L'inferno esiste solo per chi ne ha paura

di Dasvidania
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo, in cui l'ombra è padrona. ***
Capitolo 2: *** Capitolo Secondo, in cui non c'è tempo per spiegazioni. ***
Capitolo 3: *** Capitolo Terzo, in cui ogni sorriso è di fiele. ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto, in cui la mente è schiava del dolore ***



Capitolo 1
*** Capitolo Primo, in cui l'ombra è padrona. ***


Premetto che ho visto la serie in lingua originale, per questo motivo adotterò i nomi originali dei personaggi e potreste notare lievi differenti nelle descrizioni delle voci o nei modi di parlare a causa del diverso doppiaggio.
Io mi baserò sulla versione inglese, sforzandomi mi tradurre in italiano ciò che ho assorbito, e non sempre potrò verificare come è stato reso nella serie italiana.
In ogni caso, se qualcuno vorrà farmi notare differenze rilevanti emerse nella traduzione ufficiale italiana, sarò contenta di prendere in considerazione l'idea di sostituirle con la mia personale traduzione. (Sembra tutto molto più serio di quello che è, in realtà potrei solo scrivere "sfere" al posto di "palle" parlando degli attacchi di Starfire [che non so come li definiscano in italiano lol], o descrivere come "stridula" la voce di Beast Boy nonostante in italiano non lo sia particolarmente!)
Premetto anche che per il momento la storia nella mia testa è molto vaga e in fase di costruzione, cosa che ha reso difficile scrivere una trama riassuntiva e aggiungere le varie note/avvertenze, ma ciò che è certo è che sarà incentrata su un rapporto un po' borderline fra Slade e Raven, che non so ancora in cosa farò sfociare.
Buona lettura.




La stanza era ombrosa e immersa in un silenzio greve, con poche luci a determinare I vaghi contorni di ciò che ospitava.

Pareva un ambiente suburbano, forse la parte sotterranea di una vecchio edificio industriale, ora spogliato dal contenuto, ma con ancora fredde pareti ricoperte di metallo, scarne strutture in acciaio e della ruggine a rendere decadente il senso di vuoto abbandono che riempiva lo spazio.

Al centro della sala c’era quello che poteva essere definito un trono, tranne per l’assenza di sfarzo che presentava: scuro ferro opaco attraversato da file di bulloni, come vene d’un corpo inumano.

Su di esso una figura affogata dall’ombra sedeva, i gomiti puntellati sui braccioli alla cui fine le dita si intrecciavano, coprendo  la parte inferiore del viso.

“Portala da me.” Una voce calda come la lava, straordinariamente carezzevole e al contempo ricoperta del fascino amaro che solo il pericoloso esercita, colò nell’aria pesante, scivolando fino ad una sagoma tanto nera da confondersi con l’oscurità che impregnava la sala.

La figura annuì, mentre sul viso scuro si schiudeva un sorriso luccicante.

Sparì completamente, come se un battito di ciglio avesse potuto cancellarla, e un’ombra piatta saettò nelle tenebre.

 

***

 

L'edificio crollò con un rombo cupo, mentre una polvere di detriti ne avvolse il profilo scuro: spiccava nel cielo serale d'un grigo ammalato d'inquinamento luminoso.

Un enorme tirannosauro dalle tinte verdastre giaceva tra le macerie, lamentandosi debolmente, finchè lo stridulo brontolio non si trasformò con lentezza in un gemito umano, seguendo la metamorfosi che stava interessando il corpo stesso del rettile.

Ora le scaglie impolverate aveva lasciato posto a morbida pelle, gli occhi freddi da lucertola a due bulbi sofferenti dallo sguardo fin troppo espressivo, una vitalità tipicamente giovanile ad animarli, non piegata dal dolore che l’impatto doveva avergli causato.

“Beast Boy!” L’urlo di un giovane uomo dalla pelle scura fendette il fumo del crollo, arrivò alle orecchie appuntite del ragazzo, che strizzò gli occhi e cercò con difficoltà di rialzarsi.

L’altro lo raggiunse, afferrandolo sotto le braccia e sollevandolo quel che bastava per farlo reggere di nuovo sui propri piedi.

Il cielo si illuminò di un lampo verde, rendendo per qualche secondo ogni contorno definito e netto, e una nuova esplosione scoppiò, facendo stringere a sè le due figure immerse nelle rovine del palazzo.

Una ragazza coperta d’aderenti abiti viola ringhiava la sua rabbia, le mani come gli occhi ancora coperti di una aliena luminescenza del colore del lampo, mentre levitava nell’aria, I capelli rossi scossi dall’aria agitata dallo scoppio.

“Non ce la faccio, Robin” disse, un misto di rancore e tristezza nella voce, come se quelle parole fossero le ultime che desiderasse pronunciare “E’ troppo veloce anche per le mie sfere.”

Stava finendo la sua frase, quando un cerchio scuro saettò sull’alto edificio di fianco al quale levitava: era una piccola pozza di tenebre, non più grande del cerchio di un pozzo, ma più scura della notte profonda.

Con incalcolabile velocità una nera figura umanoide schizzò fuori dal cerchio, colpendo con violenza Starfire, che venne sbalzata lontano, cadendo sul cemento duro con un urlo di sorpresa mista a dolore.

Prima che il corpo dell’aliena fosse caduto a terra, la pozza era scivolata sulla strada e accolse la nera sagoma in volo, che vi sprofondò nuovamente all’interno, sparendo completamente.

Cyborg, seguito da un ferito Beast Boy, corse verso di essa, colpendo con un pugno disumano il centro del cerchio nero, infondendo nell’urto abbastanza forza da crepare l’asfalto.

Ciò non sortì alcun effetto, tanto che il cerchio slittò velocemente alle sua spalle, e la figura nera riemerso da esso, colpendolo alle spalle e facendolo cadere a terra.

“Raven!”  un ragazzo mascherato si stava rivolgendo alla figura femminile ammantata che osservava con freddi occhi nervosi la scena “Cosa diavolo è?”

“Non lo so, Robin.” Rispose l’altra, lapidaria, lo sguardo fisso sui suoi due compagni che ingaggiavano una vana lotta contro il nemico sconosciuto.

