I'm not a Murderer

di aliasNLH
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dove tutto ebbe inizio – ma doveva proprio? ***
Capitolo 2: *** Dove si affrontano argomenti in cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi ***
Capitolo 3: *** Oltre la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto causargli! ***
Capitolo 4: *** Non ne aveva alcuna intenzione – però poi l’ha fatto lo stesso… ***
Capitolo 5: *** Tra risvegli e cliché ***
Capitolo 6: *** Nel segno dei gemelli ***
Capitolo 7: *** Si aprano le danze ***
Capitolo 8: *** Timore, Paura, Panico, Terrore ***
Capitolo 9: *** Attimi dilatati all’infinito ***
Capitolo 10: *** Dichiarazione d’intenti ***
Capitolo 11: *** Cauti sospiri e sporadici attimi surreali ***
Capitolo 12: *** Un passo per volta – e dieci al secondo ***
Capitolo 13: *** Risvegli di routine ***
Capitolo 14: *** Crimine Perfetto ***



Capitolo 1
*** Dove tutto ebbe inizio – ma doveva proprio? ***


 
Tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per il suo coraggio!!
 
 
I’m not a Murderer
 
01
 
 
 
Dove tutto ebbe inizio – ma doveva proprio?
 
    Max non aveva mai pensato di essere gay.
    Esattamente come non avrebbe mai immaginato di dover scegliere – o anche solo chiedersi la differenza – tra una cintura pitonata e una crema a scaglie marrone chiaro.
    E, certamente, Maximillian Pollux non avrebbe mai scommesso un centesimo che questi due avvenimenti si sarebbero concentrati in una sola giornata. Per l’esattezza in un momento preciso del pomeriggio in cui credeva di potersi finalmente rilassare.
    Evidentemente qualche entità sovrannaturale ce l’aveva con lui.
    E quell’entità non era altro che la metà mancante dei Dioscuri.
    E lui è del segno dei gemelli.
 
°°°
 
    «Ohi Max, ti decidi a muoverti, da?» gli gridarono da dentro il negozio, distraendolo dalla contemplazione – terrorizzata – della vetrina.
    Maximillian era un ragazzo semplice, dai gusti sobri e pratici e, soprattutto, con un portafoglio molto limitato – eredità di una famiglia di agricoltori dell’Arizona e altri sei fratelli minori. Nei suoi venticinque anni di vita, aveva avuto parecchie occasioni per poter spendere cifre esagerate per qualcosa di piccolo, ma mai gli era capitato di vedere una sciarpettina estiva da uomo – di pura bellezza – con un’etichetta a fianco che recitava: “Saldi: sconto del trenta percento su tutti i capi esposti, prezzo $ 430.00”.
    Qualcuno doveva aver fatto un errore. Magari sarebbe entrato nel negozio giusto per avvertire riguardo allo sbaglio e sarebbe scappato prima che quelli gli chiedessero di pagare il suolo che aveva calpestato con le sue scarpe da mercatino dell’usato.
    Si fissò le Sneakers allacciate solo per metà, di un grigio sporco – in origine bianco – consumate sulle punte e sui talloni. E meno male che le suole non erano visibili.
    «Ehi, femminuccia! Ti stai rimirando nella vetrina?» Altre risate lo raggiunsero dell'interno, costringendolo a tornare a guardare davanti a sé.
    Dall’altra parte del vetro c’erano i suoi compagni di squadra, che lo incitavano a raggiungerli all’interno e a svuotare la carta di credito. C’erano Jamie e Joackim, i gemelli dai capelli scuri che, assieme  all’esuberante Dorian e al silenzioso Bach, formavano i componenti della staffetta – che al momento si stavano misurando maglie e camicie da migliaia di dollari. In un angolo, seminascosto da una selce strategicamente posizionata accanto ai camerini, Brook – che a dispetto del nome da donna era il più alto e possente tra tutti loro – scrutava dubbioso una cintura viola sfavillante, alternando occhiate  tra di essa e una commessa intenta a servire un giovane uomo dall’aria sofisticata e i capelli palesemente tinti. E infine c’era il pazzo che si sgolava per farlo entrare con loro a vendere il sangue: Lionel.
    «Oh, well» mormorò rassegnato chinando il capo, varcando la soglia girevole e sentendosi investito da una forte aria condizionata. Quella sciarpa sarebbe stata del tutto inutile in un frangente simile, a dispetto del prezzo allucinante.
    Non ricordava esattamente chi e quando avesse proposto di festeggiare l’eventuale ammissione alle selezioni nazionali nell'Atelier più esclusivo e alla moda di Philadelphia: l'O’Connell, ma era più che certo che, chiunque fosse stato, l’avrebbe pagata cara.
    «Guarda chi ha finalmente avuto il fegato di entrare» alzò la voce Dorian, unendosi a Lionel e alle sue grida scalmanate, vedendo arrivare Max.«Tappati quella bocca, fourth man, fai troppo casino» bofonchiò cacciandosi le mani nelle tasche della larga felpa verde scuro, sentendosi estremamente fuori luogo.
    Per raggiungerli aveva oltrepassato un paio di clienti – chiaramente habitué – e si era sentito morire.
    La prima donna era alta, slanciata e con un’acconciatura fresca di parrucchiere, probabilmente taglio e piega da mille dollari. Indossava un paio di pantaloni a mezzo polpaccio di colore rosso e una sottile camicia svolazzante bianca, chiusa sul davanti con un fiocco in seta. Decolleté in vernice dal tacco vertiginoso e una borsa accessoriata con un foulard su uno dei manici.
    Uno schianto, ma niente a che vedere con il secondo cliente, un uomo dalle mani chiare e sottili, che passavano da una stoffa all’altra, commentando con voce sommessa quello che la commessa gli presentava.
    Indossava un paio di jeans chiari, una canottiera color crema e una camicia dallo sfondo bianco con fantasia di nastri intrecciati. Al collo, portava quella stessa sciarpa leggera che aveva visto poco prima in vetrina e ai piedi un paio di stivali in camoscio marrone.
    Lo osservò un momento passarsi quelle stesse dita, ricche di tre anelli sottili al pollice e al medio, tra i capelli rossi e preferì distogliere lo sguardo prima che potesse voltarsi a mostrare il volto. Non avrebbe retto ad altra perfezione.
    «Allora? Cosa vuoi provarti?» rise Lionel, studiandosi con indosso una maglia di lana intrecciata, impedendo a tutti gli altri di osservarsi allo specchio. Jamie indossava un completo giacca pantalone viola intenso e il gemello cercava di trattenere le risate da dietro il cappello da cowboy che aveva trovato appeso lì accanto.
    Max preferì alzare un sopracciglio e non dire niente. Meglio concentrarsi su Brook, che stava uscendo in quel momento dal camerino con un jeans scuro strappato ad arte.
    «Quello mi piace» gli disse, giusto per tenere impegnata la bocca ed evitare di rispondere alla domanda.
    Lui non voleva provare niente.
    «Secondo me ti fanno i fianchi troppo grossi» Bach e il suo raffinato tocco sbucarono dall’ultimo camerino, accompagnati da un’attillata maglia a righe bianche e nere dalle maniche lunghe.
    «E tu sembri un carcerato» gli rispose l’interessato a bassa voce, togliendosi la propria maglia – verde chiaro e rattoppata all’orlo – per provare quella che aveva scelto da abbinare ai jeans. Mettendo in mostra i possenti muscoli della schiena, di un nero lucido, che calamitarono l’attenzione sia della donna dal taglio da mille dollari che la commessa – la quale era sembrata del tutto disinteressata a loro, prima che Brook decidesse di mettersi in mostra.
    Il ragazzo sapeva esattamente quale effetto facesse il suo fisico – sia in vasca che tra le donne – e si divertiva a sperimentarlo. Max lo vide ghignare e ammicchare di sfuggita alla più bella tra le due, prima di infilarsi una aderente maglia sbracciata dal colore che ricordava quello dei muri della loro vecchia Middle School. Tra il marrone fogna e quello polvere.
    Jamie vide chiaramente il gemello trattenere una smorfia disgustata e Bach squadrarlo da capo a piedi, pronto e infierire come era suo solito .
    «Su di te quel colore fa schifo» disse infatti, incrociando le braccia e sorridendo con superiorità. Brook serrò la mascella con maggiore forza di quanta non fosse effettivamente necessaria, ma preferì non dire nulla, rientrando nel camerino per tornare ad indossare i suoi abiti abituali.
    Dall’alto dei suoi centottantanove centimetri, di muscoli e pelle nera come l’inchiostro, sapeva che non avrebbe mai potuto spuntarla contro Bach. Il ragazzo infatti, pur raggiungendo a mala pena il metro e settanta, possedeva una velocità nei movimenti e una vena subdola che gli erano costate parecchio ai tempi della scuola. Il nero avrebbe difficilmente dimenticato il loro primo incontro, più di dieci anni prima.
    Brook era un ragazzo silenzioso, ma non disdegnava una buona scazzottata quando necessario. Quel mattino in particolare, aveva attaccato briga con due ragazzi per uno scontro – apparentemente accidentale – tra la sua spalla e il gomito di uno dei due. Si trovavano dietro la scuola con tutta l’intenzione di regolare i conti, quando un estraneo si era intromesso.
    Al tempo Bach non era conosciuto da nessuno – si era appena trasferito dal Canada – quindi, quando si era piazzato tra loro – con quel taglio troppo corto e quel volume di letteratura – avevano riso e cercato di toglierselo dai piedi.
    Lui aveva torto il polso del primo, fratturato il naso al secondo e steso Brook con un pugno bel piazzato, prima ancora che riuscissero a sfiorarlo. Poi si era sistemato la camicia, ripreso in mano il libro che aveva lasciato cadere e se ne era andato.
    Episodi come quello si erano ripetuti anche troppe volte nel corso della loro amicizia, ma mai che Brook fosse riuscito ad uscirne meno che ammaccato, spesso affiancato da un Bach solo leggermente affannato.
    Quindi no, si disse stringendosi l’elastico dei pantaloni prima di uscire dal camerino, non era il caso di ribattere ad una persona tanto spaventosa.
    Max nel frattempo, aveva gironzolato nelle vicinanze dei camerini, soppesando con lo sguardo gli abiti accuratamente ripiegati sugli scaffali. Maglie, camicie, felpe e persino i cappelli, gli sembravano troppo eleganti, troppo costosi e troppo… troppo e basta.
    Ripose con attenzione una canotta giallo chiaro – prima di essere presa in mano era sembrata tranquillamente abbordabile – e sospirò. Erano in quel negozio da un tempo incalcolato, e lui non si era provato ancora nulla, a differenza dei suoi amici.
    Bach alla fine aveva comprato la maglia a righe, accostandogli un foulard bianco e rosso, che lo facevano sembrare la copia carbone di Belfagor “Bel”, di KHR – suo fratello lo stava facendo dannare con la sua insana passione. Brook aveva ripiegato per una giacca tra l’elegante e lo sportivo dal colore chiaro – che a detta del primo non lo faceva sembrare un sacco con le gambe e che quindi poteva andare.
    Lionel e Dorian si stavano contendendo lo stesso paio di pantaloni, mostrando ben poca maturità considerato il fatto che non solo portavano taglie differenti,  ma che sullo scaffale c’erano altri esemplari dello stesso identico modello.
    Persino quegli eterni indecisi di Jamie e Joakim erano riusciti a trovare delle camicie di loro gusto – stesso modelli ma di colori opposti, da bravi gemelli che adorano confondere gli amici.
    «Dai, Max, non abbiamo tutto il giorno, ti vuoi decidere a mettere qualcosa?» Dorian sbuffò alle sue spalle, in mano il paio di pantaloni tanto contesi e il sorriso trionfante di chi è riuscito a vincere i Campionati.
    «Non so cosa» borbottò di rimando ispezionando con finta attenzione il ripiano dei jeans. Non c’era nulla che volesse veramente provare.
    «Oh, andiamo!» Lionel lo afferrò per un braccio, l’altra mano occupata da un nuovo paio di pantaloni, trascinandolo con la complicità dell’altro in uno dei camerini e chiudendo la tenda alle sue spalle con un gesto secco. Max sbuffò ancora.
    «Si può sapere che volete fare? Non sono certo obbligato a provarmi dei vestiti se non ne trovo di mio gusto, no?» cercò di farli ragionare mentre si trovava impossibilitato ad uscire per via della presenza di Bach e i gemelli che piantonavano la tenda del camerino.
    «Non fare i capricci» commentò semplicemente Bach, senza variare il tono di voce – costantemente impostato su cordiale cortesia – ma mostrando chiaramente le sue vere intenzioni – che variavano dall’insulto alla cattiveria gratuita, fino a sfociare nel bullismo psicologico.
    «Io non faccio capricci, trovo solamente che tutto questo sia totalmente privo di ogni logica» cercò di farli ragionare, nella speranza che smettessero di comportarsi come in un parco giochi. Oppure no, era meglio così. In questo modo li avrebbero cacciati fuori prima che riuscissero a costringerlo a sgualcire qualcuno dei capi in vendita.
        «Andiamo, non vedo dove sia il problema» Jamie sembrava annoiato mentre dondolava le gambe dalla sgabello su cui era seduto, accanto allo specchio «devi solo provare dei vestiti, my God, non ti abbiamo chiesto di metterti a correre nudo per Market Street».
Max rabbrividì alla sola idea e preferì tacere. Non era il caso di dare a Dorian nuove idee su come sfruttare la sua fuggevole giovinezza. Ne aveva già abbastanza di sue.
    «Bene allora» Lionel era tornato reggendo un paio di jeans attillati e una maglia rossa dallo scollo a barca – o almeno così gli disse, gettandoglieli in faccia e minacciandolo di entrare e spogliarlo personalmente, se non si fosse deciso a collaborare.
    Max si tolse quell’ammasso di stoffa dalla faccia e pregò di veder spuntare una commessa inferocita – e perché no, anche il proprietario – con l’intenzione di cacciarli a pedate. Aspettò un minuto intero e poiché nessuno sopraggiunse a fare il proprio dovere, si costrinse a non sgualcire ulteriormente quella maglia tanto costosa – duecentotrenta dollari, aveva letto bene? -  e iniziò a sfilarsi i pantaloni della tuta.
    «Cosa stai facendo lì dentro?» la voce irriverente di Lionel lo costrinse ad affrettarsi – non ci teneva ad essere maneggiato come una bambola – e chiuse gli ultimi due bottoni del pantalone.
    Mosse un passo esitante verso la tendina e li sentì tirarsi per seguire il suo movimento: erano anni che non indossava qualcosa di tanto aderente. Il costume era chiaramente escluso.
    Aggiustandosi il collo della maglia, scostò le tende, preparandosi ad affrontare le battute dei compagni.
    Max era sempre stato bravo a scommettere – suo cugino gli aveva sempre simpaticamente detto che era così perché in campo amoroso faceva più che pena e     Dio aveva voluto compensare quella mancanza in qualche modo – ma era più che certo che una situazione del genere non sarebbe mai riuscito a prevederla.
    Subito fuori dal camerino c’erano i gemelli e Bach, che invece di ridere di lui e della sua tenuta elegante, sembravano fissare qualcosa subito alla sua destra. Alzò un sopracciglio nel constatare che i gemelli non sembravano inclini alle solite battute idiote e portò l’attenzione sui restanti componenti del gruppo.
    Lionel – in contrasto al grande desiderio di vederlo in abiti firmati – non gli stava prestando la minima attenzione, improvvisamente troppo impegnato a misurarsi una camicia e a fare gli occhi dolci ad una nuova cliente dai lunghi capelli biondi, che era a propria volta intenta a fissare, con quella che sembrava cupidigia, il dorso nuovamente nudo di Brook, che si stava provando una nuova maglietta – con l’ausilio di una commessa.
    Scuotendo la testa individuò Dorian, l’ultimo rimasto, scoprendo che era l’unico a fissarlo direttamente, con un’espressione concentrata.
    «Non stai tanto male» disse soltanto dopo aver annuito un paio di volte. Max arricciò le labbra, non essendo certo se quello fosse un complimento o altro.
    «Certo che non sta tanto male. Quei pantaloni lo fasciano come una seconda pelle» si intromise una nuova voce, costringendolo a guardare alla propria destra e a rendersi conto di chi avevano fissato Bach e i gemelli fino a quel momento.
    Al suo fianco c’era l’uomo dai capelli rossi e le movenze eleganti che aveva visto entrando in negozio. Quello che non avrebbe mai voluto vedere in volto perché pensava essere troppo perfetto. E ci aveva visto giusto. Almeno su quello.
    L’uomo aveva un volto regolare, di forma di ovale, occhi di un azzurro intenso che lo squadravano da capo a piedi, sottili sopracciglia marrone chiaro, naso dritto con la punta arrotondata, labbra piene e una pelle chiara e omogenea.
    Max deglutì – come si ritrovò a fare anche fin troppo spesso in futuro, in sua presenza – e cercò di non guardarlo dritto negli occhi. Non avrebbe saputo dire perché, ma lo inquietavano.
    Max lo osservò avvicinarglisi maggiormente e cercò di non sussultare quando alzò una mano e prese il tessuto della maglia rossa tra due dita, ad un soffio dal suo collo. Le fece scorrere lentamente fino alla cucitura sul petto e sorrise.
    «Questo colore ti dona poco. Se permetti adesso ci penso io a te».
Max desiderò averlo solo immaginato, in doppio senso.
 
 
Dunque, da dove cominciare? Possibile che non sappia mai che scrivere?
Vabbé, proviamoci…
 
Salve, ho iniziato a scrivere questa fic perché un amico – non dirò chi né quanto tempo fa mi ha parlato a riguardo – mi ha fatto notare (vedi minacciato) che non scrivo mai niente di allegro o romantico nelle Originali.
Ebbene, eccolo benservito!
E spero per lui che legga, altrimenti potrei arrabbiarmi sul serio
 
Spero che questa prima scena vi sia piaciuta (abbastanza da lasciarmi una piccola noticina *me sbatte gli occhi speranzosa*) e che abbiate voglia di darmi appuntamento al prossimo aggiornamento!
 
Baci
 
NLH


 I Dioscuri sono i gemelli nati da Zeus e Leda. Inseparabili, hanno partecipato alla spedizione degli Argonauti e combattuto sotto le mura di Troia. Castore era mortale e Polluce immortale. Quando il primo morì, il gemello chiese a Zeus di dividere con lui la sua sorte, alternandosi un giorno nell’Olimpo e uno nell’Ade. Questo scambiò continuò fino a quando Ade non li trasformò nella costellazione dei Gemelli.

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Capitolo 2
*** Dove si affrontano argomenti in cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi ***


 
 
I’m not a Murderer


02
 
 
Dove si affrontano argomenti in cui mai ci si sarebbe aspettati di imbattersi
 
    «Signor Castor, di questo cosa ne pensa?»
    La domanda della ragazza accanto a lui lo costrinse a smettere di passare le mani sulla morbida stoffa della camicia che aveva in mano per riportare l’attenzione anche sugli altri capi esposti. Ancora tre scaffali aspettavano la sua visita, ma proprio non riuscì a fare a mano di rimanere lì, tra le mani sempre la stessa camicia – che non aveva alcuna intenzione di indossare – e tutti i sensi all’erta.
    Il tatto, impegnato a seguire gli intrecci del tessuto.
    Il gusto, inibito dalla caramella alla cannella che gli era stata offerta poco prima e che gli avrebbe impedito di sentire qualunque altro sapore per almeno altre tre ore.
    La vista, occupata a fissare apparentemente il nulla – ma in realtà concentrata su una minuscola crepa che ornava il fondo del ripiano.
    L’olfatto, impregnato da un improvviso quanto intenso odore di cloro, che lo rendeva strano, perché l’ultima volta che era entrato in un piscina, era stato in occasione di una gara di suo fratello Eleo durante il suo secondo anno alle elementari – correntemente, il fratellino stava vivendo il suo quindicesimo anno.
    E infine l’udito, estremamente teso ad ascoltare una serie di discorsi – in qualche caso, apparentemente – privi di senso, scaturiti da un gruppetto entrato nel negozio poco più di mezz’ora prima.
    C’erano la voce vagamente stridula che continuava a ripetere a qualcuno di entrare. Quella profonda che commentava di tanto in tanto i capi esposti, a propria volta commentata da una di tonalità più fredda e pacata. Poi c’erano due voci quasi identiche, che si rincorrevano e sovrastavano un’altra, dal timbro più profondo, ma animata quasi quanto la prima.
    E infine c’era la voce che aveva sentito per ultima. Era arrivata parecchi minuti dopo le altre, e all’inizio era stata talmente bassa e bofonchiante che non l’aveva presa in considerazione, nella sua analisi del rumoroso gruppo che gli era piombato tra capo e collo in negozio – chiaramente al di sotto dei loro standard.
    Quindi l’aveva ignorata, almeno fino a quando non l’aveva sentita alzarsi per negare qualcosa con forza.
    “Puoi scordarti che io indossi qualcosa che potrei sgualcire solo con lo sguardo!”.
    Era una voce alta, ferma e chiaramente maschile, ma possedeva un timbro gentile che lui aveva associato in precedenza solo a sua sorella Clio.
    Forse era stato quello il motivo per cui inizialmente si era interessato a lui.
    Poi, alle risate sguaiate di una delle altre voci, si era voltato per vedere finalmente quel gruppo eterogeneo – che iniziava a diventare fastidioso.
    Non fu difficile associare le voci alle persone che stazionavano davanti ai camerini – apparentemente con il solo scopo di fare confusione in un rispettabile punto vendita come quello.
    Le due voci quasi uguali appartenevano – senza ombra di dubbio – ai gemelli che si stavano contendendo lo stesso cappello, subito fuori da una tendina tirata. La voce fredda doveva essere quella del moro silenzioso appoggiato al muro lì accanto, e quella profonda al ragazzone dalla pelle scura poco più in là, nel reparto camicie.
    Infine le voci esagitate non potevano che appartenere agli ultimi due, quelli che si stavano squadrando con astio – misto ad un divertimento che sembrava essere loro abituale –, tra loro un paio di jeans.
    Ci mise poco a capire che la voce che più lo aveva interessato era nascosta alla vista dall’unica tendina tirata nella zona camerini, a provarsi finalmente qualcosa. Distrattamente si chiese cosa potesse aver scelto, domandandosi subito dopo perché pensava potesse importagli una cosa simile.
    «Allora?» sentì uno degli ex contendenti alzare la voce e mulinare una delle maglie più costose della collezione primavera-estate, senza il minimo riguardo «Cosa stai facendo lì dentro? Vuoi una mano?»
    Un ringhio li raggiunse da dietro la tendina e Castor si fece un’idea della situazione. Per un qualche motivo sorrise e fece un cenno a Silvye, la commessa, avvicinandosi al ragazzone privo di delicatezza. Con la scusa di voler prendere una maglia, studiò da vicino la situazione.
    Sorvolando sulla strana voglia di assegnare un volto – e magari un nome – alla voce che tanto lo aveva colpito in precedenza, il negozio stata iniziando a diventare troppo rumoroso per i suoi gusti.
    La sua improvvisa vicinanza non passò inosservata perché vide chiaramente i gemelli squadrarlo con sospetto e il tipo dalla faccia apatica scrutarlo da capo a piedi con fare arrogante. Anche Silvye stessa lo osservava con la coda dell’occhio, sebbene impegnata ad intrattenere uno dei ragazzi con una felpa di una certa bellezza – a parere di Castor.
    Stava giusto per chiedere a uno dei ragazzoni – quello dalla pelle scura, che gli sembrava il più affidabile – di andarsene e permettere a tutti gli altri clienti di usufruire in tranquillità dei servizi offerti dalla boutique, quando la tendina venne tirata a mostrare il ragazzo appena cambiatosi.
    Alto più di lui, aveva capelli corti castano chiaro, di una sfumatura tragicamente simile al miele di acacia – Castor non riuscì a fare a meno di paragonarlo, nel vedere le ciocche arruffate arricciarsi al getto di aria condizionata del corridoio, al miele servito su una tartina al sesamo. Gli occhi, seminascosti dalle lunghe ciglia e dall’espressione contrariata, brillavano di un azzurro cupo, quasi grigio. La linea decisa del collo scompariva troppo in fretta nello scollo della maglia rossa – un colore che non gli si addiceva – e proseguiva lungo le braccia, perdendosi tra il guizzare nervoso dei muscoli.
    Castor espirò lentamente facendo scorrere lo sguardo sulle labbra morbide e lungo le gambe fasciate strettamente dai jeans che si tendevano ad ogni passo. Con uno sforzo cercò di reprimere l’impulso di prenderlo, voltarlo e vedere l’effetto di quel tessuto sul sedere.
    Il sorriso lieve che aveva assunto per convincere il gruppo ad andarsene si allargò leggermente, mentre con fare sicuro si avvicinava al giovane. E gli posava una mano sul petto.
    «Questo colore ti dona poco» gli mormorò facendo scorrere la mano fino a riuscire a toccare la pelle con la punta delle dita «se permetti adesso ci penso io a te».
 
°°°
 
    Allacciandosi, le dita tremanti dallo sforzo – di non rompere un tessuto tanto delicato e prezioso – Max chiuse l’ultimo bottone della camicia in seta, nascondendolo dentro un’asola decorata con un laccio di una tonalità più scura. Fece un respiro profondo e scostò la tenda, mostrandosi.
    Jamie e Joakim sembravano spariti nel nulla – o si erano imboscati in qualche altro negozio, per quanto ne poteva sapere lui – così come Lionel, che sembrava scomparso, probabilmente assieme alla biondina con cui lo aveva visto prima.
    Brook e Bach lo guardarono con attenzione mentre Dorian fischiò in apprezzamento, voltandosi verso una quarta persona, seduta sul pouf lì accanto.«Non c’è che dire. Ora sì che sembra un ragazzo».
    «Grazie tante» lo rimbeccò Max, più amaro di quanto non avesse voluto. Perché prima a cosa somigliava? Ad un mendicante?
    «Indubbiamente» eccola quella voce maledetta, seguita dal frusciare della camicia che il suo proprietario aveva indosso «almeno gli abbiamo tolto l’aria del topo di campagna».
    «Disse il topo di città» ancora una volta si trovò a rispondere ad una frecciatina rivolta a lui, incrociando le braccia e lasciandole immediatamente cadere lungo i fianchi, il pensiero improvviso che avrebbe sgualcito la stoffa se si fosse lasciato andare a quel gesto abituale.
    Castor sedeva comodamente, le gambe elegantemente incrociate e una mano inanellata al volto.
    «Suvvia, Maximillian, non mi dirai che sei deluso dagli abiti che ho scelto per te?»
    Da quando gli aveva detto il suo nome – un’imprecisata manciata di minuti prima, o forse ore? – quell’uomo non aveva fatto altro che ripeterlo e infilarlo in ogni sua frase. Lo assaporava e rigirava tra le labbra e la lingua per poi esalarlo in un languido sospiro. Ogni volta facendolo rabbrividire.
    Non sapeva come comportasi.
    Non aveva idea di cosa quel Castor volesse da lui.
    Non era nemmeno sicuro di volerlo sapere.
    E intanto continuava a provare vestiti su vestiti da lui scelti.
    “Non hai buon gusto, disponibilità economica e classe. Un trinomio catastrofico cui intendo cercare di mettere un freno” aveva esordito deciso, fissandolo con quelle iridi azzurro cielo a cui non aveva capito come non fosse riuscito a dire di no. Oppure di farsi gli affaracci suoi.
    «Non te l’ho certo chiesto io» bofonchiò in risposta, ben attento a non farsi sentire. Il rischio che quello stravagante damerino decidesse di costringerlo a pagare ogni capo provato ancora pressante nella sua mente.
    «La tua incapacità di destreggiarti in un negozio di moda mi ha imposto di darti una mano» ribatté nuovamente serafico il rosso, aggiustandosi la piega perfetta di un polsino.
    «Non te l’ha chiesto nessuno» ripeté Max, tornando a borbottare da dentro il camerino, mentre si spogliava e iniziava a rimettersi i propri pantaloni.
    Tuttavia aveva – evidentemente – sottovalutato le intenzioni di quel ficcanaso sconosciuto perché, mentre era intento ad allacciarsi l’elastico, la tenda venne scostata e una nuova pioggia di abiti gli cadde in testa. Con i capelli arruffati liberò il volto da una giacca leggera in camoscio e puntò lo sguardo arrabbiato sul molestatore.
    Castor lo stava fissando con un sorrisetto soddisfatto.
    «Nessuno ti ha detto che potevi cambiarti, lo sai questo, vero?»
    «Fuck you» gli sibilò contro, sfoggiando una delle eleganti espressioni che aveva imparato ad adottare da Lionel «non sei nessuno per dirmi quello che devo o non devo fare!»
    «Forse» rispose quello, allungando una mano, le dita tese e pallide in contrasto quella sua pelle lievemente scura «ma sono anche l’unico che sa cosa è meglio per te».
    «E questo» cercando di ignorare quella maledetta mano accanto al suo petto – troppo vicino, accidenti – prese tra le braccia due paia di jeans, una camicia di sangallo, delle maglie sottili e la famosa giacca, ponendoli a scudo tra loro «dovrebbe essere quello di cui ho bisogno?»
    «Può darsi» gli disse enigmatico «tuttavia se prima non li provi non lo sapremo mai».
    «Chi ti dice che lo farò?»
    Max non seppe definire per quale motivo non avesse ceduto all’istinto che gli gridava di prendere quel damerino raffinato per i capelli cangianti e sbatterlo fuori da lì, per potersi rivestire in santa pace e tornarsene a casa con il portafoglio intatto – sebbene con l’orgoglio un po’ troppo ammaccato per i propri gusti. Non seppe nemmeno giustificare il calore improvviso che gli si era scatenato sul petto, quando la mano fredda dell’altro gli si appoggiò addosso, spingendolo con lentezza indietro, entrando nel camerino con lui.
    Castor alzò la testa per guardarlo dritto negli occhi e le dita della mano si aprirono sul petto ancora scoperto. Sapeva di cannella – fu l’unico pensiero coerente che Max riuscì a formulare nell’averlo così vicino.
    «Preferiresti che fossi io a vestirti?» gli domandò malizioso nell’allontanarsi leggermente «O a svestirti, se preferisci».
    Max arrossì fino alla punta dei capelli e lo spinse fuori dal camerino, tra le occhiate perplesse dei più e fin troppo consapevolmente divertite di Bach.
 
 
Ottimo!
Capitolo corto, ma non meno importante. Insomma… qualcuno mi può dire dove posso trovare pure io un Castor? Grazie mille!
 
E ancora una volta tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta.
 
 
Baci
NLH

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Capitolo 3
*** Oltre la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto causargli! ***


Come sempre, tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta.
 
 
I’m not a Murderer


03
 
 
Oltre la beffa il danno – proprio come quello che avrebbe voluto causargli!
 
