco. «Mi dispiace molto, Bella, ma Violante è un
tipetto molto… particolare.»
Mi
voltai verso di lui, poggiando una mano sul collo, a disagio. «Non è contenta
di vederci qui.» dissi, e la mia era più un affermazione che una domanda.
Carlisle
sospirò, carezzandomi piano la testa. «Non lo negherò, tesoro, non è contenta…
ma è l’unica a non esserlo. Io ed Esme lo siamo, e lo sono anche gli altri. E
poi domani andiamo via, e se sei molto fortunata non dovrai più incontrarla.»
Stupita
per le sue parole, sgranai gli occhi e lo guardai: aveva un espressione molto
buffa e divertita sul viso, e non riuscivo a capire se stesse scherzando o se
stesse dicendo sul serio. «Ma… ma è tua suocera…»
Lo
feci ridere. «Appunto, è la mia, mica la tua! Nessuno ti obbliga ad incontrarla
ancora.»
Un
esclamazione forte, pronunciata in portoghese e che non capii, ci raggiunse ed
io di riflesso alzai il viso, guardando il soffitto bianco. Esme e sua madre
dovevano essersi spostate al piano superiore e stavano continuando a
bisticciare, a quanto sembrava.
«Ne
avranno ancora per un bel po’, le conosco bene io!» disse Carlisle sconsolato,
sospirando un'altra volta. Mi guardò alla fine, e schioccò la lingua. «Sai cosa
facciamo adesso? Andiamo a svegliare tuo padre e poi andiamo a cenare in
cucina… Anita sarà contenta di avere un po’ di compagnia, mangia sempre da sola
poverina.»
Sorrisi,
ascoltando il programma che aveva intenzione di svolgere. Carlisle mi piaceva
sempre di più, ammisi a me stessa mentre, insieme a lui, mi incamminavo al
piano di sopra.
***
Il
mattino dopo, quando mi svegliai, notai che era davvero molto presto. Sdraiata
su di un fianco, con le mani strette sotto al cuscino e con il viso rivolto
verso la finestra, guardavo il leggero chiarore che penetrava dalle persiane e
capii che doveva essere da poco passata l’alba. Mi stupii di quel fatto, visto
che la sera prima avevo impiegato parecchio tempo prima di riuscire a prendere
sonno… e per quanto cercassi di impegnarmi con tutta me stessa, non riuscii a
dormire ancora.
Rimasi
così con gli occhi fissi sulla finestra, vedendo come mano a mano che il sole
si levava alto nel cielo la stanza diventasse sempre più luminosa e viva. Non
sentivo nessun rumore, nessuna voce per la casa, quindi immaginai che fossero
ancora tutti addormentati.
E
alla fine, riuscii ad appisolarmi di nuovo anche io.
Un
paio di ore dopo, Esme passò a chiamarmi, avvertendomi che la colazione era
quasi pronta in cucina, e che ci saremmo messi in viaggio verso la fazenda non
appena avessimo terminato di mangiare. Nel giro di pochi minuti ero già vestita
e pronta per scendere, ma mi attardai insieme a lei per sistemare la mia
valigia e i miei vestiti, che Anita aveva già provveduto a lavare, nonostante
avesse avuto davvero poco tempo a sua disposizione.
Quando
scesi al piano inferiore e andai verso la cucina, lì trovai già papà e Carlisle
presenti, e impegnati a fare colazione. Stavano entrambi bevendo il caffè, o
del tè, e alcune fette di pane imburrate si trovavano su un piattino disposto
sul tavolo.
«Buongiorno,
papà!» andai dritta verso di lui e lo abbracciai, lasciandogli un bacino sulla
guancia.
Lui
ridacchiò, ricambiando il mio gesto. «Buongiorno. Sei allegra stamattina! Hai
dormito bene?» chiese, posando sul piattino la tazzina.
Annuii,
prendendo posto a tavola, accanto a lui, e rivolsi un sorriso gentile a
Carlisle, che mi osservava tranquillo e curioso standomi di fronte, dall’altra
parte del tavolo. Esme si sedette al suo fianco e, dopo aver recuperato una
teiera, si versò un po’ di tè.
«Ne
vuoi un po’, cara? Oppure preferisci un po’ di latte?» mi domandò cortesemente.
«Il
tè va benissimo, grazie.» risposi, prendendo cautamente tra le mani la teiera
che mi stava passando. Non volevo farla cadere, era così bella, e dall’aria
costosa, e non volevo rischiare di romperla.
«Non
preoccuparti della teiera, Bella. Se si rompe, Violante ne ha già pronte
un’altra dozzina con cui rimpiazzarla!» esclamò Carlisle, ridendo.
Esme
lo guardò con aria severa. «Non dovresti dire così…»
«Perché
no? Non ho detto nulla di male, in fondo… ed è la verità. Giusto, cara?» lui la
guardò, divertito, e alla fine Esme alzò gli occhi al cielo come se fosse
seccata, ma aveva un bel sorriso sulle labbra che non riusciva a camuffare
bene.
«La
signora Violante non scende?» domandai, prendendo la tazza tra le mani.
Accidenti, anche quella sembrava costare molto! Avevo quasi paura di tenerla in
mano.
«No,
e si rifiuterà di farlo fino a quando non saremo andati via.» Carlisle scosse
le spalle. «Non è la prima volta che succede, ci si fa l’abitudine con il
tempo.»
Le
sue parole si rivelarono vere: infatti, la signora Violante non scese a
mangiare, preferendo farsi servire la colazione in camera da Anita. Carlisle la
prese in giro per questo, guadagnandosi più di una volta le occhiatacce di sua
moglie.
Neanche
un ora dopo la fine della colazione, Marcelo aveva preso le nostre valige e le
aveva caricate sulla carrozza. Ci trovavamo tutti insieme a lui, fermi sul
marciapiede fuori dalla casa, e stavamo aspettando che Esme arrivasse per poter
partire.
Stavamo
per andare alla fazenda, che da quel momento in avanti sarebbe diventata casa
mia, e da una parte ero emozionata di scoprire come fosse… dall’altra parte,
invece, ero un po’ impaurita. Le novità mi spaventavano sempre, e molto.
«Tutto
bene, Bella? Ti vedo un po’ tesa…» papà posò una mano sulla mia spalla e mi
osservò, le sopracciglia inarcate.
«No,
sto bene… stavo solo pensando.» lo rassicurai, e per tranquillizzarlo
ulteriormente sorrisi. Sembrava che lo avessi convinto, perché sorrise anche
lui e si chinò per baciarmi i capelli.
Una
volta che Esme fu arrivata, cominciammo a salire tutti sulla carrozza, aiutati
da Marcelo. Io fui l’ultima, e prima di raggiungere gli altri mi soffermai con
lo sguardo sulla casa, pensierosa. Chissà se l’avrei rivista di nuovo, domandai
tra me e me.
Gli
occhi si posarono su una delle finestre del piano superiore, e scorsi una
figura che, altezzosa, guardava in basso verso di me. La riconobbi subito, era
la signora Violante. Se non avessi saputo che si trovava dentro casa, avrei
potuto benissimo scambiarla per un fantasma.
Pochi
secondi dopo, però, sparì dietro le tende.
«Bella,
che fai? Non sali?»
Mi
voltai, ancora più pensierosa di quanto non lo fossi stata poco prima di aver
scorso la signora Violante. Esme, sorridendo, mi fece cenno con la mano di salire
sulla carrozza e di raggiungerli, cosa che feci in fretta e quasi con sollievo.
__________________
Eccomi di nuovo!
Mi scuso con voi se avete trovato
questo capitolo un po’ noiosetto, ma diciamo che era necessario XD dal prossimo
smetterò di presentare i personaggi principali e la trama si smuoverà, quindi c’è
da portare solo un po’ di pazienza :3
Ah, per le parti in cui dovrebbero
parlare in portoghese e non lo fanno… il motivo è che io non so un acca di
portoghese XD spero che questa ‘svista’ non sia un grosso problema :)
Avete conosciuto Carlisle, il vecchio
amico di Charlie, e sua moglie Esme: sono persone gentili, non trovate anche
voi? E vabbé, inclusa nel pacchetto c’era anche Violante XD ma lei la togliamo
subito di mezzo, non penso che la rivedremo ancora :D
Dal prossimo capitolo ci sposteremo
alla fazenda, dove si svolgerà la storia vera e propria. Succederanno molte
cose, alcune belle e alcune brutte, in alcuni punti sono sicura che avrete
voglia di uccidermi seduta stante XD ma non fatelo, pls! Io vi voglio bene *w*
Bien! Vi ringrazio se siete arrivate a
leggere anche queste mie note infinite, e vi levo ancora un secondo di tempo
per lasciarvi il link del mio gruppo Facebook ;)
A presto, e un bacione grande grande a tutte voi!
