Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** 1. A giant's at the door in amazement *** Capitolo 2: *** 2. This is a tale of a northern soul *** Capitolo 3: *** 3. La donna dei miei guai *** Capitolo 4: *** 4. A melting snowman I was told *** Capitolo 5: *** 5. It's called marriage, honey *** Capitolo 6: *** 6. I tell you so many lies and then I'll let you go into the night *** Capitolo 7: *** 7. Mad man with a mad plan *** Capitolo 8: *** 8. This town ain't big enough for the both of us *** Capitolo 9: *** 9. And from the edge of Ireland shout out loud *** Capitolo 10: *** 10. The perfect halo of gold hair and lightning *** Capitolo 11: *** 11. She was built with a brain and some swagger *** Capitolo 12: *** 12. Won't be no peace when I find that fool who did that to you *** Capitolo 13: *** 13. Some say I am to blame. – Brother, brother, some days I feel the same. *** Capitolo 14: *** 14. It is a wise father that knows his own child *** Capitolo 15: *** 15. Is there a man who would be king? *** Capitolo 16: *** 16. Forever and a year ***
Capitolo 1 *** 1. A giant's at the door in amazement ***
1
1.
A giant’s at the door in amazement
«Salute,
dama Erin!»
L’irlandese
allontanò le labbra dal flauto e sorrise affabile ai cortigiani che dal basso
la guardavano rispettosi, le mani alzate in segno di saluto.
«Salute a
voi, signori.» rispose loro; «Mi auguro che la mia musica non vi disturbi.»
Gli
asgardiani scossero la testa quasi all’unisono:
«Giammai,
altezza. È un piacere udire le vostre note nell’aria.» garantirono, e per
quanto tutto ciò rientrasse nei rituali di cortesia della gente di corte Erin
capì che erano sinceri. Dopotutto nemmeno gli Æsir avrebbero storto il naso di
fronte all’Entracte della Carmen, e lei eseguiva quel pezzo con
grande gusto, si disse.
Il
gruppetto di dignitari s’inchinò e la giovane donna li osservò andar via dall’alto
della sua postazione, ancora sorridente: essere trattata con tale deferenza era
oltremodo piacevole – bizzarro, specialmente all’inizio, ma piacevole. Le
comunicava una netta sensazione di potere, le rammentava che tutto era reale,
forse addirittura la rassicurava.
Su
Midgard era passato quasi un anno da quando Thanos era stato sconfitto e lei,
la musicista di Galway, era divenuta la prima nuora del Padre degli Dei; in
Irlanda e a Boston era inverno inoltrato, adesso, un febbraio di vento secco e
irrequiete nubi grigie, e l’aria gelida le pungeva le guance ogni volta che la
cascata iridescente del Bifröst la depositava sulla Terra.
Ad
Asgard, invece, soltanto le cime dei monti lontani erano imbiancate. Il Reame
Eterno non conosceva una vera e propria stagione fredda, benché da qualche
tempo le ancelle avessero tirato fuori dai guardaroba sontuose pellicce e
pesanti coperte di lana e broccato e fosse gradevole stare seduti vicino ai
braceri bevendo vino caldo.
Erin
aveva scandito il trascorrere del tempo con le proprie visite sul pianeta che
l’aveva vista nascere, che fosse da sola o col marito, per lavoro o per
diletto.
Fare la
pendolare usando il Ponte Arcobaleno si era rivelato assai meglio del muoversi
in treno o autobus: il segreto era abituarsi a quell’assurdo viaggio tra i
mondi e tenere a bada lo stomaco. Heimdall le riferiva puntualmente le
comunicazioni della sua famiglia e degli amici orchestrali, e lei rideva sempre
nell’immaginarsi sua madre o Sylvia che cercando di non dare nell’occhio gridavano
al cielo i propri messaggi, qualunque essi fossero. C’erano stati altri
concerti, il suo compleanno che cadeva d’agosto, le festività natalizie e
quelle per l’anno appena iniziato, e altrettanti erano stati gli impegni
asgardiani: banchetti, cerimonie, ricevimenti con ambasciatori provenienti da territori
più o meno leali a Odino, allegre scorrerie in compagnia del suo roboante
cognato e dei suoi compari – e tutti i giorni e tutte le notti che viveva al
fianco del suo amato, intrigante sposo.
Eppure
non era accaduto niente di particolare, non ancora. Sembrava voler pazientare,
il principe suo consorte, e studiare e ponderare sopra molte cose prima di
mettere in pratica qualsiasi mossa, prima di elaborare nuovi piani. Non che a
Erin dispiacesse quella pace, ma sapeva che lo avrebbe seguito ovunque e
comunque, quando fosse giunto il momento.
La brezza
fece frusciare gli spartiti sul leggìo di legno che aveva di fronte e
l’irlandese scrollò le spalle, riavvicinando lo strumento alle labbra e
tornando a concentrarsi sulle note.
Loki
guardò la sagoma della moglie appollaiata sul balcone di una delle alte torri
del palazzo, il lucore argenteo del flauto ben distinguibile tra le sue mani, e
rise appena. La donna d’Irlanda era rimasta sfrontata e sicura di sé, come a
lui piaceva, e l’irriverente garbo con cui si rapportava alle genti del regno
gli dimostrava che non era affatto cambiata.
«La tua
giovane signora si è abituata in fretta alla vita di Asgard.» disse una voce
pacata alle spalle del dio: Odino era entrato nella stanza, vestito con abiti
informali, e raggiunse il figlio alla finestra per godersi il sole del
meriggio; «Grande è invero la sua tempra.»
«Lo so.»
annuì Loki con una certa, compiaciuta ovvietà. «Hai messaggi per me, padre?»
«Solo di
rammentare il banchetto di questa sera. L’inverno sta finendo ed è tempo di
festeggiare.» replicò il re sorridendo, e toccandogli una spalla si congedò.
Il Dio
degli Inganni distolse lo sguardo dalla figura lontana di Erin e fissò lo
scintillìo d’acqua e oro che si apriva sotto di lui. Era placido, indolente, e
così lui si sentiva – ed era insolito, eppure da circa tre stagioni sentiva che
era giusto non avere fretta, e osservare, e comportarsi come tutti si
aspettavano da colui che, risorto dalla propria rovina, li aveva salvati.
Sapeva
che la sua sposa aveva iniziato a scalpitare, chiedendosi quando l’avrebbe
finalmente messa a parte di rinnovate, esaltanti idee di conquista, ma sapeva
anche che quando si ha l’eternità dalla propria non si ha motivo di correre:
aveva compiuto abbastanza azioni avventate, in passato, e raramente gli avevano
giovato. Era pur vero che l’eternità non riguardava l’irlandese, rammentò, e
nonostante questo riteneva che essere nell’universo da ventisette primavere
terrestri fosse un tempo sufficientemente breve da permetterle di restare con
lui per molti altri anni ancora.
La
morbida melodia suonata da Erin gli giunse tremolante alle orecchie attraverso
l’etere limpido, e al contempo un sentore completamente diverso gli punse la nuca:
era gelido, strisciante e appena accennato, e sembrava provenire dal buio di
quei sentieri tra i mondi noti a lui soltanto. Dopo le infauste vicissitudini
causate dal Folle Titano aveva ritenuto saggio bloccare la maggior parte dei
segreti ingressi alla Dimora degli Dei, tranne quelli che avrebbero potuto
servirgli; erano pochi, giusto un paio, e strategici, e in quei mesi non ne
aveva mai fatto uso né vi aveva colto segnali che potessero preoccuparlo. In
quei mesi, fino a quel preciso momento. Molto probabilmente non si trattava di
alcunché di allarmante o minaccioso, e tantomeno di allettante, vantaggioso per
lui, ma doveva controllare.
Così si
allontanò di malavoglia dalla grande finestra affacciata sul cielo, gettando
un’ultima occhiata al punto distante e luminoso dove la donna d’Irlanda si
trovava, e senza fretta si avviò lungo i corridoi ombreggiati della reggia. Il
velluto verde del giustacuore che indossava gli frusciò sulle gambe nello
scendere le innumerevoli scale che conducevano ai piani inferiori: era diretto
alle sale riservate ai suoi studi, dove conservava tomi e cimeli preziosi al
pari di quelli compresi tra i tesori di Odino e da dove avrebbe potuto
intercettare qualunque essere o cosa si stesse avvicinando, poiché era da lì che
le sue vie nascoste si dipartivano.
Nessuno tra
dame e cortigiani gli domandò dove stesse andando, impegnati com’erano coi
preparativi del convito serale; s’inchinarono e basta, nell’incrociarlo, e il
principe scivolò oltre con altera concentrazione.
La stanza,
ampia e lunga, era immersa nel silenzio, e perfettamente immota.
Loki
lasciò accostata un’anta della grande porta ricca d’intarsi che ne delimitava
la soglia, certo che nessuna guardia si sarebbe arrischiata ad avvicinarsi
senza essere chiamata, e avanzò fino all’unica parete cieca del salone. Il
chiarore del giorno prossimo a calare filtrava dai trafori di marmo e ottone
che chiudevano le alte monofore, e lui ne calpestò il disegno sul pavimento
lucido quasi senza fare rumore. Superò tavoli e scaffali carichi di libri e
oggetti dalle molteplici forme che si confondevano nella poca luce, e quando
raggiunse il fondo del locale pose una mano sul muro fresco e liscio,
tastandolo; quindi socchiuse le palpebre e prese a mormorare parole che da
tempo non pronunciava, dall’ultima volta in cui aveva concesso ai Giganti di
Ghiaccio di penetrare ad Asgard.
Il
pensiero degli jotun lo colpì, scioccamente: il sentore gelido che gli aveva
solleticato la nuca una manciata di minuti prima era sempre lì, e si faceva più
intenso.
La voce
gli crebbe nell’enunciare le sillabe finali della formula e con le dita
premette appena sulla pietra, allontanandosi di un passo – e sulla parete si
delineò una fenditura dai contorni danzanti, una sorta di stretto uscio aperto
su stelle e oscurità che vacillavano e svanivano a tratti. Qualcuno allora si
fece avanti attraverso quel nulla, titubante e forse sorpreso, e il Dio degli
Inganni distinse una robusta creatura dalla pelle cerulea coperta da una
leggera armatura di cuoio scuro. Un manto di pelliccia gli pendeva dalle spalle
e una corta daga dal fianco sinistro, e le sue iridi sanguigne lo fissavano
prive di astio.
«Credevi
di passare inosservato, Gigante?» lo apostrofò Loki, aspro. Se non fosse stato
per lo strano sguardo dell’altro non si sarebbe fermato a parlare, si disse. Il
disprezzo che provava nei confronti delle genti di Jotunheim gli arroventava
già le viscere, eppure qualcosa nello jotun che aveva di fronte lo incuriosiva
in maniera quasi malsana.
«Credevo
che avrei faticato a trovarti, principe.» fu la risposta.
«Io non
ho faticato a trovare te. Non sai che
la strada che hai percorso è sotto il mio controllo? Quale stolto motivo ti
spinge a cercarmi qui, nella casa degli Æsir, con tanta sfrontatezza?»
Il
Gigante si avvicinò, abbandonando la zona d’ombra, e l’asgardiano notò che i
tratti del suo volto, per quanto spigolosi, erano nobili e armonici, adatti
all’età non avanzata che dimostrava di avere. Gli rammentava qualcuno, ma d’altronde
quegli esseri erano tutti simili tra loro.
«Per
vederti, conoscerti. Per convenire con te.» replicò l’intruso, e quella che
sembrava una totale assenza di propositi ostili nei suoi modi e nel suo tono
indusse il dio a rimanere fermo dov’era, arrovellandosi sull’enigma vivente che
stava fronteggiando.
«Chi sei,
Gigante?» sibilò.
«Býleistr
è il mio nome, principe.» l’altro dichiarò, e un lieve sorriso gli si dipinse
sulle labbra sottili: «Býleistr, figlio di Laufey.»
Note
Salve salve salve. Avevo promesso che il Duo degli Inganni sarebbe presto
tornato, ed eccoveli qui!
In realtà il mio piano originario prevedeva che iniziassi la pubblicazione
di questa seconda storia soltanto dopo averla finita di scrivere, ma ho dovuto
cambiare idea: il fatto è che più ne sappiamo (o non ne sappiamo) su The Dark
World e più noto certe inquietanti coincidenze tra le mie trovate e quelle
che sono o potrebbero essere quelle della Marvel. Ergo, per quanto tele(s)pa(s)tici
possiamo essere io, Taylor, Feige e compagnia bella, ho ritenuto opportuno dare
alle stampe la mia opera prima che il film esca, anche se con il film non ha
davvero niente a che spartire.
E visto che s’inizia col botto… beh, Býleistr è un personaggio esistente
nella mitologia norrena. Altro non dirò ;)
Precisazione importante numero Uno: per ragioni di
continuità, e visto che comunque entrambe le mie storie si inseriscono sulla
scia della linea narrativa degli Avengers,
ho inserito anche questa nella sezione a loro dedicata, sebbene sia di stampo
ben diverso dalla prima e molto, molto più asgardiana. Se trovate che ciò violi
le regole del sito la sposterò.
Precisazione importante numero Due: se siete giunti
qui senza leggere la Majestic Tale
bisogna che rimediate, o vi sarete persi tutta la vicenda primigenia che ha
portato Erin e Loki a conoscersi e tutto il resto. Anche se questo significherà
leggere la suddetta Majestic con un
notevole spoiler sulle spalle. Pardon!
Il titolo Kill the Irishwoman! è
una citazione del titolo del film Kill
the Irishman di Jonathan Hensleigh, e se vi sembra che non prometta niente
di buono non vi resta che proseguire la lettura.
Il titolo del capitolo è invece un verso di Soul wars degli Awolnation. E come ‘ouverture’ musicale consiglio Shock to the system di Billy Idol, che
sarà anche uno dei brani portanti di tutta l’avventura.
Bene, a questo punto non mi resta che incrociare l’incrociabile, sperare
che vi piaccia/intrighi/incuriosisca e darvi appuntamento al prossimo capitolo,
presumo tra una settimana. Attendo responsi :)
Capitolo 2 *** 2. This is a tale of a northern soul ***
2
2.
This
is a tale of a northern soul
Il Dio
degli Inganni vacillò, incapace di credere a ciò che le sue orecchie avevano
testè udito.
Razionalmente
parlando, la rivelazione non era poi così inaudita. Laufey era un re,
dopotutto, e garantirsi una discendenza era uno dei primi compiti di un
sovrano: un unico figlio – ripudiato, per di più – non era certo sufficiente
allo scopo. Eppure l’idea che colui che aveva di fronte fosse l’altro rampollo
del suo indesiderato padre biologico lo sconcertava.
Býleistr,
ripeté mentalmente, figlio di quel Laufey che lui stesso aveva ingannato e
ucciso con sommo piacere, Býleistr che era evidentemente nato con tutte le
buone caratteristiche che si richiedono a un principe jotun e che con ogni
probabilità era l’attuale detentore del trono del Reame dei Ghiacci Imperituri.
Býleistr, suo fratello.
Loki
serrò le palpebre per una frazione di secondo, ignorando la morsa che gli
chiudeva lo stomaco, e decise di non dare niente per scontato: non sapeva quali
storie si narrassero su Jotunheim circa il figlio perduto di Laufey, se se ne
narravano, né se il suo interlocutore era a conoscenza di esse e finanche del
tristo legame di sangue che sembrava unirli.
«Bene,
Býleistr figlio di Laufey.» disse dunque beffardo: «Continuo a non comprendere
cosa ti abbia spinto fin qui in cerca di un figlio di Odino.»
«Non di
un figlio di Odino, bensì di mio fratello.» rispose il giovane Gigante,
accorato.
L’asgardiano
contrasse impercettibilmente la mascella e la morsa nelle sue viscere si fece
forte come una tenaglia, ma poiché non proferì parola Býleistr proseguì:
«Ho
desiderato conoscerti di persona da quando ho scoperto che eri ancora in vita. Sarei
giunto prima, se non mi fosse stato detto che eri disperso nel vuoto tra i
mondi, e nell’apprendere del tuo ritorno ho atteso il momento opportuno.»
«Che ero
ancora in vita? Spiegati meglio.» lo interruppe il dio. Mantenersi impassibile
era difficile persino per lui, ora che pensieri inquietanti gli sfrecciavano
indisturbati nella mente come corvi impazziti. La vendetta per gli atti che
aveva compiuto contro gli jotun era la sola risposta plausibile che riusciva a
trovare per la presenza di Býleistr, e tuttavia questi seguitava a mostrare
un’espressione complice e commossa che preoccupava Loki più di una minaccia.
Preoccupava e incuriosiva, considerò tra sé.
