Sotto un cielo coperto di stelle

di KrisJay
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo1

Buon pomeriggio, e buon 1° Maggio a tutte!
Non ho molto da dire, in questo momento, l’ansia da prestazione mi sta giocando un brutto scherzo XD
Comunque… quello che state per leggere è il primo capitolo della mia nuova long. Non so ancora quanti capitoli saranno, credo che lo scoprirò mano a mano che la storia andrà avanti e… beh, spero che voi lo scopriate insieme a me :)
Ringrazio già adesso chi leggerà e chi vorrà lasciare il suo parere in una recensione :)
Per chi non mi conosce, ma vuole rimanere aggiornata sulla storia o sulle altre che ho in corso, può trovarmi qui
nel mio gruppo Facebook ;)
E adesso vado via XD buona lettura :*

 
 

 

 
 

Sotto un cielo coperto di stelle

 
 

Capitolo uno
 
Bella
Porto di Genova, 11 Febbraio 1887

Osservavo con attenzione l’enorme nave, quasi in procinto di partire, che si andava riempiendo con l’avanzare dei minuti. Uomini, donne, bambini piccoli, ragazzi e fanciulle si apprestavano a salire sul mezzo di trasporto, carichi di bagagli, aiutati da assistenti e marinai.
Anche io stavo per imitarli, essendomi ormai rassegnata all’idea di partire.
Avevo contato i giorni che mancavano alla partenza con timore, sperando che prima o poi mio padre cambiasse idea e che decidesse di non affrontare più il lungo viaggio, che stava quasi per cominciare, ma avevo sperato male perché mi trovavo lì, al porto, davanti a quel mostro di ferro che mi metteva paura.
Non ero mai salita su una nave, e adesso che stavo per farlo avrei tanto voluto voltarmi e fuggire dal porto per tornare a casa mia… ma mio padre non me lo avrebbe mai permesso.
Come se stesse percependo i miei pensieri, sentii la sua mano poggiarsi con gentilezza sulla mia spalla e cominciare ad accarezzarla. Mi girai verso di lui e alzai il viso, incontrando i suoi occhi scuri e così simili ai miei. Lui mi sorrise, e nel farlo i suoi folti baffi si arricciarono, quasi.
«Cosa ne pensi, cara?» mi chiese.
«Penso che ho paura a salire lì sopra…» pigolai, tornando a fissare di nuovo la nave. «Non affonderà, vero?» aggiunsi, timorosa.
Lo feci ridere grazie alla mia domanda. «No, non affonderà, tranquilla.» si chinò di qualche centimetro, e sentii le sue labbra che sfioravano in un bacio i miei capelli, per poi rialzarsi. «Vieni con me, gli zii ti vogliono salutare.» mi disse poi.
«Gli zii? Non sono ancora andati via?» un briciolo di speranza si insinuò nel mio petto. Forse erano rimasti perché volevano convincere papà a non farmi partire…
«No, prima di andare vogliono salutarti.» la sua risposta mise fine alle mie speranze.
Non voglio partire.” Ripetei dentro la mia testa, lasciandomi guidare da mio padre in mezzo alla folla di gente che ci circondava. Non volevo lasciare la mia casa, i posti in cui ero nata e cresciuta, l’odore e il sapore della mia terra… non volevo partire per raggiungere un paese a me sconosciuto, e abbandonare così la mia famiglia.
Il luogo dove io e papà eravamo diretti, si chiamava Brasile. Conservavo ancora qualche nozione di geografia, grazie alle sporadiche e simpatiche lezioni che mio zio mi aveva regalato di tanto in tanto durante gli anni, e del Brasile sapevo solo che si trovava nelle americhe, e che era grandissimo. Forse era tre volte più grande dell’Italia, ma non ne ero così sicura. E sapevo anche che, per raggiungerlo, dovevamo attraversare in nave il mare e l’oceano, e affrontare giorni e giorni di viaggio. Papà mi aveva detto che forse ci avremmo impiegato due settimane per arrivare lì, se non tre.
Era un sacco di tempo per un viaggio, ed io non avevo mai viaggiato così tanto in tutta la mia vita. A dire la verità, non avevo mai viaggiato in tutta la mia vita. Avevo sempre visto e vissuto sulla mia pelle il sole e le campagne della Liguria, e mai avrei voluto abbandonarle per andare a vivere in un luogo così lontano ed estraneo… ma stavo per farlo, proprio in quel momento.
«Eccoli, sono lì.» smisi finalmente di pensare, e seguii con gli occhi la direzione che papà stava indicandomi con l’indice: a pochissima distanza da noi, sul marciapiede sovraffollato del porto, c’erano i miei zii.
La famiglia che stavo lasciando in Italia, per poter raggiungere una nuova terra.
«Zio James, zia Victoria!» urlai, allontanandomi da papà per raggiungerli correndo. Nel farlo urtai alcune persone, ma non mi fermai per scusarmi con loro.
Zio James sorrise non appena mi vide, allargando le braccia ed invitandomi così a prendere posto nel mezzo. Mi strinse forte una volta che gli fui vicina, ed io ricambiai subito la stretta sentendo gli occhi che cominciavano a pungere. Era inevitabile piangere, e non volevo assolutamente trattenermi.
Zio James era il marito di mia zia Victoria, la sorella di mamma: erano gli unici parenti, oltre a papà, che mi restavano. I miei nonni non c’erano più, così come mia madre, che non avevo mai conosciuto. Papà da bambina mi aveva raccontato che si trovava in cielo e che vegliava sempre su di me, e quando fui più grande capii che lei era morta dandomi alla luce. In qualche modo mi sentivo in colpa per la sua morte, nonostante quello che mi dicevano gli altri. Ma non potevo farci niente.
Era stata zia Victoria ad allevarmi, insieme a papà: lei mi aveva cresciuto come se fossi stata sua figlia, ed io le volevo bene come se fosse stata la mia vera mamma… e adesso mi dispiaceva da morire lasciarla e partire, soprattutto adesso che era diventata da poco mamma di un bambino dolcissimo e stupendo. Mi si stringeva il cuore, al pensiero che forse non avrei mai potuto conoscere meglio e veder crescere con i miei occhi il mio piccolo cuginetto.
«Ehi, raggio di sole! Non essere triste, sarà solo una separazione momentanea.» mi promise zio, carezzandomi la testa.
Mi scostai giusto quel tanto che bastava per poterlo guardare meglio in viso, che rispetto al mio sembrava divertito, ma con un piccolo accenno di stanchezza. «Verrete in Brasile anche voi, vero? Presto?» ci speravo davvero tanto, in questo, perché saperli così lontani era terribile, ed io non volevo stare loro lontana.
«Un giorno, Bella, un giorno.» a rispondermi fu la zia, che si trovava accanto a me, ed io non me ne ero affatto resa conto.
«Zia!» sorrisi, e allungai una mano per stringere la sua, quella libera, e nel farlo una lacrima mi scese sulla guancia.
«Non piangere, Bella, sai che non devi.» mormorò lei, sorridendomi. Mentre la osservavo bene notai che aveva gli occhi lucidi, prossimi al pianto. Anche se non lo dava a vedere, era triste almeno quanto me.
«Ma non voglio partire, se voi restate qui!» mi lamentai un’ultima volta, nonostante sapessi che era soltanto l’ennesimo tentativo inutile.
«Vi raggiungeremo il prima possibile, davvero. Ma guarda, io e tuo zio abbiamo una cosa per te!»
Scacciando le lacrime, mi scostai per dare a zio James la possibilità di muoversi e mi avvicinai a zia Victoria, sorridendole. Lei ricambiò e mi accarezzò piano una spalla prima di tornare a guardare suo marito, così la imitai anche io.
Zio, divertito, mi stava porgendo un pacchetto avvolto da una carta marrone e mi invitava a prenderlo, così lo feci e cominciai a rigirarmelo tra le mani. Non immaginavo che avessero voluto farmi un piccolo regalo…
«È un set per la scrittura. Abbiamo pensato che ti avrebbe fatto piacere scrivere e spedirci una lettera, di tanto in tanto…» mi spiegò lei.
«È… è bellissimo, grazie.» mormorai. Non avevo ancora aperto il pacchetto, ma sapevo che mi sarebbe piaciuto ugualmente, visto che già mi piaceva l’idea di scrivere delle lettere e di spedirle a loro, magari ogni settimana.
«Ho scelto bene, sapevo che ti sarebbe piaciuto!» commentò lo zio, pizzicandomi una guancia. «Charlie! Mi raccomando, fateci sapere il prima possibile com’è andato il viaggio…»
Lasciai papà e zio parlare tra loro, e mi concentrai sulla quinta persona che si trovava insieme a noi e che, in quel momento, stava dormendo beatamente tra le braccia di sua madre, nonostante il baccano che c’era al porto. Avvolto com’era nella copertina, riuscivo a scorgere solo una manina, il visino tranquillo ed i pochi capelli castani di Riley.
Istintivamente gli carezzai la piccola fronte e mi chinai per baciargliela. Mi sarebbe mancato moltissimo, mi ero affezionata così tanto a lui in quei suoi pochi mesi di vita. «È un bambino così bello…»
«Già, è stupendo.» zia guardò suo figlio, innamorata persa. «Assomiglia a James, non trovi?»
Ma prima che potessi avere l’opportunità di rispondere, papà venne da noi e ci interruppe. Mi guardò in maniera colpevole, sapendo com’era che la pensavo su quel viaggio che non avevo la minima intenzione di cominciare.
«Tesoro, è ora di andare.» mi disse mestamente.
Era una delle poche frasi che non avrei mai voluto sentire, mai e poi mai. Annuii, rimanendo in completo silenzio, e stringendo allo stesso tempo il pacchetto tra le mani come se fosse in grado di darmi la forza che stavo cercando, e di cui avevo un disperato bisogno.
Abbracciai di nuovo mia zia, non trattenendo per nessun motivo le lacrime, prima di tornare dallo zio e di lasciarmi stritolare dalla sua presa.
«Presto saremo di nuovo insieme, è una promessa tesoro.» sussurrò zia, asciugandosi il viso dalle lacrime.
«Ciao, raggio di sole.» zio, abbracciando le spalle della moglie, mi lasciò un buffetto sulla guancia e mi sorrise nuovamente.
Osservai ancora per qualche istante i loro visi, tristi ma che cercavano di non darlo a vedere, fino a quando papà non mi fece segno di andare con lui. Aveva già recuperato i nostri bagagli, che consistevano in due valige di modeste dimensioni, piene delle nostre cose, e con me che lo seguivo si incamminò di nuovo verso il molo, dove c’era la nave che ci stava aspettando.
Prima di salirci, mi girai di nuovo per vedere un’ultima volta i miei zii, ma di loro non c’era più traccia: erano stati coperti dalla folla, e dietro di me non c’erano altro che persone che stavano per intraprendere il mio stesso e lungo viaggio.
Con le lacrime che mi scorrevano di nuovo copiose sul viso, e con i singhiozzi che cercavo di trattenere, mi voltai e cominciai a percorrere la passatoia della nave.
 