    «Secondo me avresti dovuto seguire il consiglio di Castor».
    «Ah, adesso lo chiami pure per nome, that scumbag!»
    Max era incerto se fare dietrofront e tornarsene a casa o prendere Bach – con cui sfortunatamente stava parlando – e trascinarlo nel primo locale per ubriacarsi di brutto e dimenticare il traumatico pomeriggio del giorno prima.
    Erano passate trentun’ore, sedici minuti e un numero imprecisato di secondi dal primo e ultimo incontro – lo sperava per la sua salute, sia fisica che mentale – con quello stravagante e autoritario personaggio – si rifiutava anche solo di pensare il suo nome – e ancora non era riuscito a farsi passare la profonda irritazione che gli aveva provocato. Irritazione, scontento, incazzatura, imbarazzo, amarezza e tanto, tantissimo imbarazzo.
    Ma lui non voleva pensarci.
    Non voleva e non doveva assolutamente.
    Punto.
    «Ma poi hai presente il suo nome? Castor? Chi diavolo sono i genitori che danno un nome del genere ad un povero bambino? Ci credo poi che è venuto su così male!» bofonchiò nuovamente – mostrando quanto ferma fosse la decisione di non pensare mai più a lui.
    «È un nome di tutto rispetto» commentò nuovamente Bach – pronto come al solito nel dire la cosa sbagliata al momento sbagliato (e cioè quando voleva lui) «richiama l’antica Grecia».
    «Non me ne frega niente cosa richiama! Non si sarebbe dovuto permettere!»
    Bach si limitò ad alzare le spalle e proseguire per la via, diretto al Club in cui Lionel – sempre lui – aveva deciso avrebbero passato quel memorabile sabato sera. Cosa ci fosse da festeggiare non lo sapevano, ma ovviamente quello non era altro che un dettaglio irrilevante ai fini del divertimento di quel ragazzo.
    Bach era passato a prendere Max a casa di un’amica comune ed era rimasto deluso dal fatto che non indossasse gli abiti comprati il giorno prima.
    Per la precisione si era messo – perché non aveva intenzione di usare il verbo indossato, considerati gli stracci che era riuscito a trovare chissà dove – un pantalone largo, scarpe da tennis grigie e camicia azzurra di un’altra epoca.
    «You profiteer bastard» stava borbottando il ragazzo, incurante dello sguardo di disapprovazione di Bach – che si stava chiedendo che gusto ci provasse a passare tanto inosservato e insignificante.
    Poi sorrise. In ogni caso, nonostante non avesse fatto altro che dire di non voler avere niente a che fare con Castor, non aveva smesso di parlarne nemmeno per un momento. O di pensarci, considerato il fatto che gli stava ancora inveendo contro.
    «Ohi, Bach!»
    Venne distratto dalle sue riflessioni al suono della voce di Dorian, che si stava sbracciando all’ingresso dell’Hellsing, tenuto d’occhio con sospetto dal buttafuori. Bach alzò una mano per fargli capire di averlo notato – ed evitare che il gorilla lo sbattesse in strada – e, afferrato Max per una manica, lo trascinò all’interno.
    Nel locale c’era ben poca gente, constatò confuso il ragazzo, notando come i pochi presenti fossero tutti vestiti di nero e con lo stemma del locale, un serpente bianco intrecciato su sfondo viola. Poi Dorian li spinse verso una scaletta a chiocciola che sembrava portare al piano inferiore, dove evidentemente si trovava il succo di quel posto.
    Ad accoglierli fu in suono imbizzarrito di una chitarra elettrica in assolo e l’accompagnamento di decine di voci entusiaste e corpi che si muovevano a ritmo di musica.
    «In un disco pub?» stava intanto dicendo Bach, arricciando il naso.
    «Qualcosa in contrario?» ribatté Dorian guidandoli ad un tavolino su cui erano già accasciati Lionel e Jamie, circondati da bicchieri vuoti e una bottiglia mezza piena di quello che sembrava champagne. Brook, poco distante, chiacchierava con una moretta dalle gambe lunghe.
    «Hi» biascicò Jamie nel vederli arrivare, scuotendo un polso in quello che sarebbe dovuto essere un saluto.
    «Sei ubriaco?» domandò Max con una punta di rimprovero.
    «Ma no» ridacchio in risposta, cercando di sollevarsi e cadendo con tutto il peso sulla fronte, scoppiando a ridere come non mai.
    «Da quanto è in queste condizioni?» s’informò Bach, indicandolo con un dito e smuovendo il piede di Dorian sotto il tavolo.
    «Dunno» alzò le spalle questi, afferrando un altro bicchiere da uno dei vassoi che gravitavano attorno ai tavoli «era già così quando sono arrivato».
    «Brook» attirò quando l’attenzione del moro, distogliendolo dal discorso impegnato con la mora.
    «Sì?» chiese, infastidito nel sentirsi trascinare via.
    «Jamie» ripeté Bach «è ubriaco».
    «So
    «Perché è ubriaco?» domandò pazientemente.
    «Non ne ho idea» sbuffò Brook, impaziente «so solo che era con Joakim e che centra qualcosa una bionda».
    «Allora vedi che qualcosa sai?» scattò, liberandogli il braccio «E dimmi, dov’è Joakim?»
    «Oh, questa è facile» celiò Brook nel tornare dalla ragazza, indicando il centro della pista poco vicino «entra lì dentro e trovalo».
    E, mentre il compagno si allontanava con la sua più recente conquista, Bach rimase interdetto a fissare l’ammasso di corpi che formava una muraglia naturale tra lui e – così pareva – l’unico responsabile dell’insolita ubriacatura di Jamie.
    «E di me non si preoccupa nessuno?» chiese Lionel faticando a tenere gli occhi, mostrando la stessa espressione vacua e la stessa difficoltà motoria del compagno di bevute.
    «Certo che no» ribatté Dorian divertito «perché tu ti ubriachi ogni volta che usciamo, è normale».
    Max rise brevemente, rimasto in disparte per tutta la durata di quella conversazione – tanto solita per loro quanto insolita per quel gruppetto di ragazze del tavolo accanto, che era ancora intento ad osservare.
    Lui l’aveva visto, Joakim. Era successo solo per un secondo, quando la musica techno aveva lasciato il posto a quella country – una richiesta di qualcuno evidentemente – e, mentre la voce calda di Billy Ray Cyrus si diffondeva nel locale, molto ragazzi si erano spostati verso il centro, lasciando intravedere la figura sottile del ragazzo.
    Era avvinghiato ad un ragazzone alto e dai lunghi capelli scuri. Ballavano appiccicati, anche se disturbati da una bionda procace che sembrava tutta intenta a provarci con Joakim.
    Evidentemente la ragazza su cui Jamie aveva messo gli occhi.
    Un vero peccato che, tra i due, lei avesse scelto il gemello omosessuale.
    «Perché ridi?» Bach si era seduto, decidendo che, in fondo, non era affar suo se Jamie era incapace di provarci decentemente con qualcuno.
    «Niente, pensavo» preferì tenersi sul vago.
    «A cosa? Al fatto che i tuoi vestiti sono totalmente inadatti a questa situazione?»
    Max si morse un labbro, indeciso se offendersi o scoppiare a ridere. Una reazione che difficilmente qualche altra persona sarebbe riuscita a suscitargli. Non c’era che dire, Bach era un individuo proprio particolare.
    «Io sto comodo» alzò le spalle, prendendo un sorso di birra – che aveva fregato a Lionel, decidendo che ne aveva bevuta anche abbastanza da solo.
    «Oh, non lo metto in dubbio» ribatté l’altro, squadrandolo con rimprovero «ma staresti comodo anche in jeans e camicia. Se non altro non sembreresti un evaso da un carcere d’igene mentale».
    «Ma bene. Adesso siamo passati da un ragazzo di campagna ad uno svitato» borbottò mentre il paragone gli faceva fare dei collegamenti proibiti. Accidenti a Castor! Era tutta colpa sua.
    «Non dare la colpa a Castor» disse Bach come gli avesse letto nel pensiero «lui non centra niente».
    «Non stavo pensando a lui» mentì scocciato, continuando a bere.
    Bach gli scoccò un’occhiata che gli diceva chiaramente che no, non gli credeva affatto, ma non fece commenti.
    «In ogni caso avresti davvero potuto indossare quello che hai preso con il suo aiuto».
    «Con il suo obbligo vorrai dire» lo rimbecco, deciso a non dargliela vinta «e comunque no, non ne ho alcuna intenzione. Non mi vestirò mai da fighetto».
    «In questo modo non troverai mai nemmeno uno straccio di ragazza».
    «E chi la vuole?» replicò punto nel vivo «In ogni caso se piaccio davvero ad una ragazza, gli piacerei sempre. Anzi, probabilmente s’innamorerebbe del mio vero me stesso e non di, di…» si sforzò di cercare un aggettivo pertinente, ma alla fine si limitò ad indicare a pista da ballo, dove decine di corpi tirati a lucido ballavano in un ammasso i sudore e ormoni «quello
    «Guarda che quello» precisò imitando il tono usato da Max «è il meglio che questo posto abbia da offrire»
    «Bel posto di merda allora» replicò seccato, ravviandosi i capelli e continuando a guardarsi intorno.
    «Ciao».
    Il ragazzo sospirò.
    «Ehi, sto dicendo a te» la voce di prima – a cui non aveva dato il minimo peso – tornò più autoritaria, seguita da un colpetto sull’avambraccio. Max si voltò.
    La ragazza aveva lunghi capelli scuri, che le arrivavano fin sopra il sedere, raccolti in una traccia morbida. Indossava minigonna e tacchi a spillo e si stava inequivocabilmente rivolgendo a lui.
    «Sì?» chiese, stupidamente a parere suo. Una strana euforia si fece largo nell’abbattimento di poco prima. Era perfettamente capace di rimorchiare anche vestito da tutti i giorni, alla faccia di Bach.
    «Ti stavo guardando da prima» con un gesto distratti indicò il gruppetto di ragazzine ridacchianti di poco prima «io sono Candy. Studio alla UPenn e occasionalmente lavoro in qualche locale come accompagnatrice» rise brevemente «ma oggi sono qui solo per divertirmi».
    «Maximillian» si presentò a propria volta «sono un nuotatore professionista».
    «Davvero?» s’infervorò lei, la mano di poco prima ancora ben ancorata ai sodi muscoli del braccio – che sembravano piacerle non poco «Quindi oggi hai perso una gara?»
    Confuso – e totalmente ignaro dei viaggi mentali che quella bruna si stava facendo – aggrottò le sopracciglia.
    «Perché credi abbia perso? Non ho gareggiato oggi» domandò cercando di portare uno spiraglio di luce nelle tenebre.
    «Allora hai perso qualche scommessa?» insistette lei.
    «Sinceramente non so di cosa tu stia parlando» le disse chiaro e tondo, stufo di non capire cosa stesse succedendo.
    «No dai, sul serio… perché altrimenti ti saresti vestito così da sfigato?» sospirò allegramente lei, guardando per un breve momento il gruppetto da cui si era staccata per raggiungerlo.
    «Guarda che non ti sto prendendo in giro» socchiuse gli occhi Max, gli ultimi strascichi dell’entusiasmo iniziale che svanivano del tutto.
    «Oh, scusami, pensavo fosse uno scherzo» ridacchiò la ragazza – una risata estremamente fastidiosa, decise Max «credevo ti fossi vestito in questo modo per una scommessa».
    Max si sforzò di ignorare le risa mal trattenute che giungevano dalle proprie spalle. Avrebbe ucciso Lionel e Dorian, per non parlare di Bach. E poi si sarebbe sotterrato da solo, che magari si faceva pure un favore.
    «Mi dispiace deluderti, ma mi vesto sempre così» replicò a denti stretti.
    La ragazza, tanto baldanzosa e ammiccante fino ad un attimo prima, atteggiò le labbra in una smorfia delusa, scannerizzandolo da capo a piedi e scoccandogli un’ultima occhiata scettica, prima di voltargli le spalle e tornare dalle amichette ridacchianti.
    Per un qualche motivo, Max si sentì inspiegabilmente ferito.
    Se non altro Bach ebbe la decenza di non proferire parola.
    Si limitò a fermare il primo cameriere di passaggio e ordinare un altro giro di Tequila.
 
 
Aggiungo qui di seguito uno specchietto di descrizione dei personaggi principali (non Castor, altrimenti rovino tutta la sorpresa XD)
 
Bach Queen
Capelli neri un po’ lunghi sulle guance e corti sulla nuca, occhi allungati grigi, un metro e settanta circa. Apparentemente esile, è molto veloce e possiede una vena violenta parecchio spiccata, ex teppista imbattuto, dice sempre quello che gli passa per la testa. Genitori tedeschi, emigrati in Canada e poi trasferiti in America. Ha una sorella minore di grande bellezza e apparente fragilità, ma che gli in somiglia tutto e per tutto.
Primo nuotatore nella staffetta. Ha 23 anni.
 
Jamie Gordon
Capelli castano scuro, occhi marrone chiaro, lentiggini sul naso, sulle spalle e sui dorsi delle mani. Sul metro e settanta, ama sciare, le donne formose, suonare la chitarra e detesta non essere preso in considerazione. Originario della California.
Secondo nuotatore nella staffetta. Ha 26 anni ed è il gemello maggiore.
 
Joackim Gordon
Capelli castano scuro, occhi marrone chiaro, lentiggini sul naso, sulle spalle e sui dorsi delle mani. Sul metro e settanta, ama fare passeggiate, gli uomini sicuri, suonare il pianoforte e detesta i giochi di società. È bravo a cantare ma non lo fa quasi mai. Originario della California.
Terzo nuotatore nella staffetta. Ha 26 anni ed è il gemello minore.
 
Dorian Forrester
Capelli biondo paglia, occhi azzurro vivo, sul metro e ottanta. Allegro ed egocentrico, trascina spesso i compagni a fare quelli che lui chiama divertimenti necessari a dei giovani della loro età. Terzo di quattro figli, è l’unico maschio e molto protettivo con le sue sorelle. Suona la chitarra elettrica e ama andare ai concerti.
Quarto nuotatore della staffetta. Ha 28 anni.
 
Brook Callaghan
Carnagione nera da parte di entrambi i genitori, originari del Sud Africa, è alto un metro e ottantanove, occhi neri e corti capelli ricci. Nato a New York, è il primo di due fratelli, non parla molto ma non per questo è una persona tranquilla. Gli piacciono il silenzio e la musica rock.
Ha 23 anni.
 
Lionel Jefferson
Carnagione costantemente abbronzata, capelli arruffati castano scuro e occhi grigio azzurri. Originario di Philadelphia, conosce sempre tutto e tutti. A causa di una brutta esperienza con una sua ex, ha una sorta di terrore viscerale per le ragazze dai capelli lunghi e il sorriso gentile. Ama le corse dei cavalli, i giochi d’azzardo e i colori vivaci.
Ha 25 anni.
 
Maximillian Pollux
Un metro e ottanta circa, capelli castano chiaro, occhi azzurro cupo e fisico magro e asciutto, spalle larghe. Originario dell’Arizona, ha lavorato nei campi fin da piccolo, con i genitori e i sei fratellini; ora vive con il terzo fratello – William – e la zia, la sorella zitella di suo padre. Si è trasferito lì per studiare e nuotare anni prima, seguito poi dal fratello.
Ha avuto una ragazza, al liceo. Lei lo ha lasciato dopo tre anni, dopo averlo allegramente cornificato da due, dicendogli che lui è troppo dolce, troppo comprensivo, affatto geloso e incredibilmente gentile e tollerante.
Ha 25 anni.
 
 
Ai coraggiosi che si sono letti tutto e che stanno ancora leggendo questa mia riga…
Baci
 
NLH

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Capitolo 4
*** Non ne aveva alcuna intenzione – però poi l’ha fatto lo stesso… ***


Come sempre, tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta.
 
 
I’m not a Murderer


04
 
 
Non ne aveva alcuna intenzione – però poi l’ha fatto lo stesso…
 
    «Max?» Lionel era rimasto a bocca aperta di fronte all’amico.
    «What?» ribatté questi, guardandosi intorno infastidito.
    «Max!»
    «Cosa?»
    «Maximillian?»
    «Che cazzo hai da urlare, si può sapere?» alzò la voce irritato, guardandolo dritto negli occhi.
    «No, niente. Volevo essere sicuro si trattasse di te» affermò soddisfatto, tornando a sedersi sul divanetto e scolandosi il resto della birra «sai, non potevo essere sicuro al cento per cento da sotto quel cappello».
    Max arrossì e si affrettò a sedersi a propria volta, cercando di ignorare alcuni sguardi troppo lascivi per i suoi gusti e puntati in alcuni punti… come quella tizia che fissava assatanata il suo fondoschiena. Rabbrividì nello scorgerla leccarsi le labbra.
    Ma chi glielo aveva fatto fare?
    Si mosse a disagio sul divanetto dove si era scaraventato non appena era riuscito a districarsi dalla folla danzante e appiccicosa che era stato costretto ad affrontare per trovare gli amici.
    Ma non avrebbero potuto aspettarlo fuori, come al solito?
    Se non altro gli avrebbero risparmiato palpatine affatto ben accette durante il percorso.
    E adesso quello.
    Domande imbarazzanti e occhiate indagatorie persino da parte dei suoi amici!
    «Ciao»
    Rischiando un infarto, per aver sentito un sussurro tanto vicino e non aver notato l’avvicinarsi di nessuno, Max si voltò per vedere chi fosse la persona che aveva battuto una mano sul suo braccio.
    La ragazza era mora, con i tacchi alti e stranamente familiare.
    «Ci siamo incontrati l’altra sera» gli fece presente lei «mi hai detto che ti vesti come un barbone».
    In un attimo collegò il suo volto a quello della tizia che aveva dato origine a tutta quella assurda serata, e non riuscì a dire niente.
    Quando era rientrato a casa, quella mattina, reggendosi sulle gambe solo grazie all’aiuto congiunto di Brook e Bach, aveva gettato a terra la felpa e cantato a squarciagola le ultime strofe di una canzonaccia di strada – eredità del suo paese d’origine – era scoppiato in un riso irrefrenabile.
    Si era a mala pena accorto delle occhiate preoccupare degli amici, nascoste alla sua vista dal velo di lacrime che avevano iniziato a scendere subito dopo.
    Ricordava vagamente quanto fosse successo poi – c’era una macchia sospetta sulla moquette dell’ingresso – ma era certo di aver pensato che una scena del genere non sarebbe mai accaduta. Che mai più una ragazza lo avrebbe messo nella posizione di sentirsi a disagio o fuori luogo.
    Che avrebbe rificcato in gola a tutte le signorinelle che contavano il loro fottuto senso estetico.
    Poi c’era stata la chiamata di Lionel – all’alba delle tre del pomeriggio, quando era riuscito a raggiungere il telefono con un mal di testa lancinante – che lo informava che quella sera si sarebbero trovati al Boulaire.
    Al momento di prepararsi lo sguardo era corso alla borsa firmata O’Connell e agli abiti ancora con i cartellini attaccati.
    Alla fine, indugiando fino all’ultimo e ricordandosi dell’imbarazzo della sera prima, aveva smesso di tenere in mano quei vestiti e li aveva indossati.
    Quelli che Castor aveva scelto per lui.
    Accidenti, era sempre colpa sua!
    «Cos’è? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» soffiò lei, avvicinandosi ancora, sussurrandogli direttamente nell’orecchio «Vuol dire che stasera non potrò usufruirne?»
    Max arrossì come un’aragosta. Le orecchie avrebbero cominciato a fumare – o almeno così riteneva – se una seconda voce non si fosse intromessa.
    «Tu non la userai di certo. Né avrai occasione di vederla, non so se mi spiego».
    Accanto al divanetto dove Max era seduto e dove la mora lo aveva placcato, avvolgendogli le braccia attorno al collo, si era improvvisamente materializzato un uomo sottile dai folti capelli rossi, che gli cadevano in ciocche disordinate attorno al viso.
    Max lo riconobbe, rischiando di strozzarsi nel pronunciare il suo nome.
    «Cosa vuoi?» fece lei, la voce dolce usata fino a poco prima nascosta da un tono ben seccato.
    «Che giri al largo Candy, lui è proprietà privata» sillabò lui cordiale, solo un pizzico di fastidio – ben celato – dietro le iridi azzurre.
    «Non scassare Castor, l’ho visto prima io» sibilò lei in risposta, rafforzando la presa su Max e facendo scorrere il proprio petto sul suo «sei tu quello che deve andare a prendere aria altrove».
    «Su questo avrei qualcosa da ridire» Bach – stramaledetto lui, era rimasto lì accanto per tutto il tempo e non aveva fatto niente – distolse lo sguardo dal cocktail che stava centellinando per puntare i suoi occhi in quelli socchiusi di Castor «se non sbaglio sei stato tu a vestirlo»
    «Proprio così» il rosso fece un cenno di assenso con il capo, prima di tornare a Candy «quindi ora te lo chiedo per l’ultima volta: togligli le mani di dosso».
    «Come sarebbe a dire?» fece lei sorpresa, guardando Max «È stato Castor a scegliere questi vestiti per te?»
    «Beh, ecco…» esitò lui, colto impreparato. Diamine, già ci stava capendo ben poco, se poi lo tiravano in mezzo a conversazione iniziata…
    «Risposta esatta dolcezza» assentì Castor deliziato «non hai notato il gusto perfetto degli abbinamenti?»
    «Potevi dirlo prima» borbottò lei contrariata, alzandosi dal divanetto – rilasciando la morsa su Max – allontanandosi ancheggiando, lanciando un’ultima occhiata obliqua a Castor e mischiandosi alla folla - probabilmente alla ricerca di qualcun altro da irretire.
    Max non era sicuro su cosa dire – aprì e chiuse la bocca un paio di volte – ma ogni sua protesta, domanda o affermazione venne bloccata sul nascere da una mano prepotente (indovinate appartenente chi?) che gli afferrò il gomito costringendolo ad alzarsi e guidandolo lontano dai divanetti e dagli amici. Sebbene l’unico amico ancora inchiodato in quell’angolo fosse Bach, che non fece il minimo cenno in segno di protesta per il suo rapimento.
    Ancora stupito dall’apparizione e improvvisamente consapevole del fatto che una certa mano gli stava stringendo fermamente il braccio, si lasciò trascinare nella folla, fino alla pista da ballo.
    «Ehi!» si riscosse finalmente, quando un altro ragazzo lo urtò nel movimento «Cosa pensi di fare?»
    «Farti ballare» fu la risposta chiara che ricevette – all’orecchio, per sovrastare la baraonda della musica.
    «E chi ti dice che io ne abbia voglia?» ribatté polemico, nel guardare scettico le coppiette avvinghiate tutto intorno a lui.
    «E cosa ti fa credere che questo mi interessi?» chiese retorico Castor, sorridendo appena, seducente.
    Max arrossì. Forse poteva sbagliarsi, ma sembrava quasi che fosse appena stato trascinato dentro all’affascinante e pericoloso gioco della seduzione. Una partita in cui partiva svantaggiato. Era stato a fare tappezzeria per troppo tempo.
    Cosa diavolo si aspettava avrebbe dovuto fare?
    «Cosa voleva dire…» il ragazzo fece una pausa imbarazzata, mentre il rosso lo tirava maggiormente a sé per evitare che entrasse in contatto con altri ballerini «che significa il fatto che hai scelto questi vestiti?»
    Facendolo ruotare sulla pista, Castor lisciò delle pieghe invisibili sugli abiti di Max.
    Passò leggero sul maglioncino nero attillato, indugiando sulle cuciture ai fianchi e sulla fantasia metallica su una spalla, per poi continuare altrettanto delicato sulle braccia, toccandolo solo con la punta delle dita - impercettibile come un soffio di vento e bruciante con un ferro arroventato.
    Max fece fatica a trattenere un gemito, ma strinse i denti e non si lasciò sfuggire neanche un ansito.
    Non sapeva come fosse possibile – per la miseria, a lui non erano mai piaciuti gli uomini! – ma un solo tocco, anche casuale - e quelli non lo erano di certo -, di Castor e si sentiva sciogliere. Una carezza e le gambe iniziavano a tremare. Un’occhiata e il suo stomaco si trovava a fare un salto carpiato nella trachea.
    Il rosso sorrise compiaciuto dal rossore che colorava le guance del ragazzo e bloccò il suo movimento su di lui solo quando infilò due dita in uno dei passanti dei jeans e posò il palmo sullo spicchio di pelle scoperta della schiena.
    «Tu lo sai, vero, che quando un uomo compra dei vestiti alla propria ragazza, lo fa perché vuole toglierglieli personalmente?» mormorò, rispondendo finalmente all’interrogativo.
    Max deglutì, improvvisamente accaldato per via del contatto di quella mano – per non dire altro, considerato il fatto che si trovava tra decine di corpi sudati e uno in particolare felicemente spalmato su di lui.
    Molto felicemente, in effetti.
    Avvampò.
    «M-ma… io non sono la tua ragazza» cercò di erigere una – blanda – difesa verso quello che sembrava qualcosa di inevitabile.
    «Questo è vero» gli sussurrò in risposta, sfiorandogli il lobo con le labbra «non sei una donna».
    Dal modo in cui Max sentì cedere le proprie gambe, forse non era del tutto certo. Non fosse stato per il braccio che Castor gli teneva attorno alla vita, probabilmente sarebbe finito a terra.
    Si sentiva ubriaco.
    «Ma sei comunque mio» soffiò sulla sua pelle, lasciando che la mano scivolasse dalla curva della schiena fin dentro i jeans, sfiorando il solco tra le natiche.
    Un mugolio e il respiro iniziò a farsi più pesante.
    «Cosa mi stai facendo?» gli chiese ebbro come non si era mai sentito. Non come se avesse bevuto, si accorse improvvisamente debole, mentre sentiva le braccia diventare pesanti ed essere accompagnate – sempre da quelle mani – attorno al suo collo. Inconsciamente – o forse troppo consciamente – Max si strinse a lui, sfregando la guancia contro la pelle scoperta del collo del rosso.
    Castor gli passò la mano libera sulla linea curva della nuca. Non ci aveva mai provato con un ragazzo più alto di lui, rifletté concentrato sul contatto dei loro corpi.
    Con un pressione maggiore lo costrinse a raddrizzarsi e gli fece scivolare le braccia attorno alla propria vita, mentre lui allacciava le proprie al collo del nuotatore, intrecciando maliziosamente le dita tra i capelli corti della nuca.
    Aveva sempre pensato che i ragazzi alti fossero goffi e tutt’altro che attraenti.
    Studiando le orecchie arrossate, le guancie lucide e gli occhi sgranati di Max, tuttavia, non poté che essere più felice di essersi sbagliato.
    Quel ragazzo gli stava chiaramente dicendo di saltargli addosso.
    Max assecondò il cambiamento di posizione con un brivido di aspettativa. Maledizione, e dire che si era ripromesso di detestarlo per tutta la vita.
    Si sentiva la gola secca e la lingua incollata al palato: quei movimenti lenti lo stavano facendo impazzire.
    «Posso offrirti da bere?» chiese l’altro lentamente, non incontrando altro se non uno sguardo opaco e un vago assenso.
    Ghignando soddisfatto, Castor tornò a passargli le braccia attorno alla vita e se lo tirò addosso, petto contro petto, mentre faceva un cenno al barman.
    «Due Mojito» fece segno, prima alzarsi sulle punte e baciare quelle labbra, come avrebbe voluto fare dal giorno prima, quando lo aveva visto muoversi impacciato nella felpa sportiva tra i corpi tirati a lucido dell’Hellsing.
 
 
Okay, lo ammetto, non l'ho fatto particolarmente lungo… ma è stata una scelta ben ponderata! Il prossimo capitolo… no, non faccio spoiler! Insomma, capirete perché questo è corto XD
 
Baci (non come quelli di Castor, mi dispiace)
 
NLH

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Capitolo 5
*** Tra risvegli e cliché ***


Come sempre, tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta.
 