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo3
Ciao a tutte!
Arrivo a postare anche questo nuovo
capitolo! È un po’ noiosetto a mio parere, ma serve ai fini della storia… e poi
questo dovrebbe essere l’ultimo capitolo palloso XD però accadono taaaaante ma
tante cose, in compenso :D
Ci leggiamo in basso ;)
Sotto
un cielo coperto di stelle
Capitolo tre
Bella
In viaggio verso la fazenda ‘Paraiso’,
28 Febbraio 1887
Per
raggiungere la fazenda impiegammo diverse ore. Dalla casa della signora
Violante ci spostammo in carrozza fino alla stazione dei treni, e da quel punto
in avanti viaggiammo sul treno per recarci al piccolo paesino di Araùjo; una
volta arrivati, avremmo preso una carrozza che ci avrebbe condotto fino alla
fazenda.
Non
avrei mai immaginato che per arrivare fino a lì ci volesse tutto quel tempo, e
tutti quei cambiamenti di mezzi di trasporto: pensavo che arrivarci in carrozza
fosse sufficiente.
Dopo
aver espresso ad alta voce questo mio pensiero, Carlisle mi spiegò che la loro
fazenda era troppo lontana per essere raggiunta in carrozza, e che quindi
arrivarci in treno era l’opzione migliore, oltre che più veloce.
Il
viaggio in treno trascorse tranquillamente, e per la maggior parte del tempo
restammo tutti in silenzio; non c’era molto da dire, e il silenzio che si era
formato tra di noi era del tutto naturale, non c’era nessuna traccia di
disagio.
Passai
la maggior parte del tempo ad osservare il paesaggio rurale e le campagne
attraverso il finestrino: il treno ne era circondato, avevamo lasciato la città
e quindi la campagna, le varie coltivazioni ed i boschi erano le uniche cose
che erano presenti.
Era
come se fossi di nuovo a casa: la campagna era la mia casa, e anche se quella
che stavo vedendo non era la stessa in cui ero nata e cresciuta mi piaceva
ugualmente. Era molto simile, se non identica… ero felice di poter osservare di
nuovo tutte le distese di campi coltivati e baciati dal sole.
Sapere
che avrei vissuto in un posto circondato da così tanto verde e che mi ricordava
così tanto casa mi consolava, e mi aiutava moltissimo ad accettare la nuova
realtà che era entrata nella mia vita. Il Brasile era così bello… e
all’improvviso, non provai più la paura che mi ero trascinata dietro per tutto
il viaggio.
Ma
la nostalgia per la mia famiglia, rimasta in Italia, era ancora presente, e mi
si presentava davanti agli occhi ogni volta che scorgevo qualcosa di nuovo e
bello, pensando che agli zii sarebbe piaciuto. Mi consolavo ripetendo a me
stessa che la lontananza era solo temporanea, e che presto li avrei rivisti.
Battei
un paio di volte le palpebre, destandomi da quei pensieri, e ripresi ad
osservare il paesaggio che scorreva velocemente al di fuori del finestrino.
Strinsi le dita attorno allo scialle, che avevo tolto in precedenza e che
tenevo poggiato sul grembo, mentre l’entusiasmo per quel breve e nuovo viaggio
tornava ad invadermi.
Scostai
la fronte dal finestrino dopo qualche minuto, mantenendo però gli occhi fissi
sul paesaggio: qualcosa stava cambiando adesso, e distinguevo un piccolo
agglomerato di case poco lontano, proprio nel punto in cui il treno si stava
dirigendo.
Non
feci in tempo a far notare ai miei compagni di viaggio quel particolare, che
Carlisle mi anticipò. «Siamo quasi arrivati!» esclamò, sporgendosi dal suo
posto per osservare anche lui dal finestrino.
«Sì,
ormai manca pochissimo!» Esme si unì al suo entusiasmo, e si portò le mani
giunte al viso, sorridendo. «Non vedo l’ora di riabbracciare i ragazzi! Mi sono
mancati così tanto…» aggiunse.
«Ma
siamo stati via solo pochi giorni, cara.» le fece notare lui, carezzandole la
spalla.
«Lo
so, ma è più forte di me! Non riesco a star loro troppo lontana… credo che sia
una reazione da mamma.»
Carlisle
rise. «E noi non le mettiamo in discussione, Esme. Spero che Emmett e Edward
abbiano fatto un buon lavoro mentre eravamo via, e che non abbiano combinato
molti pasticci.»
«Non
credo che sia accaduto, Carlisle, e poi c’erano Billy e gli altri che davano
loro una mano… sono dei bravi ragazzi, e devi cominciare a fidarti di loro.
Sono quasi degli adulti!» negli occhi di Esme scorsi una luce nuova, che li
illuminava e che li rendeva più belli e dolci. Doveva accadere ogni volta che
parlava dei suoi figli, e non era difficile capire che voleva loro molto bene.
«Sì,
sono grandi, ma spesso e volentieri si comportano ancora da immaturi,
specialmente Emmett! Non ti preoccupi di Alice, invece, vero?» domandò suo
marito, inarcando un sopracciglio.
Esme
scosse le spalle, carezzando con le dita la tesa del suo cappellino. «No,
perché dovrei? È una ragazza matura per la sua età e molto diligente. Sono
sicura che si è comportata bene e che non ha dato nessun fastidio a Sarah,
anzi, secondo me si è anche offerta di darle una mano aiutando nelle varie faccende
domestiche.»
Carlisle
si grattò il mento, soppesando le parole di sua moglie. «Sì, devo darti
ragione. Alice è sempre brava ed educata.»
La
sua risposta fece ridere Esme, che scosse la testa mormorando qualcosa che
assomigliava molto a un “Uomo di poca
fede”.
Sorrisi,
osservandoli: mi piacevano tantissimo come persone e come coppia, e più
trascorrevano i minuti e più ne avevo la conferma.
Ben
presto il treno cominciò a rallentare, fino a fermarsi completamente una volta
arrivato alla stazione del paese. La banchina cominciò pian piano ad
affollarsi, mano a mano che i passeggeri scendevano dal treno.
«Sarà
meglio che scendiamo anche noi.» bisbigliò Carlisle alzandosi in piedi, e
subito tutti noi lo imitammo.
Prendemmo
i nostri bagagli, e seguendo le altre persone che si trovavano sul nostro
stesso vagone scendemmo dal treno. Fuori faceva meno caldo e tirava una leggera
brezza, che apprezzai moltissimo e mi beai del venticello che sentivo sulla
pelle.
Usciti
dalla stazione, trovammo una carrozza libera e io ed Esme prendemmo posto su di
essa, mentre papà, Carlisle e il cocchiere caricavano le nostre valige e chiacchieravano
tra di loro. Ci raggiunsero dopo pochi minuti e, una volta sistemati, partimmo.
«Quanto
manca alla fazenda?» chiese papà, esprimendo ad alta voce una delle tante
domande che viaggiavano all’interno della mia testa.
«Non
molto, nel giro di una ventina di minuti dovremmo arrivare…» rispose lui,
sorridendo.
Passai
quei minuti in trepidante attesa, stringendo le dita tra di loro ed osservando
di tanto in tanto la strada bianca che stavamo percorrendo. Mancava ormai poco
all’arrivo, e non vedevo l’ora di vedere con i miei occhi la mia nuova casa.
Volevo conoscere tutto, ogni particolare, ogni posto, ogni cosa che facesse
parte della fazenda, senza contare le persone che ci abitavano e che conoscevo
solo attraverso dei nomi.
Non
vedevo l’ora di poter dare finalmente un volto a quelle persone che mi
incuriosivano così tanto.
E
alla fine, ecco che arrivammo.