***

 
Ovunque guardassi, l’unica cosa che riuscivo a vedere era il mare aperto.
Di un blu che a tratti diventava quasi nero, il mare era l’unica cosa che ci circondava: la terraferma non si scorgeva già più. E tutta quell’acqua, così profonda e di cui avevo così tanta paura, mi faceva capire che la mia vita stava per prendere una piega diversa rispetto a quella che avevo sempre visto e vissuto.
E questo cambiamento così improvviso mi spaventava a morte.
Avevo il terrore di scoprire come fosse in realtà il luogo in cui stavo andando. Sapevo, tramite le informazioni che papà aveva racimolato, che il Brasile era una terra baciata dal sole e fertile, ricca di risorse, e dove le possibilità di lavorare e di avere un tenore di vita migliore erano molto più alte, rispetto a quelle che avevamo in Italia.
Lì, purtroppo, le condizioni di vita non erano molto buone. Anche se avevamo la terra da coltivare riuscivamo a stento a sostentarci, e prima di noi moltissimi nostri amici e conoscenti erano già partiti in cerca di fortuna, chi negli Stati Uniti e chi, come noi, in Brasile.
Papà si era lasciato convincere a partire grazie ad un suo vecchio e caro amico, e ormai erano anni che si trovava in quel paese. Io non lo avevo mai conosciuto, e papà mi aveva raccontato che era partito insieme ai suoi genitori quando era poco più di un bambino… ma si erano sempre tenuti in contatto, anche se le lettere arrivavano a distanza di mesi, qualche volta anche anni.
Sapevo anche che l’amico di papà era diventato ricco, e che adesso era il proprietario di una vasta terra dove si coltivava caffè. Il caffè, a quanto sembrava, era la coltura più importante e coltivata di tutto il paese.
E io e papà, una volta arrivati lì, avremmo lavorato nella sua terra. E questa era una delle poche cose che non sarebbero cambiate laggiù, perché sin da quanto ricordassi io avevo sempre lavorato nei campi. A casa curavo l’orto, raccoglievo la frutta e alcune volte lavoravo nelle vigne dei nostri vicini, anche se non era il periodo della vendemmia.
Sospirai, poggiando le mani sul parapetto in ferro della nave: erano ormai diverse ore che mi trovavo lì, con il vento freddo che mi colpiva in viso e che mi scompigliava i lunghi capelli, e che ogni volta mi faceva rabbrividire. Il sole, alto nel cielo, non aiutava molto nello scaldarmi, ma dopotutto era ancora il mese di Febbraio, ed era normale che facesse freddo.
Mi ero allontanata da papà qualche minuto dopo la partenza, sentendo l’assoluto bisogno di stare da sola e di sfogare tutta la tristezza che sentivo dentro al petto, e tutte le lacrime che ancora non avevo pianto. Ma prima di farlo, avevo riposto il pacchetto all’interno della mia valigia per paura che potesse rovinarsi.
Avevo aperto il regalo dei miei zii, spinta dalla curiosità nello scoprire quello che si celava dietro quella carta. Era, come mi avevano spiegato, un set per la scrittura: c’erano dei fogli dalla fattura pregiata e alcune buste da lettere dello stesso tipo, che avrei utilizzato quando volevo spedire una lettera in Italia. C’erano anche una boccetta di inchiostro e un pennino… ed era tutto così bello e elaborato che capii che doveva essere costato molto.
Gli zii dovevano aver fatto molti sacrifici per acquistarlo, per regalarlo a me, e purtroppo non possedevano molto denaro.
Mi strinsi nello scialle di lana che avevo sulle spalle, osservando la distesa di acqua che sembrava non avere più fine. Si notava a malapena il punto in cui il mare si univa al cielo. Eravamo partiti da pochissime ore, e già desideravo che quel viaggio finisse. Due settimane sulla nave erano così lunghe, e volevo disperatamente rimettere i piedi sulla terraferma.
Non ero una grande amante dei viaggi via mare, e lo avevo già capito grazie a queste prime ore di traversata.
«Ah, Bella, sei qui.» ero ancora impegnata a contemplare il mare quando papà mi raggiunse. Doveva aver pensato che fossi stata sola abbastanza a lungo da voler desiderare un po’ di compagnia.
Annuii, tracciando con le dita alcune linee indefinite sul parapetto. Mi girai, osservando ad occhi bassi le braccia di papà che erano così vicine alle mie. Adesso, lui era l’unica persona su cui potessi fare affidamento per qualsiasi cosa. Era la mia unica ancora…
«Bello, vero? Tutto questo mare…» mormorò, sorridendo, mentre scrutava attentamente l’orizzonte. Abbassò lo sguardo e si accigliò quando notò che lo stavo osservando. «Tesoro, hai pianto? Hai gli occhi molto arrossati.»
Subito li strofinai con una mano, distogliendo lo sguardo dal suo. «Non sono riuscita a trattenermi, papà.» sussurrai, talmente piano da credere che non mi avesse sentita.
Subito le sue braccia mi circondarono e mi strinsero contro il suo petto, e lo sentii sospirare. «Bambina mia, so che per te è difficile…»
«E allora perché siamo andati via?» domandai, forse ancora più piano di prima.
Papà sospirò di nuovo. «Perché così abbiamo la possibilità di avere una vita migliore, rispetto a quella che stavamo vivendo in Italia. Credimi, dispiace anche a me essere andato via, ma voglio fare tutto quello che è nelle mie possibilità per regalarti un futuro migliore.»
Sapevo già che questa era una delle motivazioni, forse la più importante, che lo avevano spinto a partire e a lasciare la nostra terra: la possibilità di darmi tutto quello che in Italia invece faticava a donarmi, ed ero grata a lui per tutti gli sforzi che faceva per me.
Alzai il viso, guardandolo di nuovo. «Ma papà, io sono felice, anche con le poche cose che abbiamo…»
«Lo so, Bella, lo so… ma sembrerei egoista, se volessi regalare alla mia bambina tutto quello che desidera e che invece non può avere? Una vita bella, agiata, piena e soddisfacente…»
«Oh, papà!» lo strinsi forte, soffocando un singhiozzo sul suo petto.
Restammo per un po’ in silenzio, estranei a tutto il resto, concentrandoci su quel momento così intenso ed importante. Scostai il viso per guardare di nuovo il mare aperto, scoprendo che era diventato ancora più blu di prima. La luce del sole faceva brillare tutta la superficie come se fosse uno specchio, uno specchio enorme e quasi senza fine.
«Papà…»
«Sì, tesoro?» mi osservò, aspettando che continuassi a parlare.
Battei un paio di volte le palpebre, concentrandomi sui suoi occhi scuri. «Il signor Carlisle ci aiuterà?» chiesi.
Carlisle Cullen, era il nome dell’amico d’infanzia di papà. Lo avevo sentito nominare così tante volte che ormai era come se lo conoscessi da sempre, anche se non lo avevo mai visto di persona e non sapevo che aspetto avesse. Ma ogni volta che pensavo a lui, e al suo nome, vedevo nella mia mente un uomo panciuto e ben vestito, con i capelli grigi e la pelle ambrata, come chi è abituato a trascorrere ore e ore sotto il sole cocente. Ed in più lo immaginavo come una persona gentile, perché solo chi è gentile e altruista poteva aiutare un vecchio amico che non vedeva più da moltissimi anni.
«Sì, tesoro, ci aiuterà.» mi rispose, baciandomi i capelli. «E’ stato lui a propormi di partire, e non è la prima volta che lo fa. Sono anni che ci prova, e ancora mi stupisco che non abbia perso la pazienza dopo tutti i miei rifiuti!» rise, scuotendo la testa.
Mi scappò un sorriso. «E alla fine hai accettato…»
«Sì, ho accettato. Credimi, non so che darei per vedere la faccia che ha fatto il vecchio Carl quando ha ricevuto la mia lettera!» rise di nuovo. «La sua risposta è arrivata prima del previsto, credo che non volesse perdere tempo e comunicarmi il prima possibile che mi avrebbe aspettato, e che voleva che partissi il prima possibile.»
Non dissi nulla, presa com’ero ad ascoltarlo parlare. Si capiva benissimo che lui e il suo amico erano ancora molto legati e che per loro quel ricongiungimento significava molto. E capii che ero stata egoista ad oppormi a quel viaggio, solo perché non volevo lasciare gli zii e la nostra casa… non avevo capito che papà ci teneva così tanto, e che per lui significava molto raggiungere il Brasile.
«Sai, ci siamo sempre raccontati tutto, grazie alle lettere. Io ho detto a lui che mi sono sposato e che ho avuto te, la mia bambina speciale… e Carlisle mi ha raccontato di aver trovato una moglie meravigliosa che le ha donato tre figli altrettanto meravigliosi. Parole sue!»
«Tre figli?» non avevo mai considerato quell’aspetto della vita di Carlisle.
«Sì, tre figli. I maschi sono i più grandi, e sono gemelli, ma a quanto sembra non si somigliano per niente! E poi c’è la più piccola, ha la tua età più o meno… potrebbe diventare tua amica.»
Un’amica… a questo non avevo proprio pensato. «Sì, penso che potremmo diventarlo.»
«E poi Carlisle mi ha detto che lì, in Brasile, l’inverno non esiste per niente! C’è sempre il sole, e fa sempre caldo… non ha nevicato neanche una volta, da quando lui si trova lì. E questo particolare penso che ti piacerà molto, so che non ami molto il freddo.» mi pizzicò il naso, ridendo.
Risi insieme a lui.
Dopotutto, da come me lo stava descrivendo, non sembrava così male vivere in Brasile.
 

***

 
Edward
Fazenda ‘Paraíso’, 20 febbraio 1887 

La vita nella fazenda era, come sempre, movimentata e frenetica.
Il lavoro era sempre molto, sia se si svolgeva nei campi di caffè e sia se si svolgeva all’interno dei magazzini, dove veniva stipato il raccolto; una buona parte del lavoro si svolgeva anche in casa e nei suoi paraggi, grazie all’orto e al piccolo pollaio che erano situati lì.
Non si poteva certo dire che morivamo di noia: c’era sempre così tanto da fare da mantenersi impegnati per la gran parte del giorno. Specialmente durante questi ultimi giorni, dove il lavoro si era intensificato, ma non a causa delle piantagioni, o per il raccolto… per quello, era ancora troppo presto.
Era per via di una notizia, che papà aveva comunicato a me e a tutta la famiglia, e che ci aveva colti tutti alla sprovvista: stavano per arrivare due ospiti alla fazenda, due ospiti che avrebbero vissuto insieme a noi a tempo indeterminato.
A quanto sembrava, il vecchio amico di papà, un italiano di nome Charlie Swan, aveva finalmente deciso di accettare il suo invito e di venire a vivere in Brasile. Con lui sarebbe arrivata anche sua figlia, una ragazza di nome Isabella.
Lui ci aveva spiegato che per loro vivere in Italia, la loro patria, nonché quella di mio padre, stava diventando sempre più difficile, e che speravano di cominciare una nuova vita nel nuovo continente. Papà si era offerto di ospitarli fino a quando non si sarebbero ambientati e sistemati, e nel frattempo avrebbero lavorato insieme a noi nella fazenda.
Così, di lì a poche settimane avremmo avuto due nuovi ospiti in casa, e due nuovi aiutanti, cosa che non dispiaceva: la fazenda era grande, il lavoro molto, e quattro mani in più facevano sempre comodo. Però, a differenza di papà, io non ero molto convinto di questo improvviso cambiamento.
Avevo come il presentimento che tutto questo non fosse una buona idea. Certo, rispettavo mio padre e sapevo che il suo gesto di generosità, rivolto al suo amico di cui ci aveva così tanto parlato durante gli anni, era fatto in buona fede… ma non riuscivo comunque a convincermene.
Forse, una volta aver conosciuto Charlie Swan e sua figlia, sarei finalmente riuscito a cambiare idea… ma per adesso, non ci riuscivo.
«Edward, posso?»
Alice, mia sorella, mi raggiunse sul portico di casa, dove io mi ero rifugiato per sfuggire un po’ ai lavori nei campi e per godere di un po’ di riposo. Sapevo che non sarebbe durato per molto, però: una decina di minuti, quindici al massimo, e poi sarei scappato di nuovo via.
Mi voltai verso di lei e le sorrisi, facendole un breve cenno per invitarla ad avvicinarsi. Lei, sorridendo subito, si staccò dalla parete dove si era poggiata e si sistemò a sedere accanto a me, su uno dei gradini del portico.
Le carezzai i capelli scuri, divertito; mi piaceva sempre molto stare in compagnia di mia sorella. Era la piccola di casa, e l’unica figlia femmina, la più coccolata e viziata… ma nonostante questo, era dolce e sensibile. Tutto il contrario di molte altre ragazze della sua età.
«Che cos’hai, lì?» le chiesi, notando il mucchietto di stoffe bianche che si era sistemata in grembo.
Scrollando le spalle, gettò ad esse una veloce occhiata. «La mamma mi ha chiesto di ricamare questi asciugamani… sono per Isabella.»
Aggrottai le sopracciglia; dal modo in cui mi aveva risposto, sembrava che quel compito non le piacesse affatto. «Non ti va di ricamarli?» le domandai allora.
«No, non è per questo!» mi rispose subito, agitandosi. «Vedi, è che mi sembra strana questa storia del ricamare gli asciugamani per Isabella, intendo… voglio dire, mamma non mi aveva mai chiesto di farlo prima, anche quando avevamo degli ospiti in casa.»
«Beh, forse vuole solo essere gentile. Isabella e Charlie, dopotutto, vivranno insieme a noi per un bel periodo.»
Alice, dopo che ebbi terminato di parlare, abbassò lo sguardo e cominciò a strofinare le dita sulle stoffe bianche, come se fosse sovrappensiero. Una lunga ciocca di capelli corvini, sfuggiti al nastro che teneva legato sui capelli, le ricadde davanti al viso e lei lo scacciò via, quasi scocciata.
«Ma tu che ne pensi del loro arrivo?» mi chiese allora, voltandosi di scatto verso di me. «Non sarà stata una mossa… troppo azzardata?»
Scossi la testa, poggiando le mani dietro di me e chinandomi all’indietro. «Non credo. Vedi, Alice, il gesto di papà è stato molto altruista e generoso… ha deciso di aiutare e di ospitare in casa sua il suo vecchio amico d’infanzia e sua figlia, in pochi al posto suo lo avrebbero fatto. E poi ha detto che sono delle brave persone, e mi fido del suo giudizio… non penso che sia stata una scelta sbagliata.» continuai a fissare mia sorella, mordendomi l’interno della guancia. «Isabella ha la tua età, più o meno… potreste diventare buone amiche, anche papà la pensa allo stesso modo.»
Le guance di Alice si imporporarono tutto d’un tratto, e un piccolo sorriso le animò il viso; diventava ancora più tenera, quando si imbarazzava. «Non ho mai avuto un amica…» mormorò, grattandosi una guancia.
«Vedi? Questa è l’occasione giusta per rimediare!» scherzai, e tornai a sedermi per abbracciarla e per lasciarle un piccolo bacio sulla tempia. «Portai aiutarla ad ambientarsi qui, e per insegnarle la nostra lingua… altrimenti sarà un po’ difficile per voi parlare, non trovi?»
Una piccola risata le uscì dalle labbra. «Credo proprio di sì…»
Le sorrisi di nuovo, le lasciai una carezza sulla spalla e, infine, mi alzai: era arrivato il momento di tornare di nuovo ai miei doveri, e al lavoro nei campi. «A più tardi, sorellina.» la salutai.
Lei sorrise e, restando in silenzio, mi salutò agitando la mano prima di gettarsi a capofitto nel suo compito di ricamo. Sembrava più tranquilla, dopo la nostra piccola chiacchierata.

