Amori Maturandi

di ronloveshermione
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I - Un Medico Abbastanza Atletico ***
Capitolo 3: *** II - Acqua ***
Capitolo 4: *** III - Superficie ***
Capitolo 5: *** IV - Amici ***
Capitolo 6: *** V - Ghiaccio ***
Capitolo 7: *** VI - Ricominciare ***
Capitolo 8: *** VII - Sogni, risvegli e lattughe fra i denti ***
Capitolo 9: *** VIII - Imprevedibile ***
Capitolo 10: *** IX - Rimorsi ***
Capitolo 11: *** X - I sei stadi della separazione ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.
 
"Non so cosa voglio fare nella mia vita." Dico mentre parlo con Giulia. "Ma so che voglio sposare un medico..." i miei occhi guardano un punto fisso del muro per evitare che le mie guance prendano fuoco. 
"Potresti sposare me!" afferma ridendo la mia amica.
"Da te porterò i bambini che avrò avuto con un atleta!"
"Ma non volevi sposare un medico?" chiede Giulia un pò perplessa.
"Perchè un medico non può anche essere un bell'atleta?" rido anche io e i miei occhi abbandonano il punto fisso del muro per scendere un pò più giù. Lui non mi guarda, ma preferisco distogliere lo sguardo prima che qualcuno noti il modo insistente con cui lo guardo. Mi giro verso Giulia che nel frattempo ha cominciato ad assumere pose un pò strane.
"Cosa stai facendo?" chiedo divertita.
"Un pò di pose da culturista. Così magari posso essere un medico abbastanza atletico che vada bene per te..." 
"Ma va!" e le do una spintarella sulla spalla.

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Capitolo 2
*** I - Un Medico Abbastanza Atletico ***


I - Un medico abbastanza atletico
 
è l'alba di un un nuovo giorno e vorrei che il mio risveglio fosse come quello delle pubblicità dei profumi: senza un capello fuori posto, la pelle diafana e liscia, un corpo scuoltoreo. Invece al mattino io somiglio più all'uomo della pubblicità delle gocciole: casa mia è la giungla, i miei capelli ricci sono più crespi che mai e il mio viso è pieno di puntini rossi, ferite di una battaglia che ho perso contro me stessa. Per non parlare del mio corpo: la scultura della dea della fertilità in confronto potrebbe sembrare fantastica.
Mi dirigo, trascinandomi, verso la cucina alla disperata ricerca di un caffè, ma in questa casa sono sempre la prima a mettere il naso fuori dalle coperte e anche oggi mi tocca prepararmelo da sola.
 
Guido con calma attraverso le strade della mia città, che alle 7:45 ancora è assopita, e mi godo questo momento. La giornata, nonostante siamo nel pieno di Novembre, non è fredda e un raggio di sole, che questa mattina mi ha illuminato gli occhi (ne avrei fatto volentieri a meno perchè ho creduto di essere Dracula e che stavo per sbriciolarmi), mi ha ricordato che in fondo alla borsa avevo ancora gli occhiali da sole: i miei occhiali un pò da vamp anni '60 che mi fanno sentire strafiga... ora non esageriamo, ma lo ammetto: con questi sul naso mi do delle arie. 
Posteggio al solito posto, tra la macchina di Laura e la Sua, e scendo. Respiro piano e cerco le mie mentine, mentre mi maledico per non aver ordinato lo zaino come le persone normali. Guardo a destra, poi a sinistra. La strada è libera e decido di attraversare, pronta a passare un'altra mattina in prigione.
 
"Ma seriamente ragazzi, ci pensate mai che passiamo gran parte della nostra vita a studiare, consapevoli del fatto che il 90% di noi finirà a fare un lavore che odia e la restante parte sarà disoccupata?" Alessio è lanciato in uno dei suoi monologhi da minipolitico; io faccio corna e nemmeno gli do retta: se cominciamo a deprimerci di mattina presto è la fine.
"Alessio ma mangia, va e stai zitto!" Daniele, il suo compagno di banco, gli offre la sua colazione solo perchè sa che non sentirà un rifiuto: così Alessio si concentra sulla sua seconda attività preferita e smette di vaticinare catastrofi.
Io mi siedo al mio posto e mi sdraio sul banco, cacciando la testa tra le braccia, sfruttando gli ultimi minuti prima della campanella per svuotare la testa e pensare un pò agli affaracci miei. Inevitabilmente davanti agli occhi mi si piazza la scena più brutta che io abbia visto negli ultimi tempi: Manuela e Gianluca che si baciano, seduti sul mio banco, mentre io mi sforzo di non guardare. Ripenso a quando qualcuno mi aveva detto che lo stesso Gianluca provava un certo interesse per me e io avevo ignorato queste parole, avevo soffocato i miei sentimenti perchè non pensavo che una storia tra noi potesse esistere, perchè credevo che lui avrebbe fatto con me come con tutte le altre. Adesso però lui era cresciuto, era più bello, era più maturo, era il mio medico abbastanza atletico e io lo avevo visto andare nelle braccia di tante altre ragazze, ma mai nelle mie.
"Buongiorno!" Riccardo si lascia cadere pesantemente sulla sedia e ha la faccia più stanca della mia. "Non dire nulla. Sono distrutto, non ho chiuso occhio."
"Perchè?" azzardo una domanda, un pò intimorita dalla sua irritabilità mattutina.
"Ho avuto una partita a Palermo e siamo tornati a casa alle 4 del mattino. Avrò dormito si e no un'ora!" A testimonianza di ciò uno sbadiglio fa capolino sul suo viso e io inizio a ridere. "Che cavolo ti ridi?" 
"Mi sei sembrato il leone dei film..." la campanella e la prof interrompono la nostra discussione, anche se so che continuerà al cambio dell'ora.
 
La professoressa di filosofia parla, parla, e parla ancora, ma io colgo solo una parola su dieci. La mia testa è altrove, il mio sguardo perso sul giardino della scuola. Sento un vocio alle mie spalle, ma lo ignoro. Distolgo lo sguardo e cerco distrattamente la penna nel borsellino per fingere di mostrare un minimo di interesse: cosa mi frega a me della dialettica di Hegel! 
Sento il cellulare vibrare nella tasca dei miei jeans e lo sfilo piano, cercando di non far notare alla professoressa che lo sto mettendo dentro il borsellino. Sblocco la tasteria e il mio cuore perde un battito quando leggo il nome.
"Cosa vuoi?" sussurro al ragazzo alla mia sinitra. Lui mi fa cenno di stare zitta e indica il suo cellulare per farmi capire che vuole che legga il testo del messaggio.
G:Ti piace il mio nuovo taglio di capelli? lo guardo perplessa e faccio spallucce. Lui sogghigna e mi fa un cattivo gesto in direzione delle sue parti intime, molto allusivo e molto volgare. Io sgrano gli occhi.
M: Porco! Quel gesto lo fai ad un'altra! Blocco il cellulare e fisso la lavagna su cui la prof sta tracciando disegni che dovrebbero chiarirci le idee. Lo sento ridere, ma non mi volto. Abbasso lo sguardo e vedo lo schermo del mio cellulare accendersi, leggo l'sms e trattengo le risate. Non rispondo alle sue provocazioni: lui è fidanzato con una delle mie migliori amiche, e comunque non farei mai la rovina famiglie. Però lui insiste e continua a tempestarmi di messaggi. Io sbuffo.
"Ma che hai oggi?" mi chiede Riccardo surrurrando per non farsi sentire dalla professoressa. 
"Qualcuno mi disturba..." dico io, senza aggiungere altro che possa mettermi nei guai. Prendo distrattamente qualche appunto, dimenticando anche di leggere i messaggi di Gianluca, che infastidito mi tira una gomma addosso. "Ahi!" esclamo. Troppo forte. O merda! La prof si gira, guarda prima me, poi Riccardo, che intanto ride come uno scemo, e osserva tutta la classe: il suo sguardo chiede una risposta che giustifichi l'interruzione della sua opera d'arte fatta di gesso e piani fenomenici e fenomenologici. "Mi scusi prof, ma mi è venuto un crampo terribile alla mano..." lascio cadere la penna sul foglio e mi massaggio il polso, stampandomi sul volto la faccia più penosa che ho. Lei si volta e continua la sua spiegazione.
Un altro messaggio. Maledico Gian e la sua insistenza e leggo solo l'ultimo, in fretta, senza soffermarmi troppo sul significato delle parole. 
G: Pessima attrice, ma faccia sempre bellissima. Vieni a vedermi giocare questa sera? Inizio alle 19.30, ti aspetto.

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Capitolo 3
*** II - Acqua ***


 
II - Acqua
 
I capelli continuavano a gocciolare acqua, bagnando il pavimento: mia madre mi ucciderebbe se potesse vedermi! 
Guardo dentro lo specchio Chi sei? penso mentre fisso la mia immagine riflessa, che comincia a fare capolino tra il vapore acqueo, e le mie mani stringono il bordo del lavandino. 
Cosa vuoi dalla vita? Sapevo cosa volevo, ma non sapevo come fare ad ottenere il risultato da me sperato. 
Vuoi andare a questa partita? Mente e cuore stavano facendo a cazzotti e la cosa non non mi aiutava per niente. Il mio cuore sapeva che voleva andare, ma la mia testa mi implorava di non fare questo sbaglio: se fossi andata alla partita e qualcuno avesse notato il modo in cui osservavo ogni contrazione dei suoi muscoli?
La mente affollata di pensieri e i capelli bagnati mi avevano fatto venire un gran mal di testa, così avevo preso la saggia decisione di avvolgere i capelli nel mio turbante bianco e di andare a vestirmi.
Correndo per il corridoio lancio un'occhiata all'orologio della cucina che segnale 18:30: avevo ancora un'ora per decidere cosa 
fare, anche se in cuor mio avevo già deciso.
 
