The Black Parade.

di past_zonk
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hopes ***
Capitolo 2: *** Jacaranda ***
Capitolo 3: *** Dragone. ***



Capitolo 1
*** Hopes ***






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Quindi...eccomi qui, pronta a pubblicare una nuova fanfiction in questa categoria. Sto già scrivendo sui Bigbang una storia (una decisamente più semplice di questa, ma dopotutto, qualsiasi cosa sarebbe più semplice di questa qui, argh), Bad Boy. Ma, sarà l'ispirazione, sarà l'autolesionismo psichico a cui mi sottopongo, ho deciso di iniziare un'altra longfic.
Sui Bigbang.
In guerra. Angst.
Sì, lo so. Vi aveva già fatto soffrire Top con 71: into the fire. Ora mi ci metto anche io, già. Sono una stronza.
Prima di lasciarvi alla storia, vorrei dare un paio di precisazioni.

a) Prima di tutto, la situazione narrata, la guerra appunto, non viene dipinta in maniera molto realistica. Parlandoci chiaramente: siamo nel 2013, e se solo scoppiasse una guerra, sarebbe già finita a causa dei rifornimenti di armi nucleari dei vari paesi. Non sarebbe una guerra con soldati e fucili e sparatorie. Ne sono cosciente.
Comunque, ai fini della storia, mi sembrava più adatto dipingere qualcosa del genere.
b) Visto che ci sono abituata, ad essere accusata di cinismo,  a causa di un'altra mia fanfiction sui Muse, Wires (in cui il protagonista affronta l'AIDS), vorrei solo dire un paio di parole: non mi diverte scrivere certe cose. Non lo faccio con cattiveria, o augurando - come mi è stato tramite MP additato - ai personaggi la sorte che affrontano nelle mie storie. Lo faccio per me stessa. Per superare certi miei limiti, e dipingere storie, sì strazianti, ma con una morale. Certo, prendo in prestito un gruppo coreano per farlo, ma il messaggio resta lo stesso (oddio, ora non voglio sembrare arrogante, cioè, ngh, io ci provo, tutto qui :c)
Quindi, se non vi piace leggere di morte, violenza, disperazione, uscite da questa fanfic, non vi biasimo, anzi :) peace&love
.

Ok, direi di essere pronta, ora. Scusate lo sproloquio!

Mini GD, questa è tutta per te! Grazie di tutto, babe :)
Silvia.















Prologo.

 

 
Metti una notte afosa, l’aria irrespirabile, una stanza stretta, un bunker,  tante persone accalcate. Metti un neonato che piange senza fermarsi a prendere fiato, ininterrottamente, la madre che trattiene anch’ella a stento le lacrime, e un tuo amico - viso sporco di cenere e polvere e sangue, occhi a mezzaluna e sorriso forzato- che cerca di farlo ridere.
Gli occhi di tutti sono sul tuo viso. Sulla tua espressione impassibile e vuota.
Per dirla tutta, gli occhi di tutti sono puntati su quello che stringi fra le braccia, con insistenza, da circa tutta la notte. Perché, per essere precisi, quello che stringi fra le braccia da circa dodici ore è il corpo inerme del tuo migliore amico.
E comincia a farsi pesante.
Comincia a pesare sulle tue gambe, a farsi sempre più freddo, freddo e pesante. E non gli hai neanche abbassato le palpebre, no, non hai permesso a nessuno di toccarlo.
Perché se solo qualcuno provasse a sfiorare il volto di Jiyong, sarebbe come ammettere che sia morto. Invece no, vedete? E’ tutto perfettamente tranquillo.
Ci sei tu, con le spalle scottate dal sole poggiate contro il muro che ogni tanto si sgretola sotto il peso di qualche carrarmato che sta passando in superficie, e c’è il corpo del tuo migliore amico, che sta dormendo, perfettamente tranquillo, sulle tue gambe.
Non c’è nulla di sbagliato.
Allora perché, proprio in questo momento, mentre Daesung improvvisa un’ennesima faccia buffa verso il neonato, fai come per urlare, prendendo fiato? Se sta dormendo, Jiyong, con i capelli ancora attaccati alla fronte dal sudore, allora perché non riesci ad urlare a Daesung di stare zitto, di smettere di sperare? Perché non hai più la forza di fare nulla? Un urlo muto è dipino sul tuo viso.
La verità, Seunghyun, è che Jiyong è morto. Così come tutte le altre vittime di questa guerra.
E, anche se in questo momento non riesci a ricostruire il tutto, non riesci a ricordare come ti sei ritrovato lì, in quel bunker, con un corpo freddo e pesante sulle ginocchia e le tue nocche bianche dallo sforzo di stringere la collottola della sua camicia, anche se non ti sembra possibile, e ti sembra tutto surreale, c’è un perché.
E c’è una storia dietro. E sarebbe oltraggioso non ricordarla, non ripercorrerla passo dopo passo. Sarebbe dimenticare, e se c’è qualcosa che hai imparato, è che dimenticare vuol dire scostarsi da quella persona, eliminarne il ricordo. E tu non vuoi eliminare il ricordo di Jiyong, non vuoi dimenticare quanto sia stato coraggioso, non vuoi che questa guerra finisca, le ferite del paese si rimarginino - ma le tue mai, le tue ferite non scompariranno mai, ne sei sicuro -, e nessuno sappia del coraggioso Jiyong, di come ora sia freddo e pesante sulle tue ginocchia.
Forse è per questo che chiudi gli occhi, e inizi a riordinare il discorso, a ricordare di quando tutto era più facile, di quando il mondo vi sorrideva da sotto un palco, di quando eravate ancora I Bigbang. E poi inizi a ricordare di questa guerra. Dell’arruolarsi.
TI schiarisci mentalmente la gola.
Per un attimo dimentichi di Jiyong freddo e immobile, e voli lontano, a ciò che sembra lontanissimo, ad un anno più indietro...







Capitolo primo.