***

 
Bella
27 febbraio 1887

Un nuovo giorno di viaggio era appena cominciato. Era il sedicesimo, per essere proprio precisa.
Durante questi giorni avevo cominciato a scrivere una sorta di diario personale, dove annotavo tutto quello che accadeva sulla nave e tutte le varie sensazioni che provavo mano a mano che il viaggio continuava. Scrivevo tutto su un vecchio quaderno che avevo trovato tra i miei bagagli, e che non ricordavo affatto di aver preso. Ma alla fine ero stata contenta di averlo trovato: scrivere mi teneva compagnia per la maggior parte del tempo.
Non che la compagnia mancasse, sulla nave. Eravamo più di mille persone, tutte dirette in Brasile, e c’erano molti miei coetanei. Spesso mi ritrovavo a parlare con alcune ragazze, che erano poco più grandi di me, ma alla fine l’età non significava molto quando ci ritrovavamo tutti là sopra, con gli amici e i parenti lontani.
In questi giorni, tutti ci eravamo impegnati e avevamo cominciato ad esercitarci con il portoghese, la lingua che si parlava in Brasile, ma nonostante tutto io ero riuscita ad imparare solo le basi e le frasi che venivano utilizzate più spesso. Papà mi aveva rassicurata, dicendomi che una volta arrivati avrei avuto tutto il tempo di impararla meglio e di interagire con le persone del posto per capirla alla perfezione.
Sperai che avesse ragione.
E ormai non mancava più così tanto al nostro arrivo… anzi, mancava davvero poco. Il clima invernale ci aveva pian piano abbandonato e adesso intorno a noi si respirava aria di primavera, ma poteva anche passare per un principio di estate. Faceva caldo, e ben presto il mio caldo scialle di lana era stato riposto nella valigia, insieme agli abiti più pesanti, sostituiti da quei abitini leggeri che indossavo durante il periodo estivo in Italia.
Papà aveva ragione: in Brasile non sembrava essere davvero inverno, e forse non avrei mai più risentito sulla mia pelle quel freddo intenso e pungente che odiavo tanto, e che rendeva più cupi e tristi i paesaggi durante quei mesi invernali.
Pian piano avevo accettato il fatto di aver lasciato in Italia la mia vecchia vita e di starne per cominciare una nuova in Brasile, ma la tristezza, concentrata tutta nel mio cuore, c’era ancora. Ero triste perché avrei tanto voluto avere anche gli zii insieme a me e a papà, come una famiglia. Le famiglie non devono dividersi per nessun motivo al mondo, e adesso era come se sentissi che avevo lasciato una parte importante di me, una parte che non potevo dimenticare o rimpiazzare facilmente, su due piedi.
Ma mi avevano promesso che presto sarebbero partiti anche loro e ci avrebbero raggiunto, che la nostra era solo una separazione momentanea… questo pensiero mi rendeva meno triste, ma non del tutto felice.
Smisi di annotare gli ultimi appunti sul mio diario improvvisato, e alzai la testa per puntare gli occhi lontano, verso l’orizzonte. Il sole forte e brillante mi costrinse a portare una mano sulla fronte per ripararmi da tutta quella luce. Subito, notai una cosa che prima non c’era e che mi incuriosì molto… ma era così lontana che non riuscivo a capire bene cosa fosse.
Mi alzai il piedi, e continuando a guardare verso quel punto lontano mi incamminai lungo il ponte della nave. Volevo raggiungere i membri dell’equipaggio, che spesso si riunivano sempre in gruppo nei pressi della prua e con cui avevo parlato spesso, in cerca di informazioni sulla durata del viaggio o su altro. Erano sempre gentili, e neanche una volta avevano mostrato fastidio per le mie domande, che ponevo più spesso di quanto avrei voluto in realtà.
Mi strinsi il piccolo quaderno contro il petto e sospirai, continuando a camminare. Accelerai il passo quando intravidi la figura di Antonio, uno dei sottoufficiali con cui avevo stretto una debole amicizia. Stava fumando una sigaretta, da solo, e sperai davvero di non disturbarlo.
«Antonio?» lo chiamai piano, mentre mi avvicinavo.
Lui si voltò verso di me come mi sentì, e mi sorrise. La sua barba grigia nascondeva quasi del tutto le labbra, ma si vedeva benissimo che non era scocciato dal mio arrivo. «Ciao Isabella!» mi salutò, e gettò via la sigaretta anche se sembrava essere stata accesa da poco. «Non ti avevo ancora visto, oggi… va tutto bene?»
Arrossii, annuendo. «Sì, va tutto bene, grazie.»
«Ne sono felice.» Antonio mi sorrise di nuovo. «Sei venuta per sapere come procede la navigazione?»
Risi: ormai sapeva alla perfezione cosa mi spingesse a cercare lui, o i suoi colleghi. «Sì, ma volevo chiederti anche un'altra cosa…»
«Ti ascolto, dimmi tutto.»
Mi schiarii la gola. «Ecco… ho notato che laggiù si scorge qualcosa, ma non riesco a capire cosa sia, di preciso.» gli spiegai, e allungai un braccio per indicargli il punto preciso. «Vedi? Laggiù.»
Antonio seguì i miei movimenti, poggiando le mani sul parapetto. «Quello lì, dici?» al mio cenno di assenso, continuò. «Quello è il Brasile, Bella. Siamo quasi arrivati.»
Sgranai gli occhi per la sorpresa. Eravamo quasi arrivati! Avevo atteso così tanto questo momento che adesso quasi non ci volevo credere. «Siamo quasi arrivati? Davvero?» domandai, stupita.
Lui rise, vedendo la mia reazione. «Sì, ormai manca davvero poco. Un paio d’ore, massimo tre, e arriveremo al porto di San Paolo.» mi sorrise, avvicinandosi a me e lasciandomi un leggero pizzico sulla guancia. «Ti consiglio di andare a sistemare le tue cose, piccina.»
«Grazie molte, Antonio, corro subito!» strinsi lievemente la sua mano e poi scappai via, contenta per quello che avevo saputo.
Eravamo quasi arrivati! Nel giro di poche ore sarei scesa dalla nave e avrei visto con i miei occhi la nuova terra che mi avrebbe adottata, e in cui avrei vissuto da quel momento in avanti.
Corsi lungo il ponte per tornare dagli altri passeggeri, che si trovavano poco lontano. Dovevo assolutamente trovare mio padre e dirgli che presto saremmo arrivati in Brasile, e dal suo amico che ci stava aspettando da così tanto tempo.
Ben presto mi ritrovai circondata dai miei connazionali, che cantavano, ballavano e che si divertivano come solo loro sapevano fare. Erano sempre così allegri e felici, nonostante tutti i problemi e i dispiaceri che la vita aveva dato loro da affrontare.
Riuscii a scorgere mio padre, impegnato a parlare insieme a un gruppo di signori con cui aveva stretto amicizia durante quei giorni, e lo raggiunsi ignorando i canti e i balli che mi circondavano. Mi buttai addosso a lui, abbracciandolo.
«Ehi, Bella!» protestò lui bonariamente, facendo ridere tutti gli altri.
Sorrisi, alzando lo sguardo. «Ciao papà!»
«La piccola Isabella va sempre di fretta!» commentò il signor Rodolfo, ridendo.
«Già, sempre di fretta. Devi dirmi qualcosa, tesoro?» papà scrutò attentamente il mio viso, in cerca di informazioni.
Annuii. «Ho appena parlato con Antonio, il sottoufficiale… siamo quasi arrivati, papà! Manca pochissimo.»

Le mie parole bastarono per far accendere negli occhi di mio padre una nuova luce, brillante, una luce che non riuscivo a scorgere più da moltissimo tempo.

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo2

Salve a tutte!
Ecco qui il nuovo capitolo di “Sotto un cielo coperto di stelle” :D avrei voluto postarlo oggi pomeriggio ma EFP faceva i capricci, quindi ho preferito rimandare :)
Sono super contenta di come è cominciata questa storia, e anche delle 6 recensioni che mi avete lasciato! Non avevo mai ricevuto 6 recensioni in un prologo di una storia *-* – mi entusiasmo con poco, loso, ma voi non fateci troppo caso XD
Adesso vi lascio leggere, ci sentiamo in basso ;)

 
 

 

 
 

Sotto un cielo coperto di stelle

 
Capitolo due
 
Bella
Porto di San Paolo, 27 Febbraio 1887

Mi sembrava di star rivivendo lo stesso momento di due settimane prima, solo che le parti si erano invertite. Se prima avevamo lasciato il porto per salire su di una nave, adesso stavamo scendendo da essa per raggiungere il porto. C’era una sola e unica differenza, in tutto ciò: non c’era nessuno che ci stava salutando, o che stava aspettando il nostro arrivo.
Come mi aveva assicurato Antonio qualche ora prima, eravamo finalmente arrivati alla fine del nostro lungo viaggio ed avevamo raggiunto San Paolo, una delle più grandi e più importanti città del Brasile. Non avrei saputo dire se fosse una città bella, oppure se non mi piacesse: fino a quel momento avevo visto solo il porto dalla nave, ma ero sicura che una volta scesa avrei visto meglio il nuovo posto in cui ero appena arrivata.
Rimanendo accanto a mio padre, carichi dei nostri bagagli, avevo atteso il nostro turno di scendere e non avevo smesso per un istante di guardarmi intorno. Non c’era nulla di veramente interessante da vedere e ne ero consapevole, ma non ne potevo fare a meno. Sentivo molti parlare in portoghese, e molte delle parole che usavano non riuscivo a capirle…
Smisi di girare la testa di qua e di là solo quando vidi un uomo dalla carnagione ambrata, in completo elegante, venire incontro a me e a mio padre: stringeva un cappello scuro tra le mani e sembrava a disagio. Mi chiesi subito chi potesse essere.
«Scusatemi, siete per caso voi il senhor Charlie Swan?» l’uomo parlò in portoghese, ma rispetto a poco prima riuscii a capire cosa stesse dicendo. Quella, era una delle poche frasi complete che avevamo imparato durante il viaggio.
«Sì, sono io.» rispose papà, usando la sua stessa lingua.
L’uomo rivolse a me e a papà un grande sorriso. «Meno male! Ho chiesto a moltissime persone, e finalmente sono riuscito a trovarvi! Il mio nome è Marcelo, piacere di conoscervi.»
«Piacere mio, Marcelo.» papà strinse la mano che Marcelo gli stava porgendo. «Lei è mia figlia, Isabella.» aggiunse infine.
«Piacere, signorina. Lieto di conoscerla.» mi sorrise con calore dopo che mi ebbe baciato il dorso della mano, una riverenza che nessuno mi aveva mai concesso prima di allora. «Il senhor Carlisle vi sta aspettando poco lontano da qui, mi ha chiesto di venire a cercarvi. Venite con me…»
Intimorita, al pensiero che a pochissima distanza da noi ci fosse Carlisle, il grande amico di papà, mi strinsi nello scialle come per cercare calore, anche se non era necessario: lì faceva davvero molto caldo.
Io e papà seguimmo Marcelo, che si era offerto di prendere la mia valigia, lungo il porto, e presto entrammo in un grande stanzone pieno di persone; ne riconobbi alcune, che fino a poco prima si trovavano sulla nave insieme a noi.
Continuammo a camminare. Presa com’ero a guardarmi intorno, incuriosita stavolta, mi fermai solo quando sentii che mi ero scontrata contro qualcuno; quel qualcuno era mio padre.
«Oh papà, scusami!» mi affrettai a dire subito.
Lo feci ridere. «Non preoccuparti Bella, non preoccuparti. Non è successo nulla…» mi lanciò una rapida occhiata divertita prima di riprendere a camminare.
Finalmente raggiungemmo il fondo dello stanzone, dove c’erano meno persone, ma quelle che c’erano mi sembrarono, a prima vista, persone benestanti. Erano tutte vestite bene, alcune anche più di Marcelo.
Una di quelle persone, vestita con un semplice completo beige, si era distaccata dalle altre e stava camminando dalla nostra parte. Si tolse il cappello, dello stesso colore dell’abito, rivelando dei capelli biondi molto chiari pettinati all’indietro. Il sorriso emozionato che ci stava mostrando indicava che stava aspettando proprio noi.
Quindi… quel signore doveva essere senza dubbio Carlisle Cullen.
«Senhor Carlisle, li ho trovati!» lo informò Marcelo non appena gli fummo vicini.
Carlisle, senza smettere di sorridere, annuì alle parole di Marcelo ma non si voltò per guardarlo: era impegnato a guardare mio padre. Notai anche che aveva gli occhi lucidi.
«Charlie, amico mio!» disse, con voce pacata e intrisa di commozione. Si avvicinò a mio padre e lo avvolse in un caldo abbraccio, che venne ricambiato quasi subito. «Quanto tempo è passato!» mi accorsi solo in quel momento che stava parlando in italiano.
Sorrisi, stringendomi nello scialle. Stavo assistendo alla riunione di due grandi amici che la vita, per vari motivi, aveva diviso forse troppo presto. Papà mi aveva detto tantissime volte che erano soltanto dei bambini quando Carlisle partì e lasciò L’Italia insieme alla sua famiglia. Era… bello, vedere che dopo tanti anni la loro amicizia e il loro affetto era rimasto immutato.
«È una gioia vederti di nuovo, Carl.» sussurrò papà.
«Anche per me, non sai quanto.» i due uomini smisero di abbracciarsi e si sorrisero, anche se continuarono a restare vicini e a ridacchiare di tanto in tanto. Mi avvicinai a papà e gli carezzai una spalla, in un gesto di affetto, e lui subito coprì la mia mano con la sua mentre con l’altra si strofinava gli occhi.
Carlisle mi notò e mi sorrise calorosamente. «Charlie, lei è tua figlia?» domandò poi rivolgendosi a papà.
«Sì, è mia figlia. Isabella.»
«Isabella… un bellissimo nome italiano.» Carlisle mi porse la mano e non appena la presi con la mia mi fece un baciamano, come aveva fatto poco prima Marcelo. «Sono davvero molto contento di conoscerti, Isabella.»
Arrossii, annuendo. «Il piacere è tutto mio, signor Carlisle.»
Aggrottò le sopracciglia. «Non chiamarmi ‘signore’ cara, non ce n’è affatto bisogno.» ridacchiò. «È davvero una ragazza deliziosa, Charlie.» commentò.
«Non sei il primo che lo nota, Carl.»
Carlisle sorrise di nuovo. «Bene. Prima di andare via dobbiamo attendere ancora qualche minuto. Dobbiamo prima registrare il vostro arrivo e firmare qualche documento, me lo hanno spiegato prima… poi possiamo andare a casa. Esme è impaziente all’idea di conoscervi!»
Esme era la moglie di Carlisle, se non ricordavo male. E l’idea di conoscerla, pensai, piaceva molto anche a me.
 

***

 
Terminato il processo di registrazione e tutte le altre questioni, a cui non avevo mostrato particolare attenzione, per essere onesta, eravamo stati liberi di lasciare il porto. Da quel momento in avanti, potevo dire tranquillamente che stavo per cominciare la mia nuova vita da brasiliana! Mi divertiva vedere la situazione in quel modo.
Marcelo, seguito a breve distanza da noi e da Carlisle, ci aveva condotto verso una carrozza e, dopo averci fatto salire e dopo aver caricato le nostre valige, avevamo lasciato il porto.
Non avevo smesso un secondo di guardarmi attorno, spinta dalla curiosità morbosa di vedere con i miei stessi occhi come fosse la città in cui ero appena arrivata. Mi piaceva moltissimo, così piena di vita e di allegria. Ovunque guardassi c’era un particolare che mi spingeva a scoprire qualcosa in più.
Ero così impegnata a guardare le strade, le case, i negozi e le persone che riuscivo a stento a prestare attenzione a quello che si stavano dicendo papà e Carlisle. Anzi, forse era meglio dire che non li ascoltavo per nulla. Era come se mi fossi rinchiusa in uno spazio tutto mio, dove non c’era niente e nessuno che riuscisse a disturbarmi.
«Bella, mi stai ascoltando?»
La voce di papà mi fece sussultare e voltare verso di lui. Spaesata com’ero, non ero riuscita a capire cosa fosse successo. «Che… che cosa c’è?» chiesi, un po’ stupidamente.
«Non mi stavi ascoltando, vero?» domandò, riprendendomi bonariamente.
Arrossii. «Scusami, è solo che… che mi sono distratta…»
Carlisle, che era seduto di fronte a noi sulla carrozza, rise e si sporse per carezzarmi gentilmente una mano, che tenevo poggiata sul ginocchio. «È perfettamente comprensibile, mia cara. Ti piace la città, vero?»
Annuii, imbarazzata.
«Stavo appunto parlando di questo con tuo padre. Staremo in città soltanto per oggi, nella casa di mia suocera, poi domani raggiungeremo in treno la fazenda dove viviamo.»
«Fazenda?» chiesi, confusa. Era una delle tante parole portoghesi che ancora mi erano estranee.
«Puoi anche chiamarla ‘fattoria’, Bella. È li che viviamo, e sempre lì coltiviamo il nostro caffè. Sono sicuro che ti piacerà. So che ti piace molto la campagna, me lo ha raccontato tuo padre…»
«Beh, ho sempre vissuto in campagna… e ho imparato ad apprezzarla, con il tempo.»
«Spero tanto che riuscirai ad apprezzare anche la nostra, di campagna, mia cara.» Carlisle sorrise. «Non sarà come essere in Italia, lo ammetto… lì le cose sono molto diverse, o almeno lo erano molti anni fa, prima che venissi a vivere in Brasile. Però è un bellissimo paese, questo. Ci si abitua presto a viverci.»
«Sono sicuro che sarà così, Carl.» disse papà. Mi abbracciò, passandomi gentilmente il braccio lungo le spalle. Sorridendo, ricambiai il suo gesto e poggiai la testa sulla sua spalla, sospirando.
«Non appena arriveremo a casa potrete riposarvi. Esme stava preparando le vostre camere quando sono uscito, ormai deve aver finito…» Carlisle si voltò e osservò la strada, sorridendo. «E noi siamo quasi arrivati! Manca pochissimo.»
Alle sue parole, alzai la testa e mi misi a guardare anche io fuori della carrozza: notai subito che dovevamo trovarci in una zona della città molto ricca, benestante; le case che riuscivo a vedere erano tutte belle e ben curate, circondate da giardini altrettanto ben curati. Alcuni avevano anche delle piccole fontane…
La carrozza si fermò poco dopo, davanti a una casa che a prima vista mi sembrò più bella di tutte le altre. Era… enorme, con colonne bianche davanti alla porta di ingresso e una balconata, al piano superiore, nello stesso e identico stile. La facciata era tutta sui toni del bianco, e quel colore le donava eleganza e raffinatezza.
Il giardino, invece, rispetto alla casa era piccolo, ma a parte quel particolare era comunque carino. C’erano delle piccole siepi tutt’attorno alle ringhiere che lo delimitavano e lungo il vialetto che portava all’entrata, senza contare le piante di rose tutt’intorno alla casa… o almeno, a me da quella distanza sembravano rose.
«Che bella casa.» mormorai, ancora impegnata ad osservarla.
Carlisle rise. «Qui abita la mia suocera, Bella. Dovresti dirlo anche a lei, sono sicuro che apprezzerà. Vieni, ti aiuto a scendere…» dopo essere sceso dalla carrozza mi porse la mano, aiutandomi a scendere e a poggiare i piedi sul marciapiede.