Mi guardo intorno un pò spaesata. è la prima volta che metto piede in questa palestra e devo dire che è proprio come me l'aspettavo: elegante, affollata, ma non caotica, frequentata da gente sicuramente che conosce poco il valore reale dei soldi.
"Posso esserle d'aiuto?" una ragazza con una cuffia bluetooth e una cartella in mano mi guarda sorridendo.
"Si. Le piscine?" 
"Quali?" le si stampa un punto interrogativo in faccia, ma vorrebbe nasconderlo per non farmi sentire in imbarazzo. Le mie guance prendono fuoco e la ragazza, il nome sul badge dice che si chiama Carola, cerca di aiutarmi. "Allora: se cerchi le piscine olimpioniche sono in fondo a sinistra, se invece cerchi le piscine per esterni sono nell'edificio qui accanto."
"La partita di pallanuoto dove si tiene?" chiedo con la voce di una bambina che teme di essere sgridata dalla mamma.
"Ah! Devi seguire la partita? Scusa non avevo capito!" Carola si batte la mano sulla fronte, dopo essersi scusata non so per cosa. "Seguimi ti accompagno io. Luca torno subito!" Dice al collega seduto alla scrivania dove prima era anche lei e mi fa cenno di seguirla. Camminiamo in silenzio, lungo i corridoi di questa grande palestra; la mia mente galoppa e il cuore vorrebbe spaccarmi il petto. 
Un paio di minuti dopo siamo arrivati a destinazione e, gentilmente, Carola mi dice che oltre quella porta fra cinque minuti avrà inizio la partita. Io sussurro un timido Grazie e la guardo mentre si allontana velocemente con la sua coda di cavallo che dondola seguendo il moto dei suoi fianchi.
Faccio un respiro prondo. Metto la mano sul maniglione antipanico e spingo, buttando fuori l'aria insipirata poco prima.
Sugli spalti non c'è molta gente e non riconosco quasi nessuno, fatta eccezione per un paio di ragazza e ragazzi della mia scuola. Fortunatamente nessuno della mia classe. Prendo posto in alto così che lui non possa vedermi e io, invece, possa controllare chiunque entri e prenda posto. Dentro l'edificio fa caldo e comincio a spogliarmi: prima la sciarpa, poi il giubotto. Mi tiro su le maniche della felpa. Accavallo le gambe. 
"Ma quando diamine inizia questa partita?" sussurro, mentre frugo nella mia borsa alla disperata ricerca del mio cellulare, che come sempre ho dimenticato in macchina. "Bene! ci mancava solo questa." Scavallo le gambe e batto il piede: dal nervosismo potrei anche aprire una faglia nel pavimento!
"Marica?" O cazzo! Alle mie spalle la voce di una ragazza mi chiama. Credo di aver riconosciuto in lei la voce di Lucia e non posso che girarmi verso di lei, mentre mi sforzo di sorriderle, una volta verificato il mio timore. "Che ci fai qua?" Pronuncia l'ultima lettera di ogni parola come se stesse cantando. Non faccio in tempo a risponderle che lei ha già cominciato a raccontarmi tutto quello che ha fatto negli ultimi mesi e che il portiere della squadra di pallanuoto è uno con cui si "frequenta" (fa proprio il gesto delle virgolette con le mani!). Che cosa voglia dire poi questo frequentarsi al giorno d'oggi ancora io non l'ho ben capito, dato i particolari della loro relazione che lei non smette di raccontarmi."Ma non mi hai ancora detto cosa fai tu qui, o meglio per chi sei qui!" Lei ride e io vorrei strangolarla. Annaspo perchè non voglio dirle che sono qui per Gianluca, ma lei mi guarda dritto negli occhi con l'aria di chi vuole sapere di più. Così improvviso.
"I miei amici mi avevano dato appuntamento qui, ma non sono ancora arrivati. Un nostro compagno di classe gioca e ci ha invitati..." frugo nella borsa, senza sapere bene cosa cercare, con la sola intenzione di nascondere la mia faccia. "Santo cielo! Non ci sto proprio con la testa! Lascio sempre il telefono in macchina. Ovviamente loro mi avranno mandato qualche sms. Forse sarebbe il caso che io andassi a prenderlo." L'isteria nella mia voce, nei miei gesti, il modo frenetico con cui mi sposto i capelli dagli occhi tradiscono la mia bugia. O almeno io non sono affatto contenta di come stia mentendo. Mi alzo, mentre lei mi osserva sospettosa. Forse sono ancora in tempo per scappare a gambe levate, rinchiudermi in casa e non farmi vedere per i prossimi 30 giorni, così nel frattempo i Maya avranno visto la loro profezia realizzarsi e potrò smetterla di vergognarmi! Mentre penso alla fuga, però, la squadra comincia a entrare in acqua.
"Io torno al mio posto." Dice Lucia, mentre mi saluta velocemente e si siede con le sue amiche. Io resto lì, in piedi come un'idiota. Gianluca mi sorride, o meglio se la ride, e io mi lascio cadere esattamente nello stesso punto dove ero seduta prima, abbandonando l'idea di svignarmela.
 
Quando anche l'ultima persona che era seduta vicino a me lascia le gradinate, mi guardo intorno un pò scocciata. Circa mezz'ora fa i ragazzi, l'arbitro e l'allenatore hanno lasciato la piscina e si sono diretti verso lo spogliatoio. Lancio un'occhiata al mio orologio da polso che segna le 20:15 e sbuffo un pò scocciata dall'attesa. Di Gian nemmeno l'ombra. Mi metto il giubotto, mi stringo la sciarpa e mi dirigo verso il posteggio: aspettare senza fare niente mi stava stancando, così decido di andare a recuperare il mio cellulare. Carola e Luca sono ancora alla scrivania, ma non fanno niente che riguarda il loro lavoro di segreteria, anzi stanno tranquillamente sgranocchiando un pacco di patatine. Carola mi sorride, e io la ricambio, ma il saluto mi muore sulle labbra quando vedo che fuori diluvia. 
"Cavolo!" non perdo tempo neanche a cercarlo l'ombrello perchè tanto so di averlo lasciato a casa. "Poi! Pure il giubotto senza cappuccio! Quando una dice sfiga!" così corro sotto la pioggia, più veloce che posso. Davanti alla mia macchina cerco le chiavi e, una volta aperta, mi infilo dentro, accendo l'aria calda, mi levo il giubotto e cerco qualcosa per asciugare i capelli.
"Dovrebbero inventare un phon senza fili! Sarebbe l'ideale." Il mio cellulare si illumina e mi sbatto un mano sulla fronte, quando vedo che l'avevo lasciato nello svuota tasche dello sportello. Tra una decida di sms, l'ultimo è di Gianluca.
G: Ma dove sei? Non dirmi che sei andata via!
M: Ma che! Sono dovuta andare in macchina.
G: Vieni dentro o ti raggiungo io? Sono senza ombrello :) 
Ma certo che siamo due idioti: e meno male che gli uguali si respingono! 
M: Nemmeno io! Che si fa? Nell'attesa di una risposta mi soffio tra le mani nel disperato tentativo di riscaldarle.
G: Vengo io! Dove hai posteggiato? 
M: Davanti l'ingresso. Non puoi sbagliare: c'è solo la mia macchina.
Lo vedo da lontano. Suono il clacson, sperando che capisca che voglio che stia fermo lì dov'è, così metto in moto e lo raggiungo. Gli faccio cenno di salire, così lui entra e riempie la mia macchina del suo profumo buonissimo.
"Ahahah" se la ride, come al solito, come un idiota.
"Che cavolo ridi?" chiedo scocciata. 
"Sei tutta bagnata!" si tiene la pancia dalle risate. 
"Ma sei stupido o cosa?" guardo dritto davanti a me, non vorrei che un solo sguardo mi tradisse. 
"Ma perchè non hai posteggiato dentro?" 
"Secondo te se sapevo che c'era il posteggio interno la mettevo fuori?" sarà bello, ma a volte mi sembra anche tanto stupido! "Se ridi ancora ti faccio andare a prendere la tua macchina!"
"Sono senza! L'ho dovuta portare dal meccanico." si china per cercare qualcosa dentro il borsone, penso i suoi occhiali.
"Allora ti faccio scendere. Mica devo essere solo io quella bagnata!" Lui mi guarda, e io gli sorrido.
"Seriamente? Io scendo, ma devi scendere di nuovo anche tu!" Gli brillano gli occhi, di un'eccitazione bambina, divertito da questa stupida proposta.
"Ma dai, scherzo!" Mi giro e vedo che è sceso, lasciando lo sportello aperto!
"Dannazione Gianluca! Ma chiudilo lo sportello che mi bagni tutto il sed... Che fai?" Ha fatto il giro della macchina e ha aperto anche il sportello.
"Scendi è troppo divertente!" mi prende per mano e cerca di farmi scendere.
"Non ci penso nemmeno lontanamente!" scuoto energicamente la testa per mostrare tutto il mio disappunto.
"Ma tanto ormai sei bagnata! Che ti frega! Ti pregoooooo..." mi fa gli occhietti teneri, e il labbruccio. E non so resistere. Mi lascio trascinare fuori dall'auto, lascio che la pioggia mi bagni i capelli, i vestiti, il sedile dell'auto. Non mi importa nulla in questo momento. Mi sento libera, mentre gioco sotto l'acqua.
"Non l'avevo mai fatto!" urlo, come se l'acqua potesse smorzare il volume della mia voce. "é fantastico." 
"Lo so!" Ridiamo come due stupidi sotto la pioggia che non esita a diminuire. Gian mi prende per i fianchi e mi solleva, facendomi finire con i piedi per aria.
"Ma che fai! Mi viene da vomitare!" Gli batto dei colpi sulla spalla per fargli che capire che voglio scendere, ma lui si diverte, lo sento ridere. "Gian! Mettimi giù per farvore!" 
"Va bene!" mi mette giù, ma io perdo l'equilibrio, imbranata come sono, e gli finisco addoso. Mi tengo con le sue spalle, per evitare di finire con il sedere in qualche pozzanghera, mentre lui mi tiene ancora per i fianchi ammortizzando il colpi.
"Certo che ad equilibrio zero ah!" Lui ride con i suoi denti perfetti e io mi perdo nei suoi occhi. 
"Ma i tuoi occhiali?" cosa? Cosa? COSA? Cosa ho detto? Seduzione zero.!
"Li avevo lasciati in macchina prima!" ride fragorosamente, poi punta i suoi occhi nei miei. Stiamo lì a guardarci per pochi secondi, ma che sembrano infiniti, poi io distolgo lo sguardo.
"Credo sia il momento di tornare dentro se non vogliamo beccarci una polmonite." Mi stacco dalla sua stretta e mi dirigo verso la mia macchina. "Andiamo va, ti offro una cioccolata calda!" E gli faccio cenno di salire.

Note D'Autrice:
Alloraaaaaa.... Spero che anche questo secondo capitolo via sia piaciuto.
Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno letto i primi due capitoli, che hanno letto questo e che continueranno a leggere questa storia.
In particolare vorrei ringraziare Secretly_S per aver recesito la storia e per averla inserita tra le seguite.
Inoltre ringrazio Dusa per aver inserito la storia tra le preferite e LucyNSN per averla inserita tra le seguite.
a presto.
Ronloveshermione.