La
carrozza varcò un cancello di legno e proseguì il suo cammino, attraversando
dei vasti campi che erano divisi dalla strada. In lontananza, si scorgeva il
profilo di una grande casa bianca e quello di diverse altre costruzioni, alcune
più piccole e altre più grandi.
Mi
guardavo attorno con emozione e anche con molta curiosità, non riuscendo a
credere ai miei occhi. Tutto quello che vedevo era molto più bello di quanto
avessi immaginato, al di sopra delle mie aspettative e al di sopra di ogni
altra cosa.
Nel
giro di pochi minuti la carrozza si fermò in un grande piazzale, e nello stesso
momento in cui accadde Carlisle mise di nuovo il suo cappello in testa, ridendo
e battendo un paio di volte le mani.
«Benvenuti
nella vostra nuova casa, amici miei!» esclamò, rivolgendo a me e a papà un
enorme sorriso.
***
Descrivere
la fazenda e parlare di tutte le caratteristiche che la rendevano quella che
era con poche parole, era davvero impossibile. Non riuscivo neanche a trovare
una parola adatta da associare alle sensazioni che avevo provato dopo il primo
impatto. Era sinceramente impossibile.
Mi
guardavo intorno, non riuscendo a posare gli occhi da un punto all’altro per
più di pochi secondi, e nel mentre cercavo di memorizzare quanti più
particolari potevo nel più breve tempo possibile.
Il
piazzale in cui ci trovavamo era circondato da due costruzioni; una era senza
dubbio la casa in cui viveva la famiglia di Carlisle, l’altra invece sembrava
un magazzino. Poco distante da lì c’era un portico in pietra, ma non riuscivo a
capire bene a cosa servisse.
Erano
poche cose, poche e semplici, ma non riuscivo a smettere di guardarle: mi sembravano
le cose più belle e preziose del mondo.
«Tra
poco andiamo a fare il giro di tutta la fazenda, Bella.» sussultai nel sentire
la voce di Esme così vicina a me, non mi ero resa conto che si fosse
avvicinata. Lei dovette capirlo, perché mi sorrise gentilmente. «Non volevo
spaventarti, scusami.»
«Ero
distratta, non mi hai spaventata.» la rassicurai, ricambiando il sorriso. «È
tutto così… nuovo, per me.»
«Oh,
tesoro, credo che sia una reazione abbastanza normale!» mi rassicurò, prendendo
una mia mano tra le sue e stringendola con fare rassicurante. «Tra qualche
giorno ci farai l’abitudine, è solo questione di tempo…»
«Mamma?
Papà? Siete tornati!»
Distolsi
lo sguardo dalle attenzioni di Esme per guardare la figura di una ragazza dai
capelli scuri che, di corsa, saltò tra le braccia di Carlisle cingendogli il
collo con le sue. La sentii ridere allegramente, una risata forte e argentina
quasi contagiosa.
«Sì
Alice, siamo qui! Proprio come vi avevamo promesso…» rispose lui, lasciando la
presa sul corpo della ragazza che capii essere la sua figlia più piccola. «E
come vedi, abbiamo degli ospiti! Lui è Charlie Swan, ti ho parlato tantissimo
di lui…»
«Vieni
Bella, ti faccio conoscere mia figlia.» mormorò piano Esme, e mettendo una mano
sulla mia schiena mi sospinse verso il gruppo allegro di persone che si trovava
poco lontano da noi.
Alice
stava ridendo per qualcosa che doveva averle appena detto papà, ma si voltò in
fretta quando sentì che ci stavamo avvicinando. Aveva un sorriso bellissimo,
dolce e molto particolare, che faceva risaltare i suoi occhi scuri. Venne verso
di noi in fretta, senza abbandonare l’allegria che la stava caratterizzando.
«Ciao
mamma!» Alice abbracciò Esme con slancio, lasciandole anche un bacio sulla
guancia che venne poi ricambiato da sua madre.
«Tesoro!
È andato tutto bene mentre eravamo via?» le chiese lei, carezzandole il viso
con amore.
«Tutto
bene! A parte i miei fratelli, ma sai come sono fatti, si divertono troppo a
farmi i dispetti!» ridacchiò, per poi portare tutta la sua attenzione su di me.
Mi venne spontaneo sorriderle, così come lei stava sorridendo a me. «Sei
Isabella, vero?» chiese, diventando improvvisamente timida.
Annuii,
allungando una mano verso di lei. «Sì, sono io. È un piacere conoscerti,
Alice.»
«Oh,
il piacere è tutto mio!» ignorando la mia mano, la ragazza mi buttò le braccia
al collo e mi strinse in un forte abbraccio, al quale non ero affatto preparata
ma che ricambiai in fretta. «Non pensavo che fossi così bella, davvero, sei una
ragazza stupenda!» sussurrò al mio orecchio.
Sentii
le guance scaldarsi alle sue parole, e mantenni lo sguardo basso mentre
l’abbraccio finiva. Sorrisi, vergognandomi un poco. «Sei molto bella anche tu,
Alice…» mormorai.
«Oddio,
ti ho messa in imbarazzo vero? Non era mia intenzione farlo!» Alice si portò le mani
alla bocca, coprendola, e sgranò gli occhi.
«No,
non è successo nulla, non preoccuparti!» mi affrettai subito a
tranquillizzarla, spaventata per la sua reazione.
«Alice,
tesoro, non confondere la povera Bella! Lasciala respirare un momento, non fare
come tuo solito.» la ammonì bonariamente Carlisle, che ci aveva raggiunto
insieme a papà. «Piuttosto, sai dove sono andati a finire i tuoi fratelli?»
«Sono
scesi alle piantagioni, ma hanno detto che sarebbero tornati a casa per il
pranzo… saranno contentissimi di sapere che siete tornati così presto!» disse,
alzando la voce verso l’ultima parte della frase.
Suo
padre rise. «Benissimo! E visto che manca poco all’ora di pranzo, che ne dite
se andiamo tutti in cucina e li aspettiamo lì?» propose.
Non
riuscii a studiare bene l’interno della casa quando entrammo, visto che eravamo
diretti verso la cucina, ma quello che guardai mi fece capire che era una
normale casa di campagna, sebbene enorme e ben arredata. Era semplice, e con
qualcosa di familiare nell’aria… mi piaceva.
Una
volta arrivati in cucina, una grande stanza luminosa e calda per via del
focolare che ardeva in un angolo, venimmo accolti da una donna dalla pelle
olivastra e dai capelli scuri, non molto alta. Aveva le mani bagnate per via di
qualcosa che stava lavando, ma si apprestò ad asciugarsele in tutta fretta sul
suo grembiule.
«Senhor Carlisle, Senhora Esme! Che bello rivedervi! È andato bene il viaggio?» disse
gentilmente, nella sua voce si percepiva un pesante accento che la rendeva
particolare.
«Benissimo,
grazie Sarah.» rispose Esme.
«I
vostri figli non sono ancora arrivati, stavo aspettando che tornassero per
servire il pranzo in tavola…»
«Non
preoccuparti, vorrà dire che li aspetteremo. Posso presentarti i nostri nuovi
amici, nel frattempo…»
Quella
giornata sembrava destinata ad essere riservata solo alle presentazioni, e alla
conoscenza delle tante persone che vivevano nel territorio della fazenda.
Insieme alla famiglia di Carlisle, infatti, scoprii che vivevano anche diverse
altre famiglie che lavoravano per lui e che coltivavano i campi di caffè.
Io
e papà parlammo un po’ con Sarah, che era davvero gentile e molto simpatica; ci
raccontò che viveva nel piccolo villaggio poco distante, che chiamava
‘colonia’, insieme ai suoi genitori anziani, a suo marito e ai suoi figli, due
gemelle e un maschio. Ci avrebbe presentato tutti quel pomeriggio, subito dopo
la fine del pranzo.
«Le
mie figlie sono poco più grandi di te, ma non penso che questo rappresenti un
grande problema. Saranno molto contente di conoscerti, vedrai.» mi disse
calorosamente.
«Sì,
lo spero…» il resto della risposta rimase incastrato nella mia gola, a causa di
due nuove persone che entrarono in cucina e che calamitarono tutta la mia
attenzione.