Marcelo scaricò le nostre valige e ci precedette, aprendoci il cancello e facendoci entrare nel giardino. Carlisle fece passare me e papà per primi, indicandoci la porta di ingresso e guidandoci attraverso il giardino fino a raggiungerla. Era buffo, ma io in tutto quel tempo non potei fare altro che… guardarmi intorno. Sembrava che in quella giornata ero destinata a fare nient’altro che quello.
Ma c’erano così tante cose da vedere, ed io ero curiosa di scoprirle tutte e nel più breve tempo possibile.
E dopo aver studiato per bene il giardino, entrai in casa. Già l’ingresso mi fece capire che la proprietaria doveva essere una persona ricca, molto ricca. I pavimenti in legno, lucidati alla perfezione, e una cassettiera in noce sormontata da uno specchio dalla cornice dorata mi colpirono moltissimo. E alzando gli occhi verso il soffitto bianco, vidi un piccolo lampadario di cristallo.
«Beh, eccoci qui.» Carlisle si tolse il cappello dalla testa e lo poggiò sulla cassettiera, spostandosi lungo il corridoio d’ingresso. «Esme, tesoro, siamo qui!» chiamò successivamente.
Sentii subito alcuni passi affrettati e leggeri venire verso di noi, e qualche secondo dopo vidi arrivare una donna, vestita elegantemente, che si avvicinò a Carlisle. Lui, dopo averle sorriso, le prese le mani e le baciò una guancia.
«Tutto bene, tesoro?» le chiese dolcemente.
Esme, ridendo, annuì. «Sì, tutto bene. Stavo leggendo un libro mentre vi aspettavo, ma a dire la verità mi stavo annoiando molto.» si voltò, guardando verso il punto in cui ci trovavamo ancora io e papà, insieme a Marcelo, e strabuzzò gli occhi. «Sono loro?» domandò stupita.
«Sì, cara. Loro sono Charlie Swan, il mio vecchio amico di cui ti ho tanto parlato, e sua figlia Isabella.» le spiegò Carlisle, mentre si avvicinava a noi e faceva avvicinare a sua volta anche Esme.
Potei osservarla meglio da vicino, così. Esme era una bella donna, con i lineamenti del viso delicati e davvero molto dolci; ogni volta che sorrideva, le si formavano sulle guance delle piccole fossette. Aveva gli occhi verdi e i capelli castano chiaro, che in quel momento erano raccolti e tenuti sulla sommità della testa in un morbido chignon.
«Charlie, non sai quante volte mio marito mi ha parlato di te! Sono felicissima di incontrarti, finalmente.» disse emozionata, rivolgendosi a papà. «Scusami, ma il mio italiano non è molto buono!» rise nervosamente, arrossendo sulle guance.
«No, è perfetto. Siete molto brava, Esme. Lieto di conoscerla.» rispose lui, chinando la testa in segno di saluto.
Sempre sorridendo, Esme si voltò verso di me e, dopo essersi avvicinata, si sporse per abbracciarmi. Ricambiai timidamente il suo gesto, dato che non me lo aspettavo. Era una persona così gentile… cominciava già a piacermi soltanto alla prima impressione, proprio come era successo precedentemente con Carlisle.
«Benvenuta, piccolina.» la sentii sussurrare mentre continuava tenermi stretta nel suo abbraccio. Quando si allontanò, mantenne le mani ferme sulle mie spalle e mi sorrise calorosamente. «Stai bene? Hai l’aria stanca.»
«È per il viaggio…» mormorai, sentendomi un po’ in soggezione nel risponderle.
«È comprensibile, cara. Perché non andiamo a rinfrescarci un po’, ti va? Charlie, vieni anche tu.» propose Esme, comprensiva e sempre molto gentile.
«Certo, andate entrambi. Fate con calma: vi date una rinfrescata, riposate un po’… possiamo rivederci tranquillamente per l’ora di cena.» aggiunse Carlisle, che nel frattempo si era avvicinato a sua moglie e le aveva cinto le spalle con un braccio.
 

***

 
Esme, impeccabile nel ruolo di padrona di casa, ci fece salire al piano di sopra e ci mostrò le stanze che avremmo occupato per quella notte; non di più, perché da quello che avevo capito la mattina dopo avremmo lasciato tutti insieme la città per raggiungere la fazenda dove viveva la famiglia Cullen. Dopodiché, grazie a Anita, la governante che lavorava per la madre di Esme, aiutò me e papà ad accompagnarci nei bagni e a fornirci abiti puliti e tutto quello di cui avevamo bisogno per sistemarci.
Mi imbarazzai moltissimo per tutte le premure e le attenzioni che mi rivolsero. Abituata com’ero a fare tutto da sola, a casa, ritrovarmi in un bagno che non era il mio, assieme ad Esme che sistemava la biancheria pulita su di uno sgabello e con me immersa fino al collo nella vasca da bagno, era una gran bella differenza.
Non ricordavo nemmeno più quando era stata l’ultima volta che qualcuno mi aveva vista nuda… sicuramente dovevo essere ancora piccola, e con me doveva essere presente senza dubbio zia Victoria.
Esme molto probabilmente capì il mio imbarazzo, perché mi sorrise gentilmente e, sempre molto gentilmente, uscì dal bagno e mi lasciò da sola, assicurandosi che avessi tutto quello che mi serviva e che la avessi chiamata se avessi avuto bisogno di aiuto.
Ma non ne ebbi bisogno; mi lavai, asciugai e vestii tranquillamente. Scoprii anche che gli abiti puliti, che avevo indossato, non erano i miei e che sembravano essere del tutto nuovi, o se non lo erano appartenevano ad una persona che non li aveva indossati per molto tempo. Poi, ricordai che Esme aveva una figlia, più o meno della mia età, e che molto probabilmente quelli erano i suoi vestiti.
Mi sentii a disagio nell’indossare abiti che appartenevano a qualcun altro, ma sapevo anche che non potevo di nuovo indossare i miei, di vestiti. Avevano bisogno di una bella pulita e me ne rendevo conto persino io… dopotutto, restare quasi tre settimane su di una nave non era proprio il massimo della pulizia.
Pettinai i capelli, ancora umidi, e li sistemai dietro la nuca fissandoli con alcune forcine. Andai dritta nella camera che Esme mi aveva mostrato e che avrei occupato per quella notte, quando finii, ma non avevo alcuna intenzione di riposare. Ero stanca, ma non avevo sonno… forse era solo una sensazione quella che stavo provando.
Una volta chiusa la porta, restai con le mani strette sulla maniglia e poggiai la schiena contro il legno scuro, scrutando con occhio vigile la stanza; era bella, comoda e luminosa, grazie alla grande finestra e alle tende scostate. Ma era anche molto… elegante. Si vedeva lontano un miglio che faceva parte di una casa aristocratica e di proprietà di persone importanti. Avevo quasi il timore di toccare i mobili e di sedermi sulle lenzuola, impaurita che potessi rovinarli o sporcarli con il minimo tocco.
Alla fine, riuscii a lasciare la maniglia e a spostarmi, e cominciai a sfiorare con la punta delle dita qualsiasi oggetto, o mobile, al quale mi avvicinavo. Lo schienale di una sedia, la superficie della specchiera, l’anta dell’armadio… mi sembrava tutto così nuovo, anche se ero consapevole che non lo fossero in realtà.
Arrivata davanti alla finestra, chiusi gli occhi e lasciai che i raggi del sole, caldi e familiari, mi avvolgessero. Mi era sempre piaciuto stare al sole, quando lavoravamo nei campi spesso e volentieri restavo immersa nei miei pensieri, stando sdraiata sull’erba, e mi beavo dei raggi che mi riscaldavano.
Ero contenta di vedere che almeno quel piccolo dettaglio, per quanto poco importante, fosse ancora presente.
Così, spostai una delle sedie che erano presenti nella camera e la posizionai davanti alla finestra. Rimasi seduta lì davanti per gran parte del pomeriggio, senza fare nient’altro che non fosse osservare le altre case e le persone che percorrevano la via a piedi, o all’interno delle carrozze.
Il sole stava calando, e stava diventando meno caldo, quando qualcosa di nuovo attirò la mia attenzione: una carrozza che si fermò davanti al cancello della casa, e da cui scese una donna ben vestita.
Non capii chi potesse essere la nuova arrivata, cosa assolutamente normale, in fondo… conoscevo solo Esme e Carlisle, senza contare Marcelo e Anita. E non potei neanche vedere meglio chi fosse, perché non riuscivo più a scorgere la figura della donna dalla finestra.
Tornai a sedere composta, con la schiena dritta e con le mani strette sulle ginocchia. Esme mi trovò in quella posizione quando venne a chiamarmi pochi minuti dopo, annunciandomi che mancava poco meno di mezz’ora alla cena e che sarebbe stato meglio scendere.
«Mi piacerebbe molto presentarti mia madre.» annunciò, allegramente, mentre eravamo impegnate a scendere le scale; Esme teneva una sua mano poggiata sulla mia spalla, come per assicurarsi ulteriormente che fossi lì insieme a lei. «È appena rincasata, ha trascorso la giornata fuori…» continuò.
«Capisco…» mormorai, non sapendo bene cosa dire. Avevo scoperto grazie a lei, però, che la persona arrivata a casa prima era sua madre, ovvero la proprietaria della casa in cui mi trovavo in quel momento. Avrei potuto anche capirlo da sola, stando a quello che mi avevano detto prima, ma a quanto sembrava qualcosa doveva essermi sfuggito dalla mente.
Ma mi sembrava una buona idea conoscerla, anche perché in quel modo potevo ringraziarla per la sua gentile ospitalità, seppur di breve durata.
Guidata da Esme entrai nel grande salone, che si trovava accanto all’ingresso, e che era già occupato da un paio di persone: una era Carlisle, e l’altra invece era una signora di certa età, la madre di Esme. Il primo pensiero che mi venne in mente, osservandola, fu che aveva un aria altezzosa: me lo suggerì il fatto che sedeva sulla poltrona in maniera rigida, senza contare le labbra, che teneva strette come se si stesse astenendo dal pronunciare un commento pungente.
Non appena io e sua moglie facemmo il nostro ingresso nel salone, Carlisle sorrise e ci raggiunse, quasi sollevato nel vederci. «Oh, eccoti qui cara! Hai riposato bene?» mi domandò subito, apprensivo.
Annuii, regalandogli un piccolo sorriso. «Sì, grazie.» mormorai, non riuscendo a parlare con un tono di voce più alto. «Dov’è mio padre?» aggiunsi, poi.
«Sta ancora dormendo, ho pensato di farlo riposare ancora un po’.» mi spiegò lui, cingendomi le spalle con un braccio e facendomi avvicinare alla donna seduta sulla poltrona. «Allora, tesoro, lei è la signora Violante Oliveira, la mia cara suocera.»
La signora Violante scoccò un occhiata raggelante a Carlisle, come se avesse appena sentito qualcosa di sconveniente e non una normale quanto educata presentazione. Passò poi a guardare me, e sotto l’attenzione dei suoi occhi azzurri e freddi sentii un brivido percorrermi la schiena, ma cercai di reprimerlo.
«Violante, cara, lei è Isabella, la figlia del mio amico Charlie.» aggiunse poi, completando la presentazione.
Uno sbuffo uscì dalle labbra della signora Violante. «Altri italiani, come se non ce ne fossero già troppi in Brasile! L’unica cosa buona che ha è il nome, davvero grazioso, ma per il resto…» e poi aggiunse qualcos’altro in portoghese che non riuscii proprio a capire.
Ma Carlisle doveva aver capito, perché aggrottò le sopracciglia e fissò Violante con ostinazione, avvicinandosi ulteriormente a lei. «Non ti permetto di dire cose simili sui miei amici, Violante, è irrispettoso.»
La donna batté le ciglia lentamente, gli occhi puntati sul volto del genero, e alla fine si alzò dalla poltrona. «Difendi pure i tuoi compatrioti, Carlisle, fa pure tranquillamente. Non mi aspetto altro da te, sei identico a loro dopotutto.» disse, tagliente, e si incamminò verso l’uscita del salone, dove c’era Esme che, stringendosi le mani, guardava arrabbiata la madre. «Non mangio con la plebaglia, cara, dillo pure ad Anita.» aggiunse prima di sparire.
«Madre!» esclamò lei, seccata e punta sul vivo. Mormorò a me e a suo marito un veloce “scusatemi”, e poi corse via per raggiungere la signora Violante.
Sentii Carlisle sbuffare, al mio fianco. «Mi dispiace molto, Bella, ma Violante è un tipetto molto… particolare.»
Mi voltai verso di lui, poggiando una mano sul collo, a disagio. «Non è contenta di vederci qui.» dissi, e la mia era più un affermazione che una domanda.
Carlisle sospirò, carezzandomi piano la testa. «Non lo negherò, tesoro, non è contenta… ma è l’unica a non esserlo. Io ed Esme lo siamo, e lo sono anche gli altri. E poi domani andiamo via, e se sei molto fortunata non dovrai più incontrarla.»
Stupita per le sue parole, sgranai gli occhi e lo guardai: aveva un espressione molto buffa e divertita sul viso, e non riuscivo a capire se stesse scherzando o se stesse dicendo sul serio. «Ma… ma è tua suocera…»
Lo feci ridere. «Appunto, è la mia, mica la tua! Nessuno ti obbliga ad incontrarla ancora.»
Un esclamazione forte, pronunciata in portoghese e che non capii, ci raggiunse ed io di riflesso alzai il viso, guardando il soffitto bianco. Esme e sua madre dovevano essersi spostate al piano superiore e stavano continuando a bisticciare, a quanto sembrava.
«Ne avranno ancora per un bel po’, le conosco bene io!» disse Carlisle sconsolato, sospirando un'altra volta. Mi guardò alla fine, e schioccò la lingua. «Sai cosa facciamo adesso? Andiamo a svegliare tuo padre e poi andiamo a cenare in cucina… Anita sarà contenta di avere un po’ di compagnia, mangia sempre da sola poverina.»
Sorrisi, ascoltando il programma che aveva intenzione di svolgere. Carlisle mi piaceva sempre di più, ammisi a me stessa mentre, insieme a lui, mi incamminavo al piano di sopra.
 