«Sin
dall’infanzia ho ascoltato racconti sussurrati sul fratello maggiore che avrei
dovuto avere, scomparso in fasce prima ch’io nascessi, ma nessuno era in grado
di dirmi quale fosse la verità. O forse semplicemente nessuno voleva o poteva,
all’infuori di nostro padre.» il Gigante prese a spiegare, e il principe
rilassò appena le spalle; «Un giorno gli chiesi di parlarmi di te una volta per
tutte e lui mi confidò di averti perso durante l’ultima grande battaglia contro
Asgard. Mi disse che eri morto in quella furia, innocente ed inerme. Le voci a
corte e del popolo, però, erano di diversa opinione, e sostenevano che il primo
figlio del re era stato rapito dagli asgardiani in qualità di ostaggio. Non
scoprii mai quale delle due versioni fosse quella realmente accaduta, o se
entrambe o nessuna lo fossero, e in cuor mio accettai il fatto che non ti avrei
comunque mai incontrato. Avevo quasi cessato di rifletterci su quando i
principi del Reame Eterno e i loro compagni si presentarono su Jotunheim a
seminar zizzania: io non ero presente, ma mi venne riferito che uno di loro,
toccato da uno dei nostri, pareva essere divenuto color del ghiaccio. Poi
quello stesso principe tornò, da solo, per proporre a mio padre un patto che
avrebbe portato alla caduta di Asgard, e ad Asgard mio padre si recò per
onorarlo. Non fece mai ritorno e Jotunheim fu sull’orlo della distruzione, e
seppi che il principe del patto era stato scagliato nel Nulla Cosmico in seguito
a una lotta feroce.»
Býleistr
tese una mano fin quasi a toccare una spalla di Loki e il suo tono crebbe in
ardore:
«Compresi
allora che costui era il mio perduto fratello e che aveva tentato in ogni modo
di fermare gli asgardiani, venendo sconfitto.» concluse; «Chi uccise Laufey e
ci scagliò contro la luce di Yggdrasil? Fu forse Thor col suo maledetto
martello?»
«Sì.
Eppure non ebbero mai la certezza che il tradimento venisse da me.» rispose
piano il Dio degli Inganni, soppesando ogni singola parola. Se il suo glaciale
congiunto era davvero ignaro di come erano andate effettivamente le cose non
gli avrebbe certo rovinato l’illusione. Né avrebbe avuto senso dire che il
Padre degli Dei sosteneva che il sovrano suo avversario aveva deliberatamente
abbandonato il proprio primogenito a morire di stenti: in fondo, Odino avrebbe
potuto propinargli qualunque giustificazione, all’epoca, e una menzogna in più
sul suo conto non avrebbe fatto alcuna differenza.
Lo jotun
abbassò il braccio e inclinò la testa per squadrarlo cortesemente:
«Perché
hai deciso di salvare gli asgardiani, dopo ciò che ti hanno fatto?» indagò.
Il dio
sogghignò: «Ho un concetto assai ampio di rivalsa.»
«E
uniresti la tua rivalsa alla mia, se te lo chiedessi?»
Loki
stirò le labbra in un aperto sorriso tagliente: «Ecco dunque perché sei qui.
Che io sia o meno il tuo ritrovato fratello ha poca importanza. Intendi muovere
contro Asgard per vendicare Laufey e Jotunheim tutta e cerchi in me un alleato.»
affermò, e già la sua mente prese a valutare febbrile le possibili strade che
quello scenario gli prospettava dinnanzi. Collaborare onestamente con le genti
dei ghiacci era fuori questione, ma se ciò gli avesse garantito dei concreti
vantaggi avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco. Per lui per primo il fatto
che Býleistr fosse o meno il fratello di sangue che mai aveva avuto aveva poca
importanza – o non ne aveva affatto: il Dio degli Inganni disprezzava Jotunheim
con ogni fibra del proprio essere, e un ennesimo stolto parente non avrebbe
mutato il suo sentire.
«Hai
ragione, principe, è un alleato che vado cercando nella terra degli Æsir. Non
credere, però, che il nostro legame non m’interessi, poiché mi è prezioso,»
annuì l’altro, «e un accordo tra noi lo onorerebbe soltanto. Sbaglio, forse,
fratello mio?»
«Saprò
risponderti solo conoscendo i tuoi piani.» disse Loki.
Býleistr
sorrise, fremente, le iridi color del sangue che brillavano fiere nella
penombra:
«Ascoltami,
allora. Se tu aprirai per noi le vie segrete che conducono qui io guiderò il
mio esercito attraverso di esse. Attaccheremo Asgard senza che il Guardiano
riesca a scorgere in tempo il nostro arrivo, e saremo così rapidi che i soldati
di Odino non avranno modo di organizzare un’efficace controffensiva. E tu,
principe, ci aiuterai in questo dall’interno. Poi Asgard sarà tua e mia
Jotunheim, e uniti potremo conquistare qualunque altro reame.»
Il dio
inarcò un sopracciglio, attento a non mostrarsi troppo scettico. Se anche il
figlio di Laufey era sincero nell’offrirgli il trono della Dimora degli Dei e
un’alleanza militare duratura, dubitava che in seguito gli avrebbe lasciato
totale libertà di azione e controllo: sarebbe stato comunque il sovrano di un
regno sotto il giogo di Jotunheim. E per quanto Loki desiderasse ancora per sé
la corona di Asgard, continuava a mirare pure alla sconfitta definitiva dei
Giganti, quella che non aveva portato a compimento a causa di Thor.
«Se
decidessi di aiutarti dovresti accettare un paio di mie condizioni.» ribattè
quindi, e al gesto d’assenso dello jotun le specificò: «Non tornerai più qui
sino al giorno dell’attacco e lascerai che io agisca come ritengo più saggio
fidandoti del mio operato. Sarò io a venire a Jotunheim per convenire con te.»
«Accetto,
ovviamente. E mi fiderò di te, se tu farai altrettanto con me.» asserì Býleistr.
«Non ho
ancora finito.» lo interruppe l’asgardiano con voce asciutta; «Voglio che tu mi
garantisca che il Dio del Tuono verrà ucciso in battaglia, platealmente, senza
pietà. Voglio che tutti vedano e che non abbia scampo. Ma ordinerai che Odino,
Frigga e i più fidati compagni di Thor siano lasciati in vita e presi
prigionieri, così che impotenti assistano. Ciò non riguarderà naturalmente la
mia sposa, che tratterete con il rispetto che una futura regina merita. Non è
una donna di Asgard e non c’entra con la nostra
rivalsa.»
Il
Gigante gli dedicò un sorrisetto storto: «Oh, sì, tua moglie. Ottempererò
volentieri alle tue richieste, fratello, e così tu farai con le mie. Una di
queste la concerne da vicino.»
Loki
deglutì in silenzio, dubbioso. Si domandò se quella di nominare Erin non fosse
stata una leggerezza, dettata dall’urgenza di evitarle guai inutili, e se nel
farlo non la avesse invece messa in pericolo. Rivolse un cenno a Býleistr e
questi parlò:
«Mi
riconsegnerai lo Scrigno degli Antichi Inverni. Appartiene di diritto a
Jotunheim e a noi deve tornare. Mi basterà averlo durante l’assedio per
utilizzarlo contro il nemico.»
«Immaginavo
che avresti parlato dello Scrigno e non ho niente in contrario al riguardo. Non
riesco tuttavia a immaginare cosa tu possa volere dalla mia consorte.»
Il
giovane dalla pelle cerulea sospirò: «Principe, un futuro re dei regni
congiunti di Asgard e Jotunheim non può essere legato a una femmina di razza
mortale. Per validi che siano i motivi che ti hanno spinto a sposarla, un’umana
non è degna del primo erede di Laufey il Grande. Rinnegala e il nostro accordo
sarà sancito, se tu lo vuoi.»
L’asgardiano
trattenne a stento una risata di scherno e sollievo: era la richiesta più
ridicola che gli fosse mai stata posta, ed era quella che più facilmente
avrebbe potuto fingere di esaudire. Perché gli fu chiaro, in quel momento, che
non si sarebbe alleato davvero con Býleistr e gli jotun nemmeno per un giorno –
e se mai aveva avuto qualche remora, se mai aveva considerato di collaborare
con quel sedicente fratello di sangue comparso dal nulla, ora seppe con estrema
chiarezza che lo avrebbe sfruttato unicamente per raggiungere nuovi e antichi
obiettivi. Lo avrebbe attirato nella propria tana assecondando le sue idee di
gloria e ostentando odio per il Reame Eterno, come aveva fatto con Laufey, e
infine lo avrebbe battuto e ucciso. Sebbene il suo astio nei confronti di
Asgard fosse solo diminuito e non scomparso, la Dimora degli Dei era la sua tana, e la rovina che bramava
era quella di Jotunheim.
«Concedimi
due o tre dì per decidere e sistemare eventualmente le cose. Verrò da te con la
risposta.» disse in tono solenne. Accettare al volo sarebbe parso sospetto
persino trattandosi di lui e persino agli occhi di un rozzo Gigante di
Ghiaccio.
«Tre
giorni. Spero con tutto il cuore che quando verrai avremo il nostro accordo.»
acconsentì Býleistr, e tendendo nuovamente il braccio strinse con veemenza la mano
destra di Loki in un tacito ringraziamento: la carnagione pallida del dio si
tinse di una quieta sfumatura di blu che iniziò a espandersi dalle dita al
polso e serpeggiando s’insinuò sotto la manica della sua tunica di velluto
verde. Il principe ingannatore la avvertì avanzare distintamente, gelida e
pungente, la riconobbe mentre gli carpiva la spalla e il collo avvicinandosi al
volto, e in fretta si liberò dalla presa dello jotun senza smettere di
fissarlo.
«A
presto, fratello.» decretò, e come accadeva con Thor quell’appellativo produsse
sull’altro l’effetto voluto e un sorriso d’intesa. Stolti, pensò, stolti e
prevedibili.
Býleistr
arretrò finché il vuoto di buio e di stelle oltre la fenditura nel muro non
tornò a inghiottirlo, e prima che il dio chiudesse la soglia dai bordi danzanti
ammiccò un’ultima volta. Poi la parete si fece di nuovo liscia e uniforme e la
stanza silenziosa, e per pochi minuti Loki rimase fermo dov’era, bagnato dalla
luce sempre più fioca che filtrava dai trafori delle alte monofore, ascoltando
il tambureggiare sordo del proprio cuore nelle orecchie. Non era nervoso, ma
l’incontro col figlio di Laufey non l’aveva lasciato indifferente.
Lentamente
girò i tacchi e percorse al contrario il corridoio centrale della grande sala,
giunse alla porta e se la chiuse alle spalle, e impassibile com’era venuto si
diresse alle scale che conducevano ai piani superiori della reggia.
«Trascorrete
una buona serata, altezza.» gli augurarono alcuni ufficiali di guardia nel
vederlo passare, ignari e ossequiosi, riferendosi al banchetto di corte.
Il sole
sfiorava ormai i monti innevati quando arrivò sul balcone della torre dove Erin
si trovava quel pomeriggio: lei era ancora lì e stava riponendo flauto e
spartiti, e nell’udire i suoi passi si voltò verso di lui con un sorriso radioso,
i capelli un po’ scarmigliati dalla brezza.
«Non dovresti
già essere a prepararti?» la apostrofò Loki, sornione.
«Ci vado
adesso. Per come la vedo io noi non arriviamo mai né in ritardo né in anticipo,
marito. Arriviamo esattamente quando intendiamo farlo.» lo rassicurò
l’irlandese.
«Non mi
stavo preoccupando, infatti.» rise lui.
La
musicista rise di rimando e rientrò nel palazzo, e il Dio degli Inganni indugiò
presso la balaustra intarsiata. Mirò ancora la distesa di acque e palazzi ai
suoi piedi e si accigliò: sapeva come muoversi e non poteva permettersi di
aspettare a lungo. Al termine dei festeggiamenti avrebbe perciò dovuto
comunicare notizie poco piacevoli ai suoi sciocchi familiari e – soprattutto –
alla sua donna d’Irlanda. E avrebbe scelto con cura le parole da dire.
Note
Perché se Erin non cita Tolkien e i suoi
personaggi almeno una volta al giorno non è contenta :D
Domando scusa per il ritardo nell’aggiornamento: sono
abbastanza impegnata e, lo ammetto, speravo di ricevere qualche recensione nel
frattempo. Niente recensioni – comincio a farci l’abitudine – ma in compenso
siete già in sei a seguirmi e vi ringrazio una per una: blackwhiteeli, Danielle_Lady
of Blue Roses, Destiel_Doped, Krisy, Smith of lies e Strix.
Grazie mille, mi auguro che rimarrete più che soddisfatte! :)
Býleistr, come ho già detto, è un personaggio esistente
nella mitologia norrena ed è indicato nell’Edda
come uno dei fratelli di Loki. Per scoprire qualcosa di più sul suo conto in
questa versione simil-MCU dovrete aspettare… Riguardo allo scorrere delle
stagioni ad Asgard confesso di stare andando di completa e personale fantasia,
immaginando che sia più o meno simile a quello midgardiano ma con tempi più
lunghi (non lunghi come i cicli di Westeros in Game of Thrones, però). E ci tengo a precisare che sono quasi al
termine della stesura del dodicesimo capitolo sui quindici totali che saranno.
Le sooooolite nozioni musicali da musicista spiantata
quale sono: il titolo del capitolo è il verso d’inizio della canzone A northern soul dei Verve (this is a tale of a northern soul / looking
to find his way back home / he’s coming from that same old road) e il brano
che consiglio come sottofondo per il dialogo tra Loki e lo jotun è Violet Hill dei Coldplay.
Prometto che aggiornerò con maggior tempestività, alla
prossima. Ossequi asgardiani per tutti!
Il
banchetto di quella sera rasentò la perfezione. Gli invitati non erano molti,
l’atmosfera informale, e l’aria che a tratti soffiava dalle grandi finestre del
salone dei ricevimenti aveva un profumo che presagiva l’imminente arrivo di
venti più miti.
Erin
trascorse quasi l’intera cena a dialogare con Frigga degli inverni midgardiani
e con Thor delle più recenti visite di quest’ultimo alla giovane astrofisica
del New Mexico, alternando scoppi di risa a gustose sorsate di vino speziato.
Spesso tentò di coinvolgere il marito nella conversazione, ma sembrava che Loki
fosse assorto in ben altri pensieri: era serio, lo sguardo distante, e si degnò
di rispondere laconicamente solo per non insospettire la consorte prima del
tempo. Inoltre l’irlandese era di ottimo umore e assai bella, adorna di un
semplice abito del colore del cielo al tramonto che le ricadeva fluido lungo i
fianchi e le lasciava nude le spalle, e il Dio degli Inganni godeva enormemente
di tale vista.
Tuttavia
non si lasciò distrarre, e mentre i musici di corte, a pasto terminato,
intonavano una ballata sulle gesta delle Valchirie, prese da parte Odino con
estrema discrezione:
«Padre,
debbo chiederti di venire con mia madre, mio fratello e mia moglie in una sala
privata, lontano da possibili orecchie indiscrete.» mormorò, appena udibile tra
canti e voci.
Il re
abbassò il calice d’oro che aveva in mano e lo guardò:
«Vuoi che
abbandoniamo i festeggiamenti senza dare spiegazioni? Non intendo turbare le
genti di corte senza un dichiarato motivo, Loki, non stasera.»
«Possiamo
attendere che prendano congedo, ma ciò di cui intendo discutere è di vitale importanza
per il regno intero.» disse il principe, brusco; «A te la scelta.»
L’occhio
di Odino saettò nella luce ambrata dei fuochi accesi, carico di apprensione
improvvisa, ed egli affidò il proprio bicchiere a un valletto di passaggio per
poi prendere il figlio sottobraccio e condurlo in un angolo più appartato,
vicino alle finestre:
«È
accaduto qualcosa di grave?» s’informò in fretta, e l’altro per un istante si
compiacque dell’ansia che colse nel suo tono, dimentico di averla provata lui
stesso di fronte a Býleistr.
«Non
ancora, padre, non ancora. Accadrà però se non mi darai ascolto.» rispose.
«Non ho
mai detto di non volerti dare ascolto.» precisò il Padre degli Dei, e Loki non
riuscì a capire se fosse dispiaciuto o allarmato; «Vado a chiamare tua madre e
ad avvisare i dignitari che ci ritiriamo. Parleremo nei miei alloggi.»
Così si
separarono, e il dio dai capelli neri tornò da Erin – la quale era convinta che
sarebbero rimasti alla festa il tempo sufficiente per strappare un brano
danzereccio ai musicanti e che dunque non fu entusiasta nell’apprendere le
novità. Tuttavia non insistette, poiché lui appariva troppo inquieto per
ritenere che si trattasse di una questione da poco. Thor fu invece semplice da
convincere e seguì solerte i due sposi fuori dal salone illuminato.
«Quale
passaggio mi sono persa, stavolta? Sono forse sorti problemi diplomatici nel
cazzeggio cui ci stavamo dedicando fino a dieci minuti fa?» se ne uscì caustica
l’irlandese frattanto che percorrevano di buona lena i corridoi deserti del
palazzo. Si era dimenticata di poggiare la propria coppa di vino da qualche
parte e ne approfittò per bagnarsi la gola.
Nessuno
dei due asgardiani le rispose, probabilmente per ragioni diverse, e
continuarono a camminare di fronte a lei fino a raggiungere le camere di Odino
e Frigga; la musicista di Galway fece spallucce e tenne loro dietro seguitando
a bere, mentre i principi istruivano i soldati di guardia e attendevano i
sovrani sulla soglia. Stava cominciando a innervosirsi, e non per la la brusca
interruzione della cena: come il resto della famiglia reale sentiva di essere
all’oscuro di qualcosa, e il silenzio ostinato di Loki, che di solito non la
riguardava, non le piaceva per niente. Se v’erano guai in arrivo non
l’avrebbero solo sfiorata, suppose.
«Cosa
accade di tanto urgente?» domandò la regina entrando nella stanza.