Erano
due uomini, alti e molto simili per quanto riguardava l’aspetto fisico, ma
diversi nel volto. Il ragazzo dai capelli corvini e corti sembrava molto
giovane, quasi un fanciullo, l’altro invece, con i capelli un po’ più lunghi e
castani, sembrava più severo e maturo rispetto alla persona che lo affiancava.
«Mamma,
papà, ma che bella sorpresa!» esclamò il ragazzo con i capelli scuri. Andò a
salutare prima Carlisle e poi Esme, riservando a quest’ultima persino un
baciamano scherzoso.
«Sempre
il solito, eh Emmett?» rise sua madre, sollevandosi quasi in punta di piedi per
riuscire a baciare la guancia del ragazzo. «Lei è Isabella Swan, la figlia di
Charlie. Vai a salutare anche lui, dopo, fai il bravo ragazzo.»
«Ma
io sono un bravo ragazzo, mamma!» si accigliò un poco, ma scacciò via il tutto
con una risata sonora mentre si voltava verso di me e mi studiava. Il sorriso
divertito che aveva sfoggiato anche poco prima tornò sulle sue labbra, ed era
così pieno di ilarità che non potei fare a meno di sorridere anche io, tanto
era contagioso.
«Molto piacere di conoscerti, cara Isabella.»
disse, parlando in italiano, ed esibendosi pochi secondi dopo in un inchino
quasi reverenziale. Scoppiai a ridere.
«Emmett,
non starai esagerando?» lo ammonì Esme, che lo osservava semi divertita
mantenendo le braccia incrociate davanti al petto.
«Sì,
mamma, sta sicuramente esagerando!» le rispose un'altra voce, a me sconosciuta.
Non l’avevo sentita prima di quel momento, ma nel sollevare gli occhi e nel
distogliere così l’attenzione da Emmett capii che si trattava dell’altro
ragazzo.
Si
era avvicinato, e grazie a questa sua vicinanza notai quanto fosse veramente
alto. I suoi capelli erano dello stesso colore di quelli di Esme, e una ciocca
più lunga delle altre gli ricadeva dispettosa davanti agli occhi. Gli occhi…
erano di un colore che non avevo mai visto prima di allora.
Erano
verdi, ma di una sfumatura più chiara rispetto alle altre e particolare,
luminosa. Sembrava di osservare una pietra preziosa esposta alla luce del sole.
Sorrise,
trattenendo una risata tra le labbra mentre osservava il fratello, poi sollevò
lo sguardo e i suoi occhi incrociarono i miei. Fu come essere travolti da
un’ondata di aria fredda: le mie braccia vennero percorse da una serie di
brividi, e lo stesso accadde alla mia schiena. Le mie guance, invece, si
scaldarono e così fui costretta ad abbassare leggermente il viso per nascondere
quella mia reazione ai suoi occhi.
Mi
imbarazzai, moltissimo: non riuscii a capire da cosa dipendeva tutto quello che
stavo provando in quel momento. Non poteva essere solamente perché ci eravamo
guardati direttamente negli occhi… non poteva. Sarebbe stato da sciocchi
pensarlo.
«Ecco,
Isabella, lui è mio figlio Edward. Edward, lei è Isabella.» Esme cominciò a
presentarci, incurante della piccola difficoltà che stavo provando forse perché
non se ne era accorta. E se non se ne era accorta lei, allora neanche… Edward,
se ne era accorto.
Tornai
a guardarlo, battendo le ciglia come per scacciare qualcosa di fastidioso, e
cercai di sorridere in maniera naturale. Lo stava facendo anche lui, tenendo un
sopracciglio inarcato e sollevato verso l’alto.
«Piacere
di conoscerti, Edward.» dissi, e per quanto cercassi di alzare il tono della
voce mi uscì comunque qualcosa di simile ad un sussurro.
Edward,
dopo avermi guardata per qualche istante, abbassò lo sguardo ed io lo imitai
non appena sentii che aveva preso la mia mano nella sua, e che la sollevava per
poterci poggiare sopra le sue labbra. Il tocco fu leggero, qualcosa di più di
un semplice sfioramento, ma ebbe lo stesso il potere di farmi rabbrividire… di
nuovo.
Sorrise,
continuando a stringere la mia mano. «Il piacere è tutto mio, Isabella.» replicò
in un mormorio.
***
Durante
il pranzo non riuscii a non pensare a quello che era accaduto poco prima.
Tornavo con la mente a quando Esme mi aveva presentato suo figlio, Edward, e
alle reazioni che avevo provato quando i nostri sguardi si erano incrociati.
Forse stavo anche diventando pazza, ma riuscivo ancora a sentire un leggero
pizzicore nel punto in cui le sue labbra si erano poggiate sul dorso della mia
mano.
Smisi
per qualche secondo di muovere le posate con le quasi stavo tagliando la mia
porzione di carne e alzai il viso, scrutando la tavola e le persone che vi
erano sedute tutt’attorno: erano tutti allegri e impegnati chi a mangiare e chi
a chiacchierare. I miei occhi, inconsapevolmente, si posarono ancora una volta sulla
figura di Edward.
Era
seduto verso la fine della tavola, accanto a suo padre e a suo fratello, e
sembrava concentrato su una discussione che Carlisle stava tenendo. Anche
Emmett e papà lo ascoltavano, attenti.
Tornai
a concentrarmi sul mio piatto e sentii le mie guance avvampare, al pensiero che
qualcuno avesse potuto beccarmi proprio mentre ero occupata a guardare Edward;
mi vergognavo, non mi era mai capitato prima di allora di provare un simile
coinvolgimento nei confronti una persona che conoscevo da così poco tempo, e
con cui avevo parlato soltanto una volta.
Era
strano, impensabile e, decisamente, era una situazione assurda… ma lo guardai
di nuovo con la coda dell’occhio. Stirai le labbra in un sorriso, vedendo che
stava ridendo per qualcosa che dovevano aver detto. Aveva un sorriso così
bello… lui, era bello.
«Va
tutto bene, Bella? Hai le guance tutte rosse!» sobbalzai, sentendo la voce
allegra di Alice. Seduta al mio fianco, mi osservava con attenzione e faceva
oscillare piano la forchetta tra le dita.
«Stavo
pensando…» risposi a voce bassa, rivelando così solo una parte di verità, ed
imitai i suoi movimenti. Quando feci cadere la forchetta con un sonoro
tintinnio dentro al piatto, però, smisi di farlo.
«Non
lo avevo notato, sai?» ridacchiò, tornando a mangiare. Si voltò di nuovo verso
di me dopo che ebbe mangiato un pezzetto di carne. «Questo pomeriggio mio padre
ti accompagnerà a mostrarti la casa e il resto della fazenda, e vrrei tanto
unirmi a voi. Oggi non ho proprio voglia di stare in casa e di mettermi a
cucire!» aggiunse, sbuffando non appena finì di parlare.
«Ti
piace cucire?» chiesi, non riuscendo proprio a fare a meno di domandarglielo.
Ci conoscevamo da così poco tempo e non sapevo praticamente nulla di lei… ero
curiosa, e mi sarebbe piaciuto moltissimo sapere qualcosa in più su di lei.
«Moltissimo,
è la prima cosa che faccio non appena termino la mia parte di lavori di casa! La
mamma mi ha insegnato a farlo quando ero ancora piccola e non ho più smesso; ho
imparato anche a confezionare vestiti, abiti e camicette… posso farti vedere
come si fa, se vuoi.» propose alla fine del suo breve monologo.
«Io
so già cucire, ma non ho mai provato a realizzare dei vestiti.» le dissi con
una punta di entusiasmo nella voce; quello che mi stava dicendo Alice era molto
interessante e mi incuriosiva.
«È
facile, ci vuole solo un po’ di concentrazione e di tempo! Più tardi ti porto a
vedere tutti i lavori che ho fatto e che sto facendo…»
«Mi
piacerebbe moltissimo, grazie.»
Alice
mi sorrise, inclinando la testa da una parte. «Ma ti pare? Non ringraziarmi,
per me è un piacere.»
***
Riuscii
a vedere i suoi lavori solo a tarda sera, però, per via dell’impegno che
dovevamo svolgere con Carlisle. Anche se, a dire la verità, non era un vero e
proprio impegno.
