I'm not a Murderer di aliasNLH (/viewuser.php?uid=45090)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove tutto ebbe inizio – ma doveva proprio? ***
Capitolo 2: *** Dove si affrontano argomenti in cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi ***
Capitolo 3: *** Oltre la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto causargli! ***
Capitolo 4: *** Non ne aveva alcuna intenzione – però poi l’ha fatto lo stesso… ***
Capitolo 5: *** Tra risvegli e cliché ***
Capitolo 6: *** Nel segno dei gemelli ***
Capitolo 7: *** Si aprano le danze ***
Capitolo 8: *** Timore, Paura, Panico, Terrore ***
Capitolo 9: *** Attimi dilatati all’infinito ***
Capitolo 10: *** Dichiarazione d’intenti ***
Capitolo 11: *** Cauti sospiri e sporadici attimi surreali ***
Capitolo 12: *** Un passo per volta – e dieci al secondo ***
Capitolo 13: *** Risvegli di routine ***
Capitolo 14: *** Crimine Perfetto ***
Capitolo 1 *** Dove tutto ebbe inizio – ma doveva proprio? ***
Tutto il mio
affetto e il mio ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti
in un minuto di silenzio per il suo coraggio!!
I’m
not a Murderer
01
Dove
tutto ebbe inizio – ma doveva proprio?
Max
non
aveva mai pensato di essere gay.
Esattamente
come non avrebbe mai immaginato di dover scegliere – o anche
solo chiedersi la differenza
– tra una
cintura pitonata e una crema a scaglie marrone chiaro.
E,
certamente, Maximillian Pollux non avrebbe mai scommesso un centesimo
che
questi due avvenimenti si sarebbero concentrati in una sola giornata.
Per
l’esattezza in un momento preciso del pomeriggio in cui
credeva di potersi
finalmente rilassare.
Evidentemente
qualche entità sovrannaturale ce l’aveva con lui.
E
quell’entità non era altro che la
metà mancante dei Dioscuri.
E
lui è
del segno dei gemelli.
°°°
«Ohi
Max, ti decidi a muoverti, da?»
gli
gridarono da dentro il negozio, distraendolo dalla contemplazione
–
terrorizzata – della vetrina.
Maximillian
era un ragazzo semplice, dai gusti sobri e pratici e, soprattutto, con
un
portafoglio molto limitato – eredità di una
famiglia di agricoltori dell’Arizona
e altri sei fratelli minori. Nei suoi venticinque anni di vita, aveva
avuto
parecchie occasioni per poter spendere cifre esagerate per qualcosa di
piccolo,
ma mai gli era capitato di vedere una sciarpettina
estiva da uomo – di
pura bellezza – con un’etichetta a fianco che
recitava: “Saldi: sconto del
trenta percento su tutti i capi esposti, prezzo $ 430.00”.
Qualcuno
doveva aver fatto un errore. Magari sarebbe entrato nel negozio giusto
per
avvertire riguardo allo sbaglio e sarebbe scappato prima che quelli gli
chiedessero di pagare il suolo che aveva calpestato con le sue scarpe
da
mercatino dell’usato.
Si
fissò le Sneakers allacciate solo per metà, di un
grigio sporco – in origine
bianco – consumate sulle punte e sui talloni. E meno male che
le suole non
erano visibili.
«Ehi, femminuccia! Ti stai
rimirando
nella vetrina?» Altre risate lo raggiunsero dell'interno,
costringendolo a
tornare a guardare davanti a sé.
Dall’altra
parte del vetro c’erano i suoi compagni di squadra, che lo
incitavano a
raggiungerli all’interno e a svuotare la carta di credito.
C’erano Jamie e
Joackim, i gemelli dai capelli scuri che, assieme
all’esuberante Dorian e al silenzioso Bach,
formavano i componenti della staffetta – che al momento si
stavano misurando
maglie e camicie da migliaia di dollari. In un angolo, seminascosto da
una
selce strategicamente posizionata accanto ai camerini, Brook
– che a dispetto
del nome da donna era il più alto e possente tra tutti loro
– scrutava dubbioso
una cintura viola sfavillante, alternando occhiate
tra di essa e una commessa intenta a servire
un giovane uomo dall’aria sofisticata e i capelli palesemente
tinti. E infine
c’era il pazzo che si sgolava per farlo entrare con loro a
vendere il sangue:
Lionel.
«Oh, well»
mormorò rassegnato chinando il
capo, varcando la soglia girevole e sentendosi investito da una forte
aria
condizionata. Quella sciarpa sarebbe stata del tutto inutile in un
frangente
simile, a dispetto del prezzo allucinante.
Non
ricordava esattamente chi e quando avesse proposto di festeggiare
l’eventuale
ammissione alle selezioni nazionali nell'Atelier più
esclusivo e alla moda di
Philadelphia: l'O’Connell, ma era più che certo
che, chiunque fosse stato,
l’avrebbe pagata cara.
«Guarda
chi ha finalmente avuto il fegato di entrare» alzò
la voce Dorian, unendosi a
Lionel e alle sue grida scalmanate, vedendo arrivare
Max.«Tappati quella bocca,
fourth man, fai troppo
casino» bofonchiò
cacciandosi le mani nelle tasche della larga felpa verde scuro,
sentendosi
estremamente fuori luogo.
Per
raggiungerli aveva oltrepassato un paio di clienti –
chiaramente habitué – e si
era sentito morire.
La
prima donna era alta, slanciata e con un’acconciatura fresca
di parrucchiere,
probabilmente taglio e piega da mille dollari. Indossava un paio di
pantaloni a
mezzo polpaccio di colore rosso e una sottile camicia svolazzante
bianca,
chiusa sul davanti con un fiocco in seta. Decolleté in
vernice dal tacco
vertiginoso e una borsa accessoriata con un foulard su uno dei manici.
Uno
schianto, ma niente a che vedere con il secondo cliente, un uomo dalle
mani
chiare e sottili, che passavano da una stoffa all’altra,
commentando con voce
sommessa quello che la commessa gli presentava.
Indossava
un paio di jeans chiari, una canottiera color crema e una camicia dallo
sfondo
bianco con fantasia di nastri intrecciati. Al collo, portava quella
stessa
sciarpa leggera che aveva visto poco prima in vetrina e ai piedi un
paio di
stivali in camoscio marrone.
Lo
osservò un momento passarsi quelle stesse dita, ricche di
tre anelli sottili al
pollice e al medio, tra i capelli rossi e preferì
distogliere lo sguardo prima
che potesse voltarsi a mostrare il volto. Non avrebbe retto ad altra
perfezione.
«Allora?
Cosa vuoi provarti?» rise Lionel, studiandosi con indosso una
maglia di lana
intrecciata, impedendo a tutti gli altri di osservarsi allo specchio.
Jamie
indossava un completo giacca pantalone viola intenso e il gemello
cercava di
trattenere le risate da dietro il cappello da cowboy che aveva trovato
appeso
lì accanto.
Max
preferì alzare un sopracciglio e non dire niente. Meglio
concentrarsi su Brook,
che stava uscendo in quel momento dal camerino con un jeans scuro
strappato ad
arte.
«Quello
mi piace» gli disse, giusto per tenere impegnata la bocca ed
evitare di
rispondere alla domanda.
Lui
non
voleva provare niente.
«Secondo
me ti fanno i fianchi troppo grossi» Bach e il suo raffinato
tocco sbucarono
dall’ultimo camerino, accompagnati da un’attillata
maglia a righe bianche e
nere dalle maniche lunghe.
«E tu
sembri un carcerato» gli rispose l’interessato a
bassa voce, togliendosi la
propria maglia – verde chiaro e rattoppata all’orlo
– per provare quella che
aveva scelto da abbinare ai jeans. Mettendo in mostra i possenti
muscoli della
schiena, di un nero lucido, che calamitarono l’attenzione sia
della donna dal
taglio da mille dollari che la commessa – la quale era
sembrata del tutto
disinteressata a loro, prima che Brook decidesse di mettersi in mostra.
Il
ragazzo sapeva esattamente quale effetto facesse il suo fisico
– sia in vasca
che tra le donne – e si divertiva a sperimentarlo. Max lo
vide ghignare e ammicchare
di sfuggita alla più bella tra le due, prima di infilarsi
una aderente maglia
sbracciata dal colore che ricordava quello dei muri della loro vecchia Middle School. Tra il marrone fogna e
quello polvere.
Jamie
vide chiaramente il gemello trattenere una smorfia disgustata e Bach
squadrarlo
da capo a piedi, pronto e infierire come era suo solito .
«Su di
te quel colore fa schifo» disse infatti, incrociando le
braccia e sorridendo
con superiorità. Brook serrò la mascella con
maggiore forza di quanta non fosse
effettivamente necessaria, ma preferì non dire nulla,
rientrando nel camerino
per tornare ad indossare i suoi abiti abituali.
Dall’alto
dei suoi centottantanove centimetri, di muscoli e pelle nera come
l’inchiostro,
sapeva che non avrebbe mai potuto spuntarla contro Bach. Il ragazzo
infatti,
pur raggiungendo a mala pena il metro e settanta, possedeva una
velocità nei
movimenti e una vena subdola che gli erano costate parecchio ai tempi
della
scuola. Il nero avrebbe difficilmente dimenticato il loro primo
incontro, più
di dieci anni prima.
Brook
era un ragazzo silenzioso, ma non disdegnava una buona scazzottata
quando
necessario. Quel mattino in particolare, aveva attaccato briga con due
ragazzi
per uno scontro – apparentemente accidentale – tra
la sua spalla e il gomito di
uno dei due. Si trovavano dietro la scuola con tutta
l’intenzione di regolare i
conti, quando un estraneo si era intromesso.
Al
tempo Bach non era conosciuto da nessuno – si era appena
trasferito dal Canada
– quindi, quando si era piazzato tra loro – con
quel taglio troppo corto e quel
volume di letteratura – avevano riso e cercato di toglierselo
dai piedi.
Lui
aveva torto il polso del primo, fratturato il naso al secondo e steso
Brook con
un pugno bel piazzato, prima ancora che riuscissero a sfiorarlo. Poi si
era
sistemato la camicia, ripreso in mano il libro che aveva lasciato
cadere e se
ne era andato.
Episodi
come quello si erano ripetuti anche troppe volte nel corso della loro
amicizia,
ma mai che Brook fosse riuscito ad uscirne meno che ammaccato, spesso
affiancato da un Bach solo leggermente affannato.
Quindi
no, si disse stringendosi l’elastico dei pantaloni prima di
uscire dal
camerino, non era il caso di ribattere ad una persona tanto spaventosa.
Max
nel
frattempo, aveva gironzolato nelle vicinanze dei camerini, soppesando
con lo
sguardo gli abiti accuratamente ripiegati sugli scaffali. Maglie,
camicie,
felpe e persino i cappelli, gli sembravano troppo eleganti, troppo
costosi e
troppo… troppo e basta.
Ripose
con attenzione una canotta giallo chiaro – prima di essere
presa in mano era
sembrata tranquillamente abbordabile – e sospirò.
Erano in quel negozio da un
tempo incalcolato, e lui non si era provato ancora nulla, a differenza
dei suoi
amici.
Bach
alla fine aveva comprato la maglia a righe, accostandogli un foulard
bianco e
rosso, che lo facevano sembrare la copia carbone di Belfagor
“Bel”, di KHR –
suo fratello lo stava facendo dannare con la sua insana passione. Brook
aveva
ripiegato per una giacca tra l’elegante e lo sportivo dal
colore chiaro – che a
detta del primo non lo faceva sembrare un sacco con le gambe e che
quindi
poteva andare.
Lionel
e Dorian si stavano contendendo lo stesso paio di pantaloni, mostrando
ben poca
maturità considerato il fatto che non solo portavano taglie
differenti, ma che
sullo scaffale c’erano altri esemplari
dello stesso identico modello.
Persino
quegli eterni indecisi di Jamie e Joakim erano riusciti a trovare delle
camicie
di loro gusto – stesso modelli ma di colori opposti, da bravi
gemelli che
adorano confondere gli amici.
«Dai,
Max, non abbiamo tutto il giorno, ti vuoi decidere a mettere
qualcosa?» Dorian
sbuffò alle sue spalle, in mano il paio di pantaloni tanto
contesi e il sorriso
trionfante di chi è riuscito a vincere i Campionati.
«Non so
cosa» borbottò di rimando ispezionando con finta
attenzione il ripiano dei
jeans. Non c’era nulla che volesse veramente provare.
«Oh,
andiamo!» Lionel lo afferrò per un braccio,
l’altra mano occupata da un nuovo
paio di pantaloni, trascinandolo con la complicità
dell’altro in uno dei
camerini e chiudendo la tenda alle sue spalle con un gesto secco. Max
sbuffò
ancora.
«Si può
sapere che volete fare? Non sono certo obbligato a provarmi dei vestiti
se non
ne trovo di mio gusto, no?» cercò di farli
ragionare mentre si trovava
impossibilitato ad uscire per via della presenza di Bach e i gemelli
che
piantonavano la tenda del camerino.
«Non
fare i capricci» commentò semplicemente Bach,
senza variare il tono di voce –
costantemente impostato su cordiale cortesia – ma mostrando
chiaramente le sue
vere intenzioni – che variavano dall’insulto alla
cattiveria gratuita, fino a
sfociare nel bullismo psicologico.
«Io non
faccio capricci, trovo solamente che tutto questo sia totalmente privo
di ogni
logica» cercò di farli ragionare, nella speranza
che smettessero di comportarsi
come in un parco giochi. Oppure no, era meglio così. In
questo modo li
avrebbero cacciati fuori prima che riuscissero a costringerlo a
sgualcire
qualcuno dei capi in vendita.
«Andiamo,
non vedo dove sia il problema» Jamie sembrava annoiato mentre
dondolava le
gambe dalla sgabello su cui era seduto, accanto allo specchio
«devi solo
provare dei vestiti, my God, non ti
abbiamo chiesto di metterti a correre nudo per Market Street».
Max
rabbrividì alla sola idea e preferì tacere. Non
era il caso di dare a Dorian nuove
idee su come sfruttare la sua fuggevole giovinezza. Ne aveva
già abbastanza di
sue.
«Bene
allora» Lionel era tornato reggendo un paio di jeans
attillati e una maglia
rossa dallo scollo a barca – o almeno così gli
disse, gettandoglieli in faccia
e minacciandolo di entrare e spogliarlo personalmente, se non si fosse
deciso a
collaborare.
Max
si
tolse quell’ammasso di stoffa dalla faccia e pregò
di veder spuntare una
commessa inferocita – e perché no, anche il
proprietario – con l’intenzione di
cacciarli a pedate. Aspettò un minuto intero e
poiché nessuno sopraggiunse a
fare il proprio dovere, si costrinse a non sgualcire ulteriormente
quella
maglia tanto costosa – duecentotrenta dollari, aveva letto
bene? - e
iniziò a sfilarsi i pantaloni della tuta.
«Cosa
stai facendo lì dentro?» la voce irriverente di
Lionel lo costrinse ad
affrettarsi – non ci teneva ad essere maneggiato come una
bambola – e chiuse
gli ultimi due bottoni del pantalone.
Mosse
un passo esitante verso la tendina e li sentì tirarsi per
seguire il suo
movimento: erano anni che non indossava qualcosa di tanto aderente. Il
costume
era chiaramente escluso.
Aggiustandosi
il collo della maglia, scostò le tende, preparandosi ad
affrontare le battute
dei compagni.
Max
era
sempre stato bravo a scommettere – suo cugino gli aveva
sempre simpaticamente
detto che era così perché in campo amoroso faceva
più che pena e Dio aveva
voluto compensare quella mancanza in qualche modo – ma era
più che certo che
una situazione del genere non sarebbe mai riuscito a prevederla.
Subito
fuori dal camerino c’erano i gemelli e Bach, che invece di
ridere di lui e
della sua tenuta elegante, sembravano fissare qualcosa subito alla sua
destra.
Alzò un sopracciglio nel constatare che i gemelli non
sembravano inclini alle
solite battute idiote e portò l’attenzione sui
restanti componenti del gruppo.
Lionel
– in contrasto al grande desiderio di vederlo in abiti
firmati – non gli stava
prestando la minima attenzione, improvvisamente troppo impegnato a
misurarsi
una camicia e a fare gli occhi dolci ad una nuova cliente dai lunghi
capelli
biondi, che era a propria volta intenta a fissare, con quella che
sembrava
cupidigia, il dorso nuovamente nudo di Brook, che si stava provando una
nuova
maglietta – con l’ausilio di una commessa.
Scuotendo
la testa individuò Dorian, l’ultimo rimasto,
scoprendo che era l’unico a
fissarlo direttamente, con un’espressione concentrata.
«Non
stai tanto male» disse soltanto dopo aver annuito un paio di
volte. Max
arricciò le labbra, non essendo certo se quello fosse un
complimento o altro.
«Certo
che non sta tanto male. Quei pantaloni lo fasciano come una seconda
pelle» si
intromise una nuova voce, costringendolo a guardare alla propria destra
e a
rendersi conto di chi avevano fissato Bach e i gemelli fino a quel
momento.
Al
suo
fianco c’era l’uomo dai capelli rossi e le movenze
eleganti che aveva visto
entrando in negozio. Quello che non avrebbe mai voluto vedere in volto
perché
pensava essere troppo perfetto. E ci aveva visto giusto. Almeno su
quello.
L’uomo
aveva un volto regolare, di forma di ovale, occhi di un azzurro intenso
che lo
squadravano da capo a piedi, sottili sopracciglia marrone chiaro, naso
dritto
con la punta arrotondata, labbra piene e una pelle chiara e omogenea.
Max
deglutì – come si ritrovò a fare anche
fin troppo spesso in futuro, in sua
presenza – e cercò di non guardarlo dritto negli
occhi. Non avrebbe saputo dire
perché, ma lo inquietavano.
Max
lo
osservò avvicinarglisi maggiormente e cercò di
non sussultare quando alzò una
mano e prese il tessuto della maglia rossa tra due dita, ad un soffio
dal suo
collo. Le fece scorrere lentamente fino alla cucitura sul petto e
sorrise.
«Questo
colore ti dona poco. Se permetti adesso ci penso io a te».
Max
desiderò averlo solo immaginato, in doppio senso.
…
Dunque, da
dove cominciare?
Possibile che non sappia mai che scrivere?
Vabbé,
proviamoci…
Salve, ho
iniziato a scrivere
questa fic perché un amico – non dirò
chi né quanto tempo fa mi ha parlato a
riguardo – mi ha fatto notare (vedi minacciato) che non
scrivo mai niente di allegro
o romantico nelle Originali.
Ebbene,
eccolo benservito!
E spero per
lui che legga,
altrimenti potrei arrabbiarmi sul serio…
Spero che
questa prima scena vi sia
piaciuta (abbastanza da lasciarmi una piccola noticina *me sbatte gli occhi speranzosa*) e che abbiate voglia di
darmi appuntamento al prossimo
aggiornamento!
Baci
NLH
I
Dioscuri
sono i gemelli nati da Zeus e Leda. Inseparabili, hanno partecipato
alla
spedizione degli Argonauti e combattuto sotto le mura di Troia. Castore
era
mortale e Polluce immortale. Quando il primo morì, il
gemello chiese a Zeus di
dividere con lui la sua sorte, alternandosi un giorno
nell’Olimpo e uno
nell’Ade. Questo scambiò continuò fino
a quando Ade non li trasformò nella
costellazione dei Gemelli.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Dove si affrontano argomenti in cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi ***
I’m
not a Murderer
02
Dove si
affrontano argomenti in
cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi
«Signor
Castor, di questo cosa ne pensa?»
La
domanda della ragazza accanto a lui lo costrinse a smettere di passare
le mani
sulla morbida stoffa della camicia che aveva in mano per riportare
l’attenzione
anche sugli altri capi esposti. Ancora tre scaffali aspettavano la sua
visita,
ma proprio non riuscì a fare a mano di rimanere
lì, tra le mani sempre la
stessa camicia – che non aveva alcuna intenzione di indossare
– e tutti i sensi
all’erta.
Il
tatto, impegnato a seguire gli intrecci del tessuto.
Il
gusto, inibito dalla caramella alla cannella che gli era stata offerta
poco
prima e che gli avrebbe impedito di sentire qualunque altro sapore per
almeno
altre tre ore.
La
vista, occupata a fissare apparentemente il nulla – ma in
realtà concentrata su
una minuscola crepa che ornava il fondo del ripiano.
L’olfatto,
impregnato da un improvviso quanto intenso odore di cloro, che lo
rendeva
strano, perché l’ultima volta che era entrato in
un piscina, era stato in
occasione di una gara di suo fratello Eleo durante il suo secondo anno
alle
elementari – correntemente, il fratellino stava vivendo il
suo quindicesimo
anno.
E
infine l’udito, estremamente teso ad ascoltare una serie di
discorsi – in
qualche caso, apparentemente – privi di senso, scaturiti da
un gruppetto
entrato nel negozio poco più di mezz’ora prima.
C’erano
la voce vagamente stridula che continuava a ripetere a qualcuno di
entrare.
Quella profonda che commentava di tanto in tanto i capi esposti, a
propria
volta commentata da una di tonalità più fredda e
pacata. Poi c’erano due voci
quasi identiche, che si rincorrevano e sovrastavano un’altra,
dal timbro più
profondo, ma animata quasi quanto la prima.
E
infine
c’era la voce che aveva sentito per ultima. Era arrivata
parecchi minuti dopo
le altre, e all’inizio era stata talmente bassa e
bofonchiante che non l’aveva
presa in considerazione, nella sua analisi del rumoroso gruppo che gli
era
piombato tra capo e collo in negozio – chiaramente al di
sotto dei loro
standard.
Quindi
l’aveva ignorata, almeno fino a quando non l’aveva
sentita alzarsi per negare
qualcosa con forza.
“Puoi scordarti che io indossi
qualcosa che potrei sgualcire solo con lo sguardo!”.
Era
una
voce alta, ferma e chiaramente maschile, ma possedeva un timbro gentile
che lui
aveva associato in precedenza solo a sua sorella Clio.
Forse
era stato quello il motivo per cui inizialmente si era interessato a
lui.
Poi,
alle risate sguaiate di una delle altre voci, si era voltato per vedere
finalmente quel gruppo eterogeneo – che iniziava a diventare
fastidioso.
Non
fu
difficile associare le voci alle persone che stazionavano davanti ai
camerini –
apparentemente con il solo scopo di fare confusione in un rispettabile
punto
vendita come quello.
Le
due
voci quasi uguali appartenevano – senza ombra di dubbio
– ai gemelli che si
stavano contendendo lo stesso cappello, subito fuori da una tendina
tirata. La
voce fredda doveva essere quella del moro silenzioso appoggiato al muro
lì
accanto, e quella profonda al ragazzone dalla pelle scura poco
più in là, nel
reparto camicie.
Infine
le voci esagitate non potevano che appartenere agli ultimi due, quelli
che si
stavano squadrando con astio – misto ad un divertimento che
sembrava essere
loro abituale –, tra loro un paio di jeans.
Ci mise poco a capire che la voce che più lo
aveva interessato era nascosta alla vista dall’unica tendina
tirata nella zona
camerini, a provarsi finalmente qualcosa. Distrattamente si chiese cosa
potesse
aver scelto, domandandosi subito dopo perché
pensava potesse importagli una cosa simile.
«Allora?»
sentì uno degli ex contendenti alzare la voce e mulinare una
delle maglie più
costose della collezione primavera-estate, senza il minimo riguardo
«Cosa stai
facendo lì dentro? Vuoi una mano?»
Un
ringhio li raggiunse da dietro la tendina e Castor si fece
un’idea della
situazione. Per un qualche motivo sorrise e fece un cenno a Silvye, la
commessa, avvicinandosi al ragazzone privo di delicatezza. Con la scusa
di
voler prendere una maglia, studiò da vicino la situazione.
Sorvolando
sulla strana voglia di assegnare un volto – e magari un nome
– alla voce che
tanto lo aveva colpito in precedenza, il negozio stata iniziando a
diventare
troppo rumoroso per i suoi gusti.
La
sua
improvvisa vicinanza non passò inosservata perché
vide chiaramente i gemelli
squadrarlo con sospetto e il tipo dalla faccia apatica scrutarlo da
capo a
piedi con fare arrogante. Anche Silvye stessa lo osservava con la coda
dell’occhio,
sebbene impegnata ad intrattenere uno dei ragazzi con una felpa di una
certa
bellezza – a parere di Castor.
Stava
giusto per chiedere a uno dei ragazzoni – quello dalla pelle
scura, che gli
sembrava il più affidabile – di andarsene e
permettere a tutti gli altri
clienti di usufruire in tranquillità dei servizi offerti
dalla boutique, quando
la tendina venne tirata a mostrare il ragazzo appena cambiatosi.
Alto
più di lui, aveva capelli corti castano chiaro, di una
sfumatura tragicamente
simile al miele di acacia – Castor non riuscì a
fare a meno di paragonarlo, nel
vedere le ciocche arruffate arricciarsi al getto di aria condizionata
del
corridoio, al miele servito su una tartina al sesamo. Gli occhi,
seminascosti
dalle lunghe ciglia e dall’espressione contrariata,
brillavano di un azzurro
cupo, quasi grigio. La linea decisa del collo scompariva troppo in
fretta nello
scollo della maglia rossa – un colore che non gli si addiceva
– e proseguiva
lungo le braccia, perdendosi tra il guizzare nervoso dei muscoli.
Castor
espirò lentamente facendo scorrere lo sguardo sulle labbra
morbide e lungo le
gambe fasciate strettamente dai jeans che si tendevano ad ogni passo.
Con uno
sforzo cercò di reprimere l’impulso di prenderlo,
voltarlo e vedere l’effetto
di quel tessuto sul sedere.
Il
sorriso lieve che aveva assunto per convincere il gruppo ad andarsene
si
allargò leggermente, mentre con fare sicuro si avvicinava al
giovane. E gli
posava una mano sul petto.
«Questo
colore ti dona poco» gli mormorò facendo scorrere
la mano fino a riuscire a
toccare la pelle con la punta delle dita «se permetti adesso
ci penso io a te».
°°°
Allacciandosi,
le dita tremanti dallo sforzo – di non rompere un tessuto
tanto delicato e
prezioso – Max chiuse l’ultimo bottone della
camicia in seta, nascondendolo
dentro un’asola decorata con un laccio di una
tonalità più scura. Fece un
respiro profondo e scostò la tenda, mostrandosi.
Jamie e
Joakim sembravano spariti nel nulla – o si erano imboscati in
qualche altro
negozio, per quanto ne poteva sapere lui – così
come Lionel, che sembrava
scomparso, probabilmente assieme alla biondina con cui lo aveva visto
prima.
Brook e
Bach lo guardarono con attenzione mentre Dorian fischiò in
apprezzamento,
voltandosi verso una quarta persona, seduta sul pouf lì
accanto.«Non c’è che
dire. Ora sì che sembra un ragazzo».
«Grazie
tante» lo rimbeccò Max, più amaro di
quanto non avesse voluto. Perché prima a
cosa somigliava? Ad un mendicante?
«Indubbiamente»
eccola quella voce maledetta, seguita dal frusciare della camicia che
il suo
proprietario aveva indosso «almeno gli abbiamo tolto
l’aria del topo di
campagna».
«Disse
il topo di città» ancora una volta si
trovò a rispondere ad una frecciatina
rivolta a lui, incrociando le braccia e lasciandole immediatamente
cadere lungo
i fianchi, il pensiero improvviso che avrebbe sgualcito la stoffa se si
fosse
lasciato andare a quel gesto abituale.
Castor
sedeva comodamente, le gambe elegantemente incrociate e una mano
inanellata al
volto.
«Suvvia,
Maximillian, non mi dirai che sei deluso dagli abiti che ho scelto per
te?»
Da
quando gli aveva detto il suo nome – un’imprecisata
manciata di minuti prima, o
forse ore? – quell’uomo non aveva fatto altro che
ripeterlo e infilarlo in ogni
sua frase. Lo assaporava e rigirava tra le labbra e la lingua per poi
esalarlo
in un languido sospiro. Ogni volta facendolo rabbrividire.
Non
sapeva come comportasi.
Non
aveva idea di cosa quel Castor volesse da lui.
Non
era
nemmeno sicuro di volerlo sapere.
E
intanto continuava a provare vestiti su vestiti da lui scelti.
“Non
hai buon gusto, disponibilità economica e classe. Un
trinomio catastrofico cui
intendo cercare di mettere un freno” aveva esordito deciso,
fissandolo con
quelle iridi azzurro cielo a cui non aveva capito come non fosse
riuscito a
dire di no. Oppure di farsi gli affaracci suoi.
«Non te
l’ho certo chiesto io» bofonchiò in
risposta, ben attento a non farsi sentire.
Il rischio che quello stravagante damerino decidesse di costringerlo a
pagare
ogni capo provato ancora pressante nella sua mente.
«La tua
incapacità di destreggiarti in un negozio di moda mi ha
imposto di darti una
mano» ribatté nuovamente serafico il rosso,
aggiustandosi la piega perfetta di
un polsino.
«Non te
l’ha chiesto nessuno» ripeté Max,
tornando a borbottare da dentro il camerino,
mentre si spogliava e iniziava a rimettersi i propri pantaloni.
Tuttavia
aveva – evidentemente – sottovalutato le intenzioni
di quel ficcanaso
sconosciuto perché, mentre era intento ad allacciarsi
l’elastico, la tenda
venne scostata e una nuova pioggia di abiti gli cadde in testa. Con i
capelli
arruffati liberò il volto da una giacca leggera in camoscio
e puntò lo sguardo
arrabbiato sul molestatore.
Castor
lo stava fissando con un sorrisetto soddisfatto.
«Nessuno
ti ha detto che potevi cambiarti, lo sai questo, vero?»
«Fuck you» gli
sibilò contro, sfoggiando
una delle eleganti espressioni che aveva imparato ad adottare da Lionel
«non
sei nessuno per dirmi quello che devo o non devo fare!»
«Forse»
rispose quello, allungando una mano, le dita tese e pallide in
contrasto quella
sua pelle lievemente scura «ma sono anche l’unico
che sa cosa
è meglio per te».
«E
questo» cercando di ignorare quella maledetta mano accanto al
suo petto –
troppo vicino, accidenti – prese tra le braccia due paia di
jeans, una camicia
di sangallo, delle maglie sottili e la famosa giacca, ponendoli a scudo
tra
loro «dovrebbe essere quello di cui ho bisogno?»
«Può
darsi» gli disse enigmatico «tuttavia se prima non
li provi non lo sapremo
mai».
«Chi ti
dice che lo farò?»
Max
non
seppe definire per quale motivo non avesse ceduto all’istinto
che gli gridava
di prendere quel damerino raffinato per i capelli cangianti e sbatterlo
fuori
da lì, per potersi rivestire in santa pace e tornarsene a
casa con il
portafoglio intatto – sebbene con l’orgoglio un
po’ troppo ammaccato per i
propri gusti. Non seppe nemmeno giustificare il calore improvviso che
gli si
era scatenato sul petto, quando la mano fredda dell’altro gli
si appoggiò
addosso, spingendolo con lentezza indietro, entrando nel camerino con
lui.
Castor
alzò la testa per guardarlo dritto negli occhi e le dita
della mano si aprirono
sul petto ancora scoperto. Sapeva di cannella – fu
l’unico pensiero coerente
che Max riuscì a formulare nell’averlo
così vicino.
«Preferiresti
che fossi io a vestirti?» gli domandò malizioso
nell’allontanarsi leggermente
«O a svestirti, se preferisci».
Max
arrossì fino alla punta dei capelli e lo spinse fuori dal
camerino, tra le
occhiate perplesse dei più e fin troppo consapevolmente
divertite di Bach.
…
Ottimo!
Capitolo
corto, ma non meno
importante. Insomma… qualcuno mi può dire dove
posso trovare pure io un Castor?
Grazie mille!
E ancora una
volta tutto il mio
affetto e il mio ringraziamento a 3ragon
che ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta.
Baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Oltre la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto causargli! ***
Come sempre, tutto il mio affetto e
il mio ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta.
I’m
not a Murderer
03
Oltre
la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto
causargli!
«Secondo
me avresti dovuto seguire il consiglio di Castor».
«Ah,
adesso lo chiami pure per nome, that
scumbag!»
Max era
incerto se fare dietrofront e tornarsene a casa o prendere Bach
– con cui
sfortunatamente stava parlando – e trascinarlo nel primo
locale per ubriacarsi
di brutto e dimenticare il traumatico pomeriggio del giorno prima.
Erano
passate trentun’ore, sedici minuti e un numero imprecisato di
secondi dal primo
e ultimo incontro – lo
sperava per la
sua salute, sia fisica che mentale – con quello stravagante e
autoritario
personaggio – si rifiutava anche solo di pensare
il suo nome – e ancora non era riuscito a farsi passare la
profonda irritazione
che gli aveva provocato. Irritazione, scontento, incazzatura,
imbarazzo,
amarezza e tanto, tantissimo imbarazzo.
Ma lui
non voleva pensarci.
Non
voleva e non doveva assolutamente.
Punto.
«Ma poi
hai presente il suo nome? Castor?
Chi
diavolo sono i genitori che danno un nome del genere ad un povero
bambino? Ci
credo poi che è venuto su così male!»
bofonchiò nuovamente – mostrando quanto
ferma fosse la decisione di non pensare mai
più a lui.
«È un
nome di tutto rispetto» commentò nuovamente Bach
– pronto come al solito nel
dire la cosa sbagliata al momento sbagliato (e cioè quando
voleva lui)
«richiama l’antica Grecia».
«Non me
ne frega niente cosa richiama! Non si sarebbe dovuto
permettere!»