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Capitolo 4
*** III - Superficie ***


 
III - Superficie
 
Qualche tempo fa nella mia vita si intrifulò un pensiero, uno stupido pensiero direi oggi con il senno di poi: volevo cambiare e attuare la filosofia di vita della superficie. Non importa quello che hai dentro poichè nessuno, per quanto ti premurassi di curare il tuo io, il tuo cervello, la tua anima, poteva vederlo. La gente che mi stava intorno apparteneva ad un mondo molto, troppo lontano dal mio a cui, però, cominciai a sentire il bisogno di appartenere. Effettuai quello che in America chiamano Restailing: via la vecchia me, svuotai gli armadi dal passato per riempirli di abiti e scarpe alla moda, cambiai taglio di capelli e montatura di occhiali da vista, contemporaneamente dimagrii così velocemente che chi non mi vedeva da poco più di qualche mese stentava a riconoscermi. Io stessa ad un certo punto non mi riconobbi più, ma continuai a fingere per finire con il ritrovarmi da sola. Si, ero circondata da tante persone, ma nessuno voleva starmi a sentire quando la parte più nasconasta, ma vera, di me cercava graffiando e mordendo con unghie e denti di emergere da quello strato di lustrini e ciglia finte che mi ero gettata addosso. Ero diventata l'esempio del consumismo e del conformismo. Ero la donna di ghiaccio.
Una mattina di Aprile, poi, un mio compagno mi chiese di andare a casa sua per aiutarlo a studiare. Non so perchè accettai, ma sentivo qualcosa dentro di me che mi spingeva a raccogliere l'invito. Così quando mi presentai alla sua porta prima di iniziare a studiare lui mi disse di volermi mostrare qualcosa: voleva che lo ascoltassi suonare una musica che aveva da poco composto. Non so se furono le note di quella melodia o la primavera che cominciava a fare capolino, ma quello strato di ghiaccio di cui il mio cuore si era ricoperto piano piano si sciolse e io ricominciai a vivere. 
 
"MMM... Che buona questa cioccolata! Ci voleva proprio." Gian ride perchè io cerco in tutti i modi di asciugare i capelli, non riuscendoci nemmeno lontanamente. "Tu ridi perchè hai i capelli corti! Ma perchè mi sono lasciata trasportare in questa follia?"
"Perchè non puoi resistere al mio fascino!" Solleva le sopracciglia in un'espressione che vorrebbe alludere all'ammiccamento, risultando solamente buffo. "Posso chiederti una cosa, Marica?"
"Certo! Sono tutta orecchi." anche perchè i miei occhi e la mia bocca erano stati magnetizzati dal contenuto della tazza fumante.
"Puoi consigliarmi il modo più semplice, ma meno doloroso, per scaricare Manuela?" Spalanco gli occhi e resto con la bocca aperta e la tazza per aria.
"Ecco già usare il termine scaricare non è proprio il modo giusto per iniziare." Poggio la tazza sul piattino e comincio a sventolare nervosamente una bustina di zucchero. "Come mai vuoi lasciarla?" chiedo, cercando di non mostrare tutta la mia agitazione.
"Vedi..." Gian fissa la sua cioccolata in modo insistente, come se qualcosa vi fosse caduto dentro. "é per questo che ti ho chiesto di venire alla partita. Volevo parlarti di una ragazza che ha cominciata a fare capolino in modo sempre più insistente nei miei pensieri." Alza gli occhi e li punta nei miei, in quel modo che solo lui sa fare, quasi volesse leggermi dentro l'anima. "Beh... lei è bella, intelligente, sempre sorridente. Si chiama Maria, dovresti conoscerla perchè è la sorella di Mirko." Non lo ascolto più: ogni barlume di speranza si era già distrutto in me e volevo solo alzarmi e andare via.
"Perchè mi parli di lei?" la mia voce non ha tono, è piatta. "Non la conosco molto. Non credo di essere la persona più adatta a dare consigli."
"Dammi un consiglio da amica..." amica. Io sono sempre e solo l'amica! 
"Non posso. Non voglio..." scuoto la testa. Gian mi prende il mento e mi costringe a guardarlo.
"Che hai?" chiede premuroso. Dio! Perchè non riesce a capire cosa vorrei dirgli evitando ogni imbarazzo.
"Pensieri..." fingo.
"Il musicista?" Lui ride e mi guarda con la testa un pò inclinata, per cercare di capire dal mio sguardo se ha indovinato, ma non ha indovinato. Io fingo e faccio di si con la testa. "Vuoi che vada a parlare con lui?" 
"No, figurati! Ci siamo presi una pausa, ma ovviamente per me è difficile smettere di pensare a noi." Balla colossale, ma tengo gli occhi bassi per non fargli capire che quel noi era riferito a me e a lui e non a me e al musicista. "Ma tranquillo. Ora però se per te non è un problema preferirei tornare a casa, ho un pò di mal di testa."
"Chiamo mia madre così mi faccio venire a prendere." Gian scorre la rubrica in fretta.
"Ma che scherzi? Ti accompagno io..." metto la mia mano sulla sua per fermare la sua ricerca.
"Ok. Ma offro io." lo dice sorridendo e io scordo per un attimo Maria.
 
Vedo la madre di Gian sul balcone indaffarata a mettere la biancheria asciutta in un cesto: è così elegante pure quando fa cose così stupide! Ovviamente se anche mia madre conducesse lo stile di vita della famiglia Sciacca sembrerebbe più giovane di quanto dimostri. Già: sempre quella sciocca superficie che ci identifica. Seneca disse che non bisogna giudicare la gente dall'abito o dalla condizione sociale: beh caro Seneca sono passati due millenni e nulla è cambiato.
"Perchè è tutto così difficile?" chiedo senza nemmeno capire che i miei pensieri sono diventati parole. 
"Cosa?" Gian si volta, ma io preferisco guardare il giardino di casa sua.
"Tutto. La vita, la scuola, l'amore..." Su quest'ultima parola perdo il controllo di me stessa e lo guardo e cerco con tutta me stessa di mostrargli cosa ho dentro.
"Beh Marica, siamo uomini, siamo stati pensati deboli e fatti per soffrire." Si gratta la testa mentre parla, come a voler cercare parole migliori. "Ma non devi preoccuparti! Siamo ancora giovani..."
"Gian! Non siamo più così piccoli. Io ho quasi 19 anni e non sono nemmeno così sicura di aver scelto il modo giusto per impiegare la mia vita. A volte non so nemmeno se io e i miei genitori riusciremo a sopravvivere a quest'anno di merda!" Mi asciugo velocemente una lacrima che prova a scendere. "Per te è facile parlare, sei fortunato a non avere problemi economici. So che i soldi non fanno la felicità ma sicuramente ti rendono la vita meno dura!" 
"Hey..." Lui continua a guardarmi, io non riesco a sostenere il suo sguardo in queste condizioni.
"Scusa non volevo vomitarti addosso la mia rabbia. è solo un periodo un pò duro. Spero passi in fretta..."
"Passerà! E per quanto riguarda l'amore tu e il musico sistemerete le cose!" Dio quant'era cieco!
"Io non lo amo più. Per questo è finita. Nonostante fosse stato l'unico ragazzo a volermi amare, io non riuscivo a concentrare tutte le mie energie in quel rapporto. Mi sono accorta di amare un altro, ma so che non possiamo stare insieme." Faccio una pausa, respiro piano. "Gianluca, tu sei un uomo. Guardami bene: sono abbastanza attraente fisicamente e non? Tu ci proveresti mai con me?"
"Beh. Io sono ancora materialmente impegnato, ma se non lo fossi... perchè no!"
"Vedi!" scuoto la testa per mostrare tutto il mio disappunto.
"Cosa?" Gian alza le braccia confuso.
"PERCHè NO? cazzo! Nessuno mai che mi dice si! Ma sono davvero così brutta? Non è bastato cambiare esteticamente, dovrei modificare anche me stessa per piacerti?" O merda! L'avevo detto sul serio a voce alta? Era la prima volta che lo dicevo e non pensavo di confidare la mia passione segreta proprio a lui. Era così strano che in un gesto istintivo mi ero portata una mano alla bocca per coprire il corpo del reato. 
Gian non avevo detto niente. Era rimasto lì a fissare il portone di casa sua, le mani sulle gambe e il respiro più veloce del solito. 
Gli avevo chiesto di scendere, senza scusarmi, senza aggiungere altre parole, e senza voltarsi lui era sceso per poi sparire dietro il portone, nell'oscurità di una fredda sera di dicembre.

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Capitolo 5
*** IV - Amici ***


IV - Amici
 
Io ho un amico.
Lo so, non è una cosa così strabiliante da dire, nè da mettere per iscritto.
Ma io ho un amico di cui vado molto fiera. E vi dirò di più: ho anche un'amica, e un'altra amica. A dire il vero ho tanti amici.
Ma noi quattro siamo qualcosa di speciale, qualcosa che prescinde dal rapporto tra semplici compagni di classe o conoscenti. La nostra è vera amicizia.
Ci sono io, Marica. Tra qualche mese compirò diciannove anni e a giugno spero di conseguire la maturità scientifica. Non ho ancora ben capito cosa voglio fare dopo, ma so che vorrei poter vivere felice e a lungo, costruire una solida e bella famiglia e realizzarmi lavorativamente. So che sembra utopistico o favolistico ma è quello che desidero con tutta me stessa.
Se devo essere sincera so bene cosa voglio: voglio essere diversa da mia madre. Non perchè lei non mi ami, ma perchè io non riesco ad amarla come dovrebbe fare una figlia. La rispetto, ma non ho quel trasporto che vedo negli occhi di tante mie compagne. Ecco io e mia madre abbiamo il classico rapporto madre-figlia da libro dell'ottocento e so che in un futuro, prossimo o lontano che sia, io vorrei essere un'amica per mia figlia, un esempio, un mentore. 
Le voglio bene in fondo al mio cuore, ma non riesco ad esprimerlo perchè lei è opprimente, invadente e stressante.
Non voglio somigliare a nessuno in particolare: vorrei essere me stessa. E basta.
Quando avevo circa quattordicianni Giulio entrò piano nella mia vita, bussando, senza sconvolgerla. 
Non che non lo conoscessi, anzi era una delle persone più fastidiose che io potessi conoscere: lui e i suoi amici si atteggiavano da belli e dannati, come se in terza media potesso capire davvero cosa fosse la dannazione, o la bellezza. Si credevano i padroni della scuola perchè quattro sgallettate avevano fatto credere loro che era questo che potevano fare. Per conto mio li ignoravo il più possibile, nemmeno li guardavo se non quando per sbaglio mi scontravo con uno di loro: io mi scusavo, ma loro mi guardavano con gli occhi pieni di ilarità. Cosa avessero poi da ridere non lo so. So solo che non potevo sopportare la loro faccia da schiaffi e glielo dissi pure una volta. Giulio si fece avanti (credo che fosse il "capo" di quella combriccola) e gonfiando il petto con fare da gallo mi disse che me l'avrebbe dimostrato volentieri come diventare una di quelle che non vengono derise da loro. E fu quella volta che gli mollai un ceffone di quelli che credo non dimenticò più.
Qualche mese più tardi poi lo incontrai da solo, ad una gita e scoprii che sapeva anche essere intelligente quando voleva: come me aveva vinto un concorso di scrittura e me lo ritrovai, durante il pranzo, seduto di fronte. Sollevando lo sguardo dal piatto mi sorrise, mi tese una mano che io strinsi e sorridendo mi chiese scusa. Fu così che ebbe inizio la nostra amicizia.
Non siamo stati mai un duo, ma siamo sempre stati disposti a fare spazio ad altri nella nostra amicizia. Fu così che il non-duo divenne un simpatico quartetto: Vera e Manuela divennero le altre anime di questo rapporto, ma Manuela si innamorò di Giulio e Giulio l'ha presa e lasciata così tante volte che ho smesso di tenere il conto. Lui se la scopava, e se la scopa ancora oggi, e ogni volta che la lasciava dovevo sentire i lamenti di lui e asciugare le lacrime di lei. Ma entrambi erano veloci a consolarsi e spesso lo facevano con altri, per poi tornare l'uno nelle braccia dell'altro.
Vera è una brava ragazza, forse troppo condizionata dall'amicizia con Ludo e per questo spesso dicono loro di avere un mononeurone in due che fa avanti e indietro dalla testa di una verso quella dell'altra, ma io so che non è così. Vera è buona, è sensibile, è semplice. E spesso questo semplicità viene scambiata per stupidità. 
Sa amare, ma come me è stata mille volte delusa e in particolare scottata da una storia a cui lei ancora non ha saputo dire addio. Ed è per questo che la preferico a Manuela, o forse perchè Manu si è spinta in un punto così lontano con Giulio, e anche con Gian, che io non avrei mai immaginato di raggiungere, data la natura del mio rapporto, con entrambi!