Ogni volta che Beast Boy o Cyborg tentavano di colpire la sagoma umanoide, essa sprofondava nel cerchio nero che giaceva ai suoi piedi che si spostava poi in un altro punto, permettendo alla figura di riemergere e ferirli da dove meno se lo aspettavano.

Era una scena frustrante, pareva che la sagoma ridessi ogni qualvolta i colpi dei suoi avversari andavano a vuoto, raggirandoli e schernendoli con quegli attacchi tesi a sfinirli più che a danneggiarli mortalmente.

Una feritoia si aprì sulla macchia nera che formava i contorni del volto della sagoma, un taglio a mezzaluna che rivelò al suo interno luminosi denti bianchi: l’inquietante curva era il sorriso della creatura.

“I suoi poteri sono simili ai tuoi, anche tu puoi sparire in portali di buio.” Insistesse il ragazzo mascherato con concitato fastidio, determinato più dall’umiliazione che il nemico stava infliggendo ai suoi compagni che all’ignoranza di Raven “Devi poterne sapere qualcosa!”

La ragazza ammantata si voltò verso di lui, irritata dal tono perentorio.

Non potè rispondere perchè la macchia nera aveva cambiato obiettivo, colpendo a tradimento Robin, che venne sbalzato lontano da lei, distratto dalle parole che si stavano scambiando.

Allora allungò la mano, e una macchina coperta dal suo nero potere venne lanciata contro la sagoma avversaria, che evitò l’impatto nel medesimo modo con cui aveva evitato fino a quel momento ogni offensiva.

La situazione era fuori controllo e nessuno dei cinque componenti di Teen Titans sembrava in grado di escogitare qualcosa che fermasse il muoversi impazzito della pozza scura, che colpiva indistintamente e con crescente violenza ognuno di loro.

Mentre Starfire riprese a lanciare verdi sfere, volando per tenersi fuori dalla portata dei colpi nemici, i raggi sonici di Cyborg colpivano il terreno e Beast Boy ogni qualvolta  la vedesse riemergere si sforzava di afferrare la sagoma tra le fauci del Velociraptor in cui s’era mutato.

Raven intanto aveva raggiunto Robin, girando un braccio intorno a lui, in modo che potesse rialzarsi con maggiore facilità.

Questo si divincolò, rizzandosi da sè.

“Penso che I suoi poteri abbiano origine demoniaca” Raven diede voce ai suoi pensieri con atona riluttanza, come se l’argomento la indisponesse “La tenebra di  cui è composto è troppo cupa per assomigliare ad un’ombra del mondo terreno.”

“E’ quello che temevo” rispose l’altro, serrando la mascella e sputando le parole fuori dai denti.

Estrasse dalla cintola il proprio bastone metallico, facendolo scattare e mettendosi in posizione d’attacco.

“Che cosa facciamo?” chiese alla compagna, lanciandole una rapida occhiata.

“Sicuramente con quello non otterrai granchè” commentò rocamente l’altra, guardando con poca convinzione l’asta che Robin stringeva tra le mani.

“Ma posso tentare.” Robin scattò in avanti, facendo roteare l’arma e lanciandola contro il nemico.

Questo aveva sollevato Cyborg per il collo, che emetteva lamenti strozzati dal furore e dalla presa sulla gola, mentre stritolava senza successo il braccio d’ombra cercando di liberarsi.

Il bastone di Robin la colpì al capo, facendo sì che il compagno catturato cadesse pesantemente al suolo e che la figura nera barcollasse.

Tentando di approfittare della momentanea debolezza, Starfire lanciò le sue sfere, ma non abbastanza velocemente, tanto che la sagoma scomparì ancora nella sua pozza prima che esse potessero raggiungerla.

Li aveva raggirati ancora.

L’esplosione causata dalla sfere contro il cemento investì Cyborg, che lanciò una esclamazione di protesta.

“Sta attenta, Star!” la apostrofò con astio, lanciandole uno sguardo di rimprovero, le parole spezzate da brevi colpi di tosse.

Questa volò vicino al compagno, accertandosi che il suo colpo non l’avesse ferito.

“Perdonami, non era mia intenzione.” gemette dispiaciuta, una mano accorata sulla spalla bionica “Quell’ombra mi confonde.”

L’altro sospirò con una espressione che faceva intendere come non ce l’avesse con lei, evitando di risponderle per paura che il nemico approfittasse della loro distrazione.

Fu una scelta saggia, dato che fecero appena in tempo ad evitare un nuovo attacco della sagoma, che tentò di colpirli con una evidente rabbia determinata dall’offesa ricevuta dal bastone di Robin.

Un’aquila verde planò, colpendo col becco affilato il viso della creatura, ma fu subito scaraventata lontano dal pugno furente con cui questa rispose.

Raven in tutto ciò era rimasta a distanza, seguendo con analitici occhi la scena miserevole che quel combattimento rappresentava, ma non per codardia: sapeva che la sua telecinesi era troppo lenta per superare la velocità d’elusione del nemico, e la sua mente ragionava con frettolosa necessità.

Sapeva anche che sfogliando le pagine della sua conoscenza sulla magia demoniaca avrebbe potuto trovare un metodo efficace per annullare l’avversario, ma la lentezza con coi aggiungeva pezzi al mosaico che era la soluzione la frustrava.

L’anomalia faceva da padrona alla situazione, dato che mai prima d’ora un essere demoniaco era apparso a Jump City, ad accezione di suo padre Trigon, e se ciò era strano quello che la stupiva maggiormente era che il nemico non sembrava aver alcun obiettivo criminale.

S’era manifestato poche ore prima, causando un generale caos privo di funzione, come volesse unicamente attirarli a sè.

La pozza nera sembrava ora arrabbiata e ancora più violenta, ma al tempo stesso infastidita dai Titans, quasi rappresentassero degli intralci più che degli avversari.

Nel giro di pochi secondi atterrò ogni componente della squadra, ad accezione di Raven, troppo lontana, e schizzò verso di lei.

La ragazza evocò immediatamente uno scudo d’energia nera di fronte a sè, appena in tempo per fermare il braccio fulmineo dell’avversario, che sbattè contro di esso creando lampi di tenebra.