 
I’m not a Murderer

05
 
Tra risvegli e cliché
 
    Svegliarsi con un lancinante mal di testa sembrava essere diventata la norma, da un paio di giorni a quella parte. Se non altro pareva non essere ancora passato mezzogiorno.
    La luce, che filtrava dalle persiane non del tutto abbassate, era ancora chiara e l’unico rumore era quello degli uccellini che cantavano appena fuori dal vetro.
    Per un attimo si chiese se non stesse ancora sognando. Muovendosi lentamente – si sentiva stranamente tutto indolenzito e c’era una zona in particolare che… - scivolò fuori dalle lenzuola e non fece nulla per impedire che frusciassero a terra. Parquet bianco, che sciccheria.
    Mosse un passo incerto e una fitta più forte delle altre lo costrinse ad afferrare lo schienale della poltroncina lì accanto.
    Uno sconosciuto dolore scendeva lungo la spina dorsale fino a-
    Avvampò – ad un passo dall’autocombustione.
    Ah, già…
    La sera prima…
    Guardandosi nuovamente intorno si accorse che nemmeno un capo dei suoi vestiti sembrava essere in vista – in effetti non era certo di esserci arrivato fin lì, vestito. Fu con un gesto veloce, dettato del desiderio di non affrontare quello che lo aspettava fuori dalla camera da letto, che prese la camicia piegata ordinatamente sulla poltrona e i boxer che – fortunatamente – vi trovò sotto.
    E se nell’ultimo caso la misura sembrava andare bene, la camicia era più evidente non fosse della sua taglia: troppo stretta sulle spalle.
    Aveva lo stesso odore di Castor. More o ribes.  E una vaga traccia di sudore.
    Rimase per un lungo attimo in contemplazione dell’ambiente in cui aveva dormito – okay, in cui aveva anche dormito – restando appoggiato allo stipite della porta. La maggior parte dello spazio era occupato dal letto, un animale dalla testata in tessuto blu a tre piazze – cosa se ne faceva di tutto quello spazio? Un brivido scese lungo la schiena alla risposta scontata. Due comodini lo limitavano ai lati, quasi contro il muro e la stanza era illuminata da una portafinestra. Una cassettiera e la poltrona completavano l’opera, risultando armonici ed eleganti. C’era anche una porta a doppio battente sulla parete opposta – che fosse la cabina armadio? Sussultò nel realizzare che non sembrava esserci traccia di un armadio e che, se lo ricordava bene, Castor aveva uno spiccato senso per la moda. Curioso, si chiese se non fosse una buona idea andare a sbirciare cosa ci fosse dietro.
    Poi sentì una risata secca provenire da qualche parte alle proprie spalle.
    Castor, arrossì.
    La casa era ampia e spaziosa e i pochi mobili che la riempivano sembravano essere stati scelti con cura e buon gusto. Persino un banale corridoio come quello che stava attraversando sembrava avere ricevuto la stessa meticolosa attenzione riservata alle stanze principali.
    Non ci mise molto a trovare l’origine della voce di poco prima.
    «Ah, ti sei già svegliato?»
    Castor, in tenuta da bagno, era di una bellezza devastante.
    I capelli, solitamente mossi e morbidi sulle spalle, erano stati tirati indietro da una mano frettolosa e scendevano in morbide volute bagnate appiccate al collo, mentre numerose gocce superstiti si staccavano dalle punte per scivolare dolcemente lungo tutta la schiena.
    Improvvisamente affamato – non aveva sentito tutto quell’appetito, prima – seguì la discesa di una gocciolina che stava percorrendo il fianco di Castor, strusciandosi su quella pelle morbida e lasciando una scia scintillante come prova del suo passaggio.
    Come la scia di succhiotti che lui stesso si trovava sul petto e sulle spalle.
    Poi si infranse sul bordo dell’asciugamano che era stato legato in vita.
    «Aehm…» cercò di rispondere, insicuro su cosa dire. Qual era esattamente il codice di comportamento dopo una notte passata insieme ad una persona appena conosciuta? “Ehi, ti sei divertito ieri sera?”
    «Scusami? Chi sei tu?»
    Solo in quel momento si accorse che accanto all’uomo c’era un’altra persona.
    La ragazza era di una bellezza unica, brillante. Era sottile e minuta e indossava un morbido vestito bianco che le aderiva al corpo, le spalle coperte da un leggero golfino azzurro chiaro. Aveva lunghi e lisci capelli castano chiaro portati sciolti lungo la schiena, mentre da sotto un frangetta sbarazzina facevano capolino un paio di luminosi occhi azzurri.
    Occhi che non persero un attimo nel passare dal suo volto – stupito e ancora vagamente sonnolento – al resto del suo corpo seminudo – coperto unicamente da un paio di boxer e la camicia trovata sulla sedia, di una taglia più piccola della sua. Forse anche due.
    Arrossendo furiosamente, Max si rese conto di non essere particolarmente presentabile.
    Se la memoria non lo ingannava, la sera prima aveva sparso i suoi abiti lungo tutto il tragitto tra la porta d’ingresso e la camera da letto, passando per la sala – stupidamente non si era ricordato di quel piccolo dettaglio quando, poco prima, aveva cercato qualcosa con cui coprirsi.
    E, trovando del tutto inappropriato usare una padella – ce n’era una bella collezione, appesa lì accanto – per celare quanto era ancora fin troppo in vista, mosse qualche passettino veloce fino a  trovarsi dietro il bancone. Se non altro, almeno la parte inferiore del corpo era al sicuro dalle occhiate lascive della giovane.
    La quale non era sembrata molto dispiaciuta dell’essere riuscita a guardarselo per bene e un po’ delusa dal fatto che quei muscoli sodi le fossero stati sottratti dalla visuale.
    «Castor» fece lei sospirando rassegnata, con un tono che sapeva vagamente di rimprovero «ne hai portato a casa un altro».
    «Non è che lui fosse poi molto contrario, sai?» commentò lui serafico, servendosi di una tazzina di caffè prima di lasciarla con noncuranza nel lavandino.
    «L’ho notato dallo stato in cui versa il tuo salotto» fu il commento di lei.
    «Sono certo, quindi, che ora ti senti di troppo, vero Clio?» ghignò lui nel vederla alzare le spalle e ridacchiare, portandosi una mano perfettamente curata al viso. Una ragazza beneducata.
    «Non dire sciocchezze. Avrei voluto vedervi in effetti».
    E, mentre Max si trovava ad arrossire in zona orecchie, sempre più confuso, i due risero apertamente.
    Non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Chi era quella ragazza? Cosa ci faceva lì?
    Non poteva essere la sua ragazza, vero? Insomma… era ben chiaro cosa avessero fatto lui e Castor, avrebbe dovuto essere gelosa, no?
    Eppure, nel vederli ridere insieme, fu proprio lui a provare una fitta tutt’altro che piacevole allo stomaco.
    E stava gusto per dire qualcosa, per chiarire tutta quella situazione, quando si sentì una chiave girare nella serratura della porta – sicuramente blindata, ci avrebbe messo la mano sul fuoco – e un’imprecazione percorse chiara il corridoio mentre qualcuno inciampava in  qualcosa.
    «Castor! Quando ti deciderai a capire che il fottuto posto per i pantaloni è l’armadio?» la voce si fece largo indignata per il corridoio, precedendo l’ingresso di un’altra persona nella cucina. L’uomo entrò nella stanza sbattendo una valigetta – dall’aria incredibilmente costosa – sul ripiano bagnato accanto al lavello, da dove Clio si affrettò a toglierla, asciugandola meticolosamente prima di posarla sul tavolo.
    Il nuovo arrivato sbuffò a quell’operazione, ma non disse nulla, limitandosi ad osservare la scena che gli si era presentata davanti agli occhi.
    Un ragazzo sconosciuto dall’aria atletica e semivestito – con abiti chiaramente non della sua taglia – e chiaramente reduce da una nottata di fuoco. Clio, in piedi dall’altra parte del tavolo, vestita di tutto punto. E Castor, ancora umido di doccia.
    Gli occhi gli si soffermarono su quest’ultimo particolare e s’infiammarono di rabbia.
    «Che cavolo ci fai ancora così! Tra dieci minuti abbiamo una riunione per discutere del progetto – che tu hai supervisionato – con i finanziatori. Non abbiamo tempo da perdere!»
    Mentre parlava, infervorandosi, si passò una mano nervosa tra i corti capelli neri, lasciandoli più in disordine di prima. Con l’altra mano si aggiustò il nodo della cravatta in un gesto abituale.
    Poi, ancora in attesa di una risposta – e che difficilmente avrebbe ottenuto, conoscendo il soggetto –, puntò gli occhi azzurri in quelli di Max, ancora immobile.
    «E dimmi» fece stanco «che intendi fare con la tua ultima scopata? Se ne va ora o non ha ancora messo su il solito teatrino di lacrime e lamenti? Non ho voglia di aspettarti».
    Max, che era rimasto a fissalo, si sentì percorrere da una scossa – tutt’altro che piacevole.
    «Orion!» lo rimproverò Clio, scuotendo la testa.
    «Non chiamarmi in quel modo astruso!» la rimbeccò lui «Mi chiamo Oscar».
    «Certo, come no…»
    «Ci sarà un motivo se ho cambiato nome e ci tengo che lo usiate! Quante volte devo dirvelo?»
    «Certo fratellino» ridacchiò Clio battendogli una mano nulla manica «magari ancora una, ti va?»
    «Strega» sibilò tra i denti prima di tornare a Max «allora che fai lì impalato? Sbrigati a vestirti, non abbiamo tutto il giorno».
    «Ma io…» spaesato e incerto – per non dire offeso – si voltò verso Castor, che nel frattempo si era frizionato i capelli, asciugandoli alla meglio, e aveva indossato un paio i jeans scuri – in cerca di una spiegazione o una risposta.
    «Ehi» Castor si intromise per la prima volta, riemergendo dal frigorifero con un cartone di latte in mano «vorrei che tu la smettessi – che entrambi in effetti – la smetteste di entrare in casa mia solo perché avete le chiavi. Dovete bussare».
    «Allora non darcele» continuò Oscar polemico.
    «Non dire sciocchezze!» si affrettò a ribattere Clio «Vuoi forse che possa chiudersi qui dentro e dimenticarsi delle cene, dei pranzi e dei tuoi importantissimi appuntamenti!»
    «Scusate…» Castor sorrideva divertito «tutto questo è molto affascinante e rimarrei volentieri qui ad osservarvi con the, bignè e tutto il teatrino, ma se non sbaglio abbiamo una faccenda da sbrigare e tra tre ore ho un impegno a cui non posso assolutamente tardare. Vogliamo procedere?»
    Oscar si frugò nelle tasche e tirò fuori un telefono ultrasottile, componendo un numero.
    «Wanda? Avvisa i signori che tarderemo. Il geniaccio qui si è dato da fare ieri sera e…» iniziò a parlare a raffica.
    Castor alzò le spalle e Clio sembrava tutta intenta a finire di riordinare i rimasugli della colazione di quest’ultimo.
    «Credo sia il caso che io…» Max non solo si sentiva di troppo, ma provava come un senso di vuoto. Come se si trovasse immerso in un barattolo, attraverso il quale la visone delle cose gli arrivava distorta e i suoni attutiti. Evidentemente non era l’unico a considerarlo una seccatura, perché Oscar tornò a voltarsi verso di lui, chiudendo la chiamata con fare sbrigativo.
    «Il mio autista ti porterà a casa o ovunque tu vorrai» fece spiccio, agitando una mano senza più guardarlo, concentrato sulle carte che aveva preso dalla ventiquattrore «è parcheggiato davanti all’ingresso, si chiama Jerome, digli che te l’ho detto io».
    «Veramente…» tentò nuovamente Max, incredibilmente sull’orlo delle lacrime. Non gli era mai successa una cosa del genere. La mano gli tremò sulla maniglia.
    Certo, non si era aspettato l’inizio di una storia, o fantasticato di vedersi protagonista di risvolti anche solo vagamente romantici, ma nemmeno quello. Almeno una spiegazione, o una finta cortesia la mattina successiva. Sapeva come andavano quelle cose. Lei vede lui, lui si accorge di lei, flirtano, bevono e ballano e se le cose vanno in porto vanno a casa di uno dei due. Un macchina o in una stanza d’albergo.
    Bella notte, risveglio appagati e senza legami. Due chiacchiere, magari imbarazzo, di cortesia e dichiarazione d’intenti – spesso coincidente con un: ci siamo divertiti ma non voglio impegnarmi, o simili.
    Solo dopo ci sarebbe stato l’addio – per la stragrande maggioranza dei casi.
    Va bene, in quel caso si trattava di due lui, ma la sostanza restava la stessa.
    Era un essere umano, for Christ sake, meritava un minimo di considerazione. Per non parlare poi di rispetto.
    «Ecco, io…» tentò nuovamente di dire qualcosa. Cosa poi? Grazie per la botta di vit, e di andare a fottere qualcun altro la prossima volta, gli dispiaceva? Certo, come no. Avrebbe voluto sprofondare nell’imbarazzo. Lo stavano fissando tutti e tre, in attesa che si decidesse ad aprire bocca. E parlare, preferibilmente, non boccheggiare come un pesce fuori dalla boccia.
    Castor, in particolare, lo osservava da sotto la frangia umida, in attesa. Quegli occhi gli facevano ancora effetto.
    «Cosa?» sbuffò Oscar spiccio, attirando l’attenzione su di sé «Cosa? Cos’altro ti serve?» fece una pausa durante la quale aggrottò le sopracciglia e portò una mano alla tasca della giacca, tirando fuori il portafoglio e aprendolo «Devi ancora essere pagato? God, non credevo che Castor potesse abbassarsi tanto da-»
    Non fece in tempo a finire la frase che un forte tonfo soffocò le ultime parole, bloccandogliele in gola.
    Max, che aveva aperto la porta per andarsene, l’aveva sbattuta con forza senza varcarla e ora era tornato al centro della stanza, livido di rabbia.
    Solo in quel momento – mentre Max torreggiava su di lui con i pugni serrati – sembrò rendersi conto che il ragazzo silenzioso altri non era che un giovane uomo parecchio più alto di lui e dai muscoli ben sviluppati. Muscoli che sembravano essersi gonfiati dalla sua ultima affermazione.
    Nascondendo il disagio lo guardò dritto negli occhi – azzurri, ma un azzurro ben diverso da quello della loro famiglia, più cupo e simile al grigio.
    «Sì?» domandò fintamente ingenuo.
    Max si prese qualche secondo prima di parlare, ma quando lo fece il tono precedentemente usato era scomparso, lasciando spazio ad una voce gelida come non gli era più capitato da anni.
    «Io non so come siete abituati voi, ma esigo un minimo di rispetto sono stato chiaro?» sibilò arricciando le labbra in segno di disgusto.
    Disgusto per essere stato scambiato per una puttana, disgusto per le parole che gli erano state rivolte e gli insulti. Disgusto per non essere stato capace di ribattere e, soprattutto, orrore per non essere stato in grado di capire quello che stava facendo, la sera prima.
    Concedersi ad un semisconosciuto – uomo, per giunta – e lasciare che la mattina dopo lo umiliasse tanto. A tal punto da considerare quella infertagli dalla sua ex ragazza una bazzecola a confronto.
    Gli stava venendo da vomitare.
    «Accetto il passaggio solo perché non so dove mi trovo e non ho i soldi per il taxi, ma sappia che se le nostre strade dovessero incrociarsi un’altra volta – per caso, in strada o in un ristorante – che c’è il mio pugno che aspetta di scontrarsi con il suo naso, sono stato chiaro?»
    Fece una pausa durante la quale lo fissò dritto negli occhi per vedere se aveva recepito bene il messaggio, poi – sotto gli sguardi sospettosamente ammirati di Clio, che non aveva più aperto bocca, godendosi la scena – si voltò verso Castor, che lo guardava stupito dall’altra parte del tavolo.
    «Per quanto riguarda te…» tacque ancora un attimo, indeciso se continuare o fermarsi. In fondo si era già umiliato abbastanza, no? «Grazie per la bella nottata, davvero» evidentemente no, non a sufficienza «la prima, in effetti, da un po’ di anni, ma di questo non te ne può fregare, vero?» fece un sorrisino sarcastico «Ricorda solo, con la scopata di domani, di evitare di fargli incontrare altra gente e mandala via prima che si renda conto di che razza di stronzo bastardo sei. Buona giornata a tutti».
    Clio sussultò leggermente , a differenza degli altri due, quando sentì sbattere la porta d’ingresso. Oscar, aggrottando le sopracciglia e – nuovamente padrone di sé stesso – si voltò verso Castor, trovandolo intento a bersi un’altra tazza di caffè e con lo sguardo fisso nel punto in cui era stato il ragazzone fino a poco prima, gli occhi vacui come fosse in realtà da tutt’altra parte.
    «Ma chi diavolo è quello?» gli chiese, senza ricevere una risposta degna di quel nome.
 
°°°
 
    Seduto sul sedile posteriore di quella lussuosissima macchina – dear God, si trattava di una Porche Panamera Turbo S blu intenso, non certo della Ford decrepita che guidava lui, appartenuta a sua zia – Max fece il possibile per non accasciarsi su uno dei tappetini color crema e scoppiare il lacrime come una ragazzina isterica.
    Come si era permesso, quello straviziato arrogante, di sbatterselo per tutta la notte e poi sbatterlo fuori di casa a quel modo? Certo, non era stato proprio lui, ma non aveva aperto bocca né altro. L’unica cosa che si era degnato di dirgli era stata: “Già sveglio?”
    Quell’ammasso di ciuffi tinti doveva avere proprio un cervello da gallina, per essersi comportato così. Non si  meritava nemmeno la sua delusione o il suo disgusto.
    Fortunatamente per lui, i pantaloni all’ingresso erano i suoi, così come le scarpe lì accanto. E aveva preso in prestito il giaccone nero che aveva trovato appeso all’attaccapanni, prima di andarsene da quel posto. Sperò che l’indumento appartenesse a Oscar.
    Non sarebbe mai più tornato indietro, e che si tenessero pure il maglione nuovo e tutto il resto. Una volta arrivato a casa, decise, avrebbe bruciato quei pantaloni. Quelli scelti da Castor.
    L’auto, esattamente come gli era stato detto, era in attesa in seconda fila  appena fuori dal portone e l’autista – un signore severo dal taglio rigido – si era rivelato più collaborativo di quanto non si fosse aspettato. Jerome, così aveva confermato di chiamarsi, non aveva fatto una piega alla sua richiesta
    Distrattamente – ma purtroppo per lui non troppo – si chiese se non fosse nella norma per lui, riportare a casa ragazzi e ragazze più o meno in lacrime la mattina dopo.
    Doveva essere veramente messo male, perché glielo chiese. Evidentemente si sentiva molto più urtato da quel comportamento da dopo, più di quanto non osasse ammettere a sé stesso.
    «Sinceramente no, capita che io debba… riaccompagnare a casa delle signorine, dopo» forse fu solo un’impressione, ma quel “dopo” somigliava in modo pericolosamente uguale al suo «ma di dover riaccompagnare un ragazz- oh, mi perdoni, un uomo… questo è insolito».
    «Quindi capita spesso che Castor porti a casa qualcuno per…» lasciò ancora in sospeso. Quella doveva essere la giornata delle frasi incomplete. Non riusciva a finirne una. Per scoparselo e poi sbatterlo fuori subito dopo? finì ugualmente nella sua mente.
    «Non so molto delle abitudini del signorino, ma le poche volte nelle quali mi è capitato di portare a casa qualcuno per lui» al che lanciò un’occhiata allo specchietto, per poi distogliere subito lo sguardo e mettere la freccia «erano tutte…» evidentemente stava cercando un modo quantomeno educato per esprimersi.
    Max si morse un labbro, amaramente divertito.
    «Tutte donne».
    «Sì» confermò Jerome.
    «Certo» si trovò a sussurrare lui di rimando, disinteressandosi della conversazione «capisco».
    Durante in tragitto, non fu quella l’unica volta in cui Jerome sbirciò il passeggero dallo specchietto retrovisore. Aveva poco più di quarant’anni, ma non si era mai sentito vecchio come in quel momento, nel vedere l’espressione assente di quel ragazzino – aveva sicuramente da poco compiuto vent’anni, lo si poteva vedere nonostante la stazza – e non era giusto che qualcuno di giovane come lui avesse dipinta in volto un’espressione come quella.
    Aveva dei begli occhi grandi, ma offuscati, e i capelli sembravano avere un chiaro bisogno di una lavata e un taglio. E una bella dormita.
    Max passò il resto del viaggio con la fronte contro il vetro a cercare di non pensare.
    Pigramente mise a fuoco il paesaggio che stava scorrendo fuori dal finestrino. Stavano percorrendo la Broad Street. Lì vicino c’era il suo bar preferito, l’Eden. Magari si sarebbe fermato lì prima di presentarsi agli allenamenti. Era mercoledì, ricordò improvvisamente. Di lì ad una settimana ci sarebbero state le prove per le eliminatorie.
    «Può fermarsi qui» disse mentre si lasciava scivolare verso la portiera «grazie per la sua disponibilità. Buona giornata».
    «Anche a lei»
    Si strinse soddisfatto nel cappotto – piuttosto bello, doveva ammettere, forse solo un po’ troppo attillato sulle spalle – era riuscito a non versare una lacrima. Niente pianti di commiserazione per la sua idiozia né di amarezza o di vergogna per quanto aveva subito.
    Fece un ultimo cenno a Jerome – era una di quelle persone che avrebbe potuto trovare simpatiche, non si fossero incontrati in quella occasione – e salì sul marciapiede.
    «Maximillian! Per la miseria, stavo morendo di preoccupazione! Potevi almeno chiamare!»
    Bach, ancora vestito come la sera precedente, gli stava marciando incontro con un cipiglio ben  poco rassicurante e il cellulare già all’orecchio – probabilmente ad avvertire gli altri che lo stavano cercando, forse – quando improvvisamente rallentò l’andatura fino ad arrestarsi del tutto, il telefono ancora a metà strada per l’orecchio e l’espressione mutò al confuso per poi stabilizzarsi in una di comprensione e compatimento.
    Max trovò estremamente difficile sostenere quello sguardo.
    Poi, qualcosa di non ben definito, sembrò staccarsi dal mento e atterrare sul tessuto pregiato. Sembrava una macchia liquida, piccola e relativamente rotonda. Un altro senso di leggerezza e una seconda macchia andò a depositarsi accanto alla prima.
    Portandosi una mano – perché stava tremando? – al viso, si sentì le guance bollenti e bagnate.
    Merda…
    Singhiozzò.
    Shit.
 
 
baci
NLH
 

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Capitolo 6
*** Nel segno dei gemelli ***




Tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per il suo ancora presente coraggio!!



I’m not a Murderer

06
 
Nel segno dei gemelli
 
    Con uno scatto che quasi non si aspettava, chiuse di colpo il libro che stava leggendo e lo scaraventò per la stanza, lasciando che sbattesse contro il muro e scivolasse a terra, la copertina staccata.
    Una settimana.
    Il periodo di tempo durante il quale faceva fatica a dormire e non ne capiva il motivo.
    Infilandosi le dita tra i capelli, Castor si tirò a sedere dal divano dove era sdraiato e borbottò qualcosa di inintelligibile mentre decideva se alzarsi e andare a mettere qualcosa sotto i denti o continuare ad oziare. Il lavoro non stava andando un granché bene.
    D’altro canto, il progetto che aveva messo in piedi con il fratello sembrava andare a gonfie vele. Una nuova linea di prodotti per la pelle – a cui aveva lavorato con gli scienziati affiliati all’Azienda. Come se a lui e a Oscar servissero altri soldi.
    La verità era che da quando suo nonno aveva lasciato il posto al maggiore dei suoi fratelli – Oscar per l’appunto – il mercato era diventato una riserva di caccia come non aveva mai pensato potesse essere.
    Alimentari, elettrodomestici, attrazioni, cosmetici e moda erano stati i nuovi campi in cui il colosso che già era la O’Connell si era mosso. Quello stramaledetto Orion – poteva aver anche cambiato nome, ma quando lo vedeva sorridere in quel modo arrogante e insofferente, vedeva in tutto e per tutto il ragazzo con cui era cresciuto – aveva una fottuta fortuna. O fiuto.
    In ogni caso il suo lavoro – quello di Castor, che languiva in un placido, beneamato niente – si era fermato e non vedeva alcun segale di ripresa. Gli mancava la voglia di scrivere e tutte le idee che gli venivano in mente parevano scadenti e scontate.
    Con un gemito di insofferenza, allungò una mano a terra e tastò alla cieca fino a trovare il bordo del quaderno – il primo oggetto lasciato cadere, prima di prendere il libro che aveva fatto la fine che aveva fatto. Lo sfogliò distrattamente, rileggendo gli appunti che aveva messo giù per il nuovo manoscritto. Era quello che faceva – da qualche anno a quella parte. Scriveva.
    La sua prima pubblicazione risaliva a cinque anni prima. Era rimasto in cima alle classifiche e ancora oggi vendeva, fermo al settimo posto.
    Il secondo volume pubblicato era stato “Sleep of Hearts generates Monsters”, che aveva ricevuto addirittura un successo maggiore di “Soul’s Color”. Entrambi trattavano di storie tormentate, intrighi e misteri che legavano e riunivano i protagonisti in torbide storie di gelosia e desiderio. Uno specchio della realtà, troppo spesso nascosta da luci colorate e annaffiata nell’alcool.
    Da quel momento era stato considerato l’astro nascente della letteratura e sei mesi prima aveva consegnato all’editore un terzo manoscritto – un poliziesco, che affondava le sue radici negli anni della Rivoluzione – che prometteva di diventare un altro più che discreto successo.
    “Morgue Phantom” era stato il titolo provvisorio da lui scelto, ma probabilmente per ora della pubblicazione effettiva lo avrebbe cambiato.
    Ed ora, fermo da mesi, stava iniziando ad annoiarsi.
    E lui detestava annoiarsi.
    Ma al momento non riusciva a pensare a nulla.
    Erano state poche le tracce e gli abbozzi di personaggi che gli erano venuti in mente e non serviva a niente rimanere a rimuginarci per ore quando il risultato ottenuto non era altro che un atroce mal di testa. E storie atrocemente piatte.
    Un uomo che in un momento di pazzia aveva ucciso moglie e figli, aveva bruciato la propria casa ed era fuggito. Condannato a ricordare per sempre gli atroci crimini commessi, si cava gli occhi e vaga alla ricerca della pace senza riposarsi, senza più riuscire a prendere sonno. Le sue avventure e le persone che incontra durante il suo incessante errare. Mamma, che allegria, gli faceva venire voglia di tagliarsi le vene.
    Non riusciva nemmeno a dormire.
    Un’organizzazione stava cercando di prendere il controllo del mondo grazie ad un farmaco sperimentale – spacciato per un vaccino. Gli effetti collaterali erano quelli di- che stronzata colossale, non valeva nemmeno la pena di leggerla per intero. Come diavolo gli era anche solo passata per la mente?
    Si chiese se per caso non stesse covando un’influenza, considerato il peso sempre meno sopportabile che si sentiva allo stomaco.
    Una creatura di un altro pianeta che arriva sulla terra e capisce solo il linguaggio dei sapori, perché sono come le parole. Non parla e sente l’aria. Pura fantascienza.
    Che avesse mangiato qualcosa di avariato? Eppure era sicuro che i funghi fossero ancora freschi…
    La tragedia di due gemelli separati alla nascita, uno destinato alla grandezza e l’altra alla perdizione. Banale, banale, banale!
    Sospirando si apprestò a leggere l’ultima traccia, scritta poco più di qualche giorno prima.
    Due persone sconosciute si incontrano per caso e passano la notte insieme, lasciandosi per tornare alle loro vite la mattina successiva, sicure che non si sarebbero mai rincontrate, ma il caso volle che una delle due – detentrice di uno spaventoso segreto – si trovi coinvolta e debba fuggire dall’organizzazione per cui lavora l’altra.
    Solo vagamente interessante, storse il naso, ma neanche lontanamente realizzabile. Quanti ne erano stati già scritti di quelli?
    Poi, improvvisamente, una fitta allo stomaco gli fece fare un collegamento del tutto inaspettato.
    Maximillian.
    Ricordarlo rendeva la sua insofferenza più profonda. E non sapeva spiegarsene il motivo.
    Okay, non era uno stupido e sapeva perfettamente con il modo in cui si erano “non-salutati” era stato parecchio scortese – da stronzi, aveva detto Clio – ma non pensava avrebbe dato a quel ricordo un peso tanto grande.
    Non avrebbe voluto comportarsi tanto da stronzo, ma quando si era trovato Clio in cucina non aveva capito più niente. Era ancora arrabbiato con lei e aveva lasciato che quei sentimenti prendessero il sopravvento.
    Non le aveva ancora perdonato la decisione di trasferirsi in Giappone – Giappone, mica girato l’angolo.
    Era arrabbiato con lei e per un attimo si era dimenticato dell’ospite nell’altra stanza.
    Almeno fino a quando non se lo era trovato davanti mezzo svestito e con ancora quell’espressione soddisfatta in volto e si era sentito a disagio al pensiero di doverlo scaricare, così aveva lasciato che Clio e Orion si occupassero di lui.
    Era stato inspiegabilmente fastidioso vedere l’espressione del ragazzo diventare spenta, ferita, per poi scoppiare in una rabbia incontrollata. Non avrebbe mai immaginato potesse avere così tante sfumature il suo animo.
    La prima volta che lo aveva visto, in quell’incontro casuale nell’atelier di famiglia, mentre stava supervisionando la merce esposta, lo aveva trovato degno di attenzione. Se ne stava lì, circondato dai suoi amici e compagni che lo prendevano in giro, con quel broncio adorabile e quel sorriso che sembrava pronto a sbucare fuori da un momento all’altro… e aveva pensato che avrebbe voluto averlo.
    Lo aveva puntato e affascinato. Poi lo aveva avuto.
    Era come uno dei suoi soliti capricci, che lo prendevano il tempo necessario e poi lo lasciavano andare, tornando nei ranghi di indifferenza che gli erano soliti. Si aspettava esattamente quello che gli aveva dato: l’eccitazione di una sera, il corteggiamento e un divertimento temporaneo. Castor sapeva che non sarebbe stato niente di serio, e lo sapeva anche Max – glielo aveva letto negli occhi, quando lo aveva visto la mattina dopo – che stava cercando il modo migliore per andarsene senza chiasso.
    Quello che però non si aspettava di sentire – oltre all’imbarazzo e ai segni dei morsi – era il rifiuto e l’umiliazione da parte di tre estranei.
    Esattamente come Castor non si sarebbe mai aspettato di sentire una morsa allo stomaco.
    Non una piacevole, come quando gli veniva fame o le montagne russe partivano a razzo.
    Era stato come una tenaglia che gli afferrava la viscere e si divertiva a girare e rigirarsi su sé stessa.
    Lo aveva visto entrare in cucina con quell’espressione scandalosamente candida e imbarazzata – per non dire anche di cupida bramosia – e Clio aveva parlato. Impreparato, non aveva mosso un muscolo.
    Forse era quello a tenerlo sveglio? Senso di colpa?
    Castor era sempre stato considerato un genio – dalla famiglia, a scuola e nel mondo del lavoro – ed era abituato ad ottenere quanto desiderava.
    E quella notte l’aveva ottenuto – appagamento, eccitazione e follia. Quindi perché adesso doveva sentirsi così?
    Chi diavolo era Max?
    E perché se lo stava chiedendo?
    Rimase a fissare il vuoto per tutto il resto della mattinata, la ciotola di cioccolato fuso e melone che si era preparato per uno spuntino che si raffreddava sul pavimento.
 
°°°
 
    Dire che Tom si sentiva preoccupato sarebbe stato un eufemismo.
    Mancavano meno di sedici minuti all’inizio delle selezioni e si trovava con una squadra che più disastrata non sarebbe potuta essere. E nel giro di quattro ore sarebbe partita la prima batteria per le eliminatorie.
    Sin dal momento in cui i ragazzi erano entrati in palestra – per il consueto riscaldamento prima di entrare in vasca, aveva avuto il sentore che qualcosa sarebbe andato storto.
    Va bene, dire il sentore magari non avrebbe reso l’idea…
    Appena varcato l’ingresso, infatti, Jamie aveva afferrato il materassino per l’allenamento e si era posizionato tra la pressa e la macchina per gli adduttori, di modo da non essere affiancato da nessuno. Era poi stato con sommo sbigottimento che aveva visto il gemello scoccargli un’occhiata irritata e stendere il proprio accanto a Dorian.
    Dorian!
    Quello tra tutti i membri della squadra che parlava di più e che quel giorno non aveva detto che un saluto.
    Era stata una scena a ridosso dell'apocalittico.
    Mai, e si ripeté nella sua testa con rafforzata convinzione, mai aveva visto i gemelli Gordon vivere niente meno che in simbiosi.
    Stava giusto per chiedere cosa potesse essere successo tra i due quando un'altra visione del tutto insolita gli si era parata in fronte.
    Bach, ancora con la felpa addosso, che fissava i piedi mentre camminava. Accigliato.
    Tom non poteva dire di conoscerlo bene, non come gli altri ragazzi. Bach era sempre stato come un mistero per lui, un mistero avvolto in un altro mistero. Un po’ come una donna. Lo aveva trovato complicato, machiavellico e facile alle provocazioni. Una sorta di teppista sofisticato e ammantato da una patina di superiorità.
    Un ragazzo difficile da controllare, ma bravo a controllarsi, entro i propri limiti.
    Non lo aveva mai visto arrabbiarsi se non per motivi più che validi, non lo aveva mai sentito mentire preferendo una visione sincera del mondo, anche se piuttosto cinica. Sincerità radicale, così l’aveva chiamata.
    Non lo aveva mai visto perdere una discussione – o quell’unica rissa a cui aveva assistito quando ancora il ragazzo non faceva parte della squadra, ma era solo uno dei tanti candidati suggeriti da Brook, il quale glielo aveva presentato come un suo amico, un po’ problematico forse, ma capace.
    Non lo aveva mai visto abbandonare l’espressione di sfacciata indifferenza dal suo volto, nemmeno nelle situazioni di tensione pre-gara.
    Quella era la prima volta che lo guardava e avvertiva che sì, di fronte a lui c’era il Bach Queen che Brook aveva imparato – a proprie spese – a conoscere al tempo della scuola. Qualcosa di muoveva dietro le pupille grigie.
    Era chiaramente incazzato. Lo osservò allungarsi con una smorfia irritata e concludere la serie di esercizi in modo impeccabile e totalmente impersonale. Era evidente che la mente fosse altrove.
    Nel vederlo in quello stato, si era chiesto se per caso non centrasse qualcosa con i Gordon, ma il moro non lanciò nemmeno un’occhiata a Joakim o Jamie, continuando a fissare un punto davanti a sé.
    Lionel, l’unico che sembrava essere arrivato di buon umore, aveva saggiamente deciso sarebbe stata un’ottima idea starsene in silenzio invece di fare battutine come sempre – un po’ perché Dorian non aveva ancora aperto bocca, dettaglio catastrofico –, un po’ perché l’umore era talmente tanto a terra che si era lasciato influenzare.
    Per un momento, l’allenatore si trovò a desiderare di non aver concesso a Brook e Max di precederli in piscina.
    Magari con la loro presenza calma e rilassante li avrebbero aiutati a distendersi.
    O almeno era quello che aveva sperato nel precederli all’angolo a loro assegnato per la gara.
    Mancavano ancora quattro ore all’inizio ufficiale delle selezioni e gli atleti cercavano di occupare il tempo nel modo che ritenevano migliore. Quello era il periodo delle parole, delle interviste, delle preparazioni e dell’accoglienza degli ospiti.
    Le batterie non sarebbero partire prima delle cinque.
    Tom osservò gli atleti avversari conversare con amici o parenti, discutere o ascoltare i rispettivi coach, oppure rimanere seduti in disparte ad ascoltare musica. C’era qualcuno che leggeva, chi continuava con il riscaldamento muscolare e chi era entrato in acqua per farsi qualche vasca in totale relax.
    Apparentemente sembrava una giornata come un’altra – nell’ambito delle gare, beninteso.
    «Coach» sentì una mano battere delicatamente sulla spalla e si girò, vedendo Max stargli di fronte con un asciugamano sulla spalla e con un’espressione stranamente rigida in volto.
    «Tutto bene, Maximillian?» chiese cauto. Pure lui no!
    «Certo» affermò scrollando una spalla noncurante «perché?»
    «Niente» bofonchiò scettico, tornando a guardarsi intorno «è solo che oggi mi sembra che la squadra abbia qualcosa di strano».
    «Vorrei farmi qualche vasca» aggiunse Max, ignorando la sua ultima uscita – elemento che lo fece sospettare maggiormente «terresti il tempo?»
    «Certo» assentì sfilandosi il cronometro dal collo e accendendolo, in attesa con il ragazzo di posizionasse sulla pedana per il tuffo.
    Nel vederlo chinarsi in avanti e sistemarsi, flettendo i muscoli allenati, l’immagine della prima volta che lo aveva incontrato, anni prima, si sovrappose a quella presente, fondendosi in un ricordo a cui non pensava da tanto tempo.
    Fece partire il tempo.
 