 
Non ti sei mai chiesto se fosse durato; forse è per questo che è durata così tanto, quest’avventura. Non hai mai chiuso gli occhi, hai sempre saputo che sarebbe bastato un momento, un soffio, per perdere tutto. Per questo, ogni notte, ogni concerto, lo vivevi come fosse l’ultimo.
Perché hai sempre pensato di non meritare nulla, e per te tutte quelle persone che ti sorridevano da sotto il palco erano folli, semplicemente folli, perché neanche tu stesso saresti riuscito a sorriderti in quel modo.
Ed è per questo, che ti continuavi a ripetere, imperterrito, che un giorno sarebbe finita.
Non lo dicevi agli altri - la vedevi, quella felicità, nei loro occhi, e non volevi guastarla con le tue paranoie -, lo sussurravi a te stesso, la notte, in silenzio, nel letto.
Sussurravi: non crederci.
E ancora: non affezionarti.
Ed era così che ti addormentavi, ogni notte, gustando quegli attimi di bellezza e vita perfetta.
Ecco perché, quando Jiyong ti si avvicinò e, con sguardo mesto, borbottò “Il nostro ultimo concerto...”, non ne sentisti tutto il peso e la disperazione.
Nel camerino c’era più silenzio del solito.
Vi guardavate tutti negli occhi come per darvi forza. Cercavate il tocco l’uno dell’altro, abbracciandovi in silenzio, rendendo l’aria meno fredda. Avevate paura.
Paura di cosa sarebbe successo dopo.
Seungri piangeva in silenzio, Taeyang, labbra strette e occhi fissi, gli carezzava le nocche  mentre guardava il vuoto.
Avevate spento la televisione, per non sentire le solite notizie, i soliti servizi su come prepararsi all’imminente guerra. Vagavate in un bozzolo tutto vostro.
Per un momento, ti sembra quasi stupido, ammettilo, Choi Seunghyung: ti sembra assurdo arrangiare un concerto in un momento come questo. Ma le persone, le vostre persone ne hanno bisogno; sarà probabilmente l’ultimo momento felice della loro vita. Ed è molto egocentrico, come pensiero, ma ti senti bene a concepirlo.
Sono l’ultimo momento felice di una persona.
Jiyong fa un respiro profondo, raduna attorno a sé il gruppo, si schiarisce la gola, e con voce commossa urla “BIGBANG!”
Dopo una lunga pausa, in cui vi guardate a lungo e a fondo, mormora “Insieme. Probabilmente per l’ultima volta”.
E quasi ti viene da ridere, pensandoci. Jiyong è sempre stato così teatrale...
Seungri tira forte su col naso, ma sorride a modo suo. Daesung è spaventato, a morte. Taeyang silenzioso. Jiyong sorride in quel modo un po’ tremolo che appartiene solo a lui, con i denti in vista e le labbra irrequiete.
E tu?
Tu semplicemente li abbracci tutti. Forte. Senti i tendini scattare. Le mascelle serrarsi. Registri i loro odori, persino, perché sono la tua famiglia, e t’hanno fatto sentire giusto quando invece ti sentivi niente.
Li abbracci forte, e decidi di vivere anche questo concerto come fosse l’ultimo.
Perché, come ha detto Jiyong, probabilmente sarà sul serio l’ultimo.
Chiudi gli occhi e sei sul palco.
 



 
Chiudete il concerto con Heaven.
Avete tutti le lacrime agli occhi quando iniziate a saltare, saltare, senza fermarvi mai, e il vostro pubblico con voi.
Perché è questo che volete dirgli: Il paradiso, anche se scontato ogni giorno pensando di non meritarselo, siete stato voi.
Silenziosi o urlanti, eccentrici o timidi, sempre lì a sostenervi. VIP.
E’ per questo che non vi fermate, e vorreste che la canzone non finisse mai, e piangete ma continuate a cantare.
Sadness
happiness
tears.
Sky.
stars

and you, fools.
Loro, proprio loro, che ora stanno piangendo con voi. Che hanno il cuore spezzato in questa notte di luna piena. Che vivono per l’adrenalina di questo momento, che gustano come mai prima d’ora questi momenti, che per ventiquattr’ore ancora sono liberi.
Un ultimo sguardo commosso alle mille luci che non finiscono di brillare nella notte. Un ultimo sorriso donatovi da una transenna.
Un ultimo “Vi amo” che mormorate, uno ad uno, tutti e cinque, al vostro mondo, prima di uscire di scena e schiantarvi con forza contro la dura e tagliente verità.
 



 
Non ricordi quand’è stata l’ultima volta che hai dormito a casa dei tuoi. Probabilmente avevi diciassette anni. Ti rattrista non ricordarlo.
Tutti, Jiyong, Youngbae, tutti hanno fatto ritorno a casa per dei periodi. Tu no. Sapevi che se fossi ritornato, anche per un giorno, non saresti riuscito ad affrontare di nuovo la tua vita solitaria. Ti sarebbe bastato poco, per mollare tutto il resto - sentire l’odore della colazione di tua madre e tua sorella maggiore urlare “il bagno è occupato!” perché, dai, lo sanno tutti che avete perso le chiavi anni fa e tuo padre ripete sempre che dovrebbe cambiare la serratura...
Ti basterebbe un attimo per essere investito da troppe sensazioni, troppa malinconia, troppo, per tornare indietro.
Eppure non odi la tua vita. Anzi. Ti ritieni una persona estremamente fortunata, ed ami il tuo lavoro. Lo ami davvero. Non avresti abbassato la testa davanti a così tante rinunce - come avere una storia d’amore normale o prendere un caffè in pace - se non fosse stato il tuo sogno.
Rientrare nella tua vecchia stanza è stato un momento strano. Tua madre non ha toccato niente, sembra di tornarci dopo le vacanze - una vacanza molto, molto lunga. Sei sicuro di trovare anche alcuni dei tuoi vecchi vestiti aprendo l’armadio, e infatti è così. Quelle maglie così larghe e slabbrate... Ridacchi ai ricordi che portano con sé.
Jiyong ne avrebbe riconosciuto sicuramente un paio...
Il tuo letto è scomodo come sempre, ma ti piace così. Puoi osservare qualche foto appesa al muro, e pensare a quanto tu sia cambiato.
Chissà cosa direbbe ora quel ragazzino rabbioso e sovrappeso di te. Sarebbe fiero? Sorpreso? Probabilmente guardarebbe con orrore quei vestiti costosi ed eleganti che non indosserebbe mai. A lui bastavano jeans extra-large e bandane per andare in giro e rappare fra quelle strade scure. Chissà...
Tua madre sembra essere invecchiata di vent’anni quando le hai dato la già ovvia notizia. Che saresti andato in guerra, le hai detto, come ogni uomo sudcoreano, e che, no, non saresti scappato via. Hai visto le rughe attorno ai suoi occhi, quelle d’espressione, le stesse che hai tu, infittirsi e divenire più pesanti, come se ci fosse un macigno sulle sue tempie. Ti ha fatto male.
Tuo padre ha preso un altro sorso di vino ed ha annuito, perfettamente conscio di non poter combattere questa guerra per te.
“Hai già combattuto tanto per me, papà. Ora tocca a me.”
E davvero, davvero sai di non poter sfuggire a tutto ciò. Perché avresti combattuto una guerra ben peggiore di questa, scappando. Ed è una vita che combatti con te stesso, Choi Seunghyun.
E’ una vita che ti prepari.
E’ una vita che ti guardi allo specchio e aspetti di vederti comodo in te stesso.
Sospiri. Guardi il soffitto della tua cameretta, qualcosa ti trema nello stomaco.
Quasi ti spaventi, quando qualcuno bussa alla tua porta - un paio di rintocchi ritmici che formano un ritornello conosciuto, una vecchia parola d’ordine fra te e tua sorella.
“Hye Yoon...entra” dici.
La porta si schiude per far entrare una figura minuta che dicono ti somigli tanto. Un sorriso timido e carino, e poi si lancia come suo solito affianco a te sul letto.
“Seunghyuun...! Sei qui, piccolo.” Non sopporti l’appellativo, ma sei il maknae qui in famiglia e immagini ti spetti, quindi non dici nulla a riguardo.
“Hye Yoon, sei sempre molto bella”
Tua sorella ridacchia mentre ti abbraccia. La stringi a te e le posi un bacio sulla nuca.
“Come va con il tuo ragazzo?” le chiedi.
“Non capisco come, nonostante tutto, continui a comportarti tu come il fratello maggiore”
Ridi roco “Perché sei una bambina”
All’improvviso il suo volto si fa scuro “...Si arruola”
Ritrai gli occhi e guardi di lato, in silenzio.
“Io...” inizia Hye Yoon “Io non posso sopportare di perdervi entrambi...N-non...non andare, Seunghyun”
Deglutisci.
Non sei bravo a parlare. Mai stato.
“Hye Yoon...” le carezzi la guancia “Devo.”
Le ti abbraccia.
E’ allora che senti un principio di paura cominciare ad insidiarsi dentro te.
Saidi morire.
Niente potrà impedirlo.
Passate molto tempo in questa posizione.
Tua sorella piange, e mentre lo fa, tu ti addormenti.
 