La
fazenda ‘Paraiso’ era davvero molto grande e piena di attività; c’era la parte
composta dalla casa e dai magazzini, che avevo già visto quando ero appena
arrivata, e poi ce n’erano altre due: quella dove sorgeva la colonia e dove
vivevano i contadini, e la parte che era riservata ai campi di caffè e che era
la più estesa.
C’erano
acri e acri di terra, tutti coltivati a caffè e che assomigliavano moltissimo a
un mare verde. Avevo provato più volte a cercare di capire dove finissero i
campi, ma non ci ero riuscita nonostante ci avessi provato con tutta me stessa:
erano così vasti che si estendevano oltre l’orizzonte… ed ero sicurissima sul
fatto che non sarei riuscita a percorrerli tutti in una sola giornata.
Carlisle
ci aveva presentato anche gli abitanti della colonia, una cinquantina di
persone in tutto. Conobbi gli anziani genitori di Sarah, il signor Ignazio e la
signora Natalina; suo marito, Billy, ed i suoi tre figli: le gemelle Rachel e
Rebecca, identiche nell’aspetto e che somigliavano moltissimo alla loro madre,
e il loro fratello più piccolo, Jacob.
Lui,
invece, era identico per tutto e per tutto a suo padre. Era altissimo – molto
più alto di Emmett, che fino a poco prima era la persona più alta che avessi
mai visto –, aveva i capelli scuri e lunghi fino alle spalle e degli occhi
neri, molto profondi ed espressivi. Il viso era quello di un uomo, ma aveva
ancora qualcosa che richiamava la fanciullezza… e poi, era anche molto
simpatico, era impossibile negarlo.
Mi
aveva fatto ridere molto, e mi aveva presa subito in giro perché non riuscivo a
capire bene quello che mi stava dicendo. Il portoghese era ancora una lingua
nuova per me e dovevo ancora impararla per bene, dopotutto ero arrivata in
Brasile solo da due giorni e non potevo già aspettarmi di capire tutto… ma,
come mi aveva fatto notare Alice, che mi era stata sempre accanto quel
pomeriggio e che mi aiutava con la lingua, avevo a disposizione tutto il tempo
del mondo per fare pratica.
Mentre
scherzavamo insieme a Jacob, avevo notato che una ragazza della colonia non
aveva fatto altro che guardarmi in modo strano per tutto il tempo, come se
stessi facendo o dicendo qualcosa che la infastidisse, solo che non capivo bene
cosa potesse essere.
La
ragazza si chiamava Leah, ed anche lei aveva gli occhi ed i capelli neri, molto
lunghi, intrecciati e lasciati ricadere su di una spalla. Cercai di non darle
troppa importanza, ma mi sentivo a disagio nel sentire i suoi occhi addosso.
Quel
pomeriggio quasi tutti si erano uniti a noi durante il giro alla fazenda, solo
Esme e Sarah erano rimaste in casa per dare una sistemata e per cominciare a
preparare la cena. Più di una volta mi ero ritrovata, come durante il pranzo, a
lanciare sbirciate e sguardi tutt’intorno per capire dove fosse Edward.
Cercavo
di smetterla e di concentrarmi su quello che mi circondava, ma era più forte di
me e finivo sempre col ritornare al punto di partenza. In un paio di occasioni
Edward mi aveva colta in fragrante mentre lo osservavo, e lui mi aveva sorriso
entrambe le volte. Io avevo ricambiato, ma mi ero anche affrettata a nascondere
il viso per non fargli vedere che ero arrossita a causa dei suoi sorrisi.
E
avevo ripensato ai suoi sorrisi anche durante la cena: ero rimasta per la
maggior parte della sua durata in silenzio mentre mangiavo, in parte perché non
avrei saputo cosa dire, ed in parte perché mi vergognavo persino di alzare la
testa per paura di guardare Edward.
Ero
confusa: volevo guardarlo, ma allo stesso tempo avevo paura delle reazioni che
avrebbe potuto avere se lo avessi fatto. Avevo paura di mostrarmi ridicola ai suoi
occhi, una bambina sciocca. Cercai di non pensarci, e a fatica ci riuscii.
Dopo
cena, approfittando del fatto che gli uomini si erano riuniti in salotto per
bere un ultimo bicchiere di vino prima di andare a dormire, Alice mi prese per
mano e quasi correndo mi condusse fino alla sua stanza da letto. La mia, come
mi fece notare lei mentre entravamo, era a due porte di distanza lungo il
corridoio.
«Così
siamo vicine se abbiamo bisogno di qualcosa. Di parlare, o… non lo so, di
qualcosa in generale!» esclamò, richiudendo frettolosamente la porta dietro di
sé. «Tengo il mio cucito in quel cassettone, accanto alla finestra. C’è un
vestito che sto finendo di preparare proprio in questi giorni, devi
assolutamente dirmi se ti piace o no.»
«Va
bene!» risposi divertita: Alice non si fermava mai, era così piena di energia e
di vitalità ed era quasi impossibile riuscire a farla stare buona e tranquilla.
Mi piaceva molto stare in sua compagnia.
«Eccolo
qui, ci sono alcuni spilli nelle maniche, fai attenzione a non pungerti.» mi
avvertì dopo che ebbe frugato per un po’ all’interno di un cassetto. Spiegò il
vestito celeste sul suo letto e poi batté le mani, tutta contenta. «Che te ne
pare?»
«Oh,
mi piace!» carezzai lievemente la stoffa della gonna, non volevo rovinarla in
alcun modo. «Che cos’è? Lino? Cotone?»
«Cotone.
È il mio tessuto preferito, leggero e comodo.» prese il vestito tra le mani e,
dopo averlo soppesato un po’, me lo mise davanti scrutandolo con occhio
critico. «Se lo aggiusto un pochino sui fianchi e sul petto potrebbe andarti
bene… ci lavorerò domani con calma.»
«Aspetta,
non ho capito… vuoi aggiustare questo vestito per me?» chiesi, aggrottando le
sopracciglia per la confusione.
Alice
annuì. «Questo vestito è per te. Ci
sto lavorando da pochi giorni, volevo regalarti qualcosa di carino per il tuo
arrivo… anche se, a quanto sembra, ho sbagliato colore. A te sta molto bene il
blu, non il celeste.»
«Alice,
ma non… non serve che ti disturbi così tanto per me.» provai a protestare.
«Ma
a me piace, non è affatto un disturbo! Specialmente adesso che so che ti piace,
ci lavorerò con più attenzione e dovizia. E poi, voglio già cominciare a
mostrarti come fare per cucirne uno e… e comincerò anche ad insegnarti un po’
di portoghese.»
La
sua gentilezza e disponibilità nei miei confronti mi colpì, e questo mi spinse
ad abbracciarla. Io non avevo niente con cui poterla ricambiare, e a lei questo
sembrava davvero non importare.
«Alice,
davvero non so come poterti ringraziare.» sussurrai.
Le
sue braccia rafforzarono la presa sulle mie spalle e la sentii ridere contro il
mio orecchio. «Non devi, non lo faccio per avere qualcosa in cambio.» mormorò
tranquillamente.
Sentivo
che tra me e lei poteva nascere una bella amicizia, ma era ancora troppo presto
per poterlo dire con certezza.
__________________
Siete arrivate fino a qui senza
addormentarvi? Se sì, ne sono davvero felice! Almeno so che il capitolo non vi
ha annoiato XD
Come avete letto, i nostri ‘eroi’ sono
finalmente arrivati alla fazenda e hanno familiarizzato con il posto e le
persone che ci abitano… e c’è stato anche un colpo di fulmine!
Avete visto che Bella si è completamente
rimbecillita non appena ha visto Edward? Povera stella XD sarei rimbecillita
anche io al posto suo XD secondo voi, anche Edward ha sentito la scintilla? Mah,
staremo a vedere u.u
Da questo momento in avanti la fazenda
farà da sfondo all’intera storia, quindi preparatevi perché ne vedremo delle
belle! Sapeste che cosa ho in mente o___o ahahah *risata malefica*
Vi ringrazio per le recensioni che mi
avete regalato allo scorso capitolo – risponderò presto, anche per quanto
riguarda l’altra storia :D – e spero di tornare ad aggiornare presto. Sto per
cominciare un corso e avrò meno tempo a disposizione, ma non appena posso mi
metto a invadere i fogli di Word ;)
Come sempre, per qualsiasi cosa potete
contattarmi sul mio gruppo
Facebook!