    «Avanti Callagh, solo un’occhiata, che ti costa?»
    «Mi costa che ho da fare» aveva borbottato, cercando inutilmente di scrollarsi di dosso quella vocina petulante. Quella persona petulante.
    France Swon era stato un compagno di quadra alle scuole medie. Avevano gareggiato da bambini e per un qualche strano motivo la loro amicizia era durata in tutti quegli anni. Soprattutto da parte dell’irritante biondino, si trovava in quel momento a mugugnare tra sé, allungando il passo nel goffo tentativo di scollarselo di dosso.
    Era arrivato in città da un giorno, e già era a quel punto.
    Si erano incontrati per caso ad un Internet Café e France si era dimostrato incredibilmente felice di vederlo. Anche troppo.
    Il motivo?
    Aveva scoperto quello che lui definiva un nuovo talento. Un ragazzino indubbiamente scheletrico e rinchiuso nel proprio mondo che magari era un po’ bravo a nuotare. France gli aveva chiesto di fargli fare un provino per ammetterlo nella sua squadra.
    That bullshit.
    «Senti, non ho dubbi sul fatto che questo…»
    «Maximillian» ci tenne a ripetere l’amico tenendo il suo ritmo senza fatica. Maledetto sportivo.
    «Giusto, Max» aveva sospirato seccato «dicevo, non ho dubbi sul fatto che sia eccezionale-»
    «Non è solo questo!» lo aveva interrotto nuovamente, eccitato  «È un autentico talento!»
    «Appunto» aveva biascicato tra i denti «comunque non ho più posto in squadra, le selezione sono state chiuse settimana scorsa».
    «Ma devi assolutamente vederlo!» aveva insistito gesticolando e piazzandosi davanti a lui, deciso a non farlo proseguire fino a quando non lo avesse ascoltato – ed essersi convinto che sì, doveva assolutamente dare un’occhiata a quel prodigio.
    «Io non devo proprio niente» aveva sibilato seccato «adesso però fammi il favore di tornartene da lui a dirgli che no, non ho tempo né voglia di stare a guardarlo annaspare a galla!»
    «Veramente…»
    «Mister Swon» una voce bassa e acuta aveva attirato la sua attenzione, portandolo a guardare negli occhi un ragazzino che gli arrivava a mala pena al gomito.
    «Maximillian» la voce dell’amico si era ammorbidita, come quella di un maestro che si rivolge al proprio pupillo.
    «Sarebbe lui?» Tom lo aveva squadrato scettico.
    Era basso per la sua età – dodici anni, forse tredici? – e portava i capelli tagliati cortissimi. Guance morbide e spalle sottili e nervose.
    Grandi occhi azzuro-grigi.
    Un ragazzino normalissimo.
    «Lei chi sarebbe?»
    Eppure aveva un tono piuttosto indisponente, per essere un frugoletto da poco svezzato.
    «Lui è il Coach di cui ti ho parlato, Tom Callagh, un mio vecchio amico» si era affrettato a spiegare France posandogli una mano sulla schiena, per farlo avanzare e mostrarsi interamente. Indossava un paio di pantaloncini a righe sottili e una maglia verde scuro slavata.
    «Non la tratta molto da amico» aveva mormorato il bimbo sospettoso, guardandolo dritto negli occhi.
    Tom si era costretto ad ammettere che, tutto sommato, almeno un po’ di fegato sembrava averlo.
    «Quindi tu saresti il prodigio?» aveva commentato sarcastico, senza lasciar intendere aver ascoltato le sue ultima parole «Come ti chiami?»
    «Maximillian Pollux, undici anni» aveva risposto pronto, stringendo al petto – solo ora se ne era reso conto – un album da disegno. O forse un libro illustrato. Fantastico, un bambino.
    «E dimmi, Maximillian Pollux» aveva detto, nuovamente ironico «sei veramente così bravo come ti si dipinge?»
    Il bimbo aveva lanciato un’occhiata perplessa a France, che gli aveva sorriso incoraggiante, poi era tornato a fissarlo.
    «Per saperlo deve vedermi, no?»
    Tom aveva fatto fatica ad ingoiare lo stupore.
    E quell’imbecille di France era scoppiato a ridere.
 
    Uno schizzo d’acqua lo raggiunse, dandogli segno che Max si stava avvicinando alla meta.
    Scuotendosi dai ricordi, bloccò il cronometro, facendogli segno positivo. Fatto.
    Mentre il ragazzo si sollevava sulle braccia per uscire dalla piscina, Tom si distrasse a guardare gli altri ragazzi. Dorian e Brook sedevano corrucciati con il walkman acceso – in barba al fatto che Tom avesse sperato nell’influenza positiva del secondo per migliorare l’umore. Joakim alternava occhiate al gemello con la lettura di una pagina del fumetto che si era portato dietro, mentre Jamie stava confabulando qualcosa con Lionel, dandogli ostentatamente le spalle.
    Bach sedeva composto con la testa riversa all'indietro e il volto nascosto dall’asciugamano, le spalle rigide a mostrare la sua irritazione.
    Stavano dando chiaramente mostra di un esiguo coinvolgimento, gridando a tutti gli avversari che no, non erano affatto in forma. L’unico che sembrava andare forte e sul pezzo era Max, che aveva appena realizzato il tempo migliore dell’ultimo anno. Lo guardò issarsi sul bordo della piscina e afferrare un asciugamano per tamponarsi l’acqua sul viso e sul collo.
    Un campione nato di impegno e dedizione.
    Peccato solo avesse quell’espressione corrucciata e la fissa di allenarsi senza freni anche prima di una gara importante solo quando qualcosa nella sua vita stava andando storto.
    La prima volta in cui se ne era accorto era stata quando la sua ragazza lo aveva mollato. La seconda alla morte del padre e la terza – che aveva sperato essere l’ultima – quando era stato sfrattato, sette mesi prima.
    Lo osservò passare oltre i compagni di squadra senza proferire parola e infilarsi nelle docce. Proprio in quel momento Bach alzò un lembo dell’asciugamano lo seguì con lo sguardo, scuotendo la testa.
    Max non aveva aperto bocca, non aveva guardato nessuno negli occhi e, soprattutto, aveva una scia non poco sospetta di fioriture rosse sul collo, lungo la spina dorsale e un vecchio livido circolare sulla spalla.
    Tom fece scorrere lo sguardo tra Max e Bach, sospirò, e fece un cenno per attirare l’attenzione di quest’ultimo.
    Devo parlarti, gli sillabò prima di dirigersi verso il pullman con cui erano arrivati.
    La preparazione pre-gara l’avrebbe fatta dopo.
 
 
Hi, quindi eccoli la situazione vista da un altro punto di vista… ci tenevo a far valere anche la voce della controparte bastarda perché, nonostante il comportamento ecc, Castor è uno dei personaggi che amo di più… chissà come mai…
Direi quindi anche che è arrivato il momento di mettere il suo profilo, non credete?
 
Castor O’Connell
Un metro e settantatre, capelli castani tinti di rosso, occhi azzurro intenso, tipici della famiglia, apparentemente sottile, ma anche molto forte. È un autentico genio, tutto quello che fa gli viene in modo eccezionale. Scrive da anni e si è laureato contemporaneamente in letteratura moderna ed economia. Non vuole prendere in mano gli affari della famiglia, ma se è necessario li aiuta, poi torna alla sua vita di sempre.
Ha 24 anni.
 
baci
NLH

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Capitolo 7
*** Si aprano le danze ***


Tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per il suo ancora presente coraggio!!



I’m not a Murderer

07
 
Si aprano le danze
 
    Se avesse dovuto essere sincero con sé stesso – sebbene raramente, nell’ultimo periodo lo fosse stato – Castor non avrebbe saputo definire esattamente il sentimento che lo aveva spinto ad uscire di casa, infilarsi in macchina e raggiungere la Polisportiva.
    Avrebbe quasi potuto dire di essersi reso conto di non stare più rimuginando nella solitudine del suo salotto solo nel momento in cui una forte zaffata di cloro aveva raggiunto le sue narici, nel momento in cui aveva aperto una delle grandi porte a vetri della Polisportiva.
    Ricordava vagamente di essere uscito di casa, di aver salutato il portiere e guidato per venti minuti prima di parcheggiare – aveva chiuso l’auto? Era una Mercedes SLS, blu notte, mica un Ford, come quella accanto a cui si era messo. Sapeva solo che, in quel preciso momento, si trovava in piedi sugli spalti gremiti di gente e rumorosi a guardare di sotto, in direzione dei numerosi ragazzi pronti a gareggiare – tutti rigorosamente in costume.
    Era troppo lontano per riconoscere chiunque, vero?
    Non poteva certo trovare Max in mezzo a quella confusione, quindi non era certo andato lì per vedere lui.
    Certo, raccontala ad un altro.
    Era lì perché… aveva avuto un improvviso desiderio di dedicarsi ad uno sport.
    Sei lì per guardare, altro che palle. Avessi veramente voluto praticare qualche sport, saresti andato alla piscina di famiglia.
    Il nuoto era una delle attività più complete, adatto a tutte le età e salutare.
    Certo, e tu ti ci dedicheresti parecchio ad una certa attività. Castor scosse la testa, infastidito e come incapace di darsi un freno. Era tutta colpa di quell’odore di cloro, decise. Colpa sua e delle immagini che emergevano con esso.
    Anche se molto probabilmente centrava anche un certo indolenzimento che sentiva alla spalla, dove una certa persona lo aveva morso nella foga del momento.
    Una certa persona che stava proprio…
    Castor si accorse di Max nel momento stesso in cui la prima batteria dei 400 stile libero salì ai blocchi di partenza.
    Lo aveva riconosciuto, nonostante la distanza.
    Forse erano stati i capelli – quella stramaledetta sfumatura di miele nel castano – prima di venire celati dalla cuffia blu. Oppure quel suo modo particolare di soppesarsi su una gamba prima di chiudere gli occhi e passare all’altra. O magari poteva pure essere quel livido scuro – si vedeva anche a distanza – ultimo segno di un morso, gemello al proprio.
    Lo vide prendere posizione e curvarsi armoniosamente in avanti.
    Quell’immagine ne rievocò un’altra, e poi un altra e un’altra ancora,
    Chiuse gli occhi quasi inconsciamente e si passò la lingua secca sulle labbra altrettanto aride.
    Si perse la prima vasca e anche la seconda, ma quando tornò a riaprirli non ebbe bisogno di chiedersi chi fosse, tra le dieci teste incappucciate di blu che si distanziavano e riprendevano.
    E non perché si ricordasse la corsia.
    C’era qualcosa – nel suo modo di muoversi, nuotare, immergersi e riemergere  – che gli diceva che era lui. Sembrava tagliare l’acqua come fosse stata aria, volando in avanti senza sforzo.
    Seguiva la contrazione e il guizzo dei suoi muscoli e faceva fatica a distogliere lo sguardo.
    Quando lo vide battere il sensore con la mano seppe che qualcosa era cambiato – e non in quel momento, ma da prima, quando aveva per la prima volta posato gli occhi su quel particolare soggetto, facendo un’eccezione al suo solito tipo. Seppe che non sarebbe stato in grado di voltarsi e lasciare tutto alle spalle come aveva sempre fatto.
    Capì, non senza un certo sconcerto, che stava pensando a lui. Seriously.
    A lui e non a se stesso, per dieci minuti. E di più, concesse, smettendo di raccontarsi palle.
    Molto di più.
    Ed era una settimana che non andava a letto con qualcuno. E non dormiva.
    Damn Fuck.
    Chiuse gli occhi un’ultima volta, portandosi una mano a coprirli e lasciando che i capelli si posassero come una cortina tra loro.
    Era decisamente in un fottuto casino.
 
°°°
 
    Bach era tornato in quel negozio solo perché, l’ultima volta in cui ci era stato, aveva trovato un bel cappello. Nervosamente strinse tra le dita l'anello sottile che teneva appeso ad una catenella, al collo. Quel gesto abitudinario ebbe il potere di calmarlo.
    Era sera, era quasi orario di chiusura e la gara era andata decisamente peggio di quanto si aspettassero.
    La staffetta aveva totalizzato un punteggio di quattro punti inferiori alla media, si erano classificati sesti e non avevano potuto accedere di primo turno alle selezioni successive. Avrebbero dovuto confrontarsi nuovamente con le posizioni dalla quinta alla decima per garantirsi l’ingresso alle eliminatorie della Pennsylvania.
    Wonderful.
    Persino Brook, pur essendosi posizionato secondo aveva dimostrato meno di quanto avrebbe potuto fare, fosse stato in forma.
    Fortunatamente Lionel e Max erano riusciti a dare dei buoni tempi, ma solo perché il primo era riuscito a rilassarsi a sufficienza prima dell’inizio – era sparito con una ragazza, e qui si sarebbe fermato con le spiegazioni, ‘kay? – mentre Max si era spremuto come un limone.
    Esattamente come aveva fatto durante tutta la settimana precedente, senza fermarsi, senza riposarsi.
    Distrattamente si chiese quanto sarebbe potuto durare, con quel suo comportamento autolesionista.
    In ogni caso, mentre la squadra stava rimuginando, sbollendo e deprimendosi nel modo migliore di loro conoscenza, lui era lì, alla O’Connell Fashion. Per comprarsi un cappello di cui non aveva il minimo bisogno.
    Ma aveva bisogno di pensare.
    E di parlare a Max – a cui aveva dato appuntamento.
    Con un gesto deciso ripose il copricapo che teneva in mano in favore di un modello più serio, in puro stile Dean Martin.
    Pur continuando a far scorrere la mano sulla stoffa liscia, la sua mente era completamente volta ad un ricordo, risalente il pomeriggio precedente. Quando l’allenatore lo aveva chiamato fuori, alle porte delle Selezioni.
 
    «Cosa sta succedendo alla squadra?» aveva esordito Tom bruscamente, nel momento stesso in cui lo aveva raggiunto sul pullman.
    Bach ne era rimasto stupito.
    Non che non se lo aspettasse – in fondo il loro coach era una persona recettiva e chiunque se ne sarebbe accorto dopo il loro comportamento insolito – ma, conoscendolo, si sarebbe aspettato una riunione logistica sulle modalità di affermazione di indipendenza in una squadra alle porte di un’importante gara, o qualcosa del genere.
    Non certo che lo chiamasse fuori per scaricargli addosso una sequela di domande a cui non aveva voglia di rispondere.
    Era anche certo, comunque, che Bach era sempre stato quello meglio informato su quanto accadeva nel gruppo.
    «Siamo tesi» aveva iniziato, indeciso se dire la verità – come sempre ovvio, altrimenti che gusto ci sarebbe stato a sprecare fiato? – oppure soprassedere e dimenticare una certa serie di fatti di sua conoscenza.
    «E non osare dirmi che è solo per la gara, intesi?» lo aveva anticipato Tom – che conosceva i suoi polli.
    «Siamo tesi» si era permesso di sospirare Bach, tornando sui propri passi «perché ci sono un paio di cose che non vanno».
    «Nella squadra?» aveva chiesto, cercando di ricordare litigi o scontri durante gli allenamenti.
    «No, fuori».
    Sempre conciso.
    Tom sembrava esasperato.
    «Va bene, ho capito. Non serve che spieghi, rispondi solo» occhi negli occhi «tra Jamie e Joakim è successo qualcosa l’altra sera? Quando siete usciti».
    «Settimana scorsa» aveva tenuto indispensabile precisare.
    «Per una donna».
    Ebbene sì, Tom conosceva bene i suoi ragazzi.
    «Mentre per Max-»
    Bach lo interruppe subito.
    «Max è un’altra storia» chiudendo per un momento gli occhi, rievocando quando lo aveva visto scendere da quella macchina tirata a lucido. Non lo aveva nemmeno guardata, quando gli era passata accanto perché dai!, Max non sarebbe mai salito di propria spontanea volontà su un mezzo tanto appariscente, ma gli occhi gli erano inesorabilmente caduti su di lui che apriva la portiera e scendeva, quando aveva accostato poco distante.
    «È entrato in un brutto giro?» gli aveva chiesto preoccupato, ricordando qui segni sulla sua pelle.
    «No!» aveva esclamato l’altro, aggrottando le sopracciglia «Come ti viene in mente?»
    «È stato picchiato» non sembrava una domanda.
    Bach aveva scosso il capo rassegnato, rievocando esattamente quegli stessi segni sull’amico. No, quelli non erano certamente i regali di una serata passata a battersi in un vicolo. Erano i segni di una nottata passata a farsi sbattere in un letto.
    Ma quello non lo avrebbe mai detto.
    Never, specie a Tom. Non ne sarebbe uscito vivo.
    «Li ho visti» aveva insistito l’allenatore, indicando un punto imprecisato al di fuori del finestrino - indubbiamente atto ad indicare Max, presumibilmente ancora impegnato a farsi una doccia pre-gara «quei segni».
    «Non è successo niente, di violento intendo. Non è stato picchiato» aveva affermato nuovamente, con maggiore decisione «Max non è il tipo, lo sai meglio di me».
    «Allora cosa?» era sbottato Tom, esasperato «Come ha fatto a ridursi-» s’interruppe improvvisamente, la bocca spalancata e gli occhi aperti a guardare lontano, fuori dal finestrino «oh».
    «Già» si limitò a confermare il moro «“Oh”…»
    «Ma…» Tom era sembrato indeciso su come continuare «Max non è…» aveva allungato una mano, presumibilmente a sfiorare l’orecchio, bloccandosi a metà gesto allo sguardo duro di Bach «voglio dire» si era affrettato a correggersi «lui ha avuto una ragazza. Tiana, ricordi?»
    «Quindi?»
    «Quindi» aveva ripetuto l’allenatore, come a rimarcare un punto fondamentale  «o è stato con una donna decisamente possessiva e dominante o ha voluto provare qualcosa di nuovo. Lo capisco, è giovane, è normale che abbia le sue fantasie, ma questa non è una giustificazione per presentarsi con strani segni di mors-»
    «Per favore» alla fine lo aveva interrotto, portandosi una mano agli occhi esasperato – e per nulla desideroso di conoscere cos’altro la sua mente avesse prodotto «Max è meglio se lo lasci stare. Starà bene, davvero».
 
    «Mi scusi»
    Bach si riscosse, guardando disorientato alla propria sinistra e vedendo una commessa dall’aria gentile – e in qualche modo timorosa – che gli stava porgendo un biglietto piegato in due.
    «Sì?» le chiese indifferente, senza accennare a prenderlo in mano. Cos’era? Il conto per i capi provati e rimessi a posto?
    Possibile.
    «Mister O’Connell mi ha chiesto di darle questo» proseguì la ragazza solo con un lieve tentennamento, tornando a spingere con discrezione il biglietto verso la sua mano.
    Bach lo prese – evidentemente non poteva fa re altrimenti – e lo spiegò con un dito.
    Scorse le poche righe e socchiuse gli occhi.
    «E Mister O’Connell è per caso nei paraggi?» domandò lievemente, tenendo il biglietto tanto stretto tra due dita da sgualcirlo, mentre la ragazza – Lauren, dal cartellino attaccato alla giacca della divisa – faceva un istintivo passo indietro. Forse per lasciargli un po’ di spazio, forse per il lampo freddo che si era improvvisamente palesato dietro le iridi grigie di quel ragazzo.
    «È nel suo studio» rispose esitante «se vuole seguirmi…»
    «Non sarà necessario» un uomo s’intromise, arrivando alle spalle di Bach e facendole cenno di andare, che da quel momento in poi ci avrebbe pensato lui.
    Lauren annuì un poco sconcertata e chinò il capo prima di andarsene e tornare alla propria corsia.
    Bach inspirò profondamente prima di voltarsi e mettere a fuoco la persona alle proprie spalle.
    «Tu».
    «Io» piegò le labbra in un sorriso beffardo che però non raggiunse gli occhi.
    Bach non rispose alla provocazione e si limitò a squadrare il volto sottile dell’altro, sempre incorniciato da quei capelli fulvi in maniera totalmente tinta e quegli occhi sottili. Sembrava non aver dormito molto, di recente: occhiaie violacee incorniciavano la pelle pallida delle palpebre, nascoste da grandi occhiali da vista dalla montatura scura. Poco sonno e pure a dieta, forse, constatò nel notare anche un principio di guance incavate.
    Che fosse reduce da una brutta influenza?
    «Non ho niente da dirti» affermò dopo aver smesso di squadrarlo malamente.
    «Oh, io non credo» sorrise lievemente, con appena una punta di amarezza, Castor «sono certo che hai molto da dire – o da fare. Ma se permetti inizio io» fece un momento di pausa «abbiamo una cosa in comune, noi due».
    «Una vena di sadica stronzaggine? Potresti avere anche ragione» Bach fraintese volutamente.
    «Maximillian» sospirò l’altro, abbassando il tono di qualche ottava.
    «Io non credo proprio» fu il l'unico commento a cui permise di affiorare da sotto la radicata maschera di impassibilità che gli era solita.
    «Non ti sto costringendo a rimanere ad ascoltarmi-» tentò nuovamente Castor, fermo e apparentemente calmo, nonostante una ventura di stanchezza a opacizzare l'impostazione da giovane ragionevole. Sembrava un po' troppo disilluso per essere una persona tanto giovane.
    «Infatti ora me ne vado» ribatté pronto Bach, continuando a guardare un punto indefinito alle spalle del rosso.
    «Non ti sto trattenendo» chiarì il concetto, la voce pacata e stanca.
    «Tu e io» rimarcò con forza Bach, pur continuando a mantenere un tono lieve «non abbiamo nulla in comune se non il fatto di conoscere Max. Non abbiamo Max in comune. Tu non ce l'hai».
    Non sarebbe potuto essere più chiaro di così.
    «È vero» ammise, mostrando un'umiltà che non pensava di possedere ancora, facendo un'incredibile fatica ad esprimere il concetto che aveva in mente «quello che ho… condiviso con Max non mi da alcun diritto su di lui, specie dopo quello che ho… dopo come mi sono comportato».
    Se Bach se fosse aspettato altro in risposta a quella sua provocazione - ad esempio una battuta sulla linea di: "Ma io Max l'ho avuto, per una notte, ed è molto più di quanto tu non abbia mai fatto" - non ne diede segno, limitandosi a stringere le labbra in una linea sottile.
    «Allora cosa vuoi da me?»
    «Parlarti».
    «E se io non volessi ascoltarti invece?» chiese pacatamente il moro, spostando il peso sull'altra gamba e riprendendo in mano il cappello precedentemente posato sullo scaffale, rigirandoselo tra le mani.
    «Non ti sto trattenendo» ripeté Castor, il tono più rilassato e meno amaro rispetto all’inizio «e tu non te ne stai andando. Perché?»
    Il moro rimase in silenzio solo per una manciata di secondi più del solito, ma non per trovare una risposta. Voleva valutarlo. That's all.
    Lo aveva conosciuto attraverso il loro primo incontro - durante il quale non gli aveva dato alcuna rilevanza, registrando solo il fatto che era interessato all'amico. Poi aveva avuto modo di vederlo al locale - due meri minuti - durante i quali lo aveva osservato liberare sempre il sopracitato amico da una piattola e esserselo avvinghiato addosso più aderente di un costume bagnato.
    Alla fine Max gli aveva - più o meno - raccontato il resto. Niente sulle parti piccanti, chiaro, il provetto nuotatore era più abbottonato di una suora quando si trattava di raccontare le parti interessanti, quindi aveva imparato ad intuire. No, quello che aveva veramente estrapolato dal discorso sconclusiontato di Max, da sotto la massa arruffata dei capelli e da dietro la più grande tazza di cioccolata cura-cuori avesse mai visto, era che Castor era molto più complicato di quanto non sembrasse.
    Affettato in alcuni suoi modi, sarcastico, manipolatore e intelligente - spaventosamente, gli verrebbe addirittura da dire. Sincero, pure se in un modo tutt'altro che gradevole, la maggior parte delle volte in cui lo aveva sentito parlare. In effetti non c'era proprio niente in Castor che lui trovasse anche solo attrente.
    E poi Max non era minimamente tipo da innamorarsi o cascarci facilmente in quel modo - certo, con la ragazza precedente era stato uno sbaglio dall'inizio alla fine, ma erano passati anni e si era migliorato, era cresciuto. E sembrava essere seriamente preso da Castor, checché ne dicesse.
    Doveva quindi esserci qualcosa di più in quel damerino tinto.
    E lui chiedeva per quale motivo non se ne fosse ancora andato?
    «Forse voglio ascoltare cosa hai da dire».
    Pochi secondi, ma Castor avea avuto come l'impressione di essere stato risucchiato in quegli occhi grigi del suo interlocutore, e la cosa lo aveva lasciato non poco infastidito, oltre che una strana sensazione di patina ghiacciata sulla pelle. Non sapeva molto - Oh right, niente - di Bach, ma quel poco gli aveva dato un assaggio di che razza di persona fosse .
    Era sincero, imprevedibile e pericoloso. Non era certo del motivo per cui sapeva quelle cose su Bach, ma il suo istinto gli stava dicendo di essere sé stesso con uno come lui.
    Altrettanto sincero e diretto.
    «Sono stato un vigliacco, per prima cosa» disse semplicemente «non avrei dovuto lasciare che la mia famiglia lo buttasse fuori al posto mio. Sono rimasto a guardare» fece una pausa «non mi pento di averlo cercato e portato da me, no, solo non pensavo… sarebbe andata così».
    Bach continuava a guardarlo senza dire niente, la falda del cappello tra le dita e l'espressione indecifrabile.
    «Sarebbe dovuta essere un'avventura, come molte altre. Anche Max non si sarebbe aspettato niente di diverso, ma poi…» per un attimo sembrò perdersi in chissà quali pensiero «poi, cazzo! Non lo so! Poi mi sono ritrovato con lui ancora addormentato a letto, mia sorella in cucina e mio fratello che è arrivato al momento peggiore. Li ho lasciati fare. Di questo mi pento».
    Il moro sembrò riflettere un momento.
    «Cosa avresti fatto tu?» chiese lentamente «Se la tua famiglia, come dici, non ti si fosse presentata tra capo e collo. Come ti saresti comportato?»
    «Non lo so» scosse la testa frustrato «certo non lo avrei mandato via su due piedi… Mi è piaciuto passare la notte con lui, non lo so. Ma adesso mi sembra tutto così strano» le labbra si tesero in un sorriso malinconico prima di ridere ironico «ma sentimi, parlo come una ragazzetta di un romanzo. Non era questo che avevo in mente di dirti».
    «E cosa pensavi di dirmi?» domandò nuovamente Bach, sempre fermo, sempre con il cappello in mano e sempre apparentemente impassibile.
    Castor gli lanciò un'occhiata tra il perplesso e il risentito.
    «Ti stai divertendo, vero? A vedermi in questa situazione».
    «L'hai detto tu, non io» si limitò a commentare, un'ombra di sorriso negli occhi «Quindi?»
    «Quindi» espirò stancamente Castor «mi sarei presentato, ti avrei chiesto come stava Max e poi avrei cercato di convincerti a rivelarmi dove si trovava in questo momento».
    «E secondo te io ti avrei risposto?» alzò un sopracciglio scettico.
    Castor sorrise appena.
    «No, probabilmente no. Ma sperare non costa niente».
    «Mi spieghi cosa vuol dire?» domandò allora Bach, stringendo ancora tra le dita il biglietto che gli era stato portato da Lauren, sarcastico «"Ho bisogno di parlargli", ti sembra il caso?»
    «Lo so perfettamente anche da solo di aver sbagliato» sbottò Castor, chiudendo gli occhi per un momento – quel Bach era decisamente spossante «ti sto solo chiedendo di permettermi di spiegare».
    «Sono tutto orecchie».
    Castor lo guardò un attimo di sottecchi, come a volersi assicurare che quella frase non fosse la solita presa in giro, ma un'affermazione seria, prima di sospirare e raccogliere le idee.
    «Non avrei dovuto» ripeté per l'ennesima volta, sentendosi più patetico ad ogni ripetizione «l'ho usato, ferito e ho lasciato che la mia famiglia gli facesse- lo ridicolizzasse. Solo stato uno stronzo, me ne rendo conto. Non sono così di solito».
    «Lo spero bene» si limitò a commentare Bach, sollevando un sopracciglio.
    «Non mi aspettavo sarebbero arrivati e la loro presenza mi ha… ero arrabbiato. Non ho riflettuto sulle conseguenze» scosse nuovamente la testa, come a voler scacciare quanto detto e fatto quel giorno «senza preavviso mi sono trovato davanti mia sorella, con la quale avevo una discussione aperta, e successivamente mio fratello, con cui sono in litigio continuo. Queste non sono giustificazioni» precisò subito, nel vedere l'espressione scettica dell'altro «sto solo esponendo i fatti come si sono svolti. In quel mentre è arrivato Max e- cazzo, era indecente, svestito com'era. Ho dovuto pensare ad altro e ho finito per ferirlo in un modo in cui non mi sarei mai aspettato».
    «Cioè» Bach alzò una mano per interrompere il flusso quasi incoerente di parole «mi stai dicendo che pur di non ammettere davanti alla tua famiglia che ti saresti fatto» stiramento di labbra, ad evidenziare quanto il termine non gli piacesse «Max anche davanti a loro, hai preferito concentrarti su altro e cancellare la sua presenza dalla stanza?»
    Evidentemente il senso doveva essere più o meno corretto, perché Castor si trovò in qualche modo ad arrossire.
    «Non ho detto questo…» tentò di correggersi, allargando le braccia con fare rassicurante.
    «No, no» lo contraddisse Bach «intendevi proprio questo. E posso capirti, in un certo senso» Castor lo guardò allibito «tra famiglia e una scopata, sono certo che la famiglia abbia la precedenza» sorrise maligno «ma questo non spiega come mai ora siamo qui, dico bene?»
    A disagio. Era parecchio tempo che Castor non si sentiva a quel modo.
    «Insomma» il moro non sembrava intenzionato a interrompersi «perché tu sei qui per un motivo. Per Max. Allora, che cosa vuoi tu, da lui? Cosa hai da offrirgli?» ripeté ancora,
    «E tu perché sei venuto qui? Speravi veramente di incontrarmi?» in corner, deviò la domanda – la più pesante, a cui non era ancora certo di voler rispondere – attaccandolo a propria volta.
    «Smettila, basta» lo interruppe Bach pacato, fissandolo direttamente negli occhi «stiamo parlando da mezz’ora, ma ancora tu non hai risposto alla domanda più importante. L’unica cosa che voglio sapere è: che intenzioni hai con lui?».
    Non aveva più vie di scampo, si arrese il rosso, cercando di riassumere e portare a livello conscio un concetto che gli era sempre sembrato troppo astratto, prima di quel momento. Prima di Max.
    Socchiuse le labbra.
    E, finalmente, mentre Castor sembrava essere sul punto di fornire una risposta, una terza voce – purtroppo conosciuta da entrambi – s’intromise, raggelante.
    «Che cazzo ci fai qui?»
 
 
Okay, eccomi di ritorno… scusate il ritardo ma si è presentata tutta una serie di contrattempi… eheh Ø.Ø
Dunque dunque, cosa dire? (e se non lo so io...)
La storia ha iniziato a prendere una piega decisamente inaspettata (l'idea originale era un tantino differente) e da qui in poi mi sa che dovrò rivedere più di una parte. Speriamo bene.
Voi cosa ne pensate?
 
 
baci
NLH

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Capitolo 8
*** Timore, Paura, Panico, Terrore ***


 
Tutto il mio affetto e il mio ringraziamento a 3ragon che ha caritatevolmente acconsentito a farmi da Beta. Tutti uniti in un minuto di silenzio per il suo ancora presente coraggio!!