Buio contro buio, pareva che la mano della creatura tentasse di penetrare a forza nello scudo di Raven, e il contatto creava un odioso stridio infernale, accompagnato dalle saette ombrose che sprizzavano intorno ai due.

Gli altri a terra guardarono con occhi colmi d’apprensione la scena, tentando di rialzarsi il più velocemente possibile e dare aiuto alla compagna.

Furono lenti.

Lo scudo di Raven si infranse come vetro e un rumore terribile, non appartenente a quel mondo, accompagnò la rottura.

La creatura afferrò il viso della ragazza, che venne coperto dalle lunghe dita adunche e ghermito con violenza.

Starfire gemette a tale vista, e Robin corse verso I due.

Raven fu stretta in un freddo abbraccio, l’indescrivibile ripugnanza che il contatto provocava le mozzò il fiato: fu come essere artigliata da tentacoli fatti d’ incubo e terrore, gelidi come la disperazione e forti come il dolore.

L’orrore calò sulle pupille dei presenti quando la sagoma nera sprofondò nella pozza ai suoi piedi, portando con sè Raven, che sparì nel cerchio nero.

A nulla servì che il resto del gruppo si lanciasse verso di esso, il cerchio scivolò via con inafferrabile velocità, scomparendo presto nei vicoli della città notturna.

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Capitolo 2
*** Capitolo Secondo, in cui non c'è tempo per spiegazioni. ***


 

Le tenebre la avviluppavano, collose e profonde  come l’angoscia che si era annidava nella sua mente sconvolta.

Impossibile determinare cosa fosse accaduto dopo che la sagoma l’aveva trascinata dentro la sua pozza nera, facendola scivolare all’interno di uno spazio che spazio non era, angusto e al contempo vuoto come il cuore di demonio, privo di dimensioni, di colori, mancante di tutto fuorchè dell’orrore che Raven provava.

I suoi occhi non vedevano e non era in grado di capire se gli arti ubbidisse ai suoi ordini: laddove si trovava in quel momento, qualunque luogo fosse, I cinque sensi erano inermi e privi d’alcuna funzione, piegati dalla presenza-assenza di quell’inarrestabile e incomprensibile buio.

C’erano picchi di orrore in cui Raven tornava ad avvertire il suo corpo, poteva sentirlo dolere e scricchiolare sotto il peso di forze invisibili che lo comprimevano, lo dilatavano, manipolando le viscere che cozzavano l’una contro l’altra in una macabra danza o che si tendevano fino all’esasperazione, tanto da farle temere che si sarebbero lacerate lasciando di lei solo un mucchio di tessuti e sangue.

In breve, le parve di aver perso qualunque forma riconducibile ad un essere antropomorfo.

Non poteva vedersi, ma avrebbe giurato che nulla aveva più in comune con una donna, orribilmente deturpata dai moti infernali che deformavano la sua persona.

Non aveva mai provato sensazioni tanto sgradevoli, tanto insopportabili da portarla a desiderare di lasciarsi sfuggire un acuto grido fatto d’istinto e raccapriccio.

Forse lo fece, ed esso si perse in quello spazio inesistente, o forse non aveva più labbra o lingua o corde vocali con cui dargli vita.

Poi, finalmente, l’orrore finì.

Sembrò che qualcuno accendesse una luce, come quando ci svegliamo di soprassalto, e il mondo compare estraneo e distante davanti ai nostri occhi confusi.

 

Slade, seduto  come ore prima sul suo scheletrico trono d’acciaio e bulloni, attendeva con paziente sicurezza di successo il ritorno della creatura nera da lui inviata per rapire Raven.

Quando vide un cerchio nero strisciare nella penombra della grande sala, guardando al di sotto della sua maschera, forse si sarebbe potuto intravedere un discreto ghigno.

L’attesa non lo aveva snervato, per quanto fosse consapevole che dalla riuscita di quella missione dipendesse molto più di ciò che sarebbe stato disposto a perdere, perchè aveva da tempo imparato a dare un freno alle emozioni smodate, facendo dell’autocontrollo la sua virtù.

Così quando il cerchio nero si fermò di fronte a lui, quando la figura emerse stringendo Raven tra le cupe braccia, Slade non ebbe un fremito, solo una profonda cascata di soddisfazione a bagnargli il cuore.

Raven sembrava caduta in uno stato di lucida incoscienza, che nel giro di pochi secondi si dissolse, facendo irrigidire il pallido corpo, più anemico di quanto non fosse normalmente, facendolo scuotere di un febbrile tremolio, mentre gli occhi tornavano in grado di inviare immagini alla mente sfinita.

Si posarono su Slade, osservandolo per qualche secondo con vuota sorpresa, per poi evolvere in una fredda rabbia.

“Ciao, Raven” la morbida voce di Slade le scivolò alle orecchie, mentre questo s’alzava, avvicinandosi ai suoi ospiti, e le mani scivolavano dietro la schiena, nella posa di raffinata compostezza che amava assumere “Fatto un buon viaggio?”

Le labbra di Raven sembrava destinate a rimanere rigidamente serrate, mentre la ragazza tentava di far ordine nella mente frastornata dalla terribile esperienza da poco vissuta.

Cercava disperatamente di afferrare I proprio pensieri e dargli un ordine, riprendendo il controllo su sè stessa, e con penosa lentezza iniziò a calmare I sintomi di shock che il viaggio con la creature le avevano provocato.

Slade la osservava dall’alto con cupa compiacenza, attendendo la sua ripresa.

Finalmente, si sentì nuovamente padrona di sè, avvertì con realismo le mani gelide della creatura nera stringerle I polsi, la debolezza delle proprie caviglie affrante, la secchezza in bocca e un diffuso, dolente disagio.

Pareva  che le sue ossa fossero scollate l’una dall’altra, che invisibili ferite le percorressero il corpo e che ora avessero iniziato a pulsare, prendendo vita.

Fece per schiudere le labbra aride nel  tentativo di rispondere alla nemesi che si era palesata davanti ai suoi occhi, ma un improvviso spasmo la costrinse a terra, facendola cadere pesantemente sulle ginocchia.

Vomitò sangue.