Si erano ritrovati tutti a casa sua, quella sera. L’aria era fresca, tipica di quel periodo dell’anno. A Seunghyun era sempre piaciuta, la primavera; i fiori gli solleticavano il naso e il sole gli riscaldava la pelle. Per un attimo gli sembrava che tutto andasse per il meglio, anche se non era esattamente così.
Jiyong era steso sul suo letto; se Seunghyun provava a socchiudere gli occhi, gli sembrava proprio di trovarsi indietro di una decina di anni. Tutto era sempre così lento e calmo, rispetto ad ora, anche se a quel tempo gli sembrava di essere trasportato da un’onda anomala o un forte vento senza alcuna meta.
Erano stati dei ragazzi senza alcun limite, avevano vissuto delle situazioni talmente allucinate da ridere anche solo a guardarsi in faccia.
Seungri stava scavando fra le sue cose, aveva trovato dei fogli nella sua scrivania, vecchie rime ed appunti, ed ora li stava leggendo, tutto concentrato. Youngbae guardava la strada dalla finestra, pensieroso. Daesung invece era rimasto in cucina, a discutere con sua madre.
Sembravano un gruppo di adolescenti senza casa.
Seunghyun si sedette sul letto affianco ai piedi di Jiyong. Lui fissava il soffitto con sguardo vacuo e vuoto. Chissà in quali ricordi stava navigando…
In quei giorni di stasi, si sentivano tutti sul filo del rasoio, pronti a cadere in un baratro interminabile, e stavano vagliando i ricordi delle loro vite, come per fare un bilancio. Nelle strade si respirava ansia, i volti della gente erano grigi, potevi camminare tranquillamente senza essere fermato per un autografo, perché, in effetti, con le ultime spese e i preparativi da fare, chi diavolo pensa ai Bibgbang, ormai, a Seoul?
Era quasi un pensiero confortante, ritornare ad essere come prima. Poter sorseggiare un caffè in totale tranquillità, mentre una coppia parla in silenzio al tavolo affianco. Li sentiva, Seunghyun, tutti quei discorsi di tristezza e abbandono. Camminando per le strade di Seoul, poteva sentire addii in ogni angolo scuro. Ad ogni stazione, sotto ogni albero, su ogni panchina; addii sospirati e pianti.
Lui avrebbe detto addio a davvero poche cose; dopotutto, non aveva nessuno a cui dedicare il suo futuro e il suo amore, non ancora. Sperava di non dover dire addio ai suoi amici.
Sperava di non dover perdere nessuno dei suoi famigliari.
Sperava di essere abbastanza da proteggere entrambi.
E allo stesso tempo diceva a se stesso di non illudersi, di non ferire se stesso volendo fare l’eroe senza riuscirci, di non esitare a salvarsi la vita e sopravvivere.
La cena fu un momento molto vivace. Sembrava ritagliato fuori da quella giornata malinconica.
I suoi genitori e amici discutevano allegramente, di questo e di quello. Venivano raccontati aneddoti di tour da Seungri, sempre permeati da una pellicola di nostalgia, e tutti sorridevano e si guardavano. Sua sorella serviva gentilmente le porzioni, e tutti la ringraziavano. Tutto sembrava essere perfetto.
Seunghyun voleva non finisse mai.
Le persone che più amava nella sua vita erano raccolte alla stessa tavola, e lui li osservava in silenzio, come fossero un piccolo miracolo di vita quotidiana, qualcosa che sentiva già gli sarebbe mancato, qualcosa di cui aveva nostalgia anche ora, anche mentre lo viveva. Ogni secondo che passava lo allontanava da quel quadro perfetto, e quando si fu fatto tardi, e ognuno di loro cominciò a congedarsi, Seunghyun sentì che tutto era perduto.
Li accompagnò alla porta, annuendo e inchinandosi educatamente verso ognuno di loro, come sua madre gli aveva insegnato tempo fa, ripromettendo di rivedersi ai campi d’addestramento, di risentirsi, di non lasciarsi andare.
L’ultimo ad uscire fu Jiyong.
Sorrise un po’ sbilenco, rivolto verso il pavimento. Aveva paura.
“Jiyong…”
“No, lascia stare. Non preoccuparti” sorrise ancora, triste, e quando alzò lo sguardo a guardare Seunghyun, c’erano delle lacrime avvallate nei suoi occhi. Sorrideva e sorrideva, anche mentre una lacrima gli solcò il viso, e la sua mano andò a coprirgli la bocca. Ancora sorrideva, lo vedeva.
“Jiyong, puoi evitare tutto questo”
Un’altra lacrima gli traversò la mano.
“Chiedi la seconda cittadinanza, evita di arruolarti, va via. Nessuno ti giudicherà, Jiyong”
Jiyong lo guardò con tutta la paura che aveva dentro. Era folle. Lo guardò abbastanza a lungo da fargli venire i brividi, da fargli contorcere le viscere. Nei suoi occhi era dipinta una disperazione mai vista prima.
“No, non voglio” mormorò, prima di voltarsi. Le sue spalle tremavano impercettibilmente.
“Jiyong…!” lo abbracciò di spalle, lo abbracciò forte, e lui si voltò a stringergli il busto. Lo abbracciò come si abbraccia un figlio, coprendolo col suo corpo. Lo strinse come si stringeva una persona da proteggere.
Un ultimo singhiozzo, e poi Jiyong si staccò dal contatto. Si voltò di nuovo di spalle.
“Solo…non voglio perdervi”
Non aveva paura per se stesso, proprio come lui. Perché la paura più viscerale degli uomini è quella per le persone care, quella di perderle, di vederle volare via davanti agli occhi.
Mentre Jiyong si avviava a passo veloce verso l’auto, Seunghyun non poté vedere la sua espressione, non poté vedere la profonda rottura interiore che si andava a formare sui suoi tratti.
Non importava, comunque, perché era la stessa espressione che aveva dipinta sul suo stesso volto.








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Capitolo 2
*** Jacaranda ***


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Ciao a tutti, eccomi tornata con il secondo capitolo di questa fanfiction. Non so. Non sono molto convinta di questo capitolo, è molto frammentario, e anche se negli anni mi sforzo sempre più di trovare uno stile romanzato un po' più classico, finisco sempre per dividere la storia in prospetti, ognuno per ogni personaggio.
Mi sembra un po' stentato, ma ok, non voglio stare qui a lamentarmi del mio stile.
E' anche un po' striminzito, ma è perché è uno di quelli che chiamo capitoli di passaggio.
Sono invece molto soddisfatta della parte finale del capitolo, mi sembra un'isola di salvezza prima di iniziare la vera storia. Dal prossimo infatti credo che la cosa si farà un po' più forte.
Ringrazio da morire, come poche volte ho ringraziato, avetrana. Non sai quanto sia onorata di emozionarti, scuotere qualcosa in te. Mi piacerebbe parlarti.
E poi Mini GD, che dice di non credere di meritare la dedica.
Illusa!
Ne meriti altre mille, te l'assicuro. Ti ringrazio da qui all'Africa e ritorno!
Detto ciò vi lascio al capitolo, spero di aver fatto un buon lavoro.
Spero di ricevere belle parole che mi facciano sentire meglio in questo periodo non proprio bello della mia vita.
 
Silvia.












 

Capitolo secondo.