I’m not a Murderer
 
08
 
Timore, Paura, Panico, Terrore
 
    «Che cosa vuoi?» il tono di Max era gelido – sarebbe sembrato perfettamente padrone di sé, non fosse stato per quel tremolio sulle ultime sillabe «Perché sei qui? Mi stai pedinando?»
    «Max!» Bach si avvicinò all'amico, cercando di mettergli una mano sul braccio, per placarlo. Era furibondo: i pugni serrati con forza, le nocche sbiancate e i polsi tremanti, le braccia rigide e i muscoli in tensione, per non parlare delle guance rosse e i denti stretti.
    Con uno scrollone l'altro evitò il contatto, fulminandolo.
    Cosa ci faceva lì, Castor?, gli stava chiedendo con gli occhi. Perché si trovava lì dove non sarebbe dovuto essere?
    «Questo negozio è mio» rispose con calma il rosso, cercando di celare l’improvvisa fitta allo stomaco – sul serio, non poteva trattarsi di ulcera? – che l’aveva colto nel tornare a guardarlo negli occhi per la prima volta da una lunga settimana «della mia famiglia» ci tenne a precisare, non ricevendo null’altro in risposta, se non un’occhiata spenta e una smorfia diffidente.
    «Capisco, allora immagino tu sia qui per farmi saldare il conto dei vestiti che ho comprato la volta scorsa» il sarcasmo, sulla labbra di Max, per quanto secche e mordicchiate, sembrava sempre fuori luogo «mezzo prezzo per prima e poi pieno se non soddisfa le aspettative».
    Castor trasalì come fosse stato colpito.
    Anche Bach sgranò gli occhi, sorpreso dalla reazione dell'amico. Ci era rimasto male, era più che comprensibile, ma non pensava così tanto. Quella era una reazione esagerata, persino per una situazione come quella.
    «Cos’è? Vesti i tuoi clienti, li porti a letto e poi quando hai finito li cacci via? Sono certo che le tue numerose amanti sono state ampiamente rifornite di vestiti da qui» sputò a bassa voce, troppo bassa per essere udita dalla maggior parte dei clienti, fortunatamente.
    Castor strinse istintivamente gli occhi, una nuova fitta. Com'era possibile si trovasse a sentirsi così a disagio, così sbagliato, per una persona appena conosciuta?
    In un angolo del suo animo, si rafforzò la convinzione di volerlo conoscere meglio. Desiderava potersi riscattare ai suoi occhi, cancellare quella mattina infelice e l'ultima settimana di inspiegabile agonia.
    Perché non si era reso conto prima di quanto profondamente quel ragazzo lo avesse colpito?
    Perché ci si accorge del vero valore di quello che si è posseduto solo dopo averlo perso?
    Non trovò le parole per rispondergli e continuò a fissarlo mentre si sfogava, gli occhi febbrili.
    «E dimmi, anche a loro facevi il prezzo scontato come hai fatto con me, oppure prezzo pieno e colazione prima di metterle alla porta?» sarcasmo, sarcasmo e ancora sarcasmo.
    Come stonava, su di lui.
    «Immagino poi che ti sarai divertito, a vedermi alle prese con la tua famiglia. Simpatico tuo fratello, cosa fa di mestiere? Lo strozzino?»
    «Max» riprovò Bach, provando nuovamente a placarlo, afferrandogli con maggiore forza il polso «datti una calmata, non puoi fare una scenata qui dentro».
    Il ragazzo si scrollò nuovamente di dosso il tocco dell'amico, continuando a fulminare Castor con tutta la rabbia e la delusione accumulate durante l'ultima settimana.
    Shit.
    Faceva fatica a pensare ad altro.
    Shit.
    Poteva pensarlo, dirlo e urlarlo dalla punta dei suoi capelli cangianti fino alle scarpe firmate che portava, passando per le sopracciglia aggrottate, la piega amara delle labbra, le braccia incrociate a difesa e i pantaloni attillati.
    Eppure, nonostante tutto, non poteva fare a meno di ricordare.
    Non poteva permettersi di provare quello che stava provando, non per uno come Castor!
    Gli stata venendo voglia di piangere.
    Fuck You.
    «Max» Castor fece un passo avanti, nell'ennesimo tentativo di farsi ascoltare, ma l'altro si spostò indietro di due.
    «No» disse solamente, alzando una mano.
    Doveva andarsene. Quello era l'unico pensiero che poteva permettersi di avere. Non voleva, non poteva farsi vedere ancora in lacrime.
    «Sono certo che tu ti sia preparato un bel discorsetto, convincente e ragionevole, ma la sai una cosa? Non voglio sentirlo. Non mi interessa! Sei solo un ipocrita».
    Bach vide Castor sussultare lievemente e chiudere istintivamente gli occhi. Era la prima volta, notò, che sembrava tanto ferito. Aggrottando le sopracciglia il moro si chiese se, per caso, non avesse sottovalutato il reale interesse del rosso per l'amico.
    Tutto accadde in un attimo.
    Max voltò le spalle ad entrambi e uscì spedito del negozio, gettandosi in strada senza curarsi di guardare le macchine in arrivo.
    Castor, dopo un attimo, si lasciò sfuggire un'imprecazione estremamente colorita – che Bach si appuntò per il futuro – e si gettò al suo inseguimento, biascicando a mezza voce insulti e ringraziamenti per il semaforo verde ai pedoni.
    Bach osservò vagamente allibito la reazione di entrambi prima di fissarsi sulla schiena in allontanamento dell'amico.
    Non poteva lasciarlo solo, non dopo quello sfogo e quell'espressione che aveva messo su prima di andarsene, Max sembrava sul punto di piangere, ancora.
    E Castor non sembrava intenzionato a lasciarlo andare tanto facilmente.
    Con un sospiro seguì il loro esempio, uscendo a propria volta e incespicando in un tombino mal fissato – lo stesso, registrò distrattamente nello sbilanciarsi, che Castor aveva saltato per darsi lo slancio e allungare il passo di modo da raggiungere l'altro.
    Con la coda dell'occhio li vide vicini, dall'altra parte della strada. Parlavano a voce talmente alta che poteva sentirli ancora chiaramente da sopra i rumori della strada.
    «Maledizione, Maximillian aspetta!»
    Max si sentì afferrare il polso con forza e, nuovamente, fece del proprio meglio per liberarsi, ma l'altro non sembrava intenzionato a lasciarlo vincere facilmente. Con uno strattone più deciso degli altri lo fece voltare verso di sé e gli serrò entrambe le mani sulle braccia.
    Cercò di divincolarsi, ma l'unico risultato fu quello di sentire la presa farsi più stretta e il corpo più vicino. Con un'imprecazione gli assestò una ginocchiata sulla coscia, incapace di mirare meglio.
    Poi alzò lo sguardo furibondo su di lui.
    Castor aveva i capelli completamente arruffati per la corsa e il vento, gli occhi lucidi dal freddo e le guance rosse. Non avrebbe saputo dire se di rabbia o in reazione alla temperatura all'esterno.
    Il respiro era accelerato e data la vicinanza Max sentì chiaramente l'odore di menta dovuto al dentifricio, oppure ad una caramella.
    «Quello poteva farmi male» lo sentì ironizzare sul colpo appena sferrato.
    Serrò con forza le palpebre nella vana speranza di far scomparire tutto. Il freddo, il dolore improvviso al petto, quella fitta di desiderio e quel brivido provato nel momento in cui lo aveva afferrato.
    Tuttavia, un improvviso colpo di clacson lo costrinse a guardare da sopra le spalle dell'altro.
    L'ultima cosa che riuscì a vedere chiaramente, prima di venire risucchiato in un inferno fatto di sirene, luci accecanti, braccia indesiderate e ginocchia sbattute pesantemente sull'asfalto, fu una persona venire scaraventata via da un'auto bianca. Una Corvette, registrò meccanicamente.
    Il corpo rotolò brevemente a terra, strisciando dolorosamente sulla strada, strappando i jeans chiari sulle ginocchia sfilacciando il maglione blu scuro. I capelli neri, arruffati e bagnati, si posavano come spuntoni in una macchia di sangue che andava via via allargandosi sotto la testa.
    Max sentì la gambe cedere e la vista annebbiarsi, mentre un grido agghiacciante gli rendeva sordo tutto il resto del mondo.
    Fu solo quando sentì la gola farsi secca e dolorante che si rese conto di essere lui ad emetterlo.
    «BACH!»
 
°°°
 
    Tom stava facendo due conti sulle tabelle di allenamento dei suoi ragazzi.
    I preliminari non erano andati come previsto, ma in un modo o nell'altro erano riusciti a piazzarsi in tutte le categorie. Per la sessione successiva – che sarebbe iniziata di lì a qualche giorno – avrebbero dovuto dimostrarsi ben più abili.
    Segnalando esercizi e aggiunte alimentari, spuntò mentalmente un altro punto dalla lista.
    Ordinare una nuova macchina del caffè per l'ufficio, fatto.
    Portare a far revisionare il pullmino della squadra, fatto.
    Sistemare le schede di esercizio, fatto.
    Cosa mancava?
    Chiedere a Bach cosa fosse effettivamente successo a Max.
    Lasciandosi andare contro lo schienale della poltrona, chiuse gli occhi, concentrandosi sul colloquio avuto con il moro, poco prima delle gare.
    Gli aveva fatto capire, nel suo solito modo scostante e di mezze parole, che Max non era entrato in un brutto giro e che non si sarebbe dovuto preoccupare. Aveva persino trovato il modo di spiegare quei strani segni sulla pelle – non aveva dovuto pensarci troppo, in effetti, ma era strano pesare al ragazzo in quei termini.
    Max, forse proprio perché lo aveva conosciuto sin da bambino, gli aveva dato l'idea di purezza, in qualche modo, ti castità. Per carità, sapeva della sua ex, ma non era bastato a togliergli dalla mente quella patina di innocenza con cui lo aveva sempre ricoperto.
    Sapere che poteva fare certe cose… faceva seriamente fatica ad immaginarselo.
    Poteva essere una donna più grande? Un dominatrice.
    Oppure era veramente un maschio, il suo – primo, lo sperava con tutto il suo cuore di role-in-father – partner.
    Allungò la mano per prendere il cellulare e comporre il numero di Bach. Basta, rimuginarci non serviva a niente: avrebbe chiamato, preteso una spiegazione e scoperto il motivo scatenante del malumore, la tristezza e i segni di Max.
    Lasciò squillare a lungo e più volte, senza una risposta.
    Infastidito fece un altro tentativo.
    Per carità, Bach era un ragazzo adulto e vaccinato, giovane e tutto il resto, quindi era perfettamente normale che non rispondesse la telefono. Quello che lo infastidiva maggiormente, però, era il poco controllo che riusciva ad avere su di lui in particolare.
    Tom non pretendeva di conoscere i dettagli della vita dei suoi atleti, ma almeno qualcosa in più di molti altri sì. Li preparava, seguiva la loro vita in ogni aspetto in previsione delle gare e non era mai riuscito a conoscere Bach con la stessa profondità degli altri. Ma forse questo dipendeva dalla naturale riservatezza del moro.
    Ma il fatto che non rispondesse al telefono non gli piaceva per niente.
    Semplicemente non gli piaceva che quel ragazzo – con cui lavorava a stretto contatto a quasi sette anni – fosse poco più che un conoscente, per lui. Non si fidava forse abbastanza?
    Venne distratto da un lieve bussare alla porta.
    «Ah, Brook, entra» sorrise rilassato, vedendo il ragazzo indugiare sulla porta «dimmi».
    Brook spostò il peso sulle gambe in maniera inquietante per uno come lui, facendo svanire il sorriso dal volto di Tom. Era raro vederlo tanto a disagio – arrabbiato, raramente; preoccupato, qualche volta; serafico, la maggior parte del tempo. A disagio, mai.
    Il ragazzo fece un passo avanti, ruotando la testa per invitare qualcun altro a seguirlo.
    Lionel, ugualmente irrigidito e inspiegabilmente nervoso, spintonò il compagno per entrare e si rivolse all'uomo con esitazione – dopo essere stato adeguatamente invogliato da un'occhiataccia di Brook.
    «Cosa sta succedendo?» chiese Tom, alzandosi in piedi. Per un qualche strano motivo faticava a stare ancora seduto.
    «Ha chiamato Castor…» s'interruppe, indeciso su come continuare.
    L'allenatore aggrottò un sopracciglio. Chi diavolo era Castor?
    «E chi è?» chiese infatti.
    «Il-» ennesima interruzione, mentre l'altro si chiedeva quanto o come potesse rivelare il fatto «il ragazzo di Max, suppongo…»
    Il ragazzo di Max!?
    «E cosa vuole da noi?» domandò sempre più perplesso e anche un po' scosso.
    Il ragazzo di Max.
    Dear God.
    «Mister» la voce di Lionel si abbassò ulteriormente «Bach ha avuto un incidente. Si trova in ospedale adesso».
 
 
Ehm, per chi se lo stesse chiedendo, sarebbe questa la grande modifica alla storia… Bach!
E pensare che si tratta del mio personaggio preferito. Siam messi bene!
 
Come già detto, non era l'idea originale (affatto, proprio per niente!) che mi è venuta in mente quando ho iniziato a pensare che la storia lasciata lineare come era stata creata, sarebbe risultata un po' noiosa – certo che a parte la mia stalker di fiducia (ebbene sì animelover, ti sei appena guadagnata il primo posto!!!) non mi aiutate molto eh? (me che cerca di scaricare la colpa del ritardo su qualcun altro).
 
Cmq… vabbè, proverò ad essere meno in ritardo la prossima volta XD
Buona giornata
 
 
baci
NLH
 

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Capitolo 9
*** Attimi dilatati all’infinito ***


Attimi dilatati all’infinito
 
 
I’m not a Murderer

09
 
Attimi dilatati all’infinito
 
 
    Tre ore.
    Il periodo di tempo passato seduto – immobile – su quella scomoda sedia di plastica del pronto soccorso.
    Tre fottutissime ore e ancora nessuno che si azzardava ad uscire per dirgli come stesse andando lì dentro.
    Damn Fuck!
    Torturando quel poco di rimasto di non stropicciato della maglia, Max volse l'ennesima occhiata astiosa ad un'infermiera, che aveva avuto la sfortuna di passare in quel momento, come ad accusarla di essere stata lei a cercare di mandare all'altro mondo il suo migliore amico. E, ovviamente, di tenerlo all'oscuro di quanto stava accadendo in sala operatoria.
    La donna non sembrò prendersela, perché in risposta gli sorrise incoraggiante, socchiudendo gli occhi in un'espressione tra l'affranto e lo speranzoso.
    Doveva essere abituata.
    Max distolse immediatamente lo sguardo, sentendosi peggio di prima. Non ebbe nemmeno la forza di spostare il tocco caldo che si sentiva sulla spalla.
    Dal momento stesso in cui era sceso dall'ambulanza – non era sicuro esattamente come, ma era riuscito a salire con l'amico e i paramedici – Castor non lo aveva lasciato un attimo da solo.
    Gli aveva preso la giacca e il cappello non appena se li era tolti, era entrato nell'ala del pronto soccorso, lo aveva seguito come un ombra, rispondendo ti tanto in tanto alle domande dei paramedici sulla dinamica dell'incidente, dove Max non era sicuro di ricordare. Lo aveva costretto a mangiare qualcosa e bere del the zuccherato e gli aveva tenuto la mano quando Bach era entrato in sala operatoria.
    Poi quando Max era andato al bagno, aveva chiamato i suoi compagni di squadra – aveva trovato il cellulare nella tasca interna del giaccone – e gli era stato vicino per tutto il resto del tempo.
    Ed ora, esausto, con gli occhi stranamente asciutti ma allo stesso tempo gonfi, Max non riusciva a credere a quanto quel calore, emanato dall'uomo che si era doppiamente riproposto di odiare, lo facesse stare bene.
    In quel momento un medico uscì dalla Sala, gettando un paio di guanti insanguinati nel cestino accanto e togliendosi la mascherina, guardandosi attorno alla ricerca di qualcuno.
    Il suo sguardo si posò su Max.
    Il ragazzo impallidì e, istintivamente, afferrò la mano libera di Castor, posata mollemente in grembo.
    Il rosso non diede segno di sorpresa e ricambiò prontamente la stretta.
    Le dita di Max erano gelate.
 
°°°
 
    Se doveva essere del tutto sincero, Castor non sapeva dare un nome a quello strano impulso avuto ore prima, che lo aveva spinto a seguire Max e stargli accanto per tutto i tempo.
    Non lo conosceva così bene, nonostante le premesse, e ancora meno provava attaccamento per l'altro – Bach. Quello era stato il primo giorno in cui avevano parlato, eppure, alla vista del volto pallido e sconvolto di Max, non aveva potuto fare a meno di pregare che il giovane dall'altra parte della porta sopravvivesse per insultarlo ancora.
    E in quel momento, sulla porta di casa propria, mentre lottava per sbrogliare la chiave dalla tasca sdrucita, non poteva fare altro se non essere consapevole del ragazzo alle proprie spalle.
    Max non aveva voluto saperne di tornare a casa propria, insistendo per rimanere tutta la notte al capezzale di Bach, ora in coma farmacologico. Fortunatamente, anche grazie all'aiuto di una esausta infermiera, era riuscito a convincerlo ad andare via con lui.
    Aveva una camera per gli ospiti, gli aveva assicurato nel vederlo sussultare alla proposta. Non lo avrebbe nemmeno sfiorato.
    Gli lanciò un'occhiata indagatoria e si fece da parte, per farlo entrare. Casa sua era esattamente come al solito, pulita, ordinata e senza troppi soprammobili, ma sperò che a Max non venisse l'impulso di passare per il salotto e vedere lo scempio che era, dopo essere stato usato come rifugio per l'ultima settimana: libri per terra, cuscini lanciati in tutte le direzioni, abiti spiegazzati sulle lampade e cibo dimenticato nei cartoni.
    Unica prova tangibile del malessere che lo aveva colto.
    E che sul momento sembrava essersi attenuato.
    Evidentemente, averlo vicino portava solo benefici e all'unica risposta che era riuscito a trovare, in spiegazione a tutto.
    Cosa vuoi da Max?, gli aveva chiesto Bach – davvero erano state soltanto poche ore prima?
    Cosa hai da offrirgli?
    Con il senno di poi, avrebbe tanto voluto rispondere sinceramente, infischiandosene dei soliti freni inibitori che gli impedivano di dire quello chiaramente. Era sempre stato un mago nello svicolare.
    In ogni caso, Max si fece guidare fino in cucina.
    «Vuoi qualcosa da bere?»
    Il ragazzo scosse la testa, guardandosi attorno spaesato, e Castor lo guardò a lungo prima di aprire l’anta del frigorifero e afferrare una bottiglia a casaccio. Non riusciva ad allontanare lo sguardo dall’espressione affranta di Max.
    Non riusciva a capire se a farlo stare peggio fosse il fatto che la persona, a cui aveva appena scoperto di tenere più di chiunque altro, stesse tanto male da sorvolare su quanto lo stesso Castor gli aveva fatto e gli si fosse affidato, oppure che Max stesse in quelle condizioni per un altro uomo.
    Nel chiudere il frigorifero e prendere due bicchieri, si accorse di aver tirato fuori del succo di frutta. Rassegnandosi ad abbandonare le recenti abitudini alcoliste, gli mise davanti il tutto.
    «Bevi» lo esortò pacato, evitando di guardarlo «è meglio».
    Max lo guardò storto – in fondo, pensò Castor, gli aveva espressamente detto di non voler niente – ma non fece commenti e prese un sorso, tossendo per quanto la bevanda fosse fredda.
    «Attenzione» mormorò il rosso, con qualche attimo di ritardo, allungandogli un tovagliolo.
    Max non lo notò nemmeno passandosi il palmo della mano sulla bocca, fino alla guancia, sfregando con forza.
    «Non sarebbe dovuto succedere» mormorò a voce tanto bassa da risultare quasi inudibile «mai».
    «I medici hanno detto che non è nulla di troppo grave» tentò di consolarlo «non è in pericolo di vita».
    «I medici, certo…»
    «Andrà tutto bene, Maximillian» affermò nuovamente, convinto, abbozzando un pallido sorriso «sono certo che Bach non finirà certo fuori gioco per così poco!»
    Il moro gli rivolse un’occhiata scettica, le iridi appannate da stanchezza e preoccupazione.
    «Lo conosco da poco» proseguì Castor, incoraggiato dall’attenzione che l’altro gli stava mostrando «ma sembra un tipo determinato. Stai tranquillo e vedrai che domani ci saranno sicuramente buone notizie».
    Gli angoli delle labbra di Max fremettero lievemente, non promettendo nulla di buono, ma nessuna lacrima o risposta penetrò da dietro le iridi azzurre mentre si abbassavano sul tavolo.
    «Ho sonno» disse solamente, alzandosi senza guardarlo negli occhi «scusami».
    «Certo!» Castor si alzò a propria volta, togliendogli il bicchiere dalle mani e facendogli segno di non preoccuparsi, che ci avrebbe pensato lui, sentendosi incredibilmente logorroico «La camera degli ospiti è la seconda porta a destra. Nell’armadio ci sono dei vestiti e sono sicuro che sotto qualche pila troverai una tuta che possa andarti bene. Chiamami se hai bisogno di qualcosa, la mia stanza è…»
    S’interruppe nel vederlo trasalire e si morse un labbro, rimproverandosi per essersi lasciato sfuggire così poca delicatezza.
    Era dannatamente difficile, for Christ sake.
    «Grazie».
    E, mentre Max lasciava la stanza, tutto quello che fu in grado di fare fu osservarlo e lasciare scorrere il tempo.
 
°°°
 
    A svegliarlo non fu il cigolio della porta, e nemmeno lo scrosciare insistente della pioggia sulle tapparelle. A destarlo dal sonno leggero in cui era caduto fu la netta sensazione di non essere più solo nella stanza.
    Allungando cautamente una mano alla ricerca dell'interruttore della lampada da tavolo, si voltò istintivamente verso la porta.
    In piedi, seminascosto nella penombra creata dagli infissi, Max guardava verso di lui, i capelli completamente arruffati, la maglia di traverso e un cuscino stropicciato tra le braccia.
    Gli occhi rossi e spalancati.
    L'immagine era un tale concentrato di dolcezza e disperazione che Castor dovette abbassare le palpebre per calmarsi.
    «Non riesci a dormire?» chiese il più tranquillamente possibile, tirandosi sui gomiti per guardarlo meglio.
    Max non rispose, continuando a malmenare il cuscino.
    Sembrava un bambino che, dopo un incubo, chiede di poter dormire con mamma e papà.
    E Castor – si rese conto, in quel momento più che in tutto il resto della giornata – sarebbe voluto essere tutto quello per lui: un genitore, un amico e una spalla su cui piangere. Sarebbe stato esattamente quello di cui Max avrebbe avuto bisogno.
    Questa seconda realizzazione lo costrinse, nuovamente, a chiudere gli occhi con forza.
    Come era possibile, si chiese, provare qualcosa di tanto devastante per una persona appena conosciuta?
    «Vieni qui» disse solamente, scostando il lenzuolo e spostandosi di lato per lasciargli spazio.
    Max esitò meno di quanto avesse pensato – forse troppo stanco per riflettere su chi e cosa gli stesse offrendo conforto, oppure semplicemente perché era certo che niente e nessuno potesse farlo sentire peggio di quanto già non stesse – e strascicò i piedi, che Castor di accorse essere nudi, fino al letto, raggomitolandosi istintivamente nello spazio che gli stava lasciando.
    Con un gesto più paterno che altro, Castor infilò una mano sotto il piumone e gli afferrò le caviglie, mettendosi i piedi gelidi tra le cosce – cercando di non rabbrividire al contatto – e gli infilò l’altra mano nei capelli, arruffandoglieli gentilmente.
    Max lo lasciò fare senza un suono, pur rimanendo più rigido del normale.
    Castor sospirò, a disagio.
    «Sei molto… affezionato a Bach» si forzò a lasciar uscire le parole nel modo più naturale possibile.
    «Bach è stato il primo amico qui» forse quella era la prima frase completa che lo sentiva pronunciare da ore «il mio compagno di squadra e il mio confidente. Certo che ci tengo lui…»
    Il silenzio, dopo quell’affermazione, si protrasse più di quanto Castor sentisse di poter sopportare, mentre il fruscio agitato delle lenzuola faceva da unico spettatore al disagio sempre più crescente che quelle parole gli avevano aperto nel cuore.
    Lui, che nemmeno pensava di averlo, si era ritrovato il petto sanguinante.
    Max era veramente una persona piena di sorprese.
    Anche troppe.
    Anche in quel momento, mentre sentiva il proprio petto solo sfiorare la sua schiena, si sentiva meglio di quanto non gli fosse mai successo. E nello stesso tempo peggio che mai.
    «Lo ami?» gli chiese di bruciapelo, stringendo a pugno la mano nascosta sotto il cuscino. Non sapeva se voleva sentire quella risposta ad alta voce. Ma non poteva nemmeno far finta di nulla.
    Era palese, per lui.
    Avrebbe dovuto accorgersene prima, molto prima. Quando in piscina Bach gli aveva passato l’asciugamano, alla fine della competizione, e Max si era piegato per poterlo guardare negli occhi e rispondere a chissà quale domanda. Quando, nell’atelier, erano uno affianco all’altro.
    C’erano stati, in ogni occasione, momenti in cui Max si rivolgeva a Bach prima di fare qualunque cosa. Prima di comprare i vestiti che lui aveva scelto, prima di allontanarsi con lui nel locale, prima di scappare per strada.
    Lo vide abbassare lo sguardo e irrigidirsi.
    Sentendosi per la prima volta, completamente gelare, cercò di non lasciar trasparire nulla mentre aspettava che il ragazzo finisse di realizzare il tutto.
    Con uno scatto repentino, Max si alzò a sedere, facendo scivolare le coperte indietro, guardando finalmente Castor negli occhi.
    L’azzurro terso del secondo si scontrò con quello sgranato e lucido del primo, in un cenno di comprensione che non si sarebbe mai aspettato.
    Possibile che lui…? Che in tutto quel tempo non se ne fosse mai accorto?
    Una lacrima, lenta, bollente e solitaria, scese piano, prima sullo zigomo, restando poi impigliata nella piega delle labbra.
    Castor non riuscì a sopportare oltre quell’immagine e afferrò il braccio di Max, tirandoselo con forza addosso e lasciando che gli affondasse il viso nell’incavo del collo.
    «Oddio…» sembrava stesse tremando, Max, mentre chiudeva i pugni nella maglia del rosso.
    In tutta risposta Castor alzò una spalla, per farlo cadere più comodamente tra le sue braccia, mormorando qualcosa di inintelligibile, chiudendosi su di lui.
    «Tu stai facendo tutto questo per me… e io sono solo capace di darti del bastardo» un singulto più forte dei precedenti soffocò il resto della frase «mi faccio schifo».
    Nonostante il dolore e il disagio, Castor sentiva di non dover appartenere più a nessun altro luogo, che non si sarebbe dovuto trovare da nessun’altra parte, in quel momento.
    Quello era il suo posto, e lì sarebbe rimasto, ad abbracciare la persona che sentiva di amare e che stava piangendo per la salvezza di un altro.
    «Mi dispiace» aggiunse Max, come se ce ne fosse davvero bisogno.
    «Ssh» gli passò una mano sui capelli, cullandolo «va tutto bene…»
    «Scusami» lo sentì mormorare ancora, tra i singhiozzi «scusami davvero. Per tutto quello che ti ho detto. Mi dispiace. Scusa…»
    Inspirando a pieni polmoni quell'odore particolare, che tanto lo aveva ossessionato, Castor lo strinse con maggiore forza, raccogliendo ogni singola lacrima che si sentiva scorrere sulla pelle, sentendosi di meritare ogni singola ferita che quelle stille gli stavano scavando dentro.
    «Non sei tu a doverti scusare…»
 
 
Sì, infatti… a scusarsi dovrei essere io immagino…
Per il ritardo e… la novità da infarto. Immagino XD
 
Cmq tesori miei, ho una bella notizia e un brutta notizia. Quale volete sentire per prima?
Va bene, mi sottometto alla maggioranza:
Brutta notizia!!!
 
La mia fida Beta è sotto esame e non può seguirmi per questo periodo (I nostri cuori saranno con lei in questo momento difficile), quindi mi toccherà controllare da sola di non aver fatto errori ahaha.
Perciò perdonatemi eventuali imprecisioni (siete liberissimi di farmele notare sapete?)
 
Quindi veniamo alla Bella notizia.
Manca poco alla fine (e questa sarebbe una bella notizia!??!?), all'incirca cinque o sei capitoli.
E quindi, nel bene o nel male le cose finiranno.
Per ora.
 
Infatti ho appena iniziato a scrivere una storia che ha Bach come protagonista!!! Lo amo.
Il titolo è Subdolamente Adorabile e sarà prossimamente sui vostri schermi XD
 
E aspettatevi che ve lo ricordi ahah Sono curiosa di sapere cosa ne pensate.
 
Alla prossima
 
baci
NLH

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Capitolo 10
*** Dichiarazione d’intenti ***


 
 
I’m not a Murderer


10
 
Dichiarazione d’intenti
 
    Castor non aveva aperto bocca sin dal risveglio.
    Troppe cose – o forse troppo poche – erano state dette la sera e la notte prima.
    Si era limitato ad andare la bagno per darsi una rinfrescata e, tornando a letto, aveva ripreso la posizione tenuta per tutta la notte. Sdraiato su un fianco, avvolgendo il corpo ancora addormentato di Max, le mani di quest'ultimo ancorate alla maglia del pigiama, i visi quasi a contatto e il cuscino bagnato dalle lacrime che era finalmente riuscito a lasciar scorrere.
    Anche dopo essersi alzati, mentre Castor preparava una rapida colazione per entrambi, non si erano cambiati più di qualche parola – neanche di circostanza, ma solo dei brevi "No, sono a posto" e anche un "Il bagno è in fondo al corridoio", a cui Max aveva risposto con un grugnito.
    Il tragitto in macchina era stato ugualmente carico di silenzio e tutta quella tensione si sarebbe potuta tagliare con un coltello. Arrivare all'ospedale era stata quasi una tortura mentre tutte le scuse e le affermazioni della notte precedente aleggiavano come fantasmi tra di loro.
    Com'era stato possibile che, dopo una sola notte insieme, una relazione senza impegno come quella che avevano avuto si fosse trasformata in… quello.
    Max odiava quei silenzi.
    Quando Castor parcheggiò l'auto vicino all'ingresso, Max scese senza una parola, indugiando solo un momento prima di chiudere la portiera.
    «Ci vediamo» disse solamente, senza il coraggio di guardarlo negli occhi.
    Castor annuì spaesato – detestava non essere in grado di reagire – prima di far cadere gli occhi sul sedile posteriore e scendere a propria volta.
    «Max» lo richiamò piano, seguendolo a passo svelto fin sui gradini «aspetta».
    Arrestandosi nel gesto di salire l'ultimo gradino, si voltò per vedere il rosso raggiungerlo e porgergli qualcosa. A fatica riconobbe il suo giaccone.
    Lo aveva sfilato la sera prima, quando Castor lo aveva costretto a prendere il suo per scaldarsi.
    Nell'afferrarlo si costrinse a non ricordare l'odore dell'altro e, con un tremito, se lo infilò sotto il braccio, accennando ad un saluto con la mano libera.
    «Grazie…» mormorò, concentrato nel tentativo di escludere ogni emozione. Come il ricordo delle sue braccia che lo stringevano mentre piangeva, il suono della sua voce che lo rassicurava e il calore delle sue mani mentre gli passava il giaccone.
    Annuendo Castor gli fece un pallido sorriso e tornò indietro. Max lo seguì con lo sguardo senza mostrare la minima emozione e si avviò verso il reparto.
    Fu solo quando, entrato nella stanza indicatagli, vide Bach sbuffare scocciato – mentre cercava di sistemarsi più comodamente sui cuscini sformati dell'ospedale, la gamba ingessata tenuta sollevata e il viso meno segnato di quanto non fosse sembrato all'inizio – con la tipica espressione di sopportazione, che si permise di rilassare le spalle e sorridere.
    «Fuck you, idiot» disse nell'afferrare una delle sedie lungo il muro per piazzarsi accanto al letto «mi hai fatto prendere un infarto, renditene conto».
    Bach si limitò a sorridere sardonico, gli occhi semichiusi e intontito dai farmaci, la pelle ancora troppo pallida.
    «Peccato…» mormorò con un accenno di colore tra le parole «potevi stare… qui. A farmi compagnia».
    Max rise brevemente e studiò l'amico da capo a piedi – quel poco che poteva vedere .
    Aveva una vistosa fasciatura che gli copriva la maggior parte della testa, mentre i capelli erano stati tagliati corti per facilitare l'operazione di sutura. Il viso era graffiato in più punti e un secondo bendaggio gli nascondeva gran parte del collo.
    Mani e braccia ricoperte di garze e cerotti e la gamba destra tenuta ingessata e sollevata dal letto.
    Bach ricambiò quello sguardo preoccupato con un'occhiata scettica.
    «Piantala. Sto… bene».
    «Vuoi che ti tolga la collana?» chiese allora Max, vedendo l'ornamento ancora al collo dell'amico e – a parer suo – dolorosamente appoggiato alla fasciatura.
    «No» evidentemente Bach doveva tenere non poco a quell'oggetto, perché arrischiò persino ad alzare una mano per fermare l'amico «no».
    In effetti, rifletté Max tornando a sedere, non lo aveva mai visto senza, nemmeno in vasca. Era una semplice fascetta in argento o oro bianco – non avrebbe saputo dirlo. Più di una volta si era chiesto cosa significasse per l’amico.
    Si scosse; non era quello il momento per pensarci.
    «Non avresti dovuto buttarti in strada a quel modo» disse solamente, nel vederlo iniziare ad assopirsi nuovamente.
    Le ciglia – sorprendentemente lunghe e scure, sulle guance pallide – fremettero un paio di volte prima di distendersi.
    Come aveva fatto a non accorgersene?, si chiese, ancora una volta.
    Passando lentamente il pollice sul dorso della mano dell'amico, osservando ogni ombra di quel viso tanto familiare, si chiese come fosse stato possibile, in tutti quegli anni, essere così ciechi. Possibile che nessuno se ne fosse mai accorto?
    Lui e Bach erano diventati compagni di squadra quasi sei anni prima e non avevano mai avuto molto in comune. Almeno fino a quando Bach non si era offerto di accompagnarlo a casa una sera, dopo che Max si era ubriacato a sufficienza da non riuscire a reggersi in piedi.
    Da quel momento si erano ritrovati a chiacchierare sempre più spesso, tornando a casa dagli allenamenti o anche solo fermandosi a mangiare da qualche parte dopo ore estenuanti passate in vasca. Lo aveva accompagnato a casa sua, quando era andato a trovare i suoi.
    Si era confidato, rivelandosi come raramente aveva fatto prima.
    Bach era la prima persona che cercava quando entrava in una stanza. Il primo ragazzo che aveva lasciato entrare in casa propria, il primo a cui confidava ogni cosa e l'unico con cui aveva acconsentito a condividere tutte quelle piccole cose che derivavano dalla quotidianità.
    Alzandosi con cautela, cercando di non svegliarlo, rivide la scena dell'incidente e sentì il proprio cuore fermarsi nuovamente.
    «Mi sa che ti amo» sussurrò solamente prima di uscire e sedersi su quelle stesse sedie rigide e fredde del giorno prima.
 