«È ciò
che anch’io vorrei sapere. Quando abbiamo conversato questo pomeriggio parevi
sereno, figlio.» aggiunse il re nel chiudere la porta. Le loro cinque sagome si
stagliarono riflesse sul pavimento bronzeo, assieme alle fiamme dei lumi e
delle torce, e da lontano giunsero i suoni del banchetto, ben riconoscibili
nella quiete notturna.
«E lo
ero. Quello di cui vi sto per mettere al corrente è avvenuto poco dopo la
nostra conversazione.» disse il Dio degli Inganni a braccia conserte; Erin aprì
la bocca per intervenire, ma il marito la prevenne e proseguì: «Ho colto
movimenti estranei presso uno degli ingressi segreti alla reggia e mi sono
immediatamente recato a controllare di chi o cosa si trattava. Ho aperto uno
spiraglio, e da esso un esiguo manipolo di jotun si è affacciato.»
«Giganti?»
proruppe Thor in un ruggito strozzato. Nonostante indossasse vesti morbide e
non avesse Mjölnir con sé, le sue mani si serrarono d’istinto in pugni
rabbiosi: «Stai forse dicendo che alcuni jotun sono penetrati ad Asgard e tu
non hai dato l’allarme, fratello?»
L’altro
non si lasciò impressionare né dalla sua furia né dal gelo che sembrava essersi
impossessato delle membra e delle espressioni di Odino e Frigga; la donna
d’Irlanda si limitò a inarcare entrambe le sopracciglia e a tracannare l’ennesimo
sorso di vino.
«Non ho
dato alcun allarme perché erano in troppi, una mezza dozzina, e mi avrebbero
attaccato prima che potessi farlo.» mentì Loki, che aveva già pianificato di
non lasciarsi sfuggire nemmeno una parola su Býleistr; «Inoltre il loro intento
era dichiaratamente quello di convenire con me, pertanto ho ritenuto saggio
assecondarli e udire la loro ambasciata.»
Il Padre
degli Dei sedette pesantemente su di un seggio imbottito:
«Volevano
convenire con te a proposito di cosa?»
domandò in un soffio, e se nel suo sguardo Erin lesse qualcosa di molto vicino
allo sgomento, né a lei né al principe ingannatore sfuggì il lampo di sospetto
che balenò invece in quello ormai vigile del Dio del Tuono.
Loki
inspirò a fondo, pronto a sciorinare loro il discorso più o meno onesto che si
era mentalmente preparato prima e durante il ricevimento di corte.
«Di
un’alleanza. Un accordo volto a schiacciare Asgard una volta per tutte, a
vendicare la morte di Laufey e la tentata distruzione di Jotunheim.» esordì; «Mi
hanno offerto un trono, il potere, chiedendomi in cambio di aprire un varco per
il loro esercito ed invadere così il Reame Eterno. Non mi hanno dato ragioni
per pensare che sappiano che sono stato io a compiere le efferate azioni per
cui reclamano vendetta. Credono anzi che sia stata opera di Thor e che la mia
caduta dal Ponte sia stata una conseguenza del fatto che ho cercato di
fermarlo.»
«Come
possono essere tanto sciocchi?» grugnì il biondo, stupito.
Il dio
dai capelli color del buio ebbe la tentazione di sorridere: «Sanno chi sono e
da dove vengo. Qualunque Gigante di Ghiaccio, per quanto stolto, troverebbe più
plausibile che colui che li ha colpiti sia il figlio di Odino, piuttosto che il
perduto erede del loro sovrano. Non sanno con esattezza cosa mi accadde da
infante, non sanno che non li ho mai considerati la mia gente, e certo non ho
affermato il contrario di fronte a loro.»
«Significa
che hai accettato il loro accordo? Sei forse impazzito?» lo aggredì Thor, la
voce pericolosamente gutturale, agguantandolo per una spalla.
«Se
avessi opposto un netto rifiuto adesso non sarei qui.» replicò Loki a denti
stretti, pur mantenendo la calma: «E poiché non hanno alcuna intenzione di
desistere è meglio giocare d’astuzia per evitare il peggio. Fingere per
attirarli in una trappola, convincendoli che la trappola sia a vostro danno. È
ciò che feci per sconfiggere Laufey.»
«E tu sei
l’esperto intergalattico dell’astuzia.» commentò Erin debolmente da dietro il
calice, strappando al consorte una brevissima occhiata d’intesa ammiccante.
Odino si
rialzò, raggiungendo Frigga che si torceva le dita, e scosse il capo:
«Stai
dicendo che vuoi ingannarli, che agirai come se tu fossi loro alleato per poi
debellarli? Non sarebbe più semplice se tu non rispondessi alla loro proposta?
Hanno bisogno del tuo aiuto per passare attraverso i sentieri oscuri, perciò se
rifiuterai saranno bloccati.»
«Non
desisteranno tanto facilmente. Le vie segrete sono molte e neppure io le
conosco tutte, e potrebbero sempre cercare altri alleati dotati di navi da
guerra con le quali attaccarci dal cielo, come avvenne con Thanos e le sue
truppe. Non possiamo rischiare. Inoltre,» rispose il Dio degli Inganni, «desidero
batterli in maniera definitiva.»
E sebbene
non desiderasse mostrargli pietà o comprensione, quel sedicente fratello di
sangue comparso dal vuoto di stelle e oscurità continuava a incuriosirlo suo
malgrado.
Thor
mollò la presa sulla sua spalla, l’espressione di nuovo pacata:
«Non hai
torto, fratello, ma ci servirà un piano perfetto. Come vorresti muoverti?»
«Andrò su
Jotunheim regolarmente con il pretesto di fornire loro informazioni e dettagli
sul palazzo, sull’assetto dell’esercito, sui nostri punti deboli. È ovvio che
non dirò loro la verità, e al contempo studierò la situazione bellica degli
jotun, osserverò le loro mosse e incontrerò i loro generali. Quando verrà il
momento di aprire loro la strada per attaccare Asgard crederanno di trovare gli
Æsir impreparati e liberi i sentieri che portano dentro la reggia, e così non
sarà.» illustrò Loki, la voce vibrante, fissando i suoi interlocutori, e dai
loro visi attenti capì di averli in qualche modo convinti. Restava una cosa da
sistemare.
«Tutto
questo puzza di guerra lontano un miglio.» disse l’irlandese.
«E guerra
sarà, Erin. Sarà pericoloso, e mi sentirò più tranquillo se non sarai qui
finché non sarà finita.» la interpellò allora il marito cogliendola di
sorpresa.
Il re, la
regina e il Dio del Tuono guardarono alternativamente i due coniugi, perplessi,
e la flautista lanciò un’esclamazione poco ortodossa: «Se non sarò qui? E dove dovrei essere, su Midgard in
esilio come voialtri? Perché cazzo non posso restare?»
«Sì,
Erin, su Midgard. Ogni potenziale nemico tende a considerare le spose e le
compagne altrui come punti deboli da sfruttare, e non voglio che ti accada
niente.» fu la risposta.
Lei fece
una smorfia e sbatté con violenza il bicchiere vuoto sopra una cassettiera:
«E sarò
più al sicuro sulla Terra che ad Asgard, dove ci sono fior fior di soldati con
le armi anche nelle braghe e dove ci sei tu?
Non prendermi per i fondelli, Loki.»
Il
principe le andò vicino e le cinse i fianchi con entrambe le braccia:
«Sulla
Terra dove gli jotun non verranno mai a cercarti, qualora volessero farlo.»
sottolineò in tono più sommesso; «Dove non ci saranno scontri o attentati alla
tua persona.»
«Ho già
combattuto, se non sbaglio. E perché dovrebbero attentare alla mia persona?»
sbuffò Erin senza però liberarsi dall’abbraccio. Eccoli, i guai, pensò stizzita,
e la prospettiva di starsene per giorni e giorni a Boston, o a Galway, da sola
e senza poter tornare, le chiuse la bocca dello stomaco. Si era disabituata a
stare separata dal suo ingannatore divino.
In quella
Frigga si fece avanti, interrompendo con garbo la loro discussione:
«Erin,
purtroppo mio figlio dice il giusto. Nei terribili giorni dell’assedio del
Folle Titano fosti costretta a impugnare le armi e lottare, ma in questo caso
puoi evitarlo. Puoi scegliere, e attendere in sicurezza che la battaglia passi.»
interloquì; «Sei una dama, sei un membro della famiglia reale, e devi essere
protetta. Se fosse possibile io stessa mi allontanerei da Asgard.»
L’irlandese
si rilassò appena e Loki dedicò un cenno di ringraziamento alla madre – e
dacché Thor e Odino annuirono a loro volta, la musicista comprese che
concordavano con la regina e che avrebbero sostenuto l’idea del principe
cadetto di mandarla sul pianeta natìo.
Pertanto sospirò
e dette un paio di colpetti sul petto del consorte:
«Pare che
siate tutti del medesimo, saggio avviso. Mi arrendo. Quando dovrei partire?»
«Quanto
prima. Domani, tra due dì al massimo.» disse lui.
«Prima
Loki inizierà ad agire e prima tutto questo finirà.» soggiunse il re.
«Nel bene
o nel male.» borbottò Erin, e con ciò uscì a precipizio dalla stanza.
I sovrani
e i principi restarono in silenzio a guardarsi, a disagio, accompagnati dallo
stacchettare furioso della flautista nel corridoio e dalla calma finalmente
calata sul palazzo e sui bastioni. I festeggiamenti dovevano essere terminati.
«Se me lo
consentite, vorrei seguire la mia sposa.» annunciò il Dio degli Inganni.
«Naturalmente,
figlio. Parleremo più avanti dei dettagli del tuo piano.» assentì il Padre
degli Dei con un accenno di sorriso. Tuttavia il suo occhio era grave, e così
lo furono i gesti con cui Frigga e il Dio del Tuono salutarono il congiunto
mentre se ne andava, l’ombra dell’ansia e del sospetto che incupiva loro i
tratti.
Erin si
fermò a metà corridoio, il fiato corto. Aveva praticamente marciato fin lì, la
fronte aggrottata, e solo un refolo di vento freddo insinuatosi tra le colonne
la fece riscuotere: era giunta in un punto di slargo del camminamento, una
sorta di corte rotonda delimitata su ambo i lati da un porticato aperto da cui
si vedevano le stelle e il cielo color pece della notte.
La donna
d’Irlanda abbassò il capo, mirando la propria immagine che si specchiava nel
pavimento ricco di decori, e si sentì improvvisamente molto stanca. Aveva la
gola secca.
«Erin.»
si udì poi chiamare dalla voce profonda di Loki, e sollevò di nuovo la testa;
si girò verso di lui e lasciò che la raggiungesse, e notò che sembrava
preoccupato, per quanto egli potesse esserlo per sua indole. Una risatina
nervosa le scappò dalle labbra:
«Avanti,
dolcezza, dimmelo. Cosa c’è sotto?» gli domandò.
«Come ti
viene in mente che sotto ci sia dell’altro?» glissò l’asgardiano.
La risata
dell’irlandese si fece più convinta e ironica: «Dubito che tu voglia mandarmi
su Midgard soltanto perché temi per la mia vita.» rispose.
«Che io
sia maledetto se riesco ancora a nasconderti qualcosa, moglie.» rise il dio di
rimando, sfiorandole una guancia, ma subito tornò serio e si accinse a
rivelarle quel che aveva taciuto al resto dei familiari – se non tutto, almeno
una buona parte; «Ho posto due condizioni agli jotun, e da loro due me ne sono
state poste. Una concerneva lo Scrigno degli Antichi Inverni, che ovviamente
rivogliono indietro. L’altra riguardava te, ed è sciocca e inquietante al
contempo e non ho potuto ignorarla. I Giganti ritengono che colui che, nel loro
disegno, regnerà con loro su Asgard e Jotunheim, non debba avere al suo fianco una
donna mortale, un’umana, e vogliono che mi liberi di te. Che ti ripudi.»
La
reazione di Erin non fu esattamente quella che Loki si aspettava. Non gridò,
non diede in escandescenze, non imprecò neppure: sollevò il sopracciglio
sinistro con aria scettica e mise le mani sui fianchi, riflettendo, e lui
attese paziente che parlasse, appena divertito.
«Ecco
perché vuoi che vada su Midgard, per far credere a quei bastardi che hai dato
loro retta. Come mai sono così interessati a me? Sei certo che non ti abbiano
preso per il culo?» chiese.
«Cosa
intendi dire, Erin?» indagò il principe, colto alla sprovvista.
«E se
fosse una trappola? Se fosse un modo per allontanarci, dividerci e magari
colpirci? Insomma, cosa gliene frega del nostro matrimonio? Proprio perché sono
una fottuta mortale non capisco cosa gliene venga se mi mandi via adesso o no.»
Suo
malgrado, l’asgardiano trovò che l’ipotesi della donna d’Irlanda fosse fin
troppo sensata; eppure ribatté: «E perché vorrebbero nuocerti? No, Erin, penso
che tale condizione sia volta a testare la mia fedeltà di alleato. Magari
tenteranno di propinarmi una sposa jotun, in questi giorni, e io starò al gioco
fintanto che sarà necessario.»
«Assecondarli, la parola d’ordine di
questa primavera.» sillabò lei.
«Non ti
perderò mai di vista.» le sussurrò Loki all’orecchio, e la musicista si
abbandonò contro la sua spalla, finalmente vinta dalla stanchezza e dal
languore.
«Quali
sono le condizioni che hai posto tu?» provò comunque a domandare, ma era ovvio
che il suo divino sposo non le avrebbe detto altro, al riguardo, per quella
sera. Le sue labbra le scivolarono sul collo, baciandoglielo piano sino alla
base, ed Erin convenne tra sé che quel nuovo argomento di conversazione era
assai più allettante del precedente. La decisione era ormai presa, e avrebbe
più avanti scoperto il resto.
«Vado a
farmi un bagno caldo, marito.» lo stuzzicò a sua volta.
«Allora
ti attendo nelle nostre stanze. Scambierò ancora due parole con Odino.»
Si
salutarono con un sorriso carico di sottintesi, poi l’irlandese riprese il
proprio cammino lungo il corridoio deserto, diretta alla sala delle abluzioni
adiacente ai loro alloggi, il nodo alla bocca dello stomaco trasformatosi in un
piacevole fuoco danzante che le mandava il cuore in gola. La malinconia e
l’inquietudine dettate dalla situazione attuale la punzecchiavano, e lei scelse
di non dar loro soddisfazione, presa com’era da ben diversi pensieri.
Nell’anticamera
la aspettavano alcune ancelle che la aiutarono a togliersi l’abito del colore
del cielo al tramonto e a sciogliersi la complicata acconciatura. Quindi si
ritirarono, augurandole la buonanotte e portando via il vestito, ed Erin entrò
nel salone da bagno con indosso solo la sottile tunica di seta che le faceva da
sottoveste: i bracieri ardevano già, e l’acqua placida della grande vasca
incassata nel pavimento ne catturava i bagliori delle fiamme; il vapore saliva
in lente volute verso il soffitto, lambendo le pareti, e tutto era in pace e
soffuso come la luce che permeava l’ambiente. D’un tratto si udì un tintinnare
leggero di vetro e la flautista si voltò verso l’angolo meno illuminato della
stanza con un piccolo sussulto:
«Non
dovevi andare da Odino, tu?» esclamò.
«Ho mentito.
Volevo farti una sorpresa.» le rispose il marito alzandosi dallo scranno su cui
sedeva, la voce bassa e sorniona; reggeva due coppe colme di vino ed era nudo,
eccezion fatta per il telo di lino chiaro che lo copriva dalla vita alle
ginocchia, e mentre le si avvicinava Erin si disse distrattamente che certi
suoi poteri, come quello che lei seguitava a definire “teletrasporto”, erano
invero una grande invenzione. Poi Loki si fermò, porgendole un calice e
guardandola negli occhi, e prima che il fuoco che le bruciava dentro la
travolgesse, la donna d’Irlanda gli fu grata per quelle attenzioni: capì che
era il modo in cui il consorte la salutava e le chiedeva perdono in vista del
periodo che avrebbero trascorso lontani l’uno dall’altra e dei pericoli che
avrebbero potuto incontrare – o forse no, dacché era pur sempre il Dio degli
Inganni, ma di sicuro erano attenzioni che lei non avrebbe mai rifiutato.
In
silenzio bevvero il vino speziato, e quando i calici furono vuoti l’asgardiano
si chinò a baciarla. Lentamente e senza interrompere il contatto discesero i
gradini sommersi della vasca, entrando nell’acqua calda, e lui si liberò del
telo che gli cingeva i fianchi lasciandolo galleggiare altrove; Erin si alzò
sulle punte dei piedi, mordendogli piano il labbro inferiore, e gli passò le
dita tra i capelli: gli erano cresciuti, arrivandogli di poco oltre le spalle,
e a lei piacevano da morire. Il principe la strinse a sé, e l’irlandese fece
scivolare una mano sul suo petto e giù fino all’inguine e prese ad
accarezzarlo, e Loki rovesciò indietro la testa con un sospiro. Era
dolorosamente bello, così ardente e languido, la bocca dischiusa, e tale era
Erin con la tunica di seta ormai completamente bagnata che le sottolineava le
forme e col viso proteso verso quello del consorte: il desiderio e la voglia
che reciprocamente provavano non erano diminuiti col passare del tempo, e ciò
riusciva ancora a stupirli.