"Vedi, il tuo problema è che metti subito una X sulle persone. Come con Gianluca! Tu saresti la prima scelta di molti, il punto è che non riesci proprio ad accorgertene!"
"Senti Giulio, ma perchè dobbiamo sempre finire col parlare della stessa cosa? E comunque io non credo di aver mai sbarrato la strada a nessuno..." Giulio scuote la testa con aria scettica. "Cosa è che non condividi delle mie parole?" Si mette seduto meglio e io guardo il disastro che ha lasciato alle sue spalle: ogni volta che mette il suo culo sul mio divano lo fa diventare peggio di uno straccio vecchio!
"Tu non riesci a capire: se ce ne fossero almeno altre dieci come te nella stessa città il mondo sarebbe migliore!"
"E allora sicuro!" Lo guardo sorridendo. "Giulio quelle come me ci sono, ma voi maschi siete troppo impegnati a sbavare dietro una minigonna piuttosto che impegnarvi nella conquista di una ragazza seria!"
"Lo vedi!" Mi indica con tutta la mano per mostrare il suo dissenso. "Ancora questa storia della conquista! Non viviamo più nell'ottocento! E cmq si deve creare la situazione, l'atmosfera..." 
Alzo un soppracciglio e mostro tutto il mio disappunto. "Senti vuoi qualcosa da bere?" mi dirigo verso il frigo e prendo una acqua tonica per me. Giulio mi dice che non vuole nulla. 
"Non provare a cambiare discorso! Sai che è come dico io!" 
"Fammi un elenco e poi ti dirò se hai ragione o meno." prendo un sorso dalla bottiglia, per poi poggiarla sul tavolo, accavallare le gambe e mettermi in ascolto. Giulio sorride e non dice una parola. "Forza. Io sto aspettando."
"Ok. Prendi carta e penna perchè non ti basteranno le dita." 
"Si, come no!" 
Giulio si alza e cammina in circolo davanti a me. Quasi mi fa venire il mal di mare. Lo vedo che conta sulle dita, muove le labbra senza farne uscire alcun suono mentre fissa il soffitto. "Allora..." esordisce d'un tratto. "In cima alla lista ci sono io..."
"Si tu!" rido, ma lui mi ignora e continua.
"A seguire Gian..." scuto la testa veementemente al solo sentire pronunciare il suo nome, visto che ormai io e lui non abbiamo più nessun tipo di rapporto. "E non scuotere la testa perchè sai che ho ragione e tutti sanno come ci prova spudoratamente!"
"Ma se è fidanzato!"
"Ora! Ma prima era palese! E non dire di no perchè tu lo sapevi e ci marciavi sopra"
"E no!" Mi alzo perchè non posso stare a sentire queste stupidate. "Lui fa così con tutte!"
"Non è vero... ma comunque. Dopo Gian poi c'è Salvo, e Franco, e Luigi... Devo forse continuare?"
"Per me era un discorso inutile in partenza. Non mi convincerai mai a diventare ciò che non sono nè voglio essere." Giulio mi prende per un polso per costringermi a guardarlo fisso negli occhi.
"Non devi essere qualcun altro. Devi solo cominciare a far vedere al mondo intero quello che fai vedere a me ogni giorno: devi mostrare al mondo che dietro l'immagine della brava ragazza c'è una donna con tutta la sua irruente femminilità che non ha nemmeno una piccola parvenza di volgarità. Sensualità, ecco cosa sei..."
"Smettila!" Prendo la bottiglia e la butto nel contenitore per il riciclo.
"Lo vedi! Fai pure il riciclo..." Si lascia cadere di nuovo sul divano e io alzo gli occhi in cielo per evitare che qualche insulto mi esca dalle labbra. "L'ho sempre detto che sei perfetta!"
 

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Capitolo 6
*** V - Ghiaccio ***


V - Ghiaccio

 
Quando si fanno i bagagli si pensa sempre a tutte le opzioni: se farà caldo, se farà freddo, se si andrà a ballare o se si resterà in hotel. Io come sempre, però, mi scordo di pensare a cosa dover indossare la notte: non l’intimo sexy o il baby doll, soprattutto perché non ce ne sarebbe motivo, no. Io scordo sempre il pigiama!
 
Giro come una pazza per tutto l’hotel, bussando ad ogni stanza alla disperata ricerca di un pigiama: io lo sapevo che dovevo dare retta a mia madre quando mi diceva di fare una lista delle cose da portare, ma io non la ascolto mai! In questo hotel sembra poi che non ci sia anima viva. Capisco l’orario, sono le 3.20 del mattino ma dannazione sono in gita con un pugno di vecchi? Mah. Il primo buon proposito per domani mattina? Appena mi alzo e metto piede sull’autobus cerco un posto dove comprare un pigiama, ovunque, anche in un autogrill!
Busso alla porta di Vera, magari lei potrà darmi una mano. Da fuori sembra che dentro non ci sia nessuno.
“Vera?” sussurro per non farmi sentire dai suoi compagni di piano. “Vera ci sei? Sei sveglia? È un’emergenza!” Sento un mugugno provenire da dentro.
“Chi è che rompe le scatole?” Vera odia che la si svegli nel cuore della notte.
“Vera sono Marica!” mi spiaccico contro la porta, magari lei sentisse il calore della mia disperazione! Ma apre la porta improvvisamente e per poco non finisco stesa a terra. “Che cazzo sei demente? Apri così senza avvisare?”
“A pure! Ora ti butto fuori se parli ancora!” ha gli occhi pieni di sonno, i capelli raccolti in una coda, il trucco di ieri impiastricciato sul viso.
“Lo sai che sei davvero affascinante conciata così?” rido, ma piano. È tardi e tutta Monaco dorme.
“Lo sai che sei davvero deficiente quando fai così? Che vuoi?” le spiego che ho la testa sul collo solo per fare peso e che un giorno o l’altro finirò per scordare pure questa da qualche parte. La supplico di prestarmi se ce l’ha un pigiama o una tuta, ma la sua risposta è negativa. “Provo a vedere tra le cose di Manuela.”
A proposito: dove diamine è Manu? Così mi informo con Vera: mezza scuola è uscita di nascosto circa venti minuti prima, in albergo siamo rimasti, a detta di Vera, noi due, qualche ragazzo dei nostri, qualcuno dell’altra classe, e i Milanesi. Begli amici che mi ritrovo: escono mentre sono sotto la doccia e non dicono niente.
“Mi dispiace Marica: devi dormire o vestita o in mutande. Qui non abbiamo niente con cui aiutarti” apre le braccia come a volermi mostrare tutto il suo dispiacere.
“Sei scema? Piuttosto giro tutto l’hotel! Qua si gela!”
 
Vago inutilmente per il quarto piano: i miei compagni sono andati a ballare e qui non c’è nessuna ragazza. Provo a bussare alla porta dei ragazzi di  5H con la speranza di trovare una ragazza o un ragazzo magrolino, invece mi apre la porta un tizio mai visto con in mano una bottiglia di Vodka e delle guance rosse da far invidia al miglior blush in commercio. Chiedo umilmente scusa per aver interrotto il suo party e con la coda tra le gambe mi dirigo verso l’ascensore.
“Hai bisogno di qualcosa?” la voce mi è vagamente familiare. Raccolgo tutta la buona volontà che mi ritrovo in corpo per girarmi di una rotazione minore dei 180°, ma il mio corpo sembra non voler rispondere ai comandi del mio cervello. “Possiamo anche cessare il fuoco per il momento. Anzi possiamo cercare di rompere il ghiaccio.” La voce è molto poco vagamente familiare. È familiare è basta.
 
Non parlo con Gian dalla sera in cui gli avevo confessato ciò che provavo. O meglio glielo avevo vomitato addosso. Ci eravamo pacificamente ignorati per così tanto tempo che la sua presenza era diventata come quella di un fantasma che, dal passato, ogni tanto fa capolino tra i tuoi pensieri.
Lo avevo ignorato con le parole, ma non con gli occhi o con i pensieri. Era rimasto lì, senza mai andare via del tutto, facendosi sentire prepotentemente a intervalli regolari, spingendo qualche lacrima fuori dai miei occhi, durante quelle infinite lezioni di filosofia che senza i suoi sms sembravano interminabili, durante quelle ricreazioni fatte ormai solo di musica, crackers, braccia incrociata in cui ficcare la testa per eclissarsi dal mondo.
Lui era sempre rimasto il compagno di banco alla mia sinistra, da cui, però, non proveniva più nessuna battuta, né alcuna pallina di carta per iniziare una battaglia che doveva concludersi con una caldo abbraccio.
Tra di noi si era creato un muro di ghiaccio, che non aveva crepe per via dell’orgoglio, che nemmeno un impatto con il Titanic avrebbe potuto rompere, né la tenacia di un amico comune che per amore di averci entrambi era finito per diventare più fastidioso di una zecca.
Nessuno avrebbe potuto riavvicinarci, se non noi stessi. E questa volta a ordinare di cessare il fuoco non ero stata io.
 