Un bacione e a presto! *w*
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo4
Ciao ragazze! Come potete vedere, sono
tornata a scrivere anche questa storia :D
Sono indietrissimo con la stesura del
capitoli e per questo mi sento molto in colpa, ma cercherò di impegnarmi :) ora
come ora do la precedenza all’altra mia long, che si sta dirigendo verso la
fine, ma questo non mi fermerà e continuerò a scrivere anche questa. Gli aggiornamenti
forse arriveranno più tardi, ma arriveranno, state tranquille ;)
Prima di lasciarvi al capitolo, come
sempre, vi lascio il link al mio gruppo Facebook – siete sempre le benvenute :D
Vi lascio anche un piccolo riassunto,
per ritrovare il punto della situazione…
1887:
Isabella Swan è una giovane ragazza italiana di umili origini, che insieme a
suo padre Charlie intraprende un lungo viaggio per raggiungere il Brasile,
luogo dove le condizioni di lavoro e di vita sono più alte.
Ad
attenderli, al loro arrivo, c’è un vecchio amico di Charlie, Carlisle Cullen. Lui
raggiunse il Brasile anni prima, quando era ancora un bambino, e nel corso degli
anni è riuscito a fare ‘fortuna’ e adesso è il proprietario di una grande
fazenda di caffè.
Carlisle
presenta loro la sua famiglia: sua moglie Esme, la figlia Alice e i suoi due
figli gemelli, Emmett e Edward…
Sotto
un cielo coperto di stelle
Capitolo quattro
Bella
Fazenda ‘Paraiso’, 1° Marzo 1887
Mi
svegliai presto anche quella mattina, involontariamente: la forza
dell’abitudine, come si soleva dire. Erano rare le volte in cui l’abitudine mi
lasciava una piccola tregua e, quindi, mi lasciava dormire fino a mattino
inoltrato… ma quella, non sembrava essere una di quelle mattine.
La
finestra della mia nuova stanza, che avevo lasciato semiaperta la sera
precedente, faceva entrare una brezza fresca e leggera, molto piacevole,
accompagnata dalla luce chiara e caratteristica dell’alba. Non doveva essere
passato molto tempo dal suo arrivo.
Sorridendo,
scesi in fretta dal letto e altrettanto in fretta raggiunsi la finestra, spalancando
completamente le imposte subito dopo. Lo scenario che mi si parò davanti agli
occhi mi mozzò il fiato, per la bellezza che mostrava: un enorme mare verde
baciato dal sole del primo mattino, quello che ero sempre stata abituata a
vedere nella mia casa in Italia e che avevo così tanto imparato ad amare, e che
adesso potevo ammirare anche lì, in Brasile.
Respirai
l’aria della campagna, ancora più forte a quell’ora, e chiusi gli occhi. Non
potei fare a meno di sorridere, e con un rapido movimento mi issai a sedere
sulla soglia della finestra. Non era una mossa molto consigliata da fare, dato
che mi trovavo al primo piano della casa e che sarei potuta cadere grazie al
primo movimento brusco che avessi compiuto, ma non riuscii davvero a resistere.
Cullata
dal cinguettio leggero degli uccellini cominciai a sciogliere i miei capelli,
che avevo raccolto in una treccia prima di andare a dormire; li pettinavo tra
le dita, e di tanto in tanto gettavo una veloce occhiata ai campi di caffè, che
si andavano man mano popolando di gente. L’orario era mattiniero, sì, ma per
chi era abituato a lavorare la terra era il momento giusto per mettersi
all’opera.
In
campagna era così, si lavorava da quando spuntava il primo raggio di sole fino
a quando non se ne andava l’ultimo, dall’alba al tramonto, sfruttando tutte le
ore del giorno possibili; delle volte si era costretti a lavorare anche di
notte, e con il solo aiuto della flebile luce dei lumini.
Quando
mi decisi a ritirarmi doveva essere passato già diverso tempo: l’aria era
diventata più calda, il sole era più alto nel cielo ed il lavoro nei campi si
era intensificato, ed in più tutti i contadini avevano cominciato a cantare
qualcosa in portoghese. Mi sarebbe piaciuto moltissimo conoscere meglio quella
lingua per capire cosa stessero cantando… un motivo in più per cominciare ad impararlo
insieme all’aiuto di Alice.
Scesi
dal davanzale con un piccolo salto, decisa a prepararmi e a scendere al piano
inferiore. Volevo rendermi utile e aiutare nelle faccende di casa: ero
sicurissima che in una grande casa come quella ci fossero molte cose da fare, e
che una mano in più facesse sempre comodo.
Stavo
per chiudere la finestra, ma bloccai di colpo i miei movimenti non appena vidi
che qualcuno stava uscendo da casa e stava incamminandosi verso i campi di
caffè, stringendo qualcosa tra le mani; i riflessi rossi dei suoi capelli mi
fecero subito capire che poteva trattarsi di una persona sola…
Era
Edward, il figlio di Carlisle.
Rimasi
immobile ad osservarlo camminare, fino a quando la sua figura alta e slanciata
non scomparve dietro a un insieme di alberi. Per tutta la durata di quel breve
momento, qualche secondo o poco più, avevo trattenuto il respiro e il mio cuore
aveva cominciato a battere forte, come un tamburo, dentro al mio petto… le
stesse reazioni che avevo provato anche il giorno prima, quando lo avevo
conosciuto e ogni volta che avevo incontrato di sfuggita il suo sguardo.
Come
scottata, lasciai la presa sulle imposte della finestra e portai le mani alla
bocca, coprendola come se volessi far tacere un urlo, solo che urlare era
l’ultima delle cose che volevo fare in quel momento.
Era
ridicolo reagire così soltanto perché avevo visto passare Edward, senza contare
che, per me, lui era ancora uno sconosciuto. Avevamo scambiato solo poche
parole, sì, ma era tutto lì… noi eravamo ancora degli estranei.
Come
era possibile, allora, che la sua sola vista mi scatenasse dentro delle
emozioni e reazioni così… strane, e che non avevo mai provato in vita mia?
***
Una
volta che mi fui calmata, e dopo essermi finalmente vestita e pettinata,
abbandonai la tranquillità della mia camera e scesi al piano inferiore. Mentre
mi vestivo avevo sentito gli altri abitanti della casa parlare e camminare per
i corridoi, quindi ero sicura di non essere la prima persona mattiniera che
scendeva per fare colazione.
Beh,
non ero proprio la prima a scendere… al ricordo di Edward che scendeva nei
campi, le mie guance si accaldarono subito e le coprii istantaneamente con i
palmi delle mani. Aspettai qualche secondo prima di abbassarle, e lo feci solo
quando fui certa che il rossore fosse ormai sparito dalla mia pelle. Non potevo
essere davvero certa che fosse accaduto, ma comunque non potevo restare tutto il tempo
con le guance coperte.
Sarebbe
apparso strano, più strano ancora delle reazioni che avevo avuto.
Qualche
minuto dopo entrai nella cucina, scoprendola semivuota; erano presenti solo
Esme, che era seduta a tavola, e Sarah, impegnata a rimestare qualcosa in una
pentola che si trovava sul fuoco. Il dubbio che fossi scesa troppo presto si
insinuò nella mia mente.
«Buongiorno,
Esme.» dissi, avvicinandomi alla tavola.
Lei
mise subito da parte il pane che stava imburrando e si alzò in piedi,
stringendomi in un abbraccio. I suoi modi erano sempre così gentili e dolci,
ancora non ci avevo fatto l’abitudine… anche se era normale. Dopotutto, la
conoscevo da soli due giorni.
«Buongiorno
a te, mia cara. Hai dormito bene? Siedi qui vicino a me e mangia qualcosa, sono
sicura che avrai molta fame!» disse in fretta, indicandomi la sedia accanto
alla sua e invitandomi a fare come mi diceva con un bel sorriso.
Lo
feci subito, e lasciai scorrere lo sguardo sulle sedie vuote che circondavano
la tavola. «Gli altri non scendono?» la domanda mi sorse spontanea e non
riuscii a frenarmi dal dirla ad alta voce.