Bach si
limitò ad alzare le spalle e proseguire per la via, diretto
al Club in cui
Lionel – sempre lui – aveva deciso avrebbero
passato quel memorabile sabato
sera. Cosa ci fosse da festeggiare non lo sapevano, ma ovviamente
quello non
era altro che un dettaglio irrilevante ai fini del divertimento di quel
ragazzo.
Bach
era passato a prendere Max a casa di un’amica comune ed era
rimasto deluso dal
fatto che non indossasse gli abiti comprati il giorno prima.
Per la
precisione si era messo – perché non aveva
intenzione di usare il verbo indossato,
considerati gli stracci che
era riuscito a trovare chissà dove – un pantalone
largo, scarpe da tennis
grigie e camicia azzurra di un’altra epoca.
«You profiteer bastard»
stava borbottando
il ragazzo, incurante dello sguardo di disapprovazione di Bach
– che si stava
chiedendo che gusto ci provasse a passare tanto inosservato e
insignificante.
Poi
sorrise. In ogni caso, nonostante non avesse fatto altro che dire di
non voler
avere niente a che fare con Castor, non aveva smesso di parlarne
nemmeno per un
momento. O di pensarci, considerato il fatto che gli stava ancora
inveendo
contro.
«Ohi,
Bach!»
Venne
distratto dalle sue riflessioni al suono della voce di Dorian, che si
stava
sbracciando all’ingresso dell’Hellsing,
tenuto d’occhio con sospetto dal buttafuori. Bach
alzò una mano per fargli
capire di averlo notato – ed evitare che il gorilla lo
sbattesse in strada – e,
afferrato Max per una manica, lo trascinò
all’interno.
Nel
locale c’era ben poca gente, constatò confuso il
ragazzo, notando come i pochi
presenti fossero tutti vestiti di nero e con lo stemma del locale, un
serpente
bianco intrecciato su sfondo viola. Poi Dorian li spinse verso una
scaletta a
chiocciola che sembrava portare al piano inferiore, dove evidentemente
si
trovava il succo di quel posto.
Ad
accoglierli fu in suono imbizzarrito di una chitarra elettrica in
assolo e
l’accompagnamento di decine di voci entusiaste e corpi che si
muovevano a ritmo
di musica.
«In un
disco pub?» stava intanto dicendo Bach, arricciando il naso.
«Qualcosa
in contrario?» ribatté Dorian guidandoli ad un
tavolino su cui erano già
accasciati Lionel e Jamie, circondati da bicchieri vuoti e una
bottiglia mezza
piena di quello che sembrava champagne. Brook, poco distante,
chiacchierava con
una moretta dalle gambe lunghe.
«Hi»
biascicò Jamie nel vederli arrivare,
scuotendo un polso in quello che sarebbe dovuto essere un saluto.
«Sei
ubriaco?» domandò Max con una punta di rimprovero.
«Ma no»
ridacchio in risposta, cercando di sollevarsi e cadendo con tutto il
peso sulla
fronte, scoppiando a ridere come non mai.
«Da
quanto è in queste condizioni?»
s’informò Bach, indicandolo con un dito e
smuovendo il piede di Dorian sotto il tavolo.
«Dunno»
alzò le spalle questi, afferrando
un altro bicchiere da uno dei vassoi che gravitavano attorno ai tavoli
«era già
così quando sono arrivato».
«Brook»
attirò quando l’attenzione del moro,
distogliendolo dal discorso impegnato con
la mora.
«Sì?»
chiese, infastidito nel sentirsi trascinare via.
«Jamie»
ripeté Bach «è ubriaco».
«So?»
«Perché
è ubriaco?» domandò pazientemente.
«Non ne
ho idea» sbuffò Brook, impaziente «so
solo che era con Joakim e che centra
qualcosa una bionda».
«Allora
vedi che qualcosa sai?» scattò, liberandogli il
braccio «E dimmi, dov’è
Joakim?»
«Oh,
questa è facile» celiò Brook nel
tornare dalla ragazza, indicando il centro
della pista poco vicino «entra lì dentro e
trovalo».
E,
mentre il compagno si allontanava con la sua più recente
conquista, Bach rimase
interdetto a fissare l’ammasso di corpi che formava una
muraglia naturale tra
lui e – così pareva – l’unico
responsabile dell’insolita ubriacatura di Jamie.
«E di
me non si preoccupa nessuno?» chiese Lionel faticando a
tenere gli occhi,
mostrando la stessa espressione vacua e la stessa difficoltà
motoria del
compagno di bevute.
«Certo
che no» ribatté Dorian divertito
«perché tu ti ubriachi ogni volta che usciamo,
è normale».
Max
rise brevemente, rimasto in disparte per tutta la durata di quella
conversazione – tanto solita per loro quanto insolita per
quel gruppetto di
ragazze del tavolo accanto, che era ancora intento ad osservare.
Lui
l’aveva visto, Joakim. Era successo solo per un secondo,
quando la musica
techno aveva lasciato il posto a quella country – una
richiesta di qualcuno
evidentemente – e, mentre la voce calda di Billy Ray Cyrus si
diffondeva nel
locale, molto ragazzi si erano spostati verso il centro, lasciando
intravedere
la figura sottile del ragazzo.
Era
avvinghiato ad un ragazzone alto e dai lunghi capelli scuri. Ballavano
appiccicati, anche se disturbati da una bionda procace che sembrava tutta intenta a provarci con Joakim.
Evidentemente
la ragazza su cui Jamie aveva messo gli occhi.
Un vero
peccato che, tra i due, lei avesse scelto il gemello omosessuale.
«Perché
ridi?» Bach si era seduto, decidendo che, in fondo, non era
affar suo se Jamie
era incapace di provarci decentemente con qualcuno.
«Niente,
pensavo» preferì tenersi sul vago.
«A
cosa? Al fatto che i tuoi vestiti sono totalmente inadatti a questa
situazione?»
Max si
morse un labbro, indeciso se offendersi o scoppiare a ridere. Una
reazione che
difficilmente qualche altra persona sarebbe riuscita a suscitargli. Non
c’era
che dire, Bach era un individuo proprio particolare.
«Io sto
comodo» alzò le spalle, prendendo un sorso di
birra – che aveva fregato a
Lionel, decidendo che ne aveva bevuta anche abbastanza da solo.
«Oh,
non lo metto in dubbio» ribatté l’altro,
squadrandolo con rimprovero «ma
staresti comodo anche in jeans e camicia. Se non altro non sembreresti
un evaso
da un carcere d’igene mentale».
«Ma
bene. Adesso siamo passati da un ragazzo di campagna ad uno
svitato» borbottò
mentre il paragone gli faceva fare dei collegamenti proibiti. Accidenti
a
Castor! Era tutta colpa sua.
«Non
dare la colpa a Castor» disse Bach come gli avesse letto nel
pensiero «lui non
centra niente».
«Non
stavo pensando a lui» mentì scocciato, continuando
a bere.
Bach
gli scoccò un’occhiata che gli diceva chiaramente
che no, non gli credeva
affatto, ma non fece commenti.
«In
ogni caso avresti davvero potuto indossare quello che hai preso con il
suo
aiuto».
«Con il
suo obbligo vorrai dire» lo rimbecco, deciso a non dargliela
vinta «e comunque
no, non ne ho alcuna intenzione. Non mi vestirò mai da fighetto».
«In
questo modo non troverai mai nemmeno uno straccio di
ragazza».
«E chi
la vuole?» replicò punto nel vivo «In
ogni caso se piaccio davvero ad una
ragazza, gli piacerei sempre. Anzi, probabilmente
s’innamorerebbe del mio vero
me stesso e non di, di…» si sforzò di
cercare un aggettivo pertinente, ma alla
fine si limitò ad indicare a pista da ballo, dove decine di
corpi tirati a
lucido ballavano in un ammasso i sudore e ormoni «quello!»
«Guarda
che quello»
precisò imitando il tono
usato da Max «è il meglio che questo posto abbia
da offrire»
«Bel
posto di merda allora» replicò seccato,
ravviandosi i capelli e continuando a
guardarsi intorno.
«Ciao».
Il
ragazzo sospirò.
«Ehi,
sto dicendo a te» la voce di prima – a cui non
aveva dato il minimo peso –
tornò più autoritaria, seguita da un colpetto
sull’avambraccio. Max si voltò.
La
ragazza aveva lunghi capelli scuri, che le arrivavano fin sopra il
sedere,
raccolti in una traccia morbida. Indossava minigonna e tacchi a spillo
e si
stava inequivocabilmente rivolgendo a lui.
«Sì?»
chiese, stupidamente a parere suo. Una strana euforia si fece largo
nell’abbattimento
di poco prima. Era perfettamente capace di rimorchiare anche vestito da
tutti i
giorni, alla faccia di Bach.
«Ti
stavo guardando da prima» con un gesto distratti
indicò il gruppetto di
ragazzine ridacchianti di poco prima «io sono Candy. Studio
alla UPenn e
occasionalmente lavoro in qualche locale come
accompagnatrice» rise brevemente
«ma oggi sono qui solo per divertirmi».
«Maximillian»
si presentò a propria volta «sono un nuotatore
professionista».
«Davvero?»
s’infervorò lei, la mano di poco prima ancora ben
ancorata ai sodi muscoli del
braccio – che sembravano piacerle non poco «Quindi
oggi hai perso una gara?»
Confuso
– e totalmente ignaro dei viaggi mentali che quella bruna si
stava facendo –
aggrottò le sopracciglia.
«Perché
credi abbia perso? Non ho gareggiato oggi» domandò
cercando di portare uno
spiraglio di luce nelle tenebre.
«Allora
hai perso qualche scommessa?» insistette lei.
«Sinceramente
non so di cosa tu stia parlando» le disse chiaro e tondo,
stufo di non capire
cosa stesse succedendo.
«No
dai, sul serio… perché altrimenti ti saresti
vestito così da sfigato?» sospirò
allegramente lei, guardando per un breve momento il gruppetto da cui si
era
staccata per raggiungerlo.
«Guarda
che non ti sto prendendo in giro» socchiuse gli occhi Max,
gli ultimi
strascichi dell’entusiasmo iniziale che svanivano del tutto.
«Oh,
scusami, pensavo fosse uno scherzo» ridacchiò la
ragazza – una risata
estremamente fastidiosa, decise Max «credevo ti fossi vestito
in questo modo
per una scommessa».
Max si sforzò
di ignorare le risa mal trattenute che giungevano dalle proprie spalle.
Avrebbe
ucciso Lionel e Dorian, per non parlare di Bach. E poi si sarebbe
sotterrato da
solo, che magari si faceva pure un favore.
«Mi dispiace deluderti, ma mi
vesto
sempre così» replicò a denti stretti.
La
ragazza, tanto baldanzosa e ammiccante fino ad un attimo prima,
atteggiò le
labbra in una smorfia delusa, scannerizzandolo da capo a piedi e
scoccandogli
un’ultima occhiata scettica, prima di voltargli le spalle e
tornare dalle
amichette ridacchianti.
Per un
qualche motivo, Max si sentì inspiegabilmente ferito.
Se non
altro Bach ebbe la decenza di non proferire parola.
Si
limitò a fermare il primo cameriere di passaggio e ordinare
un altro giro di
Tequila.
…
Aggiungo
qui di seguito uno specchietto di descrizione dei
personaggi principali (non Castor, altrimenti rovino tutta la sorpresa XD)
Bach
Queen
Capelli
neri un po’ lunghi sulle guance e corti sulla nuca, occhi
allungati grigi, un
metro e settanta circa. Apparentemente esile, è molto veloce
e possiede una
vena violenta parecchio spiccata, ex teppista imbattuto, dice sempre
quello che
gli passa per la testa. Genitori tedeschi, emigrati in Canada e poi
trasferiti
in America. Ha una sorella minore di grande bellezza e apparente
fragilità, ma
che gli in somiglia tutto e per tutto.
Primo
nuotatore nella staffetta. Ha 23 anni.
Jamie
Gordon
Capelli
castano scuro, occhi marrone chiaro, lentiggini sul naso, sulle spalle
e sui
dorsi delle mani. Sul metro e settanta, ama sciare, le donne formose,
suonare
la chitarra e detesta non essere preso in considerazione. Originario
della
California.
Secondo
nuotatore nella staffetta. Ha 26 anni ed è il gemello
maggiore.
Joackim
Gordon
Capelli
castano scuro, occhi marrone chiaro, lentiggini sul naso, sulle spalle
e sui
dorsi delle mani. Sul metro e settanta, ama fare passeggiate, gli
uomini
sicuri, suonare il pianoforte e detesta i giochi di società.
È bravo a cantare
ma non lo fa quasi mai. Originario della California.
Terzo
nuotatore nella staffetta. Ha 26 anni ed è il gemello minore.
Dorian
Forrester
Capelli
biondo paglia, occhi azzurro vivo, sul metro e ottanta. Allegro ed
egocentrico,
trascina spesso i compagni a fare quelli che lui chiama divertimenti
necessari
a dei giovani della loro età. Terzo di quattro figli,
è l’unico maschio e molto
protettivo con le sue sorelle. Suona la chitarra elettrica e ama andare
ai
concerti.
Quarto
nuotatore della staffetta. Ha 28 anni.
Brook
Callaghan
Carnagione
nera da parte di entrambi i genitori, originari del Sud Africa,
è alto un metro
e ottantanove, occhi neri e corti capelli ricci. Nato a New York,
è il primo di
due fratelli, non parla molto ma non per questo è una
persona tranquilla. Gli
piacciono il silenzio e la musica rock.
Ha 23
anni.
Lionel
Jefferson
Carnagione
costantemente abbronzata, capelli arruffati castano scuro e occhi
grigio
azzurri. Originario di Philadelphia, conosce sempre tutto e tutti. A
causa di
una brutta esperienza con una sua ex, ha una sorta di terrore viscerale
per le
ragazze dai capelli lunghi e il sorriso gentile. Ama le corse dei
cavalli, i
giochi d’azzardo e i colori vivaci.
Ha 25
anni.
Maximillian
Pollux
Un
metro e ottanta circa, capelli castano chiaro, occhi azzurro cupo e
fisico
magro e asciutto, spalle larghe. Originario dell’Arizona, ha
lavorato nei campi
fin da piccolo, con i genitori e i sei fratellini; ora vive con il
terzo
fratello – William – e la zia, la sorella zitella
di suo padre. Si è trasferito
lì per studiare e nuotare anni prima, seguito poi dal
fratello.
Ha
avuto una ragazza, al liceo. Lei lo ha lasciato dopo tre anni, dopo
averlo
allegramente cornificato da due, dicendogli che lui è troppo
dolce, troppo
comprensivo, affatto geloso e incredibilmente gentile e tollerante.
Ha 25
anni.
…
Ai
coraggiosi che si sono letti tutto e che stanno ancora
leggendo questa mia riga…
Baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Non ne aveva alcuna intenzione – però poi l’ha fatto lo stesso… ***
Come
sempre, tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta.
I’m
not a Murderer
04
Non ne
aveva alcuna intenzione – però poi l’ha
fatto lo stesso…
«Max?» Lionel era rimasto a bocca aperta di
fronte all’amico.
«What?»
ribatté questi, guardandosi intorno infastidito.
«Max!»
«Cosa?»
«Maximillian?»
«Che cazzo hai da urlare, si può
sapere?» alzò la
voce irritato, guardandolo dritto negli occhi.
«No, niente. Volevo essere sicuro si trattasse di
te» affermò soddisfatto, tornando a sedersi sul
divanetto e scolandosi il resto
della birra «sai, non potevo essere sicuro al cento per cento
da sotto quel
cappello».
Max
arrossì e si affrettò a sedersi a propria
volta, cercando di ignorare alcuni sguardi troppo lascivi per i suoi
gusti e
puntati in alcuni punti… come quella tizia che fissava
assatanata il suo
fondoschiena. Rabbrividì nello scorgerla leccarsi le labbra.
Ma
chi glielo aveva fatto fare?
Si
mosse a disagio sul divanetto dove si era
scaraventato non appena era riuscito a districarsi dalla folla danzante
e
appiccicosa che era stato costretto ad affrontare per trovare gli amici.
Ma
non avrebbero potuto aspettarlo fuori, come al
solito?
Se
non altro gli avrebbero risparmiato palpatine
affatto ben accette durante il percorso.
E
adesso quello.
Domande imbarazzanti e occhiate indagatorie
persino da parte dei suoi amici!
«Ciao»
Rischiando un infarto, per aver sentito un
sussurro tanto vicino e non aver notato l’avvicinarsi di
nessuno, Max si voltò
per vedere chi fosse la persona che aveva battuto una mano sul suo
braccio.
La
ragazza era mora, con i tacchi alti e
stranamente familiare.
«Ci siamo incontrati l’altra sera» gli
fece presente
lei «mi hai detto che ti vesti come un barbone».
In
un attimo collegò il suo volto a quello della
tizia che aveva dato origine a tutta quella assurda serata, e non
riuscì a dire
niente.
Quando era rientrato a casa, quella mattina,
reggendosi sulle gambe solo grazie all’aiuto congiunto di
Brook e Bach, aveva
gettato a terra la felpa e cantato a squarciagola le ultime strofe di
una
canzonaccia di strada – eredità del suo paese
d’origine – era scoppiato in un
riso irrefrenabile.
Si
era a mala pena accorto delle occhiate
preoccupare degli amici, nascoste alla sua vista dal velo di lacrime
che
avevano iniziato a scendere subito dopo.
Ricordava vagamente quanto fosse successo poi –
c’era una macchia sospetta sulla moquette
dell’ingresso – ma era certo di aver
pensato che una scena del genere non sarebbe mai accaduta. Che mai
più una
ragazza lo avrebbe messo nella posizione di sentirsi a disagio o fuori
luogo.
Che
avrebbe rificcato in gola a tutte le
signorinelle che contavano il loro
fottuto senso estetico.
Poi
c’era stata la chiamata di Lionel –
all’alba
delle tre del pomeriggio, quando era riuscito a raggiungere il telefono
con un
mal di testa lancinante – che lo informava che quella sera si
sarebbero trovati
al Boulaire.
Al
momento di prepararsi lo sguardo era corso
alla borsa firmata O’Connell e agli abiti ancora con i
cartellini attaccati.
Alla
fine, indugiando fino all’ultimo e
ricordandosi dell’imbarazzo della sera prima, aveva smesso di
tenere in mano
quei vestiti e li aveva indossati.
Quelli che Castor aveva scelto per lui.
Accidenti, era sempre colpa sua!
«Cos’è? Il gatto ti ha mangiato la
lingua?»
soffiò lei, avvicinandosi ancora, sussurrandogli
direttamente nell’orecchio
«Vuol dire che stasera non potrò
usufruirne?»
Max
arrossì come un’aragosta. Le orecchie
avrebbero cominciato a fumare – o almeno così
riteneva – se una seconda voce
non si fosse intromessa.
«Tu non la userai di certo. Né avrai occasione di
vederla, non so se mi spiego».
Accanto al divanetto dove Max era seduto e dove
la mora lo aveva placcato, avvolgendogli le braccia attorno al collo,
si era
improvvisamente materializzato un uomo sottile dai folti capelli rossi,
che gli
cadevano in ciocche disordinate attorno al viso.
Max
lo riconobbe, rischiando di strozzarsi nel
pronunciare il suo nome.
«Cosa vuoi?» fece lei, la voce dolce usata fino a
poco prima nascosta da un tono ben seccato.
«Che giri al largo Candy, lui è
proprietà
privata» sillabò lui cordiale, solo un pizzico di
fastidio – ben celato –
dietro le iridi azzurre.
«Non scassare Castor, l’ho visto prima
io» sibilò
lei in risposta, rafforzando la presa su Max e facendo scorrere il
proprio
petto sul suo «sei tu quello che deve andare a prendere aria
altrove».
«Su questo avrei qualcosa da ridire» Bach
–
stramaledetto lui, era rimasto lì accanto per tutto il tempo
e non aveva fatto
niente – distolse lo sguardo dal cocktail che stava
centellinando per puntare i
suoi occhi in quelli socchiusi di Castor «se non sbaglio sei
stato tu a
vestirlo»
«Proprio così» il rosso fece un cenno di
assenso
con il capo, prima di tornare a Candy «quindi ora te lo
chiedo per l’ultima
volta: togligli le mani di dosso».
«Come sarebbe a dire?» fece lei sorpresa,
guardando Max «È stato Castor a scegliere questi
vestiti per te?»
«Beh, ecco…» esitò lui, colto
impreparato.
Diamine, già ci stava capendo ben poco, se poi lo tiravano
in mezzo a
conversazione iniziata…
«Risposta esatta dolcezza» assentì
Castor
deliziato «non hai notato il gusto perfetto degli
abbinamenti?»
«Potevi dirlo prima» borbottò lei
contrariata,
alzandosi dal divanetto – rilasciando la morsa su Max
– allontanandosi
ancheggiando, lanciando un’ultima occhiata obliqua a Castor e
mischiandosi alla
folla - probabilmente alla ricerca di qualcun altro da irretire.
Max
non era sicuro su cosa dire – aprì e chiuse
la bocca un paio di volte – ma ogni sua protesta, domanda o
affermazione venne
bloccata sul nascere da una mano prepotente (indovinate appartenente
chi?) che
gli afferrò il gomito costringendolo ad alzarsi e guidandolo
lontano dai
divanetti e dagli amici. Sebbene l’unico amico
ancora inchiodato in quell’angolo fosse Bach, che non fece il
minimo cenno in
segno di protesta per il suo rapimento.
Ancora stupito dall’apparizione e improvvisamente
consapevole del fatto che una certa mano gli stava stringendo
fermamente il
braccio, si lasciò trascinare nella folla, fino alla pista
da ballo.
«Ehi!» si riscosse finalmente, quando un altro
ragazzo lo urtò nel movimento «Cosa pensi di
fare?»
«Farti ballare» fu la risposta chiara che
ricevette – all’orecchio, per sovrastare la
baraonda della musica.
«E chi ti dice che io ne abbia voglia?»
ribatté
polemico, nel guardare scettico le coppiette avvinghiate tutto intorno
a lui.
«E cosa ti fa credere che questo mi interessi?»
chiese retorico Castor, sorridendo appena, seducente.
Max
arrossì. Forse poteva sbagliarsi, ma sembrava
quasi che fosse appena stato trascinato dentro
all’affascinante e pericoloso
gioco della seduzione. Una partita in cui partiva svantaggiato. Era
stato a
fare tappezzeria per troppo tempo.
Cosa
diavolo si aspettava avrebbe dovuto fare?
«Cosa voleva dire…» il ragazzo fece una
pausa
imbarazzata, mentre il rosso lo tirava maggiormente a sé per
evitare che
entrasse in contatto con altri ballerini «che significa il
fatto che hai scelto
questi vestiti?»
Facendolo ruotare sulla pista, Castor lisciò
delle pieghe invisibili sugli abiti di Max.
Passò leggero sul maglioncino nero attillato,
indugiando sulle cuciture ai fianchi e sulla fantasia metallica su una
spalla,
per poi continuare altrettanto delicato sulle braccia, toccandolo solo
con la
punta delle dita - impercettibile come un soffio di vento e bruciante
con un
ferro arroventato.
Max
fece fatica a trattenere un gemito, ma
strinse i denti e non si lasciò sfuggire neanche un ansito.
Non
sapeva come fosse possibile – per la miseria,
a lui non erano mai piaciuti gli uomini! – ma un solo tocco,
anche casuale - e
quelli non lo erano di certo -, di Castor e si sentiva sciogliere. Una
carezza
e le gambe iniziavano a tremare. Un’occhiata e il suo stomaco
si trovava a fare
un salto carpiato nella trachea.
Il
rosso sorrise compiaciuto dal rossore che
colorava le guance del ragazzo e bloccò il suo movimento su
di lui solo quando
infilò due dita in uno dei passanti dei jeans e
posò il palmo sullo spicchio di
pelle scoperta della schiena.
«Tu lo sai, vero, che quando un uomo compra dei
vestiti alla propria ragazza, lo fa perché vuole
toglierglieli personalmente?»
mormorò, rispondendo finalmente all’interrogativo.
Max
deglutì, improvvisamente accaldato per via
del contatto di quella mano – per non dire altro, considerato
il fatto che si
trovava tra decine di corpi sudati e uno in particolare felicemente
spalmato su
di lui.
Molto felicemente, in effetti.
Avvampò.
«M-ma… io non sono la tua ragazza»
cercò di
erigere una – blanda – difesa verso quello che
sembrava qualcosa di
inevitabile.
«Questo
è vero» gli sussurrò in risposta,
sfiorandogli il lobo con le labbra «non sei
una donna».
Dal
modo in cui Max sentì cedere le proprie gambe, forse non era
del tutto certo.
Non fosse stato per il braccio che Castor gli teneva attorno alla vita,
probabilmente sarebbe finito a terra.
Si
sentiva ubriaco.
«Ma sei comunque mio» soffiò sulla sua
pelle,
lasciando che la mano scivolasse dalla curva della schiena fin dentro i
jeans,
sfiorando il solco tra le natiche.
Un
mugolio e il respiro iniziò a farsi più
pesante.
«Cosa mi stai facendo?» gli chiese ebbro come non
si era mai sentito. Non come se avesse bevuto, si accorse
improvvisamente
debole, mentre sentiva le braccia diventare pesanti ed essere
accompagnate –
sempre da quelle mani –
attorno al suo collo.
Inconsciamente – o forse
troppo consciamente – Max si strinse a lui, sfregando la
guancia contro la
pelle scoperta del collo del rosso.
Castor gli passò la mano libera sulla linea curva
della nuca. Non ci aveva mai provato con un ragazzo più alto
di lui, rifletté
concentrato sul contatto dei loro corpi.
Con
un pressione maggiore lo costrinse a
raddrizzarsi e gli fece scivolare le braccia attorno alla propria vita,
mentre
lui allacciava le proprie al collo del nuotatore, intrecciando
maliziosamente
le dita tra i capelli corti della nuca.
Aveva sempre pensato che i ragazzi alti fossero
goffi e tutt’altro che attraenti.
Studiando le orecchie arrossate, le guancie
lucide e gli occhi sgranati di Max, tuttavia, non poté che
essere più felice di
essersi sbagliato.
Quel
ragazzo gli stava chiaramente dicendo di
saltargli addosso.
Max
assecondò il cambiamento di posizione con un
brivido di aspettativa. Maledizione, e dire che si era ripromesso di
detestarlo
per tutta la vita.
Si
sentiva la gola secca e la lingua incollata al
palato: quei movimenti lenti lo stavano facendo impazzire.
«Posso offrirti da bere?» chiese l’altro
lentamente, non incontrando altro se non uno sguardo opaco e un vago
assenso.
Ghignando soddisfatto, Castor tornò a passargli
le braccia attorno alla vita e se lo tirò addosso, petto
contro petto, mentre
faceva un cenno al barman.
«Due Mojito» fece segno, prima alzarsi sulle
punte e baciare quelle labbra, come avrebbe voluto fare dal giorno
prima,
quando lo aveva visto muoversi impacciato nella felpa sportiva tra i
corpi
tirati a lucido dell’Hellsing.
…
Okay, lo
ammetto,
non l'ho fatto particolarmente lungo… ma è stata
una scelta ben ponderata! Il
prossimo capitolo… no, non faccio spoiler! Insomma, capirete
perché questo è
corto XD
Baci (non
come quelli di Castor, mi dispiace)
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Tra risvegli e cliché ***
Come
sempre, tutto il mio affetto e
il mio ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta.
I’m
not a Murderer
05
Tra
risvegli e cliché
Svegliarsi
con un lancinante mal di testa sembrava essere diventata la norma, da
un paio
di giorni a quella parte. Se non altro pareva non essere ancora passato
mezzogiorno.
La
luce, che filtrava dalle persiane non del tutto abbassate, era ancora
chiara e
l’unico rumore era quello degli uccellini che cantavano
appena fuori dal vetro.
Per un attimo si chiese se non
stesse ancora sognando. Muovendosi lentamente – si sentiva
stranamente tutto
indolenzito e c’era una zona in particolare che… -
scivolò fuori dalle lenzuola
e non fece nulla per impedire che frusciassero a terra. Parquet bianco,
che
sciccheria.
Mosse
un passo incerto e una fitta più forte delle altre lo
costrinse ad afferrare lo
schienale della poltroncina lì accanto.
Uno
sconosciuto dolore scendeva lungo la spina dorsale fino a-
Avvampò
– ad un passo dall’autocombustione.
Ah,
già…
La sera
prima…
Guardandosi
nuovamente intorno si accorse che nemmeno un capo dei suoi vestiti
sembrava
essere in vista – in effetti non era certo di esserci
arrivato fin lì, vestito.
Fu con un gesto veloce, dettato del desiderio di non affrontare quello
che lo
aspettava fuori dalla camera da letto, che prese la camicia piegata
ordinatamente sulla poltrona e i boxer che – fortunatamente
– vi trovò sotto.
E se
nell’ultimo caso la misura sembrava andare bene, la camicia
era più evidente
non fosse della sua taglia: troppo stretta sulle spalle.
Aveva
lo stesso odore di Castor. More o ribes.
E una vaga traccia di sudore.
Rimase
per un lungo attimo in contemplazione dell’ambiente in cui
aveva dormito –
okay, in cui aveva anche dormito
–
restando appoggiato allo stipite della porta. La maggior parte dello
spazio era
occupato dal letto, un animale dalla testata in tessuto blu a tre
piazze – cosa
se ne faceva di tutto quello spazio? Un brivido scese lungo la schiena
alla
risposta scontata. Due comodini lo limitavano ai lati, quasi contro il
muro e
la stanza era illuminata da una portafinestra. Una cassettiera e la
poltrona
completavano l’opera, risultando armonici ed eleganti.
C’era anche una porta a
doppio battente sulla parete opposta – che fosse la cabina
armadio? Sussultò
nel realizzare che non sembrava esserci traccia di un armadio e che, se
lo
ricordava bene, Castor aveva uno spiccato senso per la moda. Curioso,
si chiese
se non fosse una buona idea andare a sbirciare cosa ci fosse dietro.
Poi
sentì una risata secca provenire da qualche parte alle
proprie spalle.
Castor,
arrossì.
La casa
era ampia e spaziosa e i pochi mobili che la riempivano sembravano
essere stati
scelti con cura e buon gusto. Persino un banale corridoio come quello
che stava
attraversando sembrava avere ricevuto la stessa meticolosa attenzione
riservata
alle stanze principali.
Non ci
mise molto a trovare l’origine della voce di poco prima.
«Ah, ti
sei già svegliato?»
Castor,
in tenuta da bagno, era di una bellezza devastante.
I
capelli, solitamente mossi e morbidi sulle spalle, erano stati tirati
indietro
da una mano frettolosa e scendevano in morbide volute bagnate appiccate
al
collo, mentre numerose gocce superstiti si staccavano dalle punte per
scivolare
dolcemente lungo tutta la schiena.
Improvvisamente
affamato – non aveva sentito tutto quell’appetito,
prima – seguì la discesa di una gocciolina che
stava percorrendo il fianco di
Castor, strusciandosi su quella pelle morbida e lasciando una scia
scintillante
come prova del suo passaggio.
Come la
scia di succhiotti che lui stesso si trovava sul petto e sulle spalle.
Poi si
infranse sul bordo dell’asciugamano che era stato legato in
vita.
«Aehm…»
cercò di rispondere, insicuro su cosa dire. Qual era
esattamente il codice di
comportamento dopo una notte passata insieme ad una persona appena
conosciuta?
“Ehi, ti sei divertito ieri sera?”
«Scusami?
Chi sei tu?»
Solo in
quel momento si accorse che accanto all’uomo c’era
un’altra persona.
La
ragazza era di una bellezza unica, brillante. Era sottile e minuta e
indossava
un morbido vestito bianco che le aderiva al corpo, le spalle coperte da
un
leggero golfino azzurro chiaro. Aveva lunghi e lisci capelli castano
chiaro
portati sciolti lungo la schiena, mentre da sotto un frangetta
sbarazzina
facevano capolino un paio di luminosi occhi azzurri.
Occhi
che non persero un attimo nel passare dal suo volto – stupito
e ancora
vagamente sonnolento – al resto del suo corpo seminudo
– coperto unicamente da
un paio di boxer e la camicia trovata sulla sedia, di una taglia
più piccola
della sua. Forse anche due.
Arrossendo
furiosamente, Max si rese conto di non essere particolarmente
presentabile.
Se la
memoria non lo ingannava, la sera prima aveva sparso i suoi abiti lungo
tutto
il tragitto tra la porta d’ingresso e la camera da letto,
passando per la sala
– stupidamente non si era ricordato di quel piccolo dettaglio
quando, poco
prima, aveva cercato qualcosa con cui coprirsi.
E,
trovando del tutto inappropriato usare una padella – ce
n’era una bella
collezione, appesa lì accanto – per celare quanto
era ancora fin troppo in
vista, mosse qualche passettino veloce fino a
trovarsi dietro il bancone. Se non altro, almeno la parte
inferiore del
corpo era al sicuro dalle occhiate lascive della giovane.
La
quale non era sembrata molto dispiaciuta dell’essere riuscita
a guardarselo per
bene e un po’ delusa dal fatto che quei muscoli sodi le
fossero stati sottratti
dalla visuale.
«Castor» fece lei sospirando
rassegnata, con un tono che sapeva vagamente di rimprovero
«ne hai portato a
casa un altro».
«Non è che lui fosse poi molto
contrario, sai?» commentò lui serafico, servendosi
di una tazzina di caffè
prima di lasciarla con noncuranza nel lavandino.
«L’ho
notato dallo stato in cui versa il tuo salotto» fu il
commento di lei.
«Sono
certo, quindi, che ora ti senti di troppo, vero Clio?»
ghignò lui nel vederla
alzare le spalle e ridacchiare, portandosi una mano perfettamente
curata al
viso. Una ragazza beneducata.