Il suo aguzzino non allentò la presa, non modificò la sua posizione, nemmeno quando, prostrata in ginocchio, le sue braccia assunsero un’angolazione dolorosa e sbagliata.

Tossì, gli occhi stretti, aspettando che i crampi interni si placassero: l’entrare nella pozza nera doveva aver sottoposto il suo corpo ad un enorme stress.

“Perchè sono qui?” chiese con voce rauca, debole, una voce che suonò estranea persino a se stessa, mentre alzava uno sguardo carico di rancore all’uomo dal viso coperto.

Questo sospirò con leggerezza, allontanando l’occhio da lei, come fosse in presenza di una bambina maleducata.

La sagoma nera costrinse Raven ad alzarsi.

“Troppa fretta, mia cara.” Rispose, cingendole il mento con la mano guantata, per poi passarle il pollice sulle labbra sporche di sangue, pulendole, in un gesto di provocatorio raggiro.

Le diede poi la schiena, sfregando le dita inumidite dal liquido rosso e tornando a sedersi sul suo trono di ferro.

“Portala via.”

La frase risuonò fredda e pericolosa tra le pareti di nudo metallo.

“E lasciala stare, ho bisogno che sia lucida.”

Raven avrebbe desiderato ribellarsi, usare I suoi poteri per togliersi di dosso quella disgustosa sagoma, colpire Slade e scappare per scoprire in seguito con gli altri qual era stato il motivo del rapimento, ma la sua mente era anestetizzata dal trauma del viaggio, come anche il suo corpo.

L’unica cosa che potè fare fu emettere un lamento aggressivo quando la creatura nera cercò di farla muovere: si sentiva orribilmente impotente e debole.

La fragile resistenza che oppose non portò alcun risultato e quando tentò di invocare la sua formula magica, una mano nera e fredda le serrò la bocca.

Con la coda dell’occhio riuscì a vedere Slade immerso nel buio che circondava il suo trono, solo una fioca luce a definirne timidamente I contorni, e incrociando il suo unico occhio Raven fu sicura che sotto quella maledetta maschera c’era un viso ghignante e divertito dal vederla così inerme.

Strinse la mascella, rabbiosamente, ricordandosi di quanto era stata in grado di sconfiggere da sola quell’individuo, quando aveva martoriato il suo corpo e costrettolo a fuggire dalla sua furia.

La sagoma nera la trascinò via e un pesante portone di metallo si chiuse alle loro spalle.

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Capitolo 3
*** Capitolo Terzo, in cui ogni sorriso è di fiele. ***


 

La stanza in cui si trovava era spoglia e fredda.

Le pareti erano metalliche, come tutte quelle che aveva incontrato finora in quel luogo sconosciuto, ma simboli esoterici erano incisi con rozza violenza su tutta la loro lunghezza.

Raven li aveva riconosciuti subito: simboli demoniaci, simboli di limitazione e prigionia.

Era questo il motivo per cui da quando era entrata in quella sala non era stata in grado di evocare nessuno dei suoi poteri, nemmeno la trance rigenerante, quella che più di tutto sentiva di necessitare in quel momento.

Come ulteriore protezione, il quadrato della stanza era privo di qualunque arredo, per ridurre al minimo gli oggetti che avrebbe potuto scagliare con la propria telecinesi: un materasso poggiato in un angolo era l’unico oggetto presente.

Nell’angolo opposto si apriva un’ apertura nel muro che dava accesso ad un’altra piccola stanza, meglio definibile come ripostiglio, priva di porta e sul cui pavimento si poteva notare un buco circolare: immaginò si trattasse dei servizi.

Niente da dire, Slade aveva pensato a tutto, con tanta minuziosità da sfociare nella crudeltà, lasciandola in quella che le stava sembrando sempre più la gabbia di un animale.

Come se non bastasse, il lato attraverso cui si accedeva alla stanza era trasparente, come quello della prigioni più moderne, d’un materiale infrangile e limpido che lasciava intravedere tutto ciò che stava al di là.

Raven se ne stava sul materasso, appoggiata al gelido muro con le gambe piegate al petto, cercando di calmare gli effetti collaterali del viaggio compiuto con la sagoma nera che con pigra costanza stavano finalmente sfumando.

La mancanza di certezze la sfibrava: non riusciva a risalire al motivo per cui la loro nemesi avrebbe voluto rapirla, nè perchè ci fosse una così inquietante ricorrenza di tematiche demoniache.

Il nemico che l’aveva catturata aveva natura infernale e i simboli della sua cella anche.

Le sembrava di essere scivolata nuovamente nell’incubo che aveva preceduto la venuta di Trigon, dove la sua realtà veniva con lenta inesorabilità inquinata da presenze demoniache che le impedivano di ignorare il sangue ibrido che le scorreva nella vene.

D’altra parte Slade aveva già avuto contatti con un demone e, seppur la cosa gli si fosse ritorta contro, l’idea che non avesse abbandonato del tutto quella strada, irretito dalla potenza che in essa si celava, non la stupiva.

L’unica cosa che poteva fare era mantenersi calma, lucida nei suoi giudizi, e attendere le informazioni necessarie per comprendere cosa stava accadendo.

Una volta chiarita la situazione avrebbe avuto gli strumenti per capire come uscirne.

Era rinchiusa nella stanza da parecchie ore, s’era concessa di riposare per aiutarsi a recuperare energie e in quel lasso di tempo la sagoma era nera talvolta apparsa: rimaneva a fissarla immobile, quasi attaccata alla parete trasparente, per intervalli più o meno lunghi.

Non si muoveva, non parlava, si limitava a puntarle contro la sua inespressiva faccia nera, diventando una silente e angosciante presenza.

All’inizio pensava che le stesse facendo la guardia, ma la presenza di telecamere le avevano fatto cambiare idea: la osservava con una famelica insistenza, senza motivo apparente.

Raven la odiava, odiava quello sguardo lugubre e I momenti in cui spariva nel proprio cerchio per dileguarsi chissà dove erano I pochi in cui riusciva realmente a mantenersi calma e misurata.