°°°
 
    Dovettero passare altre quattro ore prima di essere nuovamente riammessi al cospetto del malato.
    Malato che, a distanza di poco tempo, sembrava anche fin troppo sano.
    Bach li stava aspettando meno accasciato rispetto a quando Max era entrato la prima volta, con maggiore colore sulle guance e con l'espressione ostinata che gli era solita, senza quasi traccia di sonnolenza.
    I gemelli lo avevano abbracciato il più delicatamente possibile – erano tornati a parlarsi, a quanto pareva – mentre Dorian lo aveva stritolato tanto da obbligare Lionel a staccarlo con la forza e sbatterlo con noncuranza a terra, adducendo come scusa che gli stava rovinando la visuale.
    Al che Dorian si era alzato infuriato e l'ennesima discussione aveva preso vita tra le risate generali e i colpi di tosse di Bach, ancora troppo ammaccato per piegarsi in due e svuotare i polmoni sulle cavolate degli amici.
    Il discorso, da allegro e scantonato qual’era stato, al loro ingresso, si trasformò fin troppo rapidamente in una disquisizione sulle condizioni del malato.
    «Ma tu potrai ancora nuotare, vero?» Dorian sembrava sul punto di scoppiare in lacrime.
    «Non dovremo mica trovarci un nuovo staffettista?» scherzò – ma solo in parte – Jamie «E dove lo recuperiamo un altro come te?»
    «I medici dicono che la mia gamba non tornerà più come prima» disse con una calma che Max, in una situazione come quella, non sarebbe mai riuscito a trovare «quindi sì, dovrete trovare un nuovo membro per la staffetta mista».
    Il silenzio scese pesante nella piccola stanza d’ospedale.
    «È colpa mia».
    Jamie e Joakim fissarono Maximillian con un’identica espressione sconcertata.
    «What are ya fucking sayin’?» alzò la voce Lionel, gli occhi fuori dalle orbite «Ti sei improvvisamente ammattito?»
    Il ragazzo stava fissando il pavimento, incapace di guardarli negli occhi.
    «Cosa significa, Max?» il tono di Bach era controllato, ma tutto nella sua espressione rigida gridava una rabbia repressa – a cui avrebbe dato sfogo a breve, con molta probabilità.
    Non servì ad altro a Brook, perché afferrò Dorian e Lionel per le braccia, facendo un cenno secco ai gemelli, e uscirono della stanza.
    La linea dura delle labbra denotava ben più che semplice fastidio, ma Max sembrò non farci caso, perché riprese a parlare.
    «Non fossi scappato a quel modo ora tu non-»
    «Senti un po’» lo interruppe chiaro l’altro, occhi negli occhi «vorrei che la smettessi».
    «Cosa?» domandò, preso in contropiede.
    «Devi smetterla!» ripeté Bach frustrato – perché fargli capire qualcosa era veramente difficile, lo sapeva bene «Non puoi prenderti la responsabilità di tutto, finirai per scoppiare».
    «Ma se io non-»
    «Ascoltami Max» sospirò stancamente: non aveva mai avuto particolare voglia di affrontare quel discorso, ma si rendeva anche conto di non avere molta scelta «devi smetterla di tenerti tutto dentro. Puoi anche esternare quello che provi e pensi. Non è un male… e, ti prego, piantala di colpevolizzarti per ogni singola cosa!»
    «Bach-»
    «Io ho deciso di seguirvi senza controllare il semaforo. Io sono inciampato in quel fottuto tombino e sempre io ho fatto in modo di gettarti nelle braccia di Castor. Certo, non nego che non ci sia stata una vera partecipazione da parte tua, ma alla fine non ho fatto niente per impedirlo e ti ho lasciato solo con lui, senza spiegarti le regole».
    L'altro rimase senza fiato.
    «Ti ho sentito» gli rivelò all'improvviso, continuando a fissarlo dritto negli occhi «quando mi hai parlato, ieri. Quando hai detto di amarmi».
    Max si sentì gelare e, istintivamente, fece per alzarsi. Bach, che nonostante la lentezza dei riflessi e le medicine non era Bach per nulla, aveva anticipato quella reazione, avvolgendogli debolmente il polso con le dita.
    «Scappare non ti porterà a niente» mormorò girandolo verso di sé e costringendolo a sedersi nuovamente «quindi ora affronteremo questo discorso, okay?»
    Senza guardarlo, Max annuì, scioccato.
Non se lo sarebbe mai aspettato.
    «Ma tu… non stavi dormendo?» ad averlo saputo, non avrebbe mai detto quella cosa. Certo, era facile parlarne con cognizione di causa, ora, ma era stato estremamente stupido.
    «Non credere… che io non me ne sia mai accorto» esordì Bach, cercando d'ignorare il gemito di disperazione dell'altro a quelle parole «insomma, dal mio punto di vista. Non credo che qualcun altro l'abbia mai notato».
«Non me n'ero accorto… nemmeno io» biascicò in risposta, stringendo i pungi a disagio. Quella era una situazione assolutamente surreale.
    «Non ci conoscevamo molto, ma da quando quella sera ti ho portato a casa hai iniziato a fare sempre più affidamento su di me. Sono la prima persona a cui ti rivolgi se hai un problema, la prima a venire a conoscenza di tutto quello che ti riguarda. È a me che chiedi di uscire e poi inviti gli altri… sono tanti piccoli accorgimenti che presi singolarmente non significano molto».
    «È parecchio imbarazzante… maledizione Bach, potevi dirmi qualcosa!»
    «Non mi dava fastidio» Bach si strinse nelle spalle «anche perché sono portato a pensare che quello che provi per me non sia esattamente "amore" come lo definiresti tu».
    Quella fu la prima volta in cui Max si arrischiò ad alzare lo sguardo.
    L'amico stava sorridendo – la situazione sembrava sempre più grottesca ogni minuto che passava e quelle bende bianche non aiutavano di certo. Ma Bach stava sorridendo, quindi era tutto a posto.
    Forse.
    «Cosa intendi?» non riusciva a capire dove stesse andando a parare, qual discorso. Per un attimo desiderò essersene stato zitto e non averlo mai iniziato.
    «Penso che la tua sia più che altro una grande forma di rispetto. Una sorta di fiducia incondizionata e qualcosa di più dell'amicizia, ma non così di più».
    «È perché sono un maschio, che mi dici così?» una punta d’irritazione iniziò a farsi strada nel tono rassegnato di Max.
    Era vero, non aveva mai visto Bach uscire con dei ragazzi, ma non gli era mai sembrato un tipo bigotto o qualcosa del genere. Non dargli nemmeno una possibilità solo perché…
    «No Max. Dico così perché sei tu» scosse la testa «adesso ascolta e rispondimi sinceramente: quando mi vedi cosa provi? Hai voglia di abbracciarmi? Baciarmi?»
    Cercando di non incrociare nuovamente il suo sguardo, Max ripensò alle numerose uscite, agli abbracci fraterni che si erano sempre scambiati, alle feste e alle risate insieme. Cercò, in ogni ricordo gli suggerisse la memoria, un momento o un attimo in cui…
    Amici, fratelli… non gli veniva in mente nulla. Non una volta in cui Max aveva desiderato trasformare quello che avevano in qualcosa di diverso, più intimo.
    Possibile che…?
    «Quando mi vedevi uscire con una ragazza…» un colpo di tosse lo costrinse ad interrompersi per un attimo «eri geloso?
    «Ero… felice, per te» ammise l’altro, ricordando e iniziando a realizzare quanto avesse ingigantito la cosa, la notte prima «oddio, mi sento uno stupido…»
    Maledetto Castor! Sempre colpa sua!
    «Come ci sei arrivato? Non credo che tu ti sia svegliato stamattina e abbia avuto l'illuminazione» Bach sorrise condiscendente e strinse con maggiore forza il suo polso.
    «Me lo ha chiesto… Castor» strizzò gli occhi nel ricordare quel momento «ieri sera. Me l’ha chiesto e ho dovuto trovare una risposta».
    «Quindi lui ha notato qualcosa» rise «si è ingelosito. Questo sì che me lo sarei dovuto aspettare dopo ieri…»
    «Ieri?»
    «Quando è venuto a parlarmi, al negozio» scosse la testa divertito «avrei dovuto immaginarlo. Era ovvio».
    «Forse non è del tutto chiaro» ammise Max imbarazzato, sfregandosi la base del collo, insicuro su cosa dire «ma questo non significa che-»
    «Ma insomma» lo interruppe Bach, sulla giusta via per lanciargli il vaso da notte in fronte «ragiona, per una volta! È vero, è stato un bastardo insensibile, ma poi è venuto a cercarti! Quello che sto dicendo non è di perdonarlo subito. Ovvio…» fece una pausa «fossi in te lo farei soffrire un po' ma… mi è sembrato abbastanza sincero. Magari dagli un'altra possibilità».
    «Per farmi ubriacare nuovamente e finire ancora una volta nel suo letto?» domandò scuotendo la testa «No grazie».
    Bach drizzò le orecchie – nella vaga speranza di ascoltare vere rivelazioni su quella fatidica notte – e attese pazientemente che l'amico arrivasse ad una qualche conclusione.
    «Magari potresti iniziare a ringraziarlo per averti ospitato stanotte» gli suggerì dopo parecchi minuti di pesante silenzio.
    «E tu come lo sai?» strillò quasi, nuovamente colto alla sprovvista.
    Bach preferì sorvolare sulla macchina da cui l'aveva visto scendere ore prima e della melensa scenetta nella quale il rosso lo aveva raggiunto per porgergli chissà cosa ed erano rimasti a guardarsi negli occhi per un tempo infinito. Ci teneva al suo amico e non aveva voglia di vederselo svenire davanti.
    Non era certo di avere la forza per chiamare l'infermiera.
    «Sai, in fondo Castor non mi dispiace più di tanto» alzò le spalle – quanto più le fasciature e il dolore gli permettevano – ricordando l’espressione tormentata del rosso quanto Max di era presentato negozio «potrebbe anche rivelarsi una brava persona».
    «Ma per favore…» borbottò Max, rosso in viso. Ora che tutto sembrava essere chiarito si sentiva estremamente in imbarazzo al ripensare a quanto era stato detto e fatto. Che sciocco! Non ricordava di essersi mai sentito più in imbarazzo!
    Anche se forse, quella volta… nel locale, quando Castor lo aveva portato a ballare. Lì…
    «Max, mi stai ascoltando?»
    La voce pazientemente divertita di Bach si fece largo – fortunatamente – tra i suoi pensieri, distogliendolo dalla possibilità di diventare ancora più scarlatto di quanto non fosse.
    «Eh?»
    Mise a fuoco l’amico, che rideva sotto i baffi.
    «Non mi stavi ascoltando, Maximillian. A che pensavi?»
    Max avvampò, ancora. Com’era possibile?
    «Tranquillo» Bach agitò debolmente una mano «non serve che tu me lo dica, si capisce dal sorrisino scemo che hai stampato in faccia. Prima o poi ricordami di impedirti di fare quell’espressione. Non è affatto giusto che tu abbia una vita sessuale e io no».
    «Io non ho nessuna vita sess-» il solo pronunciarlo lo faceva imbarazzare. In che cavolo di era trasformato? In una ragazzina isterica?
    Tutta colpa di Castor!
    «Tranquillo, sei solo innam-affascinato da una persona, niente di pericoloso» ancora una volta, Bach sembrò rispondere ad una domanda nella sua testa. Quel ragazzo non era un essere umano comune, doveva ricordarselo.
    «Comunque… cosa stavo dicendo? Prima che la tua faccia soddisfatta mi interrompesse…»
    «Cosa vuoi che ne sappia?» ribatté infastidito l’altro, tutta via felice che la conversazione si stesse spostando su altro «Qualcosa su un lavoro, mi pare…»
    «Ma allora qualcosa stavi ascoltando…» lo prese in giro.
    Max non si degnò di rispondere.
    «Il fratello di Castor è stato qui stamattina, prima che tu arrivassi, mi ha offerto un posto alla O’Connell Corporation» sorrise appena nel dirlo, lasciando trasparire una buona dose di scetticismo «anche se non ho capito esattamente perché».
    «Cosa ti ha detto?» indagò Max, perfettamente d’accordo con la confusione derivante da quella insolita proposta. Come aveva fatto Oscar – Orion, o come diavolo di faceva chiamare – ad arrivare a Bach?
    «Che gli serviva un assistente» fece spallucce «ha detto che gli sarebbe stato utile un uomo come me ma, ripeto, non sono sicuro di aver afferrato appieno cosa intendesse».
    «Ma come è arrivato a te?» indagò sempre meno convinto.
    «Credo che sia stato Castor a chiamarlo» rivelò sorridendo sotto i baffi all'espressione stupita di Max «ho come l'impressione che quel ragazzo tenga a te più di quanto immagini».
    «Ma perché fare una cosa del genere?»
    «Magari per ringraziarmi? O perché si sente in colpa? Chi lo sa».
    «Ringraziarti?»
    «Per l'opera di influenza che sto facendo su di te» rise apertamente «perché grazie a me tu gli darai una seconda possibilità».
    Max avvampò.
    «In ogni caso ho accettato il lavoro. È una possibilità troppo ghiotta per lasciarsela scappare».
    Abbandonando per un attimo le proprie perplessità e titubanze, Max ripensò alla personalità di Oscar e alle peculiarità dell’amico. Un calcolatore e un sadico assieme cosa avrebbero potuto fare?
    Lanciò un’ultima occhiata all’amico, placidamente seduto e avvolto da bianche lenzuola, un sorriso ancora più candido sulle labbra. Max si mosse inquieto
    Oh well, tanto difficilmente sarebbe potuta andare peggio.
    Isn’t it?
    «Dai» si sentì sollecitare alla fine da un Bach fin troppo giulivo «fai entrare quegli scalmanati, così la piantano di origliare da dietro la porta».
 
 
Saaaaaalve! Come andiamo?
Nessun premio per me? Non so se avete notato, ma sono rimasta sotto le tre settimane XD
 
baci
NLH

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Capitolo 11
*** Cauti sospiri e sporadici attimi surreali ***



I’m not a Murderer

11
 
Cauti sospiri e sporadici attimi surreali
 
    «Forse… possiamo iniziare con il conoscerci un po’, che ne dici?»
    Max strisciava un piede per terra, osservando ostinatamente un cespuglio alle spalle del rosso.
    Sarebbe potuto andare a casa con i compagni di squadra, ma uscito dall’ospedale, lo aveva visto salutarli e tornare verso di lui, raggiungerlo al parcheggio e appoggiarsi al muretto dove Castor si era seduto ad aspettarlo.
    Quando lo aveva accompagnato in ospedale, ore prima, lo aveva lasciato sulla porta. Gli aveva passato la giacca, distrattamente abbandonata sul sedile posteriore, e sfiorato appena le dita.
    Poi si era voltato ed era tornato in macchina.
    Sei ore.
    Quello era il tempo passato senza muoversi. Semplicemente aveva acceso la radio e lasciato che la musica coprisse il silenzio – sempre meno sopportabile – e lo scorrere delle ore.
    Solo quando aveva visto un nutrito gruppo uscire, si era destato dall’apatia in cui era caduto ed era sceso istintivamente dall’auto, preoccupato dalle condizioni di Maximillian.
    O meglio, preoccupato dall’effetto che la salute di Bach potesse avere su di lui.
    Poi lo aveva visto ridere e si era bloccato, improvvisamente indeciso su cosa fare.
    E Max si era avvicinato.
    Concedendogli quella che sembrava – a tutti gli effetti – una seconda occasione.
    «Ma… Bach?» decisamente era rimasto senza parole.
    «Bach si riprenderà» affermò insicuro, evitando volutamente il doppio senso della domanda e rispondendo solo in favore della salute.
    Mordendosi il labbro, Max decise che non avrebbe mai, assolutamente confessato al rosso quello che lui e l’amico si erano detti, compresa la parte riguardante della gaffe sentimentale e tutta la faccenda dei pensieri indotti e presunta gelosia.
    Never!
    All'inizio, aveva fatto fatica a districarsi dal groviglio di emozioni che lo avevano assalito nel momento in cui, uscito dall'ospedale, aveva visto l'auto di Castor parcheggiata nello stesso posto in cui l'aveva lasciata quella mattina.
    Aveva visto l'uomo seduto, intento a scarabocchiare qualcosa su un pezzo di carta stropicciato e aveva distrattamente salutato i compagni di squadra, chiedendosi con che faccia potesse ancora presentarsi da lui.
    Con che scusa sarebbe andato lì a parlargli.
    Ma poi Castor era sceso.
    «Se non ti va non importa…» mise subito le mani avanti, alla vista dell’espressione stupita dell’altro, per paura di aver frainteso ancora un volta.
    «No!» Castor non gli diede nemmeno il tempo di finire la frase, facendo un mezzo passo avanti «no» ripeté con maggior calma, rendendosi improvvisamente conto di aver reagito come una ragazzina «mi va, certo… mi stavo solo chiedendo, sai-»
    «Fossi in te non tornerei sull’argomento» ribatté Max, più seccamente di quanto avesse voluto «non sai che figura!»
    «Quindi voi non…» sul serio, come diavolo faceva a non finire nemmeno una frase? Castor avrebbe voluto prendersi a pugni, ma il primario istinto, in quel momento, era di mettersi a ridere come un’idiota.
    «Noi non. Punto» Max gli puntò il dito contro «non provare più a mettermi in testa una cosa simile approfittano della mia preoccupazione! Mi chiedo come cavolo farò a guardare ancora Bach negli occhi!»
    Al che, finalmente, Castor si lasciò sfuggire una breve risata, più leggero. Improvvisamente il mondo era tornato a sembrargli un posto migliore. Max, in piedi davanti a lui, sembrava ancora incerto su come comportarsi e lo guardava di sottecchi, tornando a strusciare la punta della scarpa sull’asfalto. Castor preferì trattenere l’impulso di abbracciarlo stretto proprio lì, sotto gli occhi dei suoi compagni di squadra, che li spiavano da dietro il furgoncino con cui erano arrivati.
    «Senti» fece poi, vagamente a disagio, dopo un minuto di silenzio «che ne dici di accompagnarmi a mangiare qualcosa? Ho una certa fame…»
 
°°°
 
    Era stato assurdamente difficile trovare un posto per uno spuntino veloce.
    Seduto dall’altra parte del tavolino rotondo a cui un altezzoso cameriere li aveva fatti accomodare, Max stava ancora guardando scettico il piatto di Castor.
    Fast food e paninerie erano state bocciate a priori, ancora prima che il rosso lo invitasse a salire in macchina.
    «Non mi piacciono particolarmente» era stato quasi imbarazzato nel rivelare, facendogli cenno di entrare in macchina.
    Allacciandosi la cintura – e dopo essersi chiesto per’ennesima volta se fosse giusto, quello che stava facendo – si chiese cosa ci fosse di strano in una piadina veloce.
    In effetti, dovette ammettere, quella domanda sembrava apparire sempre più spesso nella sua mente man mano che l’auto si allontanava dal centro, costeggiando numerosi locali e ristoranti, fino ad un enorme chiosco, ai margini dell’Independence Park. La struttura in ferro battuto, le ampie vetrate e le delicate decorazioni lo catalogavano direttamente nel Pantheon dei bar, surclassando qualunque altro locale fosse mai entrato.
    Anche se, di bar che servivano alle quattro del pomeriggio del caviale marinato… non ne aveva mai visti. Persino la sua bistecca pareva del tutto diversa da qualunque altra avesse mai mangiato.
    E sospettava inoltre che Castor si fosse fatto preparare apposta quell’insalata perché, ammettiamolo, quale sano di mente avrebbe fatto degli accostamenti tanto azzardati?
    Quindi, trenta minuti di strada dopo, Max si trovava a contemplare una bistecca ai ferri con contorna di patate – per sé – e un’insalata di melone, pere e zucchine, insaporita con sfilaccetti di pollo impanati, cetriolini sott’aceto, ricotta alle erbe e scaglie di grana.
    «Sei sicuro che sia commestibile?» gli aveva chiesto, esitante, mentre Castor si faceva portare del salsa di soia per condire il tutto.
    L’occhiata incredula che gli aveva rivolto in risposta era stata piuttosto esauriente, ma Max si era ugualmente rifiutato di assaggiarlo, nonostante le insistenze dell’altro.
    Presero il primo boccone dai rispettivi piatti, studiandosi a lungo.
    Castor pensava che non sarebbe mai arrivato ad ammettere – a chiunque e soprattutto a se stesso – di essere profondamente a disagio. Non era abituato a quelle situazioni.
    Certo, era stato lui a proporre che mangiassero qualcosa insieme, ma era stato Max per primo a dire che andava bene, frequentarsi un po’.
    «Raccontami della tua famiglia» disse alla fine, smettendo di scervellarsi sulla mossa migliore. In fondo non poteva essere così difficile, uscire con qualcuno, no? Bisognava agire d’istinto.
    O, almeno, così era solita ripetergli Clio.
    Sorpreso da quella richiesta inaspettata, Max arrossì.
    «Non c’è molto da dire» biascicò, rigirando un pezzo di carne nella salsa «è abbastanza ordinaria».
    «Nessuna famiglia lo è veramente» rise Castor «non mi dire che ti vergogni».
    «E la tua?» sviò il discorso Max «Anche se devo dire che un paio li ho conosciuti…»
    «La mia… è un tantino sopra le righe, lo ammetto» rise ancora «ma non cercare di cambiare argomento! Allora?»
    «Faccio parte di una famiglia numerosa» Max si mosse a disagio, prima di iniziare a raccontare «ci sono i miei genitori: Julia e Dom e la sorella maggiore di mio padre, Dora, che è venuta a stare da noi per un po’ dopo la morte dello zio» alzò gli occhi al cielo come se facesse fatica a ricordare – o, molto più probabilmente, per sottrarsi allo sguardo fisso di Castor, che lo metteva inspiegabilmente a disagio «ah, vengo dall’Arizona, mi sono dimenticato di dirtelo! Abbiamo una piccola fattoria e bene o male ci abbiamo lavorato tutti, anche se mia madre fa l’infermiera».
    Il rosso si trovò a sorridere con lui, alla vista dell’espressione dolce che aveva in volto, al ricordo dei genitori e della casa.
    «Siamo sette fratelli – tutti maschi, riesci a crederci? – e non saremmo potuti essere più agitati! Mi ricordo una volta che Liam – ah, è uno dei gemelli: Sean e Liam – ha convinto tutti ad andare ad imbrattare il furgone del parroco di paese – povero Padre Gaston, quanto si è spaventato una volta uscito dalla casa parrocchiale – con vernice rossa. O quando ci siamo persi nel bosco perché Sean era decisissimo a trovare un cucciolo di unicorno e non sarebbe tornato a casa senza di lui – nostro padre ci tenne a lavorare nei campi per tutta una giornata, quando tornammo!»
    «I gemelli sembrano essere parecchio… pestiferi» affermò Castor, cercano di immaginare due versioni più giovani del ragazzo, e identiche, con una copia sputata di sorrisi furbi.
    Max scosse la testa, l’imbarazzo evaporato nel nulla.
    «Non sono niente a confronto di Dominick, l’ultimo nato. Ha solo sette anni, ma fa disperare più di tutti noialtri messi assieme. Eppure non si sa come, è il beniamino» sospirò, sebbene somigliasse più ad uno sbuffo divertito «io sono il primogenito e subito dopo di me è nato Noah – il genio di famiglia: sta studiando per diventare veterinario. Poi c’è William, che si è trasferito da me qui in città e con un solo anno di distanza sono nati Sean e Liam, che sembrano decisi a rilevare la fattoria» alzò altre due dita per la conta «e infine ci sono Ted e Dom jr, rispettivamente di dieci e sette anni» ridacchiò «siamo parecchi».
    «E io che pensavo che quattro fossero già troppi» annuì all’occhiata interrogativa dell’altro «Orion, Clio, Eleo e io. Quattro».
    «Beh» alzò le spalle «credo dipenda da quello che combinate…»
    «Vale rubare la macchina del Console Vaticano per una sera e andare a rimorchiare ragazze?»
    Max lo guardò allibito, pensando che scherzasse, al che Castor scosse la testa.
    «Orion, a diciassette anni» confermò, serissimo, ricordando ogni singolo dettaglio di quel giorno, dal momento in cui il fratello lo aveva spintonato di lato per uscire di casa a quando il nonno era dovuto andare a recuperarlo alla stazione di polizia «pensava sarebbe stato divertente. Il Console un po' meno, visto che ne ha denunciato il furto».
    «Non riesco quasi ad immaginarlo…» esalò senza fiato, ricordando la figura seria del maggiore tra i fratelli O'Connell. Incredibile.
    «E non ti ho ancora raccontato di quando Clio ha incollato il suo disegno sul Goya – dicendo che così l'avrebbero ammirato meglio – oppure quando Orion si è spacciato per il nonno al telefono, per prenotare una vacanza a Rajasthan con il jet privato della famiglia. All'epoca aveva solo quindici anni».
    «Spero che Dom non diventi così!» borbottò angosciato – e sconcertato dalla ricchezza di quella famiglia. Goya? Jet? Rajasthan?
    Castor sembrò riflettere su qualcosa con una punta di divertimento.
    «Sai, invece io credo di somigliare abbastanza a tuo fratello Noah…»
    Max lo guardò interrogativo.
    «Voglio dire…» cercò di spiegarsi «anche io sono una specie di genio».
    A quell'affermazione scoppiarono a ridere e Castor tornò a sentirsi inspiegabilmente leggero. Era diventato così facile… e divertente. Perché non l'aveva mai fatto prima?
    Tornando a guardare Max che finiva il suo piatto, venne colto da un attacco di tenerezza.
    Era finalmente ovvio, il motivo per cui non l'aveva mai fatto prima. Prima non c'era stato Max.
    Sentendosi osservato, il moro arrossì, lasciandogli un'occhiata interrogativa a cui rispose con un sorriso.
    «Senti…» il primo riprese la parola, piegandosi leggermente in avanti sul tavolo «è vero che hai chiesto a tuo fratello di assumere Bach?»
    Castor si sentì inspiegabilmente  a disagio. O meglio, si sentì inaspettatamente a disagio.
    Non è che avesse proprio chiesto a Orion di assumere Bach… anche perché il fratello non lo avrebbe minimamente ascoltato. Diciamo che aveva più o meno amichevolmente messo se stesso e Bach sul piatto di una bilancia – lo stesso – e dall'altra parte il suo contributo esclusivo per un progetto per cui Orion lo arruffianava da mesi.
    In sostanza: Castor avrebbe preso parte attivamente all'apertura di una nuova serie di… di qualcosa, non aveva nemmeno letto tutto il contratto, a dire il vero, e Orion si sarebbe impegnato a dare almeno un colloquio a questo fantomatico ragazzo.
    Evidentemente, al fratello, questo Bach doveva essere piaciuto.
    In ogni caso, non poteva dirlo a Max. Non ancora almeno.
    «Non proprio» alzò le spalle per darsi un tono meno impegnato «ho solo detto a Orion che c'era una persona che avrebbe fatto al caso suo. Sta cercando un sostituto per la sua assistente che presto andrà in maternità».
    Nonostante il tono leggero, Max ebbe l'impressione che non gli stesse dicendo tutto, ma preferì sorvolare. Non voleva certo rovinare quel momento con un'inutile presa di posizioni. Era stato inaspettato il piacere derivante da quella semplice conversazione.
    Prima di quel momento non aveva mai avuto occasione di parlare a Castor per un periodo di tempo sufficientemente lungo – e qui arrossì – ed era definitivamente contento di aver dato retta a Bach sulla questione della seconda possibilità.
    «Grazie, comunque» ci tenne a dire.
    Il movimento della mano dell'altro poteva essere interpretato come a sminuire la cosa.
    «Non ho fatto niente. Mio fratello non è il tipo che si lascia influenzare. Se gli ha proposto il lavoro significa che gli è andato a genio. Niente di più».
    Niente di più? La punta di sconcerto di Max stava diventando sempre più ampia.
    Certo che aveva fatto molto di più!
    Aveva trovato un lavoro a Bach. E lo aveva inviato ad uscire. A lui, Max, non a Bach.
    Castor, un ragazzo che sembrava letteralmente vivere in un altro universo.
    Il silenzio scese nuovamente, mentre Max riponeva le posate e osservava l'altro finire il pasto.
    Non gli era sembrata una faccenda così complessa, quando l'aveva incontrato quella sera, nel locale. E nemmeno dopo.
    «Tu di cosa ti occupi?» chiese improvvisamente, spezzando il silenzio. Aveva bisogno di un qualche appiglio reale, terra terra, in quell'incontro fuori dalla realtà.
    «Scrivo, perlopiù» ammise l’altro, rigirandosi la forchetta tra le dita «romanzi» ci tenne a specificare «anche se un paio di volte ho dato il mio contributo al Daily News e The Sentinel».
    «Ma dai… sul serio?»
    Uno scrittore!?
    Un vero scrittore era lì davanti a lui a finire un'insalata di melone e… cos’altro c’era lì dentro?
    Per un attimo Max si sentì in preda al panico.
    Cioè, ricapitolando: lui, l’uomo che aveva davanti, era uno degli eredi del fiorente impero O’Connell, scrittore di libri – presumibilmente – di successo, sfacciatamente ricco e irritante oltre che fissato modaiolo, fratello dell’uomo a cui aveva promesso di spaccare la faccia e che aveva appena trovato lavoro al suo migliore amico.
    Aveva dimenticato qualcosa?
    Ah, già… era anche il primo – e unico – uomo con cui era andato a letto.
    Adesso sfidava chiunque a dire che non si trattasse di una situazione surreale.
    All’espressione sconcertata d Max, Castor aveva annuito.
    «Non so se li hai letti» alzò una mano per elencare «ho scritto Soul’s Color e Sleep of Hearts. Sono due thriller».
    Max scosse la testa. Non era esattamente il tipo che passava le serate a leggere.
    «Tra qualche mese dovrebbe uscire Morgue Phantom. Ma non sono ancora sicuro del titolo…» continuò allora, un minimo scoraggiato dalla mancanza di partecipazione da parte dell’altro.
    Max ricordò di aver letto qualche articolo a riguardo, la settimana precedente. Per caso, ovviamente, non perché di era messo a cercare su internet tutto quello che lo riguardava.
    Era tutta colpa di Google.
    E Castor.
    Era sempre colpa di Castor. Specie perché non riusciva a stargli troppo lontano.
    «In realtà non è che non mi piaccia leggere, ma sono senza speranza» ammise – non pensando alle informazioni rubate a internet «perché se mi siedo con un libro tendo ad addormentarmi».
    «Questo significa che se qualcuno leggesse per te, tu non ti addormenteresti?» rise Castor, scherzando.
    Quello a cui non era preparato, invece, fu l'espressione seria dell'altro.
    «Esatto».
    Un fremito gli percorse la spina dorsale, improvviso.
    «Se vuoi, posso leggerti qualcosa» si animò, guardandolo da sotto le ciglia, diviso tra l’eccitato e il timoroso «cioè… se vuoi…»
    A Max venne da ridere alla vista di quel comportamento infantile.
    «Se hai uno dei tuoi libri a portata di mano…»
    «Nessun problema!» esclamò allegro Castor, balzando in piedi «Sono certo che uno dei camerieri ne ha. Poco fa mi è sembrato sul punto di venire a chiedermi un autografo».
    Max scoppiò a ridere nel vederlo raggiungere l’altezzoso ragazzo che li aveva fatti accomodare e allungare la mano, presto riempita del peso di un volume e seguito da qualche occhiata adorante. Prima di tornare al tavolo con il libro – e la promessa di restituirlo al proprietario – vi appose una firma svolazzante tra le lusinghe del cameriere e le risate di qualche cliente.
    «È il mio secondo manoscritto» spiegò orgoglioso.
    Max annuì, sbirciando il titolo, scritto in lettere nere, semplici, su sfondo bianco e come unica decorazione una fiamma blu.
    «Anima e Corpo sono mescolati, ma non al punto tale che non sia possibile distinguere alcune operazioni di pertinenza della sola Anima da altre del solo Corpo» iniziò, prima esitante e poi sempre più convinto alla vista di Max che si accomodava meglio per seguire la trama, cominciando ben presto a gesticolare dall'entusiasmo «Ci sono volte in cui quello che ho sempre conosciuto, che mi ha fatto crescere, che mi ha reso l’essere che sono adesso, sembra toppo simile ad un sogno. O ad un incubo talmente bello da non desiderare di svegliarsi nel mezzo e, nel contempo, tanto effimero da crederlo una semplice fantasia. Talvolta, quando la neve cade e le strade sono deserte e gelate, mi ricordo tutto. E non posso fare niente per fuggire…»
    Aveva una voce calda e ipnotizzante.
    Max, rapito, non lo fermò prima di due ore.
 