Ad ogni respiro una nuvoletta di condensa gli appannava la vista; nella foresta scura, Youngbae osservava  nascosto sotto un albero  il buio che lo circondava. Aveva smesso di piovere da qualche minuto, e il cielo - anche se non visibile - era pregno di quell’umidità invadente che pareva penetrare nelle ossa.
Ansimava, accovacciato nel fango scuro.
In lontananza poteva ancora sentire i passi concitati dei soldati nemici che correvano a ritmo col suo cuore. Ogni passo che s’allontanava era un centimetro un più verso un’isola temporanea di salvezza, ma Youngbae non riusciva davvero a gustarsi quel pensiero, non con mille tremori che gli correvano lungo il corpo, non bagnato fino all’osso, non spaventato come mai.

Affondò più a fondo le dita nella fanghiglia, sentì il lerciume entrargli sotto le unghie, e poi più profondamente, dentro fino all’anima.

Una goccia d’acqua gli cadde sul naso e parve fare un rumore sproporzionato; la eco della sua paura.

Si disse di dover dormire, di dover resistere. Poggiò la testa contro la corteccia dell’albero, sentì che tutto era perduto, si morse il labbro con forza fino a sentire sulle labbra il sapore metallico del sangue; gli ricordava d’essere vivo.

Chiuse gli occhi per un istante, un lungo istante corniciato da immagini lontane e ricordi che nella sua mente giorno dopo giorno si facevano più sbiaditi. Il profumo di sua madre. Il sapore del dentifricio. Un letto caldo in cui dormire.

La testa si poggiò sulla spalla sinistra, come se cercasse conforto in se stesso; la stanchezza gli pervase gli arti, gli occhi si fecero sempre più pesanti.

Prima di addormentarsi, Youngbae pregò il cielo di poter sopravvivere a quella notte gelida.




Era una scena davvero strana, pensava il piccolo Seunghyun. Tanti anni ad odiare di essere trattato come un bambino, ed ora non voleva altro che sua madre continuasse ad abbottonare con cura la sua camicia. Era buffo, se non un tantino ironico. Teneva gli occhi bassi, Seungri, e pensava a tante cose senza senso. Come per esempio a quale paio di scarpe portare, oppure  se fosse stato diviso dai suoi hyung. Se li avesse visti, addirittura. Sarebbe stato troppo, vivere tutto quello da solo.
Seungri non era mai stato particolarmente coraggioso o orgoglioso; per questo aveva sorpreso se stesso quando s’era ritrovato a dire ‘
Vengo con voi, mi arruolo’ alla tavola imbandita della YG, guardando il resto dei Bigbang. E aveva persino sorriso nel dirlo, come se fosse l’ennesimo tour da intraprendere.
Era stato allora che Youngbae s’era alzato dalla tavola ed era letteralmente scappato verso camera sua. E dopo qualche minuto s’era alzato anche lui, evitando gli sguardi penetranti di Top, sguardi accusatori, sguardi che dicevano
‘non puoi’, e le dita di Jiyong che, bianchissime, si torcevano nervose.
S’era diretto verso camera di Youngbae e l’aveva trovato sul letto, l’avambraccio a coprire gli occhi, una lampada rotta sul pavimento, il fiato pesante.

“Youngbae-hyung” aveva lentamente pronunciato.

“Va via” era stata la risposta roca del suo hyung. Sembrava avere un macigno sulle corde vocali.

Seungri pensò che la sua vita non era né uno stupido libro, né un drama, e fu per questo che fece come gli era stato detto. Tornò sui suoi passi, ed uscì dalla camera.

Dal corridoio, poi, aveva sentito un urlo di frustrazione, e qualcosa infrangersi contro il muro. Quella notte ci aveva pensato a lungo.

“Seunghyun!”

Sbatté un paio di volta le palpebre, per focalizzare il suo sguardo sul volto di sua madre.

“Sì, mamma”  - le dita gentili di sua madre gli sfiorarono i capelli nerissimi.

“Sono così fiera di te” gli disse, un torpore affettuoso negli occhi. Seungri la abbracciò forte, fortissimo, si lasciò accarezzare la nuca da lei, proprio come quando era un bambino: e  dopotutto non si sentiva diversamente.  Un bambino che sta provando a saltare un burrone troppo, troppo aldilà delle sue possibilità.

Non era la prima volta che rischiava il tutto per tutto, ma questa volta, il ricordo delle vittorie passate non gli dava alcuna sicurezza. Il suo nome era Seungri, Vittoria, eppure si sentiva, tra le braccia di sua madre, un completo, totale perdente.




Il treno sbuffava irrequieto, così come pure i suoi ben cinque controllori. Camminavano scalpicciando i loro stivali di pelle alti al ginocchio, un elemento al quale Youngbae aveva subito fatto attenzione. Uno pensa che non ci sia mai spazio nella propria mente per pensieri inutili, in situazioni come queste, e invece sbaglia. E’ proprio in questi momenti che ti lasci pervadere dai particolari irrilevanti.

Urlavano ad alta voce i nomi delle persone richieste. Youngbae non aveva ancora sentito il nome di nessuno dei suoi amici o conoscenti, il che non faceva che renderlo ancora più nervoso. L’aria era freschetta, e la sua camicia blu scuro non bastava a coprirlo. Sua madre l’aveva rimbeccato fino all’ultimo momento, e lui era rimasto in silenzio, facendo finta di non sentirla.

In realtà non aveva avuto  il coraggio di aprire la bocca e dirle che, qualsiasi cosa avesse indossato, non sarebbe cambiato granché. Di sicuro i suoi vestiti non avrebbero fatto alcuna differenza. Li avrebbe cambiati per qualche divisa militare, che si sarebbe sporcata e deteriorata come anche lui stesso. Una divisa uguale a quella di tutti gli altri. Come pure, forse, la sua sorte.

Era stato nervoso, in quei giorni. Le dita gli tremavano quasi sempre, non riusciva più a concepire come ballare o cantare, il che lo spaventava. Passava quasi tutti i suoi pomeriggi davanti la televisione, a denti stretti, ascoltando i notiziari senza però  concentrarsi particolarmente. Non gli importava davvero di quella guerra.

In uno di quei pomeriggi, gli aveva fatto visita il piccolo Seungri, insieme a Daesung. I suoi dongsaeng sembravano stessero affrontando la cosa decisamente meglio di lui, il che lo irritava ancora di più. Com’era possibile?

Avevano visto un film insieme nel suo appartamento, una commedia americana di qualche genere a cui Youngbae non aveva prestato per niente attenzione. Aveva guardato gli altri due per quasi tutto il tempo, perdendo contatto con la realtà.

Era Seungri quello che guardava di più.

Il suo volto sereno non lo rassicurava, anzi, gli faceva sentire sul palato un sapore amaro. E senza che se ne rendesse conto, anche Seungri s’era voltato a guardarlo, Daesung ormai addormentato ai piedi del divano, con un cuscino rosso fra le braccia.

L’espressione serena era scomparsa dal suo volto, ora ricambiava quello sguardo con preoccupazione.

“Hyung...tu non vuoi che io venga, vero?” disse, a bassa voce, osservando la moquette.

Il fiato di Youngbae si spezzò.

“Ovvio che non voglio!” esclamò, d’istinto, in un secondo, sgranando gli occhi nervosi. La naturalezza con la quale aveva risposto lo colpì come uno schiaffo. Abbassò lo sguardo alle mani nervose di Seungri, pensò di essere stato un po’ violento.

“E’ la tua vita...comunque” continuò, raggrumando tutta la sua amarezza in quell'ultima parola.

“Allora perché continua ad importarti così tanto?” chiese.