***

 
Il mattino dopo, quando mi svegliai, notai che era davvero molto presto. Sdraiata su di un fianco, con le mani strette sotto al cuscino e con il viso rivolto verso la finestra, guardavo il leggero chiarore che penetrava dalle persiane e capii che doveva essere da poco passata l’alba. Mi stupii di quel fatto, visto che la sera prima avevo impiegato parecchio tempo prima di riuscire a prendere sonno… e per quanto cercassi di impegnarmi con tutta me stessa, non riuscii a dormire ancora.
Rimasi così con gli occhi fissi sulla finestra, vedendo come mano a mano che il sole si levava alto nel cielo la stanza diventasse sempre più luminosa e viva. Non sentivo nessun rumore, nessuna voce per la casa, quindi immaginai che fossero ancora tutti addormentati.
E alla fine, riuscii ad appisolarmi di nuovo anche io.
Un paio di ore dopo, Esme passò a chiamarmi, avvertendomi che la colazione era quasi pronta in cucina, e che ci saremmo messi in viaggio verso la fazenda non appena avessimo terminato di mangiare. Nel giro di pochi minuti ero già vestita e pronta per scendere, ma mi attardai insieme a lei per sistemare la mia valigia e i miei vestiti, che Anita aveva già provveduto a lavare, nonostante avesse avuto davvero poco tempo a sua disposizione.
Quando scesi al piano inferiore e andai verso la cucina, lì trovai già papà e Carlisle presenti, e impegnati a fare colazione. Stavano entrambi bevendo il caffè, o del tè, e alcune fette di pane imburrate si trovavano su un piattino disposto sul tavolo.
«Buongiorno, papà!» andai dritta verso di lui e lo abbracciai, lasciandogli un bacino sulla guancia.
Lui ridacchiò, ricambiando il mio gesto. «Buongiorno. Sei allegra stamattina! Hai dormito bene?» chiese, posando sul piattino la tazzina.
Annuii, prendendo posto a tavola, accanto a lui, e rivolsi un sorriso gentile a Carlisle, che mi osservava tranquillo e curioso standomi di fronte, dall’altra parte del tavolo. Esme si sedette al suo fianco e, dopo aver recuperato una teiera, si versò un po’ di tè.
«Ne vuoi un po’, cara? Oppure preferisci un po’ di latte?» mi domandò cortesemente.
«Il tè va benissimo, grazie.» risposi, prendendo cautamente tra le mani la teiera che mi stava passando. Non volevo farla cadere, era così bella, e dall’aria costosa, e non volevo rischiare di romperla.
«Non preoccuparti della teiera, Bella. Se si rompe, Violante ne ha già pronte un’altra dozzina con cui rimpiazzarla!» esclamò Carlisle, ridendo.
Esme lo guardò con aria severa. «Non dovresti dire così…»
«Perché no? Non ho detto nulla di male, in fondo… ed è la verità. Giusto, cara?» lui la guardò, divertito, e alla fine Esme alzò gli occhi al cielo come se fosse seccata, ma aveva un bel sorriso sulle labbra che non riusciva a camuffare bene.
«La signora Violante non scende?» domandai, prendendo la tazza tra le mani. Accidenti, anche quella sembrava costare molto! Avevo quasi paura di tenerla in mano.
«No, e si rifiuterà di farlo fino a quando non saremo andati via.» Carlisle scosse le spalle. «Non è la prima volta che succede, ci si fa l’abitudine con il tempo.»
Le sue parole si rivelarono vere: infatti, la signora Violante non scese a mangiare, preferendo farsi servire la colazione in camera da Anita. Carlisle la prese in giro per questo, guadagnandosi più di una volta le occhiatacce di sua moglie.
Neanche un ora dopo la fine della colazione, Marcelo aveva preso le nostre valige e le aveva caricate sulla carrozza. Ci trovavamo tutti insieme a lui, fermi sul marciapiede fuori dalla casa, e stavamo aspettando che Esme arrivasse per poter partire.
Stavamo per andare alla fazenda, che da quel momento in avanti sarebbe diventata casa mia, e da una parte ero emozionata di scoprire come fosse… dall’altra parte, invece, ero un po’ impaurita. Le novità mi spaventavano sempre, e molto.
«Tutto bene, Bella? Ti vedo un po’ tesa…» papà posò una mano sulla mia spalla e mi osservò, le sopracciglia inarcate.
«No, sto bene… stavo solo pensando.» lo rassicurai, e per tranquillizzarlo ulteriormente sorrisi. Sembrava che lo avessi convinto, perché sorrise anche lui e si chinò per baciarmi i capelli.
Una volta che Esme fu arrivata, cominciammo a salire tutti sulla carrozza, aiutati da Marcelo. Io fui l’ultima, e prima di raggiungere gli altri mi soffermai con lo sguardo sulla casa, pensierosa. Chissà se l’avrei rivista di nuovo, domandai tra me e me.
Gli occhi si posarono su una delle finestre del piano superiore, e scorsi una figura che, altezzosa, guardava in basso verso di me. La riconobbi subito, era la signora Violante. Se non avessi saputo che si trovava dentro casa, avrei potuto benissimo scambiarla per un fantasma.
Pochi secondi dopo, però, sparì dietro le tende.
«Bella, che fai? Non sali?»
Mi voltai, ancora più pensierosa di quanto non lo fossi stata poco prima di aver scorso la signora Violante. Esme, sorridendo, mi fece cenno con la mano di salire sulla carrozza e di raggiungerli, cosa che feci in fretta e quasi con sollievo.
 
 
 
 

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Eccomi di nuovo!
Mi scuso con voi se avete trovato questo capitolo un po’ noiosetto, ma diciamo che era necessario XD dal prossimo smetterò di presentare i personaggi principali e la trama si smuoverà, quindi c’è da portare solo un po’ di pazienza :3
Ah, per le parti in cui dovrebbero parlare in portoghese e non lo fanno… il motivo è che io non so un acca di portoghese XD spero che questa ‘svista’ non sia un grosso problema :)
Avete conosciuto Carlisle, il vecchio amico di Charlie, e sua moglie Esme: sono persone gentili, non trovate anche voi? E vabbé, inclusa nel pacchetto c’era anche Violante XD ma lei la togliamo subito di mezzo, non penso che la rivedremo ancora :D
Dal prossimo capitolo ci sposteremo alla fazenda, dove si svolgerà la storia vera e propria. Succederanno molte cose, alcune belle e alcune brutte, in alcuni punti sono sicura che avrete voglia di uccidermi seduta stante XD ma non fatelo, pls! Io vi voglio bene *w*
Bien! Vi ringrazio se siete arrivate a leggere anche queste mie note infinite, e vi levo ancora un secondo di tempo per lasciarvi il
link del mio gruppo Facebook ;)

A presto, e un bacione grande grande a tutte voi!

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo3

Ciao a tutte!
Arrivo a postare anche questo nuovo capitolo! È un po’ noiosetto a mio parere, ma serve ai fini della storia… e poi questo dovrebbe essere l’ultimo capitolo palloso XD però accadono taaaaante ma tante cose, in compenso :D
Ci leggiamo in basso ;)

 
 

 

 
 

Sotto un cielo coperto di stelle

 
Capitolo tre
 

Bella
In viaggio verso la fazenda ‘Paraiso’, 28 Febbraio 1887

Per raggiungere la fazenda impiegammo diverse ore. Dalla casa della signora Violante ci spostammo in carrozza fino alla stazione dei treni, e da quel punto in avanti viaggiammo sul treno per recarci al piccolo paesino di Araùjo; una volta arrivati, avremmo preso una carrozza che ci avrebbe condotto fino alla fazenda.
Non avrei mai immaginato che per arrivare fino a lì ci volesse tutto quel tempo, e tutti quei cambiamenti di mezzi di trasporto: pensavo che arrivarci in carrozza fosse sufficiente.
Dopo aver espresso ad alta voce questo mio pensiero, Carlisle mi spiegò che la loro fazenda era troppo lontana per essere raggiunta in carrozza, e che quindi arrivarci in treno era l’opzione migliore, oltre che più veloce.
Il viaggio in treno trascorse tranquillamente, e per la maggior parte del tempo restammo tutti in silenzio; non c’era molto da dire, e il silenzio che si era formato tra di noi era del tutto naturale, non c’era nessuna traccia di disagio.
Passai la maggior parte del tempo ad osservare il paesaggio rurale e le campagne attraverso il finestrino: il treno ne era circondato, avevamo lasciato la città e quindi la campagna, le varie coltivazioni ed i boschi erano le uniche cose che erano presenti.
Era come se fossi di nuovo a casa: la campagna era la mia casa, e anche se quella che stavo vedendo non era la stessa in cui ero nata e cresciuta mi piaceva ugualmente. Era molto simile, se non identica… ero felice di poter osservare di nuovo tutte le distese di campi coltivati e baciati dal sole.
Sapere che avrei vissuto in un posto circondato da così tanto verde e che mi ricordava così tanto casa mi consolava, e mi aiutava moltissimo ad accettare la nuova realtà che era entrata nella mia vita. Il Brasile era così bello… e all’improvviso, non provai più la paura che mi ero trascinata dietro per tutto il viaggio.
Ma la nostalgia per la mia famiglia, rimasta in Italia, era ancora presente, e mi si presentava davanti agli occhi ogni volta che scorgevo qualcosa di nuovo e bello, pensando che agli zii sarebbe piaciuto. Mi consolavo ripetendo a me stessa che la lontananza era solo temporanea, e che presto li avrei rivisti.
Battei un paio di volte le palpebre, destandomi da quei pensieri, e ripresi ad osservare il paesaggio che scorreva velocemente al di fuori del finestrino. Strinsi le dita attorno allo scialle, che avevo tolto in precedenza e che tenevo poggiato sul grembo, mentre l’entusiasmo per quel breve e nuovo viaggio tornava ad invadermi.
Scostai la fronte dal finestrino dopo qualche minuto, mantenendo però gli occhi fissi sul paesaggio: qualcosa stava cambiando adesso, e distinguevo un piccolo agglomerato di case poco lontano, proprio nel punto in cui il treno si stava dirigendo.
Non feci in tempo a far notare ai miei compagni di viaggio quel particolare, che Carlisle mi anticipò. «Siamo quasi arrivati!» esclamò, sporgendosi dal suo posto per osservare anche lui dal finestrino.
«Sì, ormai manca pochissimo!» Esme si unì al suo entusiasmo, e si portò le mani giunte al viso, sorridendo. «Non vedo l’ora di riabbracciare i ragazzi! Mi sono mancati così tanto…» aggiunse.
«Ma siamo stati via solo pochi giorni, cara.» le fece notare lui, carezzandole la spalla.
«Lo so, ma è più forte di me! Non riesco a star loro troppo lontana… credo che sia una reazione da mamma.»
Carlisle rise. «E noi non le mettiamo in discussione, Esme. Spero che Emmett e Edward abbiano fatto un buon lavoro mentre eravamo via, e che non abbiano combinato molti pasticci.»
«Non credo che sia accaduto, Carlisle, e poi c’erano Billy e gli altri che davano loro una mano… sono dei bravi ragazzi, e devi cominciare a fidarti di loro. Sono quasi degli adulti!» negli occhi di Esme scorsi una luce nuova, che li illuminava e che li rendeva più belli e dolci. Doveva accadere ogni volta che parlava dei suoi figli, e non era difficile capire che voleva loro molto bene.
«Sì, sono grandi, ma spesso e volentieri si comportano ancora da immaturi, specialmente Emmett! Non ti preoccupi di Alice, invece, vero?» domandò suo marito, inarcando un sopracciglio.
Esme scosse le spalle, carezzando con le dita la tesa del suo cappellino. «No, perché dovrei? È una ragazza matura per la sua età e molto diligente. Sono sicura che si è comportata bene e che non ha dato nessun fastidio a Sarah, anzi, secondo me si è anche offerta di darle una mano aiutando nelle varie faccende domestiche.»
Carlisle si grattò il mento, soppesando le parole di sua moglie. «Sì, devo darti ragione. Alice è sempre brava ed educata.»
La sua risposta fece ridere Esme, che scosse la testa mormorando qualcosa che assomigliava molto a un “Uomo di poca fede”.
Sorrisi, osservandoli: mi piacevano tantissimo come persone e come coppia, e più trascorrevano i minuti e più ne avevo la conferma.
Ben presto il treno cominciò a rallentare, fino a fermarsi completamente una volta arrivato alla stazione del paese. La banchina cominciò pian piano ad affollarsi, mano a mano che i passeggeri scendevano dal treno.
«Sarà meglio che scendiamo anche noi.» bisbigliò Carlisle alzandosi in piedi, e subito tutti noi lo imitammo.
Prendemmo i nostri bagagli, e seguendo le altre persone che si trovavano sul nostro stesso vagone scendemmo dal treno. Fuori faceva meno caldo e tirava una leggera brezza, che apprezzai moltissimo e mi beai del venticello che sentivo sulla pelle.
Usciti dalla stazione, trovammo una carrozza libera e io ed Esme prendemmo posto su di essa, mentre papà, Carlisle e il cocchiere caricavano le nostre valige e chiacchieravano tra di loro. Ci raggiunsero dopo pochi minuti e, una volta sistemati, partimmo.
«Quanto manca alla fazenda?» chiese papà, esprimendo ad alta voce una delle tante domande che viaggiavano all’interno della mia testa.
«Non molto, nel giro di una ventina di minuti dovremmo arrivare…» rispose lui, sorridendo.
Passai quei minuti in trepidante attesa, stringendo le dita tra di loro ed osservando di tanto in tanto la strada bianca che stavamo percorrendo. Mancava ormai poco all’arrivo, e non vedevo l’ora di vedere con i miei occhi la mia nuova casa. Volevo conoscere tutto, ogni particolare, ogni posto, ogni cosa che facesse parte della fazenda, senza contare le persone che ci abitavano e che conoscevo solo attraverso dei nomi.
Non vedevo l’ora di poter dare finalmente un volto a quelle persone che mi incuriosivano così tanto.
E alla fine, ecco che arrivammo.
La carrozza varcò un cancello di legno e proseguì il suo cammino, attraversando dei vasti campi che erano divisi dalla strada. In lontananza, si scorgeva il profilo di una grande casa bianca e quello di diverse altre costruzioni, alcune più piccole e altre più grandi.
Mi guardavo attorno con emozione e anche con molta curiosità, non riuscendo a credere ai miei occhi. Tutto quello che vedevo era molto più bello di quanto avessi immaginato, al di sopra delle mie aspettative e al di sopra di ogni altra cosa.
Nel giro di pochi minuti la carrozza si fermò in un grande piazzale, e nello stesso momento in cui accadde Carlisle mise di nuovo il suo cappello in testa, ridendo e battendo un paio di volte le mani.
«Benvenuti nella vostra nuova casa, amici miei!» esclamò, rivolgendo a me e a papà un enorme sorriso.
 