Allora il
dio tornò a catturarle le labbra con le proprie, e sollevandole la veste la
spinse contro il bordo della vasca che unendosi direttamente al muro formava
una sorta di panca lambita dall’acqua. Si baciarono nell’aria tiepida e umida
sino a non avere più fiato, e lei sedette sull’orlo aprendo le gambe, e lui la
sfiorò con maestria sulle cosce tese e in mezzo a esse e risalì al ventre, ai
seni, alle spalle e alle braccia, e quando raggiunse i suoi polsi sottili
glieli bloccò ai lati della testa per una manciata di istanti: si beò di ogni
singolo dettaglio che i suoi occhi colsero nel mirare la moglie, dalle gocce
sulla sua pelle alle sue ciglia frementi, e segretamente ne fece tesoro per i
giorni a venire. Poiché tutto era un’incognita, e nemmeno il Dio degli Inganni
sapeva con chiarezza quel che sarebbe potuto accadere.
E continuando
a serrarle i polsi fece aderire il proprio corpo al suo e le fu dentro: Erin
sorrise e insieme gemette, la schiena premuta sulla parete, e si sentì liquida
e rovente come l’acqua che tranquilla s’infrangeva attorno a loro. E Loki in
lei si mosse come solo lui sapeva, senza fretta e con fermezza, e la musicista
di Galway quasi gridò cantando, il respiro che le si mozzava in gola e il cuore
che ne prendeva impazzito il posto. Cercò con urgenza la bocca del marito e impetuosamente
la fece sua, e lui le tolse le dita dai polsi per abbracciarla – e ancora
spinse e in lei si mosse come solo lui sapeva, e lei ancora lo baciò.
E quando
il fuoco li ebbe divorati e il piacere colmati, il principe non la lasciò
andare: scivolarono nell’acqua avvinghiati, in ginocchio e immersi fino alle
spalle, felici di aver goduto l’uno dell’altra come mai si sarebbero stancati
di fare.
Note
Mi diverto fin troppo a immaginarmi la vita di corte di Asgard – o il cazzeggio di corte, se vogliamo dirla à la Erin.
E mi diverto ancora di più a descrivere le scene d’amore tra i nostri
coniugi Bindolo, come mi piace chiamarli: come già nella Majestic, ciascuna di esse "marca" un preciso momento
della storia, e d’altronde il lato fisico è un tratto fondamentale della loro
relazione. Spero non risultino eccessive e che vi facciano sognare ;)
Altro passo fondamentale, la conversazione con la regal famiglia
asgardiana, che più avanti avrà più spazio e il cui rapporto attuale col Dio
degli Inganni sarà approfondito. E ritroveremo anche altre vecchie conoscenze.
Il titolo del capitolo (per la prima volta in italiano, udite udite!) è lo
stesso di una canzone della Band del Brasiliano, gruppo in cui suona il mio
principe consorte e con il quale spesso anche io collaboro: facciamo funky e
colonne sonore anni ’70, principalmente, e se vi va vi consiglio di dare un’occhiata
alle nostre varie pagine Facebook/Sound Cloud/eccetera.
Come brano di sottofondo per la scena finale, invece, ci vuole
assolutamente Heaven dei Depeche
Mode.
Ne approfitto per ricordare il mio piccolotumblrin cui colleziono le grafiche e i disegni relativi a Erin e Loki. E
do il benritrovata! alla cara Blue_Moon :)
Passate un ottimo weekend, o voi, e ci sentiamo la prossima settimana.
Ossequi asgardiani!
Capitolo 4 *** 4. A melting snowman I was told ***
4
4.
A
melting snowman I was told
Erin
partì l’indomani sul finire del meriggio.
Aveva con
sé una borsa soltanto, dal momento che non era solita tenere molti abiti
midgardiani a corte, e indossò indumenti adatti al suo ritorno a Boston: fu
dunque con calze pesanti, calzettoni di lana, stivali, un grosso maglione
d’angora color corallo e un giaccone imbottito che si presentò di fronte a
Heimdall, pronta a saltare nel Bifröst.
Loki,
Thor e Frigga la accompagnarono, con un’esigua scorta per non dare nell’occhio,
e raccomandarono al Guardiano di badare all’irlandese col suo sguardo cui nulla
sfuggiva; Odino li osservò dalla balconata della sala del trono, ignaro che
Lady Sif, dai bastioni, stava facendo lo stesso domandandosi perché mai la dama
d’Irlanda si fosse recata all’Osservatorio senza annunciarlo e senza prendere
congedo come sempre faceva, e così d’improvviso.
Il Dio
degli Inganni salutò la moglie con un bacio discreto. Si erano amati per quasi
tutta la notte e gli parve sufficiente come commiato, essendo inoltre in
presenza di altri. Erin gli dedicò un sorriso storto, stringendosi nella
giacca, e lasciò che il suo biondo cognato e la regina la abbracciassero
rapidamente. Paradossalmente le venne voglia di gettarsi nel flusso iridescente
del Ponte prima del tempo, in modo da interrompere quella sequela di gesti che
aumentavano la sua ansia: detestava gli addii e i presentimenti indefinibili.
«Quando
vuoi, mia signora.» disse Heimdall, la spada lucente piantata nel
piedistallo.
«Fosse
per me, anche mai.» mormorò la musicista in tono asciutto.
Tuttavia
si mise la valigia in spalla e si avviò decisa al varco, e un attimo prima che
il vortice arcobaleno la inghiottisse Loki le si avvicinò abbastanza da parlarle
senza alzare la voce:
«Verrò
presto a farti visita, mia sposa.» le garantì complice – o tale seppe apparire.
Poi il
Bifröst vibrò scintillando e la sagoma di Erin divenne parte integrante del suo
fulgore, scomparendo alla vista degli astanti, e il portale si richiuse dietro
di lei.
La
flautista di Galway fluttuò tra i rami di Yggdrasil come ormai si era abituata
a fare, gli occhi chiusi e la mente concentrata sui timori che le pungevano
fastidiosamente il subconscio: erano insidiosi e non riguardavano soltanto
l’aspetto bellico della nuova disavventura che le era capitata tra i piedi.
Erano dubbi circa la sincerità del suo divino consorte, circa i piani e le
intenzioni che aveva su di lei, e trattandosi del principe ingannatore erano
scontati.
Il freddo
le sferzò le guance quando la cascata cangiante del Ponte le si dissolse
attorno, lasciandola sul tetto piatto del suo condominio, al centro
dell’intricato cerchio di simboli e rune stampati a fuoco sul cemento; il cielo
prossimo alla sera era grigio e carico di nuvole gonfie da cui lenti cadevano
fiocchi di neve tardiva, e Boston era imbiancata, fumosa e scintillante come se
fosse ancora pieno inverno, invece che marzo appena iniziato.
«Perfetto.»
sibilò Erin scocciata incamminandosi verso la botola delle scale.
Il
palazzo risuonava di voci reali e televisive e di tavole che venivano imbandite
con schiocchi di piatti e bicchieri, e tutto era così familiare e di umane
dimensioni da darle un vago capogiro mentre infilava la chiave nella toppa del
portoncino del suo appartamento. La casa era in ordine come l’aveva lasciata
l’ultima volta che era scesa su Midgard per le prove d’orchestra, le sagome dei
mobili e delle suppellettili che si stagliavano pacifiche contro il candore
esterno che filtrava dalle veneziane abbassate sulle grandi finestre del
soggiorno, e l’irlandese nemmeno accese le luci alte per togliersi gli stivali
e raggiungere il divano. Vi si buttò sopra a peso morto, affondando il viso tra
i cuscini e mugolando di frustrazione: i ricordi piacevoli legati a quel sofà
si sommarono ai pensieri sgradevoli e la cosa non le piacque, la confuse ancora
di più. Si fidava di Loki, come le era stato naturale fin dal principio, e
sapeva che non aveva mentito sui Giganti. Eppure sentiva che c’erano ancora dei
punti oscuri, delle pieghe che lui aveva scelto di tenere celate anche a lei, e
ritrovarsi da sola a Boston a tempo indeterminato non la aiutava a scacciare
l’idea che l’asgardiano volesse in qualche modo liberarsi di lei. Era stupida e
priva di fondamento, ma non riusciva a ignorarla.
«Cazzo cazzo
cazzo.» cantilenò alzandosi, e fece scattare l’interruttore della lampada posta
accanto al divano. Prese l’agenda e il cellulare per controllare la data e il
programma delle prove, e scoprì di avere due giorni privi d’impegni; la
prospettiva non la entusiasmò, e ritenne che rimanersene in casa a studiare e
distrarsi con buona musica, serie televisive e fotografie ai tetti innevati e
alle luci della metropoli fosse la scelta migliore.
Tirò
fuori allora il vinile di The Dark Side
of the Moon dalla libreria, posizionò la puntina del giradischi e tornò a
sdraiarsi ascoltando le conturbanti note introduttive di Breathe.
Sif si
era sempre ritenuta di mente assai pronta e abile, e tale la consideravano in
tutta Asgard, poiché realmente lo era. Non per un fortuito caso era la sola
donna a vantare il titolo di guerriero, tra i valorosi della casa di Odino: era
una grande combattente e una raffinata stratega, e fidandosi dell’istinto e della
logica che le erano propri aveva spesso riuscito laddove il solo coraggio dei
suoi compagni d’arme poco o nulla poteva.
Per
questo motivo le fu subito chiaro che qualcosa non andava, quando dall’alto dei
bastioni vide rientrare i principi e la regina dall’Osservatorio senza la Dama
del Flauto, e il re che li osservava pensoso, qualche terrazzo più in basso
rispetto a lei. Non che vi fossero indizi concreti di un possibile conflitto in
atto o in arrivo, ma Sif lo sentiva; e se si stava sbagliando si sarebbe
calmata soltanto sapendolo con certezza. Perciò abbandonò il balcone e rientrò
nel palazzo, avvolgendosi nella corta mantella che portava sopra l’abito da
giorno per proteggersi dalla brezza pungente dell’ultimo sprazzo di sole,
diretta alla sala delle udienze.
Teneva
molto a Erin Anwar, e voleva scoprire quale sorte la riconduceva su Midgard. Per
quanto faticasse a comprenderla, tavolta, a causa dell’amore sconfinato che
l’irlandese provava per il Dio degli Inganni e delle sue affinità elettive con
questi, la guerriera la ammirava e le era in qualche modo riconoscente: come lei
era una donna e come lei non si era tirata indietro di fronte al pericolo e
alla battaglia, ed era intelligente e brillante. Continuava a pensare che se
lei e Hogun non avessero incontrato la musicista, quel mattino del terzo giorno
dalla vittoria di Thanos, la liberazione di Asgard e il salvataggio di Loki e
gli altri non sarebbero stati possibili.
«Lady
Sif.» la salutarono rispettosamente i soldati a guardia del salone quando vi
entrò.
«Desidero
convenire con il re. Ditegli che lo attendo qui.» ordinò loro.
Quelli
obbedirono, e Sif rimase sola nella stanza a ponderare. Pochi minuti dopo il
Padre degli Dei giunse, e con lui veniva il Dio del Tuono: il cuore della dama
accelerò impercettibilmente il proprio battito, come sempre avveniva in
presenza del biondo, e lei si costrinse a mantenersi impassibile – non perché
considerasse quelle sensazioni un segno di debolezza, bensì perché era convinta
che non fossero ricambiate. Thor aveva scelto la piccola Jane, del resto.
«Maestà.
Thor.» li accolse con un inchino.
«Che
accade, Lady Sif?» le domandò Odino; sembrava preoccupato.
La donna
esitò un istante, poi rilanciò cautamente: «Sono io che lo chiedo a voi,
Maestà. Per pura coincidenza ho visto dama Erin recarsi all’Osservatorio e ho
immaginato che fosse successo qualcosa. Non si è mai allontanata dal regno
senza prima avvisare, e credevo che sarebbe andata su Midgard tra molti giorni.»
Non le
sfuggì l’occhiata densa di significati a lei ancora ignoti che il sovrano e il
principe si scambiarono, e seppe che il suo istinto aveva di nuovo visto
giusto.
«Te ne
avremmo parlato più avanti, mia signora.» rispose Thor; «Ma tenerti all’oscuro
di un fatto che non ti è sfuggito non ha senso. Se mio padre lo consente ti
diremo ogni cosa, a patto che per adesso tu non ne faccia parola con nessuno.»
«Nemmeno
con Hogun, Fandral e Volstagg?» interloquì Sif.
«Con
nessuno.» ribadì Odino, e fu chiaro che era d’accordo col figlio: «Una minaccia
grava sul Reame Eterno, Lady Sif. A breve potrebbe esserci una grande battaglia,
e prima di allora correremo molti altri rischi. Loki, soprattutto, ne correrà.
È la ragione per cui ha insistito affinché la sua sposa si rifugiasse altrove,
per tenerla lontana dai pericoli.»
Lei
aggrottò la fronte: «Perché soprattutto
Loki?» indagò; come di consueto e nonostante ciò che lui aveva fatto per
Asgard, quando si trattava dell’Ingannatore sempre s’insospettiva.
«Perché è
stato lui a scoprire la minaccia e sarà quello che più si esporrà. Fingerà di
collaborare con coloro che vogliono la nostra rovina per attirarli in una
trappola, e non sarà semplice.» spiegò il Padre degli Dei, cercando di non dire
troppo.
Ma la
dama guerriera non era una che s’incantava facilmente: «Chi sono i nostri
nemici?»
«Ha
importanza, mia signora?» tentò di prendere tempo il Dio del Tuono.
«Chi sono
i nostri nemici?» ripetè Sif con maggior durezza, e i suoi occhi lampeggiarono.
Se i reali erano tanto restii a rivelarle un particolare così importante e che
lei avrebbe subito specificato, ciò significava che gli avversari non erano né
nuovi né sconosciuti, né tantomeno di esiguo valore, fosse esso bellico,
strategico o di qualsiasi altro tipo.
«La
minaccia viene da Jotunheim.» mormorò infine Odino.
«Jotunheim.»
sibilò con furia la donna; «Jotunheim!
E voi vi affidate a Loki?»
«So a
cosa stai pensando, Lady Sif, e non dovrei essere io a ricordarti che Loki odia
gli jotun più di quanto mai li odieremo noi.» la freddò severamente il sovrano:
«Né dovrei rammentarti che Laufey è caduto per sua mano, sebbene in seguito ad
azioni avventate.»
Sif chinò
il capo: «Perdonatemi, Maestà, ma forse li odia eccessivamente.»
E non
dovrei essere io a ricordarvi che è da Jotunheim che lui stesso proviene,
avrebbe voluto aggiungere. Tuttavia si morse le labbra, colpita dallo sguardo
duro di Thor, e tacque.
«Sono
stati i Giganti a cercarlo, mia signora. Credono che il responsabile della
morte del Re dei Ghiacci e del tentativo di distruzione del loro mondo sia io,
e che mio fratello abbia lottato contro di me perché parteggiava per loro. Non
può essere altri che lui a condurre la falsa alleanza, e certo gli jotun non
desisteranno molto presto.» intervenne il biondo.
«Mi fido
di mio figlio, Lady Sif. Voglio farlo.» concluse dal canto suo Odino.
La
guerriera comprese che qualunque ulteriore dubbio le fosse sorto in seguito
avrebbe dovuto tenerlo per sé, almeno per un po’. In fondo era riconoscente
anche nei confronti del principe cadetto, e le sarebbe stato sufficiente
tenersi all’erta, provare a fidarsi; il Padre degli Dei non era uno sciocco e
non lo era Thor, e sapevano quel che stavano facendo.
«Dunque cosa
vuoi che io faccia, Maestà?» si arrese con un rinnovato inchino.
«Niente,
per il momento. Ti terrai pronta se ci fosse bisogno di agire, e come ti ho già
detto non parlerai con nessuno del nostro piano. Conto su di te.» annuì il
sovrano.
Il Dio
del Tuono le sorrise debolmente e lei ricambiò d’impulso: se non concordava con
suo padre, avrebbe almeno appoggiato l’amico nella sua fiducia verso Loki. E
risolvere in fretta quella faccenda che prometteva tempesta avrebbe consentito
a Erin di tornare.
Così Sif
prese congedo, ossequiosa, e uscì dalla sala delle udienze portando con sé il
proprio fardello di interrogativi e sospetti con la fierezza innata che la contraddistingueva.
Nella
penombra della grande stanza dei suoi preziosi cimeli, il Dio degli Inganni si
appuntò un lungo manto verde sulle spalle e lentamente si mise in testa l’elmo
dalle lucenti corna ricurve: da molto non aveva occasione né ragione per indossarli,
assieme all’armatura cerimoniale, e gli piacque sentirne nuovamente il peso e
la consistenza. Non prese armi all’infuori di piccoli coltelli da lancio; lo
scettro era troppo vistoso per quella che doveva sembrare una semplice visita
volta all’accordo e alla conoscenza, e per giunta il Padre degli Dei aveva
decretato che il manufatto era potenzialmente pericoloso, essendo stato creato
dal figlio di Mentore, e che dunque era meglio utilizzarlo soltanto in caso di
estrema necessità.
Non
appena fu pronto si diresse alle scuderie della reggia, dove un destriero era
già stato sellato per lui, e annunciando che sarebbe andato a caccia fuori
città si allontanò rapido a trotto sostenuto. Erin era partita il giorno avanti
e il mattino splendeva sfacciato su Asgard, delineandone morbidamente le forme
di monti, foreste e costruzioni contro il pallido blu del cielo. Loki assaporò
la sensazione del vento che gli sferzava volto e mani, dei muscoli che si
contraevano al ritmo del galoppo assieme a quelli del cavallo, del mantello che
si gonfiava nell’aria; mirò il paesaggio che gli sfilava indistinto attorno,
sopra e di fronte, e riconobbe il piacere che agire da solo e con idee segrete
in testa gli suscitava.