Le parole volarono via dalla mente del più grande. Perché, chiedeva Seungri? Non lo sapeva.

Mille probabili risposte sarebbero state plausibili - sei come un fratello, mi preoccupo per te, penso alla tua famiglia, sei troppo giovane -, ma nessuna di loro gli sembrava abbastanza.

“Puoi...puoi non domandarlo?”

E si ritrovò all’improvviso un grosso peso sul petto, come se l’aria gli fosse stata rubata da un fantasma invisibile.

Seungri s’avvicinò impercettibilmente “Allora sarai tu a dirmi quando domandartelo?” e nel suo volto c’era qualcosa di incredibilmente ironico, in un’accezione negativa.

Youngbae si ritrovò a balbettare, confuso, e poi ad annuire, serioso.

Il treno sbuffò ancora, e un ragazzino minuto salutò timidamente  Youngbae passandogli accanto. Per un attimo aveva pensato di vedere Jiyong, in quei vestiti decisamente troppo anonimi per lui.  Probabilmente era un fan, qualcuno ancora disposto ad ammirarlo, qualcuno per cui contava ancora qualcosa il fatto che lui fosse un membro dei Bigbang.
“Kang Daesung!”

Youngbae scattò al nome dell’amico; si voltò a guardare il controllore che l’aveva urlato, corse verso di lui e aspettò a pochi metri l’arrivo del suddetto.

Un sospiro di sollievo fiorì nel suo petto quando vide che era davvero il Daesung che conosceva, accompagnato da Jiyong. Youngbae si sentì un pochino meglio.
Non era solo, e non era poco.








Seunghyun osservava Seungri dormire, seduto affianco a lui in quel vagone troppo stretto. Era stato davvero esausto, quando alla fine s’era arreso e aveva poggiato la testa sulla spalla, crollando. Seunghyun ne era felice: per un po’ si sarebbe alienato da quella situazione così strana.
Chissà gli altri dove si trovavano...

Si sentiva fortunato ad aver trovato Seungri, e sperava che anche gli altri avessero avuto la stessa fortuna; sopratutto Jiyong - sperava che lui non stesse affrontando quel viaggio da solo.

Sospirò, Top,  sentendo i principi di un’emicrania spandersi.

Cercò le cuffie nelle tasche del suo cappotto, e sperò facessero il proprio lavoro.



L’accampamento era in una zona di montagna, dove faceva molto più freddo che in città. Lì l’inverno era già arrivato, veloce e spietato, fermando gli uccelli dal volare, la terra primaverile dal fiorire. S’era imposto con una violenza tale che a Jiyong sembrò d’essere passato in un’altra dimensione, o di aver viaggiato per un’intera stagione.

I cancelli erano di ferro vecchio, un po’ arrugginiti; scricchiolarono mentre degli uomini li aprirono per far passare i bus che portavano lì le reclute.

Un uomo ben più vecchio affianco a lui mormorava che fosse un accampamento usato già durante la guerra di Corea del ‘50. Il governo l’avrebbe reso di nuovo agibile per ovvi motivi.

Jiyong non ne sapeva molto di quel nuovo conflitto che si affacciava sul suo futuro.

Sapeva che non s’era mai stipulato un vero e proprio accordo di pace tra la Corea del Nord e quella del Sud, sapeva tutti gli orrori del passato e conosceva per filo e per segno le parole dei vecchi signori veterani che venivano a trovare la sua classe quand’era piccolo. Ricordava perfettamente la paura riflessa nei loro occhi, una paura che gli aveva fatto pensare che mai e poi mai avrebbe combattuto in una guerra. E invece (...)

Gli altri bambini giocavano gagliardi con i mitra di plastica, lui se ne stava in un angolo a disegnare gli alberi con i pastelli sbagliati. La sua maestra aveva pensato che fosse daltonico, ma poi lui le aveva spiegato che erano esperimenti, i suoi, e che poi gli alberi viola esistevano, sicuramente, da qualche parte in quel mondo grande grande.

Jiyong sorrise, scendendo dal bus. Guardandosi attorno, in quel turbinio di baracche e inferriate, aveva notato qualcosa: un albero viola.

In qualche modo, lo faceva sentire a casa.



Erano arrivati da qualche minuto, dopo essere scesi dal treno ed essere saliti su un bus che li aveva portati direttamente ai campi d’addestramento. Seungri sembrava essersi calmato, ed ora era silenzioso. Seunghyun lo lasciò nella sua patina di silenzio.

Ci pensava spesso, se lasciare le persone nel silenzio da loro stesse creato, oppure se scuoterle via. Lui era una di quelle persone che amavano restare nel proprio mondo quanto più possibile, e quindi gli sembrava un’evidente violenza svegliare, per così dire, qualcuno.

Chissà se forse Seungri nel suo silenzio stava mentalmente urlando a qualcuno di salvarlo...

Avevano camminato per una dozzina di metri, e il soldato - il cui grado Seunghyun non poteva immaginare - che li aveva accompagnati nel bus, aveva detto loro che avrebbero avuto quel pomeriggio libero per conoscersi, sistemarsi e scegliersi un letto. Aveva anche detto loro che la cena era, come da programma, alle otto di sera, e che chiunque non si sarebbe presentato in tempo l’avrebbe - come da programma - saltata. Il mattino dopo le attività sarebbero iniziate alle sei e un quarto con la divisione per plotoni d’allenamento. Sul letto avrebbero trovato dei cambi puliti.

Seunghyun storse il naso all’idea.

“Hyung…” Seungri lo chiamò, dopo qualche minuto di silenzio.

Si voltò ad osservarlo – “Sì?”

“Non…non ho dato ascolto. Che succede?”

”In pratica possiamo cercare gli altri, adesso”

“Oh” gli occhi scuri del ragazzo si aprirono leggermente, come se un’idea ben gradita fosse penetrata nella sua mente. E in effetti lo era anche per Seunghyun.

I due camminarono per un po’, riscaldandosi con le braccia i fianchi dal gelo e osservando il cielo chiarissimo, quasi bianco.

“Non ti sembra la base in cui abbiamo girato Monster?” chiese il più piccolo.

Top ridacchiò “Già. Se fossi un gigante la cosa sarebbe un tantino più divertente”

“Oh, avevi il ruolo più figo, hyung!”

”Secondo me il più figo era Taeyang” rispose lui, per poi mimare con le mani la strana acconciatura che aveva adottato per quel videoclip.

Seungri rise, strizzando gli occhi e grattandosi la nuca.

Poteva sembrare quasi una normale giornata invernale. Due amici, quattro chiacchiere, nessun problema. Top strofinò una mano contro la spalla di Seungri, affettuoso. Ridacchiò ancora un po’ e poi tornò serio a guardarlo negli occhi.

“Andrà tutto bene”

Bastarono pochi secondi, una folata di vento crudele, nessun rumore in lontananza, e Seungri gli si lanciò fra le braccia, stringendo con le dita la stoffa del suo cappotto beige, e respirando roco.

Le nuvolette di condensa che produceva Seungri salivano fino agli occhi di Seunghyun, facendolo lacrimare.

 

 

Daesung e Taeyang avevano annunciato di voler esplorare, così Jiyong aveva detto loro che sarebbe rimasto ancora per un po’ seduto lì, che loro sarebbero tornati in quel posto e l’avrebbero ritrovato lì ad aspettarli. Doveva riflettere, doveva dormire, doveva bearsi per un po’ di quel silenzio. Perché sapeva che da quel giorno in poi il silenzio avrebbe avuto tutta un’altra accezione, tutto un altro significato,  sarebbe stato distruttivo, non più sanatorio.