 
Lo so, non ci sono scusanti (come sempre) per il mio ritardo.
Ehm…
Aiuterebbe sapere che in fondo, molto in fondo, mi sto lapidando per questa mia – recidiva – mancanza?
 
 
baci
NLH

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Capitolo 12
*** Un passo per volta – e dieci al secondo ***




I’m not a Murderer


12
 
Un passo per volta – e dieci al secondo
 
    Avevano deciso di uscire insieme, in un appuntamento vero.
    Castor, prima di lasciare che la portiera si chiudesse alle spalle di Max, lo aveva richiamato e gli aveva chiesto, con un’esitazione che non gli era solita, se avesse ancora voglia di uscire con lui, la settimana successiva.
    Per una cena.
    Max aveva esitato.
    Stava per chiudersela alle spalle – se lo ricordava perfettamente, come se ogni secondo si fosse dilatato permettendogli di percepire ogni dettaglio – dopo un saluto veloce e un viaggio silenzioso.
    Era rimasto per ore ad ascoltarlo leggere, a sentire e vivere la storia di Yuri Stasov, un ragazzo come tanti che sceglie volontariamente di vivere un inferno per soddisfare il suo più grande desiderio. Si era perso nella voce profonda che disegnava, nella penombra del bar, di assassini senz’Anima, fughe per la Russia e relazioni segrete senza riuscire ad esprimere le sensazioni che quella storia gli aveva provocato.
    Quando l’aveva conosciuto, aveva avuto l’impressione che fosse solo uno dei tanti figli di papà che si divertono a ridicolizzare la gente; poi aveva creduto che si trattasse di uno stronzo figlio di puttana che si diverte a giocare con il prossimo. Ne aveva conosciuto un lato inaspettato, alla fine, quando si era precipitato da lui mentre era al capezzale di Bach, quando lo aveva rassicurato e lo aveva stretto tutta la notte. Era rimasto stupito quando aveva scoperto che non se n'era andato, rimanendo ad aspettarlo fuori dall’ospedale e si era sentito sciogliere il cuore – come una maledetta ragazzina, shit – quando, esitante, gli aveva chiesto una seconda possibilità.
    Solo una cena, aveva detto. Senza impegno, proprio come quel pranzo.
    L’avevano fissato per due sere successive e poi, senza un altro saluto, aveva fatto ripartire la macchina, lasciandolo in uno stato di perenne agitazione.
    Dal momento in cui mise piede sul pianerottolo – quando suo fratello William lo aveva superato a tutta velocità blaterando qualcosa su- no, proprio non lo ricordava – fino a quando Castor lo aveva chiamato per mettersi d’accordo sull’ora, era rimasto in uno stato di calma apparente, mentre il suo cervello continuava a ripetere le stesse parole a ciclo continuo.
    Cosa stava succedendo? Cioè, stava davvero succedendo?
    Ora, Castor non sembrava aver mai dato l’idea di volersi impegnare in qualche modo – più o meno seriamente – ma il fatto che, sorvolando sulla notte di… su quella notte, lo avesse invitato ad uscire per un appuntamento - un appuntamento vero - doveva pur significare qualcosa.
    Max non era uno sciocco – sebbene una buona parte delle sue conoscenze pensasse il contrario – aveva capito di essere rimasto affascinato da Castor.
    Che fosse un maschio non era mai stato un problema – insomma, era stato cresciuto in una di quelle comunità aperte sin da piccolo e riguardo ai pochi dubbi che si fosse mai posto prima, Castor li aveva spazzati via, spiegandoglieli in modo molto pratico. Semmai le sue preoccupazioni erano legate ad altro. Il fatto che fosse la prima relazione seria da anni, che tutto stesse procedendo troppo in fretta. Persino che si trattasse di un ragazzone ricco e viziato poteva essere fonte di dubbi!
    Dove lo avrebbe portato? Non aveva vestiti adatti per una serata.
    Magari sarebbero andati a fare un giro di shopping nel suo negozio, per farlo preparare al meglio. Fece una smorfia, al ricordo.
    Si era accorto che l’ansia aveva iniziato a raggiungere livelli preoccupanti quando si era reso conto di stare prendendo in considerazione la possibilità di introdursi a casa di Dorian – che aveva più o meno la sua stessa taglia – e fare incetta del suo armadio, ben più fornito.
    Dove diavolo avrebbe trovato un completo decente nella risma di maglie e jeans che affollavano i suoi cassetti?
    Era rimasto sorpreso, quindi, quando aveva ricevuto un SMS da pare di Castor in cui gli diceva di aver prenotato, chiedendogli di passare a prenderlo intorno alle sei.
    Strano era strano: in che locale avrebbero avuto il coraggio di presentarsi con la sua vecchia Ford? A giudicare dai bar che l’altro era solito frequentare, avrebbero fatto una figuraccia.
    Perciò – dopo essere rimasto almeno venti minuti (dico, venti minuti!) davanti ai cassetti per decidere cosa mettere – aveva guidato seguendo le indicazioni ricevute e aveva parcheggiato – Dear God, come si sentiva fuori posto – ai piedi del maledetto edificio, il cui attico era proprietà del suo appuntamento.
    Aveva riso tra sé; faceva strano sentire quei pensieri, persino nella sua testa.
    «Che hai da ridere?»
    La voce di Castor lo aveva riscosso e lui si era sporto per aprire la portiera – la maniglia esterna aveva il piccolo difetto di non sbloccarsi due volte su tre. Se si fosse aspettato di essere preso in giro per la sua mise, venne deluso. Castor lo aveva salutato, scostandogli un ciuffo ribelle, sorridendo, e chiedendogli cosa avesse fatto.
    Provando a rilassarsi, Max si lanciò in una dettagliata, quanto intricata, cronologia della settimana appena trascorsa.
 
°°°
 
    Doveva aver parlato con qualcuno. Ne era certo.
    Bach forse – quei due sembravano un po’ troppo amici per i suoi gusti – oppure Lionel. Persino Dorian o Brook sarebbero stati tra i sospetti, se solo non si fossero trovati a Oklahoma per un festival. Poi c’erano Jamie e Joakim. E chi altro?
    Altrimenti come avrebbe fatto Castor a sapere che quel ristorante – una bettola che faceva solamente carne alla griglia – fosse il suo preferito?
    Lo aveva scovato appena un mese dopo il suo arrivo a Philadelphia: memore di aver sentito un buon odore in quella via, la prima volta che ci era passato, lo aveva seguito fino a trovarsi alla porta del "Inner Pub", con l'acquolina in bocca e il suo primo stipendio in tasca.
    Poi, in seguito, vi aveva portato tutti i suoi migliori amici e compagni di squadra; perciò… chi era stato? Con chi aveva parlato?
    In quel momento, proprio mentre stava stilando un elenco di persone a cui togliere il saluto, Castor gli aveva allungato la lista e aveva fatto una battuta sulla grandezza delle costate. E che potevano dividerne una, se Max ne avesse avuta voglia. E che avrebbe chiesto solo peperoni come verdure grigliate, niente cipolle.
    Da quel momento in poi tutto era diventato confuso, in modo incredibile.
    Una volta aveva provato una canna – okay, forse pure due o tre. E un paio di bicchieri di whiskey – e la sensazione di luminosa euforia era più o meno la stessa. Sebbene l’erba non avesse dato alcun effetto di costrizione allo stomaco e calore tremante alle mani.
    Avevano riso, parlato – davvero, non riusciva a ricordare di cosa – e avevano vissuto il momento.
    Tre ore. Avevano passato insieme tre ore che gli erano sembrate appena venti minuti.
    Poi, ancora una volta, erano saliti in macchina e, dopo una maldestra manovra per uscire dal parcheggio, si erano diretti verso casa di Castor.
    I sedici minuti più lunghi della sua vita.
    «In fondo» sentì la propria voce spezzare il pesante silenzio che era tornato, appena rientrati in macchina «non è stato poi così male».
    «No, non è stato male» concordò l'altro, con un sorriso «mi sono divertito»
    «Anche io!» si affrettò dire, facendolo scoppiare in una risata.
    Il moro sorrise, chiedendosi come mai non si sentisse offeso per la palese presa in giro. Era tutta la sera che se lo chiedeva, veramente. All'inizio della serata si erano rivolti la parola con cautela, quasi con circospezione, come se temessero di mancare di rispetto o rovinare quella seconda e inaspettata occasione. Poi, poco a poco, le battute e le insinuazioni scherzose avevano cominciato a prendere piede fino a quando non si erano trovati a non poterne fare a meno, prendendosi in giro a vicenda.
    Gli sarebbe mancata quell'intesa.
    Aveva ancora quel sorriso sulle labbra quando si sentì chiamare dal finestrino abbassato.
    «Max».
    Il moro si sentì quasi patetico nel lanciarsi verso il sedile del passeggero, in attesa che Castor dicesse altro.
    «Si?» domando, schiarendosi la voce nel tentativo di mostrarsi calmo.
    Il rosso parve esitare prima di chinarsi verso di lui.
    «Vuoi salire?»
 
°°°
 
    In piedi, accanto alla porta d’ingresso, Max si chiese ancora una volta cosa diavolo si fosse messo in testa. Le voci che l’avevano tormentato per tutti e due i giorni precedenti erano tornate prepotenti, facendogli riconsiderare il proprio livello di idiozia e masochismo.
    Cosa diavolo si aspettava, ancora? Che dopo la seconda notte – perché era certo che ci sarebbe sta una seconda notte, glielo dicevano le sue gambe tremanti, il nodo allo stomaco e il calore nel bassoventre – lo avrebbe trattato un po’ meglio, alle luci rivelatrici dell’alba?
    Osservandolo armeggiare con le due serrature e il codice di blocco – non era solo blindata, era anticarro, quella porta! – osservò la schiena di Castor.
    Era una delle cose che aveva notato di lui (sorvolando sui vestiti e i capelli cangianti) visto che al loro primo incontro il rosso era di spalle. Non erano particolarmente larghe, non come quelle di un nuotatore, ma erano solo la sommità della lunga curva della schiena, fasciata in una camicia aderente e temporaneamente nascosta da una giacca in pelle camoscio.
    Ma da quando cavolo conosceva il colore camoscio?
    Aveva pensato sin da subito che fosse attraente, ma al tempo non aveva avuto idea del carico di emozioni e coinvolgimento che sarebbero seguiti.
    Per un attimo ebbe la tentazione di domandargli cos’altro nascondesse dietro quel bel corpo e la faccia da schiaffi.
    «Mi dici una cosa?» chiese invece, giocherellando con la cerniera della giacca «Chi ti ha consigliato quel posto?»
    «Nessuno, pensavo solo ti sarebbe piaciuto. E ho avuto ragione» gli sorrise fugacemente, distogliendo appena lo sguardo dalle chiavi.
    «No, dai. Sul serio»
    «Guarda che dico davvero» rise, decisamente più rilassato «ci sono capitato per caso qualche anno fa. Stavo lavorando al primo romanzo e avevo dimenticato le chiavi in casa e stavo morendo di fame! Avevo passato l’intera giornata al pc, in un parco, e stavo letteralmente sbavando. Poi ho sentito questo delizioso profumino di carne che… ti lascio immaginare!»
    Con uno scatto l’ultima serratura venne aperta e Castor la spalancò per farlo passare per primo.
    «Avanti» lo esortò scherzosamente.
    Nel passargli accanto, Max percepì distintamente l’odore di more e pelle caratteristico dell’uomo e strinse i pugni in una morsa, sentendosi attratto come non mai. Cercando di calmarsi lo imitò posando la giacca all’ingresso e seguendolo in cucina.
    «Vuoi qualcosa da bere?» diede una pacca allo sgabello più vicino, chiedendogli implicitamente di sedersi.
    «Ho la gola secca» confermò, accomodandosi.
    «Ecco, tieni» gli passò un bicchiere, pieno di un liquido ambrato.
    «Whiskey?» domandò diffidente. Ricordava vagamente l’ultima volta in cui aveva bevuto. Nel senso che ricordava di aver bevuto ma non di come si fosse ritrovato rantolante in bagno.
    «Sherry».
    «Ah, beh» annuì scettico, rigirandoselo tra le mani e prendendone un sorso. Buono.
    «Scusa, tu non bevi?»
    «No, cioè, bevo certo. Ma non reggo molto» ridacchiò, prendendone un altro, le guance improvvisamente rosate «anzi, non reggo per niente».
    «Sarebbe divertente starti a guardare» Castor ammiccò, prendendogli il bicchiere e bevendo un sorso, ignorando il mormorio risentito che gli rifilò Max. Era stata una cosa stupida, si disse restituendoglielo, poggiare le labbra dove un attimo prima erano state quelle dell'altro.
    «Affatto» lo contraddisse, vuotando il rimanente prima di posarlo sul bancone «sono stato malissimo. Un bicchiere o due posso anche reggerli, ma se vado oltre mi ritrovo a vomitare nel bagno più vicino».
    «Allora vediamo di evitare» Castor lo prese e lo mise nel lavandino, facendo sparire la bottiglia in qualche anfratto della cucina «è stata una bella serata fino ad ora, non vogliamo rovinarla, no?»
    Per un attimo Max rimpianse di non avere più tra le mani qualcosa che lo facesse sentire meno idiota. Non sapeva cosa farsene, con tutte e dieci le dita libere.
    Castor sembrò provare un perverso piacere nel vederlo a disagio, nel suo territorio. Una sorta di piccola vendetta per quello che era stato costretto a passare nella settimana precedente.
    Max non si rendeva conto – che diamine, lui stesso non riusciva a rendersene conto! – dell’effetto che gli faceva. Lo vedeva sedere rigido e poteva avvertire il movimento dei muscoli sotto la maglia scura e il serrarsi delle gambe, poteva percepire il contrarsi dei fasci nervosi delle cosce – aveva un preciso ricordo di quelle cosce, strette attorno ai suoi fianchi – nascosti dai jeans lisi. Si leccò le labbra.
    Persino da quella distanza sentiva il cloro, penetrante nelle narici.
    Era stata una tortura tenere le mani a posto, mentre rideva e scherzava con lui durante la cena. Era stato felice, in quelle ore, ma non completo. Avrebbe voluto stringergli le mani mentre si tormentava le dita, leccargli via lo sbaffo di ketchup dalle labbra mentre mangiava e chiudergli la bocca con la propria mentre scoppiava  ridere.
    Chissà se gli avrebbe dato il permesso di farlo, prima o poi, anche se questo avrebbe significato più di una semplice relazione fisica, molto di più.
    Guardandolo di sottecchi si chiese se Max avesse preso in considerazione quel di più, nell’accettare un altro appuntamento,  e anche il motivo per cui la cosa gli facesse piacere.
    Poi si accorse che l’attenzione del moro era rivolta verso la porta più vicina, socchiusa, dalla quale si intravedeva un bracciolo chiaro. Con una fitta lo vide scendere dallo sgabello e muovere qualche passo verso la porta, come ipnotizzato.
    «Me lo ricordo» il tono di Max sembrava appena più roco del solito, mentre entrava nel salotto – che la colf aveva diligentemente riordinato un paio di giorni prima – e si spostava verso un mobile grande quanto una piattaforma per elicotteri, foderata di tessuto pregiato «il divano».
    Castor sorrise, chiudendo istintivamente gli occhi, e lo seguì, pur rimanendo a distanza.
    «L'ho fatto arrivare dall'Italia» mormorò piano, accarezzando uno dei cuscini, senza perderlo di vista «mi è costato una fortuna, ma ne è valsa la pena».
    «Esagerato» anche Max tenne la voce bassa «il mio l'ho comprato usato da qualche rigattiere, ma mi piace lo stesso».
    «Mi piacerebbe provarlo».
    Trattenendo il fiato, Max si sedette al centro del divano, sprofondando nella morbidezza dei cuscini e sentendo tra le dita la trama morbida e liscia delle fodere.
    «Ne rimarresti deluso, a confronto di questo».
    Stargli lontano stava diventando quasi doloroso e Castor odiava il dolore; si mosse dalla postazione tenuta fino a quel momento, alle spalle, per arrivargli di fronte.
    «Come mai?»
    «Il mio è bitorzoluto e più… duro» Max esalò le ultime sillabe con un sospiro eccitato, scombussolato dalla vicinanza dell'altro e dal suo profumo, che era tornato a riempire le sue narici come quella notte, prepotente e intossicante. Persino guardarlo lo faceva sentire agitato: le pupille erano dilatate e lucide, nascondendo completamente l'iride e la bocca era socchiusa, come in attesa che qualcuno la chiudesse.
    «Mi piace» anche la sua voce era diventata scura, ruvida e roca, mentre gli si avvicinava di un altro passo, come non riuscisse a stargli lontano «mi piacerebbe provarlo» ripeté «sprofondarci».
    Max serrò le palpebre. Non stava più parlando del divano.
    «Hai le pupille grandi come piattini da the» a quelle parole il moro si costrinse ad aprire gli occhi e a fissarlo sconvolto «mi piace come mi guardi, mi piace vederti seduto nel mio salotto. Mi piace averti ancora qui».
    «Castor…» provò a dire, tirandosi leggermente indietro.
    «Cosa, Maximillian?» senza accennare a fermarsi, Castor si chinò su di lui, posando un ginocchio sulla fodera tra le gambe socchiuse di Max.
    L’altro aprì e chiuse le labbra, completamente dimentico di quanto avesse provato a dire prima. La bocca era troppo vicina, gli occhi fissi nei suoi e il fiato bollente che s’infrangeva sul proprio.
    Se Castor aveva trovato difficile stargli lontano in precedenza, ora lo trovava totalmente irresistibile. Poteva avvertire il tremore dell’altro tanto quanto il proprio quando alzò le mani per sfiorargli la maglia, facendo scorrere le dita sulle cuciture delle maniche prima di afferrargli l’orlo e sfilargliela, facendo scorrere le nocche sulla pelle tesa.
    Sotto non portava niente.
    «Castor» tentò nuovamente, umettandosi le labbra e sporgendosi in avanti. La tensione stava diventando insopportabile e se il rosso non lo avesse baciato subito, sarebbe impazzito. Ma l’altro sorrise e gettò l’indumento a terra, continuando la lenta tortura con cui lo stava accendendo. Le dita pallide continuavano a scorrere, una per bloccargli la spalla e impedirgli di muoversi e l’altra per premere inaspettatamente sul cavallo teso dei suoi pantaloni.
    Per poco Max non si lasciò sfuggire un urlo.
    «Ssh» gli soffiò direttamente sulle labbra, pur continuando a non toccarle. Lo avrebbe torturato finché avesse avuto la facoltà mentale per farlo e poi, solo poi, avrebbe baciato fino a fargli perdere il respiro e la ragione. Gli avrebbe persino fatto dimenticare il suo nome, da quanto lo avrebbe fatto godere.
    Si bevve ogni singolo gemito, singulto e tremito mentre gli sfilava i jeans con lentezza, facendo scorrere la lingua nell’interno coscia, slacciandogli le scarpe e sfilandogli le calze. Lasciò cadere il tutto, tornando a far scorrere i palmi sulla pelle man mano che risaliva, in una rude carezza.
    Posò con delicatezza le labbra sul mento, premendo leggero, donandogli poco più di una pressione. Gli mise le mani sulle spalle, sentendo le dita di Max stringersi di riflesso sulle proprie, e si allontanò lo spazio necessario per tornare ad appoggiare nuovamente la bocca su quella pelle bollente, lungo il collo, centimetro dopo centimetro.
    Leccò con forza l’incavo della gola, facendogli emettere un gemito profondo. Castor gli sorrise sulla clavicola, aspirando quel suo odore che tanto lo aveva attirato quella volta, nel camerino, quella che sembrava una vita prima.
    Tornò a muovere le mani – mentre quelle dell’altro rimanevano ancorate alle sue spalle – facendole scorrere sulla pelle liscia, lungo il petto, sfiorando appena i capezzoli. Scese delicato lungo ogni costola, sulla linea del fianco, posandosi con maggiore forza sul sedere. Strinse le dita e lo baciò sull’addome.
    Max si dimenò appena, sentendo un calore improvviso salirgli dal ventre. Si sentiva alla grande. Si sentiva accaldato.
    Incapace di mantenersi dritto, rovesciò la testa indietro e il corpo la seguì. Seguendo il movimento dell’altro, Castor lo fece adagiare sulla schiena e spazzò via i cuscini con un braccio, senza staccare la bocca dall’ombelico, affondandoci ritmicamente la lingua e facendolo gemere. I ricordi della loro prima volta gli si ficcarono in testa, rendendogli impossibile smettere di gemere, ricordare e godere quanto Castor gli stava donando.
    Poi la sua bocca iniziò a vagare decisa dallo stomaco al ventre, stringendolo piano.
Seguendo il suo istinto, Max gli infilò una mano nei capelli, tirandoli e gridando a pieni polmoni il suo nome.
    Fu un attimo: Castor tornò alla sua altezza e gli afferrò la nuca, facendo finalmente combaciare le loro labbra e insinuandovi con prepotenza la lingua tra quelle martoriate di Max. Lo costrinse a chinare la testa all’indietro per la foga del bacio e lo approfondì senza freni, lasciando che un rivolo di saliva scendesse lungo le loro gole, sui loro petti. Gli si schiacciò addosso infilando una gamba tra le sue e strusciandosi su di lui.
    Si sentiva perdere il controllo e la cosa gli stava bene. Si sentiva soffocare e quell’odore di cloro lo faceva delirare al punto tale da desiderare di fondersi con quella pelle bollente e leggermente ruvida.
    Max si mosse nelle sue mani, contro il suo petto e tra le sue labbra, e Castor perse quel poco di raziocinio che gli era rimasto. Aveva bisogno – doveva sentirlo ancora su di sé. Doveva – voleva sentire solo lui.
    Erano passati giorni dalla prima volta in cui aveva assaggiato il suo sapore, e non riusciva più a farne a meno.
    Senza aspettare un secondo di più gli afferrò alla cieca l’elastico dei boxer e glieli sfilò fino alle ginocchia, trovando insopportabile l’idea di staccarsi da quel bacio, fosse anche solo per liberarlo da quell’unico indumento che ancora lo separava da lui.
    «Castor» Max mugolò nel riprendere respiro, tornando ad aprire gli occhi, lucidi di piacere.
    L’altro non gli permise di aggiungere altro e strattonò l’indumento fino a quando non riuscì a sfilarlo del tutto, lanciandolo da qualche parte alle spalle e salendogli a cavalcioni, curvandosi in avanti per approfondire ulteriormente il contatto tra le loro lingue.
    Riprendendo fiato, Castor leccò della saliva che era colata sulla guancia di Max.
    Vedendolo tanto accaldato, aperto e pronto per lui – con quell’espressione di vacuo desiderio e perso nei suoi occhi –, Castor lo abbracciò di slancio, affondandogli le mani nei capelli e il viso nell’incavo della spalla.
    «Finalmente».
    Suo.
    Ancora.
 
 
Ahehm, hi dears!
Ora, sorvolando sull’immane ritardo  per l’uscita di questo capitolo e farò del mio meglio con il prossimo… vorrei dire che-
 
Va bene, lo ammetto, mentre sto scrivendo queste righe, sto anche guardando un episodio di The Mentalist e mi sono appena distratta, dimenticando irrimediabilmente cosa avessi voluto dire con la frase precedente.
Che idiota vero?
 
Non so esattamente cosa volessi dire. Forse una qualche sviolinata sul fare meglio per il capitolo successivo, oppure che il rating è arancio e non rosso e quindi temo che non ci sarà un seguito dettagliato su quanto appena interrotto qualche riga sopra. O magari era per comunicare che ho intenzione di rivedere e correggere la storia che ho scritto un paio di anni fa (guarda caso, proprio quella citata, il cui protagonista è Yuri Stasov).
 
Non ricordo con sicurezza.
Chiedo perdono.
 
Perciò ora… chiudo qui. Buona serata cari e care XD
 
 
baci
NLH

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Capitolo 13
*** Risvegli di routine ***





I’m not a Murderer

13
 
Risvegli di routine
 
    Svegliarsi finalmente riposato, sebbene dolorante, sembrava essere una manna dal cielo da un paio di settimane a quella parte.
    La luce che filtrava dalle persiane era ancora chiara e l’unico rumore sembrava essere quello degli uccellini che cantavano appena fuori dal vetro.
    Per un attimo si chiese se non fosse un sogno.
    Ancora pochi secondi, si disse, e la pace che stava provando si sarebbe infranta, schiacciata dal peso della realtà.
    Castor che lo aveva così barbaramente tradito – tecnicamente gettato via come uno straccio e ignorato, ma che diamine, concedetegli un po’ di licenza poetica. Bach finito sotto un camion e bloccato a letto, la carriera stroncata. Il campionato sempre più lontano.
    Sospirando fece per tirarsi su, domandandosi come avesse fatto a dimenticare le persiane aperte, lui che non le sbloccava mai, socchiudendo gli occhi per abituarsi alla luce, ma un peso inaspettato lo costrinse a ricadere sul letto.
    All’altezza del viso, a pochi centimetri dal suo naso, un paio di iridi azzurre lo fissavano.
    Chiuse gli occhi per un intenso istante e quando li riaprì si trovò ancora nella camera color crema, tra pregiate lenzuola di seta – parecchio stropicciate – e un braccio caldo possessivamente avvolto attorno al torace.
    «Dove pensavi di andare?» la voce di Castor era roca.
    «Ehm…» cosa doveva dire? Come la volta precedente: c'era un codice di comportamento da seguire?
    Il ricordo di come era andata a finire non  gli ispirava molta fiducia.
    «Hai una ruga» l'altro lo girò verso di sé posandogli un dito tra le sopracciglia, «non dovresti farlo, invecchierai più velocemente».
    «Mi stavo solo-»
    «So a cosa stavi pensando. Non serve» quella frase seccata gli sembrò assurdamente tranquillizzante.
    «Volevo andare in bagno» rettificò velocemente.
    «Puoi andarci dopo» brontolò, tirandoselo contro e chiudendogli il petto in una morsa. Probabilmente Max avrebbe potuto liberarsi da quella presa se avesse voluto, ma preferì aderire ancora una volta a quella schiena, sapendo che finché fossero rimasti così sarebbe andato tutto bene.
    «Hai impegni?» lo sorprese. Pensava che Castor sarebbe rimasto in silenzio il più possibile, esattamente come lui.
    «Pensavo di tornare in ospedale» confessò, sentendo l'ormai familiare senso di colpa che lo attanagliava al pensiero della disavventura dell'amico.
    «Possiamo andarci oggi pomeriggio, se ti va» si era immaginato quella nota incerta? «Sono certo che stamattina verrà assediato dai vostri compagni».
    Gemendo per l'imbarazzo affondò la faccia nel cuscino. Sarebbe stato un agli allenamenti: Joakim e Brook lo avrebbero risparmiato – forse – ma Dorian e Lionel avrebbero fatto di lui… God, non voleva nemmeno pensarci. Sarebbe diventato la vittima designata.
    Se non altro avrebbero smesso di considerarlo un verginello. Non lo era più, decisamente, da nessuna delle due… parti.
    «Stai andando in autocombustione» osservò Castor nel sentire la pelle di Max riscaldarsi. Quando tornò a voltarsi vide che aveva le guance in fiamme.
    «Tu non sarai il bersaglio dei miei compagni» biascicò con le labbra premute sulla sua spalla.
    «Perché sei stato con un uomo?»
    «Che centra?»
    «Cerco di capire di cos'hai paura» rivelò, sorprendendolo con la sua schiettezza. Quella docilità lo colse alla sprovvista: il momento di sospensione dalla realtà stava durando molto più a lungo di quanto si sarebbe aspettato. Quando sarebbe arrivato il momento in cui sarebbe dovuto uscire da quella porta?
    Eccolo il panico che faceva ritorno.
    «Mi daranno del pappamolla o dello smidollato. Ci sono cascato ancora».
    «In uno scherzo?»
    Max non riusciva a capire se facesse finta di non sapere o proprio non riusciva ad arrivarci.
    «A letto con te» sbottò alla fine. Rimase immobile, in attesa di sentire la stretta allontanarsi. Sapeva dove  come sarebbe finita nonostante tutte le belle parole del giorno prima. Era ancora lo sciocco provinciale che era stato mollato da Tiana – la sua unica ex.
    «Perché non hai ancora abbastanza esperienza per soddisfarmi?» scherzò nuovamente. Fu Max a liberarsi da quell’abbraccio, sconcertato.
    «Fai finta di non capire?»
    «Sei tu che non capisci» lo interruppe duramente. «Non ti butterò fuori. Non lo farò».
    «Ma io dovrò andare a casa prima o poi» non voleva sperarci.
    «Quando te ne andrai saprai anche che potrai tornare» lo fissava diritto negli occhi per assicurarsi che capisse quanto gli stava dicendo.
    «Per un'altra cena?» non avrebbe davvero dovuto sperarci, ma glielo stava dicendo piuttosto chiaramente.
    «O per un tea. Per una chiacchierata. Per passare una bella giornata» tornò ad avvicinarglisi e strusciò il naso sul suo petto, allungandosi pigramente su di lui. «Potrei persino darti una copia delle chiavi».
    «È… ci conosciamo appena. Non dovresti fidarti del primo che passa» sentiva sempre più un groppo in gola.
    «Se dovessero mancarmi delle stoviglie saprei già il colpevole».
    Quel momento angosciante si era rapidamente trasformato in qualcosa di tenero. E inaspettato. E bellissimo.
    «E i tuoi fratelli?» gli accarezzò i capelli con dolcezza, finalmente in pace.
    «Rubano solo vestiti. Tu non lo faresti mai».
    Risero, rotolandosi fino all’estremità opposta del letto, dove Max costrinse Castor sulla schiena, bloccandogli i polsi. Il rosso mugolò, divertito da quell'iniziativa. Era andata bene.
    Molto meglio di quanto si sarebbe mai aspettato.
    «Cos’hai in mente?» fece le fusa senza provare a riprendere il controllo.
    «Fare colazione» stette al gioco, arrossendo. Forse non era così disinvolto come avrebbe voluto essere, ma era un buon inizio. Un inizio dannatamente buono!
    «Serviti allora» lo provocò, leccandosi le labbra.
    Che ci provasse. Non vedeva l’ora.
    «Castor, sei nudo? Non voglio entrare e vedere i tuoi gioielli al vento!» una voce purtroppo conosciuta arrivò attutita dalla parte opposta della casa, distruggendo quello che sarebbe stato un momento meraviglioso.
    «Cosa…» Max si ritrasse come se si fosse scottato, sedendosi sul bordo, mentre Castor si sollevava con un sospiro disperato.
    «Devo toglierle quelle maledette chiavi».
    «Verrà qui?» Max si guardò intorno come a valutare l’ipotesi di nascondersi sotto il letto.
    «Non lo farebbe mai» non sembrava molto convinto. «Vado avanti io. Tu trova qualcosa da metterti».
    La richiesta lo lasciò spiazzato. Il volto impietrito di Max cercò quello assurdamente rilassato di Castor. Si rendeva conto di quello che gli stava chiedendo? Sarebbe dovuto tornare in quella cucina, davanti a quella donna, come se nulla fosse successo?
    «Forse è meglio che vada a casa» c’era solo da immaginare cosa sarebbe successo se si fosse presentato anche l’altro fratello.
    «No» lo guardò negli occhi per fargli capire. «Vestiti, la colazione ti aspetta».
    Max chinò il capo, nascondendo il viso tra quelle ciocche rosse ribelli. Gli stava venendo voglia di piangere come una femminuccia.
    «Muoviti, non voglio che ti veda nudo» Castor svicolò imbarazzato prima di raccattare qualcosa da terra e svanire dietro la porta.
    Max rimase ancora per un attimo a godersi il momento prima di passare al problema successivo: dove diavolo erano finiti i suoi vestiti? Frugando tra la stoffa sul pavimento si rese conto che i suoi abiti dovevano proprio gradire il salotto.
    Sbirciò dallo stipite, controllando che non ci fosse nessuno in corridoio – ignorando le battute dalla parte opposta della casa – e scivolò dentro la sala, inciampando immediatamente nel mastodontico cuscino del divano. Era un casino lì dentro.
    Recuperò i jeans dallo schienale – non aveva idea di dove fossero finite le mutande – e la maglietta, decidendo che la camicia sarebbe stata bene dov’era, incastrata sotto i cuscini.
    Dallo spiraglio della seconda porta poteva vedere Castor entrare e uscire dal suo campo visivo, impegnato in chissà cosa, una volta persino seguito da uno straccio volante.
    Fu quando alzò lo sguardo – cogliendolo a fissarlo di nascosto – che si obbligò ad uscire. Avrebbe smesso di essere vigliacco, lo giurava. E si sarebbe preso la meritata rivincita.
    Basta nascondersi.
    «Buongiorno».
    Sperò di non sbagliarsi nel vedere un lampo di orgoglio negli occhi di Castor.
    Clio si illuminò, sfoderando il più largo sorriso che avesse mai visto su una ragazza.
    «Ciao» cinguettò felice, scendendo dallo sgabello saltellando – era parecchio bassa, molto più di quanto si aspettasse: gli arrivava sì e no al torace. Incredibile come una cosetta tanto piccola potesse essere tanto molesta.
    «Ciao» fece di rimando, impreparato a quella reazione.
    «Oggi sei vestito» constatò, atteggiando la bocca in una smorfia contrariata, facendolo – chissà come – sentire in colpa per essersi messo la maglia e ancora più nudo di prima.
    «Giù le mani» intervenne Castor, passandogli accanto per raggiungere il tavolo e strizzandogli una natica, «lui è mio!»
    Max scattò appena, ma Clio non sembrava essere dispiaciuta quella dimostrazione di possesso, perché rise ancora più forte e gli diede una pacca sul bicipite.
    «Questo significa che Eleo aveva ragione. Sta arrivando, perché tu lo sappia: è in macchina con Oscar. Hai preparato la colazione?»
    «Che cazzo stai dicendo?» il rosso la squadrò, sconvolto. «Che giorno è?»
    «Domenica» confermò, picchettando il giorno cerchiato sul calendario, appeso proprio lì accanto. «Ci avevi promesso scones, pancakes e muffin».
    «Non me lo ricordo!»
    «Sì, beh, forse eri un pochino ubriaco quando l'hai detto» annuì perfida.
    «Forse è meglio se-» Max non aveva voglia di trovarsi ancora in mezzo ad un ritrovo O'Connell, vista com'era andata la precedente.
    «Oh, no» intervenne Clio.
    «Quello è il tuo posto» disse Castor contemporaneamente, battendo una mano sullo sgabello più vicino ai fornelli.
    Sentendosi messo alle strette, si appollaiò dove indicato e rimase rigido in attesa che Castor finisse di preparare gli ingredienti e che Clio smettesse di fissarlo come se fosse stato una statua in esposizione.
 