«Non
dire sciocchezze. Avrei voluto vedervi in effetti».
E,
mentre Max si trovava ad arrossire in zona orecchie, sempre
più confuso, i due
risero apertamente.
Non
riusciva a capire cosa stesse succedendo. Chi era quella ragazza? Cosa
ci
faceva lì?
Non
poteva essere la sua ragazza, vero? Insomma… era ben chiaro
cosa avessero fatto
lui e Castor, avrebbe dovuto essere gelosa, no?
Eppure,
nel vederli ridere insieme, fu proprio lui a provare una fitta
tutt’altro che
piacevole allo stomaco.
E stava
gusto per dire qualcosa, per chiarire tutta quella situazione, quando
si sentì
una chiave girare nella serratura della porta – sicuramente
blindata, ci
avrebbe messo la mano sul fuoco – e un’imprecazione
percorse chiara il
corridoio mentre qualcuno inciampava in
qualcosa.
«Castor!
Quando ti deciderai a capire che il fottuto posto per i pantaloni
è l’armadio?»
la voce si fece largo indignata per il corridoio, precedendo
l’ingresso di
un’altra persona nella cucina. L’uomo
entrò nella stanza sbattendo una
valigetta – dall’aria incredibilmente costosa
– sul ripiano bagnato accanto al
lavello, da dove Clio si affrettò a toglierla, asciugandola
meticolosamente
prima di posarla sul tavolo.
Il
nuovo arrivato sbuffò a quell’operazione, ma non
disse nulla, limitandosi ad osservare
la scena che gli si era presentata davanti agli occhi.
Un
ragazzo sconosciuto dall’aria atletica e semivestito
– con abiti chiaramente
non della sua taglia – e chiaramente
reduce da una nottata di fuoco. Clio, in piedi dall’altra
parte del tavolo,
vestita di tutto punto. E Castor, ancora umido di doccia.
Gli
occhi gli si soffermarono su quest’ultimo particolare e
s’infiammarono di
rabbia.
«Che
cavolo ci fai ancora così! Tra dieci minuti abbiamo una
riunione per discutere
del progetto – che tu hai supervisionato – con i
finanziatori. Non abbiamo
tempo da perdere!»
Mentre
parlava, infervorandosi, si passò una mano nervosa tra i
corti capelli neri,
lasciandoli più in disordine di prima. Con l’altra
mano si aggiustò il nodo
della cravatta in un gesto abituale.
Poi,
ancora in attesa di una risposta – e che difficilmente
avrebbe ottenuto,
conoscendo il soggetto –, puntò gli occhi azzurri
in quelli di Max, ancora
immobile.
«E
dimmi» fece stanco «che intendi fare con la tua
ultima scopata? Se ne va ora o
non ha ancora messo su il solito teatrino di lacrime e lamenti? Non ho
voglia
di aspettarti».
Max,
che era rimasto a fissalo, si sentì percorrere da una scossa
– tutt’altro che
piacevole.
«Orion!»
lo rimproverò Clio, scuotendo la testa.
«Non
chiamarmi in quel modo astruso!» la rimbeccò lui
«Mi chiamo Oscar».
«Certo,
come no…»
«Ci
sarà un motivo se ho cambiato nome e ci tengo che lo usiate!
Quante volte devo
dirvelo?»
«Certo
fratellino» ridacchiò Clio battendogli una mano
nulla manica «magari ancora
una, ti va?»
«Strega»
sibilò tra i denti prima di tornare a Max «allora
che fai lì impalato? Sbrigati
a vestirti, non abbiamo tutto il giorno».
«Ma
io…» spaesato e incerto – per non dire
offeso – si voltò verso Castor, che nel
frattempo si era frizionato i capelli, asciugandoli alla meglio, e
aveva
indossato un paio i jeans scuri – in cerca di una spiegazione
o una risposta.
«Ehi»
Castor si intromise per la prima volta, riemergendo dal frigorifero con
un
cartone di latte in mano «vorrei che tu la smettessi
– che entrambi in effetti –
la smetteste di entrare in casa mia solo perché avete le
chiavi. Dovete
bussare».
«Allora
non darcele» continuò Oscar polemico.
«Non
dire sciocchezze!» si affrettò a ribattere Clio
«Vuoi forse che possa chiudersi
qui dentro e dimenticarsi delle cene, dei pranzi e dei tuoi
importantissimi
appuntamenti!»
«Scusate…»
Castor sorrideva divertito «tutto questo è molto
affascinante e rimarrei
volentieri qui ad osservarvi con the, bignè e tutto il
teatrino, ma se non
sbaglio abbiamo una faccenda da sbrigare e tra tre ore ho un impegno a
cui non
posso assolutamente tardare. Vogliamo procedere?»
Oscar
si frugò nelle tasche e tirò fuori un telefono
ultrasottile, componendo un
numero.
«Wanda?
Avvisa i signori che tarderemo. Il geniaccio qui si è dato
da fare ieri sera
e…» iniziò a parlare a raffica.
Castor
alzò le spalle e Clio sembrava tutta intenta a finire di
riordinare i rimasugli
della colazione di quest’ultimo.
«Credo sia il caso che io…» Max
non solo si sentiva di troppo, ma provava come un senso di vuoto. Come
se si
trovasse immerso in un barattolo, attraverso il quale la visone delle
cose gli
arrivava distorta e i suoni attutiti. Evidentemente non era
l’unico a
considerarlo una seccatura, perché Oscar tornò a
voltarsi verso di lui,
chiudendo la chiamata con fare sbrigativo.
«Il mio
autista ti porterà a casa o ovunque tu vorrai»
fece spiccio, agitando una mano
senza più guardarlo, concentrato sulle carte che aveva preso
dalla
ventiquattrore «è parcheggiato davanti
all’ingresso, si chiama Jerome, digli
che te l’ho detto io».
«Veramente…»
tentò nuovamente Max, incredibilmente sull’orlo
delle lacrime. Non gli era mai
successa una cosa del genere. La mano gli tremò sulla
maniglia.
Certo,
non si era aspettato l’inizio di una storia, o fantasticato
di vedersi
protagonista di risvolti anche solo vagamente romantici, ma nemmeno quello. Almeno una spiegazione, o una
finta cortesia la mattina successiva. Sapeva come andavano quelle cose.
Lei
vede lui, lui si accorge di lei, flirtano, bevono e ballano e se le
cose vanno
in porto vanno a casa di uno dei due. Un macchina o in una stanza
d’albergo.
Bella
notte, risveglio appagati e senza legami. Due chiacchiere, magari
imbarazzo, di
cortesia e dichiarazione d’intenti – spesso
coincidente con un: ci siamo divertiti ma non
voglio impegnarmi,
o simili.
Solo dopo ci sarebbe stato
l’addio – per la
stragrande maggioranza dei casi.
Va
bene, in quel caso si trattava di due lui,
ma la sostanza restava la stessa.
Era un
essere umano, for Christ sake,
meritava un minimo di considerazione. Per non parlare poi di rispetto.
«Ecco,
io…» tentò nuovamente di dire qualcosa.
Cosa poi? Grazie per la botta di vit, e
di andare a fottere qualcun altro la prossima volta, gli dispiaceva?
Certo,
come no. Avrebbe voluto sprofondare nell’imbarazzo. Lo
stavano fissando tutti e
tre, in attesa che si decidesse ad aprire bocca. E parlare,
preferibilmente,
non boccheggiare come un pesce fuori dalla boccia.
Castor,
in particolare, lo osservava da sotto la frangia umida, in attesa.
Quegli occhi
gli facevano ancora effetto.
«Cosa?»
sbuffò Oscar spiccio, attirando l’attenzione su di
sé «Cosa? Cos’altro ti
serve?» fece una pausa durante la quale aggrottò
le sopracciglia e portò una
mano alla tasca della giacca, tirando fuori il portafoglio e aprendolo
«Devi
ancora essere pagato? God, non
credevo che Castor potesse abbassarsi tanto da-»
Non
fece in tempo a finire la frase che un forte tonfo soffocò
le ultime parole,
bloccandogliele in gola.
Max,
che aveva aperto la porta per andarsene, l’aveva sbattuta con
forza senza
varcarla e ora era tornato al centro della stanza, livido di rabbia.
Solo in
quel momento – mentre Max torreggiava su di lui con i pugni
serrati – sembrò
rendersi conto che il ragazzo silenzioso altri non era che un giovane
uomo
parecchio più alto di lui e dai muscoli ben sviluppati.
Muscoli che sembravano
essersi gonfiati dalla sua ultima affermazione.
Nascondendo
il disagio lo guardò dritto negli occhi – azzurri,
ma un azzurro ben diverso da
quello della loro famiglia, più cupo e simile al grigio.
«Sì?»
domandò fintamente ingenuo.
Max si
prese qualche secondo prima di parlare, ma quando lo fece il tono
precedentemente usato era scomparso, lasciando spazio ad una voce
gelida come
non gli era più capitato da anni.
«Io non
so come siete abituati voi, ma esigo un minimo di rispetto sono stato
chiaro?»
sibilò arricciando le labbra in segno di disgusto.
Disgusto
per essere stato scambiato per una puttana, disgusto per le parole che
gli
erano state rivolte e gli insulti. Disgusto per non essere stato capace
di
ribattere e, soprattutto, orrore per non essere stato in grado di
capire quello
che stava facendo, la sera prima.
Concedersi
ad un semisconosciuto – uomo, per giunta – e
lasciare che la mattina dopo lo
umiliasse tanto. A tal punto da considerare quella infertagli dalla sua
ex
ragazza una bazzecola a confronto.
Gli
stava venendo da vomitare.
«Accetto
il passaggio solo perché non so dove mi trovo e non ho i
soldi per il taxi, ma
sappia che se le nostre strade dovessero incrociarsi un’altra
volta – per caso,
in strada o in un ristorante – che c’è
il mio pugno che aspetta di scontrarsi
con il suo naso, sono stato chiaro?»
Fece
una pausa durante la quale lo fissò dritto negli occhi per
vedere se aveva
recepito bene il messaggio, poi – sotto gli sguardi
sospettosamente ammirati di
Clio, che non aveva più aperto bocca, godendosi la scena
– si voltò verso
Castor, che lo guardava stupito dall’altra parte del tavolo.
«Per
quanto riguarda te…» tacque ancora un attimo,
indeciso se continuare o
fermarsi. In fondo si era già umiliato abbastanza, no?
«Grazie per la bella
nottata, davvero» evidentemente no, non a sufficienza
«la prima, in effetti, da
un po’ di anni, ma di questo non te ne può
fregare, vero?» fece un sorrisino
sarcastico «Ricorda solo, con la scopata
di domani, di evitare di fargli incontrare altra gente e mandala via
prima che
si renda conto di che razza di stronzo bastardo sei. Buona giornata a
tutti».
Clio
sussultò leggermente , a differenza degli altri due, quando
sentì sbattere la
porta d’ingresso. Oscar, aggrottando le sopracciglia e
– nuovamente padrone di
sé stesso – si voltò verso Castor,
trovandolo intento a bersi un’altra tazza di
caffè e con lo sguardo fisso nel punto in cui era stato il
ragazzone fino a
poco prima, gli occhi vacui come fosse in realtà da
tutt’altra parte.
«Ma chi
diavolo è quello?» gli chiese, senza ricevere una
risposta degna di quel nome.
°°°
Seduto
sul sedile posteriore di quella lussuosissima macchina – dear God, si trattava di una Porche
Panamera Turbo S blu intenso, non
certo della Ford decrepita che guidava lui, appartenuta a sua zia
– Max fece il
possibile per non accasciarsi su uno dei tappetini color crema e
scoppiare il
lacrime come una ragazzina isterica.
Come si
era permesso, quello straviziato arrogante, di sbatterselo per tutta la
notte e
poi sbatterlo fuori di casa a quel modo? Certo, non era stato proprio
lui, ma
non aveva aperto bocca né altro. L’unica cosa che
si era degnato di dirgli era
stata: “Già sveglio?”
Quell’ammasso
di ciuffi tinti doveva avere proprio un cervello da gallina, per
essersi
comportato così. Non si
meritava nemmeno
la sua delusione o il suo disgusto.
Fortunatamente
per lui, i pantaloni all’ingresso erano i suoi,
così come le scarpe lì accanto.
E aveva preso in prestito il
giaccone
nero che aveva trovato appeso all’attaccapanni, prima di
andarsene da quel
posto. Sperò che l’indumento appartenesse a Oscar.
Non
sarebbe mai più tornato indietro, e che si tenessero pure il
maglione nuovo e
tutto il resto. Una volta arrivato a casa, decise, avrebbe bruciato
quei
pantaloni. Quelli scelti da Castor.
L’auto,
esattamente come gli era stato detto, era in attesa in seconda fila appena fuori dal portone e
l’autista – un
signore severo dal taglio rigido – si era rivelato
più collaborativo di quanto
non si fosse aspettato. Jerome, così aveva confermato di
chiamarsi, non aveva
fatto una piega alla sua richiesta
Distrattamente
– ma purtroppo per lui non troppo – si chiese se
non fosse nella norma per lui,
riportare a casa ragazzi e ragazze più o meno in lacrime la
mattina dopo.
Doveva
essere veramente messo male, perché glielo chiese.
Evidentemente si sentiva
molto più urtato da quel comportamento da dopo,
più di quanto non osasse ammettere a sé stesso.
«Sinceramente
no, capita che io debba… riaccompagnare a casa delle
signorine, dopo» forse fu
solo un’impressione, ma quel “dopo”
somigliava in modo pericolosamente uguale
al suo «ma di dover riaccompagnare un ragazz- oh, mi perdoni,
un uomo… questo è
insolito».
«Quindi
capita spesso che Castor porti a casa qualcuno
per…» lasciò ancora in sospeso.
Quella doveva essere la giornata delle frasi incomplete. Non riusciva a
finirne
una. Per scoparselo e poi sbatterlo fuori
subito dopo? finì ugualmente nella sua mente.
«Non so
molto delle abitudini del signorino, ma le poche volte nelle quali mi
è
capitato di portare a casa qualcuno per lui» al che
lanciò un’occhiata allo
specchietto, per poi distogliere subito lo sguardo e mettere la freccia
«erano
tutte…» evidentemente stava cercando un modo
quantomeno educato per esprimersi.
Max si
morse un labbro, amaramente divertito.
«Tutte
donne».
«Sì»
confermò Jerome.
«Certo»
si trovò a sussurrare lui di rimando, disinteressandosi
della conversazione
«capisco».
Durante
in tragitto, non fu quella l’unica volta in cui Jerome
sbirciò il passeggero
dallo specchietto retrovisore. Aveva poco più di
quarant’anni, ma non si era
mai sentito vecchio come in quel momento, nel vedere
l’espressione assente di
quel ragazzino – aveva sicuramente da poco compiuto
vent’anni, lo si poteva
vedere nonostante la stazza – e non era giusto che qualcuno
di giovane come lui
avesse dipinta in volto un’espressione come quella.
Aveva dei begli occhi grandi,
ma offuscati, e i capelli sembravano avere un chiaro bisogno di una
lavata e un
taglio. E una bella dormita.
Max passò il resto del viaggio
con la fronte contro il vetro a cercare di non pensare.
Pigramente
mise a fuoco il paesaggio che stava scorrendo fuori dal finestrino.
Stavano
percorrendo la Broad Street.
Lì
vicino c’era il suo bar preferito, l’Eden.
Magari si sarebbe fermato lì prima di presentarsi agli
allenamenti. Era
mercoledì, ricordò improvvisamente. Di
lì ad una settimana ci sarebbero state
le prove per le eliminatorie.
«Può
fermarsi qui» disse mentre si lasciava scivolare verso la
portiera «grazie per
la sua disponibilità. Buona giornata».
«Anche
a lei»
Si
strinse soddisfatto nel cappotto – piuttosto bello, doveva
ammettere, forse
solo un po’ troppo attillato sulle spalle – era
riuscito a non versare una
lacrima. Niente pianti di commiserazione per la sua idiozia
né di amarezza o di
vergogna per quanto aveva subito.
Fece un
ultimo cenno a Jerome – era una di quelle persone che avrebbe
potuto trovare
simpatiche, non si fossero incontrati in quella occasione – e
salì sul
marciapiede.
«Maximillian!
Per la miseria, stavo morendo di preoccupazione! Potevi almeno
chiamare!»
Bach,
ancora vestito come la sera precedente, gli stava marciando incontro
con un
cipiglio ben poco
rassicurante e il
cellulare già all’orecchio –
probabilmente ad avvertire gli altri che lo
stavano cercando, forse –
quando
improvvisamente rallentò l’andatura fino ad
arrestarsi del tutto, il telefono
ancora a metà strada per l’orecchio e
l’espressione mutò al confuso per poi
stabilizzarsi in una di comprensione e compatimento.
Max
trovò estremamente difficile sostenere quello sguardo.
Poi,
qualcosa di non ben definito, sembrò staccarsi dal mento e
atterrare sul
tessuto pregiato. Sembrava una macchia liquida, piccola e relativamente
rotonda. Un altro senso di leggerezza e una seconda macchia
andò a depositarsi
accanto alla prima.
Portandosi
una mano – perché stava tremando? – al
viso, si sentì le guance bollenti e
bagnate.
Merda…
Singhiozzò.
Shit.
…
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Nel segno dei gemelli ***
Tutto il mio affetto e il mio
ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per
il suo ancora
presente coraggio!!
I’m
not a Murderer
06
Nel
segno dei gemelli
Con
uno
scatto che quasi non si aspettava, chiuse di colpo il libro che stava
leggendo
e lo scaraventò per la stanza, lasciando che sbattesse
contro il muro e
scivolasse a terra, la copertina staccata.
Una
settimana.
Il
periodo di tempo durante il quale faceva fatica a dormire e non ne
capiva il
motivo.
Infilandosi
le dita tra i capelli, Castor si tirò a sedere dal divano
dove era sdraiato e
borbottò qualcosa di inintelligibile mentre decideva se
alzarsi e andare a
mettere qualcosa sotto i denti o continuare ad oziare. Il lavoro non
stava
andando un granché bene.
D’altro
canto, il progetto che aveva messo in piedi con il fratello sembrava
andare a
gonfie vele. Una nuova linea di prodotti per la pelle – a cui
aveva lavorato
con gli scienziati affiliati all’Azienda. Come se a lui e a
Oscar servissero
altri soldi.
La
verità era che da quando suo nonno aveva lasciato il posto
al maggiore dei suoi
fratelli – Oscar per l’appunto – il
mercato era diventato una riserva di caccia
come non aveva mai pensato potesse essere.
Alimentari,
elettrodomestici, attrazioni, cosmetici e moda erano stati i nuovi
campi in cui
il colosso che già era la O’Connell si era mosso.
Quello stramaledetto Orion –
poteva aver anche cambiato nome, ma quando lo vedeva sorridere in quel
modo
arrogante e insofferente, vedeva in tutto e per tutto il ragazzo con
cui era
cresciuto – aveva una fottuta fortuna. O fiuto.
In
ogni
caso il suo lavoro –
quello di Castor,
che languiva in un placido, beneamato niente – si era fermato
e non vedeva
alcun segale di ripresa. Gli mancava la voglia di scrivere e tutte le
idee che
gli venivano in mente parevano scadenti e scontate.
Con
un gemito di insofferenza,
allungò una mano a terra e tastò alla cieca fino
a trovare il bordo del
quaderno – il primo oggetto lasciato cadere, prima di
prendere il libro che
aveva fatto la fine che aveva fatto. Lo sfogliò
distrattamente, rileggendo gli
appunti che aveva messo giù per il nuovo manoscritto. Era
quello che faceva –
da qualche anno a quella parte. Scriveva.
La
sua
prima pubblicazione risaliva a cinque anni prima. Era rimasto in cima
alle
classifiche e ancora oggi vendeva, fermo al settimo posto.
Il
secondo volume pubblicato era stato “Sleep
of Hearts generates Monsters”, che aveva ricevuto
addirittura un successo
maggiore di “Soul’s Color”.
Entrambi
trattavano di storie tormentate, intrighi e misteri che legavano e
riunivano i
protagonisti in torbide storie di gelosia e desiderio. Uno specchio
della
realtà, troppo spesso nascosta da luci colorate e annaffiata
nell’alcool.
Da
quel
momento era stato considerato l’astro nascente della
letteratura e sei mesi
prima aveva consegnato all’editore un terzo manoscritto
– un poliziesco, che
affondava le sue radici negli anni della Rivoluzione – che
prometteva di
diventare un altro più che discreto successo.
“Morgue Phantom”
era stato il titolo
provvisorio da lui scelto, ma probabilmente per ora della pubblicazione
effettiva lo avrebbe cambiato.
Ed
ora,
fermo da mesi, stava iniziando ad annoiarsi.
E
lui detestava annoiarsi.
Ma
al
momento non riusciva a pensare a nulla.
Erano
state poche le tracce e gli abbozzi di personaggi che gli erano venuti
in mente
e non serviva a niente rimanere a rimuginarci per ore quando il
risultato
ottenuto non era altro che un atroce mal di testa. E storie atrocemente
piatte.
Un uomo che in un momento di
pazzia aveva ucciso moglie e figli, aveva bruciato la propria casa ed
era
fuggito. Condannato a ricordare per sempre gli atroci crimini commessi,
si cava
gli occhi e vaga alla ricerca della pace senza riposarsi, senza
più riuscire a
prendere sonno. Le sue avventure e le persone che incontra durante il
suo
incessante errare. Mamma,
che allegria, gli faceva venire voglia di tagliarsi le vene.
Non
riusciva nemmeno a dormire.
Un’organizzazione stava
cercando di prendere il controllo del mondo grazie ad un farmaco
sperimentale –
spacciato per un vaccino. Gli effetti collaterali erano quelli di- che stronzata colossale, non
valeva nemmeno la pena di leggerla per intero. Come diavolo gli era
anche solo
passata per la mente?
Si
chiese se per caso non stesse covando un’influenza,
considerato il peso sempre
meno sopportabile che si sentiva allo stomaco.
Una creatura di un altro
pianeta che arriva sulla terra e capisce solo il linguaggio dei sapori,
perché
sono come le parole. Non parla e sente l’aria. Pura fantascienza.
Che
avesse mangiato qualcosa di avariato? Eppure era sicuro che i funghi
fossero
ancora freschi…
La tragedia di due gemelli
separati alla nascita, uno destinato alla grandezza e l’altra
alla perdizione.
Banale, banale, banale!
Sospirando
si apprestò a leggere l’ultima traccia, scritta
poco più di qualche giorno
prima.
Due persone sconosciute si
incontrano per caso e passano la notte insieme, lasciandosi per tornare
alle
loro vite la mattina successiva, sicure che non si sarebbero mai
rincontrate,
ma il caso volle che una delle due – detentrice di uno
spaventoso segreto – si
trovi coinvolta e debba fuggire dall’organizzazione per cui
lavora l’altra.
Solo
vagamente interessante, storse il naso, ma neanche lontanamente
realizzabile.
Quanti ne erano stati già scritti di quelli?
Poi,
improvvisamente, una fitta allo stomaco gli fece fare un collegamento
del tutto
inaspettato.
Maximillian.
Ricordarlo
rendeva la sua insofferenza più profonda. E non sapeva
spiegarsene il motivo.
Okay,
non era uno stupido e sapeva perfettamente con il modo in cui si erano
“non-salutati” era stato parecchio scortese
– da stronzi, aveva detto Clio – ma
non pensava avrebbe dato a quel ricordo un peso tanto grande.
Non
avrebbe voluto comportarsi tanto da stronzo, ma quando si era trovato
Clio in
cucina non aveva capito più niente. Era ancora arrabbiato
con lei e aveva
lasciato che quei sentimenti prendessero il sopravvento.
Non
le
aveva ancora perdonato la decisione di trasferirsi in Giappone
– Giappone, mica girato
l’angolo.
Era
arrabbiato con lei e per un attimo si era dimenticato dell’ospite
nell’altra stanza.
Almeno
fino a quando non se lo era trovato davanti mezzo svestito e con ancora
quell’espressione soddisfatta in volto e si era sentito a
disagio al pensiero
di doverlo scaricare, così aveva lasciato che Clio e Orion
si occupassero di
lui.
Era
stato inspiegabilmente fastidioso vedere l’espressione del
ragazzo diventare
spenta, ferita, per poi scoppiare in una rabbia incontrollata. Non
avrebbe mai
immaginato potesse avere così tante sfumature il suo animo.
La
prima volta che lo aveva visto, in quell’incontro casuale
nell’atelier di famiglia,
mentre stava
supervisionando la merce esposta, lo aveva trovato degno di attenzione.
Se ne
stava lì, circondato dai suoi amici e compagni che lo
prendevano in giro, con
quel broncio adorabile e quel sorriso che sembrava pronto a sbucare
fuori da un
momento all’altro… e aveva pensato che avrebbe
voluto averlo.
Lo
aveva puntato e affascinato.
Poi lo aveva avuto.
Era
come uno dei suoi soliti capricci, che lo prendevano il tempo
necessario e poi
lo lasciavano andare, tornando nei ranghi di indifferenza che gli erano
soliti.
Si aspettava esattamente quello che gli aveva dato:
l’eccitazione di una sera,
il corteggiamento e un divertimento temporaneo. Castor sapeva che non
sarebbe
stato niente di serio, e lo sapeva anche Max – glielo aveva
letto negli occhi,
quando lo aveva visto la mattina dopo – che stava cercando il
modo migliore per
andarsene senza chiasso.
Quello
che però non si aspettava di sentire – oltre
all’imbarazzo e ai segni dei morsi
– era il rifiuto e l’umiliazione da parte di tre
estranei.
Esattamente
come Castor non si sarebbe mai aspettato di sentire una morsa allo
stomaco.
Non
una
piacevole, come quando gli veniva fame o le montagne russe partivano a
razzo.
Era
stato come una tenaglia che gli afferrava la viscere e si divertiva a
girare e
rigirarsi su sé stessa.
Lo
aveva visto entrare in cucina con quell’espressione
scandalosamente candida e
imbarazzata – per non dire anche di cupida bramosia
– e Clio aveva parlato.
Impreparato, non aveva mosso un muscolo.
Forse
era quello a tenerlo sveglio? Senso di colpa?
Castor
era sempre stato considerato un genio – dalla famiglia, a
scuola e nel mondo
del lavoro – ed era abituato ad ottenere quanto desiderava.
E
quella notte l’aveva ottenuto – appagamento,
eccitazione e follia. Quindi
perché adesso doveva sentirsi così?
Chi
diavolo era Max?
E
perché se lo stava chiedendo?
Rimase
a fissare il vuoto per tutto il resto della mattinata, la ciotola di
cioccolato
fuso e melone che si era preparato per uno spuntino che si raffreddava
sul
pavimento.
°°°
Dire
che Tom si sentiva preoccupato sarebbe stato un eufemismo.
Mancavano
meno di sedici minuti all’inizio delle selezioni e si trovava
con una squadra
che più disastrata non sarebbe potuta essere. E nel giro di
quattro ore sarebbe
partita la prima batteria per le eliminatorie.
Sin
dal
momento in cui i ragazzi erano entrati in palestra – per il
consueto
riscaldamento prima di entrare in vasca, aveva avuto il sentore che
qualcosa
sarebbe andato storto.
Va
bene, dire il sentore magari non avrebbe reso
l’idea…
Appena
varcato l’ingresso, infatti, Jamie aveva afferrato il
materassino per
l’allenamento e si era posizionato tra la pressa e la
macchina per gli
adduttori, di modo da non essere affiancato da nessuno. Era poi stato
con sommo
sbigottimento che aveva visto il gemello scoccargli
un’occhiata irritata e
stendere il proprio accanto a Dorian.
Dorian!
Quello
tra tutti i membri della squadra che parlava di più e che
quel giorno non aveva
detto che un saluto.
Era
stata una scena a ridosso dell'apocalittico.
Mai,
e
si ripeté nella sua testa con rafforzata convinzione, mai aveva visto i gemelli Gordon vivere
niente meno che in
simbiosi.
Stava
giusto per chiedere cosa potesse essere successo tra i due quando
un'altra
visione del tutto insolita gli si era parata in fronte.
Bach,
ancora con la felpa addosso, che fissava i piedi mentre camminava.
Accigliato.
Tom
non
poteva dire di conoscerlo bene, non come gli altri ragazzi. Bach era
sempre
stato come un mistero per lui, un mistero avvolto in un altro mistero.
Un po’
come una donna. Lo aveva trovato complicato, machiavellico e facile
alle
provocazioni. Una sorta di teppista sofisticato e ammantato da una
patina di
superiorità.
Un
ragazzo difficile da controllare, ma bravo a controllarsi, entro i
propri
limiti.
Non
lo
aveva mai visto arrabbiarsi se non per motivi più che
validi, non lo aveva mai
sentito mentire preferendo una visione sincera del mondo, anche se
piuttosto
cinica. Sincerità radicale, così
l’aveva chiamata.
Non
lo
aveva mai visto perdere una discussione – o
quell’unica rissa a cui aveva
assistito quando ancora il ragazzo non faceva parte della squadra, ma
era solo
uno dei tanti candidati suggeriti da Brook, il quale glielo aveva
presentato
come un suo amico, un po’ problematico forse, ma capace.
Non
lo
aveva mai visto abbandonare l’espressione di sfacciata
indifferenza dal suo volto,
nemmeno nelle situazioni di tensione pre-gara.
Quella
era la prima volta che lo guardava e avvertiva che sì, di
fronte a lui c’era il
Bach Queen che Brook aveva imparato – a proprie spese
– a conoscere al tempo
della scuola. Qualcosa di muoveva dietro le pupille grigie.
Era
chiaramente incazzato. Lo
osservò allungarsi con una smorfia irritata e concludere la
serie di esercizi
in modo impeccabile e totalmente impersonale. Era evidente che la mente
fosse
altrove.
Nel
vederlo in quello stato, si era chiesto se per caso non centrasse
qualcosa con
i Gordon, ma il moro non lanciò nemmeno
un’occhiata a Joakim o Jamie,
continuando a fissare un punto davanti a sé.
Lionel,
l’unico che sembrava essere arrivato di buon umore, aveva
saggiamente deciso
sarebbe stata un’ottima idea starsene in silenzio invece di
fare battutine come
sempre – un po’ perché Dorian non aveva
ancora aperto bocca, dettaglio
catastrofico –, un po’ perché
l’umore era talmente tanto a terra che si era
lasciato influenzare.
Per
un
momento, l’allenatore si trovò a desiderare di non
aver concesso a Brook e Max
di precederli in piscina.
Magari
con la loro presenza calma e rilassante li avrebbero aiutati a
distendersi.
O
almeno era quello che aveva sperato nel precederli all’angolo
a loro assegnato
per la gara.
Mancavano
ancora quattro ore all’inizio ufficiale delle selezioni e gli
atleti cercavano
di occupare il tempo nel modo che ritenevano migliore. Quello era il
periodo
delle parole, delle interviste, delle preparazioni e
dell’accoglienza degli ospiti.
Le
batterie non sarebbero partire prima delle cinque.
Tom
osservò gli atleti avversari conversare con amici o parenti,
discutere o
ascoltare i rispettivi coach, oppure rimanere seduti in disparte ad
ascoltare
musica. C’era qualcuno che leggeva, chi continuava con il
riscaldamento
muscolare e chi era entrato in acqua per farsi qualche vasca in totale
relax.
Apparentemente
sembrava una giornata come un’altra –
nell’ambito delle gare, beninteso.
«Coach»
sentì una mano battere delicatamente sulla spalla e si
girò, vedendo Max
stargli di fronte con un asciugamano sulla spalla e con
un’espressione
stranamente rigida in volto.
«Tutto
bene, Maximillian?» chiese cauto. Pure lui no!
«Certo»
affermò scrollando una spalla noncurante
«perché?»
«Niente»
bofonchiò scettico, tornando a guardarsi intorno
«è solo che oggi mi sembra che
la squadra abbia qualcosa di strano».
«Vorrei
farmi qualche vasca» aggiunse Max, ignorando la sua ultima
uscita – elemento
che lo fece sospettare maggiormente «terresti il
tempo?»
«Certo»
assentì sfilandosi il cronometro dal collo e accendendolo,
in attesa con il
ragazzo di posizionasse sulla pedana per il tuffo.
Nel
vederlo chinarsi in avanti e sistemarsi, flettendo i muscoli allenati,
l’immagine della prima volta che lo aveva incontrato, anni
prima, si sovrappose
a quella presente, fondendosi in un ricordo a cui non pensava da tanto
tempo.
Fece
partire il tempo.
«Avanti Callagh, solo
un’occhiata, che ti costa?»
«Mi costa che ho da fare» aveva
borbottato, cercando inutilmente di scrollarsi di dosso quella vocina
petulante. Quella persona petulante.
France Swon era stato un
compagno di quadra alle scuole medie. Avevano gareggiato da bambini e
per un
qualche strano motivo la loro amicizia era durata in tutti quegli anni.
Soprattutto da parte dell’irritante biondino, si trovava in
quel momento a
mugugnare tra sé, allungando il passo nel goffo tentativo di
scollarselo di
dosso.
Era arrivato in città da un
giorno, e già era a quel punto.
Si erano incontrati per caso ad
un Internet Café e France si era dimostrato incredibilmente
felice di vederlo.
Anche troppo.
Il motivo?
Aveva scoperto quello che lui
definiva un nuovo talento. Un ragazzino indubbiamente scheletrico e
rinchiuso
nel proprio mondo che magari era un po’ bravo a nuotare.
France gli aveva
chiesto di fargli fare un provino per ammetterlo nella sua squadra.
That
bullshit.
«Senti, non ho dubbi sul fatto
che questo…»
«Maximillian» ci tenne a
ripetere l’amico tenendo il suo ritmo senza fatica. Maledetto
sportivo.