 

S’era appisolata, scivolando in uno stato di dormiveglia disturbato dal nervosismo, dove nessun sogno riusciva a penetrare il muro di allerta che tentava di mantenere, donandole confusi sprazzi di immagini, colori, suoni, eccessivamente frammentari per costituire una reale visione, ma tutti egualmente intossicati dalle sensazioni negative che la situazione le causava: erano quindi schegge tormentate di incubi troppo deboli per grattarle il cervello con le loro unghie d’angoscia, resi forse ancora più inquietanti dalla fumosa incertezza con cui si sprigionavano, fugaci e incerti.

Aprì gli occhi con riluttanza, avvertendo l’angoscia crescerle nel petto e condensarsi in un unico massa oscura e opprimente all’altezza del cuore.

Si guardò intorno, colpita da quell’improvvisa sensazione sgradevole che le aveva ghermito le viscere.

La figura nera era tornata, immobile come sempre, tremendamente vicina al vetro e al contempo chiusa in un distacco che la faceva apparire inanimata.

Ma nessuna forma inanimata avrebbe potuto causare con la sua presenza un tale fastidio, una ripugnante aurea che pareva impregnare l’aria, sporcandola e rendendola velenosa.

Raven, sfinita da ciò, si alzò e camminò verso il vetro che la separava dalla creatura.

Si posizionò esattamente di fronte a lei, il viso puntato sulla nera superficie disumana che componeva quello dell’altra, e la fissò a sua volta per una buona manciata di secondi.

Se guardi nell’abisso, l'abisso guarda in te.

Una frase di cui non ricordava la provenienza, ma che in quel momento pensò di comprendere come mai prima.

Lo sguardo di quella creatura era infetto e ricambiarlo significava lasciarsi penetrare dal morbo, abbassare le difese, scivolando ancora più profondamente in quel nero terribile e privo di fine.

“Che cosa stai guardando?” chiese infine, con tono piatto e tagliente, una domanda retorica che era più un invito a smetterla.

La sagoma restò parecchi secondi immobile e silente.

Un brivido percorse Raven  quando finalmente qualcosa mutò: una feritoia terribile si aprì nel viso della sagoma, rivelando un curvo e lungo sorriso formato da bianchissimi denti umani, luminoso e al contempo tetro come un fuoco fatuo.

Il sorriso era maligno, affamato, divertito ed enigmatico, una terribile miscela che lo rese ancor più disturbante.

Raven fece un passo indietro, disgustata, per poi tornare nel proprio angolo, incapace di dare le spalle a quella inquietante figura sorridente.

“Vai via.”

Una voce diede vita ai suoi pensieri, ma non le apparteneva.

Era una voce che conosceva bene, seducente nella sua calda pericolosità, una voce che aveva imparato a temere.

Slade era apparso di fianco alla figura nera.

Questa non smise di fissare Raven, ignorando totalmente la comparsa quanto l’ordine dell’uomo.

“Ho detto di andartene.” Ripetè Slade, il tono più fermo, ma non spazientito, nè intimidatorio. 

Passò un’altra lunga manciata di secondi, e il sorriso della creatura si spense con esasperante lentezza, facendolo deformare in una smorfia di disappunto ed infine scomparire come termine d’una metamorfosi ripugnante.

Poi finalmente sprofondò nel proprio cerchio, che presto scivolò sul pavimento e scomparse nei corridoi cupi.

Il sollievo che Raven avrebbe potuto provare fu velocemente abbattuto dalla presenza di Slade, quindi s’alzò in piedi, fissandolo con diffidenza pur mantenendosi composta all’interno del suo mantello.

Non voleva mostrarsi nervosa o insicura, nè desiderava esserlo, perciò tenne a bada la tensione che la presenza del suo nemico le causava.

Questo aprì la porta della sua prigione e vi entrò con disarmante confidenza, come fossero protagonisti d’ una situazione totalmente nella norma.

“E’ un piacere rivederti, Raven” iniziò, il tono morbido e falso come d’abitudine “Sai, i nostri ultimi incontri sono stati piuttosto…”

Cercò il termine corretto nella propria mente con studiata teatralità, per poi inclinare appena il capo.

“…Turbolenti.”

Fece una breve pausa, in cui la ragazza immaginò stesse componendo un sorriso da serpente.

“Spero che l’ambiente ti metta a tuo agio, l’ho pensato appositamente per te.”

Congiunse le braccia dietro la schiena, in una rilassata imperturbabilità.

“Perchè sono qui?” la domanda di Raven tagliò l’aria, affilata come un dardo.

Slade scosse lievemente la testa, muovendosi intorno a lei con calmi passi misurati.

“Non sai dire altro?” commentò con indolenza e si fermò alle sue spalle.

“E’ l’unica cosa che mi interessa sapere da te.”

Il sospiro indulgente di Slade scivolò nell’aria.

“Questa infantile ostilità non ti sarà di alcun guadagno” 

Raven ebbe un fremito, tanto abituata a considerare quell’uomo un pericolo da leggere istintivamente le sue parole come una minaccia.

“Devi sapere, Raven…” cominciò appoggiandogli le mani sulla spalle in un gesto di inusuale confidenza “…che parlavo con serietà quando ti dissi di essere rimasto impressionato dalla verità sul tuo conto, sul potere silente che è racchiuso nel tuo corpo.”

La ragazza gli dava ancora le spalle e quel contatto la gettò in uno strano disagio, forse ricordandole quella terribile notte in cui Slade le aveva lasciato inciso sulla pelle il messaggio di suo padre, quando le stringeva con forza I polsi e la costringeva nella medesima posizione.

“Non diventerò la tua apprendista.”

Slade rise, una risata bassa e piena, ma chiaramente rivolta a lei, una risata che la dileggiava.

“Non sopravvalutarti, sei su diversi livelli completamente inadatta ad un compito del genere.”

Nel profondo quell’affermazione la indispose, ricordando di come Terra fosse stata scelta come allieva del loro nemico, trovando odiosa l’idea che quella sciocca ragazza potesse avere qualcosa che a lei mancava.

“Ciò non toglie che i tuoi poteri mi potranno essere immensamente utili.”

Allora Raven si girò di scatto, tornando a guardarlo faccia a faccia e allungando la distanza che li separava, per poi chiudersi nuovamente nel confortante stoicismo in cui il suo mantello la avvolgeva.