«Alice
scende tra poco, si stava preparando. Gli altri, invece, sono già andati tutti
a lavorare, anche tuo padre… ma non mangi, Bella?» mi chiese, dopo aver
lanciato uno sguardo al mio piatto ancora vuoto.
«Oh…
sì, certo.» afferrai subito una fetta di pane e il piattino della marmellata,
cosa che la fece sorridere soddisfatta.
Alice
ci raggiunse qualche minuto dopo, sorridente e allegra come solo poche persone
potevano essere al mattino presto. La gioia e la vitalità che emanava quella
ragazza erano incredibili, prima di lei non avevo mai conosciuto una persona che
fosse così felice in ogni momento della giornata.
«Buongiorno
mamma, buongiorno Sarah… ah, buongiorno Bella!» esclamò non appena si sedette,
afferrando una teiera e versandosi una generosa dose di tè.
«Buongiorno
tesoro.» replicò Esme, che prese la teiera dalle mani della figlia non appena
lei finì di versare la bevanda.
«Oggi
ho in programma moltissime cose: vorrei finire di sistemare il vestito celeste,
e per questo compito ho bisogno anche del tuo aiuto, Bella, voglio che lo
indossi per vedere come ti sta! E poi voglio anche cominciare qualche nuovo
centrino per il mio corredo… ah, e voglio già cominciare le nostre lezioni di
portoghese insieme!» disse velocemente prima di mordere un biscottino al burro.
«Tesoro,
non starai esagerando un po’ troppo? Potresti spaventare Bella!» la ammonì
scherzosamente sua madre.
«Ma
non la sto spaventando! Non ti sto spaventando, vero?» mi chiese, apprensiva.
«No
no, assolutamente no. Sono contenta di poter trascorrere un po’ di tempo
insieme a te, Alice.» dissi, sincera. Una volta superato l’ostacolo che
rappresentava l’esuberanza della mia nuova amica, non era così male stare in
sua compagnia.
«Avete
una giornata davvero molto piena, ragazze. Vi rivedrò solo durante i pasti
così!»
«Cercheremo
di finire prima, mi piacerebbe molto trovare il tempo anche per aiutare nelle
faccende domestiche…» iniziai a dire prima che Esme mi interrompesse, stupita.
«Non
essere sciocca, Bella, sei un ospite in questa casa, e gli ospiti non si
occupano delle faccende. Ci penseremo io e Sarah a quelle, come abbiamo sempre
fatto.» mi spiegò, pacata come sempre.
«Ma
a me piacerebbe molto aiutarvi! Stare senza far nulla, con le mani in mano… non
mi è mai piaciuto.»
«Oh,
va bene allora. Quando avrete finito di svolgere i vostri compiti vieni da me,
e se c’è rimasto qualcosa da fare sarai libera di occupartene.» posò una mano
sulla mia spalla, carezzandola piano. «Ma sono comunque dell’idea che non
dovresti occupartene.»
«Ma
non è assolutamente un problema, per me! Mi piace rendermi utile…»
«Oh,
insomma, quante chiacchiere inutili! Se hai terminato di mangiare, Bella,
possiamo andare ad occuparci dei nostri lavoretti! Dai, andiamo!» rapida e
scattante come una cavalletta, Alice fece il giro del tavolo e dopo avermi
presa per mano mi tirò su dalla sedia, portandomi via dalla cucina.
«Buon
lavoro, care!» ci gridò dietro Esme, divertita.
«Alice,
non correre!» esclamai mentre cercavo di starle dietro: si muoveva velocemente
ed io avevo già rischiato di cadere, inciampando nell’orlo del mio vestito.
«Ma
abbiamo così tante cose di cui occuparci! Dobbiamo muoverci!» Alice lasciò la
mia mano ma solo per potersi posizionare alle mie spalle e spingermi così lungo
il corridoio e lungo le scale che portavano al piano di sopra.
«Mi
farai cadere così!»
«No,
non cadrai, e se dovesse succedere ci sono io dietro di te, no? Non ti farai
del male!» ridacchiò, tornando a spingermi.
Cominciai
a ridere anche io: la sua vivacità era contagiosa.
***
«Sono
felice di conoscerti.» Alice scandì la frase parola per parola, facendomi
cogliere in questo modo suono e pronuncia, alzando gli occhi per qualche
istante dal suo ricamo.
«Sono
felice conoscerti.» ripetei, cercando di concentrarmi, ma mi sembrava di aver
sbagliato qualcosa…
«Hai
dimenticato una parola, Bella!» ridacchiò lei, facendomi notare l’errore.
«Diamine!»
da quando avevamo cominciato le nostre lezioni, che consistevano
semplicemente
nel formulare e ripetere frasi a caso in portoghese, non facevo altro
che
sbagliare. Eppure mi impegnavo. Sapevo anche di non aspettarmi
chissà quali risultati, visto che avevamo cominciato solo un
paio di ore prima, però...
Alice
rise di nuovo. «Non preoccuparti, è normale. Hai tutto il tempo di questo mondo
per imparare bene la lingua… e nel frattempo possiamo continuare ad usare
l’italiano, non è un problema.» disse, carezzandomi il dorso della mano con la
sua.
Le
sorrisi, riconoscente, e ringraziai il fatto che conoscesse benissimo
l’italiano: Carlisle lo aveva insegnato a tutti e tre i suoi figli, donando
loro una parte delle sue origini. Era stato un bel gesto, il suo.
Ma
per quanto fosse bello poter usare la mia lingua madre anche lì in Brasile,
dovevo a tutti i costi imparare il portoghese: era la mia priorità in quel
momento, non potevo continuare a non conoscere quella lingua. Mi ripromisi di
impegnarmi ancora di più, da quel momento in avanti.
Io
e Alice continuammo a parlare tra di noi, adesso usando l’italiano e l’istante
dopo usando il portoghese; era divertente, ma mi confondeva molto e, così,
spesso e volentieri mi ritrovavo a sbagliare pronuncia o parola, ripetendola
diversa da come l’aveva fatto invece Alice.
Ero
sollevata, un pochino, solo perché i miei errori si ripercuotevano sulla lingua
e non sul cucito che tenevo tra le mani. Parlavamo, e nel frattempo cucivamo:
fare entrambe le cose ci dava la possibilità di impiegare meno tempo e di
distrarci, di tanto in tanto.
Quello
a cui stavo lavorando era un semplice centrino di lino bianco, ricamato con un
motivo di rose; Alice, invece, stava sistemando gli orli e il busto del mio
nuovo vestito. Era stata molto contenta quando lo avevo provato per vedere se
mi stava bene, ma era rimasta un pochino delusa quando aveva visto che era un
po’ troppo morbido sulla pancia e sui fianchi: non pensava che fossi così
piccola di vita. Si era ripresa quasi subito dallo stupore e, armata di ago e
filo, aveva ripreso il lavoro.
Interrompemmo
le nostre faccende solo quando Sarah, carica di biancheria da lavare, ci
avvertiva di scendere perché si stava avvicinando l’ora del pranzo. Così
posammo i nostri lavori e scendemmo insieme. Alice mi prese sottobraccio e,
legate in questo modo, percorremmo il corridoio che ci avrebbe portate in
cucina.
Come
quella mattina, scoprii che saremmo state solo io, Alice ed Esme le uniche a
mangiare; la mamma di Alice ci spiegò che gli altri, impegnati a lavorare alla
piantagione, avevano fatto un salto per prendere un po’ di cibo e per portarlo
nei campi. Avrebbero mangiato tutti lì, per risparmiare tempo, e sarebbero
risaliti solo più tardi.
«Mi
sarebbe piaciuto molto salutare papà.» mormorai tra me e me, con lo sguardo
fisso sul mio piatto colmo di minestra. Non avevo ancora cominciato a mangiare,
cosa che invece Alice ed Esme avevano già fatto da qualche minuto.
«Già,
anche io volevo farlo… ma è sempre così, qui, non vedrai nessun uomo della
famiglia prima dell’ora di cena. Lavorano tantissimo, specialmente adesso che si
sta avvicinando il momento della raccolta!» si lamentò Alice, che aveva sentito
quello che avevo detto.