«Giusto, Max» aveva sospirato
seccato «dicevo, non ho dubbi sul fatto che sia
eccezionale-»
«Non è solo questo!» lo aveva
interrotto nuovamente, eccitato «È
un
autentico talento!»
«Appunto» aveva biascicato tra
i denti «comunque non ho più posto in squadra, le
selezione sono state chiuse
settimana scorsa».
«Ma devi assolutamente
vederlo!» aveva insistito gesticolando e piazzandosi davanti
a lui, deciso a
non farlo proseguire fino a quando non lo avesse ascoltato –
ed essersi
convinto che sì, doveva assolutamente dare
un’occhiata a quel prodigio.
«Io non devo proprio niente»
aveva sibilato seccato «adesso però fammi il
favore di tornartene da lui a
dirgli che no, non ho tempo né voglia di stare a guardarlo
annaspare a galla!»
«Veramente…»
«Mister Swon» una voce bassa e
acuta aveva attirato la sua attenzione, portandolo a guardare negli
occhi un
ragazzino che gli arrivava a mala pena al gomito.
«Maximillian» la voce
dell’amico si era ammorbidita, come quella di un maestro che
si rivolge al
proprio pupillo.
«Sarebbe lui?» Tom lo aveva squadrato
scettico.
Era basso per la sua età –
dodici anni, forse tredici? – e portava i capelli tagliati
cortissimi. Guance
morbide e spalle sottili e nervose.
Grandi occhi azzuro-grigi.
Un ragazzino normalissimo.
«Lei chi sarebbe?»
Eppure aveva un tono piuttosto
indisponente, per essere un frugoletto da poco svezzato.
«Lui è il Coach di cui ti ho
parlato, Tom Callagh, un mio vecchio amico» si era affrettato
a spiegare France
posandogli una mano sulla schiena, per farlo avanzare e mostrarsi
interamente.
Indossava un paio di pantaloncini a righe sottili e una maglia verde
scuro
slavata.
«Non la tratta molto da amico»
aveva mormorato il bimbo sospettoso, guardandolo dritto negli occhi.
Tom si era costretto ad
ammettere che, tutto sommato, almeno un po’ di fegato
sembrava averlo.
«Quindi tu saresti il
prodigio?» aveva commentato sarcastico, senza lasciar
intendere aver ascoltato
le sue ultima parole «Come ti chiami?»
«Maximillian Pollux, undici
anni» aveva risposto pronto, stringendo al petto –
solo ora se ne era reso
conto – un album da disegno. O forse un libro illustrato.
Fantastico, un
bambino.
«E dimmi, Maximillian Pollux»
aveva detto, nuovamente ironico «sei veramente
così bravo come ti si dipinge?»
Il bimbo aveva lanciato
un’occhiata perplessa a France, che gli aveva sorriso
incoraggiante, poi era
tornato a fissarlo.
«Per saperlo deve vedermi, no?»
Tom aveva fatto fatica ad
ingoiare lo stupore.
E quell’imbecille di France era
scoppiato a ridere.
Uno
schizzo d’acqua lo raggiunse, dandogli segno che Max si stava
avvicinando alla
meta.
Scuotendosi
dai ricordi, bloccò il cronometro, facendogli segno
positivo. Fatto.
Mentre
il ragazzo si sollevava sulle braccia per uscire dalla piscina, Tom si
distrasse a guardare gli altri ragazzi. Dorian e Brook sedevano
corrucciati con
il walkman acceso – in barba al fatto che Tom avesse sperato
nell’influenza
positiva del secondo per migliorare l’umore. Joakim alternava
occhiate al
gemello con la lettura di una pagina del fumetto che si era portato
dietro,
mentre Jamie stava confabulando qualcosa con Lionel, dandogli
ostentatamente le
spalle.
Bach
sedeva composto con la testa riversa all'indietro e il volto nascosto
dall’asciugamano, le spalle rigide a mostrare la sua
irritazione.
Stavano
dando chiaramente mostra di un esiguo coinvolgimento, gridando a tutti
gli
avversari che no, non erano affatto in forma. L’unico che
sembrava andare forte
e sul pezzo era Max, che aveva
appena
realizzato il tempo migliore dell’ultimo anno. Lo
guardò issarsi sul bordo
della piscina e afferrare un asciugamano per tamponarsi
l’acqua sul viso e sul
collo.
Un
campione nato di impegno e dedizione.
Peccato
solo avesse quell’espressione corrucciata e la fissa di
allenarsi senza freni
anche prima di una gara importante solo quando qualcosa nella sua vita
stava
andando storto.
La
prima volta in cui se ne era accorto era stata quando la sua ragazza lo
aveva
mollato. La seconda alla morte del padre e la terza – che
aveva sperato essere
l’ultima – quando era stato sfrattato, sette mesi
prima.
Lo
osservò passare oltre i compagni di squadra senza proferire
parola e infilarsi
nelle docce. Proprio in quel momento Bach alzò un lembo
dell’asciugamano lo
seguì con lo sguardo, scuotendo la testa.
Max
non
aveva aperto bocca, non aveva guardato nessuno negli occhi e,
soprattutto,
aveva una scia non poco sospetta di fioriture rosse sul collo, lungo la
spina
dorsale e un vecchio livido circolare sulla spalla.
Tom
fece scorrere lo sguardo tra Max e Bach, sospirò, e fece un
cenno per attirare
l’attenzione di quest’ultimo.
Devo parlarti,
gli sillabò prima di
dirigersi verso il pullman con cui erano arrivati.
La
preparazione pre-gara l’avrebbe fatta dopo.
…
Hi, quindi
eccoli
la situazione vista da un altro punto di vista… ci tenevo a
far valere anche la
voce della controparte bastarda perché, nonostante il
comportamento ecc, Castor
è uno dei personaggi che amo
di più… chissà come mai…
Direi
quindi anche che è arrivato
il momento di mettere il suo profilo, non credete?
Castor
O’Connell
Un
metro e settantatre, capelli castani tinti di rosso, occhi azzurro
intenso,
tipici della famiglia, apparentemente sottile, ma anche molto forte.
È un
autentico genio, tutto quello che fa gli viene in modo eccezionale.
Scrive da
anni e si è laureato contemporaneamente in letteratura
moderna ed economia. Non
vuole prendere in mano gli affari della famiglia, ma se è
necessario li aiuta,
poi torna alla sua vita di sempre.
Ha 24
anni.
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Si aprano le danze ***
Tutto il mio affetto e il mio
ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per
il suo ancora
presente coraggio!!
I’m
not a Murderer
07
Si
aprano le danze
Se
avesse
dovuto essere sincero con sé stesso – sebbene
raramente, nell’ultimo periodo lo
fosse stato – Castor non avrebbe saputo definire esattamente
il sentimento che
lo aveva spinto ad uscire di casa, infilarsi in macchina e raggiungere
la
Polisportiva.
Avrebbe
quasi potuto dire
di essersi
reso conto di non stare più rimuginando nella solitudine del
suo salotto solo
nel momento in cui una forte
zaffata di cloro aveva raggiunto le sue narici, nel momento in cui
aveva aperto
una delle grandi porte a vetri della Polisportiva.
Ricordava
vagamente di essere uscito di casa, di aver salutato il portiere e
guidato per
venti minuti prima di parcheggiare – aveva
chiuso l’auto? Era una Mercedes SLS, blu notte,
mica un Ford, come quella
accanto a cui si era messo. Sapeva solo che, in quel preciso momento,
si
trovava in piedi sugli spalti gremiti di gente e rumorosi a guardare di
sotto,
in direzione dei numerosi ragazzi pronti a gareggiare – tutti
rigorosamente in
costume.
Era
troppo lontano per riconoscere chiunque, vero?
Non
poteva certo trovare Max in mezzo a quella confusione, quindi non era
certo
andato lì per vedere lui.
Certo, raccontala ad un altro.
Era
lì
perché… aveva avuto un improvviso desiderio di
dedicarsi ad uno sport.
Sei lì per guardare, altro che
palle. Avessi veramente voluto praticare qualche sport, saresti andato
alla
piscina di famiglia.
Il
nuoto era una delle attività più complete, adatto
a tutte le età e salutare.
Certo, e tu ti ci dedicheresti parecchio
ad una certa attività. Castor scosse la testa, infastidito e
come incapace di darsi un freno. Era tutta colpa di
quell’odore di cloro,
decise. Colpa sua e delle immagini che emergevano con esso.
Anche
se molto probabilmente centrava anche un certo indolenzimento che
sentiva alla
spalla, dove una certa persona lo aveva morso nella foga
del momento.
Una
certa persona che stava proprio…
Castor
si accorse di Max nel momento stesso in cui la prima batteria dei 400
stile
libero salì ai blocchi di partenza.
Lo
aveva riconosciuto, nonostante la distanza.
Forse
erano stati i capelli – quella stramaledetta sfumatura di
miele nel castano –
prima di venire celati dalla cuffia blu. Oppure quel suo modo
particolare di
soppesarsi su una gamba prima di chiudere gli occhi e passare
all’altra. O
magari poteva pure essere quel livido scuro – si vedeva anche
a distanza –
ultimo segno di un morso, gemello al proprio.
Lo
vide
prendere posizione e curvarsi armoniosamente in avanti.
Quell’immagine
ne rievocò un’altra, e poi un altra e
un’altra ancora,
Chiuse gli occhi quasi inconsciamente e si passò
la lingua secca sulle labbra altrettanto aride.
Si
perse la prima vasca e anche la seconda, ma
quando tornò a riaprirli non ebbe bisogno di chiedersi chi
fosse, tra le dieci
teste incappucciate di blu che si distanziavano e riprendevano.
E
non perché si ricordasse la corsia.
C’era qualcosa – nel suo modo di muoversi,
nuotare, immergersi e riemergere –
che
gli diceva che era lui. Sembrava
tagliare l’acqua come fosse stata aria, volando in avanti
senza sforzo.
Seguiva la contrazione e il guizzo dei suoi
muscoli e faceva fatica a distogliere lo sguardo.
Quando
lo vide battere il sensore con la mano seppe che qualcosa era cambiato
– e non
in quel momento, ma da prima, quando aveva per la prima volta posato
gli occhi
su quel particolare soggetto, facendo un’eccezione al suo
solito tipo. Seppe
che non sarebbe stato in grado di voltarsi e lasciare tutto alle spalle
come
aveva sempre fatto.
Capì,
non senza un certo sconcerto, che stava pensando a lui. Seriously.
A
lui e
non a se stesso, per dieci minuti. E di più, concesse,
smettendo di raccontarsi
palle.
Molto
di più.
Ed
era
una settimana che non andava a letto con qualcuno. E non dormiva.
Damn Fuck.
Chiuse
gli occhi un’ultima volta, portandosi una mano a coprirli e
lasciando che i
capelli si posassero come una cortina tra loro.
Era
decisamente in un fottuto casino.
°°°
Bach
era tornato in quel negozio solo perché, l’ultima
volta in cui ci era stato,
aveva trovato un bel cappello. Nervosamente strinse tra le dita
l'anello
sottile che teneva appeso ad una catenella, al collo. Quel gesto
abitudinario
ebbe il potere di calmarlo.
Era
sera, era quasi orario di chiusura e la gara era andata decisamente
peggio di
quanto si aspettassero.
La
staffetta aveva totalizzato un punteggio di quattro punti inferiori
alla media,
si erano classificati sesti e non avevano potuto accedere di primo
turno alle
selezioni successive. Avrebbero dovuto confrontarsi nuovamente con le
posizioni
dalla quinta alla decima per garantirsi l’ingresso alle
eliminatorie della
Pennsylvania.
Wonderful.
Persino
Brook, pur essendosi posizionato secondo aveva dimostrato meno di
quanto
avrebbe potuto fare, fosse stato in forma.
Fortunatamente
Lionel e Max erano riusciti a dare dei buoni tempi, ma solo
perché il primo era
riuscito a rilassarsi a sufficienza prima dell’inizio
– era sparito con una
ragazza, e qui si sarebbe fermato con le spiegazioni, ‘kay? – mentre Max si era
spremuto come un limone.
Esattamente
come aveva fatto durante tutta la settimana precedente, senza fermarsi,
senza
riposarsi.
Distrattamente
si chiese quanto sarebbe potuto durare, con quel suo comportamento
autolesionista.
In
ogni
caso, mentre la squadra stava rimuginando, sbollendo e deprimendosi nel
modo
migliore di loro conoscenza, lui era lì, alla O’Connell
Fashion. Per comprarsi un cappello di cui non aveva il
minimo bisogno.
Ma
aveva bisogno di pensare.
E di
parlare a Max – a cui aveva dato appuntamento.
Con
un
gesto deciso ripose il copricapo che teneva in mano in favore di un
modello più
serio, in puro stile Dean Martin.
Pur
continuando a far scorrere la mano sulla stoffa liscia, la sua mente
era
completamente volta ad un ricordo, risalente il pomeriggio precedente.
Quando
l’allenatore lo aveva chiamato fuori, alle porte delle
Selezioni.
«Cosa sta succedendo alla
squadra?» aveva esordito Tom bruscamente, nel momento stesso
in cui lo aveva
raggiunto sul pullman.
Bach ne era rimasto stupito.
Non che non se lo aspettasse –
in fondo il loro coach era una persona recettiva e chiunque se ne
sarebbe
accorto dopo il loro comportamento insolito – ma,
conoscendolo, si sarebbe
aspettato una riunione logistica sulle modalità di affermazione
di indipendenza in una
squadra alle porte di un’importante
gara,
o qualcosa del genere.
Non certo che lo chiamasse
fuori per scaricargli addosso una sequela di domande a cui non aveva
voglia di
rispondere.
Era anche certo, comunque, che
Bach era sempre stato quello meglio informato su quanto accadeva nel
gruppo.
«Siamo tesi» aveva iniziato,
indeciso se dire la verità – come sempre ovvio,
altrimenti che gusto ci sarebbe
stato a sprecare fiato? – oppure soprassedere e dimenticare
una certa serie di
fatti di sua conoscenza.
«E non osare dirmi che è solo
per la gara, intesi?» lo aveva anticipato Tom – che
conosceva i suoi polli.
«Siamo tesi» si era permesso di
sospirare Bach, tornando sui propri passi «perché
ci sono un paio di cose che
non vanno».
«Nella squadra?» aveva chiesto,
cercando di ricordare litigi o scontri durante gli allenamenti.
«No, fuori».
Sempre conciso.
Tom sembrava esasperato.
«Va bene, ho capito. Non serve
che spieghi, rispondi solo» occhi negli occhi «tra
Jamie e Joakim è successo
qualcosa l’altra sera? Quando siete usciti».
«Settimana scorsa» aveva tenuto
indispensabile precisare.
«Per una donna».
Ebbene sì, Tom conosceva bene i
suoi ragazzi.
«Mentre per Max-»
Bach lo interruppe subito.
«Max è un’altra storia»
chiudendo per un momento gli occhi, rievocando quando lo aveva visto
scendere
da quella macchina tirata a lucido. Non lo aveva nemmeno guardata,
quando gli
era passata accanto perché dai!, Max
non sarebbe mai salito
di propria spontanea volontà su un mezzo tanto appariscente,
ma gli occhi gli
erano inesorabilmente caduti su di lui che apriva la portiera e
scendeva, quando
aveva accostato poco distante.
«È entrato in un brutto giro?»
gli aveva chiesto preoccupato, ricordando qui segni sulla sua pelle.
«No!» aveva esclamato l’altro,
aggrottando le sopracciglia «Come ti viene in
mente?»
«È stato picchiato» non
sembrava una domanda.
Bach aveva scosso il capo
rassegnato, rievocando esattamente quegli stessi segni
sull’amico. No, quelli
non erano certamente i regali di una serata passata a battersi in un
vicolo.
Erano i segni di una nottata passata a farsi sbattere in un letto.
Ma quello non lo avrebbe mai
detto.
Never, specie a Tom. Non ne sarebbe uscito vivo.
«Li ho visti» aveva insistito
l’allenatore, indicando un punto imprecisato al di fuori del
finestrino -
indubbiamente atto ad indicare Max, presumibilmente ancora impegnato a
farsi
una doccia pre-gara «quei segni».
«Non è successo niente, di
violento intendo. Non è stato picchiato» aveva
affermato nuovamente, con
maggiore decisione «Max non è il tipo, lo sai
meglio di me».
«Allora cosa?» era sbottato Tom,
esasperato «Come ha fatto a ridursi-»
s’interruppe improvvisamente, la bocca
spalancata e gli occhi aperti a guardare lontano, fuori dal finestrino
«oh».
«Già» si limitò a confermare
il
moro «“Oh”…»
«Ma…» Tom era sembrato indeciso
su come continuare «Max non
è…» aveva allungato una mano,
presumibilmente a
sfiorare l’orecchio, bloccandosi a metà gesto allo
sguardo duro di Bach «voglio
dire» si era affrettato a correggersi «lui ha avuto
una ragazza. Tiana,
ricordi?»
«Quindi?»
«Quindi» aveva ripetuto
l’allenatore, come a rimarcare un punto fondamentale «o è
stato con una donna decisamente
possessiva e dominante o ha voluto provare qualcosa di nuovo. Lo
capisco, è giovane, è normale che abbia le sue
fantasie, ma questa
non è una giustificazione per presentarsi con strani segni
di mors-»
«Per favore» alla fine lo aveva
interrotto, portandosi una mano agli occhi esasperato – e per
nulla desideroso
di conoscere cos’altro la sua mente avesse prodotto
«Max è meglio se lo lasci
stare. Starà bene, davvero».
«Mi
scusi»
Bach
si
riscosse, guardando disorientato alla propria sinistra e vedendo una
commessa
dall’aria gentile – e in qualche modo timorosa
– che gli stava porgendo un
biglietto piegato in due.
«Sì?»
le chiese indifferente, senza accennare a prenderlo in mano.
Cos’era? Il conto
per i capi provati e rimessi a posto?
Possibile.
«Mister
O’Connell mi ha chiesto di darle
questo» proseguì la ragazza solo con un lieve
tentennamento, tornando a
spingere con discrezione il biglietto verso la sua mano.
Bach
lo
prese – evidentemente non poteva fa re altrimenti –
e lo spiegò con un dito.
Scorse
le poche righe e socchiuse gli occhi.
«E Mister
O’Connell è per caso nei
paraggi?» domandò lievemente, tenendo il biglietto
tanto stretto tra due dita
da sgualcirlo, mentre la ragazza – Lauren, dal cartellino
attaccato alla giacca
della divisa – faceva un istintivo passo indietro. Forse per
lasciargli un po’
di spazio, forse per il lampo freddo che si era improvvisamente
palesato dietro
le iridi grigie di quel ragazzo.
«È nel
suo studio» rispose esitante «se vuole
seguirmi…»
«Non
sarà necessario» un uomo s’intromise,
arrivando alle spalle di Bach e facendole
cenno di andare, che da quel momento in poi ci avrebbe pensato lui.
Lauren
annuì un poco sconcertata e chinò il capo prima
di andarsene e tornare alla
propria corsia.
Bach
inspirò profondamente prima di voltarsi e mettere a fuoco la
persona alle
proprie spalle.
«Tu».
«Io»
piegò le labbra in un sorriso beffardo che però
non raggiunse gli occhi.
Bach
non rispose alla provocazione e si limitò a squadrare il
volto sottile
dell’altro, sempre incorniciato da quei capelli fulvi in
maniera totalmente
tinta e quegli occhi sottili. Sembrava non aver dormito molto, di
recente:
occhiaie violacee incorniciavano la pelle pallida delle palpebre,
nascoste da
grandi occhiali da vista dalla montatura scura. Poco sonno e pure a
dieta,
forse, constatò nel notare anche un principio di guance
incavate.
Che
fosse reduce da una brutta influenza?
«Non ho
niente da dirti» affermò dopo aver smesso di
squadrarlo malamente.
«Oh, io
non credo» sorrise lievemente, con appena una punta di
amarezza, Castor «sono
certo che hai molto da dire – o da fare. Ma se permetti
inizio io» fece un
momento di pausa «abbiamo una cosa in comune, noi
due».
«Una
vena di sadica stronzaggine? Potresti avere anche ragione»
Bach fraintese
volutamente.
«Maximillian»
sospirò l’altro, abbassando il tono di qualche
ottava.
«Io non
credo proprio» fu il l'unico commento a cui permise di
affiorare da sotto la
radicata maschera di impassibilità che gli era solita.
«Non ti
sto costringendo a rimanere ad ascoltarmi-» tentò
nuovamente Castor, fermo e
apparentemente calmo, nonostante una ventura di stanchezza a opacizzare
l'impostazione
da giovane ragionevole. Sembrava un po' troppo disilluso per essere una
persona
tanto giovane.
«Infatti
ora me ne vado» ribatté pronto Bach, continuando a
guardare un punto indefinito
alle spalle del rosso.
«Non ti
sto trattenendo» chiarì il concetto, la voce
pacata e stanca.
«Tu e
io» rimarcò con forza Bach, pur continuando a
mantenere un tono lieve «non
abbiamo nulla in comune se non il fatto di conoscere Max. Non abbiamo
Max in
comune. Tu non ce l'hai».
Non
sarebbe potuto essere più chiaro di così.
«È
vero» ammise, mostrando un'umiltà che non pensava
di possedere ancora, facendo
un'incredibile fatica ad esprimere il concetto che aveva in mente
«quello che
ho… condiviso con Max non mi da alcun diritto su di lui,
specie dopo quello che
ho… dopo come mi sono comportato».
Se
Bach
se fosse aspettato altro in risposta a quella sua provocazione - ad
esempio una
battuta sulla linea di: "Ma io Max l'ho avuto, per una notte, ed
è molto
più di quanto tu non abbia mai fatto" - non ne diede segno,
limitandosi a
stringere le labbra in una linea sottile.
«Allora
cosa vuoi da me?»
«Parlarti».
«E se
io non volessi ascoltarti invece?» chiese pacatamente il
moro, spostando il
peso sull'altra gamba e riprendendo in mano il cappello precedentemente
posato
sullo scaffale, rigirandoselo tra le mani.
«Non ti
sto trattenendo» ripeté Castor, il tono
più rilassato e meno amaro rispetto
all’inizio «e tu non te ne stai andando.
Perché?»
Il
moro
rimase in silenzio solo per una manciata di secondi più del
solito, ma non per
trovare una risposta. Voleva valutarlo. That's
all.
Lo
aveva conosciuto attraverso il loro primo incontro - durante il quale
non gli
aveva dato alcuna rilevanza, registrando solo il fatto che era
interessato
all'amico. Poi aveva avuto modo di vederlo al locale - due meri minuti
-
durante i quali lo aveva osservato liberare sempre il sopracitato amico
da una
piattola e esserselo avvinghiato addosso più aderente di un
costume bagnato.
Alla
fine Max gli aveva - più o meno - raccontato il resto.
Niente sulle parti
piccanti, chiaro, il provetto nuotatore era più abbottonato
di una suora quando
si trattava di raccontare le parti interessanti,
quindi aveva imparato ad intuire. No, quello che aveva veramente
estrapolato
dal discorso sconclusiontato di Max, da sotto la massa arruffata dei
capelli e
da dietro la più grande tazza di cioccolata cura-cuori
avesse mai visto, era
che Castor era molto più complicato di quanto non sembrasse.
Affettato
in alcuni suoi modi, sarcastico, manipolatore e intelligente -
spaventosamente,
gli verrebbe addirittura da dire. Sincero, pure se in un modo
tutt'altro che
gradevole, la maggior parte delle volte in cui lo aveva sentito
parlare. In
effetti non c'era proprio niente in Castor che lui trovasse anche solo
attrente.
E
poi
Max non era minimamente tipo da
innamorarsi o cascarci facilmente in quel modo - certo, con la ragazza
precedente
era stato uno sbaglio dall'inizio alla fine, ma erano passati anni e si
era
migliorato, era cresciuto. E sembrava essere seriamente preso da
Castor,
checché ne dicesse.
Doveva
quindi esserci qualcosa di più in quel damerino tinto.
E
lui
chiedeva per quale motivo non se ne fosse ancora andato?
«Forse
voglio ascoltare cosa hai da dire».
Pochi
secondi, ma Castor avea avuto come l'impressione di essere stato
risucchiato in
quegli occhi grigi del suo interlocutore, e la cosa lo aveva lasciato
non poco
infastidito, oltre che una strana sensazione di patina ghiacciata sulla
pelle. Non
sapeva molto - Oh right, niente -
di
Bach, ma quel poco gli aveva dato un assaggio di che razza di persona
fosse .
Era
sincero, imprevedibile e pericoloso. Non era certo del motivo per cui sapeva quelle cose su Bach, ma il suo
istinto gli stava dicendo di essere sé stesso con uno come
lui.
Altrettanto
sincero e diretto.
«Sono
stato un vigliacco, per prima cosa» disse semplicemente
«non avrei dovuto
lasciare che la mia famiglia lo buttasse fuori al posto mio. Sono
rimasto a
guardare» fece una pausa «non mi pento di averlo
cercato e portato da me, no,
solo non pensavo… sarebbe andata così».
Bach
continuava a guardarlo senza dire niente, la falda del cappello tra le
dita e
l'espressione indecifrabile.
«Sarebbe
dovuta essere un'avventura, come molte altre. Anche Max non si sarebbe
aspettato niente di diverso, ma poi…» per un
attimo sembrò perdersi in chissà
quali pensiero «poi, cazzo! Non lo so! Poi mi sono ritrovato
con lui ancora addormentato
a letto, mia sorella in cucina e mio fratello che è arrivato
al momento
peggiore. Li ho lasciati fare. Di questo mi pento».
Il
moro
sembrò riflettere un momento.
«Cosa
avresti fatto tu?» chiese lentamente «Se la tua
famiglia, come dici, non ti si
fosse presentata tra capo e collo. Come ti saresti
comportato?»
«Non lo
so» scosse la testa frustrato «certo non lo avrei
mandato via su due piedi… Mi
è piaciuto passare la notte con lui, non lo so. Ma adesso mi
sembra tutto così
strano» le labbra si tesero in un sorriso malinconico prima
di ridere ironico
«ma sentimi, parlo come una ragazzetta di un romanzo. Non era
questo che avevo
in mente di dirti».
«E cosa
pensavi di dirmi?» domandò nuovamente Bach, sempre
fermo, sempre con il
cappello in mano e sempre apparentemente impassibile.
Castor
gli lanciò un'occhiata tra il perplesso e il risentito.
«Ti
stai divertendo, vero? A vedermi in questa situazione».
«L'hai detto
tu, non io» si limitò a commentare, un'ombra di
sorriso negli occhi «Quindi?»
«Quindi»
espirò stancamente Castor «mi sarei presentato, ti
avrei chiesto come stava Max
e poi avrei cercato di convincerti a rivelarmi dove si trovava in
questo
momento».
«E
secondo te io ti avrei risposto?» alzò un
sopracciglio scettico.
Castor
sorrise appena.
«No,
probabilmente no. Ma sperare non costa niente».
«Mi
spieghi cosa vuol dire?» domandò allora Bach,
stringendo ancora tra le dita il
biglietto che gli era stato portato da Lauren, sarcastico «"Ho bisogno di parlargli", ti sembra
il caso?»
«Lo so
perfettamente anche da solo di aver sbagliato»
sbottò Castor, chiudendo gli
occhi per un momento – quel Bach era decisamente spossante
«ti sto solo
chiedendo di permettermi di spiegare».
«Sono
tutto orecchie».
Castor
lo guardò un attimo di sottecchi, come a volersi assicurare
che quella frase
non fosse la solita presa in giro, ma un'affermazione seria, prima di
sospirare
e raccogliere le idee.
«Non
avrei dovuto» ripeté per l'ennesima volta,
sentendosi più patetico ad ogni
ripetizione «l'ho usato, ferito e ho lasciato che la mia
famiglia gli facesse-
lo ridicolizzasse. Solo stato uno stronzo, me ne rendo conto. Non sono
così di
solito».
«Lo
spero bene» si limitò a commentare Bach,
sollevando un sopracciglio.
«Non mi
aspettavo sarebbero arrivati e la loro presenza mi ha… ero
arrabbiato. Non ho
riflettuto sulle conseguenze» scosse nuovamente la testa,
come a voler
scacciare quanto detto e fatto quel giorno «senza preavviso
mi sono trovato
davanti mia sorella, con la quale avevo una discussione aperta, e
successivamente mio fratello, con cui sono in litigio continuo. Queste
non sono
giustificazioni» precisò subito, nel vedere
l'espressione scettica dell'altro
«sto solo esponendo i fatti come si sono svolti. In quel
mentre è arrivato Max
e- cazzo, era indecente, svestito com'era. Ho dovuto pensare ad altro e
ho
finito per ferirlo in un modo in cui non mi sarei mai
aspettato».
«Cioè»
Bach alzò una mano per interrompere il flusso quasi
incoerente di parole «mi
stai dicendo che pur di non ammettere davanti alla tua famiglia che ti
saresti
fatto» stiramento di labbra, ad evidenziare quanto il termine
non gli piacesse
«Max anche davanti a loro, hai preferito concentrarti su
altro e cancellare la
sua presenza dalla stanza?»
Evidentemente
il senso doveva essere più o meno corretto,
perché Castor si trovò in qualche
modo ad arrossire.
«Non ho
detto questo…» tentò di correggersi,
allargando le braccia con fare
rassicurante.
«No,
no» lo contraddisse Bach «intendevi proprio questo.
E posso capirti, in un
certo senso» Castor lo guardò allibito
«tra famiglia e una scopata, sono certo
che la famiglia abbia la precedenza» sorrise maligno
«ma questo non spiega come
mai ora siamo qui, dico bene?»
A
disagio. Era parecchio tempo che Castor non si sentiva a quel modo.
«Insomma»
il moro non sembrava intenzionato a interrompersi
«perché tu sei qui per un
motivo. Per Max. Allora, che cosa vuoi tu, da lui? Cosa hai da
offrirgli?»
ripeté ancora,
«E tu
perché sei venuto qui? Speravi veramente di
incontrarmi?» in corner, deviò la
domanda – la più pesante, a cui non era ancora
certo di voler rispondere –
attaccandolo a propria volta.
«Smettila,
basta» lo interruppe Bach pacato, fissandolo direttamente
negli occhi «stiamo
parlando da mezz’ora, ma ancora tu non hai risposto alla
domanda più importante.
L’unica cosa che voglio sapere è: che intenzioni
hai con lui?».
Non
aveva più vie di scampo, si arrese il rosso, cercando di
riassumere e portare a
livello conscio un concetto che gli era sempre sembrato troppo
astratto, prima
di quel momento. Prima di Max.
Socchiuse
le labbra.
E,
finalmente, mentre Castor sembrava essere sul punto di fornire una
risposta,
una terza voce – purtroppo conosciuta da entrambi –
s’intromise, raggelante.
«Che cazzo ci fai qui?»
…
Okay, eccomi di
ritorno… scusate il
ritardo ma si è presentata tutta una serie di
contrattempi… eheh Ø.Ø
Dunque dunque, cosa
dire? (e se non
lo so io...)
La storia ha
iniziato a prendere una
piega decisamente inaspettata (l'idea originale era un tantino
differente) e da
qui in poi mi sa che dovrò rivedere più di una
parte. Speriamo bene.
Voi cosa ne pensate?
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Timore, Paura, Panico, Terrore ***
Tutto il mio affetto e il mio
ringraziamento a 3ragon
che
ha caritatevolmente
acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per
il suo ancora
presente coraggio!!
I’m
not a Murderer
08
Timore,
Paura, Panico, Terrore
«Che
cosa vuoi?» il tono di Max era gelido – sarebbe
sembrato perfettamente padrone
di sé, non fosse stato per quel tremolio sulle ultime
sillabe «Perché sei qui?
Mi stai pedinando?»
«Max!»
Bach si avvicinò all'amico, cercando di mettergli una mano
sul braccio, per
placarlo. Era furibondo: i pugni serrati con forza, le nocche sbiancate
e i
polsi tremanti, le braccia rigide e i muscoli in tensione, per non
parlare
delle guance rosse e i denti stretti.
Con
uno
scrollone l'altro evitò il contatto, fulminandolo.
Cosa
ci
faceva lì, Castor?, gli stava chiedendo con gli occhi.
Perché si trovava lì
dove non sarebbe dovuto essere?
«Questo
negozio è mio» rispose con calma il rosso,
cercando di celare l’improvvisa
fitta allo stomaco – sul serio, non poteva trattarsi di
ulcera? – che l’aveva
colto nel tornare a guardarlo negli occhi per la prima volta da una
lunga
settimana «della mia famiglia» ci tenne a
precisare, non ricevendo null’altro
in risposta, se non un’occhiata spenta e una smorfia
diffidente.
«Capisco,
allora immagino tu sia qui per farmi saldare il conto dei vestiti che
ho
comprato la volta scorsa» il sarcasmo, sulla labbra di Max,
per quanto secche e
mordicchiate, sembrava sempre fuori luogo «mezzo prezzo per prima e poi pieno se non soddisfa le
aspettative».
Castor
trasalì come fosse stato colpito.
Anche
Bach sgranò gli occhi, sorpreso dalla reazione dell'amico.
Ci era rimasto male,
era più che comprensibile, ma non pensava così tanto. Quella era una reazione esagerata,
persino per una
situazione come quella.
«Cos’è?
Vesti i tuoi clienti, li porti a letto e poi quando hai finito li cacci
via?
Sono certo che le tue numerose amanti sono state ampiamente rifornite
di
vestiti da qui» sputò a bassa voce, troppo bassa
per essere udita dalla maggior
parte dei clienti, fortunatamente.
Castor
strinse istintivamente gli occhi, una nuova fitta. Com'era possibile si
trovasse a sentirsi così a disagio, così
sbagliato, per una persona appena
conosciuta?