“Gian…” è l’unica parola che mi esce dalle labbra, con un filo di voce. Impercettibile suono nel trambusto che proviene dalla camera del tizio dalle guance rosse. “Gian!” lo ripeto, ma con un po’ di forza, in modo che le mie parole arrivino dritte alle sue orecchie.
“Di cosa hai bisogno?” ripete la sua offerta.
“Ho dimenticato il pigiama a casa. Sai la solita sbadata!” aggiungo senza voltarmi, mentre scuoto la testa e allargo le braccia. Sento che soffoca tra i denti una risata e me lo immagino mentre ride con i suoi denti che mi avevano fatto impazzire.
“E lo cerchi ai ragazzi dell’altra classe? Capisco che sei bofonchiata, ma non così tanto da indossare il pigiama di quegli energumeni!” il solito stronzo!
“Speravo di trovare una ragazza. Ma visto che sono bofonchiata, credo che non potrai essermi d’aiuto.” Stringo i pugni piena di rabbia. “Vado a coricarmi vestita.” Aggiungo mentre mi avvio verso l’ascensore.
“Aspetta.” Sento la sua voce più vicina, come se avesse fatto un passo verso di me. Il mio cuore perde un battito quando sento la sua mano sfiorare la mia. “Vieni dentro, magari riesco a trovare qualcosa tra i miei vestiti che vada bene per te e per quel culo enorme che ti ritrovi!”
“Sei stronzo come sempre!” aggiungo. Lui comincia a camminare, trascinandomi, senza aspettare che lo guardi negli occhi o che sollevi la testa per rin
graziarlo. 

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Capitolo 7
*** VI - Ricominciare ***


VI - Ricominciare


“Dunque, dunque. Vediamo un po’ cosa c’è qua…” Gianluca rigira come un calzino la sua valigia, mentre io me ne sto impalata davanti alla porta.
“Gian sinceramente, non mi sembra il caso. Forse ho messo una tuta in valigia, sarà da qualche parte tra i maglioni, ma prima non l’ho trovata. Cercherò meglio…”
“Non se ne parla proprio. Se non l’hai vista prima vuol dire che non c’è!” Senza sollevare la testa, continua la sua opera di scavo tra i vestiti. Si è portato così tanta roba che ci metteremo tutta la notte di questo passo: non per niente lo chiamano il trendy! “Ecco qua!” soddisfatto, tira fuori dalla valigia un maglione di cotone bianco sporco, sporco nel senso che al centro, sul davanti, c’è una macchina grigia di origini non identificate, e un pantalone di tuta acetato blu. “Il maglione va bene sicuro, hai le spalle più piccole delle mie. Per il sotto provalo un momento e vediamo se va bene.” Mi tende il bottino di guerra sorridendo.
“Qua?” domando con tono inebetito.
“Io non mi faccio problemi, lo sai, ma io intendevo in bagno.” Ha rificcato la testa dentro la valigia alla disperata ricerca di qualche altra cosa che possa andare bene per il mio enorme fondoschiena.
 
In bagno il disordine regna: Gianluca è un tipo molto ordinato, ma i suoi compagni di stanza non lo sono per niente. Alessio ha lasciato per terra le sue mutande e Rosario ha distribuito sotto il lavandino tutte le sue Converse: se lo scopo era far prendere loro aria aveva proprio fatto la scelta meno adatta e il risultato era l’odore forte che c’era in quel buco di bagno. Cerco di cambiarmi senza toccare lo schifo che hanno lasciato, anche se mentre mi sfilo i pantaloni saltello (sembro proprio un’idiota) e quasi scivolo: altro che espressione inebetita! I pantaloni vanno bene: sono soddisfatta di me e della mia nuova dieta. Proseguo la vestizione passando alla parte superiore: sfilo il mio maglioncino e la maglietta di cotone per indossare il suo maglione che è della lunghezza di un mini abito. Caspita se cresce in fretta! Mi guardo allo specchio, con questi abiti che inaspettatamente mi ritrovo addosso, e provo la sensazione di aver ricevuto un pugno nello stomaco. Sono tre le possibili opzioni: o la dieta dell’astenersi dal mangiare cibo tedesco oltre a dare risultati visibili li dà anche in sonoro; o mi ha stordito il profumo impregnato nelle fibre del maglione, sempre lo stesso, sempre perfetto; oppure ad avermi stordito non è stato il profumo, ma la vicinanza con il suo indossatore.
 
Apro piano la porta del bagno, voglio fargliela pagare per avermi detto che sono ingrassata. Così esco tenendo in mano i miei jeans che hanno quasi lo stesso colore dei suoi pantaloni.
“Lo sapevo che non ti entravano!” non alza nemmeno la testa, sicuro di averci preso in pieno nella sua previsione. “Ho trovato questi. Sono un po’ vecchiotti, ma dovrebbero andare sicuramente bene. Erano di quando pesavo qualche chilo in più…” quando solleva gli occhi per darmi ciò che aveva trovato poco prima, le parole gli si bloccano in gola.
“Vedi, in fondo non sono poi così grassa…” esclamo vittoriosa e trionfante.
“Ma non volevi insinuare che tu fossi grassa...”
“Sento il rumore!” stringo gli occhi come infastidita.
“Il rumore di cosa?”
“Delle tue unghie che graffiano contro lo specchio a cui stai tentando disperatamente di aggrapparti!” mi porto anche le mani alle orecchie “è fastidiosissimo!” aggiungo. Gian ride e mi guarda. Insistentemente! “Che vuoi? Ora me ne vado, non preoccuparti…”
“Scusa!” mi interrompe prima che io possa terminare la frase.
“Per cosa?”
“Per averti ignorato, per aver fatto finta che non esistessi solo perché mi avevi detto che ti piacevo. Potevamo restare amici o potevamo provare ad essere altro…”
“Non potevamo.” Aggiungo scuotendo la testa. “Non potevo sapendo che il tuo cuore era di un’altra, così come lo è adesso.” Gian abbassa la testa, non vuole guardarmi negli occhi.
“Potevamo se solo l’avessimo voluto. Se solo io non fossi stato così stupido da andare via senza aggiungere una parola.” Si ferma ad osservare le sue mani, fa ruotare il braccialetto che indossa al polso destro, guarda l’orologio nel polso sinistro. Poi alza la testa. “Dammi una seconda possibilità.”
“Possiamo provare ad essere amici, ma non so se sarà semplice sin dall’inizio.” Guardo le mie scarpe come se fosse la cose più importante da fare in quel momento.
“Possiamo essere quello che vuoi tu.” Adesso mi guarda fisso, nei suoi occhi di un nocciola intenso la speranza accesa.
“Cosa se non amic?” Aggiungo sottovoce.
“Io e Maria non stiamo più insieme. Non aveva capito davvero quanto l’amassi e non sopportava che a volte la mettessi da parte per lo studio: sospettava che avessi un’altra.” Pausa. Lunghissima. Poi mi guarda ancora negli occhi. “Pensava che venissi da te per prendere qualcosa diverso dai disegni.” Sorride malizioso.
“Povera sciocca!” Io scuoto la testa incredula. “Ora vado a dormire. Non vorrei che gli altri tornassero e non mi trovassero in camera.”
“Non torneranno prima dell’alba.” Gian si alza e mi viene accanto. Mi sposta una ciocca ribelle dietro l’orecchio a cui sussursa: “Resta qui.”

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Capitolo 8
*** VII - Sogni, risvegli e lattughe fra i denti ***


VII - Sogni, risvegli e lattughe fra i denti


Dicono che il nostro modo di rapportarci con gli altri non sia la più fedele immagine di noi stessi: c’è una “cosa”, chiamata Super Io, che ci blocca, ci costringe ad essere quello che gli altri si aspettano che noi siamo, che ci impone modi di fare e cose da dire.
Dicono anche che il sogno sia la parte più pura di noi stessi, che nonostante la censura onirica qualche volta riusciamo a ricordare molto nitidamente quello che abbiamo sognato.
Quando sogniamo desideriamo la vita che vorremmo vivere e certe volte ci capita di svegliarci contenti, felici, soddisfatti, ma con l’amaro in bocca perché, non appena apriamo gli occhi, realizziamo che quello che abbiamo vissuto era desiderio e non realtà.
Così questo mio sogno mi sta sembrando tanto reale da non voler trovare la forza di svegliarmi, di aprire gli occhi per paura di restare delusa da un nuovo giorno senza di lui.
Ho sognato che mi aveva chiesto di restare e che io poi mi ero coricata al suo fianco, rimanendo lì tutta la notte. Ed era il sogno più bello che io avessi potuto sognare.
 
Le prime luci dell’alba sbattono contro i miei occhi. Faccio fatica ad aprirli.
La prima sensazione che mi investe in questa mia prima gelida mattina tedesca è lo strano calore: ottimo impianto di riscaldamento direi!
Ho un vago ricordo di un sogno che ho fatto questa notte, in cui mi succedeva di dover chiedere un pigiama a Gianluca e in cui lui mi chiedeva scusa per avermi fatto soffrire.
Sorrido, ancora con gli occhi chiusi, nella mia posizione preferita per dormire: raggomitolata in posizione fetale sul fianco sinistro. Certo adesso, dopo un’intera notte, sento la necessità di stirarmi un po’, magari di fare un bella doccia prima che le altre invadano il bagno. Decido di alzarmi.
Cerco di capire che ora sia e azzardo: forse nemmeno le sei, visto che la mia sveglia non è ancora suonata. Mi giro, ma resto bloccata. Da un braccio. Sbarro gli occhi. Fisso il soffitto. Un punto interrogativo grande quanto una scarpa immagino sia comparso sul mio volto quando realizzo che il braccio che mi sta intralciando è quello di Gian. Così comprendo che non stavo vivendo un momento freudiano, ma che eravamo rimasti così tutta la notte.
Indecisa su cosa fare o non fare provo, azzardatamente, ad alzarmi per svignarmela: non voglio che gli altri mi vedano. Così sposto delicatamente il suo braccio, mentre lui mugugna ancora addormentato qualcosa di incomprensibile. Ma appena ho la via libera sento delle voci provenire dal corridoio: meglio rimanere qui e far finta di dormire. Peggio di così non potrebbe andare.
 