Giunse
così nella vastissima piana che copriva buona parte dell’entroterra del regno:
un mare d’erba verde che si stendeva dai margini settentrionali della capitale
sino ai piedi delle alte montagne dalle cime candide, e che nelle stagioni
calde si faceva trapunto di fiori bianchi simili a stelle; a ovest, laddove i
massicci declinavano avvicinandosi alla costa, un folto bosco di alberi simili
a pioppi e faggi lambiva la pianura, mentre a est si ergevano sfavillanti le
torri di Folkvangar, il palazzo che ospitava le Valchirie e i loro guerrieri un
tempo mortali. Quelli erano infatti i Campi di Idavoll, destinati ai
combattimenti quotidiani degli Einherjar, e da lontano il dio scorse i bagliori
delle loro corazze e armi e udì grida di battaglia.
Ma il
punto che a lui interessava non si trovava nei pressi di Folkvangar, bensì in
una gola che si apriva all’incirca al centro della gigantesca catena montuosa,
sul limitare dei Campi, e in cui il principe s’insinuò senza che nessuno vi
facesse caso né lo disturbasse. Quivi mandò la propria cavalcatura a passo
lento, tra le altissime e incombenti pareti rocciose che nascondevano
progressivamente la luce del giorno, fino ad arrivare in uno spiazzo di ghiaia
chiara e battuta, chiuso su tre lati dalla montagna. Smontò allora di sella, e
tenendo l’animale per le briglie toccò la nuda roccia dinanzi a sé: come nella
stanza dei cimeli pronunciò arcane parole a bassa voce, e la pietra parve
strapparsi come stoffa sotto le sue dita, lasciando che un varco dai bordi
danzanti si spalancasse sul buio luminescente che v’era al di là.
Una volta
che si fu premurato di richiudere il portale, affinché nessun asgardiano
disturbasse la sua missione e gli jotun non tentassero mosse a lui oscure, Loki
avanzò sicuro lungo il sentiero che si dipanava in quella dimensione a sé
stante che in più occasioni aveva percorso – una sorta di linea fatta di debole
luce pulsante sospesa tra gli astri del cosmo.
Infine un
bagliore ceruleo crebbe in fondo alla via, le stelle sbiadirono e gli stivali
del Dio degli Inganni affondarono in un denso strato di neve: strizzando le
palpebre egli vide una distesa candida di alture e crepacci spazzata dal vento,
sormontata da un cielo color acciaio carico di nubi compatte; riconobbe una
strada, poco più in giù rispetto alla collina sulla quale era sbucato, e
un’alta arcata di ghiaccio robusto sorvegliata da due sentinelle armate.
Probabilmente indicava la direzione da prendere per raggiungere la fortezza del
re, e dunque Loki risalì a cavallo e si diresse senza indugio verso la porta
nonostante il freddo e l’avversione che la sola vista di quei luoghi gli
suscitava, e nonostante potesse trattarsi di una trappola: non ci aveva ancora
riflettuto sopra, però niente escludeva che il re dalla pelle blu avesse voluto
attirarlo nel suo territorio col pretesto dell’alleanza per farlo cadere in
un’imboscata. Difatti le guardie estrassero le daghe dai foderi nell’accorgersi
della sua presenza, ma lui sollevò imperiosamente una mano e fermò il destriero
a due passi da loro:
«Non
giungo a Jotunheim con intenzioni belligeranti, soldati. Dite al vostro sovrano
che Loki di Asgard è qui per dargli il responso che attendeva e che desidera
convenire con lui.» ordinò in tono asciutto.
I Giganti
lo squadrarono sospettosi, e tuttavia abbassarono le spade:
«Potrai
dirglielo tu stesso, asgardiano. Ci è stato comandato di lasciarti passare,
quando e se ti fossi presentato nel nostro reame.» rispose il più anziano tra i
due con il duro accento caratteristico degli jotun. Le espressioni di entrambi
trasudavano astio, e il principe se ne compiacque poiché era un sentire più che
reciproco.
Fece
schioccare le redini e superò l’arco e i suoi custodi a gran velocità, e superò
torri e sporadici posti di blocco segnalati da torce e braceri accesi. Tutto il
resto era pressoché deserto e silenzioso, immoto tra la neve e il vento, e la
figura ammantata di verde, oro e nero dell’Ingannatore spiccava netta in mezzo
a quel mondo di bianco e grigio, di rocce e di gelo; era desolato, ostile, e
nonostante ciò manteneva un’aurea solenne e maestosa.
Tale era
anche il castello di Býleistr, che comparve d’improvviso dietro un colle:
imponente, irto di guglie di ghiaccio e balconate di pietra grezza, si
stagliava contro le nuvole metalliche elevandosi all’interno delle mura della vasta
cittadella che proteggeva il cuore di Jotunheim e i suoi abitanti. La rocca
pullulava di guerrieri, ma tutti si fecero da parte quando Loki entrò
cavalcando nel suo perimetro, permettendogli di arrivare nel piazzale
antistante la scalinata d’ingresso al palazzo – e qui, sui gradini, stava il
figlio di Laufey, sorridente.
Era avvolto
nella stessa lunga pelliccia con cui si era presentato ad Asgard, e la sua
espressione, seppur stupita e sollevata, lasciava trapelare il fatto che non
aveva mai dubitato, in cuor suo, della venuta del Dio degli Inganni:
«Benvenuto,
principe e fratello. Ti stavo aspettando.» lo apostrofò; «Mi auguro che il tuo
essere qui significhi che il nostro patto è sancito.»
L’altro sorrise
di rimando e mise i piedi a terra, austero e al contempo conciliante, e disse:
«Non
serve dunque ch’io mi ripeta. Hai già la mia risposta.»
Erin si
rigirò nel letto, incapace di dormire. Con un mugolìo frustrato strinse i pugni
sul cuscino e digrignò i denti: i postumi della sbornia le davano un tremendo
mal di testa, a discapito delle due aspirine che aveva ingurgitato poco prima,
e oltre ai fumi dell’alcol doveva fare i conti coi crescenti timori che le
martellavano le tempie insieme all’emicrania.
Andare a bere
con gli amici orchestrali dopo le prove le era sembrata un’ottima idea, lì per
lì. Avevano suonato tutta la Sagra della
Primavera e un paio di movimenti della Settima
di Beethoven, erano stanchi e vogliosi di cazzeggio, e lei aveva un estremo
bisogno di sfogarsi con qualcuno che non fosse asgardiano e fottutamente
immortale, qualcuno che non avesse niente a che fare con astruse minacce e
giganti dalla pelle blu. Così si erano recati in massa e con gli strumenti
appresso in un pub non troppo distante da Huntington Avenue, e fino a tarda
notte avevano consumato birre e panini e poi di nuovo birre, e avevano piantato
una gran confusione man mano che l’ebbrezza saliva e con essa le domande
rivolte all’irlandese sui perché e i percome del suo ritorno anticipato e
imprevisto. La flautista aveva fatto la gnorri il più a lungo possibile, ma
quando Owen scherzando le aveva chiesto se per caso non stava divorziando dal
suo divino marito era stata colta dall’orgoglio e aveva raccontato loro più di
quanto avrebbe voluto: la proposta di accordo da parte di antichi nemici, il
pericolo di guerra che incombeva su Asgard, Loki costretto ad allontanarla per
più di un motivo.
«A volte
mi domando come tu possa fare questa vita.» aveva commentato Sylvia.
«A volte
me lo domando anch’io.» aveva borbottato Erin da dentro un boccale.
L’argomento
serio era presto decaduto, e tuttavia la battuta del contrabbassista, per
quanto bonaria fosse, si era conficcata nella mente della donna d’Irlanda come
un chiodo beffardo. E adesso se ne stava lì, sbronza e sfiduciata tra le
lenzuola stropicciate, a pensare che forse il Dio degli Inganni aveva colto la
palla al balzo per lasciarla – e che comunque fosse terminato lo scontro tra il
Reame Eterno e Jotunheim, lei su Midgard sarebbe rimasta, sola e ignara.
Note
Signori e signore, sono reduce da un fine settimana in cui ho
avuto l’immenso onore di assistere alla prima proiezione in anteprima nazionale
di Thor: The Dark World (in lingua
originale sottotitolata) e sono ancora in subbuglio felice. Ma non è questo il
luogo giusto per parlarne, né il momento, visto che in Italia uscirà
ufficialmente il 20 di questo mese.
Tornando a noi, ribadisco che la mia storia non ha niente a
che vedere con il suddetto film, perciò non state a fare troppi paragoni ;) ho
introdotto Sif, che avrà il suo bel ruolo da svolgere nell’immediato futuro, e
ho già calcato un po’ la mano sul suo non fidarsi di Loki nonostante le gesta
da lui compiute nella Majestic Tale –
anche questa sarà una parte importante nei prossimi capitoli. Erin patisce, nel
frattempo, e per quanto riguarda le motivazioni del suo ingannevole sposo non
ponetevi tante domande, poiché tutto vi sarà presto più chiaro.
Una piccola precisazione sull’uso che faccio di “dama” e “lady”:
in inglese suonerebbero maiden e lady, e nella mia ottica il primo è da
riferirsi alle dame di corte (dunque anche a una principessa consorte come
Erin) mentre il secondo è per le guerriere, come del resto viene utilizzato nei
fumetti.
Musicalmente parlando, il titolo è tratto da Flowers in the window dei Travis (when i first held you i was cold / a melting
snowman i was told / but there was no one there to hold before / i swore that i
would be alone for ever more) e il cui testo è oltremodo perfetto per i
miei adorati Coniugi degli Inganni. Come sottofondo, a parte l’album
celeberrimo dei Pink Floyd che Erin ascolta appena arrivata a casa, consiglio Femina ridens, canzone tratta dal film
eponimo del 1969 e che anche noi con la Band del Brasiliano abbiamo riproposto
in scaletta – la trovate su Youtube, nel caso; per la cavalcata di Loki nei Campi di Idavoll (anche questi, come Folkvangar, sono presi direttamente dai miti) suggerisco invece Power out degli Arcade Fire.
Ringrazio di cuore chi segue, legge e commenta, e come sempre
spero di soddisfarvi appieno :)
A Boston
la neve aveva finalmente cessato di cadere, facendo spazio a un pallido cielo
d’azzurro sbiadito e a un timido sole ancora invernale. I tetti dei palazzi e
gli angoli più bui delle strade erano ancora imbiancati, ma qualcosa nell’aria
profumava diversamente.
Loki
distinse subito l’odore salmastro mescolato a quello dei fumi della metropoli,
quando il Bifröst lo lasciò nello stesso punto in cui aveva lasciato Erin, una
settimana addietro, sulla piatta sommità del suo palazzo di mattoni rossi. Dopo
aver intessuto i primi rapporti di conclamata alleanza con Býleistr aveva
ritenuto che fosse giunto il momento di prendersi una pausa e di recarsi su
Midgard a trovare la moglie: desiderava vederla e stare con lei, e d’altro
canto avrebbe così placato le angosce e i dubbi su cui sicuramente la donna
d’Irlanda andava arrovellandosi da che era tornata a casa – e quando Erin Anwar
non era tranquilla i rischi erano alti, e lo erano per molti e molte cose,
pensò con un ghigno e una punta d’affetto.
Con uno
schiocco di dita aprì la botola che conduceva all’interno del condominio e lo
stesso fece quando raggiunse il portone dell’appartamento, e fu con una certa
delusione che lo scoprì deserto: le veneziane erano per metà abbassate, le luci
spente, e dell’irlandese non v’era traccia; guardandosi intorno il principe
notò le stoviglie umide sul piano del lavello, in cucina, una maglia e un reggiseno
dimenticati appesi alla maniglia della porta del bagno e un disco e un libro
poggiati sul velluto color terra bruciata del divano. A Clash of Kings, recitava emblematicamente la copertina del
volume, e lui scosse la testa ridacchiando.
Sul
calendario che campeggiava sulla parete vicino alla libreria i giorni delle
prove con l’orchestra erano segnati con un cerchio rosso e una grossa ‘R’
maiuscola, e la data corrente non faceva eccezione. Così l’asgardiano uscì
dall’abitazione e giunto in strada reclamò per sé una delle vetture gialle
chiamate taxi: avrebbe potuto tranquillamente materializzarsi di fronte
all’ingresso del numero 295 di Huntington Avenue, ma stare al gioco dei
midgardiani senza esservi costretto era una cosa che lo aveva sempre divertito,
come quella notte a Stoccarda. Il tassista lo accolse ignaro e solerte, la
radio chiassosamente sintonizzata su quella Virgin Radio che tanto Erin
apprezzava, e Loki gli comunicò l’indirizzo di destinazione.
L’auto
s’insinuò nel traffico cittadino e sfilò tra le luci, la confusione e i
grattacieli mentre il giorno andava declinando a occidente, rammentandogli
l’inizio dei tempi condivisi con la musicista; capitava ancora che vi
ponderasse sopra abbandonandosi ai ricordi, non per nostalgia o
sentimentalismo, bensì perché continuava a trovare incredibili, straordinari e
persino misteriosi, forse, il modo e i motivi che lo avevano unito a lei. E che
a lei lo tenevano legato, anche, poiché così voleva lui per primo. Che fosse
per destino o casualità poco gl’importava, fintanto che avere Erin Anwar al
proprio fianco coincideva col suo desìo, e ne avrebbe goduto sino all’ultimo
degli anni mortali che le erano concessi. Non si sentiva in colpa per questo:
la flautista di Galway era umana, l’invecchiamento e la dipartita erano
indelebilmente tracciati sul suo cammino, e nemmeno un dio poteva avere la certezza
di essere in grado di cambiare quel naturale corso delle cose.
«Siamo
arrivati, amico.» biascicò allegro il conducente strappandolo alle sue
riflessioni, e il Dio degli Inganni mise una mano nella tasca destra del lungo
cappotto nero che indossava per tirarne fuori una banconota da venti dollari
che aveva fatto comparire dal nulla:
«Tieni il
resto, amico.» lo congedò imitandone
il tono fin troppo colloquiale.
L’altro
parve l’uomo più felice del creato, nel sentirglielo dire, e ringraziandolo
ripetutamente ripartì, tornando in strada sgommando senza ritegno. Erano così
semplici da blandire e soddisfare, i midgardiani, che se lo avesse capito prima
avrebbe forse conquistato quel loro piccolo mondo senza problemi e senza
l’ombra di Thanos a gravargli sulle spalle. Ammetteva, adesso, di aver commesso
errori di estrema ed evitabile leggerezza, in merito, e per tale consapevolezza
doveva ringraziare la sua brillante sposa.
L’atrio
d’ingresso dell’edificio che ospitava le sale prova della BPO era piacevolmente
tiepido, rispetto al vento che si era alzato all’esterno, e le poche persone
ivi presenti, le loro voci sommesse, le luci calde e le musiche che giungevano
dai piani superiori contribuivano a farne un ambiente estremamente rilassante.
Loki si diresse al bancone della portineria, un lieve sorriso affascinante
dipinto ad arte sul viso:
«Buonasera.
Sto cercando la sala prove della Boston Philharmonic Orchestra.» esordì rivolto
alla donna che sedeva oltre il vetro, una rivista patinata tra le mani.
Costei
sussultò appena, chiudendo in fretta il giornale, e raddrizzò la schiena:
«Suite
210, l’auditorium al secondo piano, proprio di fronte alle scale.» rispose precipitosamente;
«Stanno provando e ne avranno fino alle sette. Se vuole aspettare qui, signore,
posso...»
«No, sono
qui proprio per le prove. E per fare una sorpresa a mia moglie.» la interruppe
soavemente l’asgardiano, e come prevedibile la sua interlocutrice si sciolse in
un’occhiata sognante e, sospettò, non priva di un’impercettibile sfumatura
d’invidia.
Soddisfatto
si allontanò, abbandonando l’umana alle sue fantasticherie e pagine di
rotocalco, e trovò immediatamente la stanza della BPO: splendide e possenti
note fluirono attraverso la porta quando la aprì, e l’immagine familiare
dell’orchestra disposta a semicerchio, gli strumenti vibranti sotto la luce dei
lampadari, gli colmò la vista; sebbene la sala fosse abbastanza ampia i
musicisti la occupavano quasi per intero, lasciando giusto lo spazio per due
file di sedie imbottite e per una mezza dozzina di scaffali appoggiati alle
pareti. Loki rimase in piedi vicino all’entrata, in attesa che la musica
finisse e che si accorgessero della sua presenza, e frattanto rimirò Erin che
batteva i piedi a tempo, concentratissima.
Il primo
a vederlo, nell’istante esatto in cui il direttore fece cenno agli orchestrali
d’interrompere l’esecuzione, fu il chiassoso giovanotto che suonava il
contrabbasso:
«Erinni!
Marito a ore dodici!» esclamò gioviale, indicandolo con il proprio archetto.
Dal
centro del golfo mistico si levò una sorta di ruggito squillante e
inarticolato, e immediatamente l’irlandese si lanciò in avanti, urtando
colleghi e leggii, il flauto alzato sopra la testa come quando combatteva e col
viso illuminato da una di quelle espressioni che il Dio degli Inganni così bene
aveva imparato a conoscere – quell’irresistibile mescolanza di stupore, gioia e
stizza che spesso si avvicinava pericolosamente all’ira. Gli corse incontro e
in un baleno gli gettò le braccia al collo alzandosi sulla punta dei piedi, le
labbra premute sulle sue: erano tiepide, appena screpolate, e lui la baciò a
lungo tenendola stretta.