In
un angolo
del suo animo, si rafforzò la convinzione di volerlo
conoscere meglio.
Desiderava potersi riscattare ai suoi occhi, cancellare quella mattina
infelice
e l'ultima settimana di inspiegabile agonia.
Perché
non si era reso conto prima di quanto profondamente quel ragazzo lo
avesse
colpito?
Perché
ci si accorge del vero valore di quello che si è posseduto
solo dopo averlo
perso?
Non
trovò le parole per rispondergli e continuò a
fissarlo mentre si sfogava, gli
occhi febbrili.
«E
dimmi, anche a loro facevi il prezzo scontato come hai fatto con me,
oppure
prezzo pieno e colazione prima di metterle alla porta?»
sarcasmo, sarcasmo e
ancora sarcasmo.
Come
stonava, su di lui.
«Immagino
poi che ti sarai divertito, a vedermi alle prese con la tua famiglia.
Simpatico
tuo fratello, cosa fa di mestiere? Lo strozzino?»
«Max»
riprovò Bach, provando nuovamente a placarlo, afferrandogli
con maggiore forza
il polso «datti una calmata, non puoi fare una scenata qui
dentro».
Il
ragazzo si scrollò nuovamente di dosso il tocco dell'amico,
continuando a
fulminare Castor con tutta la rabbia e la delusione accumulate durante
l'ultima
settimana.
Shit.
Faceva
fatica a pensare ad altro.
Shit.
Poteva
pensarlo, dirlo e urlarlo dalla punta dei suoi capelli cangianti fino
alle
scarpe firmate che portava, passando per le sopracciglia aggrottate, la
piega
amara delle labbra, le braccia incrociate a difesa e i pantaloni
attillati.
Eppure,
nonostante tutto, non poteva fare a meno di ricordare.
Non
poteva permettersi di provare quello che stava provando, non per uno
come
Castor!
Gli
stata venendo voglia di piangere.
Fuck You.
«Max»
Castor fece un passo avanti, nell'ennesimo tentativo di farsi
ascoltare, ma
l'altro si spostò indietro di due.
«No»
disse solamente, alzando una mano.
Doveva
andarsene. Quello era l'unico pensiero che poteva permettersi di avere.
Non
voleva, non poteva farsi vedere
ancora in lacrime.
«Sono
certo che tu ti sia preparato un bel discorsetto, convincente e
ragionevole, ma
la sai una cosa? Non voglio sentirlo. Non mi interessa! Sei solo un
ipocrita».
Bach
vide Castor sussultare lievemente e chiudere istintivamente gli occhi.
Era la
prima volta, notò, che sembrava tanto ferito. Aggrottando le
sopracciglia il
moro si chiese se, per caso, non avesse sottovalutato il reale
interesse del
rosso per l'amico.
Tutto
accadde in un attimo.
Max
voltò le spalle ad entrambi e uscì spedito del
negozio, gettandosi in strada
senza curarsi di guardare le macchine in arrivo.
Castor,
dopo un attimo, si lasciò sfuggire un'imprecazione
estremamente colorita – che
Bach si appuntò per il futuro – e si
gettò al suo inseguimento, biascicando a
mezza voce insulti e ringraziamenti per il semaforo verde ai pedoni.
Bach
osservò vagamente allibito la reazione di entrambi prima di
fissarsi sulla
schiena in allontanamento dell'amico.
Non
poteva lasciarlo solo, non dopo quello sfogo e quell'espressione che
aveva
messo su prima di andarsene, Max sembrava sul punto di piangere, ancora.
E
Castor non sembrava intenzionato a lasciarlo andare tanto facilmente.
Con
un
sospiro seguì il loro esempio, uscendo a propria volta e
incespicando in un
tombino mal fissato – lo stesso, registrò
distrattamente nello sbilanciarsi,
che Castor aveva saltato per darsi lo slancio e allungare il passo di
modo da
raggiungere l'altro.
Con
la
coda dell'occhio li vide vicini, dall'altra parte della strada.
Parlavano a
voce talmente alta che poteva sentirli ancora chiaramente da sopra i
rumori
della strada.
«Maledizione,
Maximillian aspetta!»
Max
si
sentì afferrare il polso con forza e, nuovamente, fece del
proprio meglio per
liberarsi, ma l'altro non sembrava intenzionato a lasciarlo vincere
facilmente.
Con uno strattone più deciso degli altri lo fece voltare
verso di sé e gli
serrò entrambe le mani sulle braccia.
Cercò
di divincolarsi, ma l'unico risultato fu quello di sentire la presa
farsi più
stretta e il corpo più vicino. Con un'imprecazione gli
assestò una ginocchiata
sulla coscia, incapace di mirare meglio.
Poi
alzò
lo sguardo furibondo su di lui.
Castor
aveva i capelli completamente arruffati per la corsa e il vento, gli
occhi
lucidi dal freddo e le guance rosse. Non avrebbe saputo dire se di
rabbia o in
reazione alla temperatura all'esterno.
Il
respiro era accelerato e data la vicinanza Max sentì
chiaramente l'odore di
menta dovuto al dentifricio, oppure ad una caramella.
«Quello
poteva farmi male» lo sentì ironizzare sul colpo
appena sferrato.
Serrò
con forza le palpebre nella vana speranza di far scomparire tutto. Il
freddo,
il dolore improvviso al petto, quella fitta di desiderio e quel brivido
provato
nel momento in cui lo aveva afferrato.
Tuttavia,
un improvviso colpo di clacson lo costrinse a guardare da sopra le
spalle
dell'altro.
L'ultima
cosa che riuscì a vedere chiaramente, prima di venire
risucchiato in un inferno
fatto di sirene, luci accecanti, braccia indesiderate e ginocchia
sbattute
pesantemente sull'asfalto, fu una persona venire scaraventata via da
un'auto
bianca. Una Corvette, registrò meccanicamente.
Il
corpo rotolò brevemente a terra, strisciando dolorosamente
sulla strada,
strappando i jeans chiari sulle ginocchia sfilacciando il maglione blu
scuro. I
capelli neri, arruffati e bagnati, si posavano come spuntoni in una
macchia di
sangue che andava via via allargandosi sotto la testa.
Max
sentì la gambe cedere e la vista annebbiarsi, mentre un
grido agghiacciante gli
rendeva sordo tutto il resto del mondo.
Fu
solo
quando sentì la gola farsi secca e dolorante che si rese
conto di essere lui ad
emetterlo.
«BACH!»
°°°
Tom
stava facendo due conti sulle tabelle di allenamento dei suoi ragazzi.
I
preliminari non erano andati come previsto, ma in un modo o nell'altro
erano
riusciti a piazzarsi in tutte le categorie. Per la sessione successiva
– che
sarebbe iniziata di lì a qualche giorno –
avrebbero dovuto dimostrarsi ben più
abili.
Segnalando
esercizi e aggiunte alimentari, spuntò mentalmente un altro
punto dalla lista.
Ordinare
una nuova macchina del caffè per l'ufficio, fatto.
Portare
a far revisionare il pullmino della squadra, fatto.
Sistemare
le schede di esercizio, fatto.
Cosa
mancava?
Chiedere
a Bach cosa fosse effettivamente successo a Max.
Lasciandosi
andare contro lo schienale della poltrona, chiuse gli occhi,
concentrandosi sul
colloquio avuto con il moro, poco prima delle gare.
Gli
aveva fatto capire, nel suo solito modo scostante e di mezze parole,
che Max
non era entrato in un brutto giro e che non si sarebbe dovuto
preoccupare.
Aveva persino trovato il modo di spiegare quei strani segni sulla pelle
– non
aveva dovuto pensarci troppo, in effetti, ma era strano
pesare al ragazzo in quei termini.
Max,
forse proprio perché lo aveva conosciuto sin da bambino, gli
aveva dato l'idea
di purezza, in qualche modo, ti castità. Per
carità, sapeva della sua ex, ma
non era bastato a togliergli dalla mente quella patina di innocenza con
cui lo
aveva sempre ricoperto.
Sapere
che poteva fare certe cose… faceva seriamente fatica ad
immaginarselo.
Poteva
essere una donna più grande? Un dominatrice.
Oppure
era veramente un maschio, il suo – primo, lo sperava con
tutto il suo cuore di role-in-father
– partner.
Allungò
la mano per prendere il cellulare e comporre il numero di Bach. Basta,
rimuginarci non serviva a niente: avrebbe chiamato, preteso una
spiegazione e
scoperto il motivo scatenante del malumore, la tristezza e i segni di
Max.
Lasciò
squillare a lungo e più volte, senza una risposta.
Infastidito
fece un altro tentativo.
Per
carità, Bach era un ragazzo adulto e vaccinato, giovane e
tutto il resto,
quindi era perfettamente normale che non rispondesse la telefono.
Quello che lo
infastidiva maggiormente, però, era il poco controllo che
riusciva ad avere su
di lui in particolare.
Tom
non
pretendeva di conoscere i dettagli della vita dei suoi atleti, ma
almeno
qualcosa in più di molti altri sì. Li preparava,
seguiva la loro vita in ogni
aspetto in previsione delle gare e non era mai riuscito a conoscere
Bach con la
stessa profondità degli altri. Ma forse questo dipendeva
dalla naturale
riservatezza del moro.
Ma
il
fatto che non rispondesse al telefono non gli piaceva per niente.
Semplicemente
non gli piaceva che quel ragazzo – con cui lavorava a stretto
contatto a quasi
sette anni – fosse poco più che un conoscente, per
lui. Non si fidava forse
abbastanza?
Venne
distratto da un lieve bussare alla porta.
«Ah,
Brook, entra» sorrise rilassato, vedendo il ragazzo indugiare
sulla porta «dimmi».
Brook
spostò il peso sulle gambe in maniera inquietante per uno
come lui, facendo
svanire il sorriso dal volto di Tom. Era raro vederlo tanto a disagio
–
arrabbiato, raramente; preoccupato, qualche volta; serafico, la maggior
parte
del tempo. A disagio, mai.
Il
ragazzo fece un passo avanti, ruotando la testa per invitare qualcun
altro a
seguirlo.
Lionel,
ugualmente irrigidito e inspiegabilmente nervoso, spintonò
il compagno per
entrare e si rivolse all'uomo con esitazione – dopo essere
stato adeguatamente
invogliato da un'occhiataccia di Brook.
«Cosa
sta succedendo?» chiese Tom, alzandosi in piedi. Per un
qualche strano motivo
faticava a stare ancora seduto.
«Ha
chiamato Castor…» s'interruppe, indeciso su come
continuare.
L'allenatore
aggrottò un sopracciglio. Chi diavolo era Castor?
«E chi
è?» chiese infatti.
«Il-»
ennesima interruzione, mentre l'altro si chiedeva quanto o come potesse
rivelare il fatto «il ragazzo di Max,
suppongo…»
Il ragazzo di Max!?
«E cosa
vuole da noi?» domandò sempre più
perplesso e anche un po' scosso.
Il
ragazzo di Max.
Dear God.
«Mister»
la voce di Lionel si abbassò ulteriormente «Bach
ha avuto un incidente. Si
trova in ospedale adesso».
…
Ehm, per
chi se lo stesse chiedendo,
sarebbe questa la grande modifica alla storia… Bach!
E pensare
che si tratta del mio
personaggio preferito. Siam messi bene!
Come
già detto, non era l'idea
originale (affatto, proprio per niente!) che mi è venuta in
mente quando ho
iniziato a pensare che la storia lasciata lineare come era stata
creata,
sarebbe risultata un po' noiosa – certo che a parte la mia
stalker di fiducia
(ebbene sì animelover, ti sei
appena guadagnata il primo
posto!!!) non mi aiutate molto eh? (me che cerca di scaricare la colpa
del
ritardo su qualcun altro).
Cmq…
vabbè, proverò ad essere meno in ritardo la
prossima
volta XD
Buona
giornata
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Attimi dilatati all’infinito ***
Attimi dilatati all’infinito
I’m
not a Murderer
09
Attimi
dilatati all’infinito
Tre
ore.
Il
periodo di tempo passato seduto – immobile –
su quella scomoda sedia di plastica del pronto soccorso.
Tre
fottutissime ore e ancora nessuno che si
azzardava ad uscire per dirgli come stesse andando lì dentro.
Damn Fuck!
Torturando quel poco di rimasto di non
stropicciato della maglia, Max volse l'ennesima occhiata astiosa ad
un'infermiera, che aveva avuto la sfortuna di passare in quel momento,
come ad
accusarla di essere stata lei a cercare di mandare all'altro mondo il
suo
migliore amico. E, ovviamente, di tenerlo all'oscuro di quanto stava
accadendo
in sala operatoria.
La
donna non sembrò prendersela, perché in
risposta gli sorrise incoraggiante, socchiudendo gli occhi in
un'espressione tra
l'affranto e lo speranzoso.
Doveva essere abituata.
Max
distolse immediatamente lo sguardo,
sentendosi peggio di prima. Non ebbe nemmeno la forza di spostare il
tocco
caldo che si sentiva sulla spalla.
Dal
momento stesso in cui era sceso
dall'ambulanza – non era sicuro esattamente come, ma era
riuscito a salire con
l'amico e i paramedici – Castor non lo aveva lasciato un
attimo da solo.
Gli
aveva preso la giacca e il cappello non
appena se li era tolti, era entrato nell'ala del pronto soccorso, lo
aveva seguito
come un ombra, rispondendo ti tanto in tanto alle domande dei
paramedici sulla
dinamica dell'incidente, dove Max non era sicuro di ricordare. Lo aveva
costretto a mangiare qualcosa e bere del the zuccherato e gli aveva
tenuto la
mano quando Bach era entrato in sala operatoria.
Poi
quando Max era andato al bagno, aveva
chiamato i suoi compagni di squadra – aveva trovato il
cellulare nella tasca
interna del giaccone – e gli era stato vicino per tutto il
resto del tempo.
Ed
ora, esausto, con gli occhi stranamente
asciutti ma allo stesso tempo gonfi, Max non riusciva a credere a
quanto quel
calore, emanato dall'uomo che si era doppiamente riproposto di odiare,
lo
facesse stare bene.
In
quel momento un medico uscì dalla Sala,
gettando un paio di guanti insanguinati nel cestino accanto e
togliendosi la
mascherina, guardandosi attorno alla ricerca di qualcuno.
Il
suo sguardo si posò su Max.
Il
ragazzo impallidì e, istintivamente, afferrò
la mano libera di Castor, posata mollemente in grembo.
Il
rosso non diede segno di sorpresa e ricambiò
prontamente la stretta.
Le
dita di Max erano gelate.
°°°
Se
doveva essere del tutto sincero, Castor non
sapeva dare un nome a quello strano impulso avuto ore prima, che lo
aveva
spinto a seguire Max e stargli accanto per tutto i tempo.
Non
lo conosceva così bene, nonostante le
premesse, e ancora meno provava attaccamento per l'altro –
Bach. Quello era
stato il primo giorno in cui avevano parlato, eppure, alla vista del
volto
pallido e sconvolto di Max, non aveva potuto fare a meno di pregare che
il
giovane dall'altra parte della porta sopravvivesse per insultarlo
ancora.
E in
quel momento, sulla porta di casa propria,
mentre lottava per sbrogliare la chiave dalla tasca sdrucita, non
poteva fare
altro se non essere consapevole del ragazzo alle proprie spalle.
Max
non aveva voluto saperne di tornare a casa
propria, insistendo per rimanere tutta la notte al capezzale di Bach,
ora in
coma farmacologico. Fortunatamente, anche grazie all'aiuto di una
esausta
infermiera, era riuscito a convincerlo ad andare via con lui.
Aveva una camera per gli ospiti, gli aveva
assicurato nel vederlo sussultare alla proposta. Non lo avrebbe nemmeno
sfiorato.
Gli
lanciò un'occhiata indagatoria e si fece da
parte, per farlo entrare. Casa sua era esattamente come al solito,
pulita,
ordinata e senza troppi soprammobili, ma sperò che a Max non
venisse l'impulso
di passare per il salotto e vedere lo scempio che era, dopo essere
stato usato
come rifugio per l'ultima settimana: libri per terra, cuscini lanciati
in tutte
le direzioni, abiti spiegazzati sulle lampade e cibo dimenticato nei
cartoni.
Unica prova tangibile del malessere che lo aveva
colto.
E
che sul momento sembrava essersi attenuato.
Evidentemente, averlo vicino portava solo
benefici e all'unica risposta che era riuscito a trovare, in
spiegazione a
tutto.
Cosa
vuoi da Max?,
gli aveva chiesto Bach – davvero erano state
soltanto poche ore prima?
Cosa
hai da offrirgli?
Con
il senno di poi, avrebbe tanto voluto
rispondere sinceramente, infischiandosene dei soliti freni inibitori
che gli
impedivano di dire quello
chiaramente. Era sempre stato un mago nello svicolare.
In
ogni caso, Max si fece guidare fino in cucina.
«Vuoi qualcosa da bere?»
Il
ragazzo scosse la testa, guardandosi attorno
spaesato, e Castor lo guardò a lungo prima di aprire
l’anta del frigorifero e
afferrare una bottiglia a casaccio. Non riusciva ad allontanare lo
sguardo
dall’espressione affranta di Max.
Non
riusciva a capire se a farlo stare peggio
fosse il fatto che la persona, a cui aveva appena scoperto di tenere
più di
chiunque altro, stesse tanto male da sorvolare su quanto lo stesso
Castor gli
aveva fatto e gli si fosse affidato, oppure che Max stesse in quelle
condizioni
per un altro uomo.
Nel
chiudere il frigorifero e prendere due
bicchieri, si accorse di aver tirato fuori del succo di frutta.
Rassegnandosi
ad abbandonare le recenti abitudini alcoliste, gli mise davanti il
tutto.
«Bevi» lo esortò pacato, evitando di
guardarlo «è
meglio».
Max
lo guardò storto – in fondo, pensò
Castor,
gli aveva espressamente detto di non voler niente – ma non
fece commenti e
prese un sorso, tossendo per quanto la bevanda fosse fredda.
«Attenzione» mormorò il rosso, con
qualche attimo
di ritardo, allungandogli un tovagliolo.
Max
non lo notò nemmeno passandosi il palmo della
mano sulla bocca, fino alla guancia, sfregando con forza.
«Non sarebbe dovuto succedere» mormorò a
voce
tanto bassa da risultare quasi inudibile «mai».
«I medici hanno detto che non è nulla di troppo
grave» tentò di consolarlo «non
è in pericolo di vita».
«I medici, certo…»
«Andrà tutto bene, Maximillian»
affermò
nuovamente, convinto, abbozzando un pallido sorriso «sono
certo che Bach non
finirà certo fuori gioco per così poco!»
Il
moro gli rivolse un’occhiata scettica, le
iridi appannate da stanchezza e preoccupazione.
«Lo conosco da poco» proseguì Castor,
incoraggiato dall’attenzione che l’altro gli stava
mostrando «ma sembra un tipo
determinato. Stai tranquillo e vedrai che domani ci saranno sicuramente
buone
notizie».
Gli
angoli delle labbra di Max fremettero
lievemente, non promettendo nulla di buono, ma nessuna lacrima o
risposta
penetrò da dietro le iridi azzurre mentre si abbassavano sul
tavolo.
«Ho sonno» disse solamente, alzandosi senza
guardarlo negli occhi «scusami».
«Certo!» Castor si alzò a propria volta,
togliendogli il bicchiere dalle mani e facendogli segno di non
preoccuparsi,
che ci avrebbe pensato lui, sentendosi incredibilmente logorroico
«La camera
degli ospiti è la seconda porta a destra.
Nell’armadio ci sono dei vestiti e
sono sicuro che sotto qualche pila troverai una tuta che possa andarti
bene.
Chiamami se hai bisogno di qualcosa, la mia stanza
è…»
S’interruppe nel vederlo trasalire e si morse un
labbro, rimproverandosi per essersi lasciato sfuggire così
poca delicatezza.
Era
dannatamente difficile, for Christ sake.
«Grazie».
E,
mentre Max lasciava la stanza, tutto quello
che fu in grado di fare fu osservarlo e lasciare scorrere il tempo.
°°°
A
svegliarlo non fu il cigolio della porta, e
nemmeno lo scrosciare insistente della pioggia sulle tapparelle. A
destarlo dal
sonno leggero in cui era caduto fu la netta sensazione di non essere
più solo
nella stanza.
Allungando cautamente una mano alla ricerca
dell'interruttore della lampada da tavolo, si voltò
istintivamente verso la
porta.
In
piedi, seminascosto nella penombra creata
dagli infissi, Max guardava verso di lui, i capelli completamente
arruffati, la
maglia di traverso e un cuscino stropicciato tra le braccia.
Gli
occhi rossi e spalancati.
L'immagine era un tale concentrato di dolcezza e
disperazione che Castor dovette abbassare le palpebre per calmarsi.
«Non riesci a dormire?» chiese il più
tranquillamente possibile, tirandosi sui gomiti per guardarlo meglio.
Max
non rispose, continuando a malmenare il cuscino.
Sembrava un bambino che, dopo un incubo, chiede di
poter dormire con mamma e papà.
E
Castor – si rese conto, in quel momento più che
in tutto il resto della giornata – sarebbe voluto essere
tutto quello per lui:
un genitore, un amico e una spalla su cui piangere. Sarebbe stato
esattamente
quello di cui Max avrebbe avuto bisogno.
Questa seconda realizzazione lo costrinse,
nuovamente, a chiudere gli occhi con forza.
Come
era possibile, si chiese, provare qualcosa
di tanto devastante per una persona appena conosciuta?
«Vieni qui» disse solamente, scostando il
lenzuolo e spostandosi di lato per lasciargli spazio.
Max
esitò meno di quanto avesse pensato – forse
troppo stanco per riflettere su chi e cosa gli stesse offrendo
conforto, oppure
semplicemente perché era certo che niente e nessuno potesse
farlo sentire
peggio di quanto già non stesse – e
strascicò i piedi, che Castor di accorse
essere nudi, fino al letto, raggomitolandosi istintivamente nello
spazio che
gli stava lasciando.
Con
un gesto più paterno che altro, Castor infilò
una mano sotto il piumone e gli afferrò le caviglie,
mettendosi i piedi gelidi
tra le cosce – cercando di non rabbrividire al contatto
– e gli infilò l’altra
mano nei capelli, arruffandoglieli gentilmente.
Max
lo lasciò fare senza un suono, pur rimanendo
più rigido del normale.
Castor sospirò, a disagio.
«Sei molto… affezionato a Bach» si
forzò a
lasciar uscire le parole nel modo più naturale possibile.
«Bach è stato il primo amico qui» forse
quella
era la prima frase completa che lo sentiva pronunciare da ore
«il mio compagno
di squadra e il mio confidente. Certo che ci tengo
lui…»
Il
silenzio, dopo quell’affermazione, si
protrasse più di quanto Castor sentisse di poter sopportare,
mentre il fruscio
agitato delle lenzuola faceva da unico spettatore al disagio sempre
più
crescente che quelle parole gli avevano aperto nel cuore.
Lui,
che nemmeno pensava di averlo, si era
ritrovato il petto sanguinante.
Max
era veramente una persona piena di sorprese.
Anche troppe.
Anche in quel momento, mentre sentiva il proprio
petto solo sfiorare la sua schiena, si sentiva meglio di quanto non gli
fosse
mai successo. E nello stesso tempo peggio che mai.
«Lo ami?» gli chiese di bruciapelo, stringendo a
pugno la mano nascosta sotto il cuscino. Non sapeva se voleva sentire
quella
risposta ad alta voce. Ma non poteva nemmeno far finta di nulla.
Era
palese, per lui.
Avrebbe dovuto accorgersene prima, molto prima.
Quando in piscina Bach gli aveva passato l’asciugamano, alla
fine della
competizione, e Max si era piegato per poterlo guardare negli occhi e
rispondere a chissà quale domanda. Quando,
nell’atelier, erano uno affianco
all’altro.
C’erano stati, in ogni occasione, momenti in cui
Max si rivolgeva a Bach prima di fare qualunque cosa. Prima di comprare
i
vestiti che lui aveva scelto, prima di allontanarsi con lui nel locale,
prima
di scappare per strada.
Lo
vide abbassare lo sguardo e irrigidirsi.
Sentendosi per la prima volta, completamente
gelare, cercò di non lasciar trasparire nulla mentre
aspettava che il ragazzo
finisse di realizzare il tutto.
Con
uno scatto repentino, Max si alzò a sedere,
facendo scivolare le coperte indietro, guardando finalmente Castor
negli occhi.
L’azzurro terso del secondo si scontrò con quello
sgranato e lucido del primo, in un cenno di comprensione che non si
sarebbe mai
aspettato.
Possibile che lui…? Che in tutto quel tempo non
se ne fosse mai accorto?
Una
lacrima, lenta, bollente e solitaria, scese
piano, prima sullo zigomo, restando poi impigliata nella piega delle
labbra.
Castor non riuscì a sopportare oltre
quell’immagine e afferrò il braccio di Max,
tirandoselo con forza addosso e
lasciando che gli affondasse il viso nell’incavo del collo.
«Oddio…» sembrava stesse tremando, Max,
mentre
chiudeva i pugni nella maglia del rosso.
In
tutta risposta Castor alzò una spalla, per
farlo cadere più comodamente tra le sue braccia, mormorando
qualcosa di inintelligibile,
chiudendosi su di lui.
«Tu stai facendo tutto questo per me… e io sono
solo capace di darti del bastardo» un singulto più
forte dei precedenti soffocò
il resto della frase «mi faccio schifo».
Nonostante il dolore e il disagio, Castor sentiva
di non dover appartenere più a nessun altro luogo, che non
si sarebbe dovuto
trovare da nessun’altra parte, in quel momento.
Quello era il suo posto, e lì sarebbe rimasto, ad
abbracciare la persona che sentiva di amare e che stava piangendo per
la
salvezza di un altro.
«Mi dispiace» aggiunse Max, come se ce ne fosse
davvero bisogno.
«Ssh» gli passò una mano sui capelli,
cullandolo «va
tutto bene…»
«Scusami» lo sentì mormorare ancora, tra
i
singhiozzi «scusami davvero. Per tutto quello che ti ho
detto. Mi dispiace.
Scusa…»
Inspirando a pieni polmoni quell'odore
particolare, che tanto lo aveva ossessionato, Castor lo strinse con
maggiore
forza, raccogliendo ogni singola lacrima che si sentiva scorrere sulla
pelle,
sentendosi di meritare ogni singola ferita che quelle stille gli
stavano
scavando dentro.
«Non sei tu a doverti scusare…»
…
Sì,
infatti… a
scusarsi dovrei essere io immagino…
Per il
ritardo e…
la novità da infarto. Immagino XD
Cmq tesori
miei,
ho una bella notizia e un brutta notizia. Quale volete sentire per
prima?
…
…
…
Va bene, mi
sottometto alla maggioranza:
Brutta
notizia!!!
La mia fida
Beta
è sotto esame e non può seguirmi per questo
periodo (I nostri cuori saranno con
lei in questo momento difficile), quindi mi toccherà
controllare da sola di non
aver fatto errori ahaha.
Perciò
perdonatemi eventuali imprecisioni (siete liberissimi di farmele notare
sapete?)
Quindi
veniamo
alla Bella notizia.
Manca poco
alla
fine (e questa sarebbe una bella notizia!??!?), all'incirca cinque o
sei
capitoli.
E quindi,
nel
bene o nel male le cose finiranno.
Per ora.
Infatti ho
appena
iniziato a scrivere una storia che ha Bach come protagonista!!! Lo amo.
Il titolo
è Subdolamente
Adorabile e
sarà prossimamente sui vostri schermi XD
E
aspettatevi che
ve lo ricordi ahah Sono curiosa di
sapere cosa ne pensate.
Alla
prossima
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Dichiarazione d’intenti ***
I’m
not a Murderer
10
Dichiarazione
d’intenti
Castor non aveva aperto bocca sin dal risveglio.
Troppe cose – o forse troppo poche – erano state
dette la sera e la notte prima.
Si
era limitato ad andare la bagno per darsi una
rinfrescata e, tornando a letto, aveva ripreso la posizione tenuta per
tutta la
notte. Sdraiato su un fianco, avvolgendo il corpo ancora addormentato
di Max,
le mani di quest'ultimo ancorate alla maglia del pigiama, i visi quasi
a
contatto e il cuscino bagnato dalle lacrime che era finalmente riuscito
a
lasciar scorrere.
Anche dopo essersi alzati, mentre Castor
preparava una rapida colazione per entrambi, non si erano cambiati
più di
qualche parola – neanche di circostanza, ma solo dei brevi
"No, sono a
posto" e anche un "Il bagno è in fondo al corridoio", a cui
Max
aveva risposto con un grugnito.
Il
tragitto in macchina era stato ugualmente
carico di silenzio e tutta quella tensione si sarebbe potuta tagliare
con un
coltello. Arrivare all'ospedale era stata quasi una tortura mentre
tutte le
scuse e le affermazioni della notte precedente aleggiavano come
fantasmi tra di
loro.
Com'era stato possibile che, dopo una sola notte
insieme, una relazione senza impegno come quella che avevano avuto si
fosse
trasformata in… quello.
Max
odiava quei silenzi.
Quando Castor parcheggiò l'auto vicino
all'ingresso, Max scese senza una parola, indugiando solo un momento
prima di
chiudere la portiera.
«Ci vediamo» disse solamente, senza il coraggio
di guardarlo negli occhi.
Castor annuì spaesato – detestava non essere in
grado di reagire – prima di far cadere gli occhi sul sedile
posteriore e
scendere a propria volta.
«Max» lo richiamò piano, seguendolo a
passo
svelto fin sui gradini «aspetta».
Arrestandosi nel gesto di salire l'ultimo
gradino, si voltò per vedere il rosso raggiungerlo e
porgergli qualcosa. A
fatica riconobbe il suo giaccone.
Lo
aveva sfilato la sera prima, quando Castor lo
aveva costretto a prendere il suo per scaldarsi.
Nell'afferrarlo si costrinse a non ricordare
l'odore dell'altro e, con un tremito, se lo infilò sotto il
braccio, accennando
ad un saluto con la mano libera.
«Grazie…» mormorò,
concentrato nel tentativo di
escludere ogni emozione. Come il ricordo delle sue braccia che lo
stringevano
mentre piangeva, il suono della sua voce che lo rassicurava e il calore
delle
sue mani mentre gli passava il giaccone.
Annuendo Castor gli fece un pallido sorriso e
tornò indietro. Max lo seguì con lo sguardo senza
mostrare la minima emozione e
si avviò verso il reparto.
Fu
solo quando, entrato nella stanza indicatagli,
vide Bach sbuffare scocciato – mentre cercava di sistemarsi
più comodamente sui
cuscini sformati dell'ospedale, la gamba ingessata tenuta sollevata e
il viso
meno segnato di quanto non fosse sembrato all'inizio – con la
tipica espressione
di sopportazione, che si permise di rilassare le spalle e sorridere.
«Fuck you,
idiot» disse nell'afferrare una delle sedie lungo
il muro per piazzarsi
accanto al letto «mi hai fatto prendere un infarto, renditene
conto».
Bach
si limitò a sorridere sardonico, gli occhi
semichiusi e intontito dai farmaci, la pelle ancora troppo pallida.
«Peccato…» mormorò con un
accenno di colore tra
le parole «potevi stare… qui. A farmi
compagnia».
Max
rise brevemente e studiò l'amico da capo a
piedi – quel poco che poteva vedere .
Aveva una vistosa fasciatura che gli copriva la
maggior parte della testa, mentre i capelli erano stati tagliati corti
per
facilitare l'operazione di sutura. Il viso era graffiato in
più punti e un
secondo bendaggio gli nascondeva gran parte del collo.
Mani
e braccia ricoperte di garze e cerotti e la
gamba destra tenuta ingessata e sollevata dal letto.
Bach
ricambiò quello sguardo preoccupato con
un'occhiata scettica.
«Piantala. Sto… bene».
«Vuoi che ti tolga la collana?» chiese allora Max,
vedendo l'ornamento ancora al collo dell'amico e – a parer
suo – dolorosamente
appoggiato alla fasciatura.
«No» evidentemente Bach doveva tenere non poco a
quell'oggetto, perché arrischiò persino ad alzare
una mano per fermare l'amico «no».
In
effetti, rifletté Max tornando a sedere, non
lo aveva mai visto senza, nemmeno in vasca. Era una semplice fascetta
in
argento o oro bianco – non avrebbe saputo dirlo.
Più di una volta si era
chiesto cosa significasse per l’amico.
Si
scosse; non era quello il momento per
pensarci.
«Non avresti dovuto buttarti in strada a quel
modo» disse solamente, nel vederlo iniziare ad assopirsi
nuovamente.
Le
ciglia – sorprendentemente lunghe e scure,
sulle guance pallide – fremettero un paio di volte prima di
distendersi.
Come
aveva fatto a non accorgersene?, si chiese,
ancora una volta.
Passando lentamente il pollice sul dorso della
mano dell'amico, osservando ogni ombra di quel viso tanto familiare, si
chiese
come fosse stato possibile, in tutti quegli anni, essere
così ciechi. Possibile
che nessuno se ne fosse mai accorto?
Lui
e Bach erano diventati compagni di squadra
quasi sei anni prima e non avevano mai avuto molto in comune. Almeno
fino a
quando Bach non si era offerto di accompagnarlo a casa una sera, dopo
che Max
si era ubriacato a sufficienza da non riuscire a reggersi in piedi.
Da
quel momento si erano ritrovati a
chiacchierare sempre più spesso, tornando a casa dagli
allenamenti o anche solo
fermandosi a mangiare da qualche parte dopo ore estenuanti passate in
vasca. Lo
aveva accompagnato a casa sua, quando era andato a trovare i suoi.
Si
era confidato, rivelandosi come raramente
aveva fatto prima.