“Alessio per piacere sta zitto!” Riesco a sentire Rosario, nonostante sussurri nel silenzio di un albergo addormentato. Alessio sghignazza come un pazzo mentre Rosario tenta di aprire la porta. Sento il rumore della chiave che gira nella toppa. “Sei ubriaco fradicio!” percepisco il rumore di un tonfo e immagino che sia stato causato dalla caduta di Alessio. “Giulio, Manu, per favore fatelo alzare e aiutatemi a metterlo a letto.” O cacchio. Pure Giulio e Manuela no! Una tragedia peggiore di questa non potevo nemmeno immaginarla! Sento la serratura scattare e le voci farsi più forti.
“Dove lo mettiamo?” chiede Manuela
“Aspetta. Rosario prendilo tu, con lei non ce la faccio a sollevarlo” la voce di Giulio mi mette ansia “Manu tu comincia a svoltare le coperte.”
“Il letto è quello sotto la finestra. Fate piano che Gianluca sta dormendo.” Ma io no, dannazione!
Vedo le loro sagome ben delineate. Sento i loro passi, i loro respiri. Cerco di farmi il più piccola possibile, per non farmi vedere, mi stringo ancora di più contro il petto di Gian, che comincia a muoversi. Sudo. Dio mio perché tutto questo?
“Mamma quanto pesa!”
“Dovrebbe mangiare meno merendine. Da domani lo mettiamo a dieta.” Adesso è Rosario a ridere come un ebete. Vedo Manu uscire e Giulio seguirla: spero che non combinino qualche guaio dei loro, irrimediabile o a cui toccherà a me trovare rimedio.
“Direi che potrei mettermi pure a letto” Rosario cammina avanti e indietro per la stanza, indeciso su cosa fare, forse vista l’ora potrebbe anche non andare a dormire. Dopo un paio di giri quasi su se stesso va in bagno. Sento il getto d’acqua scrosciare contro il piatto della doccia e prendo una decisione: andare via. Adesso.
Guardo Gian un’ultima volta: mentre dorme ha un’espressione dolcissima, bello come un Dio… beh non esageriamo. Bello come un fotomodello di  Abercrombie&Fitch!
Sono schiacciata contro il muro e uscire da questo letto è un po’ come portare a termine una missione impossibile: tiro fuori le gambe da sotto le coperte cercando di non urtare o scoprire Gianluca, un po’ come facevo da bambina quando mi addormentavo tra mamma e papà e poi, nel cuore della notte, dovevo andare in camera mia senza fare troppo rumore; una volta fuori dalle coperte mi metto seduta, mi spingo sui talloni, cammino sul letto, strisciando contro il muro. Ci sono quasi, un saltino e un paio di passi e sarò nel corridoio. Libertà! Metto un piede fuori dalla pediera e resto così quando sento il getto della doccia chiudersi. Un piede per aria, spalle al muro e mani in alto. Roberto esce fischiando dal bagno, in accappatoio e ciabatte. Io riprendo a sudare, questa volta maledicendo tra me e me l’ottimo impianto di riscaldamento. Roberto si china sulla sua valigia, da cui comincia a tirar fuori dei vestiti. Si alza, si siede ai piedi del suo letto per infilare le calze, solleva la testa e… nulla. Non dice una parola, o meglio non riesce a dire niente. Mi fissa, sbattendo e strofinandosi continuamente gli occhi.
Il peggio è passato: almeno non ha cacciato fuori un urlo! “Shhhhh!” dico, portandomi un dito sulle labbra. “Posso spiegarti tutto, ma per favore non urlare.”
 
Avevo cercato di convincere Roberto che non era successo niente, che mi ero solo addormentata lì. Gli avevo raccontato velocemente l’episodio del pigiama anche se l’espressione sul suo volto era del tipo ti pare che sono scemo? Non me la bevo questa storia! Così me n’ero andata, supplicandolo di non dire niente in giro.
Nel corridoio mi scontro con qualche superstite delle baldorie notturne: un tizio si è pure addormentato seduto qui, senza scarpe e con un paio di mutande per cappello. Non ho mai parlato con questo ragazzo, ma lo scuoto per un braccio e appena apre gli occhi gli suggerisco di andare in camera propria prima che qualche professore lo veda in questo stato. Si alza barcollante, si avvia verso l’ascensore e io lo seguo, non perché sono un’anima pia e caritatevole. Devo prendere anche io l’ascensore per arrivare in camera mia. Questo puzza di alcool e fumo. Lo guardo dal basso verso l’alto, un po’ schifata. Lui mi guarda pure con la stessa curiosità.
“Io ti conosco…” dice biascicando.
“Io no.” Aggiungo fredda. Voglio solo tornare in camera mia, non mi sembra momento di fare conversazione.
“Si, si…” scuote la testa in un gesto affermativo, si porta la mano sotto il mento e continua a scrutarmi, fastidiosamente. “Sei la compagna di Vera?” afferma illuminato.
“Si.”
“Ecco allora… non ti ricordi di me, vero?” O santo cielo! Questo proprio a me doveva capitare?
“No!”
“Abbiamo parlato una volta, in corridoio, qualche mese fa… o forse qualche anno fa!” ride come una scimmia. Io scuoto la testa e prego che questo ascensore acceleri immediatamente. “Non ricordo. Sai… l’alcool fa questo effetto!” mi sorride e io vedo tra i suoi denti un pezzo di lattuga. Scoppio a ridere e lui mi guarda innervosito da questo mio scoppio di ilarità. “Che c’è?”
“Hai un pezzo di lattuga tra i denti!” mentre ridiamo come due deficienti le porte dell’ascensore si aprono. Io esco per prima, mentre lo fisso ancora. Infondo è carino il ragazzo, se non fosse per la demenza post-sbornia.  “Io sono arrivata. Ci si vede a colazione, magari…” Dico salutandolo.
“Non so se riuscirò ad alzarmi in tempo.” Annuisco e lo lascio lì, mentre le porte si richiudono, allontanandomi nel silenzio.

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Capitolo 9
*** VIII - Imprevedibile ***


VIII - Imprevedibile

Ci sono momenti nella vita di ognuno di noi in cui non si riesce a distinguere cosa sia giusto da cosa sia sbagliato.
Non capiamo se il bene sia davvero bene, se il male sia davvero male. Non distinguiamo i colori, i sapori, gli odori, i sentimenti…
i sentimenti ci fregano: prendiamo fischi per fiaschi e finiamo per innamorarci per via di un sorriso che spunta sulle labbra di qualcuno nel momento in cui siamo più vulnerabili; ci invaghiamo di un lembo di pelle abbronzata e scoperta, di un profumo che impregna i colletti delle camicie, di uno sguardo perso nel vuoto.
Ci sentiamo attratti da una persona quando il nostro cuore è impegnato e il suo è profondamente stravolto: ci sentiamo crocerossine senza che nessuno ce lo abbia chiesto.
Mi ripeto ogni giorno che quello che sto facendo, quello verso cui mi sto spingendo, è tremendamente sbagliato, ma come si fa a sentire che si sbaglia mentre si fa? Come si fa a demarcare la voglia dall’autocontrollo quando ciò che per molto tempo hai segretamente, e profondamente, desiderato potrebbe avverarsi?
In questo momento della mia vita riesco a capire solo una cosa: che se facessi una mossa sbagliata potrei trovarmi scritta dalla lista delle puritane a quella delle poco di buono in meno di un battito di ciglia.
 
Quella mattina entrai in sala a testa bassa, senza guardare nessuno, osservando la punta delle mie scarpe portarsi avanti ad ogni passo. Non avevo il coraggio di alzare la testa perché sentivo gli occhi di tutti su di me: come facevano già a saperlo? Che il ragazzo della lattuga mi avesse incolpato? No, lui no non sapeva nulla di quella notte e non avrebbe mai potuto accusarmi… Di cosa poi? Di aver dormito con un mio amico… ecco definirlo amico era davvero una grandissima cazzata! Avevo desiderato per così tanto tempo che qualcosa tra di noi cambiasse che ora che era il momento non riuscivo a capire cosa fare: mi sentivo un avvoltoio e la cosa non mi piaceva per niente.
«Certo che se c’è una cosa che mia madre mi ha insegnato è che fare una colazione abbondante aiuta ad affrontare al meglio la giornata!» sentire la voce di Alessio mi stupisce e mi irrigidisce: che lo sappia già anche lui? «Tu non mangi?» indica la mia tazza vuota, che lentamente ho cominciato a stringere rischiando di mandarla in mille pezzi.
«Credo di no…» scuoto la testa «Non mi sento molto bene oggi.»
«Abbiamo fatto follie ieri notte?» la voce di Rosario penetra affilata come un coltello nelle mie orecchie: ironia tagliante oserei dire!
«Avrò bevuto molto ieri sera, ma non ricordo proprio che lei sia uscita con noi…» Alessio si gratta la testa, cercando di ricordare la mia presenza.
«Infatti!» Rosario mi guarda con un sopraciglio alzato. Dio, vorrei ucciderlo! Se non fosse perché poi dovrei spiegare ai presenti il motivo di questo mio scatto di follia lo avrei già fatto.
«Rosario non credi che tu stia esagerando?» la sua voce sbatte contro le mie orecchie, il suo profumo contro il mio naso. Dio mi viene davvero da vomitare. Mi porto una mano alla bocca e corro fuori dalla sala cercando disperatamente di arrivare in tempo in bagno.
 
Qualche minuto dopo Gian mi raggiunge sulle scale che portano all’ingresso dell’hotel.
«Hey! Qui fuori si gela: se non metti qualcosa rischi di prendere una bella influenza!»
«Tanto peggio di così le cose non potrebbero andare!» fisso le mie mani e maledico il giorno in cui ho smesso di curarle: mio padre fa il carrozziere e le ha più belle delle mie!
«Spiegami un po’ che problema ha Rosario.»
«Mi ha trovato in camera vostra… mentre cercavo di svignarmela.» Gian mi fissa come chi non capisce bene ciò che hai appena detto. «Non volevo che mi trovassero lì, sai dati i precedenti e visto che tu e Maria siete ancora ufficialmente la coppia più bella dell’anno…»
«Io e lei non stiamo più insieme…» Gianluca mi interrompe, ma non mi guarda: fissa la strada deserta. «E non penso che torneremo insieme. Quindi non devi preoccuparti di quello che pensano gli altri. Io sono single, tu lo sei: perché gli altri possono fare quello che vogliono e io e te no? Se volessi potrei pure portarti dentro e tenerti per mano o potrei baciarti davanti a tutti!»
«Smettila!» le guance mi vanno a fuoco e penso che non ci sia bisogno di coprirmi dato che la mia temperatura è schizzata alle stelle! «Non credo sia il caso, ma grazie per il sostegno.»
«Non lo scordare mai.»
«Cosa?»
«Che sei la mia Marica!» mi sorride come solo lui sa fare e io vorrei sciogliermi.
 