«Una settimana.
Non vedevo l’ora, cazzo.» disse infine lei senza fiato.
La
mancanza di linee telefoniche e di qualunque altro genere di contatti diretti
con il Reame Eterno era uno dei fattori che più aveva disturbato Erin in quei
sette giorni di lontananza forzata. Si era riscoperta maledettamente terrestre,
in tal senso, e legata alle meraviglie tecnologiche in maniera fastidiosa,
anche se le sarebbe bastato avere una cassetta delle lettere apposita con su
scritto Destinazione Asgard per
sentirsi più tranquilla.
Invece
non era previsto niente di tutto ciò, e per quanto lo avesse saputo sin dal
principio il non avere notizie né la possibilità di ottenerle in tempi brevi
aveva contribuito ad acuire il suo nervosismo; poteva essere accaduta qualunque
cosa, lassù, e qualunque altra sarebbe potuta ancora accadere, e chissà quanto
tempo sarebbe trascorso prima che lo scoprisse.
Trovarsi
di fronte il suo divino consorte in sala prove, in completo nero e camicia
color salvia dal colletto sapientemente sbottonato, rientrava dunque a pieno
titolo nel decalogo delle sorprese da cardiopalma di cui questi era capace, e
cancellava due dei suoi dubbi più atroci: era vivo, in salute, affatto mutato,
e sembrava non avere alcuna intenzione di lasciarla.
Mentre lo
baciava si complimentò segretamente con sé stessa per aver scelto d’indossare,
quel giorno, un paio di sfiziose calze autoreggenti sotto all’abitino anni
Sessanta di lana scarlatta, e quando l’asgardiano le garantì che sarebbe
ripartito l’indomani mattina, idee doppiamente sfiziose le si incagliarono nel
cervello scacciando tutto il resto.
Scioltisi
dall’abbraccio, Loki si accomodò su una delle sedie con le dita intrecciate
sopra le gambe accavallate e il cappotto posato accanto a sé, ben disposto ad
ascoltare il resto della prova: difficilmente avrebbe potuto assistere al
concerto previsto di lì a una quindicina di giorni, e la Settima di Beethoven e La Sagra
della Primavera di Stravinskji lo interessavano oltremodo, da quel che Erin
gli aveva fatto sentire in passato. Disse anche di essere a completa
disposizione della moglie, dei suoi amici e di qualunque cosa avessero
intenzione di fare quella sera – dacché era lì per lei e a lei si sarebbe
dedicato interamente.
Così
sedette e ascoltò, e all’irlandese che dal proprio posto lo osservava di
sottecchi apparve chiaro che apprezzava assai ciò che udiva; lei perse invece
tutta la concentrazione, e quando il Maestro Zander si vide costretto a
redarguirla severamente una prevedibile babele di commenti e risatine
attraversò l’orchestra. Il direttore ammonì anche gli altri musicisti e il Dio
degli Inganni pensò che somigliavano molto agli inopportuni, rumorosi compari di
Thor. Tuttavia gli suscitavano maggior simpatia rispetto a questi ultimi,
considerato che mancavano della supponenza ottusa tipica dei guerrieri Æsir e
che lui si dimostrava, ed era, superiore a loro senza dover ricorrere a sforzo
o artificio alcuno.
Alle
diciannove e qualche minuto le prove ebbero fine. Gli orchestrali più anziani
se ne andarono in fretta, essendo venerdì e avendo una gran voglia di correre a
casa a godersi la cena e la famiglia, e gli unici che si attardarono
nell’auditorium furono Sylvia, Francis, Owen, Laura che suonava l’ottavino,
Helen la fagottista, i violisti Vince e Phillip e un paio di altre giovani
donne di cui Loki non ricordava i nomi.
«Principe,
ci farebbe un gran piacere averti con noi questa sera.» lo apostrofò Francis
mentre ripuliva la propria tromba. Sylvia inarcò le sopracciglia e guardò Erin
ghignando.
«Direi
più questa notte.» intervenne Owen col
suo consueto fare guascone: «Non abbiamo intenzione di andarcene a letto molto
presto. Il programma prevede una lauta, tipica cena americana, alcol fino a non
poterne più e danze fino all’alba. Ci stai, altezza?»
Era
totalmente, spudoratamente irrispettoso, e l’asgardiano lo avrebbe volentieri
preso per la collottola per ristabilire il giusto ordine se non lo avesse
trovato anche divertente:
«Non ho
niente in contrario, se la mia signora non desidera altrimenti.» replicò
laconico.
«La tua
signora è felicissima di sentirtelo dire.» rise la donna d’Irlanda
raggiungendolo, flauto e borsa in spalla e soprabito già allacciato; lo prese a
braccetto e soggiunse: «Ho il Duetto parcheggiato qui vicino. Aspetteremo gli
altri al Beehive.»
Loki non
perse tempo a informarsi circa la natura del “Beehive”, presumendo che si
trattasse del locale dov’erano diretti, e sorrise poiché sapeva che la sua
bella sposa lo avrebbe certamente riempito di domande durante il tragitto – a
meno che non avesse intenzione di seminare i suoi colleghi e correre a casa con
lui: ma dubitava, conoscendola, che avrebbe rinunciato a una serata di divertimento,
nemmeno in suo onore.
L’Alfa
Romeo, inconfondibile col suo verde oliva e la forma aerodinamica, li attendeva
quieta in un parcheggio in St. Botolph Street, screziata dal riflesso dei globi
giallastri dei lampioni. Faceva freddo, nell’abitacolo, ed Erin alzò al massimo
il riscaldamento nell’accendere il motore e, com’era prevedibile, l’autoradio:
«Avanti,
dimmi tutto. Abbiamo circa un quarto d’ora di tempo da qui al Beehive, se il
traffico è come penso che sia.» lo esortò subito sovrastando la voce di Billy
Idol che dalle casse urlava Shock to the
system e girando il volante per immettersi nella via principale.
«Tutto cosa,
moglie? Cosa vuoi sapere?» nicchiò lui, serio.
Lei
scrollò le spalle e contemporaneamente mandò a quel paese una macchina che le
aveva tagliato la strada; quindi sempre stizzita rispose: «Visto che non so un
accidente, vorrei sapere il più possibile. Se sei andato su Jotunheim, se hai
preso accordi, se il tuo piano funziona, quanto cacchio manca perché quelli
attacchino Asgard credendosi in vantaggio. Così avrò una vaga idea di quando
potrò tornare a casa e di quando la finirò di maledire il fatto che Odino non
abbia ancora creato un collegamento telefonico con Midgard.»
«Sono
andato su Jotunheim e ho iniziato a prendere gli accordi dovuti.» annuì il dio,
grato per quegli interrogativi banali; «Devo assecondare i Giganti anche nei
tempi per far sì che si fidino di me. Ignoro quanto ancora ci vorrà, prima che
ritengano di avere tutte le informazioni necessarie per muovere il loro
attacco. E d’altro canto io stesso devo raccogliere informazioni utili per gli
asgardiani, o tutto sarà vano.»
«Allora
immagino che tu stia, la butto lì, visitando le loro armerie, conoscendo i loro
generali, visionando i loro arsenali con la scusa di valutare se possono
contrastare efficacemente quelli di Asgard. Non hanno un nuovo re, a proposito?»
ragionò la flautista.
Ecco un
quesito scomodo, pensò Loki, ma disse: «Sì, hanno un nuovo re, giovane e
abbastanza inesperto. Mi hanno introdotto al suo cospetto la prima volta che mi
sono recato nel loro regno, il giorno dopo la tua partenza.»
Erin
aggrottò la fronte: «Un parente del tuo simpatico padre biologico?» indagò, e a
lui parve di udire i meccanismi del suo fin troppo abile cervello che lavoravano
imperterriti.
«No, non
è un parente di Laufey. Gli jotun hanno una monarchia elettiva, in cui colui
che è più forte o appoggiato dai più forti guadagna il trono. Býleistr, il
nuovo sovrano di Jotunheim, è spalleggiato dai capi dell’esercito.» spiegò in
fretta, e l’irlandese rilassò i muscoli facciali, convinta dalla più che logica
risposta. Non doveva sapere, la sua donna d’Irlanda, che Býleistr era a tutti
gli effetti l’altro figlio del defunto Signore dei Ghiacci e dunque suo
fratello per almeno metà del sangue che gli scorreva nelle vene: non glielo
avrebbe detto perché a lui per primo non importava, e perché come gli
asgardiani Erin avrebbe potuto crederlo emotivamente, personalmente coinvolto
nella faccenda – con la sola differenza che lei non avrebbe perso la fiducia in
lui per questo, né tanto facilmente. O almeno su questo contava.
«Meglio
così.» affermò la musicista, il profilo definito dalle mille luci di Boston che
sfilavano rapide attorno al Duetto e a loro; «E ti deciderai mai a dirmi quali
sono le condizioni che hai posto agli jotun, dolcezza?»
«Perché
non dovrei? Ho semplicemente preteso che non si presentino più ad Asgard e che
lascino che sia io a recarmi a Jotunheim. E ho messo bene in chiaro che non
consegnerò loro lo Scrigno degli Antichi Inverni sino al giorno della
battaglia, onde evitare sospetti su di me.» sorrise, nonostante quella fosse
un’altra domanda insidiosa. No, non le avrebbe parlato neppure del fatto che aveva
affermato di volere Thor morto sul campo o messo in condizione tale da non
potersi difendere da solo, per quanto la sua fosse stata una richiesta dettata
principalmente dall’urgenza di indurre il figlio di Laufey a fidarsi di lui. Dubitava
che i Giganti sarebbero stati in grado di uccidere il Dio del Tuono senza
lottare, e del resto anche così la cosa sarebbe andata a suo beneficio: se si
fosse trovato in pericolo sarebbe stato lui a salvarlo, sotto l’occhio del
Padre degli Dei, e se fosse rimasto miracolosamente ucciso lo avrebbe vendicato
platealmente, e comunque fosse andata avrebbe avuto sgombra la strada per il
trono una volta per tutte. Poiché pur restando in vita il suo roboante fratello
gli avrebbe dovuto ogni cosa, e avrebbe volentieri rinunciato al titolo di
erede e Odino sarebbe stato d’accordo. Il rancore di Loki nei confronti del
biondo era, se non diminuito, di certo mutato da quando salvare Asgard da
Thanos assieme a Erin gli aveva restituito buona parte di ciò che desiderava.
Tuttavia ancora Thor rischiava di oscurarlo e Býleistr di smascherarlo, e non essendo
sicuro che la sua consorte avrebbe approvato o compreso per adesso le avrebbe
taciuto quel risvolto del suo piano. Forse la stava sottovalutando, ma le sue
priorità erano invero farla stare calma e lenire i suoi timori.
Il
Beehive, al 541 di Tremont Street, era già stracolmo di gente.
In
programma c’era un gruppo italiano che Erin aveva definito “clamoroso” e che si
fregiava del bislacco nome di Band del Brasiliano, e sebbene l’inizio del
concerto fosse fissato per le dieci l’affluenza era altissima, dentro e fuori
dal locale.
I ragazzi
dell’orchestra li raggiunsero nel giro di cinque minuti e insieme si
accomodarono al tavolo loro riservato, ai margini della pista da ballo. Ordinarono
da mangiare e da bere e nel giro di poco stavano già vociando e ridendo,
immersi in questioni che il Dio degli Inganni poco conosceva e che ancor meno
lo interessavano; fece ovviamente buon viso a cattivo gioco, li ascoltò e
assecondò, e nel frattempo studiò blandamente gli altri midgardiani presenti,
giacché da molto non gli capitavano serate popolari come quelle cui la moglie
lo aveva abituato sin dal principio. Owen e Sylvia tentarono un paio di volte
di portare la conversazione sulle problematiche asgardiane e sui motivi che
avevano costretto l’irlandese a rifugiarsi sulla Terra, e fu proprio lei a
tagliare corto e a riportare con maestria la conversazione su temi ben più
sciocchi e allegri, come si conveniva all’atmosfera.
Bevvero e
mangiarono, i fumi dell’alcol sempre più densi, e tutt’intorno le luci si abbassarono
e il volume della musica in filodiffusione crebbe; solo il palco si manteneva
in penombra, carico di strumenti appena distinguibili e di promesse per
l’immediato futuro.
Alla
quarta bottiglia di vino rosso prosciugata, i nove amici di Erin erano divisi
tra coloro le cui teste ciondolavano verso il basso, pericolosamente prossime
al legno del tavolino, e coloro che scalpitavano dalla voglia di ballare. Alla
donna d’Irlanda brillavano gli occhi e aveva le guance imporporate e un gran
sorriso, e come udì le battute iniziali di Keep
your hands to yourself dei Georgia Satellites balzò in piedi e si lanciò in
pista, seguita a ruota da Sylvia e Helen: presero a danzare come matte,
contente, e lei di rado distolse lo sguardo dal marito, in un tacito invito a
raggiungerla. Il corto abito scarlatto le saliva lungo i fianchi, nel muoversi,
lasciando intravedere il pizzo delle calze che indossava e che le arrivavano a
metà coscia, e Loki la osservò avidamente senza smettere di sorseggiare dal
proprio calice. Magari era il vino, o magari erano i dì trascorsi lontano dalla
musicista di Galway, ma sentiva le vene andargli a fuoco e una crescente
urgenza nel basso ventre, e faticò a tenerla a bada.
Questo
non gli impedì di notare le occhiate insistenti e i tentativi di approccio che
molti giovani uomini osarono dedicarle. Non potè dunque esimersi dall’alzarsi e
accettare le sue provocanti, leggiadre esortazioni, per quanto avesse
pianificato di non partecipare alle facezie midgardiane, e immediatamente le
passò un braccio attorno alla vita:
«Numerosi
sono coloro che desiderano le tue attenzioni, vedo.» la stuzzicò.
Erin
sorrise radiosa, avvertendo la sua ben controllata gelosia, e si aggrappò ai
risvolti della sua giacca: «Per forza. Sono bella, sono giovane e non
sospettano che io sia sposata. Se avessi una fede al dito ci penserebbero su,
prima di provarci con me.» ridacchiò compiaciuta.
«Una fede?» sogghignò l’asgardiano di
rimando, stringendola a sé.
L’irlandese
sollevò la mano sinistra mostrandogli l’anulare: «Da queste parti abbiamo
l’usanza di portare un anelluccio d’oro qui, da sposati. Non è un deterrente
del tutto efficace contro certi tizi, però aiuta a tenerli a distanza.»
«E non vi
sono metodi alternativi?» chiese lui chinandosi sulla sua bocca.
In quella
un boato percorse la sala e i riflettori si accesero sul palco, illuminandone i
tendaggi e la decina di musicisti che ne avevano appena preso possesso. Erano
abbigliati in maniera sgargiante e in uno stile che somigliava a quello di
Erin, quel “vintage anni Settanta” che tanto amava, e salutarono il pubblico in
fibrillazione parlando con buffo accento straniero. Il batterista scandì
quattro colpi serrati con le proprie bacchette, il resto della ghenga
orchestrale si riunì sulla pista e con gran potenza di suono il concerto
incominciò.
Mentre la
cantante imitava Mina con L’Eclisse twist
e tutti saltavano a ritmo di musica, la donna d’Irlanda fece scivolare le dita
sulla camicia del consorte:
«L’unica
alternativa valida è che tu balli con me e non mi lasci mai andare e mi baci
come un pazzo da qui al sorgere del sole.» gli disse in un orecchio, il tono
vibrante.
Aveva
l’alito profumato di vino e le labbra roventi, e il principe sentì il proprio
ghigno sciogliersi in una quieta risata, il fuoco nelle vene che non accennava
a placarsi:
«Una
saggia alternativa.» mormorò nel baciarla.
Loki le
nascondeva ancora qualcosa, la flautista era pronta a metterci la mano sul fuoco. Era certa che non
poteva aver posto ai fottuti Giganti soltanto quel paio di banali, prevedibili
condizioni che le aveva riferito, sebbene non riuscisse a formulare
un’ipotetica, ulteriore richiesta che le sembrasse plausibile: l’importante era
che non riguardasse lei.
Sulle
prime aveva pensato di indagare più a fondo, ma poi il vino, le risate, la
musica e le verdi iridi ardenti del suo ingannatore divino avevano sortito il
loro effetto, ricacciando i cattivi pensieri negli anfratti più dimenticabili
della sua mente. Aveva danzato su ogni singolo pezzo della Band, stretta a lui,
e più i loro baci si erano fatti intensi e più la voglia di saltare sul Duetto
e sgommare verso casa l’aveva travolta – con buona pace del concerto.
Così
salutarono gli ormai estremamente sbronzi amici musicanti a una mezza dozzina
di canzoni dal suo termine, con gran soddisfazione dell’asgardiano, ed Erin
riuscì in qualche modo a guidare fino al proprio garage senza travolgere né
pedoni né cassonetti. La metropoli baluginava oltre i vetri delle finestre del
soggiorno, quando rientrarono, e lei non volle accendere alcuna luce
all’infuori di una bassa lampada nel corridoio che gettò un sensuale alone
soffuso sulle lenzuola del suo giaciglio sfatto, poiché la porta della camera
era aperta.