Per questo ora era lì, seduto con la schiena contro quell’albero di Jacaranda, a osservare i suoi anfibi neri stonare col marrone scuro della terra secca e fredda. Contava i petali, perdendosi nella chiarezza dei numeri e dei colori.

Pensava ad una certa poesia che sua madre aveva insistito che imparasse a memoria. Tre strofe.

Aveva undici anni e nessuna vergogna ad alzarsi in piedi su una sedia per recitare quelle parole. Non aveva vergogna di nulla, se rendeva felice sua madre. Era per questo, oltre che per passione, che non aveva mai rifiutato un provino o un’opportunità di dimostrare quanto fosse un bambino dotato. Godeva già da allora dei complimenti, ma la cosa che amava più di tutte era vedere quell’espressione di orgoglio sul volto di sua madre.


“Non possiede parole, l’albero,

ma se sente parole d’amore

porge più foglie al soffio del vento.”
 

 

 

E proprio mentre nella sua mente risuonavano le ultime sillabe tuonanti, voltò lo sguardo a ponente.

Camminavano con una naturalezza tale da farlo commuoverlo.

Il più piccolo si asciugava le lacrime con la manica del cappotto nero, ma era sorridente; il più grande guardava il terreno ma ridacchiava. Parlavano con una tranquillità così silenziosa e strisciante; accennata, ma forte come mille tempeste. Jiyong la vedeva riflessa nei loro occhi, la quiete dopo la tempesta, il silenzio dopo il rombo dei tuoni, la pace dopo il dolore tagliente. I fiori cadevano dall’albero di Jacaranda, scossi dal vento, e coprivano la vista di Jiyong, che mai prima d’ora s’era sentito dragone del cielo. Vederli camminare verso di lui – anche se non l’avevano visto – era come un ultima stilla di libertà. La consapevolezza di essere tutti insieme, di non aver perso ancora nulla, di poter partire sul serio da zero, adesso.

L’albero respirava insieme a lui, inglobava la visione dei due che camminavano, strizzando gli occhi al vento e al freddo. Le loro voci erano quasi udibili. Jiyong poggiò la testa contro l’albero di Jacaranda, ne carezzò una radice sporgente. Si stupì.

Su internet aveva letto che quegli alberi vivevano solo in climi caldi, dove il sole era forte e li irradiava completamente. Cosa ci faceva qui, quell’albero viola, che pareva quasi un ombrello sulla sua testa? Era strano e fuoriluogo, eppure si stagliava lì, in quel campo di speranze senza meta e sacchi di patate che sarebbero dovuti bastare a tutti per tutto l’autunno, prima della guerra che si sarebbe combattuta in inverno.

Seungri e Seunghyun gli sorrisero, fermandosi a guardarlo, lui seduto sotto l’albero viola, la testa inclinata a far scorrere qualche pensiero via dalle orecchie, gli occhi persi nella loro visione, la mente immersa in un bianco latteo.

Un petalo cadde sul naso di Jiyong, pingendo la sua vista di quello stesso colore pastello che era proprio di tutto l’albero. Fra quel colore e quel bianco del cielo c’erano i suoi amici. Il cuore gli batté forte nel petto.

Un ruggito potente delle arterie.

Un tremolio fin nei capillari più azzurrini.

Seppe che non avrebbe mai più vissuto una tale felicità.

 

 

“Non possiede parole, l’albero,

ma se sente parole d’amore

porge più foglie al soffio del vento.”









 

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Capitolo 3
*** Dragone. ***






Capitolo terzo.



 

Dal diario di Choi Seunghyun.

 

Ti dicono che la prima notte non riesci mai a dormire. Ti dicono che tremi dalla paura e piangi pensando a casa. Dicono anche che, una volta superata la prima notte, il resto viene da sé. E’ come un traguardo, rendersi veramente conto delle circostanze, piangere, e superare tutto.
Dicono tante cazzate, qui.
La verità è che nessuno tra noi ha mai vissuto una guerra.

E’ la terza notte, qui, e non ho ancora chiuso occhio. Guardo gli altri dormire, osservo i loro volti, penso, scrivo.
Ho barattato uno dei miei anelli per questo taccuino verde scuro.

Ieri ci hanno tagliato i capelli, ci hanno fatto strisciare nel fango, ci hanno messo per la prima volta un’arma in mano.Pesava più di quelle che usavo sul set.
Ci hanno detto che fra un mese partiremo per il confine. Io l’ho già visto, visitato, durante le riprese di 71:Into the fire.

Ogni tanto mi viene da ridere ripensando a quel film.
Il confine è filo spinato infinito, nient’altro. Non c’è niente di poetico nascosto da quelle parti, niente di filosofico. Un filo spinato e torrette di controllo che dividono un mondo da un altro. Non un punto di contatto, non una similitudine.Non mi stupisce questa guerra, mi stupisce farne parte. Mi stupisce che fra un mese partiremo verso un confine che non significa praticamente nulla, pronti a conquistare una parte di mondo che non ci appartiene, pronti a regalare sangue ad un nemico che non desidera altro.
Spero solo di non dover partecipare a degli assedi. Spero di dover combattere solo soldati, solo giovani disposti a scambiare la loro vita per la mia. Non potrei mai uccidere una donna o un bambino: le loro vite non valgono poco quanto ormai quella che mi appartiene.
La Luna si sta oscurando, non c’è luce sotto questo tetto di metallo freddo.

 

Alle sei e un quarto del secondo giorno  erano tutti pronti nel campo di addestramento, allineati sotto le sferzate di vento violente, tutti stretti alle loro divise pesanti.
Il cielo era ancora pallido, l’albero viola di cui aveva parlato Jiyong la notte precedente, prima di addormentarsi, si vedeva in lontananza.
Quando Youngbae aveva visto Seungri e Seunghyun, aveva quasi pianto di sollievo. Erano seduti insieme a Jiyong, con le schiene contro la corteccia di quell’albero strano. Daesung aveva urlato qualcosa e poi era corso; lui, invece aveva osservato la scena da lontano, prima che Seungri scuotesse la sua mano al vento facendogli cenno di avvicinarsi. Il cuore gli stava per scoppiare.

“Hyung”
Youngbae non sapeva perché...non voleva chiederselo...solo che…
“Hyung!” Daesung gli stava bisbigliando qualcosa, ritto accanto a lui nel campo d’addestramento.
“Hm?”
“Fai attenzione, hyung. Se qualcosa ci sfugge dovrai spiegarcelo”

Youngbae sbuffò. Sembrava di essere a scuola.
“Sarete divisi in diversi gruppi, detti divisioni. Faremo dei test fisici, mentali, e poi dei colloqui, per gruppi ovviamente. Non possiamo metterci qui e fare una chiacchierata davanti ad una tazza di tè, figuriamoci”
Il comandante, Shin Sunwoo, era un uomo basso, sulla cinquantina. Camminava avanti e indietro con aria annoiata e fredda; il suo volto ricordava quello di un carlino: il naso era schiacciato, gli occhi piccoli e stretti, le orecchie quasi attaccate al cranio, i capelli neri acconciati in un taglio ordinario. A Youngbae piacevano i carlini, ma quell’uomo non gli ispirava niente di cordiale. Pensò fosse positivo. Se fosse stato rassicurante li avrebbe illusi rispetto al mondo che li aspettava fuori.
Notando che nessuno aveva riso al suo tentativo di battuta, il comandante proseguì.
“Fanteria. Artiglieria. Genio. Trasporti. Trasmissioni. Aviazione. Sanità. Queste sono le divisioni del nostro esercito. Formeremo delle squadre; entro una settimana saprete precisamente a quale divisione appartenete. Naturalmente, per la divisione medica sono già state schedate fra voi le persone con professioni affini, come medici o infermieri”
“Hyung, ci sono anche delle ragazze nella divisione infermieristica?”