***

 
Descrivere la fazenda e parlare di tutte le caratteristiche che la rendevano quella che era con poche parole, era davvero impossibile. Non riuscivo neanche a trovare una parola adatta da associare alle sensazioni che avevo provato dopo il primo impatto. Era sinceramente impossibile.
Mi guardavo intorno, non riuscendo a posare gli occhi da un punto all’altro per più di pochi secondi, e nel mentre cercavo di memorizzare quanti più particolari potevo nel più breve tempo possibile.
Il piazzale in cui ci trovavamo era circondato da due costruzioni; una era senza dubbio la casa in cui viveva la famiglia di Carlisle, l’altra invece sembrava un magazzino. Poco distante da lì c’era un portico in pietra, ma non riuscivo a capire bene a cosa servisse.
Erano poche cose, poche e semplici, ma non riuscivo a smettere di guardarle: mi sembravano le cose più belle e preziose del mondo.
«Tra poco andiamo a fare il giro di tutta la fazenda, Bella.» sussultai nel sentire la voce di Esme così vicina a me, non mi ero resa conto che si fosse avvicinata. Lei dovette capirlo, perché mi sorrise gentilmente. «Non volevo spaventarti, scusami.»
«Ero distratta, non mi hai spaventata.» la rassicurai, ricambiando il sorriso. «È tutto così… nuovo, per me.»
«Oh, tesoro, credo che sia una reazione abbastanza normale!» mi rassicurò, prendendo una mia mano tra le sue e stringendola con fare rassicurante. «Tra qualche giorno ci farai l’abitudine, è solo questione di tempo…»
«Mamma? Papà? Siete tornati!»
Distolsi lo sguardo dalle attenzioni di Esme per guardare la figura di una ragazza dai capelli scuri che, di corsa, saltò tra le braccia di Carlisle cingendogli il collo con le sue. La sentii ridere allegramente, una risata forte e argentina quasi contagiosa.
«Sì Alice, siamo qui! Proprio come vi avevamo promesso…» rispose lui, lasciando la presa sul corpo della ragazza che capii essere la sua figlia più piccola. «E come vedi, abbiamo degli ospiti! Lui è Charlie Swan, ti ho parlato tantissimo di lui…»
«Vieni Bella, ti faccio conoscere mia figlia.» mormorò piano Esme, e mettendo una mano sulla mia schiena mi sospinse verso il gruppo allegro di persone che si trovava poco lontano da noi.
Alice stava ridendo per qualcosa che doveva averle appena detto papà, ma si voltò in fretta quando sentì che ci stavamo avvicinando. Aveva un sorriso bellissimo, dolce e molto particolare, che faceva risaltare i suoi occhi scuri. Venne verso di noi in fretta, senza abbandonare l’allegria che la stava caratterizzando.
«Ciao mamma!» Alice abbracciò Esme con slancio, lasciandole anche un bacio sulla guancia che venne poi ricambiato da sua madre.
«Tesoro! È andato tutto bene mentre eravamo via?» le chiese lei, carezzandole il viso con amore.
«Tutto bene! A parte i miei fratelli, ma sai come sono fatti, si divertono troppo a farmi i dispetti!» ridacchiò, per poi portare tutta la sua attenzione su di me. Mi venne spontaneo sorriderle, così come lei stava sorridendo a me. «Sei Isabella, vero?» chiese, diventando improvvisamente timida.
Annuii, allungando una mano verso di lei. «Sì, sono io. È un piacere conoscerti, Alice.»
«Oh, il piacere è tutto mio!» ignorando la mia mano, la ragazza mi buttò le braccia al collo e mi strinse in un forte abbraccio, al quale non ero affatto preparata ma che ricambiai in fretta. «Non pensavo che fossi così bella, davvero, sei una ragazza stupenda!» sussurrò al mio orecchio.
Sentii le guance scaldarsi alle sue parole, e mantenni lo sguardo basso mentre l’abbraccio finiva. Sorrisi, vergognandomi un poco. «Sei molto bella anche tu, Alice…» mormorai.
«Oddio, ti ho messa in imbarazzo vero? Non era mia intenzione farlo!» Alice si portò le mani alla bocca, coprendola, e sgranò gli occhi.
«No, non è successo nulla, non preoccuparti!» mi affrettai subito a tranquillizzarla, spaventata per la sua reazione.
«Alice, tesoro, non confondere la povera Bella! Lasciala respirare un momento, non fare come tuo solito.» la ammonì bonariamente Carlisle, che ci aveva raggiunto insieme a papà. «Piuttosto, sai dove sono andati a finire i tuoi fratelli?»
«Sono scesi alle piantagioni, ma hanno detto che sarebbero tornati a casa per il pranzo… saranno contentissimi di sapere che siete tornati così presto!» disse, alzando la voce verso l’ultima parte della frase.
Suo padre rise. «Benissimo! E visto che manca poco all’ora di pranzo, che ne dite se andiamo tutti in cucina e li aspettiamo lì?» propose.
Non riuscii a studiare bene l’interno della casa quando entrammo, visto che eravamo diretti verso la cucina, ma quello che guardai mi fece capire che era una normale casa di campagna, sebbene enorme e ben arredata. Era semplice, e con qualcosa di familiare nell’aria… mi piaceva.
Una volta arrivati in cucina, una grande stanza luminosa e calda per via del focolare che ardeva in un angolo, venimmo accolti da una donna dalla pelle olivastra e dai capelli scuri, non molto alta. Aveva le mani bagnate per via di qualcosa che stava lavando, ma si apprestò ad asciugarsele in tutta fretta sul suo grembiule.
«Senhor Carlisle, Senhora Esme! Che bello rivedervi! È andato bene il viaggio?» disse gentilmente, nella sua voce si percepiva un pesante accento che la rendeva particolare.
«Benissimo, grazie Sarah.» rispose Esme.
«I vostri figli non sono ancora arrivati, stavo aspettando che tornassero per servire il pranzo in tavola…»
«Non preoccuparti, vorrà dire che li aspetteremo. Posso presentarti i nostri nuovi amici, nel frattempo…»
Quella giornata sembrava destinata ad essere riservata solo alle presentazioni, e alla conoscenza delle tante persone che vivevano nel territorio della fazenda. Insieme alla famiglia di Carlisle, infatti, scoprii che vivevano anche diverse altre famiglie che lavoravano per lui e che coltivavano i campi di caffè.
Io e papà parlammo un po’ con Sarah, che era davvero gentile e molto simpatica; ci raccontò che viveva nel piccolo villaggio poco distante, che chiamava ‘colonia’, insieme ai suoi genitori anziani, a suo marito e ai suoi figli, due gemelle e un maschio. Ci avrebbe presentato tutti quel pomeriggio, subito dopo la fine del pranzo.
«Le mie figlie sono poco più grandi di te, ma non penso che questo rappresenti un grande problema. Saranno molto contente di conoscerti, vedrai.» mi disse calorosamente.
«Sì, lo spero…» il resto della risposta rimase incastrato nella mia gola, a causa di due nuove persone che entrarono in cucina e che calamitarono tutta la mia attenzione.
Erano due uomini, alti e molto simili per quanto riguardava l’aspetto fisico, ma diversi nel volto. Il ragazzo dai capelli corvini e corti sembrava molto giovane, quasi un fanciullo, l’altro invece, con i capelli un po’ più lunghi e castani, sembrava più severo e maturo rispetto alla persona che lo affiancava.
«Mamma, papà, ma che bella sorpresa!» esclamò il ragazzo con i capelli scuri. Andò a salutare prima Carlisle e poi Esme, riservando a quest’ultima persino un baciamano scherzoso.
«Sempre il solito, eh Emmett?» rise sua madre, sollevandosi quasi in punta di piedi per riuscire a baciare la guancia del ragazzo. «Lei è Isabella Swan, la figlia di Charlie. Vai a salutare anche lui, dopo, fai il bravo ragazzo.»
«Ma io sono un bravo ragazzo, mamma!» si accigliò un poco, ma scacciò via il tutto con una risata sonora mentre si voltava verso di me e mi studiava. Il sorriso divertito che aveva sfoggiato anche poco prima tornò sulle sue labbra, ed era così pieno di ilarità che non potei fare a meno di sorridere anche io, tanto era contagioso.
«Molto piacere di conoscerti, cara Isabella.» disse, parlando in italiano, ed esibendosi pochi secondi dopo in un inchino quasi reverenziale. Scoppiai a ridere.
«Emmett, non starai esagerando?» lo ammonì Esme, che lo osservava semi divertita mantenendo le braccia incrociate davanti al petto.
«Sì, mamma, sta sicuramente esagerando!» le rispose un'altra voce, a me sconosciuta. Non l’avevo sentita prima di quel momento, ma nel sollevare gli occhi e nel distogliere così l’attenzione da Emmett capii che si trattava dell’altro ragazzo.
Si era avvicinato, e grazie a questa sua vicinanza notai quanto fosse veramente alto. I suoi capelli erano dello stesso colore di quelli di Esme, e una ciocca più lunga delle altre gli ricadeva dispettosa davanti agli occhi. Gli occhi… erano di un colore che non avevo mai visto prima di allora.
Erano verdi, ma di una sfumatura più chiara rispetto alle altre e particolare, luminosa. Sembrava di osservare una pietra preziosa esposta alla luce del sole.
Sorrise, trattenendo una risata tra le labbra mentre osservava il fratello, poi sollevò lo sguardo e i suoi occhi incrociarono i miei. Fu come essere travolti da un’ondata di aria fredda: le mie braccia vennero percorse da una serie di brividi, e lo stesso accadde alla mia schiena. Le mie guance, invece, si scaldarono e così fui costretta ad abbassare leggermente il viso per nascondere quella mia reazione ai suoi occhi.
Mi imbarazzai, moltissimo: non riuscii a capire da cosa dipendeva tutto quello che stavo provando in quel momento. Non poteva essere solamente perché ci eravamo guardati direttamente negli occhi… non poteva. Sarebbe stato da sciocchi pensarlo.
«Ecco, Isabella, lui è mio figlio Edward. Edward, lei è Isabella.» Esme cominciò a presentarci, incurante della piccola difficoltà che stavo provando forse perché non se ne era accorta. E se non se ne era accorta lei, allora neanche… Edward, se ne era accorto.
Tornai a guardarlo, battendo le ciglia come per scacciare qualcosa di fastidioso, e cercai di sorridere in maniera naturale. Lo stava facendo anche lui, tenendo un sopracciglio inarcato e sollevato verso l’alto.
«Piacere di conoscerti, Edward.» dissi, e per quanto cercassi di alzare il tono della voce mi uscì comunque qualcosa di simile ad un sussurro.
Edward, dopo avermi guardata per qualche istante, abbassò lo sguardo ed io lo imitai non appena sentii che aveva preso la mia mano nella sua, e che la sollevava per poterci poggiare sopra le sue labbra. Il tocco fu leggero, qualcosa di più di un semplice sfioramento, ma ebbe lo stesso il potere di farmi rabbrividire… di nuovo.
Sorrise, continuando a stringere la mia mano. «Il piacere è tutto mio, Isabella.» replicò in un mormorio.
 

***

 
Durante il pranzo non riuscii a non pensare a quello che era accaduto poco prima. Tornavo con la mente a quando Esme mi aveva presentato suo figlio, Edward, e alle reazioni che avevo provato quando i nostri sguardi si erano incrociati. Forse stavo anche diventando pazza, ma riuscivo ancora a sentire un leggero pizzicore nel punto in cui le sue labbra si erano poggiate sul dorso della mia mano.
Smisi per qualche secondo di muovere le posate con le quasi stavo tagliando la mia porzione di carne e alzai il viso, scrutando la tavola e le persone che vi erano sedute tutt’attorno: erano tutti allegri e impegnati chi a mangiare e chi a chiacchierare. I miei occhi, inconsapevolmente, si posarono ancora una volta sulla figura di Edward.
Era seduto verso la fine della tavola, accanto a suo padre e a suo fratello, e sembrava concentrato su una discussione che Carlisle stava tenendo. Anche Emmett e papà lo ascoltavano, attenti.
Tornai a concentrarmi sul mio piatto e sentii le mie guance avvampare, al pensiero che qualcuno avesse potuto beccarmi proprio mentre ero occupata a guardare Edward; mi vergognavo, non mi era mai capitato prima di allora di provare un simile coinvolgimento nei confronti una persona che conoscevo da così poco tempo, e con cui avevo parlato soltanto una volta.
Era strano, impensabile e, decisamente, era una situazione assurda… ma lo guardai di nuovo con la coda dell’occhio. Stirai le labbra in un sorriso, vedendo che stava ridendo per qualcosa che dovevano aver detto. Aveva un sorriso così bello… lui, era bello.
«Va tutto bene, Bella? Hai le guance tutte rosse!» sobbalzai, sentendo la voce allegra di Alice. Seduta al mio fianco, mi osservava con attenzione e faceva oscillare piano la forchetta tra le dita.
«Stavo pensando…» risposi a voce bassa, rivelando così solo una parte di verità, ed imitai i suoi movimenti. Quando feci cadere la forchetta con un sonoro tintinnio dentro al piatto, però, smisi di farlo.
«Non lo avevo notato, sai?» ridacchiò, tornando a mangiare. Si voltò di nuovo verso di me dopo che ebbe mangiato un pezzetto di carne. «Questo pomeriggio mio padre ti accompagnerà a mostrarti la casa e il resto della fazenda, e vrrei tanto unirmi a voi. Oggi non ho proprio voglia di stare in casa e di mettermi a cucire!» aggiunse, sbuffando non appena finì di parlare.
«Ti piace cucire?» chiesi, non riuscendo proprio a fare a meno di domandarglielo. Ci conoscevamo da così poco tempo e non sapevo praticamente nulla di lei… ero curiosa, e mi sarebbe piaciuto moltissimo sapere qualcosa in più su di lei.
«Moltissimo, è la prima cosa che faccio non appena termino la mia parte di lavori di casa! La mamma mi ha insegnato a farlo quando ero ancora piccola e non ho più smesso; ho imparato anche a confezionare vestiti, abiti e camicette… posso farti vedere come si fa, se vuoi.» propose alla fine del suo breve monologo.
«Io so già cucire, ma non ho mai provato a realizzare dei vestiti.» le dissi con una punta di entusiasmo nella voce; quello che mi stava dicendo Alice era molto interessante e mi incuriosiva.
«È facile, ci vuole solo un po’ di concentrazione e di tempo! Più tardi ti porto a vedere tutti i lavori che ho fatto e che sto facendo…»
«Mi piacerebbe moltissimo, grazie.»
Alice mi sorrise, inclinando la testa da una parte. «Ma ti pare? Non ringraziarmi, per me è un piacere.»
 