Il dio tolse
cappotto e giacca mentre l’irlandese infilava nello stereo l’ultimo album di
Joan As Police Woman e canticchiando si voltava verso di lui dicendo:
«Come ai
vecchi tempi, no?»
«Come ai
vecchi tempi.» ripeté Loki, la voce piacevolmente arrochita.
Con fare
delicato e fermo la spinse verso la stanza da letto e sul bordo di esso si
sedette; guardandola si sbottonò la camicia, ed Erin si liberò dei propri
stivali e gli si avvicinò con le labbra dischiuse in un lieve sorriso,
ancheggiando. Gli sfilò la blusa, e lui fece scivolare enrambe le mani al di
sotto dell’orlo del suo vestito, fermandosi sull’elastico degli slip, e
lentamente li tirò verso il basso. Non smise di mirarla, splendido nella
penombra dorata e tra le note avvolgenti che giungevano dal salotto, e la donna
d’Irlanda lasciò che gli slip cadessero a terra: quindi montò a cavalcioni sul
marito e lo costrinse a stendersi, e sempre senza fretta alcuna si spogliò
dell’abito e del reggipetto, restando con le sole calze autoreggenti ornate di
pizzo chiaro. Allora il principe le afferrò i fianchi e si tirò di nuovo su a
sedere per baciarle i seni, e il piacere fu tale che Erin a malapena seppe
sopportarlo.
All i want to be / to dare myself
to be / is this dance / is this action man, cantava Joan As Police Woman, e Loki invertì le
posizioni. Fu così lei a trovarsi distesa tra lenzuola e coperte e cuscini,
flessuosa e fremente, e lui tolse anche i pantaloni prima di tornare a
sovrastarla, il desiderio tangibile nei suoi occhi e nel calore del suo corpo e
del suo respiro – e percorse con le dita le sue cosce tese, insinuandosi tra
esse con le proprie e col bacino fino a che non lo premette contro quello della
moglie strappandole un gemito sommesso. Entrò fluidamente in lei ondeggiando
sui suoi lombi e l’irlandese si aggrappò alla sua schiena, sentendone i muscoli
contrarsi e muoversi a ritmo. Boccheggiarono, senza fiato, e si strinsero e
amarono quasi con violenza, tanto forti erano il bisogno e la voglia che
avevano l’uno dell’altra, e l’alone soffuso di luce e la musica e il frusciare
della stoffa e l’attrito gradevole della pelle sulla pelle si fusero in
un’unica, fiammeggiante percezione, colmandoli.
Gridarono
assieme, i mille lumi di Boston come solo testimone al di là delle finestre
chiuse nella notte di marzo, e poco dopo caddero in un sonno profondo e
soddisfatto, esausti.
Quando
l’indomani Erin si destò, a pomeriggio inoltrato, il Dio degli Inganni se n’era
già andato, probabilmente ritenendo opportuno non aspettare il suo risveglio, e
ciò sulle prime la turbò. Ma tosto si accorse che c’era qualcosa di diverso, un
dettaglio, e ridendo sollevò la mano sinistra: all’anulare le brillava,
discreto, un sottile anello d’oro.
Note
Scusatemi,
sono in ritardo con l’aggiornamento, ma con un così basso ‘feedback’ non sono
esattamente sicura di quanto questa storia piaccia e non so mai se vale la pena
pubblicare nuovi capitoli. Eppure vedo anche che leggete e seguite, per quanto
in pochi, e non vi lascerò certo con la curiosità di sapere come prosegue la
vicenda ;)
Non
poteva mancare un siparietto midgardiano –
bostoniano, per la precisione – per i nostri due sposini, in memoria dell’inizio
della loro avventura nella Majestic Tale;
in tal modo ho dato un po’ di spazio agli amici orchestrali, alla musica e a
del sano divertimento prima che… beh, prima che si entri nel crescendo degli
eventi.
Il libro che Erin sta leggendo è il Clash of Kings che pensate, ovvero il secondo tomo di A Song of Ice and Fire di Martin; la ‘R’
sul calendario indica le prove, reharsals
in inglese; la Boston Philharmonic Orchestra prova davvero nella Suite 210 del
palazzo al numero 295 di Huntington Avenue, Benjamin Zander è davvero il loro attuale
direttore e il Beehive davvero esiste, al 541 di Tremont Street. E esistiamo
davvero anche noi della Band del Brasiliano – sì, continuo a farci pubblicità,
pardon!
E credo che adesso siano più chiare le mire e le idee di
Loki, per quanto sia possibile quando si tratta della sua mente magnificamente
contorta. È convinto di avere più o meno la situazione sotto controllo, il
nostro asgardiano…
La colonna sonora la avete bell’e pronta, a questo giro. Al massimo
ascoltatevi The death of you and me
di Noel Gallagher per la scena dell’arrivo di Loki a Boston. Il titolo del
capitolo è una frase della mia adorata River Song, tratta dalla settima
stagione di Doctor Who.
Mercoledì esce finalmente The
Dark World anche in terra italica! Almeno potrò parlarne liberamente senza
fare spoilers – e tornare a vederlo, beninteso, nonostante la sofferenza che mi
procura il doppiaggio *sigh*
Alla prossima, grazie per l’attenzione e ossequi asgardiani :)
Capitolo 6 *** 6. I tell you so many lies and then I'll let you go into the night ***
6
6.
I
tell you so many lies
and
then I’ll let you go into the night
Sif
camminava avanti e indietro nella piccola sala che lei, il Dio del Tuono,
Hogun, Fandral e Volstagg usavano per riunirsi a convivio sin dalla loro
giovinezza. Anche Loki aveva presenziato sovente a quelle riunioni, alle notti
trascorse parlando e ridendo e rievocando le battaglie vinte e perse, eppure la
donna non ricordava che il principe cadetto avesse mai realmente preso parte ai
loro scherzi e lacchezzi – e loro di rado lo avevano invitato a farlo. Non capiva
perché vi stava pensando: forse era dovuto al fatto che aveva appena visto il
Dio degli Inganni recarsi a cavallo fuori dalla reggia, diretto ai Campi di
Idavoll per l’ennesima volta in quel periodo, e Sif sapeva che stava di nuovo
andando su Jotunheim.
Non
rammentava, la dama guerriera, di essersi mai lasciata contagiare del tutto
dall’affetto e dalla fiducia che Thor e finanche gli altri tre loro compagni avevano
provato a lungo per costui, almeno fino ai cupi eventi che avevano portato
l’Ingannatore alla rovina. Soltanto le sue recenti imprese, complice la
comparsa della fanciulla irlandese al suo fianco, avevano allentato i sospetti
e le reticenze dell’asgardiana, salvo poi tornare a tormentarla con l’infausta
notizia della minaccia proveniente dal Regno dei Ghiacci. E dubitava, Sif, che
sarebbero mai svaniti dalla sua mente, poiché il suo istinto non era solito
tradirla.
«Mi hai mandato
a chiamare, mia signora?»
Thor si
stagliava entro la cornice della porta, imponente nonostante indossasse una
semplice tunica di broccato grigio a disegni rossi e morbidi stivali di pelle
di camoscio, e la fissava con un sorriso un po’ incerto. Sif emise un lieve
sbuffo:
«Siamo
soli, Thor. Non c’è ragione di usare quel tono deferente.» gli fece notare.
«Perdonami,
Sif. È da molto che non trascorriamo del tempo in compagnia l’uno dell’altra,
indisturbati, e ho perso l’abitudine a rivolgermi a te senza cerimonie.» si
schermì il figlio di Odino ridendo e chiudendo l’uscio, ed ella avvertì un
gradevole formicolìo al petto.
«Vedi di riacquisirla
in fretta, allora.» sorrise in risposta, e attese che l’amico la raggiungesse
presso il balcone illuminato dal sole pieno del mattino: «Desidero parlarti di
qualcosa che mi turba, e so di poterlo fare liberamente, con te. Con tuo padre
non mi è concesso essere sincera al riguardo.»
Il biondo
dio corrugò le sopracciglia: «Al riguardo di cosa? Non ti starai nuovamente
riferendo a mio fratello e al suo piano per annientare gli jotun, voglio ben
sperare.»
«Non
potrei riferirmi a nient’altro, Thor.» disse seccamente Sif.
«E io non
la penso diversamente da mio padre, amica mia. Intendo fidarmi di Loki e sono
certo che non vi sia motivo di dubitare della sua buona fede. Devo forse
rammentarti che è stato lui a uccidere Laufey e tentare la distruzione totale
del suo reame?»
«E io devo forse rammentarti che fino a
poco fa voleva morto anche te?» lo interruppe lei. Glaciale e quasi indignata
era la sua espressione, come se le parole che andava pronunciando fossero
tremendamente ovvie – e lui tremendamente caparbio nel non voler ammettere una
inopinabile verità: «Nessuno cambia così di repente, Thor.»
Il figlio
di Odino sospirò pesantemente e le volse le spalle appoggiandosi contro la
balaustra a braccia conserte: «Sif, ti prego. Perché vuoi a tutti i costi
negare ciò che ha fatto per salvarci da Thanos? Ha dato la sua vita per noi,
per me. Come potrebbe non essere cambiato?»
La donna
si rese conto di averlo turbato, così parlando, ma non riuscì a fermarsi:
«Non
metto in dubbio che farà qualunque cosa per vedere i Giganti finalmente
sconfitti. Vorrei però che tu e il re rimaneste all’erta e pronti a qualunque
imprevisto, poiché temo che abbia ancora conti in sospeso nei tuoi confronti. E
io tengo a te più di quanto dovrei, Thor, e se dovesse accaderti qualcosa non
vi sarà barriera di ghiaccio spessa e alta abbastanza da tener Loki lontano
dalla mia vendetta.» replicò, la voce dura.
Il volto
del Dio del Tuono si addolcì all’istante e Sif si morse la lingua
dall’imbarazzo, pur mantenendosi impassibile: «Tu, Erin, tuo padre, tua madre.
Riservate a Loki molta più fiducia di quanta ne meriti e più di quanto io potrò
mai comprendere.» soggiunse.
«Lo
amiamo e gliela dobbiamo, Sif, quella fiducia, dacché se n’è dimostrato di
nuovo degno. Tu del resto fai lo stesso con me, e te ne sono grato.» sorrise
lui.
La dama
guerriera chinò il capo in un muto cenno d’assenso, gli occhi puntati in
direzione del lussureggiante verde dei Campi di Idavoll che s’indovinava a
settentrione, e ignorò di proposito il formicolìo che seguitava a pungerle il
petto esattamente al centro. Non aveva provato, Thor, a convincerla d’essere
nel torto, né l’aveva forzata a mutare il proprio pensiero per compiacerlo:
aveva anzi rispettato la sua opinione, per drastica che fosse, e l’aveva
finanche ringraziata per i sentimenti che si era lasciata sfuggire dalle
labbra. Insistere sarebbe stato sciocco e inopportuno, perciò ella si mosse per
andarsene, impettita nei comodi abiti da amazzone che quel giorno sfoggiava.
Tuttavia l’altro la trattenne per un polso:
«È una
giornata splendida e mi piacerebbe continuare a parlare con te qui, amica mia.
Magari di argomenti più leggeri e piacevoli, se sei d’accordo.»
Sif
ridacchiò: «E sentiamo, amico mio, di cosa vorresti parlare?»
«Del tuo
giovane spasimante dai capelli fulvi, ad esempio. Hai più visto Seamus Anwar da
quando ci siamo recati su Midgard con sua sorella e mio fratello?» la
punzecchiò Thor.
«No. È di
bell’aspetto e ha un’interessante personalità, ma non provo per lui alcun tipo
di sentimento romantico. Né lui ne prova per me, in realtà.» rispose la donna,
stupita dalla piega che la conversazione aveva preso; «Non mi legherei mai a un
mortale.»
«Oh, Sif,
Sif! Se tu lo amassi veramente dubito che ti appelleresti a un simile buon
senso!» esclamò il principe, accorato, e nel farlo le prese entrambe le mani
tra le proprie.
Ma Sif
subito si liberò dalla sua stretta, fissandolo severamente:
«Se ami
Jane Foster a tal punto, perché non l’hai ancora chiesta in sposa?» non potè
esimersi dal domandare, e si sentì spietata per questo; «Perché trattenerti,
dopo che tuo fratello ha preso in moglie Erin d’Irlanda? Perché aspettare, se
la desideri?»
Il
sorriso di Thor si spense, accompagnato da una luce sinceramente smarrita nelle
sue iridi color del cielo mentre sosteneva lo sguardo della dama. Rimasero a
mirarsi in silenzio per una manciata d’istanti, fino a che egli non esalò un
lungo sospiro:
«Non so
il perché, Sif.» ammise infine con assoluto candore.
«Non ha
importanza. Il mio è stato un quesito sconveniente che spero mi perdonerai.» tagliò
corto lei avviandosi all’interno della saletta; «Ti prego di riflettere sulle
altre mie parole e di riferire al re ciò che sarà necessario affinché prenda le
giuste precauzioni.»
«Non
mancherò di farlo. Trascorri una buona giornata, mia signora.» garantì il Dio
del Tuono con un inchino, benché ritenesse che Odino aveva ogni cosa sotto
controllo.
«E tu
altrettanto, altezza.» augurò Sif a sua volta con una riverenza, e aprì la
porta.
«Sif.
Davvero non ami Seamus Anwar?» disse però Thor dalla terrazza.
La donna
indugiò sulla soglia: «Un dio ha già il mio cuore.» fu la sua enigmatica
risposta, e rapida si dileguò nella penombra del corridoio.
Il sole
non splendeva mai sui ghiacci imperituri di Jotunheim.
Forse
oltre l’impenetrabile coltre di nubi metalliche v’erano solo strati e strati di
cielo plumbeo a non finire e nessuna stella, immaginò Loki mentre attendeva
l’arrivo di Býleistr, le dita guantate strette sulle redini. Se un astro avesse
brillato anche solo per un attimo su quelle distese di neve e cristalli, a
quale magnifico spettacolo avrebbe assistito!
Ma niente
del genere accadde, e il paesaggio intorno a lui rimase detestabile, oscuro e monotono
fino al comparire dell’altro figlio di Laufey oltre le sagome degli archi che
segnavano la via per la Cittadella: cavalcava un enorme lupo dal pelo argenteo
e indossava una pelliccia candida sopra una lunga casacca di pelle nera.
«Perdona
il mio ritardo, principe e fratello,» lo apostrofò il giovane Gigante, «ma
giungo or ora dalla capitale. Ed è lì che siamo diretti.»
«Credevo che
ci saremmo recati alla fortezza. Non sono forse lì i tuoi generali?» chiese il
Dio degli Inganni, il sopracciglio destro inarcato con aria poco persuasa.
«I miei
generali si trovano alla reggia e ci stanno aspettando. Questa sera si terrà un
grande banchetto in nostro onore e tutta la mia corte sarà presente. Parleremo
soprattutto dei piani di guerra, te lo garantisco.» ribatté Býleistr alzando le
mani.
Il
destriero dell’asgardiano nitrì appena, il suono subito inghiottito dalla
vastità innevata che li circondava, ed egli commentò sarcastico: «Quel soprattutto mi preoccupa.»
Lo jotun
rise di gusto rovesciando indietro la testa, le iridi sanguigne sinceramente
illuminate da una sorta di complicità che Loki preferì non intaccare, per
quanto la trovasse odiosa.
«Non
crucciarti, fratello. Troverai piacevole anche il resto.» disse il ceruleo re.
«Pare che
non abbia altra scelta se non fidarmi di te.» cedette l’altro, quindi spronò il
cavallo e lo precedette lungo la strada scandita dalle arcate di ghiaccio e
pietra.
«Già,
così pare.» mormorò Býleistr con voce incolore.
Si
lanciarono entrambi al galoppo, sollevando spruzzi di neve, i manti bordati di
pelo che frustavano i fianchi dei loro animali e si gonfiavano nel vento che
aveva preso a soffiare. Superarono le grandi mura del fortilizio d’avamposto e
la sagoma minacciosa dell’imponente castello che si stagliava netta contro il
cielo prossimo alla notte, e i bracieri che rischiaravano il cammino sfilarono
accanto a loro come proiettili fiammeggianti. L’asgardiano non aveva mai visto
la città dei Giganti di Ghiaccio: quando si era recato su Jotunheim, in
passato, aveva scorto soltanto rovine e bui piazzali, ultime vestigia delle
epoche in cui quel Regno era stato grandioso e spietato. Si chiese dunque se la
capitale fosse sempre rimasta in piedi o se non fosse stato piuttosto Býleistr
– o Laufey prima di lui – a ricostruirla, e per un attimo il fiato gli venne
meno quando essa si delineò nell’ampia vallata in cui rapidi giunsero. Poiché
era vastissima, e gigantesche le sue muraglie, e a migliaia baluginavano al
loro interno fuochi e lumi, e brulicava di vita. Il palazzo reale era ben
riconoscibile, simile a quello della Cittadella, e svettava proprio al centro
dell’intrico di vie e case dalla rozza forma.
«So cosa
ti vai domandando, principe, e ti darò la risposta che cerchi.» disse lo jotun
fermandoglisi accanto, il lupo che ansimava sordo: «Non esistevano, un tempo,
città come queste, nel nostro reame. La nostra gente viveva sparsa e in piccoli
gruppi, e solo le cittadelle rappresentavano punti di raccolta fortificati. Siamo
sempre stati un popolo forte e indomito, e così da sempre ci siamo difesi.»