“Non lo so, Daesung”
“Oh, adoro le crocirossine”

Youngbae sbuffò.
“Coloro che fra voi proveranno di avere spiccate qualità fisiche e nel combattimento, saranno ovviamente smistati nella divisione di fanteria, i combattenti delle prime linee, l’esercito vero e proprio. Per i lavori materiali, come costruzione e demolizione istantanea di ponti, ci sarà  la divisione chiama Genio. Così via, ovviamente, per l’artiglieria e l’aviazione. Il nostro dovrà essere un esercito intelligente, come ha ricordato ieri nel suo discorso d’apertura alla guerra, il nostro presidente, l’eccellentissima Park Geun-hye. Un esercito che si basa sulle qualità del singolo, e non sul mero ammasso di vite umane”
L’espressione usata dal comandante Sunwoo diede la nausea a Youngbae. Non erano lo stesso un ammasso di vite umane, anche se divisi per esperienza e qualità? Non avevano forse tutti lo stesso - o quasi - destino?
Osservò i suoi compagni.
C’era Top, con il colletto della felpa militare tirato fino al mento, che guardava il terreno e pareva non star ascoltando neanche una parola di quel discorso di benvenuto tanto poco caldo.
Jiyong annuiva alle parole del comandante, invece, come se si illudesse di contare qualcosa. Aveva lo sguardo di chi voleva fortemente credere a qualcosa. Lo sguardo di chi crede all’acqua nel deserto, o al calore fra i ghiacciai.
Ma ciò che più di tutto ferì Youngbae, che prima d’allora non aveva posato neanche uno sguardo sul più piccolo, era proprio la sua espressione. Seungri...piangeva.
No, anzi, non piangeva. Aveva gli occhi tremendamente spalancati, come se cercasse di evitare che le lacrime scendessero.  Forse era il vento.

D’un tratto nella sua mente risuonò il motivetto di una malinconica Life on Mars, di David Bowie: mentre le note del pianoforte si rincorrevano, le lacrime negli occhi di Seungri facevano lo stesso.
Il ritornello era decisamente troppo speranzoso, un tripudio di scale rivolte fino al cielo, una speranza che Youngbae ormai odiava e disprezzava.
Aveva voglia di abbracciarlo. Aveva
sempre voglia di abbracciarlo, e rimpiangeva di non averlo fatto di più nel passato. Ora non poteva semplicemente staccare le file per stringerlo.
Era quello che feriva Youngbae più di ogni altra cosa.
Il comandante smise di camminare, d’un tratto. Osservò i volti di tutti quei ragazzi, chiuse gli occhi, concedendosi per pochi secondi un’espressione stanca, solo per riaprirli dopo poco, una maschera di serietà sul suo volto.
“Non vi chiedo di combattere per il vostro paese. E’ un concetto assurdo” disse, contro ogni pronostico, “Vi chiedo di combattere per qualcosa di più caro. Guardate dentro voi stessi e trovate un motivo per cui combattere. Anche solo uno. Tenetelo stretto a voi nei momenti in cui vi sentirete persi, perché ce ne saranno, di momenti del genere, e vi posso giurare che non vi sentirete mai così persi in tutta la vostra vita. Prendete l’immagine della vostra isola di pace, e scolpitela nella vostra mente” Il comandante scrutò le loro facce, leggendo mille sensazioni, paure. L’aria si fece più fredda, mentre quell’uomo dalla faccia di un carlino, si inchinò davanti alla schiera di quelli che ormai erano soldati.
“Grazie,” disse.

Poi sparì.

 

Erano in fila per una corsa ad ostacoli. La gente bisbigliava alle spalle di Jiyong. E’ lui, dicevano, è G-dragon.
Quel nome gli fece una strana impressione. Era davvero ancora il dragone di una volta? Con le ali tarpate, un dragone è ancora così magnificente?
Steso nel fango mentre striscia sotto un ostacolo, lo è ancora?
Jiyong ridacchiò mentalmente.
C’era chi ci avrebbe giurato, chi avrebbe scommesso tutta la sua vita, un tempo, su di lui; chi credeva davvero che fosse un dragone, e chi invece strizzava gli occhi e pensava che non avrebbe mai fatto strada. Invece ne aveva battuta, di strada, Jiyong, anche se ora gli sembrava tutto molto lontano e inutile. Ora l’unica strada che guardava era quella tempestata di tronchi da saltare e corde su cui arrampicarsi, e l’unico sottofondo a tutto questo era il suo respiro pesante, il rumore delle costole che si stringevano attorno ai polmoni, e i capelli castani che s’alzavano fieri al vento.
Le mani bruciavano mentre, senza arrendersi neanche per un istante, le sfregava contro la corda ruvida, issando tutto il suo peso inesistente verso il cielo grigio.

E’ lui?
Chissà.
E’ G-dragon?
Forse.
E c’era chi mormorava che non sarebbe durato un giorno, sul campo di battaglia, solo per sentirsi più forte; c’era chi calpestava la sua voglia di vivere, perché dopotutto lui non aveva lavorato un giorno della sua vita, e che ne sapevano, loro, degli inverni passati a Seoul a fumare in una strada buia, sognando di emergere, di volare, di diventare un dragone. Che ne sapevano, di quel freddo tanto simile a quello che sentiva ora.
Si continuava a ripetere di dover raggiungere il cielo, mentre le mani si facevano rosse e gli occhi pure.
Lo ripeté un’ultima volta, mentre un uomo grigio alla fine del percorso urlò Stop e fermò un cronometro.
Quando discese, il cielo era un pochino più lontano di quanto lo fosse prima.

 

Quella sera dissero loro di tagliare i capelli.  Mentre fuori la prima pioggia autunnale infuriava, mentre qualcuno ai limiti dello stanzone fumava una sigaretta, lo annunciarono con un megafono.
“Usate questi oggetti, ce ne sono per tutti.”

Choi Seunghyun prese la macchinetta tra le mani e fece una passata veloce, portandosi subito dopo una mano sul mento per osservarsi allo specchio.
Non gli importava più di tanto.

Si riconosceva ancora in quegli occhi scuri e taglienti che si ritrovava da sempre. Sua madre gli carezzava le tempie, da bambino, e gli diceva: ‘piccolo mio, tu hai gli occhi di un principe tigre, e un giorno questi occhi ti salveranno’, proprio come in una vecchia favola tradizionale. Seunghyun non sapeva se quegli occhi l’avrebbero salvato.
Più di una volta, in più di un’occasione, erano stati loro, però, a riportarlo verso se stesso. Fissarsi allo specchio era abbastanza per ricordare chi era.
Sono Seunghyun, non devo fare questo se non voglio.
Sono Seunghyun, non devo evitare di fare questo se mi dicono che non posso.
E si ripeteva questa nenia per ogni questione della sua vita. Lui era Seunghyun, ed ora aveva i capelli sulla punta delle scarpe lucide, i capelli neri del suo colore naturale, in quella stanza dal pavimento ormai corvino. Moquette naturale e fumo che turbinava fino al paradiso di alluminio che era il tetto.
Affianco a lui, nella luce bianca e asettica del neon, era seduto Jiyong, e guardava verso il basso.
“Non ho davvero voglia di tagliarli, sai” disse, come se si trattasse dell’ennesima scelta promozionale. Jiyong sapeva rendere tutto così normale, a confronto con se stesso.
“Non farlo, proviamo a vedere che succede” rispose lui, col tono basso delle sue corde vocali.
Jiyong sbuffò, per poi sedersi sulla sedia dalla quale s’era alzato lui. Lo guardò attraverso lo specchio sporco di polvere e ingiallito, e gli alzò un sopracciglio. “Mi taglieresti i capelli, cowboy?”
“Che tono gay...”