Bach
era la prima persona che cercava quando
entrava in una stanza. Il primo ragazzo che aveva lasciato entrare in
casa propria,
il primo a cui confidava ogni cosa e l'unico con cui aveva acconsentito
a
condividere tutte quelle piccole cose che derivavano dalla
quotidianità.
Alzandosi con cautela, cercando di non
svegliarlo, rivide la scena dell'incidente e sentì il
proprio cuore fermarsi
nuovamente.
«Mi sa che ti amo» sussurrò solamente
prima di
uscire e sedersi su quelle stesse sedie rigide e fredde del giorno
prima.
°°°
Dovettero passare altre quattro ore prima di
essere nuovamente riammessi al cospetto del malato.
Malato che, a distanza di poco tempo, sembrava
anche fin troppo sano.
Bach
li stava aspettando meno accasciato rispetto
a quando Max era entrato la prima volta, con maggiore colore sulle
guance e con
l'espressione ostinata che gli era solita, senza quasi traccia di
sonnolenza.
I
gemelli lo avevano abbracciato il più
delicatamente possibile – erano tornati a parlarsi, a quanto
pareva – mentre
Dorian lo aveva stritolato tanto da obbligare Lionel a staccarlo con la
forza e
sbatterlo con noncuranza a terra, adducendo come scusa che gli stava
rovinando
la visuale.
Al
che Dorian si era alzato infuriato e
l'ennesima discussione aveva preso vita tra le risate generali e i
colpi di
tosse di Bach, ancora troppo ammaccato per piegarsi in due e svuotare i
polmoni
sulle cavolate degli amici.
Il
discorso, da allegro e scantonato qual’era
stato, al loro ingresso, si trasformò fin troppo rapidamente
in una
disquisizione sulle condizioni del malato.
«Ma tu potrai ancora nuotare, vero?» Dorian
sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.
«Non dovremo mica trovarci un nuovo
staffettista?» scherzò – ma solo in
parte – Jamie «E dove lo recuperiamo un
altro come te?»
«I medici dicono che la mia gamba non tornerà
più
come prima» disse con una calma che Max, in una situazione
come quella, non
sarebbe mai riuscito a trovare «quindi sì, dovrete
trovare un nuovo membro per
la staffetta mista».
Il
silenzio scese pesante nella piccola stanza
d’ospedale.
«È colpa mia».
Jamie e Joakim fissarono Maximillian con
un’identica espressione sconcertata.
«What are
ya fucking sayin’?» alzò la
voce Lionel, gli occhi fuori dalle orbite «Ti
sei improvvisamente ammattito?»
Il
ragazzo stava fissando il pavimento, incapace
di guardarli negli occhi.
«Cosa significa, Max?» il tono di Bach era
controllato, ma tutto nella sua espressione rigida gridava una rabbia
repressa
– a cui avrebbe dato sfogo a breve, con molta
probabilità.
Non
servì ad altro a Brook, perché afferrò
Dorian
e Lionel per le braccia, facendo un cenno secco ai gemelli, e uscirono
della
stanza.
La
linea dura delle labbra denotava ben più che
semplice fastidio, ma Max sembrò non farci caso,
perché riprese a parlare.
«Non fossi scappato a quel modo ora tu non-»
«Senti un po’» lo interruppe chiaro
l’altro,
occhi negli occhi «vorrei che la smettessi».
«Cosa?» domandò, preso in contropiede.
«Devi smetterla!» ripeté Bach frustrato
– perché
fargli capire qualcosa era veramente difficile, lo sapeva bene
«Non puoi
prenderti la responsabilità di tutto, finirai per
scoppiare».
«Ma se io non-»
«Ascoltami Max» sospirò stancamente: non
aveva
mai avuto particolare voglia di affrontare quel discorso, ma si rendeva
anche
conto di non avere molta scelta «devi smetterla di tenerti
tutto dentro. Puoi
anche esternare quello che provi e pensi. Non è un
male… e, ti prego, piantala
di colpevolizzarti per ogni singola cosa!»
«Bach-»
«Io ho deciso di seguirvi senza controllare il
semaforo. Io sono inciampato in quel fottuto tombino e sempre io ho
fatto in
modo di gettarti nelle braccia di Castor. Certo, non nego che non ci
sia stata
una vera partecipazione da parte tua, ma alla fine non ho fatto niente
per
impedirlo e ti ho lasciato solo con lui, senza spiegarti le
regole».
L'altro rimase senza fiato.
«Ti ho sentito» gli rivelò
all'improvviso,
continuando a fissarlo dritto negli occhi «quando mi hai
parlato, ieri. Quando
hai detto di amarmi».
Max
si sentì gelare e, istintivamente, fece per
alzarsi. Bach, che nonostante la lentezza dei riflessi e le medicine non era Bach
per nulla, aveva anticipato quella reazione, avvolgendogli
debolmente il polso con le dita.
«Scappare non ti porterà a niente»
mormorò
girandolo verso di sé e costringendolo a sedersi nuovamente
«quindi ora
affronteremo questo discorso, okay?»
Senza guardarlo, Max annuì, scioccato.
Non se lo sarebbe mai aspettato.
«Ma tu… non stavi dormendo?» ad averlo
saputo,
non avrebbe mai detto quella cosa. Certo, era facile parlarne con
cognizione di
causa, ora, ma era stato
estremamente
stupido.
«Non credere… che io non me ne sia mai
accorto»
esordì Bach, cercando d'ignorare il gemito di disperazione
dell'altro a quelle
parole «insomma, dal mio punto di vista. Non credo che
qualcun altro l'abbia
mai notato».
«Non me n'ero
accorto… nemmeno io» biascicò in
risposta, stringendo i pungi a disagio. Quella era una situazione
assolutamente
surreale.
«Non ci conoscevamo molto, ma da quando quella
sera ti ho portato a casa hai iniziato a fare sempre più
affidamento su di me.
Sono la prima persona a cui ti rivolgi se hai un problema, la prima a
venire a
conoscenza di tutto quello che ti riguarda. È a me che
chiedi di uscire e poi
inviti gli altri… sono tanti piccoli accorgimenti che presi
singolarmente non
significano molto».
«È parecchio imbarazzante… maledizione
Bach,
potevi dirmi qualcosa!»
«Non mi dava fastidio» Bach si strinse nelle spalle
«anche perché sono portato a pensare che quello
che provi per me non sia
esattamente "amore" come lo definiresti tu».
Quella fu la prima volta in cui Max si arrischiò
ad alzare lo sguardo.
L'amico stava sorridendo – la situazione sembrava
sempre più grottesca ogni minuto che passava e quelle bende
bianche non
aiutavano di certo. Ma Bach stava sorridendo, quindi era tutto a posto.
Forse.
«Cosa intendi?» non riusciva a capire dove stesse
andando a parare, qual discorso. Per un attimo desiderò
essersene stato zitto e
non averlo mai iniziato.
«Penso che la tua sia più che altro una grande
forma di rispetto. Una sorta di fiducia incondizionata e qualcosa di
più
dell'amicizia, ma non così
di più».
«È perché sono un maschio, che mi dici
così?» una
punta d’irritazione iniziò a farsi strada nel tono
rassegnato di Max.
Era
vero, non aveva mai visto Bach uscire con dei
ragazzi, ma non gli era mai sembrato un tipo bigotto o qualcosa del
genere. Non
dargli nemmeno una possibilità solo
perché…
«No Max. Dico così perché sei
tu» scosse la testa
«adesso ascolta e rispondimi sinceramente: quando mi vedi
cosa provi? Hai
voglia di abbracciarmi? Baciarmi?»
Cercando di non incrociare nuovamente il suo
sguardo, Max ripensò alle numerose uscite, agli abbracci
fraterni che si erano
sempre scambiati, alle feste e alle risate insieme. Cercò,
in ogni ricordo gli
suggerisse la memoria, un momento o un attimo in cui…
Amici, fratelli… non gli veniva in mente nulla.
Non una volta in cui Max aveva desiderato trasformare quello che
avevano in
qualcosa di diverso, più intimo.
Possibile che…?
«Quando mi vedevi uscire con una
ragazza…» un
colpo di tosse lo costrinse ad interrompersi per un attimo
«eri geloso?
«Ero… felice, per te» ammise
l’altro, ricordando
e iniziando a realizzare quanto avesse ingigantito la cosa, la notte
prima «oddio,
mi sento uno stupido…»
Maledetto Castor! Sempre colpa sua!
«Come ci sei arrivato? Non credo che tu ti sia
svegliato stamattina e abbia avuto l'illuminazione» Bach
sorrise condiscendente
e strinse con maggiore forza il suo polso.
«Me lo ha chiesto… Castor»
strizzò gli occhi nel
ricordare quel momento «ieri sera. Me l’ha chiesto
e ho dovuto trovare una
risposta».
«Quindi lui ha notato qualcosa» rise «si
è
ingelosito. Questo sì che me lo sarei dovuto aspettare dopo
ieri…»
«Ieri?»
«Quando è venuto a parlarmi, al negozio»
scosse
la testa divertito «avrei dovuto immaginarlo. Era
ovvio».
«Forse non è del tutto chiaro» ammise
Max
imbarazzato, sfregandosi la base del collo, insicuro su cosa dire
«ma questo
non significa che-»
«Ma insomma» lo interruppe Bach, sulla giusta via
per lanciargli il vaso da notte in fronte «ragiona, per una
volta! È vero, è
stato un bastardo insensibile, ma poi è venuto a cercarti!
Quello che sto
dicendo non è di perdonarlo subito.
Ovvio…» fece una pausa «fossi in te lo
farei soffrire un po' ma… mi è sembrato
abbastanza sincero. Magari dagli
un'altra possibilità».
«Per farmi ubriacare nuovamente e finire ancora
una volta nel suo letto?» domandò scuotendo la
testa «No grazie».
Bach
drizzò le orecchie – nella vaga speranza di
ascoltare vere rivelazioni su quella fatidica notte – e
attese pazientemente
che l'amico arrivasse ad una qualche conclusione.
«Magari potresti iniziare a ringraziarlo per
averti ospitato stanotte» gli suggerì dopo
parecchi minuti di pesante silenzio.
«E tu come lo sai?» strillò quasi,
nuovamente
colto alla sprovvista.
Bach
preferì sorvolare sulla macchina da cui
l'aveva visto scendere ore prima e della melensa scenetta nella quale
il rosso
lo aveva raggiunto per porgergli chissà cosa ed erano
rimasti a guardarsi negli
occhi per un tempo infinito. Ci teneva al suo amico e non aveva voglia
di
vederselo svenire davanti.
Non
era certo di avere la forza per chiamare
l'infermiera.
«Sai, in fondo Castor non mi dispiace più di
tanto» alzò le spalle – quanto
più le fasciature e il dolore gli permettevano –
ricordando l’espressione tormentata del rosso quanto Max di
era presentato
negozio «potrebbe anche rivelarsi una brava
persona».
«Ma per favore…» borbottò
Max, rosso in viso. Ora
che tutto sembrava essere chiarito si sentiva estremamente in imbarazzo
al
ripensare a quanto era stato detto e fatto. Che sciocco! Non ricordava
di
essersi mai sentito più in imbarazzo!
Anche se forse, quella volta… nel locale, quando
Castor lo aveva portato a ballare. Lì…
«Max, mi stai ascoltando?»
La
voce pazientemente divertita di Bach si fece
largo – fortunatamente – tra i suoi pensieri,
distogliendolo dalla possibilità
di diventare ancora più scarlatto di quanto non fosse.
«Eh?»
Mise
a fuoco l’amico, che rideva sotto i baffi.
«Non mi stavi ascoltando, Maximillian. A che
pensavi?»
Max
avvampò, ancora. Com’era possibile?
«Tranquillo» Bach agitò debolmente una
mano «non
serve che tu me lo dica, si capisce dal sorrisino scemo che hai
stampato in
faccia. Prima o poi ricordami di impedirti di fare
quell’espressione. Non è
affatto giusto che tu abbia una vita sessuale e io no».
«Io non ho nessuna vita sess-» il solo
pronunciarlo lo faceva imbarazzare. In che cavolo di era trasformato?
In una
ragazzina isterica?
Tutta
colpa
di Castor!
«Tranquillo, sei solo innam-affascinato da una
persona, niente di pericoloso» ancora una volta, Bach
sembrò rispondere ad una
domanda nella sua testa. Quel ragazzo non era un essere umano comune,
doveva
ricordarselo.
«Comunque… cosa stavo dicendo? Prima che la tua
faccia soddisfatta mi interrompesse…»
«Cosa vuoi che ne sappia?» ribatté
infastidito
l’altro, tutta via felice che la conversazione si stesse
spostando su altro «Qualcosa
su un lavoro, mi pare…»
«Ma allora qualcosa stavi ascoltando…»
lo prese
in giro.
Max
non si degnò di rispondere.
«Il fratello di Castor è stato qui stamattina,
prima che tu arrivassi, mi ha offerto un posto alla O’Connell
Corporation»
sorrise appena nel dirlo, lasciando trasparire una buona dose di
scetticismo
«anche se non ho capito esattamente
perché».
«Cosa ti ha detto?» indagò Max,
perfettamente
d’accordo con la confusione derivante da quella insolita
proposta. Come aveva
fatto Oscar – Orion, o come diavolo di faceva chiamare
– ad arrivare a Bach?
«Che gli serviva un assistente» fece spallucce
«ha detto che gli sarebbe stato utile un uomo come me ma,
ripeto, non sono
sicuro di aver afferrato appieno cosa intendesse».
«Ma come è arrivato a te?»
indagò sempre meno
convinto.
«Credo che sia stato Castor a chiamarlo»
rivelò
sorridendo sotto i baffi all'espressione stupita di Max «ho
come l'impressione
che quel ragazzo tenga a te più di quanto
immagini».
«Ma perché fare una cosa del genere?»
«Magari per ringraziarmi? O perché si sente in
colpa? Chi lo sa».
«Ringraziarti?»
«Per l'opera di influenza che sto facendo su di
te» rise apertamente «perché grazie a me
tu gli darai una seconda possibilità».
Max
avvampò.
«In ogni caso ho accettato il lavoro. È una
possibilità troppo ghiotta per lasciarsela
scappare».
Abbandonando per un attimo le proprie perplessità
e titubanze, Max ripensò alla personalità di
Oscar e alle peculiarità
dell’amico. Un calcolatore e un sadico assieme cosa avrebbero
potuto fare?
Lanciò un’ultima occhiata all’amico,
placidamente
seduto e avvolto da bianche lenzuola, un sorriso ancora più
candido sulle
labbra. Max si mosse inquieto
Oh well,
tanto
difficilmente sarebbe potuta andare peggio.
Isn’t
it?
«Dai» si sentì sollecitare alla fine da
un Bach
fin troppo giulivo «fai entrare quegli scalmanati,
così la piantano di
origliare da dietro la porta».
…
Saaaaaalve!
Come
andiamo?
Nessun
premio per
me? Non so se avete notato, ma sono rimasta sotto le tre settimane XD
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Cauti sospiri e sporadici attimi surreali ***
I’m
not a Murderer
11
Cauti
sospiri e sporadici attimi surreali
«Forse… possiamo iniziare con il conoscerci un
po’, che ne dici?»
Max
strisciava un piede per terra, osservando
ostinatamente un cespuglio alle spalle del rosso.
Sarebbe potuto andare a casa con i compagni di
squadra, ma uscito dall’ospedale, lo aveva visto salutarli e
tornare verso di
lui, raggiungerlo al parcheggio e appoggiarsi al muretto dove Castor si
era
seduto ad aspettarlo.
Quando lo aveva accompagnato in ospedale, ore
prima, lo aveva lasciato sulla porta. Gli aveva passato la giacca,
distrattamente abbandonata sul sedile posteriore, e sfiorato appena le
dita.
Poi
si era voltato ed era tornato in macchina.
Sei
ore.
Quello era il tempo passato senza muoversi.
Semplicemente aveva acceso la radio e lasciato che la musica coprisse
il
silenzio – sempre meno sopportabile – e lo scorrere
delle ore.
Solo
quando aveva visto un nutrito gruppo uscire,
si era destato dall’apatia in cui era caduto ed era sceso
istintivamente
dall’auto, preoccupato dalle condizioni di Maximillian.
O
meglio, preoccupato dall’effetto che la salute
di Bach potesse avere su di lui.
Poi
lo aveva visto ridere e si era bloccato,
improvvisamente indeciso su cosa fare.
E
Max si era avvicinato.
Concedendogli quella che sembrava – a tutti gli
effetti – una seconda occasione.
«Ma… Bach?» decisamente era rimasto
senza parole.
«Bach si riprenderà» affermò
insicuro, evitando
volutamente il doppio senso della domanda e rispondendo solo in favore
della
salute.
Mordendosi il labbro, Max decise che non avrebbe
mai, assolutamente confessato al rosso quello che lui e
l’amico si erano detti,
compresa la parte riguardante della gaffe sentimentale e tutta la
faccenda dei
pensieri indotti e presunta gelosia.
Never!
All'inizio, aveva fatto fatica a districarsi dal
groviglio di emozioni che lo avevano assalito nel momento in cui,
uscito dall'ospedale,
aveva visto l'auto di Castor parcheggiata nello stesso posto in cui
l'aveva
lasciata quella mattina.
Aveva visto l'uomo seduto, intento a scarabocchiare
qualcosa su un pezzo di carta stropicciato e aveva distrattamente
salutato i
compagni di squadra, chiedendosi con che faccia potesse ancora
presentarsi da
lui.
Con
che scusa sarebbe andato lì a parlargli.
Ma
poi Castor era sceso.
«Se non ti va non importa…» mise subito
le mani
avanti, alla vista dell’espressione stupita
dell’altro, per paura di aver
frainteso ancora un volta.
«No!» Castor non gli diede nemmeno il tempo di
finire la frase, facendo un mezzo passo avanti «no»
ripeté con maggior calma, rendendosi
improvvisamente conto di aver reagito come una ragazzina «mi
va, certo… mi
stavo solo chiedendo, sai-»
«Fossi in te non tornerei sull’argomento»
ribatté
Max, più seccamente di quanto avesse voluto «non
sai che figura!»
«Quindi voi non…» sul serio, come
diavolo faceva
a non finire nemmeno una frase? Castor avrebbe voluto prendersi a
pugni, ma il
primario istinto, in quel momento, era di mettersi a ridere come
un’idiota.
«Noi non. Punto» Max gli puntò il dito
contro «non
provare più a mettermi in testa una cosa simile approfittano
della mia
preoccupazione! Mi chiedo come cavolo farò a guardare ancora
Bach negli occhi!»
Al
che, finalmente, Castor si lasciò sfuggire una
breve risata, più leggero. Improvvisamente il mondo era
tornato a sembrargli un
posto migliore. Max, in piedi davanti a lui, sembrava ancora incerto su
come
comportarsi e lo guardava di sottecchi, tornando a strusciare la punta
della
scarpa sull’asfalto. Castor preferì trattenere
l’impulso di abbracciarlo
stretto proprio lì, sotto gli occhi dei suoi compagni di
squadra, che li
spiavano da dietro il furgoncino con cui erano arrivati.
«Senti» fece poi, vagamente a disagio, dopo un
minuto di silenzio «che ne dici di accompagnarmi a mangiare
qualcosa? Ho una
certa fame…»
°°°
Era
stato assurdamente difficile trovare un posto
per uno spuntino veloce.
Seduto dall’altra parte del tavolino rotondo a
cui un altezzoso cameriere li aveva fatti accomodare, Max stava ancora
guardando scettico il piatto di Castor.
Fast
food e paninerie erano state bocciate a priori,
ancora prima che il rosso lo invitasse a salire in macchina.
«Non mi piacciono particolarmente» era stato
quasi imbarazzato nel rivelare, facendogli cenno di entrare in macchina.
Allacciandosi la cintura – e dopo essersi chiesto
per’ennesima volta se fosse giusto, quello che stava facendo
– si chiese cosa
ci fosse di strano in una piadina veloce.
In
effetti, dovette ammettere, quella domanda
sembrava apparire sempre più spesso nella sua mente man mano
che l’auto si
allontanava dal centro, costeggiando numerosi locali e ristoranti, fino
ad un
enorme chiosco, ai margini dell’Independence Park. La
struttura in ferro
battuto, le ampie vetrate e le delicate decorazioni lo catalogavano
direttamente nel Pantheon dei bar, surclassando qualunque altro locale
fosse
mai entrato.
Anche se, di bar che servivano alle quattro del
pomeriggio del caviale marinato… non ne aveva mai visti.
Persino la sua
bistecca pareva del tutto diversa da qualunque altra avesse mai
mangiato.
E
sospettava inoltre che Castor si fosse fatto
preparare apposta quell’insalata perché,
ammettiamolo, quale sano di mente
avrebbe fatto degli accostamenti tanto azzardati?
Quindi,
trenta minuti di strada dopo, Max si trovava a contemplare una bistecca
ai
ferri con contorna di patate – per sé –
e un’insalata di melone, pere e
zucchine, insaporita con sfilaccetti di pollo impanati, cetriolini
sott’aceto,
ricotta alle erbe e scaglie di grana.
«Sei sicuro che sia commestibile?» gli aveva
chiesto, esitante, mentre Castor si faceva portare del salsa di soia
per
condire il tutto.
L’occhiata incredula che gli aveva rivolto in
risposta era stata piuttosto esauriente, ma Max si era ugualmente
rifiutato di
assaggiarlo, nonostante le insistenze dell’altro.
Presero il primo boccone dai rispettivi piatti,
studiandosi a lungo.
Castor pensava che non sarebbe mai arrivato ad
ammettere – a chiunque e soprattutto a se stesso –
di essere profondamente a
disagio. Non era abituato a quelle situazioni.
Certo, era stato lui a proporre che mangiassero
qualcosa insieme, ma era stato Max per primo a dire che andava bene,
frequentarsi un po’.
«Raccontami della tua famiglia» disse alla fine,
smettendo
di scervellarsi sulla mossa migliore. In fondo non poteva essere
così
difficile, uscire con qualcuno, no? Bisognava agire
d’istinto.
O,
almeno, così era solita ripetergli Clio.
Sorpreso da quella richiesta inaspettata, Max
arrossì.
«Non c’è molto da dire»
biascicò, rigirando un
pezzo di carne nella salsa «è abbastanza
ordinaria».
«Nessuna famiglia lo è veramente» rise
Castor «non
mi dire che ti vergogni».
«E la tua?» sviò il discorso Max
«Anche se devo
dire che un paio li ho conosciuti…»
«La mia… è un tantino sopra le righe,
lo ammetto»
rise ancora «ma non cercare di cambiare argomento!
Allora?»
«Faccio parte di una famiglia numerosa» Max si
mosse a disagio, prima di iniziare a raccontare «ci sono i
miei genitori: Julia
e Dom e la sorella maggiore di mio padre, Dora, che è venuta
a stare da noi per
un po’ dopo la morte dello zio» alzò gli
occhi al cielo come se facesse fatica
a ricordare – o, molto più probabilmente, per
sottrarsi allo sguardo fisso di
Castor, che lo metteva inspiegabilmente a disagio «ah, vengo
dall’Arizona, mi
sono dimenticato di dirtelo! Abbiamo una piccola fattoria e bene o male
ci
abbiamo lavorato tutti, anche se mia madre fa
l’infermiera».
Il
rosso si trovò a sorridere con lui, alla vista
dell’espressione dolce che aveva in volto, al ricordo dei
genitori e della
casa.
«Siamo sette fratelli – tutti maschi, riesci a
crederci? – e non saremmo potuti essere più
agitati! Mi ricordo una volta che
Liam – ah, è uno dei gemelli: Sean e Liam
– ha convinto tutti ad andare ad
imbrattare il furgone del parroco di paese – povero Padre
Gaston, quanto si è
spaventato una volta uscito dalla casa parrocchiale – con
vernice rossa. O
quando ci siamo persi nel bosco perché Sean era decisissimo
a trovare un
cucciolo di unicorno e non sarebbe tornato a casa senza di lui
– nostro padre
ci tenne a lavorare nei campi per tutta una giornata, quando
tornammo!»
«I gemelli sembrano essere parecchio…
pestiferi»
affermò Castor, cercano di immaginare due versioni
più giovani del ragazzo, e
identiche, con una copia sputata di sorrisi furbi.
Max
scosse la testa, l’imbarazzo evaporato nel
nulla.
«Non sono niente a confronto di Dominick, l’ultimo
nato. Ha solo sette anni, ma fa disperare più di tutti
noialtri messi assieme.
Eppure non si sa come, è il beniamino»
sospirò, sebbene somigliasse più ad uno
sbuffo divertito «io sono il primogenito e subito dopo di me
è nato Noah – il
genio di famiglia: sta studiando per diventare veterinario. Poi
c’è William,
che si è trasferito da me qui in città e con un
solo anno di distanza sono nati
Sean e Liam, che sembrano decisi a rilevare la fattoria»
alzò altre due dita
per la conta «e infine ci sono Ted e Dom jr, rispettivamente
di dieci e sette
anni» ridacchiò «siamo
parecchi».
«E io che pensavo che quattro fossero già
troppi»
annuì all’occhiata interrogativa
dell’altro «Orion, Clio, Eleo e io.
Quattro».
«Beh» alzò le spalle «credo
dipenda da quello che
combinate…»
«Vale rubare la macchina del Console Vaticano per
una sera e andare a rimorchiare ragazze?»
Max
lo guardò allibito, pensando che scherzasse,
al che Castor scosse la testa.
«Orion, a diciassette anni» confermò,
serissimo,
ricordando ogni singolo dettaglio di quel giorno, dal momento in cui il
fratello lo aveva spintonato di lato per uscire di casa a quando il
nonno era
dovuto andare a recuperarlo alla stazione di polizia «pensava
sarebbe stato
divertente. Il Console un po' meno, visto che ne ha denunciato il
furto».
«Non riesco quasi ad immaginarlo…»
esalò senza
fiato, ricordando la figura seria del maggiore tra i fratelli
O'Connell.
Incredibile.
«E non ti ho ancora raccontato di quando Clio ha
incollato il suo disegno sul Goya – dicendo che
così l'avrebbero ammirato
meglio – oppure quando Orion si è spacciato per il
nonno al telefono, per
prenotare una vacanza a Rajasthan con il jet privato della famiglia.
All'epoca
aveva solo quindici anni».
«Spero che
Dom non diventi così!» borbottò
angosciato – e sconcertato
dalla ricchezza di quella famiglia. Goya? Jet? Rajasthan?
Castor
sembrò riflettere su qualcosa con una punta di divertimento.
«Sai,
invece io credo di somigliare abbastanza a tuo fratello
Noah…»
Max
lo guardò interrogativo.
«Voglio dire…» cercò di
spiegarsi «anche io sono
una specie di genio».
A
quell'affermazione scoppiarono a ridere e
Castor tornò a sentirsi inspiegabilmente leggero. Era
diventato così facile… e
divertente. Perché non l'aveva mai fatto prima?
Tornando a guardare Max che finiva il suo piatto,
venne colto da un attacco di tenerezza.
Era
finalmente ovvio, il motivo per cui non
l'aveva mai fatto prima. Prima non
c'era stato Max.
Sentendosi osservato, il moro arrossì,
lasciandogli un'occhiata interrogativa a cui rispose con un sorriso.
«Senti…» il primo riprese la parola,
piegandosi
leggermente in avanti sul tavolo «è vero che hai
chiesto a tuo fratello di
assumere Bach?»
Castor si sentì inspiegabilmente
a disagio. O meglio, si sentì inaspettatamente
a disagio.
Non
è che avesse proprio chiesto a Orion di
assumere Bach… anche perché il fratello non lo
avrebbe minimamente ascoltato.
Diciamo che aveva più o meno amichevolmente messo se stesso
e Bach sul piatto
di una bilancia – lo stesso – e dall'altra parte il
suo contributo esclusivo per
un progetto per cui Orion lo arruffianava da mesi.
In
sostanza: Castor avrebbe preso parte
attivamente all'apertura di una nuova serie di… di qualcosa,
non aveva nemmeno
letto tutto il contratto, a dire il vero, e Orion si sarebbe impegnato
a dare
almeno un colloquio a questo fantomatico ragazzo.
Evidentemente, al fratello, questo Bach doveva
essere piaciuto.
In
ogni caso, non poteva dirlo a Max. Non ancora
almeno.
«Non proprio» alzò le spalle per darsi
un tono
meno impegnato «ho solo detto a Orion che c'era una persona
che avrebbe fatto
al caso suo. Sta cercando un sostituto per la sua assistente che presto
andrà
in maternità».
Nonostante il tono leggero, Max ebbe
l'impressione che non gli stesse dicendo tutto, ma preferì
sorvolare. Non
voleva certo rovinare quel momento con un'inutile presa di posizioni.
Era stato
inaspettato il piacere derivante da quella semplice conversazione.
Prima di quel momento non aveva mai avuto
occasione di parlare a Castor per un periodo di tempo sufficientemente
lungo –
e qui arrossì – ed era definitivamente contento di
aver dato retta a Bach sulla
questione della seconda possibilità.
«Grazie, comunque» ci tenne a dire.
Il
movimento della mano dell'altro poteva essere
interpretato come a sminuire la cosa.
«Non ho fatto niente. Mio fratello non è il tipo
che si lascia influenzare. Se gli ha proposto il lavoro significa che
gli è
andato a genio. Niente di più».
Niente di più? La punta di sconcerto di Max stava
diventando sempre più ampia.
Certo che aveva fatto molto di più!
Aveva trovato un lavoro a Bach. E lo aveva
inviato ad uscire. A lui, Max, non a Bach.
Castor, un ragazzo che sembrava letteralmente
vivere in un altro universo.
Il
silenzio scese nuovamente, mentre Max riponeva
le posate e osservava l'altro finire il pasto.
Non
gli era sembrata una faccenda così complessa,
quando l'aveva incontrato quella sera, nel locale. E nemmeno dopo.
«Tu di cosa ti occupi?» chiese improvvisamente,
spezzando
il silenzio. Aveva bisogno di un qualche appiglio reale, terra terra,
in
quell'incontro fuori dalla realtà.
«Scrivo, perlopiù» ammise
l’altro, rigirandosi la
forchetta tra le dita «romanzi» ci tenne a
specificare «anche se un paio di
volte ho dato il mio contributo al Daily
News e The Sentinel».
«Ma dai… sul serio?»
Uno scrittore!?
Un
vero scrittore era lì davanti a lui a finire
un'insalata di melone e… cos’altro c’era
lì dentro?
Per
un attimo Max si sentì in preda al panico.
Cioè, ricapitolando: lui, l’uomo che aveva
davanti, era uno degli eredi del fiorente impero O’Connell,
scrittore di libri
– presumibilmente
– di successo,
sfacciatamente ricco e irritante oltre che fissato modaiolo, fratello
dell’uomo
a cui aveva promesso di spaccare la faccia e che aveva appena trovato
lavoro al
suo migliore amico.
Aveva dimenticato qualcosa?
Ah,
già… era anche il primo – e unico – uomo con cui era andato
a letto.
Adesso sfidava chiunque a dire che non si
trattasse di una situazione surreale.
All’espressione sconcertata d Max, Castor aveva
annuito.
«Non so se li hai letti» alzò una mano
per elencare
«ho scritto Soul’s Color
e Sleep of Hearts. Sono due
thriller».
Max
scosse la testa. Non era esattamente il tipo
che passava le serate a leggere.
«Tra qualche mese dovrebbe uscire Morgue
Phantom. Ma non sono ancora
sicuro del titolo…» continuò allora, un
minimo scoraggiato dalla mancanza di
partecipazione da parte dell’altro.
Max
ricordò di aver letto qualche articolo a
riguardo, la settimana precedente. Per caso, ovviamente, non
perché di era
messo a cercare su internet tutto quello che lo riguardava.
Era
tutta colpa di Google.
E
Castor.
Era
sempre colpa di Castor. Specie perché non
riusciva a stargli troppo lontano.
«In realtà non è che non mi piaccia
leggere, ma
sono senza speranza» ammise – non
pensando alle informazioni rubate a internet
«perché se mi siedo con un libro
tendo ad addormentarmi».
«Questo significa che se qualcuno leggesse per
te, tu non ti addormenteresti?» rise Castor, scherzando.
Quello a cui non era preparato, invece, fu
l'espressione seria dell'altro.
«Esatto».
Un
fremito gli percorse la spina dorsale,
improvviso.
«Se vuoi, posso leggerti qualcosa» si
animò,
guardandolo da sotto le ciglia, diviso tra l’eccitato e il
timoroso «cioè… se
vuoi…»
A
Max venne da ridere alla vista di quel
comportamento infantile.
«Se hai uno dei tuoi libri a portata di
mano…»
«Nessun problema!» esclamò allegro
Castor,
balzando in piedi «Sono certo che uno dei camerieri ne ha.
Poco fa mi è
sembrato sul punto di venire a chiedermi un autografo».
Max
scoppiò a ridere nel vederlo raggiungere
l’altezzoso ragazzo che li aveva fatti accomodare e allungare
la mano, presto
riempita del peso di un volume e seguito da qualche occhiata adorante.
Prima di
tornare al tavolo con il libro – e la promessa di restituirlo
al proprietario –
vi appose una firma svolazzante tra le lusinghe del cameriere e le
risate di
qualche cliente.
«È il mio secondo manoscritto»
spiegò orgoglioso.
Max
annuì, sbirciando il titolo, scritto in lettere nere,
semplici, su sfondo
bianco e come unica decorazione una fiamma blu.