“Non mi lascerò usare da te.” Una nuova dichiarazione forte e limpida nella sua fermezza, dura quasi quanto lo sguardo di ghiaccio che gli stava rivolgendo.

Slade non si scompose, tornando in una posa di rilassata sicurezza, e guardandola per qualche secondo, sostenendo quello sguardo glaciale con superba facilità.

“Non avrai scelta.” Disse con dolcezza, una dolcezza velenosa e terribile “Farò in modo che tu mi dia il tuo aiuto, e non potrai far altro che acconsentire con ubbidienza ed umiltà.”

La ragazza serrò la mascella, soffocando la rabbia che l’impenetrabile contegno e certezza che permeava Slade le causava.

“Lo vedremo.” Il severo commento fu accolto da un’altra risata, ma stavolta leggera e appena accennata, mentre Slade faceva qualche passo verso di lei.

“Non immagini nemmeno quanto.” Sussurrò chinandosi appena su di lei, per poi superarla e uscire dalla cella.

Raven lo guardò con occhi distanti e privi d’emozione attraverso il vetro trasparente.

Restarono un poco in quel modo, sfidandosi con lo sguardo attraverso l’invisibile barriera che li separava, ognuno immerso nel proprio ostentato decoro.

Poi, finalmente, Slade scomparve nei corridoi tetri del rifugio.

Raven emise un cupo e pesante respiro, non potendo fare a meno di chiedersi cosa la attendeva, e odiando il cripticismo in cui l’uomo si stava chiudendo con irritante compiacimento.

Si sedette di nuovo sul materasso, passandosi una mano tra i capelli violacei, e incrociò le gambe.

La meditazione spirituale non le era concessa in quella maledetta sala che bloccava ogni suo potere, ma la forma più blanda di essa, quella che ogni semplice umano poteva praticare, non le sarebbe stata negata.

Chiuse gli occhi, decidendo di approfittare dell’assenza della sagoma nera per trovare la propria concentrazione.

In breve cadde nella trance della meditazione, e con il proprio corpo astrale sognò la Titans Tower, sognò di raggiungere i suoi amici.

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Ringrazio quelli che hanno speso tempo per leggere fino in fondo, sperando che sia stato piacevole. Siccome le visualizzazioni sono tante, ma i commenti miseri, vi ricordo (nonostante lo sappiate meglio di me) che un semplice commento, un'opinione, un consiglio o una critica mi farebbero molto piacere, oltre a darmi la giusta carica per impegnarmi nel cercare di scrivere capitoli migliori.

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Capitolo 4
*** Capitolo Quarto, in cui la mente è schiava del dolore ***


 

 

L’urlo di un uomo riecheggiò nella densa oscurità.

La frustrata lacerò la carne della schiena, nuda e orrendamente decorata da lunghe strisce rosse da cui colavano righe di sangue, firme indelebili di dove il nerbo era calato straziando la pelle.

Il corpo dell’uomo ero appeso per le mani, sospeso e con I polsi scorticati dalla dura corda che si stringeva intorno ad essi, spogliato dai suoi abiti e nudo nella propria umiliazione, mentre larghe porzioni di carne erano penose portatrici di profonde ferite.

Il volto dell’uomo si mostrava ricoperto da uno spesso strato di sofferenza, sporco e sudore.

Un’altra sferzata calò su di lui.

Strizzò gli occhi  e  morse il labbro inferiore per trattenere un nuovo gemito, stringendolo fino a sentire il familiare e ferroso sapore del sangue.

Intorno a lui l’oscurità più cupa nascondeva figure ed oggetti, facendo emergere il pallore della sua pelle anemica dai profondi strati di tenebra che lo circondavano: un macabro burattino sospeso, il capo chino in segno di abbandono e disperazione.

Si poteva di tanto in tanto avvertire un brusio di voci maligne, interrotto da risate stridenti e sguaiate che accompagnavo l’apparizione fugace di occhi luminosi e crudeli.

I rantoli dell’uomo si dipanavano perdendosi in un’aria pesante e tossica, che rodeva I polmoni come braci ardenti e si incollava sulla pelle come un velo di spilli acuminati, mentre la gola bruciante non aveva più forza per emettere parole, stanca quasi quanto la sua mente, annebbiata dallo strazio.

Braccia e spalle pulsavano senza sosta, slogate e deformate dal peso che il corpo sospeso esercitava su di loro, troppo a lungo lasciato appeso.

Ogni cosa in quel luogo era dolore e pazzia, non esisteva altro che il tentacolare tormento che attanagliava ogni parte del suo essere, il buio senza confini e quelle inquietanti presenze che in esso si muovevano, torturandolo, pizzicandogli la carne, leccando il sangue che gli colava sulla pelle e fissandolo con atroci occhi privi di pietà.

Era il trionfo della follia, il banchetto dell’orrore.

Decine di mani dalle lunghe dita appuntite lo artigliarono, pungendolo e stringendolo come uno stormo di insetti famelici, e slegarono le corde che lo stringevano, facendolo cadere pesantemente a terra.

Ma non ci fu pace, perchè venne di nuovo stretto in quella morsa di falangi scheletriche che si apprestarono a trascinarlo per terra, conducendolo al pari d’un peso morto o di un agonizzante animale da macellare verso qualcosa che temeva profondamente.

L’uomo si lamentava, troppo prostrato per articolare richieste d’aiuto, mentre stringeva debolmente la terra sotto le sue mani, tentando con disperata irrazionalità di trattenersi ed impedire che lo trasportassero verso l’orribile oggetto che cominciava ad emergere dall’oscurità.

Si delineò una grata di metallo un poco sollevata dalla terra, sotto la quale sfavillavano e sfrigolavano grossi pezzi di braci in fiamme.

La superficie di metallo era d’un rosso vivo, arroventata dal calore emesso dal carbone.

“No…No…NO”

La voce dell’uomo ripeteva con tormentosa ripetitività quella singola parola, sputandola fuori dalla gola con voce roca e flebile come se ogni sillaba fosse di carta vetro e chiodi.

Mani impietose lo sollevarono, calandolo sulla grata e costringendolo a sdraiarcisi sopra, schiena rivolta alle braci, per poi chiudere anelli di metallo sulle sue caviglie e polsi, imprigionandolo alla struttura.