Dopo quella mattina i giorni erano volati rapidi e come ogni cosa bella anche questa gita era giunta quasi al termine. Se c’era una cosa che aveva portato di positivo era sicuramente il riavvicinamento tra me e Gian, che eravamo tornati ad essere Noi: avevamo passato tutte le giornate insieme, come una coppia, ma una coppia non eravamo. Così ogni volta che varcavo la soglia della sala, mi avvicinavo alla porta della sua camera o salivo le scale dell’autobus tutti mi guardavano e cominciavano a sorridere o a confabulare tra loro. Ecco questa era una delle cose negative della gita. L’altra era che con il calmarsi delle acque tra me e Gian quelle con Giulio erano diventate tempestose visto che l’aveva presa come un fatto personale e aveva smesso di parlarmi. Stupido amico geloso! Mi aveva detto solo una cosa: Soffrirai. Mi ero sentita offesa e ferita da questa sua affermazione e gli avevo chiuso la porta in faccia. Mi mancava solo lui per essere felice, per far si che tutto fosse perfetto e glielo dissi, ma lui non volle sentire ragioni e preferì concludere il suo viaggio con Manu portando a termine, oserei dire giornalmente, la loro attività preferita.
«Ma quei due non dormono mai!» dico a Gian mentre cerco la chiave della mia stanza nella borsa.
«Chi?» lui si guarda intorno cercando di capire di chi io stia parlando, così indico la porta accanto alla mia da cui provengono risate e rumori sospetti. «Ahhhhh… ma lasciali divertire!» Gian sorride e io lo guardo in cagnesco.
«Si fanno solo del male così…»
«O del bene!» Gian mi sorride sghignazzando.
«Intendevo sentimentalmente non fisicamente! Dio, ma siete tutti così ottusi!» sbuffo perché non riesco proprio a trovare le chiavi.! «Le chiavi ce le ha Elisa!» mi schiaffeggio la fronte quando una lampadina, come quella dei fumetti, mi si accende in testa «Potrei continuare a cercarle per ore e non le troverei comunque!»
«Andiamo da me, allora.» sorride con una luce maliziosa e mi prende per mano, trascinandomi fino all’ascensore.
«Hey che vuoi fare?» mi spinge dentro non appena si aprono le porte, quasi mi sbatte contro lo specchio e mi fissa negli occhi, i respiri si fondono, i battiti del cuore si confondono. «Gian non mi sembra il caso.» il suo respiro mi riempe la testa e mi confonde i pensieri.
«Potrei bloccare l’ascensore sai? Potremmo divertirci come loro se lo volessi, se tu lo volessi. Devi solo chiedere…»
«Non credo di volerlo…» guardo il pavimento, cerco di evitare i suoi occhi perché potrebbero farmi dire qualcosa che non voglio.
«Lo credi o lo sai?» sorride con i suoi denti fantastici.
«So che voglio uscire da questo ascensore perché non mi sembra il caso…» cerco sempre di distogliere i miei occhi dai suoi. «Magari in camera tua…» e sorrido perché sappia che sto scherzando. Mi lascia giusto in tempo per non farci sorprendere dall’apertura delle porte da qualcuno che non aspetta altro per spettegolare.

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Capitolo 10
*** IX - Rimorsi ***


IX - Rimorsi
 
Se ami sai quando è il momento di fare una cosa, perché senti un pugno allo stomaco, un tormento al cuore, un pensiero fisso che non ti lascia dormire. Ma quando si mettono da parte le sensazioni o i sentimenti, come si fa a scegliere, a decidere come passare la propria vita?
Siamo come sabbia nel deserto, come gocce nel mare, come meteore che vediamo passare e poi svanire: siamo brevi istanti. Non importa quanto tempo stiamo al mondo, ma come decidiamo di passarlo. E se al momento di scegliere crediamo di fare la cosa giusta, nonostante non ci renda pienamente soddisfatti, un giorno potremmo pentircene?
Nessun rimpianto, nessuno rimorso… non penso proprio!
 
Guardo la mia immagine riflessa allo specchio: non mi contiene tutta, giusto lo spazio che serve ad incorniciarmi il volto. Ho il viso stanco, segnato dalle lacrime che continuamente sgorgano silenziose dai miei occhi e che instancabilmente tiro via con il polsino del maglione che adesso è impregnato anche del mio odore. Gian me lo ha lasciato tenere, ma io voglio tornarglielo: non voglio più avere niente di suo.
«Marica quanto ci stai?» mamma richiama la mia attenzione e io cerco rapidamente di ricompormi.
«Esco subito mamma!» mi asciugo la faccia e tiro lo sciacquone.
«Dai che devo attaccare la lavatrice!» giro la chiave nella serratura e me la immagino mentre si scansa con la sua cesta di roba da lavare. «Che hai? Stai male?»
«No mamma, stai tranquilla.» Mi solleva il mento e mi fissa negli occhi con lo sguardo di chi sa quello che vede e vorrebbe aiutarti. «Non è niente mamma, solo un po’ di raffreddore…»
«Si, certo! Levati quel maglione che comincia a puzzare e mangia qualcosa che stai per sparire.» io annuisco con il capo, ma non con la mente, mentre mi chiudo la porta di camera mia alle spalle. Mi infilo le cuffie, mi lascio scivolare con la schiena sull’anta del mio armadio e ricomincio la mia attività preferita: piangere di dolore e di rabbia.
 
Quando io e Gian eravamo in gita avevamo fatto qualcosa che chi ama fa senza problemi: ci eravamo fatti travolgere dalla passione e io mi ero lasciata andare, concedendomi a lui senza troppi ripensamenti, nonostante fosse la prima volta. Dopo quella volta al nostro ritorno tra noi non era successo niente di fisico: quello che era successo in Germania restava in Germania. Io avevo avuto qualche ripensamento e avevamo passato l’ultimo periodo a litigare in modo pesante e ripetitivo. C’era amore, ma io non volevo fare sesso. Mi ero pentita di essermi concessa senza pensarci su due volte, senza nemmeno stare insieme sul serio, senza sapere se una volta rientrati in Italia le cose sarebbero cambiate. Non era colpa sua, ma stava succedendo tutto nella mia testa che mi faceva tanto male da voler urlare.
La mattina, poi, era il momento che più detestavo perché significava andare a scuola e incontrarlo, vederlo, dover parlare e finire con il litigare ancora e ancora. L’ultima volta gli avevo lanciato in faccia un diario e lui mi aveva quasi sbattuta contro la lavagna: io ero impazzita, lui era diventato aggressivo, noi eravamo finiti in presidenza con una nota sul registro e tanto di rimprovero da parte del preside.
Adesso ogni mattina entro in classe a testa bassa, butto la zaino a terra, mi siedo al mio posto, fisso il muro. Ogni tanto prendo appunti, ma per la maggior parte del tempo ho la testa da un’altra parte e l’esempio lampante è il voto preso nell’ultimo compito di italiano: mai così basso, mai così umiliante soprattutto perché tutti sapevano il motivo di questo mio calo di attenzione.
Oggi è un giorno come gli altri, da affrontare senza troppi problemi: presente con il corpo, assente con la mente. Così posteggio, prendo l’occorrente dal cofano e mi avvio in classe, pronta ad affrontare una nuova lotta.
 
Alla terza ora abbiamo religione, un’ora inutile perché tanto nessuno ascolterà. Io sicuramente mi metterò a leggere qualcosa per l’ora successiva, magari con una canzone che mi rimbomba in testa evitando di distrarmi. Stamattina mi sono alzata tardi e ho preso dalla sedia le prime cose che erano lì: un pantalone di tuta, una maglietta un po’ scollata e IL maglione. Così Gianluca ha passato le prime tre due ore a fissarmi, senza poter dire nulla perché la prof di mate aveva lo sguardo costantemente puntato su di noi. Al cambio dell’ora si era alzato e mi era venuto accanto chiedendo di parlare, ma io ho scosso la testa e l’ho invitato gentilmente ad andare in un bel posto.
«Fatti ricoverare, pazza!» mi aveva detto, raggiungendo la sua sedia. Io mi ero limitato a mostrargli un dito, il medio, mentre però a mia insaputa la prof varcava la porta dell’aula.
«Ehm, ehm… Marica, metti il dito al suo posto.»
«Certo prof!» e faccio una risata diabolica verso Gianluca.
«Ora che tutti gli animi sono placati, possiamo iniziare la lezione. E non chiedetemi di fare altro: oggi vi divido in gruppi e fate un lavoro su uno dei Sacramenti: la Confessione. Ognuno prenderà l’altro per confessore e poi vi cambierete i ruoli.» i miei compagni protestano, io nemmeno faccio lo sforzo di aprire bocca: è così disperata che non riesco a contestare questo suo programma di oggi. «Il primo gruppo è quello degli animi più accalorati: Bertazzi e Santamaria.» Cazzo, ora vorrei tirarlo in testa a lei il diario. Ma allora è vero che i prof oltre ad essere scemi sono pure sadici.
«Prof, per favore, non potrei andare in biblioteca a studiare?» cerco di evitarmi questo compito.
«Bertazzi non si discute, altrimenti lo sai dove ti mando? Prima da un vero confessore e poi dal preside per il gesto di poco fa che ho volontariamente ignorato. Quindi prendi quello che ti serve e spostati al posto di Bartolini.»
«E che cazzo però prof! Non capite proprio niente voi!» sbrocco: non ce la faccio più!
«E no Bertazzi, vai fuori! Guarda, nemmeno la nota ti metto: devi solo sparire dal mio campo visivo prima che io possa pentirmi di qualche azione. E tu Santamaria fai quello che vuoi, puoi pure evaporare per me!»
 
Attraverso le lenti dei miei occhiali da sole il mondo sembra più rosa. È una sensazione bellissima, perché anche in una giornata nuvolosa tutto sembra più bello, sembra che il mondo ti sorrida.
Osservo le nuvole scorrere su di me, le guardo mentre vangando cambiano forma: è una cosa che ho sempre adorato fare sin da bambina, quando con mio padre giocavano ad indovinare che forma avevano e vedevamo sempre qualcosa di diverso. Ora non vedo nessuna forma in particolare, ma questa posizione mi svuota la mente e per un momento mi fa sentire serena.
Per un momento dicevo, perché improvvisamente un’ombra si allunga su di me.
«La prof ti aveva detto di evaporare: l’invito vale anche per me.» Non tollero che mi si disturbi in questo momento di pace dei sensi.
«Vorrei che mi restituissi il mio maglione.» Mi metto a sedere e lo guardo negli occhi.
«Sai cosa vorrei che mi restituissi tu?» Fa un mezzo sorriso, come quando si vuole contestare quello che si è appena sentito, ma non fa in tempo ad aprire bocca. «Vorrei che mi restituissi la mia verginità, grazie.» Lui non risponde, si fissa la punta delle scarpe, con cui fa dei cerchi sul terreno. «Ma come vedi, non puoi restituirmela, quindi mi terrò il tuo maglione.»
«Perché?»
«Come perché? Vuoi fare il medico e non sai che una volta persa non si può più riavere indietro?»
«Perché siamo diventati così?» mi guarda negli occhi, anche se sono schermati dalle lenti lui riesce a istaurare un contatto visivo.
«Sapevi che non volevo farlo e intanto ti sei spinto oltre.»
«Non mi pare che tu ti sia rifiutata…»
«Ti avevo implorato di fermarti! Ma tu hai continuato e io ho perso la forza di volontà!» mi tirò su gli occhiali perché voglio che guardi i miei occhi tormentati. «Lo sai che cosa sei?» Gian scuote la testa e io continuo «Sei l’errore più grande della mia vita, ma sei anche la cosa migliore che mi sia capita. E ogni giorno vivo con questo tormento, perché sarebbe successo ma quello non era il momento.»
«Marica, non si può piangere sul latte versato e non si può tornare indietro nel tempo. Più che chiederti scusa non posso fare.» mi prende le mani e me le stringe. Provo a liberarle, ma non ci riesco proprio. «Ti prego: torniamo insieme.»
«Quando mai siamo stati insieme io e te?» Gian sgrana gli occhi. «Fisicamente si, lo siamo stati. Ma sentimentalmente? Affettivamente? No! È questa la cosa che mi tormenta: sei il mio rimorso!»