«Anima e Corpo sono mescolati, ma
non al punto tale che non sia
possibile distinguere alcune operazioni di pertinenza della sola Anima
da altre
del solo Corpo» iniziò, prima esitante e
poi sempre più convinto alla vista
di Max che si accomodava meglio per seguire la trama, cominciando ben
presto a
gesticolare dall'entusiasmo «Ci sono
volte in cui quello che ho sempre conosciuto, che mi ha fatto crescere,
che mi
ha reso l’essere che sono adesso, sembra toppo simile ad un
sogno. O ad un
incubo talmente bello da non desiderare di svegliarsi nel mezzo e, nel
contempo,
tanto effimero da crederlo una semplice fantasia. Talvolta, quando la
neve cade
e le strade sono deserte e gelate, mi ricordo tutto. E non posso fare
niente
per fuggire…»
Aveva una voce calda e
ipnotizzante.
Max,
rapito, non lo fermò
prima di due ore.
…
Lo so, non
ci sono scusanti (come sempre) per il
mio ritardo.
Ehm…
Aiuterebbe
sapere che in fondo, molto in fondo, mi
sto lapidando per questa mia – recidiva – mancanza?
…
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Un passo per volta – e dieci al secondo ***
I’m
not a Murderer
12
Un
passo per volta – e dieci al secondo
Avevano
deciso di uscire insieme, in un appuntamento vero.
Castor,
prima di lasciare che la portiera si chiudesse alle spalle di Max, lo
aveva
richiamato e gli aveva chiesto, con un’esitazione che non gli
era solita, se
avesse ancora voglia di uscire con lui, la settimana successiva.
Per
una
cena.
Max
aveva esitato.
Stava
per chiudersela alle spalle – se lo ricordava perfettamente,
come se ogni
secondo si fosse dilatato permettendogli di percepire ogni dettaglio
– dopo un
saluto veloce e un viaggio silenzioso.
Era
rimasto per ore ad ascoltarlo leggere, a sentire e vivere la storia di
Yuri
Stasov, un ragazzo come tanti che sceglie volontariamente di vivere un
inferno
per soddisfare il suo più grande desiderio. Si era perso
nella voce profonda
che disegnava, nella penombra del bar, di assassini
senz’Anima, fughe per la
Russia e relazioni segrete senza riuscire ad esprimere le sensazioni
che quella
storia gli aveva provocato.
Quando
l’aveva conosciuto, aveva avuto l’impressione che
fosse solo uno dei tanti
figli di papà che si divertono a ridicolizzare la gente; poi
aveva creduto che si
trattasse di uno stronzo figlio di puttana che si diverte a giocare con
il
prossimo. Ne aveva conosciuto un lato inaspettato, alla fine, quando si
era
precipitato da lui mentre era al capezzale di Bach, quando lo aveva
rassicurato
e lo aveva stretto tutta la notte. Era rimasto stupito quando aveva scoperto che non se n'era andato,
rimanendo ad aspettarlo
fuori dall’ospedale e si era sentito sciogliere il cuore
– come una maledetta
ragazzina, shit – quando,
esitante,
gli aveva chiesto una seconda possibilità.
Solo
una cena, aveva detto. Senza impegno, proprio come quel pranzo.
L’avevano
fissato per due sere successive e poi, senza un altro saluto, aveva
fatto
ripartire la macchina, lasciandolo in uno stato di perenne agitazione.
Dal
momento in cui mise piede sul pianerottolo – quando suo
fratello William lo
aveva superato a tutta velocità blaterando qualcosa su- no,
proprio non lo
ricordava – fino a quando Castor lo aveva chiamato per
mettersi d’accordo
sull’ora, era rimasto in uno stato di calma apparente, mentre
il suo cervello
continuava a ripetere le stesse parole a ciclo continuo.
Cosa
stava succedendo? Cioè, stava davvero
succedendo?
Ora,
Castor non sembrava aver mai dato l’idea di volersi impegnare
in qualche modo –
più o meno seriamente – ma il fatto che,
sorvolando sulla notte di… su quella
notte, lo avesse invitato ad
uscire per un appuntamento - un appuntamento vero - doveva pur
significare
qualcosa.
Max
non
era uno sciocco – sebbene una buona parte delle sue
conoscenze pensasse il
contrario – aveva capito di essere rimasto affascinato da
Castor.
Che
fosse un maschio non era mai stato un problema – insomma, era
stato cresciuto
in una di quelle comunità aperte sin da piccolo e riguardo
ai pochi dubbi che
si fosse mai posto prima, Castor li
aveva spazzati via, spiegandoglieli in modo molto pratico. Semmai le
sue
preoccupazioni erano legate ad altro. Il fatto che fosse la prima
relazione
seria da anni, che tutto stesse procedendo troppo in fretta. Persino
che si
trattasse di un ragazzone ricco e viziato poteva essere fonte di dubbi!
Dove
lo
avrebbe portato? Non aveva vestiti adatti per una serata.
Magari
sarebbero andati a fare un giro di shopping nel suo negozio, per farlo
preparare al meglio. Fece una smorfia, al ricordo.
Si
era
accorto che l’ansia aveva iniziato a raggiungere livelli
preoccupanti quando si
era reso conto di stare prendendo in considerazione la
possibilità di
introdursi a casa di Dorian – che aveva più o meno
la sua stessa taglia – e
fare incetta del suo armadio, ben più fornito.
Dove
diavolo avrebbe trovato un completo decente nella risma di maglie e
jeans che
affollavano i suoi cassetti?
Era
rimasto
sorpreso, quindi, quando aveva ricevuto un SMS da pare di Castor in cui
gli
diceva di aver prenotato, chiedendogli di passare a prenderlo intorno
alle sei.
Strano
era strano: in che locale avrebbero avuto il coraggio di presentarsi
con la sua
vecchia Ford? A giudicare dai bar che l’altro era solito
frequentare, avrebbero
fatto una figuraccia.
Perciò
– dopo essere rimasto almeno venti minuti (dico, venti
minuti!) davanti ai
cassetti per decidere cosa mettere – aveva guidato seguendo
le indicazioni ricevute
e aveva parcheggiato – Dear
God, come si sentiva fuori posto
– ai
piedi del maledetto edificio, il cui attico era proprietà
del suo appuntamento.
Aveva
riso tra sé; faceva strano sentire quei pensieri, persino
nella sua testa.
«Che
hai da ridere?»
La
voce
di Castor lo aveva riscosso e lui si era sporto per aprire la portiera
– la
maniglia esterna aveva il piccolo difetto di non sbloccarsi due volte
su tre.
Se si fosse aspettato di essere preso in giro per la sua mise, venne
deluso. Castor
lo aveva salutato, scostandogli un ciuffo ribelle, sorridendo, e
chiedendogli
cosa avesse fatto.
Provando
a rilassarsi, Max si lanciò in una dettagliata, quanto
intricata, cronologia
della settimana appena trascorsa.
°°°
Doveva
aver parlato con qualcuno. Ne era certo.
Bach
forse – quei due sembravano un po’ troppo amici per
i suoi gusti – oppure
Lionel. Persino Dorian o Brook sarebbero stati tra i sospetti, se solo
non si
fossero trovati a Oklahoma per un festival. Poi c’erano Jamie
e Joakim. E chi
altro?
Altrimenti
come avrebbe fatto Castor a sapere che quel ristorante – una
bettola che faceva
solamente carne alla griglia – fosse il suo preferito?
Lo
aveva scovato appena un mese dopo il suo arrivo a Philadelphia: memore
di aver
sentito un buon odore in quella via, la prima volta che ci era passato,
lo
aveva seguito fino a trovarsi alla porta del "Inner
Pub", con l'acquolina in bocca e il suo primo stipendio
in tasca.
Poi,
in
seguito, vi aveva portato tutti i suoi migliori amici e compagni di
squadra;
perciò… chi era stato? Con chi aveva parlato?
In
quel
momento, proprio mentre stava stilando un elenco di persone a cui
togliere il
saluto, Castor gli aveva allungato la lista e aveva fatto una battuta
sulla
grandezza delle costate. E che potevano dividerne una, se Max ne avesse
avuta
voglia. E che avrebbe chiesto solo peperoni come verdure grigliate,
niente
cipolle.
Da
quel
momento in poi tutto era diventato confuso, in modo incredibile.
Una
volta aveva provato una canna – okay, forse pure due o tre. E
un paio di
bicchieri di whiskey – e la sensazione di luminosa euforia
era più o meno la
stessa. Sebbene l’erba non avesse dato alcun effetto di
costrizione allo
stomaco e calore tremante alle mani.
Avevano
riso, parlato – davvero, non riusciva a ricordare di cosa – e avevano vissuto il
momento.
Tre
ore. Avevano passato insieme tre ore che gli erano sembrate appena
venti minuti.
Poi,
ancora una volta, erano saliti in macchina e, dopo una maldestra
manovra per
uscire dal parcheggio, si erano diretti verso casa di Castor.
I
sedici
minuti più lunghi della sua vita.
«In
fondo» sentì la propria voce spezzare il pesante
silenzio che era tornato,
appena rientrati in macchina «non è stato poi
così male».
«No,
non è stato male» concordò l'altro, con
un sorriso «mi sono divertito»
«Anche
io!» si affrettò dire, facendolo scoppiare in una
risata.
Il
moro
sorrise, chiedendosi come mai non si sentisse offeso per la palese
presa in
giro. Era tutta la sera che se lo chiedeva, veramente. All'inizio della
serata
si erano rivolti la parola con cautela, quasi con circospezione, come
se
temessero di mancare di rispetto o rovinare quella seconda e
inaspettata
occasione. Poi, poco a poco, le battute e le insinuazioni scherzose
avevano
cominciato a prendere piede fino a quando non si erano trovati a non
poterne
fare a meno, prendendosi in giro a vicenda.
Gli
sarebbe mancata quell'intesa.
Aveva
ancora quel sorriso sulle labbra quando si sentì chiamare
dal finestrino
abbassato.
«Max».
Il
moro
si sentì quasi patetico nel lanciarsi verso il sedile del
passeggero, in attesa
che Castor dicesse altro.
«Si?»
domando, schiarendosi la voce nel tentativo di mostrarsi calmo.
Il
rosso
parve esitare prima di chinarsi verso di lui.
«Vuoi
salire?»
°°°
In
piedi, accanto alla porta d’ingresso, Max si chiese ancora
una volta cosa diavolo si fosse
messo in testa. Le voci
che l’avevano tormentato per tutti e due i giorni precedenti
erano tornate
prepotenti, facendogli riconsiderare il proprio livello di idiozia e
masochismo.
Cosa
diavolo si aspettava, ancora? Che dopo la seconda notte –
perché era certo che
ci sarebbe sta una seconda notte, glielo dicevano le sue gambe
tremanti, il
nodo allo stomaco e il calore nel bassoventre – lo avrebbe
trattato un po’
meglio, alle luci rivelatrici dell’alba?
Osservandolo
armeggiare con le due serrature e il codice di blocco – non
era solo blindata,
era anticarro, quella porta! – osservò la schiena
di Castor.
Era
una
delle cose che aveva notato di lui (sorvolando sui vestiti e i capelli
cangianti) visto che al loro primo incontro il rosso era di spalle. Non
erano
particolarmente larghe, non come quelle di un nuotatore, ma erano solo
la
sommità della lunga curva della schiena, fasciata in una
camicia aderente e
temporaneamente nascosta da una giacca in pelle camoscio.
Ma
da
quando cavolo conosceva il colore camoscio?
Aveva
pensato sin da subito che fosse attraente, ma al tempo non aveva avuto
idea del
carico di emozioni e coinvolgimento che sarebbero seguiti.
Per
un
attimo ebbe la tentazione di domandargli cos’altro
nascondesse dietro quel bel
corpo e la faccia da schiaffi.
«Mi
dici una cosa?» chiese invece, giocherellando con la cerniera
della giacca «Chi
ti ha consigliato quel posto?»
«Nessuno,
pensavo solo ti sarebbe piaciuto. E ho avuto ragione» gli
sorrise fugacemente,
distogliendo appena lo sguardo dalle chiavi.
«No,
dai. Sul serio»
«Guarda
che dico davvero» rise, decisamente più rilassato
«ci sono capitato per caso
qualche anno fa. Stavo lavorando al primo romanzo e avevo dimenticato
le chiavi
in casa e stavo morendo di fame! Avevo passato l’intera
giornata al pc, in un
parco, e stavo letteralmente sbavando. Poi ho sentito questo delizioso
profumino di carne che… ti lascio immaginare!»
Con
uno
scatto l’ultima serratura venne aperta e Castor la
spalancò per farlo passare
per primo.
«Avanti»
lo esortò scherzosamente.
Nel
passargli accanto, Max percepì distintamente
l’odore di more e pelle
caratteristico dell’uomo e strinse i pugni in una morsa,
sentendosi attratto
come non mai. Cercando di calmarsi lo imitò posando la
giacca all’ingresso e
seguendolo in cucina.
«Vuoi
qualcosa da bere?» diede una pacca allo sgabello
più vicino, chiedendogli
implicitamente di sedersi.
«Ho la
gola secca» confermò, accomodandosi.
«Ecco,
tieni» gli passò un bicchiere, pieno di un liquido
ambrato.
«Whiskey?»
domandò diffidente. Ricordava vagamente l’ultima
volta in cui aveva bevuto. Nel
senso che ricordava di aver bevuto ma non di come si fosse ritrovato
rantolante
in bagno.
«Sherry».
«Ah,
beh» annuì scettico, rigirandoselo tra le mani e
prendendone un sorso. Buono.
«Scusa,
tu non bevi?»
«No,
cioè, bevo certo. Ma non reggo molto»
ridacchiò, prendendone un altro, le
guance improvvisamente rosate «anzi, non reggo per
niente».
«Sarebbe
divertente starti a guardare» Castor ammiccò,
prendendogli il bicchiere e
bevendo un sorso, ignorando il mormorio risentito che gli
rifilò Max. Era stata
una cosa stupida, si disse restituendoglielo, poggiare le labbra dove
un attimo
prima erano state quelle dell'altro.
«Affatto»
lo contraddisse, vuotando il rimanente prima di posarlo sul bancone
«sono stato
malissimo. Un bicchiere o due posso anche reggerli, ma se vado oltre mi
ritrovo
a vomitare nel bagno più vicino».
«Allora
vediamo di evitare» Castor lo prese e lo mise nel lavandino,
facendo sparire la
bottiglia in qualche anfratto della cucina «è
stata una bella serata fino ad
ora, non vogliamo rovinarla, no?»
Per
un
attimo Max rimpianse di non avere più tra le mani qualcosa
che lo facesse
sentire meno idiota. Non sapeva cosa farsene, con tutte e dieci le dita
libere.
Castor
sembrò provare un perverso piacere nel vederlo a disagio,
nel suo territorio.
Una sorta di piccola vendetta per quello che era stato costretto a
passare
nella settimana precedente.
Max
non
si rendeva conto – che diamine, lui stesso non riusciva a
rendersene conto! –
dell’effetto che gli faceva. Lo vedeva sedere rigido e poteva
avvertire il
movimento dei muscoli sotto la maglia scura e il serrarsi delle gambe,
poteva
percepire il contrarsi dei fasci nervosi delle cosce – aveva
un preciso ricordo
di quelle cosce, strette attorno ai suoi fianchi – nascosti
dai jeans lisi. Si
leccò le labbra.
Persino
da quella distanza sentiva il cloro, penetrante nelle narici.
Era
stata una tortura tenere le mani a posto, mentre rideva e scherzava con
lui
durante la cena. Era stato felice, in quelle ore, ma non completo.
Avrebbe
voluto stringergli le mani mentre si tormentava le dita, leccargli via
lo
sbaffo di ketchup dalle labbra mentre mangiava e chiudergli la bocca
con la
propria mentre scoppiava ridere.
Chissà
se gli avrebbe dato il permesso di farlo, prima o poi, anche se questo
avrebbe
significato più di una semplice relazione fisica, molto di più.
Guardandolo
di sottecchi si chiese se Max avesse preso in considerazione quel di
più,
nell’accettare un altro appuntamento,
e
anche il motivo per cui la cosa gli facesse piacere.
Poi
si
accorse che l’attenzione del moro era rivolta verso la porta
più vicina, socchiusa, dalla
quale si intravedeva un
bracciolo chiaro. Con una fitta lo vide scendere dallo
sgabello e
muovere qualche passo verso la porta, come ipnotizzato.
«Me lo
ricordo» il tono di Max sembrava appena più roco
del solito, mentre entrava nel
salotto – che la colf aveva diligentemente riordinato un paio
di giorni prima –
e si spostava verso un mobile grande quanto una piattaforma per
elicotteri,
foderata di tessuto pregiato «il divano».
Castor
sorrise, chiudendo istintivamente gli occhi, e lo seguì, pur
rimanendo a
distanza.
«L'ho
fatto arrivare dall'Italia» mormorò piano,
accarezzando uno dei cuscini, senza
perderlo di vista «mi è costato una fortuna, ma ne
è valsa la pena».
«Esagerato»
anche Max tenne la voce bassa «il mio l'ho comprato usato da
qualche
rigattiere, ma mi piace lo stesso».
«Mi
piacerebbe provarlo».
Trattenendo
il fiato, Max si sedette al centro del divano, sprofondando nella
morbidezza
dei cuscini e sentendo tra le dita la trama morbida e liscia delle
fodere.
«Ne
rimarresti deluso, a confronto di questo».
Stargli
lontano stava diventando quasi doloroso e Castor odiava il dolore; si
mosse
dalla postazione tenuta fino a quel momento, alle spalle, per
arrivargli di
fronte.
«Come
mai?»
«Il mio
è bitorzoluto e più… duro»
Max esalò le ultime sillabe con un sospiro eccitato,
scombussolato dalla vicinanza dell'altro e dal suo profumo, che era
tornato a
riempire le sue narici come quella notte, prepotente e intossicante.
Persino
guardarlo lo faceva sentire agitato: le pupille erano dilatate e
lucide,
nascondendo completamente l'iride e la bocca era socchiusa, come in
attesa che qualcuno
la chiudesse.
«Mi
piace» anche la sua voce era diventata scura, ruvida e roca,
mentre gli si
avvicinava di un altro passo, come non riuscisse a stargli lontano
«mi
piacerebbe provarlo» ripeté
«sprofondarci».
Max
serrò le palpebre. Non stava più parlando del
divano.
«Hai le
pupille grandi come piattini da the» a quelle parole il moro
si costrinse ad
aprire gli occhi e a fissarlo sconvolto «mi piace come mi
guardi, mi piace
vederti seduto nel mio salotto. Mi piace averti ancora qui».
«Castor…»
provò a dire, tirandosi leggermente indietro.
«Cosa,
Maximillian?» senza accennare a fermarsi, Castor si
chinò su di lui, posando un
ginocchio sulla fodera tra le gambe socchiuse di Max.
L’altro
aprì e chiuse le labbra, completamente dimentico di quanto
avesse provato a
dire prima. La bocca era troppo vicina, gli occhi fissi nei suoi e il
fiato
bollente che s’infrangeva sul proprio.
Se
Castor aveva trovato difficile stargli lontano in precedenza, ora lo
trovava
totalmente irresistibile. Poteva avvertire il tremore
dell’altro tanto quanto
il proprio quando alzò le mani per sfiorargli la maglia,
facendo scorrere le
dita sulle cuciture delle maniche prima di afferrargli l’orlo
e sfilargliela,
facendo scorrere le nocche sulla pelle tesa.
Sotto
non portava niente.
«Castor»
tentò nuovamente, umettandosi le labbra e sporgendosi in
avanti. La tensione
stava diventando insopportabile e se il rosso non lo avesse baciato
subito,
sarebbe impazzito. Ma l’altro sorrise e gettò
l’indumento a terra, continuando
la lenta tortura con cui lo stava accendendo. Le dita pallide
continuavano a
scorrere, una per bloccargli la spalla e impedirgli di muoversi e
l’altra per
premere inaspettatamente sul cavallo teso dei suoi pantaloni.
Per
poco Max non si lasciò sfuggire un urlo.
«Ssh»
gli soffiò direttamente sulle labbra, pur continuando a non
toccarle. Lo
avrebbe torturato finché avesse avuto la facoltà
mentale per farlo e poi, solo
poi, avrebbe baciato fino a fargli perdere il respiro e la ragione. Gli
avrebbe
persino fatto dimenticare il suo nome, da quanto lo avrebbe fatto
godere.
Si
bevve ogni singolo gemito, singulto e tremito mentre gli sfilava i
jeans con
lentezza, facendo scorrere la lingua nell’interno coscia,
slacciandogli le
scarpe e sfilandogli le calze. Lasciò cadere il tutto,
tornando a far scorrere
i palmi sulla pelle man mano che risaliva, in una rude carezza.
Posò
con delicatezza le labbra sul mento, premendo leggero, donandogli poco
più di
una pressione. Gli mise le mani sulle spalle, sentendo le dita di Max
stringersi di riflesso sulle proprie, e si allontanò lo
spazio necessario per
tornare ad appoggiare nuovamente la bocca su quella pelle bollente,
lungo il
collo, centimetro dopo centimetro.
Leccò
con forza l’incavo della gola, facendogli emettere un gemito
profondo. Castor
gli sorrise sulla clavicola, aspirando quel suo odore che tanto lo
aveva attirato
quella volta, nel camerino, quella che sembrava una vita prima.
Tornò a
muovere le mani – mentre quelle dell’altro
rimanevano ancorate alle sue spalle
– facendole scorrere sulla pelle liscia, lungo il petto,
sfiorando appena i
capezzoli. Scese delicato lungo ogni costola, sulla linea del fianco,
posandosi
con maggiore forza sul sedere. Strinse le dita e lo baciò
sull’addome.
Max
si
dimenò appena, sentendo un calore improvviso salirgli dal
ventre. Si sentiva alla
grande. Si sentiva accaldato.
Incapace di mantenersi dritto,
rovesciò la testa indietro e il corpo la seguì.
Seguendo il movimento
dell’altro, Castor lo fece adagiare sulla schiena e
spazzò via i cuscini con un
braccio, senza staccare la bocca dall’ombelico, affondandoci
ritmicamente la
lingua e facendolo gemere. I ricordi della loro prima volta gli si
ficcarono in
testa, rendendogli impossibile smettere di gemere, ricordare e godere
quanto
Castor gli stava donando.
Poi
la
sua bocca iniziò a vagare decisa dallo stomaco al ventre,
stringendolo piano.
Seguendo
il suo istinto, Max gli infilò una mano nei capelli,
tirandoli e gridando a
pieni polmoni il suo nome.
Fu
un
attimo: Castor tornò alla sua altezza e gli
afferrò la nuca, facendo finalmente
combaciare le loro labbra e insinuandovi con prepotenza la lingua tra
quelle
martoriate di Max. Lo costrinse a chinare la testa
all’indietro per la foga del
bacio e lo approfondì senza freni, lasciando che un rivolo
di saliva scendesse
lungo le loro gole, sui loro petti. Gli si schiacciò addosso
infilando una
gamba tra le sue e strusciandosi su di lui.
Si
sentiva perdere il controllo e la cosa gli stava bene. Si sentiva
soffocare e
quell’odore di cloro lo faceva delirare al punto tale da
desiderare di fondersi
con quella pelle bollente e leggermente ruvida.
Max
si
mosse nelle sue mani, contro il suo petto e tra le sue labbra, e Castor
perse
quel poco di raziocinio che gli era rimasto. Aveva bisogno –
doveva sentirlo
ancora su di sé. Doveva – voleva
sentire solo lui.
Erano
passati giorni dalla prima volta in cui aveva assaggiato il suo sapore,
e non
riusciva più a farne a meno.
Senza
aspettare un secondo di più gli afferrò alla
cieca l’elastico dei boxer e glieli
sfilò fino alle ginocchia, trovando insopportabile
l’idea di staccarsi da quel
bacio, fosse anche solo per liberarlo da quell’unico
indumento che ancora lo
separava da lui.
«Castor»
Max mugolò nel riprendere respiro, tornando ad aprire gli
occhi, lucidi di
piacere.
L’altro
non gli permise di aggiungere altro e strattonò
l’indumento fino a quando non
riuscì a sfilarlo del tutto, lanciandolo da qualche parte
alle spalle e
salendogli a cavalcioni, curvandosi in avanti per approfondire
ulteriormente il
contatto tra le loro lingue.
Riprendendo
fiato, Castor leccò della saliva che era colata sulla
guancia di Max.
Vedendolo
tanto accaldato, aperto e pronto per lui – con
quell’espressione di vacuo
desiderio e perso nei suoi occhi –, Castor lo
abbracciò di slancio, affondandogli
le mani nei capelli e il viso nell’incavo della spalla.
«Finalmente».
Suo.
Ancora.
…
Ahehm, hi dears!
Ora,
sorvolando sull’immane ritardo per
l’uscita di questo capitolo e farò del mio
meglio con il prossimo… vorrei dire che-
Va bene, lo
ammetto, mentre sto scrivendo queste righe, sto
anche guardando un episodio di The Mentalist e mi sono appena
distratta,
dimenticando irrimediabilmente cosa avessi voluto dire con la frase
precedente.
Che idiota
vero?
Non so
esattamente cosa volessi dire. Forse una qualche
sviolinata sul fare meglio per il capitolo successivo, oppure che il
rating è
arancio e non rosso e quindi temo che non ci sarà un seguito
dettagliato su
quanto appena interrotto qualche riga sopra. O magari era per
comunicare che ho
intenzione di rivedere e correggere la storia che ho scritto un paio di
anni fa
(guarda caso, proprio quella citata, il cui protagonista è
Yuri Stasov).
Non ricordo
con sicurezza.
Chiedo
perdono.
Perciò
ora… chiudo qui. Buona serata cari e care XD
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Risvegli di routine ***
I’m
not a Murderer
13
Risvegli
di routine
Svegliarsi finalmente riposato,
sebbene dolorante, sembrava essere una manna dal cielo da un paio di
settimane
a quella parte.
La
luce che filtrava dalle
persiane era ancora chiara e l’unico rumore sembrava essere
quello degli
uccellini che cantavano appena fuori dal vetro.
Per
un attimo si chiese se non
fosse un sogno.
Ancora pochi secondi, si disse,
e la pace che stava provando si sarebbe infranta, schiacciata dal peso
della
realtà.
Castor che lo aveva così
barbaramente tradito – tecnicamente gettato via come uno
straccio e ignorato,
ma che diamine, concedetegli un po’ di licenza poetica. Bach
finito sotto un
camion e bloccato a letto, la carriera stroncata. Il campionato sempre
più
lontano.
Sospirando fece per tirarsi su,
domandandosi come avesse fatto a dimenticare le persiane aperte, lui
che non le
sbloccava mai, socchiudendo gli occhi per abituarsi alla luce, ma un
peso
inaspettato lo costrinse a ricadere sul letto.
All’altezza del viso, a pochi
centimetri dal suo naso, un paio di iridi azzurre lo fissavano.
Chiuse gli occhi per un intenso
istante e quando li riaprì si trovò ancora nella
camera color crema, tra
pregiate lenzuola di seta – parecchio stropicciate
– e un braccio caldo
possessivamente avvolto attorno al torace.
«Dove pensavi di andare?» la voce
di Castor era roca.
«Ehm…» cosa doveva dire? Come
la volta precedente: c'era un codice di comportamento da seguire?
Il
ricordo di come era andata a
finire non gli
ispirava molta fiducia.
«Hai una ruga» l'altro lo girò
verso di sé posandogli un dito tra le sopracciglia,
«non dovresti farlo,
invecchierai più velocemente».
«Mi stavo solo-»
«So a cosa stavi pensando. Non
serve» quella frase seccata gli sembrò
assurdamente tranquillizzante.
«Volevo andare in bagno»
rettificò velocemente.
«Puoi andarci dopo» brontolò,
tirandoselo contro e chiudendogli il petto in una morsa. Probabilmente
Max
avrebbe potuto liberarsi da quella presa se avesse voluto, ma
preferì aderire
ancora una volta a quella schiena, sapendo che finché
fossero rimasti così
sarebbe andato tutto bene.
«Hai impegni?» lo sorprese.
Pensava che Castor sarebbe rimasto in silenzio il più
possibile, esattamente
come lui.
«Pensavo di tornare in
ospedale» confessò, sentendo l'ormai familiare
senso di colpa che lo
attanagliava al pensiero della disavventura dell'amico.
«Possiamo andarci oggi
pomeriggio, se ti va» si era immaginato quella nota incerta?
«Sono certo che
stamattina verrà assediato dai vostri compagni».
Gemendo per l'imbarazzo affondò
la faccia nel cuscino. Sarebbe stato un agli allenamenti: Joakim
e Brook lo avrebbero risparmiato –
forse – ma Dorian e Lionel avrebbero fatto di lui…
God, non voleva nemmeno pensarci.
Sarebbe diventato la vittima
designata.
Se
non altro avrebbero smesso
di considerarlo un verginello. Non lo era più, decisamente,
da nessuna delle
due… parti.
«Stai andando in
autocombustione» osservò Castor nel sentire la
pelle di Max riscaldarsi. Quando
tornò a voltarsi vide che aveva le guance in fiamme.
«Tu non sarai il bersaglio dei
miei compagni» biascicò con le labbra premute
sulla sua spalla.
«Perché sei stato con un uomo?»
«Che centra?»
«Cerco di capire di cos'hai
paura» rivelò, sorprendendolo con la sua
schiettezza. Quella docilità lo colse
alla sprovvista: il momento di sospensione dalla realtà
stava durando molto più
a lungo di quanto si sarebbe aspettato. Quando sarebbe arrivato il
momento in
cui sarebbe dovuto uscire da quella porta?
Eccolo il panico che faceva
ritorno.
«Mi daranno del pappamolla o
dello smidollato. Ci sono cascato ancora».
«In uno scherzo?»
Max
non riusciva a capire se
facesse finta di non sapere o proprio non riusciva ad arrivarci.
«A letto con te» sbottò alla
fine. Rimase immobile, in attesa di sentire la stretta allontanarsi.
Sapeva
dove come sarebbe
finita nonostante
tutte le belle parole del giorno prima. Era ancora lo sciocco
provinciale che
era stato mollato da Tiana – la sua unica ex.
«Perché non hai ancora
abbastanza esperienza per soddisfarmi?» scherzò
nuovamente. Fu Max a liberarsi
da quell’abbraccio, sconcertato.
«Fai finta di non capire?»
«Sei tu che non capisci» lo
interruppe duramente. «Non ti butterò fuori. Non
lo farò».
«Ma io dovrò andare a casa
prima o poi» non voleva sperarci.
«Quando te ne andrai saprai
anche che potrai tornare» lo fissava diritto negli occhi per
assicurarsi che capisse
quanto gli stava dicendo.
«Per un'altra cena?» non
avrebbe davvero dovuto sperarci, ma glielo stava dicendo piuttosto
chiaramente.
«O per un tea. Per una
chiacchierata. Per passare una bella giornata»
tornò ad avvicinarglisi e
strusciò il naso sul suo petto, allungandosi pigramente su
di lui. «Potrei
persino darti una copia delle chiavi».
«È… ci conosciamo appena. Non
dovresti fidarti del primo che passa» sentiva sempre
più un groppo in gola.
«Se dovessero mancarmi delle
stoviglie saprei già il colpevole».
Quel
momento angosciante si era
rapidamente trasformato in qualcosa di tenero. E inaspettato. E
bellissimo.
«E i tuoi fratelli?» gli
accarezzò i capelli con dolcezza, finalmente in pace.
«Rubano solo vestiti. Tu non lo
faresti mai».
Risero, rotolandosi fino
all’estremità opposta del letto, dove Max
costrinse Castor sulla schiena,
bloccandogli i polsi. Il rosso mugolò, divertito da
quell'iniziativa. Era
andata bene.
Molto meglio di quanto si
sarebbe mai aspettato.
«Cos’hai in mente?» fece le
fusa senza provare a riprendere il controllo.
«Fare colazione» stette al
gioco, arrossendo. Forse non era così disinvolto come
avrebbe voluto essere, ma
era un buon inizio. Un inizio dannatamente buono!
«Serviti allora» lo provocò,
leccandosi le labbra.
Che
ci provasse. Non vedeva
l’ora.
«Castor, sei nudo? Non voglio
entrare e vedere i tuoi gioielli al vento!» una voce
purtroppo conosciuta
arrivò attutita dalla parte opposta della casa, distruggendo
quello che sarebbe
stato un momento meraviglioso.
«Cosa…» Max si ritrasse come se
si fosse scottato, sedendosi sul bordo, mentre Castor si sollevava con
un
sospiro disperato.
«Devo toglierle quelle
maledette chiavi».
«Verrà qui?» Max si guardò
intorno come a valutare l’ipotesi di nascondersi sotto il
letto.
«Non lo farebbe mai» non sembrava
molto convinto. «Vado avanti io. Tu trova qualcosa da
metterti».
La
richiesta lo lasciò
spiazzato. Il volto impietrito di Max cercò quello
assurdamente rilassato di
Castor. Si rendeva conto di quello che gli stava chiedendo? Sarebbe
dovuto
tornare in quella cucina, davanti a quella donna, come se nulla fosse
successo?
«Forse è meglio che vada a
casa» c’era solo da immaginare cosa sarebbe
successo se si fosse presentato
anche l’altro fratello.
«No» lo guardò negli occhi per
fargli capire. «Vestiti, la colazione ti aspetta».
Max
chinò il capo, nascondendo
il viso tra quelle ciocche rosse ribelli. Gli stava venendo voglia di
piangere
come una femminuccia.
«Muoviti, non voglio che ti
veda nudo» Castor svicolò imbarazzato prima di
raccattare qualcosa da terra e
svanire dietro la porta.
Max
rimase ancora per un attimo
a godersi il momento prima di passare al problema successivo: dove
diavolo
erano finiti i suoi vestiti? Frugando tra la stoffa sul pavimento si
rese conto
che i suoi abiti dovevano proprio gradire il salotto.
Sbirciò dallo stipite,
controllando che non ci fosse nessuno in corridoio –
ignorando le battute dalla
parte opposta della casa – e scivolò dentro la
sala, inciampando immediatamente
nel mastodontico cuscino del divano. Era un casino lì dentro.