«Il
mese prossimo è quello più intenso, ma passa velocemente. Vedrai che da un
giorno all’altro ti lamenterai perché avrai i tuoi fratelli sempre tra i
piedi!» scherzò Esme.
«Oh,
ma io sono contenta se passo del tempo insieme a loro! L’importante è che
Emmett non mi faccia i soliti dispetti stupidi!»
«E’
così cattivo con te?» chiesi, mangiando finalmente un po’ di minestra.
«Non
è cattivo, è solo che a lui piace scherzare e divertirsi… ma a volte esagera.»
mi spiegò Alice. «Edward invece è più tranquillo, pacato, e anche lui alcune
volte non sopporta Emmett!» rise, spezzando un po’ di pane.
Edward.
Sentire quel nome scatenò dentro di me nuovamente le sensazioni che avevo
provato quella mattina, quando lo avevo visto scendere alla piantagione. Chiusi
gli occhi, cercando di calmare me stessa ed il mio cuore, che aveva cominciato
a battere forte.
Perché
mi accadeva tutto questo?
«Bella,
tesoro, sei ancora sicura di voler darci una mano nei lavori domestici?» Sarah,
che si era avvicinata al tavolo della cucina dopo essere rientrata in casa,
posò una nuova brocca d’acqua davanti a me. «Ho appena messo i panni bagnati ad
asciugare in cortile. Se vuoi, più tardi puoi raccoglierli e piegarli.»
«Lo
faccio con piacere, Sarah!» esclamai.
«Bella,
ma noi dobbiamo ancora finire di sistemare il tuo vestito!» mi ricordò Alice
alzando la voce.
«Tesoro,
non urlare! Potete fare entrambe le cose, basta che per l’ora di cena tornate
qui entrambe e non fate tardi.» Esme sistemò la situazione, versandosi l’acqua
nel bicchiere.
Più
tardi, terminato il pranzo, io e Alice tornammo di nuovo nella sua stanza. Non
appena chiusi la porta, però, lei mi si parò davanti guardandomi in modo
strano.
«Sai
che non sei costretta, vero? Voglio dire, ci sono la mamma e Sarah che si
occupano della casa, e qualche volta lo faccio anche io… non devi sentirti
costretta a farlo anche tu.» mormorò, stringendomi le mani.
«Ma
io non mi sento costretta, Alice! mi piace aiutare, l’ho sempre fatto, anche a
casa in Italia… lì, eravamo io e la zia ad occuparci della casa, e nessun
altro.» sorrisi, tranquillizzandola. «È come tornare a fare qualcosa di
familiare.»
«Oh,
d’accordo allora! Sbrighiamoci a finire le modifiche al vestito così poi
possiamo fare qualcos’altro!»
Fortunatamente,
i nuovi ritocchi erano giusti e non c’era bisogno di tornarci su un'altra
volta.
***
Da
sola, senza che nessuno fosse costretto a dirmi di nuovo dove si trovasse il
cortile, scesi e per fortuna lo trovai senza alcun problema. Era impossibile
sbagliarsi, dopotutto: una volta fuori casa eri completamente circondata dal
cortile.
Raggiunsi
il punto che mi interessava, quello che era riservato al bucato. C’erano i
panni che Sarah aveva steso in precedenza e che, grazie al sole cocente,
dovevano ormai essere completamente asciutti.
Era
così strano per me sentire tutto quel caldo nel mese di Marzo, quando invece
ero abituata a sentire ancora il freddo ed il vento pungente in Italia. Preferivo
di gran lunga questo clima a quello invernale, se dovevo essere sincera. Non mi
era mai piaciuto il freddo.
Mi
misi all’opera, smettendo di pensare, e con calma cominciai a prendere i
vestiti e le lenzuola dai fili del bucato, ripiegandoli e posandoli in pile
ordinate mano a mano che continuavo. Riconobbi alcuni dei miei indumenti e
quelli di papà, tra gli altri. Chissà di chi erano, se quella camicia bianca
apparteneva a Carlisle o se i pantaloni marroni fossero, invece, di Emmett.
Pensavo
e sorridevo, non potevo farne a meno.
Avevo
quasi finito di raccogliere tutto il bucato quando Sarah venne a controllarmi.
«Pensavo
che avessi bisogno di una mano, ed invece hai già finito!» esclamò divertita.
«Non
ci è voluto molto…» mi giustificai, anche se sapevo che non c’era bisogno di
giustificarsi.
«Ti
do una mano a dividere i vestiti, va bene? Così poi li portiamo nelle stanze
dei proprietari.» mentre parlava aveva già cominciato a dividere i vestiti in
diverse pile.
Pochi
minuti dopo, piena di vestiti che tenevo tra le braccia, entrai in casa e salii
le scale per posarli nelle stanze che mi aveva indicato Sarah, quelle dei
fratelli Emmett e Edward. Sperai solo di non lasciare i vestiti sbagliati nelle
camere sbagliate.
Dopo
aver lasciato metà dei vestiti in una camera uscii e mi diressi verso la
successiva, che si trovava proprio di fronte a quella che avevo appena
lasciato. Entrai senza bussare e, lasciando la porta socchiusa, mi voltai per
posare gli abiti sul cassettone ma mi fermai, vedendo che non ero da sola nella
stanza.
Sussultai
e lanciai un piccolo urlo, voltandomi di scatto per evitare lo sguardo
dell’altro. Sentii le guance scaldarsi per l’imbarazzo mentre chiudevo gli
occhi; avrei dovuto bussare prima di entrare, e mi stavo pentendo della mia scelta
di non farlo…
«Ehi,
va tutto bene?» la voce tranquilla e pacata di Edward mi raggiunse, facendomi
capire che non era arrabbiato per via della mia intrusione nella sua camera.
Mi
voltai, mantenendo però lo sguardo basso; mi vergognavo, e il fatto che Edward
fosse nella stessa stanza insieme a me senza camicia rendeva ancora più forte
il mio imbarazzo. Non avevo mai visto un uomo a petto nudo, mai.
«Avrei
dovuto bussare, mi-mi dispiace…» balbettai, confusa.
«Non
è successo nulla di grave, non giustificarti.» cercava di tranquillizzarmi, e
sentii i suoi passi avvicinarsi a me.
Deglutii
a vuoto, confusa a causa della sua improvvisa vicinanza e dei suoi modi
tranquilli. Alzai finalmente lo sguardo e mi tranquillizzai un pochino quando
vidi che aveva indossato la camicia; la teneva aperta, ma almeno era più
coperto rispetto a prima.
«Sono
passata a… lasciarti i tuoi vestiti…» mormorai, alzando di poco le braccia per
mostrarglieli.
Edward
sorrideva, ma non capii se lo faceva perché era divertito per il mio imbarazzo
o lo faceva semplicemente perché era abituato a farlo. «Dalli a me, ci penso io
a posarli. Grazie.» disse, prendendo gentilmente i vestiti dalle mie braccia.
«Senti,
Edward… è tornato anche… mio padre?» domandai incerta. Non volevo mostrarmi
così insicura ai suoi occhi, ma non riuscivo a calmarmi. Era la sua presenza
che mi rendeva così nervosa…
«No,
non ancora. Io sono andato via prima perché volevo leggere un po’ prima di
cena.» mi spiegò, sempre sorridendo. Mi piaceva il suo sorriso.
«Oh,
ho capito! Grazie mille, adesso… vado giù, si.» vergognandomi a morte, agitai
velocemente la mano in segno di saluto e altrettanto velocemente uscii dalla
camera, sbattendo forte la porta alle mie spalle e non dando il tempo a Edward
di potermi salutare.
Corsi
verso le scale e, una volta lì, mi fermai per sedermi su uno dei gradini.
Cercai di riprendere fiato e di calmarmi, sentivo il respiro accelerato e il
cuore battere forte. Posai le mani sul petto e rimasi così, seduta, per non so
quanti minuti ad aspettare.
Mi
sentivo indifesa e scombussolata, non riuscendo a capire la natura di quelle
strane emozioni che facevano la loro comparsa solo quando mi trovavo accanto a
Edward, o sentivo parlare di lui.
Stavo
forse diventando pazza?
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Siamo ancora agli inizi, ancora un po’
di pazienza e cominceremo ad entrare nel vivo della storia :).
Un bacio a tutte, e grazie per essere arrivate qui.
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