°°°
 
    Il frantumarsi di qualcosa a terra annunciò l’arrivo di qualcun altro alla festa.
    «Castor! Quando ti deciderai a capire che il fottuto posto per i vasi non è l’ingresso?» la voce si levò indignata dal corridoio.
    «Quando tu smetterai di distruggere tutto con la tua grazia» la seconda voce sembrava una replica della prima – stessa arroganza e decisione – ma solo per il fatto che avesse ribattuto a Oscar aveva guadagnato la simpatia di Max.
    Eleo era una versione più giovane di Castor: stessi occhi penetranti – eredità di famiglia – e capelli tinti, sebbene biondi. L'unica differenza sostanziale era dovuta al fatto che il giovane – non poteva avere più di diciotto anni – sembrava essere stato tirato, tanto era alto.
    Precedeva il fratello maggiore con baldanza ma si fermò di botto sulla soglia per non farlo passare.
    «Togliti dalle palle!» sibilò Oscar appena dietro, in naso premuto nella chioma ingellata contro cui si era trovato per aver camminato con lo sguardo fisso sul tablet.
    «Ti salvo la vita fratello: c'è il tuo arcinemico».
    L'uomo sbirciò da sopra la sua testa e regalò a Max una delle sue migliori occhiate di disapprovazione.
    «Cosa ci fa ancora qui?»
    «Colazione» cinguettò Clio chinandosi per avvicinarsi al ragazzo, indicando il fratello. «Ma non mangiarlo, ha un pessimo sapore!»
    Le orecchie di Oscar raggiunsero un preoccupante livello di rossore alla battuta della sorella. Se la sua assurda famiglia non avesse smesso in tempi brevi di prenderlo per i fondelli li avrebbe estromessi dal giro di affari.
    «Ciao» Eleo avanzò a grandi passi, la mano tesa in direzione di Max, «piacere».
    Thank God, il fratellino sembrava normale.
    «Maximillian» gliela strinse sollevato.
    «Lo so, hai fatto bene a minacciarlo».
    Come non detto.
    Oscar si sedette alla solita sedia ignorando al meglio la presenza del ragazzo.
    «Allora questi muffin? Non ho tutto il giorno!»
    «Vatteli a comprare» mormorò Castor rimestando l'impasto.
    «Avevi promesso».
    «Me lo avete estorto» puntualizzò.
    Max osservò il quadretto familiare scambiarsi battute, insulti e occasionali lanci di suppellettili.
    Avvertì una tale fitta di nostalgia da costringerlo a chiudere gli occhi. Erano più di tre anni che non tornava a casa. Sean gli aveva mandato diverse mail, alcune con foto allegate, ma sapere che Dom Jr. fosse diventato più alto di Ted oppure che Liam si fosse fatto crescere i capelli fino a metà schiena non rendeva. Gli mancava l’odore della cucina di sua madre.
    Vedere Castor fare la linguaccia alle spalle di Clio gli diede un tale senso di tenerezza che si chiese come avesse potuto non rendersene conto prima. Quella famiglia disfunzionale era talmente unita da fargli venire voglia di abbracciarli.
    Eleo, che aveva continuato a blaterare delle minacce perpetrate nei confronti del fratello maggiore negli anni, rimase sconcertato dalla piega di dolore sulle sopracciglia corrucciate dell'ospite.
    «Non fanno sempre così» si affrettò a rassicurarlo. «In realtà vanno d’accordo».
    «Ne sono certo».
    Nonostante la distrazione, anche Castor si era accorto che qualcosa non andava perché gli passò una mano sulle spalle, baciandogli la sommità della testa.
    Un gesto talmente intimo da farlo arrossire. Non se lo aspettava.
    Evidentemente doveva essere un comportamento insolito per il rosso perché Eleo si mise a ridacchiare alle occhiate insofferenti di Orion, quelle deliziate di Clio e l’unica lunga occhiata allibita di Max.
    Castor infornò la seconda teglia di muffin, ignorandoli con nonchalance. Lui l’aveva detto che sarebbe stato diverso; i cretini erano stati loro a non crederci. Poteva anche essere un vigliacco ogni tanto, ma perlomeno, una volta presa una decisione, era suo uso mantenerla fino in fondo.
    Se i suoi fratelli ne sarebbero venuti a capo a breve, Max vi avrebbe impiegato più tempo.
    I muffin erano venuti bene, ma avrebbero avuto bisogno ancora di qualche attimo per essere prelevati senza rovinarli. Solo uno scivolò fuori dalla teglia senza sforzo: lo diede a Max.
    «La colazione, come promesso» sussurrò. Il ricordo di quella che sarebbe dovuta essere la loro colazione premeva ancora da qualche parte nel bassoventre, nascosto dai più larghi pantaloni della tuta in dotazione al suo guardaroba. Il suo odore non era ancora andato via da Max, l’aveva sentito quando si era chinato per baciarlo. Tempo prima quell’intimità lo avrebbe fatto arretrare, ma il dolore e l'insonnia patiti durante la settimana precedente gli avevano fatto vedere le cose da una diversa prospettiva.
    Non poteva modificare le azioni passate, ma avrebbe imparato dai propri errori.
    «Grazie» non aveva idea se il rossore alla base del collo fosse dovuto all’imbarazzo provocato della famiglia o alla sua vicinanza. Di sicuro teneva gli occhi ben piantati sulle sue dita. Magari stava ricordando quello che gli avevano fatto durante tutta la notte.
    Il fatto che non fosse scappato rappresentava un bel passo avanti.
    Gli diede una rapida stretta alla mano – ricambiata fugacemente – prima di tornare alla colazione.
    «Siete disgustosi» fu il commento di Oscar a quella scenetta sdolcinata, ma si vedeva che non era veramente contrario. Clio ghignò da dietro la tazza, mai una volta che Orion mostrasse il suo vero volto.
    Max osservò le dinamiche con maggiore attenzione: in fondo non erano poi così complicati. L’affetto tra di loro era innegabile. Eleo sembrava il più comprensivo tra tutti, il più calmo. Clio doveva essere la personalità più forte – essere una donna rendeva necessario compensare in qualche modo, visti quei fratelli ingombranti. Castor era l’eccentrico, forse il meno classificabile tra loro, ma i precedenti avevano dimostrato quanto in realtà tenesse a quella sgangherata marmaglia. Il suo atteggiamento ricordava quello di Noah – forse tra geni si sarebbero capiti, pieni di tutte quelle assurde contraddizioni che lo facevano impazzire. Nel bene e nel male.
    E poi c’era Oscar.
    Vederlo sorridere compiaciuto gli dava una certa irritazione, ma si sentiva anche costretto a spezzare una lancia in suo favore. Era stato uno stronzo, ma aveva offerto un lavoro a Bach. E lui gli aveva rubato un cappotto da tremila dollari, l'ultima volta che era fuggito da quella casa – Bach lo aveva cercato su internet.
    Senza una parola prese il piattino che Castor gli aveva messo davanti e lo allungò verso l’altra parte del tavolo.
    Il sopracciglio dell’uomo scattò versò l’alto e l’angolo della bocca tremò appena, dandogli per un attimo un’aria smarrita. Nonostante la vena polemica e l’indiscussa boria, c’era qualcosa in Oscar che lo rendeva affascinante. Suppose che fossero gli occhi made by O’Connell.
    «Considero la proposta di lavoro a Bach un adeguato pagamento per la volta scorsa».
    Oscar lo prese con sufficienza.
    «Sei contento Orion?» Clio gli diede un’affettuosa pacca sul braccio. «Così non dovrai più andare fuori a cena con il terrore di venire steso».
    «Mi chiamo Oscar» sibilò in tutta risposta.
    «Non dare via il tuo cibo. Non per lui!» Castor gli veleggiò nuovamente attorno rimpiazzando il muffin con due crêpe affogate nello sciroppo d’acero.
    «Ho restituito un favore» gli era ancora difficile credere di essere veramente lì, con lui, dopo quello che avevano passato insieme. Fino ad una settimana prima non avrebbe mai immaginato che Castor avrebbe potuto esporsi.
    Erano anni che non provava una gioia tanto normale quanto quella di una persona che ti si siede accanto guardandoti come se fossi un dono, sfiorandoti il braccio con la punta delle dita. Quel fuoco non divampava da anni, sempre che quelle braci che Castor aveva risvegliato fossero mai state accese, oltre la coltre di fumo grigio lasciata a disperdersi anni prima.
    Castor aveva fatto per lui più di quanto avesse mai immaginato – risvegliandogli i sensi, cercandolo nella folla, chiedendogli di riprovarci e accettandolo così com’era. Quella notte gli aveva sussurrato all’orecchio parole che non erano scomparse con il sole della mattina.
    Lo aveva stretto e baciato in posti che, a ripensarci, lo facevano avvampare e – God, non credeva sarebbe mai arrivato questo momento – desiderare di tornare in quella stanza.     Il fruscio dei pantaloni di Castor sullo sgabello era talmente disturbante da chiudergli lo stomaco: fino a quel momento la sua preoccupazione era stata quella di superare indenne l’incontro con gli O’Connell, ora non poteva che sperare se ne andassero in tempi brevi.
    Eleo stava infastidendo Oscar su un imprecisato argomento, Clio enumerava una serie infinita di motivi per cui sì, l’idea di trasferirsi in Giappone era stata molto ben ponderata, e Castor ribatteva punto su punto con razionale fastidio. Nessuno faceva caso a lui, fortunatamente.
    Seguendo quella nuova, irrazionale linea di pensiero, tolse le mani dal piatto. Con il fiato strozzato in gola fece scivolare la sinistra sotto il tavolo e ne posò il palmo aperto sulla coscia di Castor.
    Se Clio si fosse resa conto dell’improvviso pallore del fratello non lo diede a vedere, ma Max avvertì distintamente i muscoli irrigidirsi al suo tocco. Castor portò la propria mano libera sulla sua, premendola prima di intrecciare le dita in una muta promessa. Non lo aveva guardato, ma quel calore era stato più che sufficiente a fargli capire.
    Forse avrebbe fatto in tempo a presenziare agli allenamenti quel pomeriggio.
    In tutto quel susseguirsi di eventi, Max non poté che ringraziare il fatto che Will e sua zia fossero ad Atlanta per le vacanze. In caso contrario non avrebbe saputo come spiegare le continue assenze e l’improvvisa fioritura di succhiotti lungo la gola.
 
 
 
baci
NLH

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Capitolo 14
*** Crimine Perfetto ***


Questo capitol è per Giu li, noi due sappiamo benissimo perché.
GRAZIE
I’m not a Murderer
14
 
Crimine Perfetto
Epilogue

 
    Per quante volte fosse stato in piscina, Castor non riusciva ad abituarsi al calore soffocante, ai suoni ovattati e all'odore penetrante che lo assalivano appena varcata la porta.
    A differenza della volta precedente non aveva perso tempo a cercare Max in corsia – diversi atleti stavano allenandosi in previsione della competizione – ma andò direttamente negli spogliatoi. Ci teneva a fargli una sorpresa.
    Quello che non si aspettava, invece, fu di trovarlo proprio lì.
    Si era fatto indicare la zona riservata al gruppo di Max e se lo era trovato davanti appena varcata la soglia.
    Doveva aver appena finito il riscaldamento, perché indossava solamente i pantaloncini aderenti del costume e i capelli erano arruffati dall’acqua. Deglutì lentamente.
    «Sei venuto!»
    Castor non aveva idea se il compagno avesse compreso quanti sensi poteva avere quella frase, ma ricambiò il bacio con entusiasmo. Oh, sì, sarebbe sempre venuto lui.
    «Sorpresa» mugugnò.
    «Avevi detto che saresti stato ad una riunione» era bello vedere quanto fosse felice di vederlo. Non si sarebbe mai stancato di quello sguardo.
    «Che sorpresa sarebbe stata altrimenti?» Si forzò di non far scivolare le dita nell’elastico e strizzare per bene quella chiappe sode. Doveva distrarsi, si impose, almeno per il momento. «Sono anche venuto a restituirti queste» con un gesto teatrale tirò fuori un paio di mutande. «Le ho trovate!»
    «Dove-» boccheggiò Max, guardandosi intorno per essere certo che non vi fosse nessun altro.
    «Sul lampadario» confidò, ignorando lo scatto di Max per prendergli i boxer dalle mani.
    «Avresti potuto darmele a casa!»
    «E perdere l’occasione di metterti in imbarazzo? Mai» ghignò.
    Max lo fissò a lungo, perdendosi in chissà quale macchinoso ragionamento, prima di voltarsi e frugare nella sacca.
    «In questo caso ne approfitto anche io. Avevo pensato di aspettare fino all’uscita del tuo nuovo libro, ma visto che siamo in argomento…» Gli porse una scatolina scura, alzando le spalle noncurante. «Tieni».
    Castor scartò il regalo inaspettato. Un breve fruscio di carta velina rivelò del tessuto rosso scuro arrotolato su sé stesso. Ammutolì.
    Chi l’avrebbe mai detto che la nemesi della moda Max gli avrebbe regalato un capo di vestiario? Era un stato un gesto molto dolce.
    «Lo sai che se mi regali una cravatta significa che non vedi l’ora di sfilarmela» gli sorrise, ammiccando e facendo scorrere le dita sulla stoffa. Era una bella cravatta, l’aveva scelta bene – molto probabilmente con l’aiuto di qualcuno. Bach o Clio?
    «Oh, lo so» fu la risposta che non si aspettava di ricevere, «è per questo che l'ho comprata».
    Castor serrò la mascella fino a farsi male.
    Quell’incosciente non aveva la minima idea della posizione in cui si stava mettendo.
    L’immagine di loro due stretti a letto, le mani frenetiche di Max sui suoi vestiti e quella cravatta allacciata al collo, ai polsi e ovunque la fantasia li avrebbe spinti…
    Appena dietro la porta un giornalista gridò qualcosa, riportandolo alla realtà.
    Avrebbe dovuto spiegargli il rischio della vendetta. Oh, se lo avrebbe fatto!
    «Sei da prendere e da stuprare qui, ora, davanti a tutti i tuoi fan» gli sibilò all’orecchio, stringendogli gli avambracci e affondando senza pietà le dita nella pelle umida, «la prossima volta che ti viene in mente di farmi un regalo del genere, I beg you, aspetta di essere a casa, tra pareti insonorizzate e con unicamente il sottoscritto a portata di orecchio. E bocca».
    Max deglutì, pregustando, sentendo quasi fisicamente quelle parole scorrergli sulla pelle.
    «Non puoi stuprare una persona consenziente» fu tutto quello che riuscì ad articolare, la voce fioca.
    Castor tornò a fissarlo dritto negli occhi – quegli stramaledetti occhi – prima di sollevare l’angolo della bocca in un sorriso pericoloso – per lui.
    «Questo è da vedere» mormorò roco prima di lasciare la presa e allontanarsi di qualche passo.
    Max riprese a respirare più o meno normalmente.
    «Ma aspetta a cantare vittoria» aggiunse, un attimo prima di uscire dallo spogliatoio, «Prima o poi dovrai tornare a casa. Ti aspetto».
    Max gettò il capo indietro al suono della sua voce, chiudendo gli occhi per cercare di riprendere il controllo.
    Gliel’avrebbe fatta pagare, ne era certo.
    Una pressante tensione nel basso ventre gli stava dicendo che , l’avrebbe pagata.
    Si passò la lingua secca sulle labbra, altrettanto ruvide.
    Sapeva perfettamente che non sarebbe stato corretto farlo. C’era sicuramente un paragrafo, nel regolamento della polisportiva, che vietava certi comportamenti. Ed era anche piuttosto sicuro che ai partecipanti alle gare fossero proibite certe pratiche prima delle competizioni.
    Stava per infrangere chissà quante regole, non era da lui. Ma non gliene fregava assolutamente niente.
    Con uno scatto degno del titolo di nuovo detentore del record statunitense nello stile libero, riuscì ad afferrare la manica di Castor prima che questa sparisse dietro il battente e la porta si richiudesse.
    «Non ho tempo di aspettare» riuscì a mugolare prima di chiudergli quelle stramaledette labbra con un bacio.
    Se il rosso fosse rimasto sorpreso dalla piega che aveva preso la situazione, non lo diede a vedere. Rispose al bacio famelico, circondandogli il viso con le dita per tenerlo fermo, mordendo quella labbra affamate.
    Forse poteva equivalere al ti amo.
 
°°° 
    «Facciamo un bell’applauso!»
    Maximillian era rientrato dagli allenamenti giusto da dieci minuti – il tempo di una doccia e un bicchiere di spremuta d’arancia, che ora stava centellinando – quando il post-it sul frigorifero gli aveva ricordato di dover accendere la televisione.  La scrittura era sottile e lievemente inclinata verso destra, la penna a sfera blu e i tre puntini alla fine dell’ultima parola, gli gridavano che a scriverle era stato l’altro occupante della casa.
    Come al solito Castor non si fidava della sua memoria.
    E adesso, quello stesso inquilino lunatico, umorale, amante di cibi immangiabili, irritante e distributore di boxer per tutta la casa, bucava lo schermo con il suo lieve sorriso – stramaledettamente sexy, ma questo era meglio se lo pensava soltanto – e quella studiatamente arruffata massa di capelli rossi – tinti.
    «Quando mi hanno detto che tu, il vincitore del maggior numero di riconoscimenti e premi letterari di quest’anno, avevi accettato di presenziare a questa intervista, quasi non ci ho creduto» commentò il conduttore sogghignando – e prendendosi la rivincita per tutte le volte in cui quello stesso scrittore da strapazzo gli aveva dato buca, pensò Max arricciando le labbra.
    «Cosa posso dirti, Larry» Castor rise portandosi due dita alle labbra «la tua… costanza mi ha fatto capitolare».
    Chiamarla costanza non rendeva affatto il termine. Era più che certo che Castor avesse deciso di rinunciare alla sua vita ritirata per evitare le dieci chiamate al giorno che quell’uomo gli faceva, ansioso di avere l’esclusiva per quel libro da miliardi di dollari.
    E magari anche perché Max gli aveva detto che, se quel telefono avesse squillato ancora ad orari allucinanti, lui avrebbe anche potuto scordarsi dell’odore di cloro, a meno che non avesse deciso di rinunciare alla sua passeggiata rilassante della domenica in favore di un paio di vasche alla O’Connell Swimming Pool.
    «…e cosa ci dici dell’ispirazione?» stava dicendo intanto Larry, rigirandosi la penna tra le mani e mostrando un nervosismo che gli era insolito. «Nei tuoi libri precedenti hai trattato soprattutto tematiche cupe; thriller e polizieschi sono stati i primi tre – comunque di successo. Quindi per quale motivo il quarto, “Mermaid”, tratta di una storia d’amore?» fece una pausa come stesse riflettendo su quanto appena detto e riprendendo subito parola. «È così avvolgente e, a detta di molte lettrici, deliziosamente sensuale, che mi viene da chiedere: perché solo ora? Se sei tanto bravo perché aspettare?».
    Per qualche motivo, a Max corse un brivido lungo la schiena. Il sorriso fugace e inclinato, con il canino che mordeva morbidamente il labbro inferiore, gli dicevano che molto probabilmente la risposta che Castor aveva intenzione di dare, non gli sarebbe piaciuta.
    O gli sarebbe piaciuta troppo.
    «Perché non prima?» tergiversò nel frattempo, arricciando gli angoli della bocca e inclinando la testa per osservare la telecamera da sotto le ciglia scure. «Prima non avevo la mia Coraline personale che mi aspettava a casa, ogni sera e ogni notte. E ogni giorno in cui non è impegnata con il suo programma» allargò il sorriso nel pronunciare il nome della sua protagonista, associandolo a quello dell’amante che aveva appena annunciato al mondo di possedere.
    In senso letterale oltre che figurato.
    E per otto, o forse nove persone al mondo, quell’amante era stato associato ad una persona che di femminile aveva ben poco.
    «È perché ti sei innamorato che sei riuscito a scrivere con tanto trasporto? Racconta: chi è la tua Coraline? Si chiama veramente così?» insinuò Larry, cercando di scavare e divertire i milioni di spettatori – e fan isteriche pronte al suicidio – sulla relazione intrapresa dalla loro stella di punta.
    «Coraline» sibilò ironico,«e per la cronaca non si chiama così in realtà, è molto più di quanto tu possa pensare, e non nego che il suo personaggio sia stato influenzato da… dalla persona con cui vivo» evitò ancora di pronunciare il suo nome – o far capire che quella fantomatica fidanzata era in realtà un uomo più alto di lui «ma non c’è più di questo. Coraline non è-»
    Max smise di ascoltare perché il discorso si era spostato sulla caratterizzazione dei personaggi e sulla trama. Un discorso trito e ritrito che lui si era già sorbito – in termini decisamente più divertenti e accattivanti, abbracciati a letto e in compagnia di una coppa di gelato alla crema e un piattino di crostini alle acciughe e ribes scuro. Il secondo dichiaratamente di Castor.
    Finì di bere il succo e lo mise nel lavello, facendo scorrere l’acqua e pensando a quanto le luci dello Show non mettessero in evidenza la bellezza della carnagione perlacea del suo ragazzo, facendola sembrare solo chiara. Il che gli fece perdere un pezzo di conversazione che, un attimo dopo, lo catturò inesorabilmente, riportandolo davanti allo schermo, sul sorriso orgoglioso del compagno.
    «…eppure non è passato molto tempo dalla pubblicazione, e tu già mi dici che ne stai scrivendo un altro» Larry si passò inconsciamente la punta della lingua sulle labbra, pregustato lo scoop che gli era appena apparso davanti agli occhi.«Puoi darmi qualche anticipazione, vero? Non pretenderai certo che io adesso mi accontenti solo di questo? Avanti».
    Castor rise e tirò fuori dalla tasca dei fogli ripiegati, scritti a mano, e a Maximillian tornò un brivido che lo costrinse a deglutire. Ricordava quei fogli: uno aveva una macchia di salsa ad un angolo, quindi erano certamente quelli che aveva scritto due giorni prima, mentre erano sul divano assieme, a riposarsi.
    «È solamente un pezzo, una lettera che il protagonista maschile scriverà alla persona che ama» spiegò cercando la riga interessata.
    «E questa persona che ama…» insinuò nuovamente King, un nuovo sorriso in volto,«è ispirata interamente alla tua fidanzata?»
    «Se mi sta guardando – e sono certo che è così – allora in questo caso si riconoscerà».
    «Può darsi, ma tutti gli altri ascoltatori non lo sapranno» precisò acutamentenella speranza di strappargli qualche informazione in più. Castor sorrise sibillino e tonò ai suoi appunti.
    «Leggerò solo la parte centrale, non voglio rovinare la sorpresa, ma solo farla attendere con maggiore ansia» fece una pausa mentre indossava gli occhiali per leggere – Max aveva scoperto che in realtà non ne aveva affatto bisogno una volta che se li era infilati.
    Le luci si abbassarono ed un unico fascio, più luminoso, venne puntato sulla sua figura.
    «…siedo alla mia scrivania e scrivo, da solo. Ma qui non ci sei che tu» Castor iniziò a declamare quanto scritto, senza leggere una parola e guardando dritto nella telecamera, negli occhi spalancati di Max, che fissava lo schermo incapace di fare altro.
    Si sentiva bruciare qualcosa nello stomaco, ed era piuttosto certo che non si trattasse della cena.
    «Non posso fare altro – non voglio fare altro – se non pensare a te. La mattina mi sveglio e spero di vederti ancora al mio fianco, tra le coperte, con i tuoi capelli arruffati e le labbra rosse dei baci che ci siamo scambiati per tutta la notte. Sotto la doccia, sento solo la tua pelle fremente sotto le mie mani» a questo punto Castor intrecciò le dita davanti alle labbra, lasciando scivolare i fogli in grembo e sussurrando tra di esse, lasciando a malapena intravedere il movimento incessante della lingua nella bocca.     «Quando giro per casa non sento altro che il tuo odore, che impregna le pareti, i miei vestiti, la mia vita. Odore di casa, di crema idratante, di shampoo alla frutta e cloro. Soprattutto cloro».
    Ascoltare quella voce profonda e sexy e riconoscersi in quella descrizione, era stato tutt’uno per Max; così come arrossire furiosamente e cercare qualcosa per calmare la secchezza improvvisa della gola.
    Accidenti a quella stramaledetta calamita per gli sguardi (specie i suoi) che sembrava perfettamente in grado di manipolarlo sempre, comunque e dovunque.
    «Amo ogni lato di te, voglio viverti per tutto quello che sei alla luce del giorno e nasconderti al mondo ogni notte. Voglio restarti accanto quando sei irritabile, farti arrabbiare quando non hai più forze, stringerti anche se non mi vuoi vicino e baciarti fino a perdere il respiro».
    E Max perse il respiro nell’ascoltare quelle parole e vedere il lampo predatorio nelle iridi accecanti di Castor.
    Affondò con forza gli incisivi nel labbro inferiore nel disperato tentativo di calmarsi. Non era umanamente possibile che quell’uomo potesse fargli un tale effetto anche a quella distanza!
    «Vorrei che tu fossi qui con me. Vorrei anche solo tenerti per mano e sentirmi dire che non te ne andrai mai» prese fiato, «ma soprattutto voglio donarti tutto me stesso, senza riserve» a questo punto l’uomo smise di imprigionare Max attraverso la televisione e abbassò gli occhi, puntandoli sui fogli sparsi e stirando le labbra divertito.     «Vestiti compresi, visto che, nonostante tutto il guardaroba a disposizione, tu indossi solo canottiere e pantaloncini. Non che io me ne lamenti alla fine, la sera…» concluse con una risatina l’ultima frase, carica di un’ironia assente nelle parole precedenti.
    Sulla sala scese qualche secondo di silenzio ma, nel momento esatto in cui Castor si chinò a recuperare i fogli, un applauso entusiasta si levò tutt'intorno, raggiungendo i telespettatori. Gli occhi del giovane scrittore brillarono e chinò il capo in segno di ringraziamento.
    «Cosa posso dire?» iniziò il presentatore, facendo finta di asciugarsi una lacrima di commozione. «Quanto scritto parla da solo. Noi tutti non vediamo l'ora di leggere questa prossima opera!»
    Castor sorrise accondiscendente e attaccò a spiegare le tempistiche e una data di possibile consegna.
    Nel frattempo Max stava cercando di riprendersi dal colpo che l'aveva quasi steso. Tentando nel contempo di calmare l’eccitazione e l’aspettativa che quelle poche parole gli avevano suscitato. Forse gli serviva una doccia fredda.
    O magari due, constatò nel ricordare che il fidanzato non sarebbe tornato a casa che il giorno successivo.
    Sospirò rassegnato e sorrise benevolo nel vedere l’espressione composta di Castor.
    Dai, magari alla fine non gli avrebbe fatto troppo male, una volta fosse tornato a casa. In fondo non doveva certo ucciderlo per avergli fatto prendere spavento, dicendo quelle cose in diretta.
    Forse Bach l’avrebbe preso in giro a vita, ma per fortuna la questione sarebbe stata ristretta.
    Sorrise.
    «Se la tua ragazza potesse parlare ora, cosa direbbe?» Larry si chinò in avanti per pregustare la risposta. «Magari possiamo farla chiamare per sentire la sua opinione. Sapeva di questo nuovo libro?»
    «No, non ne sapeva nulla» Castor scosse la testa palesemente divertito. «Maximillian non legge mai quello che scrivo; aspetta che glielo legga io, magari dopo un po’ di sano sesso».
    Il sopracitato Max ammutolì.
    L’aveva detto.
    Da Larry King.
    In prima serata, davanti a milioni – sperando che gli altri fossero troppo occupati a fare altro piuttosto che guardare la televisione – di telespettatori.
    Boccheggiò.
    Si stava sentendo male.
    «Maxi…millian?» ripeté il conduttore, scandendo lentamente le lettere, tra l’insicuro e l’incredulo. «La protagonista è ispirata, cioè no, …Maximillian?»
    «Sì, esatto» confermò tutto sorridente, annuendo con orgoglio e tirando fuori una loro foto dal portafoglio.
    Era un’istantanea scattata durante la loro prima uscita al mare come coppia. Castor rideva spensierato sullo sfondo, la mano allungata e le dita intrecciate ad altre, di una tonalità un po’ più scura. Il proprietario di quelle seconde dita era di spalle, ma teneva il viso voltato verso l’obiettivo, mettendo in mostra tutta la potenza dei muscoli della schiena e del collo.
    «Maximillian» disse ancora Larry, esitante ed euforico allo stesso tempo, alzando la fotografia di modo che anche tutto il resto dell’America fosse in grado di vederla, «la persona con cui hai una relazione è Maximillian Pollux Medaglia d’oro alle nazionali?»
    No, Maximillian non era un assassino, ma in quel momento non desiderava che prendere quel candido collo da cigno e stritolarlo come fosse stato quello di una gallina.
    Poi magari lo avrebbe baciato fino a farlo soffocare.
    Forse.
    Si passò una mano sul viso, sentendolo bollente e si morse le labbra, estremamente eccitato.
    Okay, forse non lo avrebbe solo baciato, ma questo non gli avrebbe impedito di prendere e fare falò di ogni singolo capo di biancheria firmata di quell’esibizionista.
 
The End?
 
Grazie soprattutto a 3ragon che ha avuto il fegato di seguirmi fin qui!
 
 
Ammetto di averci impiegato un SACCO! Vi ringrazio veramente per la pazienza e non prometto niente per ora - ho in ballo diverse storie, ma se non ne finisco almeno una non ha senso iniziare (sappiamo tutti quanto io sia lenta ad aggiornare) *pacchette sulla spalla.
 
Una mattina vi sveglierete, cercherete distratte le nuove uscite, e troverete AliasNLH tra i nomi. Credeteci!
 
E incrociate le dita.
 
AliasNLH

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