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Capitolo 11
*** X - I sei stadi della separazione ***


Quando un cuore si spezza cosa senti?
Quando un vetro si rompe cosa vedi?
Quando tua madre cucina cosa riesci a odorare?
Quando esci con i tuoi amici che sapore assume la vita?
Quando hai davanti la persona della tua vita come si muove il suo corpo sul tuo?
Cinque sono i sensi del corpo, cinque gli stadi della separazione.
Dolore. Voglia di morire. Consapevolezza. Accettazione. Voglia di tornare insieme.
Il sesto è quello che ci rende capaci di tonare a vivere.
 
Sono qui seduta e davanti a me tre sconosciuti mi guardano, i loro occhi mi scrutano, quasi a voler addirittura capire che colore di reggiseno io indossi sotto la camicia. Le tre restanti mi sorridono, amichevolmente ma con autorità: ormai di loro so di potermi fidare!
Dietro di me mormorii continui disturbano la mia concentrazione, quasi mi prende l’ansia da prestazione. Proprio a me che sono la ragazza più calma del mondo.
Così aspetto che la presidente di commissione mi dia il via per poter esporre la mia tesina e portare a termine questo lungo e interminabile percorso che mi proietterà fuori dalla scuola, verso il mondo dell’università.
Non lo sento nemmeno il tempo che passa mentre parlo, gesticolando come solo io so fare.
I professori sorridono, mi mettono a mio agio e io mi sento soddisfatta della discussione, speranzosa del risultato.
Stringo sorridente a tutti la mano. La professoressa di storia dell’arte mi fa l’occhiolino e mi stampa un bacio sulla guancia.
Quando mi giro e mi rendo conto dell’enorme numero di spettatori mi viene da ridere, vorrei abbracciarli tutti, ma ci fanno uscire rapidamente: la commissione deve decidere il mio voto.
La prima persona che mi stringe dopo mia madre e mio padre è lui, ormai nuovamente presente nella mia vita, nuovamente in veste di amico.
«Hai spaccato!» mi sussurra in un orecchio, mentre le sue mani si posizionano sulla mia schiena. Io sorrido, guardo il soffitto di questa scuola che mi ha vista crescere, piangere, gioire e fare bruttissime figure negli ultimi anni. Mi tiro via una lacrima dal viso.
«Che fai, piangi?» Giulio mi sorride e io mi getto con tutto il viso sulla sua spalla.
«Lacrime di liberazione.»
«Evvai!» si gratta la testa «Ora tocca a me, cavolina!» gli sorrido e lo rassicuro perché so che andrà tutto bene.
 
Da questo balconcino godo di una vista stupenda: il mare davanti a me, la montagna alla mia sinistra, l’odore di un prato e gli schiamazzi di chi come me si concede qualche giorno di pausa dopo aver sudato ore ed ore sui libri. Sento due braccia cingermi i fianchi e sorrido.
«Vera, ma lo sai che sei stupidissima?» metto una mano su quella della mia amica, mentre guardo al piano di sotto dei bambini sguazzare nella loro piscina.
«Perché rovini ogni mio slancio di affetto? Non lo faccio più!» rido di gusto. Le voglio bene e mi mancherà quando non la vedrò ogni giorno.
«Vorrei vivere qui.» do le spalle ai bambini, spero che non me ne vogliano, e poggio la schiena alla ringhiera. «Pace e serenità.»
«Come stai?» Vera è stesa sul letto di Alessio, le braccia sotto la testa e le gambe incrociate.
«Io bene. Tu in questa posizione non credo!»
Vera ride e si mette seduta «Ma mi rilassa!»
«Ci credo!» frugo nella mia borsa e tiro fuori un costume «Io vado a fare un tuffo. Vuoi venire con me?»
«Hey, ma hai sviato la mia domanda, farabutta!» la sento che si alza e che mi segue in bagno.
«Ma non esiste più privacy in questa comitiva?» lei fa cenno di no e io le chiedo di aiutarmi con il pezzo di sopra del bikini.
«Gianluca sta arrivando, lo sai?»
«Non mi importa molto.» Vera mi guarda con un sopracciglio alzato, la sua faccia mi dice che non l’ha bevuta per niente. «Diciamo che la sto superando, sto accettando la cosa.»
«Marica…»
«Vera, per favore. È già difficile che io e lui fingiamo di essere amici, se poi ogni volta che siamo insieme tutti mi chiedono di noi finirò per impazzire!» lei si guarda le mani, non dice più niente. L’ho ferita. La prendo per le spalle, la costringo a guardarmi «Scusa. Non ce l’ho con te, ma sto attraversando il quarto stadio della separazione ed è il più difficile.» lei mi guarda negli occhi e mi sorride per farmi capire che ha capito la cosa.
«Chi arriva ultima in piscina offre il pranzo?» e corre via. So già che dovrò offrirlo io a lei: ha le gambe più lunghe delle mie!
 
Quando arriva lo sento prima di vederlo: la musica del cd che gli ho regalato mi riempie la testa e le orecchie. Mi sdraio sulla tovaglia, gli occhiali da sole sul naso e la mia bella protezione solare.
Lo sento salutare tutti al suo solito modo chiassoso e capisco che è da me quando il sole sparisce.
«Mi stai oscurando il sole!» dico infastidita.
«Tanto sei bella anche color latte.» sorride. Io costringo me stessa a sollevarmi per mettermi seduta. «Ti ho portato la colazione, visto che non mangi!»
«Grazie, ma alle 12 faccio pranzo, non colazione.» sorrido falsissima, ma prendo lo stesso il pacchetto. All’interno c’è il cornetto vuoto che sa che mi piace tanto e un caffè con tante bustine di zucchero. «Il caffè però lo bevo. Il cornetto lo vuoi tu?» gli passo il sacchetto. Lui scuote la testa, senza distogliere lo sguardo dal mio viso. «Che c’è?»
«Sono al quinto.» dice sorridendo. Lo guardo dal basso verso l’alto, non mi sono nemmeno alzata.
«Al quinto cosa?» chiedo stupita. Lui si allontana e mi urla che mi ha superato anche questa volta.
 
Certe volte penso alle parole di mia madre, così diversa da me, ostinata nel darmi consigli: gli uomini sono tutti uguali, una volta che ne conosci uno gli altri ti sembreranno una passeggiata. Tutte frasi fatte che dette da una che ha avuto un solo uomo in tutta la sua vita mi sembravano stupide.
Alla soglia della veneranda età dei vent’anni capisco che mia madre aveva ragione e che gli uomini sono fondamentalmente bambini: hanno bisogno di una madre per lavare e stirare i vestiti, hanno bisogno di una donna che li faccia sentire potenti, hanno bisogno del comando anche se in realtà il comando ce l’abbiamo noi, hanno bisogno di farti sentire bella e unica solo per trattarti come una bambola, magari per poi cambiare idea e volerti così come sei.
Avevo capito il senso delle parole di Gianluca quando aveva messo la nostra canzone: lui voleva tornare insieme, io ero ancora allo stadio precedente.
Infondo noi non eravamo mai stati una coppia ortodossa: perché non provarci? Cosa mi frenava? Certamente l’idea che di lì a poco lui sarebbe partito per studiare e io sarei rimasta qui a disperarmi. Maledetti i soldi!
«Dove vai?» mamma fa capolino dalla porta e mi osserva mentre metto in borsa le solite cose indispensabili: chiavi, telefono, soldi.
«Da Gianluca.» mamma alza un sopracciglio. «Con Giulio, Manu e Vera.»
«Ok...» si allontana e io mi guardo allo specchio: tutto è al posto giusto. «Guidi tu?»
«Si mamma.»
«Mi raccomando, vai piano.» Mia mamma si preoccupa sempre troppo per me.
«Mamma ormai so guidare abbastanza bene…» la raggiungo in cucina per salutarla.
«Intendevo in un altro campo…» un punto interrogativo si apre sulla mia faccia. Forse ho capito, ma vorrei non aver capito perché se avessi capito bene vorrebbe dire che mia madre aveva capito troppe cose. Dio pensare troppo mi uccide il cervello! «Se vuoi sapere se so di te e Gianluca te lo dirò subito: si. Hai indossato quel maledetto maglione per tutta la primavera. E vorrei che ci andassi piano perché ho visto come ti guarda, come ti sta vicino e so che andrà via. È un uomo: non sarebbe capace di esserti fedele con l’Italia a dividervi.»
«Mamma è tardi.» taglio corto.
«Sarà tardi dopo.» mi solleva il mento e mi guarda negli occhi. «Ho fiducia in te, nel tuo buon senso e nella tua maturità. Sai cosa fare, sei grande. Solo vacci piano.» Mi stampa un bacio sulla guancia e mi lascia andare.
Forse dovrei andarci piano, ma non è da me: ho saltato il quinto stadio e sono già al sesto. Voglio vivere. Con lui o senza di lui.
 
Percorrevo sempre la strada che mi avrebbe potuto portare a te. Non mi importava se era quella più lunga, quella più difficile. L’avrei percorsa anche per giornate intere se alla fine avessi trovato te perché facevo questo da così tanto tempo che avevo anche dimenticato quando avevo iniziato a vivere la mia vita in funzione della tua.
Avevo mentito a mia madre per venire da te, lei che mi conosceva meglio di chiunque altro e che io non riuscivo ad apprezzare. Se solo avessi avuto il buon senso di ascoltarla…
Posteggio e respiro: so che questo cambierà la mia vita, nel bene o nel male, prima o poi avrei dovuto fare questo passo e so già che me ne pentirò quando non sarai qui, quando indosserò di nuovo il tuo maglione fino a farlo puzzare, ma la vita è adesso né ieri né domani. Si vive oggi e di rimpianti ne ho già troppi.
«Rispondi, prima che mi penta di essere venuta…» parlo da sola, sperando che Gianluca risponda dall’altra parte della cornetta. «Ti prego!»
«Pronto?» sia lodato il cielo! Ce l’ha fatta!
«Gianlu, sei a casa?»
«Si.» lo sento strano, affannato. Forse era al piano di sotto, magari ha fatto le scale correndo.
«Potrei salire? Ho bisogno di parlare con te…»
«Salire?» l’ho shockato, non si aspettava che sarei venuta a cercarlo. «Dove sei?» vedo che apre la tenda dietro la quale c’è la sua camera dalle pareti blu, blu come il mare. Lo abbaglio con i fari della mia auto per fargli capire che sono proprio davanti il cancello di casa sua. Lui sgrana gli occhi. Stiamo come due deficienti a guardarci tra i vetri, io della mia macchina lui della sua camera; ad ascoltare i nostri respiri attraverso un filo invisibile che unisce le cornette dei nostri cellulari. Poi il mio cade. E alla sua sagoma si unisce quella troppo nota di una ragazza che pensavo non fosse più un problema.
E vado via. Anche questa volta con il cuore spezzato, mentre attraverso il sesto stadio: la vergogna di esserci ricaduta.

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