***

 
Riuscii a vedere i suoi lavori solo a tarda sera, però, per via dell’impegno che dovevamo svolgere con Carlisle. Anche se, a dire la verità, non era un vero e proprio impegno.
La fazenda ‘Paraiso’ era davvero molto grande e piena di attività; c’era la parte composta dalla casa e dai magazzini, che avevo già visto quando ero appena arrivata, e poi ce n’erano altre due: quella dove sorgeva la colonia e dove vivevano i contadini, e la parte che era riservata ai campi di caffè e che era la più estesa.
C’erano acri e acri di terra, tutti coltivati a caffè e che assomigliavano moltissimo a un mare verde. Avevo provato più volte a cercare di capire dove finissero i campi, ma non ci ero riuscita nonostante ci avessi provato con tutta me stessa: erano così vasti che si estendevano oltre l’orizzonte… ed ero sicurissima sul fatto che non sarei riuscita a percorrerli tutti in una sola giornata.
Carlisle ci aveva presentato anche gli abitanti della colonia, una cinquantina di persone in tutto. Conobbi gli anziani genitori di Sarah, il signor Ignazio e la signora Natalina; suo marito, Billy, ed i suoi tre figli: le gemelle Rachel e Rebecca, identiche nell’aspetto e che somigliavano moltissimo alla loro madre, e il loro fratello più piccolo, Jacob.
Lui, invece, era identico per tutto e per tutto a suo padre. Era altissimo – molto più alto di Emmett, che fino a poco prima era la persona più alta che avessi mai visto –, aveva i capelli scuri e lunghi fino alle spalle e degli occhi neri, molto profondi ed espressivi. Il viso era quello di un uomo, ma aveva ancora qualcosa che richiamava la fanciullezza… e poi, era anche molto simpatico, era impossibile negarlo.
Mi aveva fatto ridere molto, e mi aveva presa subito in giro perché non riuscivo a capire bene quello che mi stava dicendo. Il portoghese era ancora una lingua nuova per me e dovevo ancora impararla per bene, dopotutto ero arrivata in Brasile solo da due giorni e non potevo già aspettarmi di capire tutto… ma, come mi aveva fatto notare Alice, che mi era stata sempre accanto quel pomeriggio e che mi aiutava con la lingua, avevo a disposizione tutto il tempo del mondo per fare pratica.
Mentre scherzavamo insieme a Jacob, avevo notato che una ragazza della colonia non aveva fatto altro che guardarmi in modo strano per tutto il tempo, come se stessi facendo o dicendo qualcosa che la infastidisse, solo che non capivo bene cosa potesse essere.
La ragazza si chiamava Leah, ed anche lei aveva gli occhi ed i capelli neri, molto lunghi, intrecciati e lasciati ricadere su di una spalla. Cercai di non darle troppa importanza, ma mi sentivo a disagio nel sentire i suoi occhi addosso.
Quel pomeriggio quasi tutti si erano uniti a noi durante il giro alla fazenda, solo Esme e Sarah erano rimaste in casa per dare una sistemata e per cominciare a preparare la cena. Più di una volta mi ero ritrovata, come durante il pranzo, a lanciare sbirciate e sguardi tutt’intorno per capire dove fosse Edward.
Cercavo di smetterla e di concentrarmi su quello che mi circondava, ma era più forte di me e finivo sempre col ritornare al punto di partenza. In un paio di occasioni Edward mi aveva colta in fragrante mentre lo osservavo, e lui mi aveva sorriso entrambe le volte. Io avevo ricambiato, ma mi ero anche affrettata a nascondere il viso per non fargli vedere che ero arrossita a causa dei suoi sorrisi.
E avevo ripensato ai suoi sorrisi anche durante la cena: ero rimasta per la maggior parte della sua durata in silenzio mentre mangiavo, in parte perché non avrei saputo cosa dire, ed in parte perché mi vergognavo persino di alzare la testa per paura di guardare Edward.
Ero confusa: volevo guardarlo, ma allo stesso tempo avevo paura delle reazioni che avrebbe potuto avere se lo avessi fatto. Avevo paura di mostrarmi ridicola ai suoi occhi, una bambina sciocca. Cercai di non pensarci, e a fatica ci riuscii.
Dopo cena, approfittando del fatto che gli uomini si erano riuniti in salotto per bere un ultimo bicchiere di vino prima di andare a dormire, Alice mi prese per mano e quasi correndo mi condusse fino alla sua stanza da letto. La mia, come mi fece notare lei mentre entravamo, era a due porte di distanza lungo il corridoio.
«Così siamo vicine se abbiamo bisogno di qualcosa. Di parlare, o… non lo so, di qualcosa in generale!» esclamò, richiudendo frettolosamente la porta dietro di sé. «Tengo il mio cucito in quel cassettone, accanto alla finestra. C’è un vestito che sto finendo di preparare proprio in questi giorni, devi assolutamente dirmi se ti piace o no.»
«Va bene!» risposi divertita: Alice non si fermava mai, era così piena di energia e di vitalità ed era quasi impossibile riuscire a farla stare buona e tranquilla. Mi piaceva molto stare in sua compagnia.
«Eccolo qui, ci sono alcuni spilli nelle maniche, fai attenzione a non pungerti.» mi avvertì dopo che ebbe frugato per un po’ all’interno di un cassetto. Spiegò il vestito celeste sul suo letto e poi batté le mani, tutta contenta. «Che te ne pare?»
«Oh, mi piace!» carezzai lievemente la stoffa della gonna, non volevo rovinarla in alcun modo. «Che cos’è? Lino? Cotone?»
«Cotone. È il mio tessuto preferito, leggero e comodo.» prese il vestito tra le mani e, dopo averlo soppesato un po’, me lo mise davanti scrutandolo con occhio critico. «Se lo aggiusto un pochino sui fianchi e sul petto potrebbe andarti bene… ci lavorerò domani con calma.»
«Aspetta, non ho capito… vuoi aggiustare questo vestito per me?» chiesi, aggrottando le sopracciglia per la confusione.
Alice annuì. «Questo vestito è per te. Ci sto lavorando da pochi giorni, volevo regalarti qualcosa di carino per il tuo arrivo… anche se, a quanto sembra, ho sbagliato colore. A te sta molto bene il blu, non il celeste.»
«Alice, ma non… non serve che ti disturbi così tanto per me.» provai a protestare.
«Ma a me piace, non è affatto un disturbo! Specialmente adesso che so che ti piace, ci lavorerò con più attenzione e dovizia. E poi, voglio già cominciare a mostrarti come fare per cucirne uno e… e comincerò anche ad insegnarti un po’ di portoghese.»
La sua gentilezza e disponibilità nei miei confronti mi colpì, e questo mi spinse ad abbracciarla. Io non avevo niente con cui poterla ricambiare, e a lei questo sembrava davvero non importare.
«Alice, davvero non so come poterti ringraziare.» sussurrai.
Le sue braccia rafforzarono la presa sulle mie spalle e la sentii ridere contro il mio orecchio. «Non devi, non lo faccio per avere qualcosa in cambio.» mormorò tranquillamente.
Sentivo che tra me e lei poteva nascere una bella amicizia, ma era ancora troppo presto per poterlo dire con certezza.

 
 
 

__________________

Siete arrivate fino a qui senza addormentarvi? Se sì, ne sono davvero felice! Almeno so che il capitolo non vi ha annoiato XD
Come avete letto, i nostri ‘eroi’ sono finalmente arrivati alla fazenda e hanno familiarizzato con il posto e le persone che ci abitano… e c’è stato anche un colpo di fulmine!
Avete visto che Bella si è completamente rimbecillita non appena ha visto Edward? Povera stella XD sarei rimbecillita anche io al posto suo XD secondo voi, anche Edward ha sentito la scintilla? Mah, staremo a vedere u.u
Da questo momento in avanti la fazenda farà da sfondo all’intera storia, quindi preparatevi perché ne vedremo delle belle! Sapeste che cosa ho in mente o___o ahahah *risata malefica*
Vi ringrazio per le recensioni che mi avete regalato allo scorso capitolo – risponderò presto, anche per quanto riguarda l’altra storia :D – e spero di tornare ad aggiornare presto. Sto per cominciare un corso e avrò meno tempo a disposizione, ma non appena posso mi metto a invadere i fogli di Word ;)
Come sempre, per qualsiasi cosa potete contattarmi sul mio gruppo
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Un bacione e a presto! *w*

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Sotto un cielo coperto di stelle - Capitolo4

Ciao ragazze! Come potete vedere, sono tornata a scrivere anche questa storia :D
Sono indietrissimo con la stesura del capitoli e per questo mi sento molto in colpa, ma cercherò di impegnarmi :) ora come ora do la precedenza all’altra mia long, che si sta dirigendo verso la fine, ma questo non mi fermerà e continuerò a scrivere anche questa. Gli aggiornamenti forse arriveranno più tardi, ma arriveranno, state tranquille ;)
Prima di lasciarvi al capitolo, come sempre, vi lascio il link al mio gruppo Facebook – siete sempre le benvenute :D
Vi lascio anche un piccolo riassunto, per ritrovare il punto della situazione…

1887: Isabella Swan è una giovane ragazza italiana di umili origini, che insieme a suo padre Charlie intraprende un lungo viaggio per raggiungere il Brasile, luogo dove le condizioni di lavoro e di vita sono più alte.
Ad attenderli, al loro arrivo, c’è un vecchio amico di Charlie, Carlisle Cullen. Lui raggiunse il Brasile anni prima, quando era ancora un bambino, e nel corso degli anni è riuscito a fare ‘fortuna’ e adesso è il proprietario di una grande fazenda di caffè.
Carlisle presenta loro la sua famiglia: sua moglie Esme, la figlia Alice e i suoi due figli gemelli, Emmett e Edward…

 

 

 

Sotto un cielo coperto di stelle

 
Capitolo quattro
 
Bella
Fazenda ‘Paraiso’, 1° Marzo 1887

Mi svegliai presto anche quella mattina, involontariamente: la forza dell’abitudine, come si soleva dire. Erano rare le volte in cui l’abitudine mi lasciava una piccola tregua e, quindi, mi lasciava dormire fino a mattino inoltrato… ma quella, non sembrava essere una di quelle mattine.
La finestra della mia nuova stanza, che avevo lasciato semiaperta la sera precedente, faceva entrare una brezza fresca e leggera, molto piacevole, accompagnata dalla luce chiara e caratteristica dell’alba. Non doveva essere passato molto tempo dal suo arrivo.
Sorridendo, scesi in fretta dal letto e altrettanto in fretta raggiunsi la finestra, spalancando completamente le imposte subito dopo. Lo scenario che mi si parò davanti agli occhi mi mozzò il fiato, per la bellezza che mostrava: un enorme mare verde baciato dal sole del primo mattino, quello che ero sempre stata abituata a vedere nella mia casa in Italia e che avevo così tanto imparato ad amare, e che adesso potevo ammirare anche lì, in Brasile.
Respirai l’aria della campagna, ancora più forte a quell’ora, e chiusi gli occhi. Non potei fare a meno di sorridere, e con un rapido movimento mi issai a sedere sulla soglia della finestra. Non era una mossa molto consigliata da fare, dato che mi trovavo al primo piano della casa e che sarei potuta cadere grazie al primo movimento brusco che avessi compiuto, ma non riuscii davvero a resistere.
Cullata dal cinguettio leggero degli uccellini cominciai a sciogliere i miei capelli, che avevo raccolto in una treccia prima di andare a dormire; li pettinavo tra le dita, e di tanto in tanto gettavo una veloce occhiata ai campi di caffè, che si andavano man mano popolando di gente. L’orario era mattiniero, sì, ma per chi era abituato a lavorare la terra era il momento giusto per mettersi all’opera.
In campagna era così, si lavorava da quando spuntava il primo raggio di sole fino a quando non se ne andava l’ultimo, dall’alba al tramonto, sfruttando tutte le ore del giorno possibili; delle volte si era costretti a lavorare anche di notte, e con il solo aiuto della flebile luce dei lumini.
Quando mi decisi a ritirarmi doveva essere passato già diverso tempo: l’aria era diventata più calda, il sole era più alto nel cielo ed il lavoro nei campi si era intensificato, ed in più tutti i contadini avevano cominciato a cantare qualcosa in portoghese. Mi sarebbe piaciuto moltissimo conoscere meglio quella lingua per capire cosa stessero cantando… un motivo in più per cominciare ad impararlo insieme all’aiuto di Alice.
Scesi dal davanzale con un piccolo salto, decisa a prepararmi e a scendere al piano inferiore. Volevo rendermi utile e aiutare nelle faccende di casa: ero sicurissima che in una grande casa come quella ci fossero molte cose da fare, e che una mano in più facesse sempre comodo.
Stavo per chiudere la finestra, ma bloccai di colpo i miei movimenti non appena vidi che qualcuno stava uscendo da casa e stava incamminandosi verso i campi di caffè, stringendo qualcosa tra le mani; i riflessi rossi dei suoi capelli mi fecero subito capire che poteva trattarsi di una persona sola…
Era Edward, il figlio di Carlisle.
Rimasi immobile ad osservarlo camminare, fino a quando la sua figura alta e slanciata non scomparve dietro a un insieme di alberi. Per tutta la durata di quel breve momento, qualche secondo o poco più, avevo trattenuto il respiro e il mio cuore aveva cominciato a battere forte, come un tamburo, dentro al mio petto… le stesse reazioni che avevo provato anche il giorno prima, quando lo avevo conosciuto e ogni volta che avevo incontrato di sfuggita il suo sguardo.
Come scottata, lasciai la presa sulle imposte della finestra e portai le mani alla bocca, coprendola come se volessi far tacere un urlo, solo che urlare era l’ultima delle cose che volevo fare in quel momento.
Era ridicolo reagire così soltanto perché avevo visto passare Edward, senza contare che, per me, lui era ancora uno sconosciuto. Avevamo scambiato solo poche parole, sì, ma era tutto lì… noi eravamo ancora degli estranei.
Come era possibile, allora, che la sua sola vista mi scatenasse dentro delle emozioni e reazioni così… strane, e che non avevo mai provato in vita mia?
 