Un nuovo urlo, stavolta tanto forte e deformato da risultare disumano, più simile all’orribile lamento di un animale, scaturì dalla bocca dell’uomo, frantumando l’ovattato silenzio e coprendo lo sfrigolare della pelle nuda che bruciava a contatto con il ferro arroventato.

Il corpo iniziò una istintiva lotta contro la tortura, dibattendosi posseduto da scosse e spasmi.

Il grido cresceva e si espandeva nello spazio vuoto, mentre la pelle bruciata si ricopriva di bolle ed ustioni e le membra si contorcevano inutilmente tentando di sfuggire all’orribile ordalia del fuoco.

Altre risate si alzarono dalle tenebre e qualcuno iniziò a gettare sale addosso al corpo martoriato, come crudeli fiori buttati sul cadavere di un volto dimenticato.

Slade poteva avvertire l’odore acre della sua stessa pelle venire cotta e deturpata, il raccapricciante fetore della carne bruciata a impregnargli le narici di un nauseabondo profumo di morte.

Mentre il suo grido non accennava a scemare, sentì la propria sanità mentale scivolare fuori dalla gola insieme ad esso, svuotandolo completamente.

 

Aprì gli occhi e l’urlo che gli vibrava in gola si spense nel medesimo istante.

Slade era sdraiato nel letto, ricoperto dal proprio sudore e immobilizzato dal terrore.

Non riuscì a muoversi per parecchi istanti, gli occhi sgranati fissi al soffitto e il corpo teso che rifiutava di abbandonare il proprio immobile panico.

Le immagini dell’incubo si riflettevano nei suoi occhi e la scia di orribile sensazioni che aveva provato indugiavano ancora nel suo corpo, strisciando sulla sua pelle come una schiera di viscidi serpenti.

Ancora una volta aveva fatto quell’incubo, ancora una volta il suo sonno era stato il palcoscenico di orribili torture e disumane atrocità che lo vedevano come indiscusso protagonista, nonchè vittima.

La infinita varietà di abusi che ogni notte gli venivano riversati addosso all’interno di quei sogni morbosi non smetteva di atterrirlo, tanto quanto il realismo agghiacciante che li permeava.

Si massaggiò I polsi, come per dimostrare a se stesso come la pelle fosse integra e liscia e nessuna corda l’avesse lacerata.

Allora si passò le mani sul viso, tergendolo dal sudore e sperando di togliere con esso il velo di angoscioso panico che lo avviluppava ad ogni risveglio.

Sospirò pesantemente, trattenendosi dall’emettere un altro urlo, benchè stavolta di rabbia e frustrazione.

Il momento del riposo da troppo tempo stava diventando un odioso appuntamento con sogni fatti di sangue e tenebra, tremende visioni che lo stava lentamente logorando.

S’alzò, appoggiandosi pesantemente a un mobile e riflettendosi nello specchio appeso sopra di esso.

Guardò il proprio viso, osservando un volto che riportava I segni di quel sonno disturbato.

La pelle pallida brillava nel buio di tinte malsane, mentre gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie violacee e conservava una eccessiva lucidità, facendolo apparire malato ed esausto.

Non era solo la sua mente a risentire di quegli incubi, ma il suo aspetto rifletteva gli effetti che poche ore di sonno disseminate di terribili esperienze gli stavano causando.

Digrignò I denti con rabbia e strinse I pugni, furiosamente sfinito.

Da troppo tempo quella situazione non aveva un fermo, il fatto di non aver alcun controllo su quel male che lo stava divorando lo riempiva d’una collera cocente quasi quanto  il ferro che nell’incubo l’aveva orribilmente ustionato.

Afferrò la maschera appoggiata sul mobile e la indossò, urlando il nome di un suo sottoposto.

“Portala nell’arena.” Sibilò con fredda ira alla comparsa di quest’ultimo, continuando a fissare il proprio riflesso, dove la maschera ora nascondeva le tracce del cancro onirico che lo stava consumando.

 

Per quanto le fosse difficile misurare lo scorrere del tempo chiusa in quella cella, Raven era piuttosto sicura che fossero passati due giorni dal suo sequestro.

Due lenti giorni in cui non le era stato concesso nè cibo nè acqua, nessuna assistenza, ma solo silenzio, timore e l’inquietante spettatore nero che la osservava a intervalli irregolari.

Ancora non sapeva nulla di ciò che l’attendeva, poichè Slade non era più ricomparso dopo averle lanciato quegli enigmatici indizi privi di reali conferme o smentite circa le teorie che aveva potuto formulare.

Non si sarebbe mai aspettata di desiderare la ricomparsi di quell’uomo, eppure ora avrebbe accolto positivamente l’idea di vederlo riapparire oltre quell’odioso vetro pur di rinunciare a un poco dell’incertezza che avvolgeva la sua prigionia.

Per quanto riguardava I lati psicologicamente snervanti dell’accaduto, era riuscita a mantenere la sua mente sommariamente insensibile all’anomala situazione, appellandosi al suo autocontrollo e al distacco dai bisogni attraverso la meditazione, attingendo dalla propria freddezza ciò che le serviva per non lasciarsi prendere dal panico.

Aveva vissuto tante brutte esperienze, talvolta peggiori di quella attuale, e ne era sempre uscita integra grazie alla misura e all’autodisciplina, perciò sapeva di avere gli strumenti necessari per non perdersi d’animo nè rovinarsi con le sue stesse mani.

Nonostante ciò, il suo fisico stava risentendo parecchio della situazione: prima stressato dal trasporto dentro al cerchio demoniaco, poi debilitato dal digiuno.

Se la sua mente era forte, il suo corpo era spossato e privo d’energie.

Forse fu anche per questo che per gli automi di Slade fu semplice metterla fuori gioco: entrarono nella cella senza preavviso, puntandole contro un’arma dall’aspetto poco ordinario.

L’escalation di eventi fu veloce, e non le lasciò tempo di pensare.

Un anomalo proiettile le si conficcò nel collo, e tutto divenne sfocato, prima di sparire in un incosciente oblio.

Quando si risvegliò, la testa dolente e gli arti pesanti, era in un ambiente nuovo: la sala era molto grande, ma ripetitiva nell’assoluta mancanza di arredi o decori.