“Cercavo di essere pulp, sai. Non posso affrontare la guerra senza un po’ di stile, non avrei storie metropolitane da raccontare dopo. Vorrei...vorrei qualcosa sulla scia di Sergio Leone, sai, l’italiano. Quei film erano davvero virili.”
“Assurdo.” Seunghyun si morse la lingua, cercando di non fargli notare che probabilmente non ci sarebbe stato nessun ‘dopo’ in cui raccontare. Anche se, dopotutto, non era davvero così pessimista. Per come la vedeva, Jiyong era totalmente capace di sopravvivere a quella guerra; non c’era niente che non potesse affrontare, e, leggero com’era, se ne sarebbe tornato nell’atmosfera.

“Dovresti iniziare a fumare. Seriamente.” disse Seunghyun. “Quello fa molto pulp.”
Si avvicinò alle spalle minute del ragazzo e, mordendosi un labbro, portò la macchinetta vicino ai suoi lunghi capelli castani. Erano raccolti in una piccola coda. Jiyong li sciolse. Erano decisamente troppo lunghi.
Posò la macchinetta sullo specchio. Prese le forbici che un ragazzo lì affianco aveva usato pochi minuti prima.

Si avvicinò all’orecchio del ragazzo. “Sei pronto?”
Jiyong annuì, come se niente lo turbasse. Strano. Sempre più strano.
Eppure era così vanitoso. Forse era semplicemente cresciuto.

Un paio di tagli violenti fecero schiantare al suolo spesse ciocche di capelli. L’espressione di Kwon Jiyong era totalmente piatta.
Un momento prima poteva commuoversi parlando del suo albero di Jacaranda, uno dopo non muovere ciglio mentre veniva brutalmente ridimensionato al livello di tutti gli altri. Tagliarsi i capelli era stato umiliante persino per Seunghyun; mai prima d’ora s’era sentito così piccolo, un numero di una cifra in un esercito che ne contava molte di più, un esercito di uomini tutti identici.

Perché cazzo non gli faceva provare niente?
Seunghyun tagliò e tagliò, finché il volto di Jiyong non si fece un po’ più simile al suo. Capelli radi, castani, che rendevano, con la propria assenza, il suo pallore ancora più evidente. Eppure il suo volto era calmo come un cielo estivo. Come se avesse trovato, in qualche parte dentro di sé, un sollievo particolare, una pace che dava tutti i sentori di essere fragile seppur forte; Seunghyun sapeva non sarebbe durata molto.
Con la coda dell’occhio vide Seungri guardarsi allo specchio con aria stranita, come se non si trovasse; non sapeva se la questione degli occhi fosse valida anche per lui. Youngbae gli sorrideva, invece, facendo battute su se stesso, e indicando quella testa nera e rada che si ritrovava. I suoi occhi, mezzelune strizzate, erano ancora più stretti, quasi troppo, come se quelle risate non riuscissero ad arrivare completamente fino a quegli specchi scuri.

Sorridere con gli occhi è tutta un’altra faccenda.
Daesung non pareva sconvolto; forse semplicemente non valutava, come lui, tutta l’intera questione sociologica dietro quell’atto. O forse ancora non dava tutta quell’importanza a dei semplici capelli. Seunghyun pensò fosse il più saggio, perché - sul serio - dopotutto, erano solo capelli.
Capelli, e un po’ di se stessi.

 

Ti dicono che la prima notte non riesci mai a dormire.  Però poi dopo ti ci abitui, dicono, la smetti di rimuginare, dicono.
E’ la quarta notte, qui, e non ho ancora chiuso occhio.

Scrivere non è possibile, oggi hanno staccato le luci più presto del previsto, e la Luna non pare voler far capolino dalla mia finestra. Così me ne sto sulla mia brandina, e penso. Non capisco il senso di aver tagliato i capelli; ogni spiffero d’aria mi coglie impreparato, e in qualche modo sento più freddo.
Non è neanche tanto pratico, far dormire i propri soldati in un capannone col tetto di alluminio; il gelo qui dentro ti entra fin dentro i pensieri.

A pochi letti dal mio, giace Jiyong. Ha un braccio sullo stomaco e l’altro poggiato sul materasso. Guarda il soffitto. Mi chiedo a cosa stia pensando.
Nel buio illuminato da una candela alla fine del corridoio, il suo profilo spoglio lo rende quasi una persona come le altre, alla vista. Nessuno sospetterebbe del dragone che nasconde dentro, della belva pronta a svegliarsi su un palco, della sua voce e i suoi sguardi, del suo saperci fare in ogni situazione e con ogni genere di persona, del suo essere inevitabilmente giusto.

Ora Jiyong strizza forte gli occhi e fa un sospiro. Sa di non poter farsi sentire mentre si copre la testa con il lenzuolo e comincia a tremare.
E’ il momento che sto aspettando da ore.
Jiyong si raggomitola come un bambino in grembo alla madre e afferra il cuscino tra le mani, spingendo la testa contro il tessuto bianco sporco. Probabilmente mordendo la stoffa.
Ecco la scena che bramavo, che aspettavo fedelmente, ecco finalmente il bellissimo e drammatico crollo: il dragone atterra sul terreno scuro, ripiega le ali contro se stesso e le stringe al suo corpo di squame; non ha più fuoco nella gola, né le sue urla fanno tremare il mondo. Il dragone diventa improvvisamente un silenzioso serpente, la pelle viscida di lacrime, la gola secca di sospiri.
E’ ora che mi alzo e mi avvicino silenziosamente al suo giaciglio. Guardo prima verso destra e poi verso sinistra, come se stessi per attraversare la strada, e poi poggio le ginocchia contro il materasso di Jiyong.
In un secondo il dragone smette di tremare, si immobilizza, come morto, facendomi pensare a quanto possa essere utile sul campo di battaglia questa tattica. Poi muove un braccio per spostare il lenzuolo, e si volta a guardarmi. Gli occhi sono una pozza sporca. Le pupille affogano in un bianco macchiato di rosso, di piccole venuzze invisibili, capillari ribelli.

Lo sguardo è quello duro dell’uomo che non è; poi, quando si rende conto che sono io, sono Seunghyun, sono qui per lui, lascia trasparire di nuovo tutta la sua paura. Strizza gli occhi, respira pesantemente e mormora qualcosa come “non riesco a respirare.”
In un attimo sono con lui sotto il lenzuolo, lo stringo al mio petto, e gli mormoro di dormire. Gli carezzo la testa nuda, lo sento aggrapparsi al mio fianco con le unghie, sento l’odore del sangue e capisco che proviene dal labbro inferiore che si sta mordendo insistentemente. E mi chiedo, dov’è Jiyong? Dove sono io?
Perché?
Mi chiedo così tante cose che, quando il piccolo uomo tra le mie braccia è ormai assopito, non mi resta che poggiare il mento sulla sua nuca, e lasciarmi andare insieme a lui.












 

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