***

 
Una volta che mi fui calmata, e dopo essermi finalmente vestita e pettinata, abbandonai la tranquillità della mia camera e scesi al piano inferiore. Mentre mi vestivo avevo sentito gli altri abitanti della casa parlare e camminare per i corridoi, quindi ero sicura di non essere la prima persona mattiniera che scendeva per fare colazione.
Beh, non ero proprio la prima a scendere… al ricordo di Edward che scendeva nei campi, le mie guance si accaldarono subito e le coprii istantaneamente con i palmi delle mani. Aspettai qualche secondo prima di abbassarle, e lo feci solo quando fui certa che il rossore fosse ormai sparito dalla mia pelle. Non potevo essere davvero certa che fosse accaduto, ma comunque non potevo restare tutto il tempo con le guance coperte.
Sarebbe apparso strano, più strano ancora delle reazioni che avevo avuto.
Qualche minuto dopo entrai nella cucina, scoprendola semivuota; erano presenti solo Esme, che era seduta a tavola, e Sarah, impegnata a rimestare qualcosa in una pentola che si trovava sul fuoco. Il dubbio che fossi scesa troppo presto si insinuò nella mia mente.
«Buongiorno, Esme.» dissi, avvicinandomi alla tavola.
Lei mise subito da parte il pane che stava imburrando e si alzò in piedi, stringendomi in un abbraccio. I suoi modi erano sempre così gentili e dolci, ancora non ci avevo fatto l’abitudine… anche se era normale. Dopotutto, la conoscevo da soli due giorni.
«Buongiorno a te, mia cara. Hai dormito bene? Siedi qui vicino a me e mangia qualcosa, sono sicura che avrai molta fame!» disse in fretta, indicandomi la sedia accanto alla sua e invitandomi a fare come mi diceva con un bel sorriso.
Lo feci subito, e lasciai scorrere lo sguardo sulle sedie vuote che circondavano la tavola. «Gli altri non scendono?» la domanda mi sorse spontanea e non riuscii a frenarmi dal dirla ad alta voce.
«Alice scende tra poco, si stava preparando. Gli altri, invece, sono già andati tutti a lavorare, anche tuo padre… ma non mangi, Bella?» mi chiese, dopo aver lanciato uno sguardo al mio piatto ancora vuoto.
«Oh… sì, certo.» afferrai subito una fetta di pane e il piattino della marmellata, cosa che la fece sorridere soddisfatta.
Alice ci raggiunse qualche minuto dopo, sorridente e allegra come solo poche persone potevano essere al mattino presto. La gioia e la vitalità che emanava quella ragazza erano incredibili, prima di lei non avevo mai conosciuto una persona che fosse così felice in ogni momento della giornata.
«Buongiorno mamma, buongiorno Sarah… ah, buongiorno Bella!» esclamò non appena si sedette, afferrando una teiera e versandosi una generosa dose di tè.
«Buongiorno tesoro.» replicò Esme, che prese la teiera dalle mani della figlia non appena lei finì di versare la bevanda.
«Oggi ho in programma moltissime cose: vorrei finire di sistemare il vestito celeste, e per questo compito ho bisogno anche del tuo aiuto, Bella, voglio che lo indossi per vedere come ti sta! E poi voglio anche cominciare qualche nuovo centrino per il mio corredo… ah, e voglio già cominciare le nostre lezioni di portoghese insieme!» disse velocemente prima di mordere un biscottino al burro.
«Tesoro, non starai esagerando un po’ troppo? Potresti spaventare Bella!» la ammonì scherzosamente sua madre.
«Ma non la sto spaventando! Non ti sto spaventando, vero?» mi chiese, apprensiva.
«No no, assolutamente no. Sono contenta di poter trascorrere un po’ di tempo insieme a te, Alice.» dissi, sincera. Una volta superato l’ostacolo che rappresentava l’esuberanza della mia nuova amica, non era così male stare in sua compagnia.
«Avete una giornata davvero molto piena, ragazze. Vi rivedrò solo durante i pasti così!»
«Cercheremo di finire prima, mi piacerebbe molto trovare il tempo anche per aiutare nelle faccende domestiche…» iniziai a dire prima che Esme mi interrompesse, stupita.
«Non essere sciocca, Bella, sei un ospite in questa casa, e gli ospiti non si occupano delle faccende. Ci penseremo io e Sarah a quelle, come abbiamo sempre fatto.» mi spiegò, pacata come sempre.
«Ma a me piacerebbe molto aiutarvi! Stare senza far nulla, con le mani in mano… non mi è mai piaciuto.»
«Oh, va bene allora. Quando avrete finito di svolgere i vostri compiti vieni da me, e se c’è rimasto qualcosa da fare sarai libera di occupartene.» posò una mano sulla mia spalla, carezzandola piano. «Ma sono comunque dell’idea che non dovresti occupartene.»
«Ma non è assolutamente un problema, per me! Mi piace rendermi utile…»
«Oh, insomma, quante chiacchiere inutili! Se hai terminato di mangiare, Bella, possiamo andare ad occuparci dei nostri lavoretti! Dai, andiamo!» rapida e scattante come una cavalletta, Alice fece il giro del tavolo e dopo avermi presa per mano mi tirò su dalla sedia, portandomi via dalla cucina.
«Buon lavoro, care!» ci gridò dietro Esme, divertita.
«Alice, non correre!» esclamai mentre cercavo di starle dietro: si muoveva velocemente ed io avevo già rischiato di cadere, inciampando nell’orlo del mio vestito.
«Ma abbiamo così tante cose di cui occuparci! Dobbiamo muoverci!» Alice lasciò la mia mano ma solo per potersi posizionare alle mie spalle e spingermi così lungo il corridoio e lungo le scale che portavano al piano di sopra.
«Mi farai cadere così!»
«No, non cadrai, e se dovesse succedere ci sono io dietro di te, no? Non ti farai del male!» ridacchiò, tornando a spingermi.
Cominciai a ridere anche io: la sua vivacità era contagiosa.
 

***

 
«Sono felice di conoscerti.» Alice scandì la frase parola per parola, facendomi cogliere in questo modo suono e pronuncia, alzando gli occhi per qualche istante dal suo ricamo.
«Sono felice conoscerti.» ripetei, cercando di concentrarmi, ma mi sembrava di aver sbagliato qualcosa…
«Hai dimenticato una parola, Bella!» ridacchiò lei, facendomi notare l’errore.
«Diamine!» da quando avevamo cominciato le nostre lezioni, che consistevano semplicemente nel formulare e ripetere frasi a caso in portoghese, non facevo altro che sbagliare. Eppure mi impegnavo. Sapevo anche di non aspettarmi chissà quali risultati, visto che avevamo cominciato solo un paio di ore prima, però...
Alice rise di nuovo. «Non preoccuparti, è normale. Hai tutto il tempo di questo mondo per imparare bene la lingua… e nel frattempo possiamo continuare ad usare l’italiano, non è un problema.» disse, carezzandomi il dorso della mano con la sua.
Le sorrisi, riconoscente, e ringraziai il fatto che conoscesse benissimo l’italiano: Carlisle lo aveva insegnato a tutti e tre i suoi figli, donando loro una parte delle sue origini. Era stato un bel gesto, il suo.
Ma per quanto fosse bello poter usare la mia lingua madre anche lì in Brasile, dovevo a tutti i costi imparare il portoghese: era la mia priorità in quel momento, non potevo continuare a non conoscere quella lingua. Mi ripromisi di impegnarmi ancora di più, da quel momento in avanti.
Io e Alice continuammo a parlare tra di noi, adesso usando l’italiano e l’istante dopo usando il portoghese; era divertente, ma mi confondeva molto e, così, spesso e volentieri mi ritrovavo a sbagliare pronuncia o parola, ripetendola diversa da come l’aveva fatto invece Alice.
Ero sollevata, un pochino, solo perché i miei errori si ripercuotevano sulla lingua e non sul cucito che tenevo tra le mani. Parlavamo, e nel frattempo cucivamo: fare entrambe le cose ci dava la possibilità di impiegare meno tempo e di distrarci, di tanto in tanto.
Quello a cui stavo lavorando era un semplice centrino di lino bianco, ricamato con un motivo di rose; Alice, invece, stava sistemando gli orli e il busto del mio nuovo vestito. Era stata molto contenta quando lo avevo provato per vedere se mi stava bene, ma era rimasta un pochino delusa quando aveva visto che era un po’ troppo morbido sulla pancia e sui fianchi: non pensava che fossi così piccola di vita. Si era ripresa quasi subito dallo stupore e, armata di ago e filo, aveva ripreso il lavoro.
Interrompemmo le nostre faccende solo quando Sarah, carica di biancheria da lavare, ci avvertiva di scendere perché si stava avvicinando l’ora del pranzo. Così posammo i nostri lavori e scendemmo insieme. Alice mi prese sottobraccio e, legate in questo modo, percorremmo il corridoio che ci avrebbe portate in cucina.
Come quella mattina, scoprii che saremmo state solo io, Alice ed Esme le uniche a mangiare; la mamma di Alice ci spiegò che gli altri, impegnati a lavorare alla piantagione, avevano fatto un salto per prendere un po’ di cibo e per portarlo nei campi. Avrebbero mangiato tutti lì, per risparmiare tempo, e sarebbero risaliti solo più tardi.
«Mi sarebbe piaciuto molto salutare papà.» mormorai tra me e me, con lo sguardo fisso sul mio piatto colmo di minestra. Non avevo ancora cominciato a mangiare, cosa che invece Alice ed Esme avevano già fatto da qualche minuto.
«Già, anche io volevo farlo… ma è sempre così, qui, non vedrai nessun uomo della famiglia prima dell’ora di cena. Lavorano tantissimo, specialmente adesso che si sta avvicinando il momento della raccolta!» si lamentò Alice, che aveva sentito quello che avevo detto.
«Il mese prossimo è quello più intenso, ma passa velocemente. Vedrai che da un giorno all’altro ti lamenterai perché avrai i tuoi fratelli sempre tra i piedi!» scherzò Esme.
«Oh, ma io sono contenta se passo del tempo insieme a loro! L’importante è che Emmett non mi faccia i soliti dispetti stupidi!»
«E’ così cattivo con te?» chiesi, mangiando finalmente un po’ di minestra.
«Non è cattivo, è solo che a lui piace scherzare e divertirsi… ma a volte esagera.» mi spiegò Alice. «Edward invece è più tranquillo, pacato, e anche lui alcune volte non sopporta Emmett!» rise, spezzando un po’ di pane.
Edward. Sentire quel nome scatenò dentro di me nuovamente le sensazioni che avevo provato quella mattina, quando lo avevo visto scendere alla piantagione. Chiusi gli occhi, cercando di calmare me stessa ed il mio cuore, che aveva cominciato a battere forte.
Perché mi accadeva tutto questo?
«Bella, tesoro, sei ancora sicura di voler darci una mano nei lavori domestici?» Sarah, che si era avvicinata al tavolo della cucina dopo essere rientrata in casa, posò una nuova brocca d’acqua davanti a me. «Ho appena messo i panni bagnati ad asciugare in cortile. Se vuoi, più tardi puoi raccoglierli e piegarli.»
«Lo faccio con piacere, Sarah!» esclamai.
«Bella, ma noi dobbiamo ancora finire di sistemare il tuo vestito!» mi ricordò Alice alzando la voce.
«Tesoro, non urlare! Potete fare entrambe le cose, basta che per l’ora di cena tornate qui entrambe e non fate tardi.» Esme sistemò la situazione, versandosi l’acqua nel bicchiere.
Più tardi, terminato il pranzo, io e Alice tornammo di nuovo nella sua stanza. Non appena chiusi la porta, però, lei mi si parò davanti guardandomi in modo strano.
«Sai che non sei costretta, vero? Voglio dire, ci sono la mamma e Sarah che si occupano della casa, e qualche volta lo faccio anche io… non devi sentirti costretta a farlo anche tu.» mormorò, stringendomi le mani.
«Ma io non mi sento costretta, Alice! mi piace aiutare, l’ho sempre fatto, anche a casa in Italia… lì, eravamo io e la zia ad occuparci della casa, e nessun altro.» sorrisi, tranquillizzandola. «È come tornare a fare qualcosa di familiare.»
«Oh, d’accordo allora! Sbrighiamoci a finire le modifiche al vestito così poi possiamo fare qualcos’altro!»
Fortunatamente, i nuovi ritocchi erano giusti e non c’era bisogno di tornarci su un'altra volta.
 

***

 
Da sola, senza che nessuno fosse costretto a dirmi di nuovo dove si trovasse il cortile, scesi e per fortuna lo trovai senza alcun problema. Era impossibile sbagliarsi, dopotutto: una volta fuori casa eri completamente circondata dal cortile.
Raggiunsi il punto che mi interessava, quello che era riservato al bucato. C’erano i panni che Sarah aveva steso in precedenza e che, grazie al sole cocente, dovevano ormai essere completamente asciutti.
Era così strano per me sentire tutto quel caldo nel mese di Marzo, quando invece ero abituata a sentire ancora il freddo ed il vento pungente in Italia. Preferivo di gran lunga questo clima a quello invernale, se dovevo essere sincera. Non mi era mai piaciuto il freddo.
Mi misi all’opera, smettendo di pensare, e con calma cominciai a prendere i vestiti e le lenzuola dai fili del bucato, ripiegandoli e posandoli in pile ordinate mano a mano che continuavo. Riconobbi alcuni dei miei indumenti e quelli di papà, tra gli altri. Chissà di chi erano, se quella camicia bianca apparteneva a Carlisle o se i pantaloni marroni fossero, invece, di Emmett.
Pensavo e sorridevo, non potevo farne a meno.
Avevo quasi finito di raccogliere tutto il bucato quando Sarah venne a controllarmi.
«Pensavo che avessi bisogno di una mano, ed invece hai già finito!» esclamò divertita.
«Non ci è voluto molto…» mi giustificai, anche se sapevo che non c’era bisogno di giustificarsi.
«Ti do una mano a dividere i vestiti, va bene? Così poi li portiamo nelle stanze dei proprietari.» mentre parlava aveva già cominciato a dividere i vestiti in diverse pile.
Pochi minuti dopo, piena di vestiti che tenevo tra le braccia, entrai in casa e salii le scale per posarli nelle stanze che mi aveva indicato Sarah, quelle dei fratelli Emmett e Edward. Sperai solo di non lasciare i vestiti sbagliati nelle camere sbagliate.
Dopo aver lasciato metà dei vestiti in una camera uscii e mi diressi verso la successiva, che si trovava proprio di fronte a quella che avevo appena lasciato. Entrai senza bussare e, lasciando la porta socchiusa, mi voltai per posare gli abiti sul cassettone ma mi fermai, vedendo che non ero da sola nella stanza.
Sussultai e lanciai un piccolo urlo, voltandomi di scatto per evitare lo sguardo dell’altro. Sentii le guance scaldarsi per l’imbarazzo mentre chiudevo gli occhi; avrei dovuto bussare prima di entrare, e mi stavo pentendo della mia scelta di non farlo…
«Ehi, va tutto bene?» la voce tranquilla e pacata di Edward mi raggiunse, facendomi capire che non era arrabbiato per via della mia intrusione nella sua camera.
Mi voltai, mantenendo però lo sguardo basso; mi vergognavo, e il fatto che Edward fosse nella stessa stanza insieme a me senza camicia rendeva ancora più forte il mio imbarazzo. Non avevo mai visto un uomo a petto nudo, mai.
«Avrei dovuto bussare, mi-mi dispiace…» balbettai, confusa.
«Non è successo nulla di grave, non giustificarti.» cercava di tranquillizzarmi, e sentii i suoi passi avvicinarsi a me.
Deglutii a vuoto, confusa a causa della sua improvvisa vicinanza e dei suoi modi tranquilli. Alzai finalmente lo sguardo e mi tranquillizzai un pochino quando vidi che aveva indossato la camicia; la teneva aperta, ma almeno era più coperto rispetto a prima.
«Sono passata a… lasciarti i tuoi vestiti…» mormorai, alzando di poco le braccia per mostrarglieli.
Edward sorrideva, ma non capii se lo faceva perché era divertito per il mio imbarazzo o lo faceva semplicemente perché era abituato a farlo. «Dalli a me, ci penso io a posarli. Grazie.» disse, prendendo gentilmente i vestiti dalle mie braccia.
«Senti, Edward… è tornato anche… mio padre?» domandai incerta. Non volevo mostrarmi così insicura ai suoi occhi, ma non riuscivo a calmarmi. Era la sua presenza che mi rendeva così nervosa…
«No, non ancora. Io sono andato via prima perché volevo leggere un po’ prima di cena.» mi spiegò, sempre sorridendo. Mi piaceva il suo sorriso.
«Oh, ho capito! Grazie mille, adesso… vado giù, si.» vergognandomi a morte, agitai velocemente la mano in segno di saluto e altrettanto velocemente uscii dalla camera, sbattendo forte la porta alle mie spalle e non dando il tempo a Edward di potermi salutare.
Corsi verso le scale e, una volta lì, mi fermai per sedermi su uno dei gradini. Cercai di riprendere fiato e di calmarmi, sentivo il respiro accelerato e il cuore battere forte. Posai le mani sul petto e rimasi così, seduta, per non so quanti minuti ad aspettare.
Mi sentivo indifesa e scombussolata, non riuscendo a capire la natura di quelle strane emozioni che facevano la loro comparsa solo quando mi trovavo accanto a Edward, o sentivo parlare di lui.
Stavo forse diventando pazza?

 
 
 
 

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Siamo ancora agli inizi, ancora un po’ di pazienza e cominceremo ad entrare nel vivo della storia :).

Un bacio a tutte, e grazie per essere arrivate qui.

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