Era un’altra stanza dalle pareti metalliche e dal pavimento freddo, uguale a tutte quelle che aveva visto finora in quel luogo sconosciuto, e stranamente non sembrava aver porte d’entrata o d’uscita.

Mugugnò fra sè, sollevandosi appena da terra e interrogando il proprio corpo: era intorpidito dalla sostanza che le avevano iniettato, reduce dal breve coma in cui l’aveva indotta, mentre I suoi pensieri si stiracchiavano confusi e assonnati.

Con lentezza inebetita notò altri simboli grezzamente inciso sulle pareti, ma differenti da quelli presenti nella sua cella.

Improvvisamente si sentiva più leggera, come se pesanti catene si fossero sciolte, lasciandola libera: I suoi poteri scorrevano di nuovo con indipendenza nella sue vene, non più limitati da oscuri sigilli demoniaci.

Era il momento di fuggire.

Le bastarono pochi secondi per decidere di agire: il suo corpo venne interamente coperto dal suo nero campo d’energia e la sua figura si trasformò in quella d’un corvo che sfrecciò verso il portale che aveva creato nella parete più vicina.

L’ impatto col muro fu violento e inaspettato, la sua magia si dissolse e Raven cadde a terra, incapace di penetrare il gelido metallo.

Gemette toccandosi la spalla contusa, capendo la sua ingenuità: sebbene I suoi poteri fossero privi di vincoli, I simboli sulla parete erano una barriera che le impediva di trapassare le mura e fuggire.

“La fretta è una cattiva consigliera, mia cara” la voce di Slade le carezzò le orecchie, facendo eco a ciò che le aveva già detto al loro precedente incontro.

Una porzione della parete, con uno scatto meccanico, s’era rivelata una serranda attraverso cui l’uomo aveva avuto accesso, chiusasi immediatamente alle sue spalle con un tonfo metallico.

Raven si voltò verso di lui, sentendo nuovamente la rabbia pizzicarle le viscere, umiliata dalla pietosa scena di stupidità a cui s’era prestata.

“Sto iniziando a stancarmi di questo gioco.” sibilò, alzandosi e dedicandogli uno sguardo d’odio.

“Presto capirai che non è nemmeno cominciato” con questa frase Slade si lanciò contro di lei e la colpì in pieno viso, facendola sbattere contro il muro e cadere nuovamente a terra.

Non le lasciò il tempo per rendersi conto dell’accaduto, che l’afferrò per l’abito e la scaraventò lontano.

Raven rovinò sul pavimento, ma ebbe la prontezza di rialzarsi e portare le mani di fronte a sè  creando un nero scudo contro cui si infranse il nuovo assalto di Slade.

Non aveva il tempo per pensare, per giustificare razionalmente il fatto che ora Slade sembrasse intenzionato a farle del male, poteva solo pensare ad un modo efficace per renderlo innocuo.

Era tremendamente debole, priva d’energie, e quella stanza era vuota di qualunque oggetto potesse servirle per colpire il suo nemico.

Un pugno frantumò il suo scudo, troppo flebile per resistere, e l’urto la colpì in pancia facendola piegare sotto una fitta di dolore.

Con una gomitata le colpì la schiena, facendola piegare nuovamente a terra.

Raven non perse tempo, ignorando il dolore rotolò sul lato e si rialzò, mentre le sue mani si ricoprivano di nera energia sotto forma di artigli rapaci.

Si buttò contro Slade, e I suoi artigli ferirono profondamente la carne delle braccia, poste di fronte al corpo in forma di difesa.

Tentò d’infliggere un nuovo colpo, ma venne schivato, e le mani dell’altro la afferrarono, facendola girare su se stessa.

Raven in meno d’un battito di ciglio si trovò scaraventata contro la parete, I polsi immobilizzati dietro la schiena dalle mani di Slade ed il suo corpo a premerla contro la parete, rendendole impossibile I movimenti.

“Non essere patetica, Raven” le sussurrò all’orecchio, malignamente.

“Sei un vigliacco” sputò fuori dai denti le parole con malcelata rabbia “Mi hai drogata e lasciata senza cibo.”

La risata di gola dell’uomo vicino al suo viso la fece rabbrividire.

“Vedi ciò che voglio mostrarti?” chiese con candore l’altro “La tua parte umana è fragile, inerme di fronte a semplici ostacoli come questi.”

Con un ringhio di rabbia un nuovo scudo si creò fra i loro corpi ed esplose in frammenti di buio che sbalzarono Slade lontano da lei.

Allora si girò, unendo le mani e lanciandogli contro un dardo d’energia nera che lo colpì in pieno petto, facendo cadere indietro con un lamento sorpreso.

Quando si rialzò, gli ci vollero pochi secondi di tornarle addosso, colpirla duramente con calcio sul viso, afferrandole poi la testa e sbattendola con violenza contro la parete metallica.

Raven non resistesse, non ce la fece, prostrata dalla stanchezza e dal dolore, accentuato dall’urto che le aveva quasi fatto perdere I sensi.

Sentì un viscido rivolo di sangue colarla sul lato del viso.

S’accasciò, gemendo sconfitta.

Slade l’afferrò per I capelli, sollevandola.

“Sei debole, Raven.” Mormorò con soddisfatta cattiveria avvicinando I loro visi “Ma se mi ascolterai, tutto questo cambierà. Tornerò da te e finalmente potremo discutere del futuro, potrai accogliere il progetto di cui farai parte e dimenticare ogni inutile fantasia di fuga o libertà.” 

La voce dell’uomo le arrivò distante e confusa, mentre I suoi occhi vagavano sconfitti e dolenti sui contorni della sala.

Sentì il suo corpo cadere nuovamente a terra, e i passi di Slade che s’allontanavano.

Braccia forti e fredde la trascinarono via, le braccia degli automi dell’uomo che così l’aveva ridotta, e ben presto le forme sfocate della sua cella tornarono ad essere il miserabile sfondo di quella confusa agonia.

--- Nel prossimo capitolo ci saranno finalmente delle risposte, grazie a tutte per le recensioni e spero che sia valsa la pena di leggere.

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