Recuperò i jeans dallo
schienale – non aveva idea di dove fossero finite le mutande
– e la maglietta,
decidendo che la camicia sarebbe stata bene dov’era,
incastrata sotto i
cuscini.
Dallo spiraglio della seconda
porta poteva vedere Castor entrare e uscire dal suo campo visivo,
impegnato in
chissà cosa, una volta persino seguito da uno straccio
volante.
Fu
quando alzò lo sguardo –
cogliendolo a fissarlo di nascosto – che si
obbligò ad uscire. Avrebbe smesso
di essere vigliacco, lo giurava. E si sarebbe preso la meritata
rivincita.
Basta nascondersi.
«Buongiorno».
Sperò di non sbagliarsi nel
vedere un lampo di orgoglio negli occhi di Castor.
Clio
si illuminò, sfoderando il
più largo sorriso che avesse mai visto su una ragazza.
«Ciao» cinguettò felice,
scendendo dallo sgabello saltellando – era parecchio bassa,
molto più di quanto
si aspettasse: gli arrivava sì e no al torace. Incredibile
come una cosetta
tanto piccola potesse essere tanto molesta.
«Ciao» fece di rimando, impreparato
a quella reazione.
«Oggi sei vestito» constatò,
atteggiando la bocca in una smorfia contrariata, facendolo –
chissà come –
sentire in colpa per essersi messo la maglia e ancora più
nudo di prima.
«Giù le mani» intervenne
Castor, passandogli accanto per raggiungere il tavolo e strizzandogli
una
natica, «lui è mio!»
Max
scattò appena, ma Clio non
sembrava essere dispiaciuta quella dimostrazione di possesso,
perché rise
ancora più forte e gli diede una pacca sul bicipite.
«Questo significa che Eleo
aveva ragione. Sta arrivando, perché tu lo sappia:
è in macchina con Oscar. Hai
preparato la colazione?»
«Che cazzo stai dicendo?» il
rosso la squadrò, sconvolto. «Che giorno
è?»
«Domenica» confermò,
picchettando il giorno cerchiato sul calendario, appeso proprio
lì accanto. «Ci
avevi promesso scones, pancakes e muffin».
«Non me lo ricordo!»
«Sì, beh, forse eri un pochino
ubriaco quando l'hai detto» annuì perfida.
«Forse è meglio se-» Max non
aveva voglia di trovarsi ancora in mezzo ad un ritrovo O'Connell, vista
com'era
andata la precedente.
«Oh, no» intervenne Clio.
«Quello è il tuo posto» disse
Castor contemporaneamente, battendo una mano sullo sgabello
più vicino ai
fornelli.
Sentendosi messo alle strette, si
appollaiò dove indicato e rimase rigido in attesa che Castor
finisse di
preparare gli ingredienti e che Clio smettesse di fissarlo come se
fosse stato una
statua in esposizione.
°°°
Il
frantumarsi di qualcosa a
terra annunciò l’arrivo di qualcun altro alla
festa.
«Castor! Quando ti deciderai a capire che il
fottuto posto per i vasi non è
l’ingresso?» la voce
si levò indignata dal corridoio.
«Quando tu smetterai di distruggere tutto con la
tua grazia» la seconda voce sembrava una replica della prima
– stessa arroganza
e decisione – ma solo per il fatto che avesse ribattuto a
Oscar aveva
guadagnato la simpatia di Max.
Eleo
era una versione più giovane di Castor:
stessi occhi penetranti – eredità di famiglia
– e capelli tinti, sebbene
biondi. L'unica differenza sostanziale era dovuta al fatto che il
giovane – non
poteva avere più di diciotto anni – sembrava
essere stato tirato, tanto era
alto.
Precedeva il fratello maggiore con baldanza ma si
fermò di botto sulla soglia per non farlo passare.
«Togliti dalle palle!» sibilò Oscar
appena
dietro, in naso premuto nella chioma ingellata contro cui si era
trovato per
aver camminato con lo sguardo fisso sul tablet.
«Ti salvo la vita fratello: c'è il tuo
arcinemico».
L'uomo sbirciò da sopra la sua testa e regalò a
Max una delle sue migliori occhiate di disapprovazione.
«Cosa ci fa ancora qui?»
«Colazione» cinguettò Clio chinandosi
per
avvicinarsi al ragazzo, indicando il fratello. «Ma non
mangiarlo, ha un pessimo
sapore!»
Le
orecchie di Oscar raggiunsero un preoccupante
livello di rossore alla battuta della sorella. Se la sua assurda
famiglia non
avesse smesso in tempi brevi di prenderlo per i fondelli li avrebbe
estromessi
dal giro di affari.
«Ciao» Eleo avanzò a grandi passi, la
mano tesa
in direzione di Max, «piacere».
Thank
God,
il
fratellino sembrava normale.
«Maximillian» gliela strinse sollevato.
«Lo so, hai fatto bene a minacciarlo».
Come
non detto.
Oscar si sedette alla solita sedia ignorando al
meglio la presenza del ragazzo.
«Allora questi muffin? Non ho tutto il giorno!»
«Vatteli a comprare» mormorò Castor
rimestando
l'impasto.
«Avevi promesso».
«Me lo avete estorto» puntualizzò.
Max
osservò il quadretto familiare scambiarsi
battute, insulti e occasionali lanci di suppellettili.
Avvertì una tale fitta di nostalgia da
costringerlo a chiudere gli occhi. Erano più di tre anni che
non tornava a
casa. Sean gli aveva mandato diverse mail, alcune con foto allegate, ma
sapere
che Dom Jr. fosse diventato più alto di Ted oppure che Liam
si fosse fatto
crescere i capelli fino a metà schiena non rendeva. Gli
mancava l’odore della
cucina di sua madre.
Vedere Castor fare la linguaccia alle spalle di
Clio gli diede un tale senso di tenerezza che si chiese come avesse
potuto non
rendersene conto prima. Quella famiglia disfunzionale era talmente
unita da
fargli venire voglia di abbracciarli.
Eleo, che aveva continuato a blaterare delle
minacce perpetrate nei confronti del fratello maggiore negli anni,
rimase
sconcertato dalla piega di dolore sulle sopracciglia corrucciate
dell'ospite.
«Non fanno sempre così» si
affrettò a
rassicurarlo. «In realtà vanno
d’accordo».
«Ne sono certo».
Nonostante la distrazione, anche Castor si era
accorto che qualcosa non andava perché gli passò
una mano sulle spalle,
baciandogli la sommità della testa.
Un
gesto talmente intimo da farlo arrossire. Non
se lo aspettava.
Evidentemente doveva essere un comportamento
insolito per il rosso perché Eleo si mise a ridacchiare alle
occhiate
insofferenti di Orion, quelle deliziate di Clio e l’unica
lunga occhiata
allibita di Max.
Castor infornò la seconda teglia di muffin,
ignorandoli con nonchalance. Lui l’aveva detto che sarebbe
stato diverso; i
cretini erano stati loro a non crederci. Poteva anche essere un
vigliacco ogni
tanto, ma perlomeno, una volta presa una decisione, era suo uso
mantenerla fino
in fondo.
Se i
suoi fratelli ne sarebbero venuti a capo a
breve, Max vi avrebbe impiegato più tempo.
I
muffin erano venuti bene, ma avrebbero avuto
bisogno ancora di qualche attimo per essere prelevati senza rovinarli.
Solo uno
scivolò fuori dalla teglia senza sforzo: lo diede a Max.
«La colazione, come promesso» sussurrò.
Il
ricordo di quella che sarebbe dovuta essere la loro colazione premeva
ancora da
qualche parte nel bassoventre, nascosto dai più larghi
pantaloni della tuta in
dotazione al suo guardaroba. Il suo odore non era ancora andato via da
Max,
l’aveva sentito quando si era chinato per baciarlo. Tempo
prima quell’intimità
lo avrebbe fatto arretrare, ma il dolore e l'insonnia patiti durante la
settimana
precedente gli avevano fatto vedere le cose da una diversa prospettiva.
Non
poteva modificare le azioni passate, ma
avrebbe imparato dai propri errori.
«Grazie» non aveva
idea se il rossore alla base del collo fosse dovuto
all’imbarazzo provocato
della famiglia o alla sua vicinanza. Di sicuro teneva gli occhi ben
piantati
sulle sue dita. Magari stava ricordando quello che gli avevano fatto
durante
tutta la notte.
Il
fatto che non fosse scappato rappresentava un
bel passo avanti.
Gli
diede una rapida stretta alla mano –
ricambiata fugacemente – prima di tornare alla colazione.
«Siete disgustosi» fu il commento di Oscar a
quella scenetta sdolcinata, ma si vedeva che non era veramente
contrario. Clio
ghignò da dietro la tazza, mai una volta che Orion mostrasse
il suo vero volto.
Max
osservò le dinamiche con maggiore attenzione:
in fondo non erano poi così complicati. L’affetto
tra di loro era innegabile.
Eleo sembrava il più comprensivo tra tutti, il
più calmo. Clio doveva essere la
personalità più forte – essere una
donna rendeva necessario compensare in
qualche modo, visti quei fratelli ingombranti. Castor era
l’eccentrico, forse
il meno classificabile tra loro, ma i precedenti avevano dimostrato
quanto in
realtà tenesse a quella sgangherata marmaglia. Il suo
atteggiamento ricordava
quello di Noah – forse tra geni si sarebbero capiti, pieni di
tutte quelle
assurde contraddizioni che lo facevano impazzire. Nel bene e nel male.
E
poi c’era Oscar.
Vederlo sorridere compiaciuto gli dava una certa
irritazione, ma si sentiva anche costretto a spezzare una lancia in suo
favore.
Era stato uno stronzo, ma aveva offerto un lavoro a Bach. E lui gli
aveva
rubato un cappotto da tremila dollari, l'ultima volta che era fuggito
da quella
casa – Bach lo aveva cercato su internet.
Senza una parola prese il piattino che Castor gli
aveva messo davanti e lo allungò verso l’altra
parte del tavolo.
Il
sopracciglio dell’uomo scattò versò
l’alto e
l’angolo della bocca tremò appena, dandogli per un
attimo un’aria smarrita.
Nonostante la vena polemica e l’indiscussa boria,
c’era qualcosa in Oscar che
lo rendeva affascinante. Suppose che fossero gli occhi made by
O’Connell.
«Considero la proposta di lavoro a Bach un
adeguato pagamento per la volta scorsa».
Oscar lo prese con sufficienza.
«Sei contento Orion?» Clio gli diede
un’affettuosa
pacca sul braccio. «Così non dovrai più
andare fuori a cena con il terrore di
venire steso».
«Mi chiamo Oscar» sibilò in tutta
risposta.
«Non dare via il tuo cibo. Non per lui!» Castor
gli veleggiò nuovamente attorno rimpiazzando il muffin con
due crêpe
affogate nello sciroppo d’acero.
«Ho restituito un favore» gli era ancora
difficile credere di essere veramente lì, con lui, dopo
quello che avevano
passato insieme. Fino ad una settimana prima non avrebbe mai immaginato
che
Castor avrebbe potuto esporsi.
Erano anni che non provava una gioia tanto
normale quanto quella di una persona che ti si siede accanto
guardandoti come
se fossi un dono, sfiorandoti il braccio con la punta delle dita. Quel
fuoco
non divampava da anni, sempre che quelle braci che Castor aveva
risvegliato
fossero mai state accese, oltre la coltre di fumo grigio lasciata a
disperdersi
anni prima.
Castor aveva fatto per lui più di quanto avesse
mai immaginato – risvegliandogli i sensi, cercandolo nella
folla, chiedendogli
di riprovarci e accettandolo così com’era. Quella
notte gli aveva sussurrato
all’orecchio parole che non erano scomparse con il sole della
mattina.
Lo
aveva stretto e baciato in posti che, a
ripensarci, lo facevano avvampare e – God,
non credeva sarebbe mai arrivato questo momento – desiderare
di tornare in
quella stanza. Il fruscio dei pantaloni
di Castor sullo sgabello era talmente
disturbante da chiudergli lo stomaco: fino a quel momento la sua
preoccupazione
era stata quella di superare indenne l’incontro con gli
O’Connell, ora non
poteva che sperare se ne andassero in tempi brevi.
Eleo
stava infastidendo Oscar su un imprecisato
argomento, Clio enumerava una serie infinita di motivi per cui
sì, l’idea di
trasferirsi in Giappone era stata molto ben ponderata, e Castor
ribatteva punto
su punto con razionale fastidio. Nessuno faceva caso a lui,
fortunatamente.
Seguendo quella nuova, irrazionale linea di
pensiero, tolse le mani dal piatto. Con il fiato strozzato in gola fece
scivolare la sinistra sotto il tavolo e ne posò il palmo
aperto sulla coscia di
Castor.
Se
Clio si fosse resa conto dell’improvviso
pallore del fratello non lo diede a vedere, ma Max avvertì
distintamente i
muscoli irrigidirsi al suo tocco. Castor portò la propria
mano libera sulla
sua, premendola prima di intrecciare le dita in una muta promessa. Non
lo aveva
guardato, ma quel calore era stato più che sufficiente a
fargli capire.
Forse avrebbe fatto in tempo a presenziare agli
allenamenti quel pomeriggio.
In
tutto quel susseguirsi di eventi, Max non poté
che ringraziare il fatto che Will e sua zia fossero ad Atlanta per le
vacanze.
In caso contrario non avrebbe saputo come spiegare le continue assenze
e
l’improvvisa fioritura di succhiotti lungo la gola.
…
baci
NLH
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Crimine Perfetto ***
Questo
capitol è per Giu
li, noi due sappiamo benissimo
perché.
GRAZIE
I’m
not a Murderer
14
Crimine
Perfetto
Epilogue
Per
quante volte fosse stato in piscina, Castor non riusciva ad abituarsi
al calore
soffocante, ai suoni ovattati e all'odore penetrante che lo assalivano
appena
varcata la porta.
A
differenza della volta precedente non aveva perso tempo a cercare Max
in corsia
– diversi atleti stavano allenandosi in previsione della
competizione – ma andò
direttamente negli spogliatoi. Ci teneva a fargli una sorpresa.
Quello
che non si aspettava, invece, fu di trovarlo proprio lì.
Si
era
fatto indicare la zona riservata al gruppo di Max e se lo era trovato
davanti
appena varcata la soglia.
Doveva
aver appena finito il riscaldamento, perché indossava
solamente i pantaloncini
aderenti del costume e i capelli erano arruffati dall’acqua.
Deglutì
lentamente.
«Sei
venuto!»
Castor
non aveva idea se il compagno avesse compreso quanti sensi poteva avere
quella
frase, ma ricambiò il bacio con entusiasmo. Oh,
sì, sarebbe sempre venuto lui.
«Sorpresa»
mugugnò.
«Avevi
detto che saresti stato ad una riunione» era bello vedere
quanto fosse felice
di vederlo. Non si sarebbe mai stancato di quello sguardo.
«Che
sorpresa sarebbe stata altrimenti?» Si forzò di
non far scivolare le dita
nell’elastico e strizzare per bene quella chiappe sode.
Doveva distrarsi, si
impose, almeno per il momento. «Sono anche venuto a
restituirti queste» con un
gesto teatrale tirò fuori un paio di mutande. «Le
ho trovate!»
«Dove-»
boccheggiò Max, guardandosi intorno per essere certo che non
vi fosse nessun
altro.
«Sul
lampadario» confidò, ignorando lo scatto di Max
per prendergli i boxer dalle
mani.
«Avresti
potuto darmele a casa!»
«E
perdere l’occasione di metterti in imbarazzo? Mai»
ghignò.
Max
lo
fissò a lungo, perdendosi in chissà quale
macchinoso ragionamento, prima di
voltarsi e frugare nella sacca.
«In
questo caso ne approfitto anche io. Avevo pensato di aspettare fino
all’uscita
del tuo nuovo libro, ma visto che siamo in
argomento…» Gli porse una scatolina
scura, alzando le spalle noncurante. «Tieni».
Castor
scartò il regalo inaspettato. Un breve fruscio di carta
velina rivelò del
tessuto rosso scuro arrotolato su sé stesso.
Ammutolì.
Chi
l’avrebbe mai detto che la nemesi della moda Max gli avrebbe
regalato un capo
di vestiario? Era un stato un gesto molto dolce.
«Lo sai
che se mi regali una cravatta significa che non vedi l’ora di
sfilarmela» gli sorrise,
ammiccando e facendo scorrere le dita sulla stoffa. Era una bella
cravatta,
l’aveva scelta bene – molto probabilmente con
l’aiuto di qualcuno. Bach o Clio?
«Oh, lo
so» fu la risposta che non si aspettava di ricevere,
«è per questo che l'ho
comprata».
Castor
serrò la mascella fino a farsi male.
Quell’incosciente
non aveva la minima idea della posizione in cui si stava mettendo.
L’immagine
di loro due stretti a letto, le mani frenetiche di Max sui suoi vestiti
e
quella cravatta allacciata al collo, ai polsi e ovunque la fantasia li
avrebbe
spinti…
Appena
dietro la porta un giornalista gridò qualcosa, riportandolo
alla realtà.
Avrebbe
dovuto spiegargli il rischio della vendetta. Oh, se lo avrebbe fatto!
«Sei da
prendere e da stuprare qui, ora, davanti a tutti i tuoi fan»
gli sibilò
all’orecchio, stringendogli gli avambracci e affondando senza
pietà le dita
nella pelle umida, «la prossima volta che ti viene in mente
di farmi un regalo del genere, I beg you, aspetta di essere a casa, tra
pareti insonorizzate e con
unicamente il sottoscritto a portata di orecchio. E bocca».
Max
deglutì, pregustando, sentendo quasi fisicamente quelle
parole scorrergli sulla
pelle.
«Non
puoi stuprare una persona consenziente» fu tutto quello che
riuscì ad
articolare, la voce fioca.
Castor
tornò a fissarlo dritto negli occhi – quegli stramaledetti occhi – prima di
sollevare l’angolo della bocca in un
sorriso pericoloso – per lui.
«Questo
è da vedere» mormorò roco prima di
lasciare la presa e allontanarsi di qualche
passo.
Max
riprese a respirare più o meno normalmente.
«Ma
aspetta a cantare vittoria» aggiunse, un attimo prima di uscire
dallo
spogliatoio, «Prima o poi dovrai tornare a casa. Ti
aspetto».
Max
gettò il capo indietro al suono della sua voce, chiudendo
gli occhi per cercare
di riprendere il controllo.
Gliel’avrebbe
fatta pagare, ne era certo.
Una
pressante tensione nel basso ventre gli stava dicendo che sì, l’avrebbe pagata.
Si
passò la lingua secca sulle labbra, altrettanto ruvide.
Sapeva
perfettamente che non sarebbe stato corretto farlo. C’era
sicuramente un
paragrafo, nel regolamento della polisportiva, che vietava certi
comportamenti.
Ed era anche piuttosto sicuro che ai partecipanti alle gare fossero
proibite
certe pratiche prima delle competizioni.
Stava
per infrangere chissà quante regole, non era da lui. Ma non
gliene fregava
assolutamente niente.
Con
uno
scatto degno del titolo di nuovo detentore del record statunitense
nello stile
libero, riuscì ad afferrare la manica di Castor prima che
questa sparisse
dietro il battente e la porta si richiudesse.
«Non ho
tempo di aspettare»
riuscì a mugolare
prima di chiudergli quelle stramaledette
labbra con un bacio.
Se
il
rosso fosse rimasto sorpreso dalla piega che aveva preso la situazione,
non lo
diede a vedere. Rispose al bacio famelico, circondandogli il viso con
le dita
per tenerlo fermo, mordendo quella labbra affamate.
Forse
poteva equivalere al
ti amo.
°°°
«Facciamo un bell’applauso!»
Maximillian
era rientrato dagli allenamenti giusto da dieci minuti – il
tempo di una doccia
e un bicchiere di spremuta d’arancia, che ora stava
centellinando – quando il
post-it sul frigorifero gli aveva ricordato di dover accendere la
televisione. La
scrittura era sottile e
lievemente inclinata verso destra, la penna a sfera blu e i tre puntini
alla
fine dell’ultima parola, gli gridavano che a scriverle era
stato l’altro
occupante della casa.
Come
al
solito Castor non si fidava della sua memoria.
E
adesso, quello stesso inquilino lunatico, umorale, amante di cibi
immangiabili,
irritante e distributore di boxer per tutta la casa, bucava lo schermo
con il
suo lieve sorriso – stramaledettamente sexy, ma questo era
meglio se lo pensava
soltanto – e quella studiatamente arruffata massa di capelli
rossi – tinti.
«Quando mi hanno detto che tu,
il vincitore del maggior numero di riconoscimenti e premi letterari di
quest’anno, avevi accettato di presenziare a questa
intervista, quasi non ci ho
creduto»
commentò il conduttore sogghignando – e
prendendosi la rivincita per tutte le
volte in cui quello stesso scrittore da strapazzo gli aveva dato buca,
pensò
Max arricciando le labbra.
«Cosa posso dirti, Larry» Castor rise portandosi due dita
alle labbra «la tua…
costanza mi ha fatto
capitolare».
Chiamarla
costanza non rendeva affatto il termine. Era più che certo
che Castor avesse
deciso di rinunciare alla sua vita ritirata per evitare le dieci
chiamate al
giorno che quell’uomo gli faceva, ansioso di avere
l’esclusiva per quel libro
da miliardi di dollari.
E
magari anche perché Max gli aveva detto che, se quel
telefono avesse squillato
ancora ad orari allucinanti, lui avrebbe anche potuto scordarsi
dell’odore di
cloro, a meno che non avesse deciso di rinunciare alla sua passeggiata
rilassante della domenica in favore di un paio di vasche alla O’Connell Swimming Pool.
«…e cosa ci dici
dell’ispirazione?» stava
dicendo intanto Larry, rigirandosi la penna tra le mani e mostrando un
nervosismo che gli era insolito. «Nei
tuoi libri precedenti hai trattato soprattutto tematiche cupe; thriller
e
polizieschi sono stati i primi tre – comunque di successo.
Quindi per quale
motivo il quarto, “Mermaid”,
tratta
di una storia d’amore?» fece una pausa
come stesse riflettendo su quanto
appena detto e riprendendo subito parola. «È
così avvolgente e, a detta di molte lettrici, deliziosamente
sensuale, che mi
viene da chiedere: perché solo ora? Se sei tanto bravo
perché aspettare?».
Per
qualche motivo, a Max corse un brivido lungo la schiena. Il sorriso
fugace e
inclinato, con il canino che mordeva morbidamente il labbro inferiore,
gli
dicevano che molto probabilmente la risposta che Castor aveva
intenzione di
dare, non gli sarebbe piaciuta.
O
gli
sarebbe piaciuta troppo.
«Perché non prima?» tergiversò nel
frattempo,
arricciando gli angoli della bocca e inclinando la testa per osservare
la
telecamera da sotto le ciglia scure. «Prima
non avevo la mia Coraline personale che mi aspettava a casa, ogni sera
e ogni
notte. E ogni giorno in cui non è impegnata con il suo
programma» allargò
il sorriso nel pronunciare il nome della sua protagonista, associandolo
a
quello dell’amante che aveva appena annunciato al mondo di
possedere.
In
senso letterale oltre che figurato.
E
per
otto, o forse nove persone al mondo, quell’amante era stato
associato ad una
persona che di femminile aveva ben poco.
«È perché ti sei innamorato che
sei riuscito a scrivere con tanto trasporto? Racconta: chi è
la tua Coraline?
Si chiama veramente così?» insinuò Larry, cercando
di scavare e divertire i milioni di
spettatori – e fan isteriche pronte al suicidio –
sulla relazione intrapresa
dalla loro stella di punta.
«Coraline» sibilò ironico,«e per la cronaca non si chiama
così in
realtà, è molto più di quanto tu possa
pensare, e non nego che il suo
personaggio sia stato influenzato da… dalla persona con cui
vivo» evitò
ancora di pronunciare il suo nome – o far capire che quella
fantomatica
fidanzata era in realtà un uomo più alto di lui «ma non c’è
più di questo. Coraline non è-»
Max
smise di ascoltare perché il discorso si era spostato sulla
caratterizzazione
dei personaggi e sulla trama. Un discorso trito e ritrito che lui si
era già
sorbito – in termini decisamente più divertenti e
accattivanti, abbracciati a
letto e in compagnia di una coppa di gelato alla crema e un piattino di
crostini alle acciughe e ribes scuro. Il secondo dichiaratamente di
Castor.
Finì di bere il succo e lo mise
nel lavello, facendo scorrere l’acqua e pensando a quanto le
luci dello Show
non mettessero in evidenza la bellezza della carnagione perlacea del
suo
ragazzo, facendola sembrare solo chiara. Il che gli fece perdere un
pezzo di
conversazione che, un attimo dopo, lo catturò
inesorabilmente, riportandolo
davanti allo schermo, sul sorriso orgoglioso del compagno.
«…eppure non è passato molto tempo
dalla pubblicazione, e tu già mi
dici che ne stai scrivendo un altro» Larry si passò
inconsciamente la punta della
lingua sulle labbra, pregustato lo scoop che gli era appena apparso
davanti
agli occhi.«Puoi darmi qualche
anticipazione, vero? Non pretenderai certo che io adesso mi accontenti
solo di
questo? Avanti».
Castor
rise e tirò fuori dalla tasca dei fogli ripiegati, scritti a
mano, e a
Maximillian tornò un brivido che lo costrinse a deglutire.
Ricordava quei
fogli: uno aveva una macchia di salsa ad un angolo, quindi erano
certamente
quelli che aveva scritto due giorni prima, mentre erano sul divano
assieme, a
riposarsi.
«È solamente un pezzo, una
lettera che il protagonista maschile scriverà alla persona
che ama» spiegò cercando la riga
interessata.
«E questa persona che ama…» insinuò nuovamente
King, un
nuovo sorriso in volto,«è
ispirata interamente
alla tua fidanzata?»
«Se mi sta guardando – e sono
certo che è così – allora in questo
caso si riconoscerà».
«Può darsi, ma tutti gli altri
ascoltatori non lo sapranno» precisò acutamentenella
speranza di strappargli
qualche informazione in più. Castor sorrise sibillino e
tonò ai suoi appunti.
«Leggerò solo la parte
centrale, non voglio rovinare la sorpresa, ma solo farla attendere con
maggiore
ansia»
fece
una pausa mentre indossava gli occhiali per leggere – Max
aveva scoperto che in
realtà non ne aveva affatto bisogno una volta che se li era
infilati.
Le
luci
si abbassarono ed un unico fascio, più luminoso, venne
puntato sulla sua
figura.
«…siedo alla mia scrivania e
scrivo, da solo. Ma qui non ci sei che tu» Castor
iniziò a declamare quanto scritto, senza
leggere una parola e guardando dritto nella telecamera, negli occhi
spalancati
di Max, che fissava lo schermo incapace di fare altro.
Si
sentiva bruciare qualcosa nello stomaco, ed era piuttosto certo che non
si
trattasse della cena.
«Non posso fare altro – non
voglio fare altro – se non pensare a te. La mattina mi
sveglio e spero di
vederti ancora al mio fianco, tra le coperte, con i tuoi capelli
arruffati e le
labbra rosse dei baci che ci siamo scambiati per tutta la notte. Sotto
la
doccia, sento solo la tua pelle
fremente sotto le mie mani» a questo punto Castor
intrecciò le dita davanti alle labbra,
lasciando scivolare i fogli in grembo e sussurrando tra di esse,
lasciando a
malapena intravedere il movimento incessante della lingua nella bocca. «Quando
giro per casa non sento altro che
il tuo odore, che impregna le pareti, i miei vestiti, la mia vita.
Odore di
casa, di crema idratante, di shampoo alla frutta e cloro. Soprattutto
cloro».
Ascoltare
quella voce profonda e sexy e riconoscersi in quella descrizione, era
stato
tutt’uno per Max; così come arrossire furiosamente
e cercare qualcosa per
calmare la secchezza improvvisa della gola.
Accidenti
a quella stramaledetta calamita per gli sguardi (specie i suoi) che
sembrava
perfettamente in grado di manipolarlo sempre, comunque e dovunque.
«Amo ogni lato di te, voglio
viverti per tutto quello che sei alla luce del giorno e nasconderti al
mondo
ogni notte. Voglio restarti accanto quando sei irritabile, farti
arrabbiare
quando non hai più forze, stringerti anche se non mi vuoi
vicino e baciarti
fino a perdere il respiro».
E
Max
perse il respiro nell’ascoltare quelle parole e vedere il
lampo predatorio
nelle iridi accecanti di Castor.
Affondò
con forza gli incisivi nel labbro inferiore nel disperato tentativo di
calmarsi. Non era umanamente possibile che quell’uomo potesse
fargli un tale
effetto anche
a quella distanza!
«Vorrei che tu fossi qui con
me. Vorrei anche solo tenerti per mano e sentirmi dire che non te ne
andrai
mai» prese
fiato, «ma soprattutto voglio
donarti
tutto me stesso, senza riserve» a questo punto
l’uomo smise di imprigionare
Max attraverso la televisione e abbassò gli occhi,
puntandoli sui fogli sparsi
e stirando le labbra divertito.
«Vestiti
compresi, visto che, nonostante
tutto
il guardaroba a disposizione, tu indossi solo canottiere e
pantaloncini. Non
che io me ne lamenti alla fine, la sera…»
concluse con una risatina
l’ultima frase, carica di un’ironia assente nelle
parole precedenti.
Sulla
sala scese qualche secondo di silenzio ma, nel momento esatto in cui
Castor
si chinò a recuperare i fogli, un applauso entusiasta si
levò tutt'intorno,
raggiungendo i telespettatori. Gli occhi del giovane scrittore
brillarono e
chinò il capo in segno di ringraziamento.
«Cosa posso dire?» iniziò il presentatore,
facendo finta di asciugarsi una lacrima di commozione. «Quanto
scritto parla da solo. Noi tutti non vediamo l'ora di leggere
questa prossima opera!»
Castor
sorrise accondiscendente e attaccò a spiegare le tempistiche
e una data di
possibile consegna.
Nel
frattempo Max stava cercando di riprendersi dal colpo che l'aveva quasi
steso.
Tentando nel contempo di calmare l’eccitazione e
l’aspettativa che quelle poche
parole gli avevano suscitato. Forse gli serviva una doccia fredda.
O
magari due, constatò nel ricordare che il fidanzato non
sarebbe tornato a casa
che il giorno successivo.
Sospirò
rassegnato e sorrise benevolo nel vedere l’espressione
composta di Castor.
Dai,
magari alla fine non gli avrebbe fatto troppo male, una volta fosse
tornato a
casa. In fondo non doveva certo ucciderlo per avergli fatto prendere
spavento,
dicendo quelle cose in diretta.
Forse
Bach l’avrebbe preso in giro a vita, ma per fortuna la
questione sarebbe stata
ristretta.
Sorrise.
«Se la tua ragazza potesse
parlare ora, cosa direbbe?» Larry si chinò in
avanti per pregustare la risposta. «Magari
possiamo farla chiamare per sentire
la sua opinione. Sapeva di questo nuovo libro?»
«No, non ne sapeva nulla» Castor scosse la testa
palesemente divertito. «Maximillian
non
legge mai quello che scrivo; aspetta che glielo legga io, magari dopo
un po’ di
sano sesso».
Il
sopracitato Max ammutolì.
L’aveva
detto.
Da
Larry King.
In
prima serata, davanti a milioni – sperando che gli altri
fossero troppo
occupati a fare altro piuttosto che guardare la televisione –
di
telespettatori.
Boccheggiò.
Si
stava sentendo male.
«Maxi…millian?» ripeté il conduttore,
scandendo
lentamente le lettere, tra l’insicuro e
l’incredulo. «La
protagonista è ispirata, cioè no,
…Maximillian?»
«Sì, esatto» confermò tutto
sorridente,
annuendo con orgoglio e tirando fuori una loro foto dal portafoglio.
Era
un’istantanea scattata durante la loro prima uscita al mare
come coppia. Castor
rideva spensierato sullo sfondo, la mano allungata e le dita
intrecciate ad
altre, di una tonalità un po’ più
scura. Il proprietario di quelle seconde dita
era di spalle, ma teneva il viso voltato verso l’obiettivo,
mettendo in mostra
tutta la potenza dei muscoli della schiena e del collo.
«Maximillian» disse ancora Larry, esitante
ed euforico allo stesso tempo, alzando la fotografia di modo che anche
tutto il
resto dell’America fosse in grado di vederla, «la
persona con cui hai una relazione è Maximillian Pollux
Medaglia
d’oro alle nazionali?»
No,
Maximillian non era un assassino, ma in quel momento non desiderava che
prendere quel candido collo da cigno e stritolarlo come fosse stato
quello di
una gallina.
Poi
magari lo avrebbe baciato fino a farlo soffocare.
Forse.
Si
passò una mano sul viso, sentendolo bollente e si morse le
labbra, estremamente
eccitato.
Okay,
forse non lo avrebbe solo baciato, ma questo non gli avrebbe impedito
di
prendere e fare falò di ogni singolo capo di biancheria
firmata di
quell’esibizionista.
The
End?
Grazie soprattutto a 3ragon
che
ha avuto il fegato di
seguirmi fin qui!
…
Ammetto di averci impiegato un
SACCO! Vi
ringrazio veramente per la pazienza e non prometto niente per ora - ho
in ballo
diverse storie, ma se non ne finisco almeno una non ha senso iniziare
(sappiamo
tutti quanto io sia lenta ad aggiornare) *pacchette sulla spalla.
Una mattina vi sveglierete,
cercherete distratte
le nuove uscite, e troverete AliasNLH tra i nomi. Credeteci!
E incrociate le dita.
AliasNLH
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2183726
|