Loki
trattenne a stento una sprezzante risata e lasciò che il suo sedicente
congiunto seguitasse a parlare, mentre la luce scemava e iniziavano a cadere
lenti fiocchi dal cielo color ferro:
«Poi il
figlio di Odino ci ha lanciato contro distruzione e scompiglio, e come nuovo
sovrano ho ritenuto giusto fare qualcosa. Così ho dato ordine di erigere ciò
che vedi dinanzi a te, una fortezza più grande e accogliente di tutte le altre,
una città che potesse dare rifugio a chiunque dei nostri lo desiderasse, anche
se una città non può fermare un disastro.»
«E quante
rocche esterne difendono la tua capitale?» indagò il dio.
Sperò che
l’interrogativo non fosse troppo avventato, né palese, e tuttavia non avrebbe
tollerato quelle stolte rimembranze jotuniane un minuto di più.
Býleistr
sembrò non badarvi: «Tre nelle immediate vicinanze, quattro con quella che già
conosci e dove di norma risiedo. È la Cittadella Maggiore.»
«Mi dirai
di più quando saremo al riparo nel tuo castello.» lo interruppe il principe con
un sorriso cortese, spronando il cavallo giù per la discesa che conduceva alle
mura. Il freddo pungente iniziava a infastidirlo e voleva concludere alla
svelta quella visita.
«Tendo a
dimenticare che non hai mai avuto modo di abituarti al nostro clima, fratello,
e ti chiedo scusa. Vieni, in molti sono ansiosi di conoscerti.» concordò il
figlio di Laufey.
Le
guardie alla porta principale scattarono sull’attenti nel vederli arrivare, e i
sudditi che per le strade assistettero al loro passaggio mirarono con
meraviglia il Dio degli Inganni e le scintillanti corna ricurve del suo elmo; egli
colse anche lampi di diffidenza in molti degli occhi rossi e sui volti bluastri
che lo fissavano, e se ne compiacque, dacché era già abbastanza difficile per
lui tollerare la familiarità con cui Býleistr gli si rivolgeva: riconoscere
sentimenti vicini a quelli che lui provava nei confronti di coloro in cui li
notava non mancava mai di fargli piacere. Detestava gli jotun, ed era giusto
che gli jotun quantomeno lo temessero. Certo avrebbe fatto il possibile per
tenerseli buoni, fintanto che il suo piano non si fosse compiuto.
Alte e
sporadiche torce rischiaravano debolmente il grande cortile interno della
reggia ove i due fratelli smontarono dalle rispettive cavalcature, per poi
inerpicarsi su per la ripida e larga scalinata che conduceva all’interno e la
cui fine si scorgeva appena nell’ombra che in cima la avvolgeva. Giungevano,
probabilmente dal salone dei ricevimenti al piano soprastante – ammesso che vi
fosse una sala che si potesse definire tale – fiochi colpi di tamburi e
numerose voci. Il giovane Gigante però precedette l’Ingannatore altrove, in una
stanza che si apriva lateralmente in una delle due pareti che fiancheggiavano
le scale: era spoglia, il pavimento di pietra grigia e i muri di ghiaccio, e
cinque jotun dal cipiglio minaccioso la riempivano, disposti in cerchio;
vestivano di scuro con pellicce e spesse corazze di cuoio nere e ciascuno di
loro recava una corta daga alla cintura, di sicuro più cerimoniale che di reale
utilità. Il più basso tra loro era anche il più anziano, e la sua faccia larga
era stranamente grave e intelligente.
«Fratello,
costoro sono Bláin, Glaumar, Hroar e Vardrun, i capitani delle quattro
Cittadelle, miei fidati e valorosi condottieri. E questi,» esordì Býleistr
indicandoglieli uno a uno e posando infine una mano sulla spalla del Gigante
dall’aria severa, «è Hugrun, il generale dell’intero mio esercito. Non troverai
comandante migliore di lui in tutti i Nove Regni.»
Costui
s’inchinò, rigido ma deferente, e salutò l’asgardiano: «Principe Loki.»
Gli altri
quattro lo imitarono dopo un attimo di esitazione, quindi Glaumar prese la
parola:
«Posso
sapere, principe, come intendi fallare le difese del Reame Eterno per
facilitare la nostra venuta?» domandò al dio senza troppi preamboli.
«Dritto
al punto, o prode Glaumar.» rise Loki senza allegria, e tuttavia rispose: «Ho
già predisposto ogni cosa. Entro trenta giorni da oggi farò in modo che il
Padre degli Dei allontani dalla capitale il maggior numero possibile di soldati
e Einherjar. Dirò che altri nemici premono sui nostri confini, oltre le
montagne, e un gran contingente di forze verrà posto nell’entroterra a guardia
delle vie d’ingresso al regno. Creerò illusioni affinché l’inganno sia più
plausibile e duri più a lungo, e una volta che le guarnigioni saranno dimezzate
aprirò i varchi e verrò qui a darvi il via libera. Quando sarò tornato ad Asgard
l’attacco potrà partire.»
Un
silenzio carico di quesiti inespressi coronò la conclusione del suo discorso, e
osservando i volti disarmonici dei generali l’asgardiano confidò di riuscire a
convincerli rapidamente e senza ricorrere a ulteriori menzogne. Il suo era un
piano fin troppo semplice e in precario equilibrio sulla lama di un coltello,
lo sapeva: si basava unicamente sui tempi giusti, dacché avrebbe agito in meno
di trenta dì onde evitare che Býleistr riunisse le sue forze armate per intero
e cogliendolo così impreparato, e sul presupposto che gli jotun gli credessero.
Eppure proprio in tale estrema semplicità stava la sua forza, e stava a lui
farlo funzionare.
«Trenta giorni
non saranno forse troppi?» se ne uscì colui che portava il nome di Hroar, alto
più dei suoi compagni e assai emaciato.
«Non se
mi saranno utili per chiamare a raccolta tutte le legioni. Se poi mi occorrerà
meno tempo aspetteremo, e al momento giusto saremo pronti a muoverci.»
intervenne il giovane re, gettando una fiera occhiata d’intesa al fratellastro.
Questi lasciò che il fiato che aveva trattenuto sino a quel momento tornasse a
fluirgli nei polmoni: sembrava che per adesso il figlio di Laufey non avesse
dubbi sulla sua lealtà verso Jotunheim.
«Hai
parlato di varchi, principe. Quanti e quali sarebbero?» s’informò Hugrun.
«Uno è quello
da cui sono sempre giunto qui. È il più grande e si apre direttamente sui Campi
di Idavoll, a nord del palazzo di Odino, ed è da lì che le vostre truppe
passeranno. I Campi sono vastissimi e l’esercito degli Æsir non sarà in grado
di dispiegarsi su di essi in modo da bloccare la vostra avanzata, se i suoi
ranghi saranno ridotti.» illustrò Loki, le mani che si muovevano eleganti accompagnando
il suo misurato disquisire; «Gli altri saranno più piccoli, disseminati
all’interno della reggia, e uno di essi vi condurrà allo Scrigno.»
Gli occhi
rossi dei Giganti sfavillarono nella penombra e sulle labbra strette di
Býleistr si disegnò un avido sorriso. Vardrun e Bláin si scambiarono uno
sguardo e il primo disse:
«Perdona
l’ennesima domanda, principe Loki, ma vorremmo sapere per quale motivo dovremmo
attendere che tu sia tornato ad Asgard, per muoverci.»
«Perché
non devo e non posso destare sospetti, fino all’ultimo attimo prima che i
vostri soldati si riversino fuori dai varchi. Nessuno dovrà essere in allarme,
ad Asgard.» sospirò il Dio degli Inganni con ostentata ovvietà, come se si
rivolgesse a un ragazzino inesperto.
Vardrun colse
la condiscendenza nel suo tono e indurì la mascella, e tuttavia nella stanza si
respirò una maggior calma e tutti annuirono:
«È una
buona strategia, altezza.» riconobbe Hugrun, e Loki sogghignò.
Il
sovrano gli cinse le spalle impellicciate con un braccio, soddisfatto: «Ottimo.
Avremo tempo di definire i dettagli, o per meglio dire avremo trenta giorni.
Ora mettiamo da parte i propositi di guerra, fratello e miei signori, e
raggiungiamo la sala dei festeggiamenti. Un lauto banchetto ci attende, e
musica e danze e belle dame.» annunciò.
Uscirono
e tornarono sulla scalinata, avanzando verso il piano superiore, e man mano che
salivano e i suoni di tamburo crescevano d’intensità l’asgardiano si chiese con
scettica ironia quali cibarie e musiche potevano mai offrire i barbari dei
ghiacci – e quali donne, soprattutto. Lo innervosiva, quel punto, e cominciava
a temere che il suo sciocco parente intendesse propinargli una sposa dalla
pelle bluastra, altrimenti insistere affinché lui si liberasse della sua
consorte mortale non avrebbe avuto alcun senso. Il pensiero di Erin, del suo
corpo flessuoso e delle sue labbra profumate di vino lo riscaldò per qualche
minuto: non mancava molto al compimento e alla fine di quella scomoda vicenda,
considerò, e presto lei sarebbe tornata. Sarebbe andato ad avvisarla, a
portarle buone nuove, e nel figurarsi il suo sorriso e l’ardore con cui
l’avrebbe amata ebbe uno spasmo d’impazienza e desiderio.
Il salone
li accolse con un gran scintillare di fuochi nei bracieri e una fitta folla di
jotun che si muovevano pigramente nel leggero pulviscolo di fumo e ghiaccio che
permeava l’ambiente; due lunghe tavolate colme di vassoi costeggiavano le
pareti, e sul fondo un gruppo di truci musicanti percuotevano le proprie
grancasse secondo strani ritmi. Le femmine dei Giganti servivano i convitati,
remissive e compunte e adorne di pesanti gioielli di bronzo che spiccavano sui
loro abiti scuri: avevano tutte chiome corvine acconciate in molte trecce o
sciolte sulle spalle, e sebbene i loro lineamenti fossero spigolosi e
pronunciati come quelli dei maschi erano certamente più piacevoli alla vista.
Mentre un
servo si occupava dei loro mantelli, Býleistr notò che Loki le osservava e
sollevò il mento nella loro direzione: «Gli uomini jotun hanno l’usanza di rasarsi
la testa, ma ci piace che le nostre donne non facciano altrettanto. Tu hai
invero i capelli identici a quelli di nostra madre Farbáuti, fratello.» disse a
bassa voce; «Ti ho mai parlato di lei?»
Il Dio
degli Inganni avvertì il petto stringerglisi in una lieve e brevissima morsa,
nell’udir nominare sua madre, la madre di cui nulla sapeva, e scosse il capo:
«No, mai.»
sibilò a denti stretti. Un flusso di dubbi confusi gli attraversò fulmineo la
mente, nel prendere atto di essere nominalmente figlio di Laufey e di colei che
doveva essere sua moglie – e dunque non capiva come potesse essere tanto
diverso dagli jotun e così simile agli Æsir, se di due jotun era il frutto, né
per quale misterioso motivo il suo padre biologico lo avesse abbandonato tra le
nevi a morire. Molte cose gli sfuggivano ancora, pensò furioso.
«Farbáuti,
Regina dei Ghiacci, la più bella che si ricordi nel nostro reame. Tanti la
desideravano, anche in altri dei Nove Regni, e solo Laufey il Grande ebbe il
privilegio di averla. Mi ha sempre narrato di quanto chiara e morbida fosse la
sua pelle, e argentina la sua voce quando rideva.» rimembrò il giovane re,
assorto.
«Dov’è
adesso?» lo interruppe bruscamente l’asgardiano.
L’altro
fece un sorriso triste e storto: «Morì nel darmi alla luce. Nessuno di noi due
l’ha mai conosciuta, fratello. Nessuno di noi due ha potuto stare con lei.»
rispose.
La
tentazione di cedere al senso di empatia che il tono di Býleistr instillava in
lui fu forte, ma Loki seppe resistervi. Non era ciò su cui doveva concentrarsi,
e non lo sarebbe stato nemmeno una volta finita quella storia: aveva scelto da
tempo la propria parte e causa, ed esse coincidevano esattamente con lui
medesimo, e con la donna d’Irlanda. Non sarebbero dunque state le complici,
pietose memorie di una famiglia che non aveva mai avuto né sentito come sua a
fargli cambiare avviso, né un nuovo fratello bramoso di un affetto che lui non
provava.
Poi
questi richiamò con voce stentorea l’attenzione dei Giganti che riempivano la
sala, e come i sudditi s’inchinarono a loro il dio prese fiato e seguì Býleistr
al tavolo d’onore loro riservato, sperando che quella ridicola festa giungesse
presto a conclusione.
Odino
ascoltò con attenzione il resoconto del principe cadetto, quando quest’ultimo
rientrò ad Asgard a sera inoltrata. Anche Thor era presente, e insieme vennero
a conoscenza dell’esistenza della capitale di Jotunheim, delle quattro
fortezze, dei cinque comandanti e di ciò che Loki aveva detto ai nemici per
imbrogliarli. Convennero entrambi che si trattava di un piano semplice, forse
inusuale per lui, e se il Padre degli Dei considerò tale caratteristica come
una potenziale debolezza, il Dio del Tuono la ritenne un punto di forza: non
avrebbero nemmeno dovuto allontanare davvero gli Einherjar, disse.
Il re
però mantenne la fronte aggrottata: «Non se gli jotun avessero infiltrati nel
Reame Eterno o la possibilità di ottenere informazioni per via indiretta.
Allora saprebbero che nessun nemico ci minaccia, oltre a loro, e che nessuna
guarnigione è lontana dalla città.» ragionò ad alta voce, fissando i figli; «E
come intenderesti fare per i varchi minori?»
«I varchi
minori saranno trappole e non si apriranno certo nelle vicinanze dello Scrigno
o del Cubo, o all’interno del palazzo. Si apriranno in luoghi stretti e
facilmente difendibili, e metteremo soldati scelti a presidiarli cosicché gli
jotun finiscano uccisi non appena se ne affacceranno. Così facendo sfoltiremo
di un po’ le file del loro esercito regolare.» replicò l’Ingannatore,
suscitando in Thor un cenno d’approvazione; ma Odino continuava a mirarlo gravemente,
e dovette proseguire: «Se vi fossero spie dei Giganti lo scopriremmo, e io sto
ben attento a controllare che nessuno utilizzi le vie segrete senza il mio
permesso. Tuttavia se può farti stare più tranquillo, padre, posso creare
un’illusione che faccia credere loro che è tutto vero, semmai avessero qualche
informatore. O potresti mandare veramente una truppa nell’entroterra e io
potrei diffondere la voce che è il figlio di Mentore colui che preme nuovamente
alle nostre porte. Sentendo il suo nome nessuno oserà ficcanasare.»
Un
brivido corse nella stanza al ricordo degli eventi dell’anno precedente,
nonostante l’idea fosse buona, e l’occhio di Odino si rabbuiò: «Privarsi di un
contingente di Einherjar, pur se ridotto, potrebbe essere rischioso. Ma ciò che
dici ha un senso e valuterò la proposta.» concluse, e con un gesto sbrigativo
congedò i due principi. Anche Thor aveva assunto un’espressione di rinnovato
sospetto che irritò Loki: il suggerimento relativo all’allontanamento delle
guardie reali aveva turbato i suoi asgardiani congiunti, indovinò, aumentando
in loro il timore di un tradimento da parte sua nei loro riguardi. Eppure se
volevano fugare i dubbi dei Giganti quella era l’unica soluzione, e la loro
continua propensione a ritenerlo un traditore a prescindere instillava in lui
la voglia di esserlo realmente, poiché lo avrebbero meritato. Soltanto la
consapevolezza che ciò non gli avrebbe giovato gli impediva di agire in tal
senso.
Nel
corridoio, appoggiata allo stipite della porta, stava Sif: aveva le braccia
incrociate e le belle labbra tirate in una piega feroce, e come lo vide uscire
lo bloccò afferrandolo decisa per un gomito: «Io non mi fido di te, principe.» quasi gli soffiò contro,
gelida.
«Ti fa
sentire meglio dirmi cose tanto ovvie, mia signora?» la schernì il Dio degli
Inganni con sprezzante cortesia; «Hai per caso origliato la mia conversazione privata
col Padre degli Dei? È un atto impudente che andrebbe opportunamente punito,
ritengo.»
«Lo
sarebbe se sua Maestà non avesse ritenuto opportuno mettermi al corrente di
tutto. E quale che sia la tua strategia, solo un punto è per me importante.»
rilanciò la guerriera, le dita serrate sulla sua manica: «Nuoci a Thor in
qualunque maniera e io non avrò alcuna pietà. Se gli accadesse qualcosa, se
dovesse morire per tua mano o per tuo volere, tu per mano mia lo seguirai.
Rammentalo, Loki.»
Così
parlando si allontanò, i suoi passi orgogliosi che riecheggiavano tutt’intorno,
e il principe rimase dov’era, diviso tra una rabbiosa ammirazione per la mente
brillante della dama e il desiderio di ridere della sua totale, devota
previdibilità.
Note
Scusate, scusate, scusate. Sono impegnatissima e col mese di dicembre gli
impegni non faranno che aumentare, perciò se aggiorno a distanza di due
settimane circa ogni volta capitemi – e sto scrivendo il capitolo 13 e un’altra
storia nel frattempo. Aiut.
Allora, ho voluto dare un po’ di spazio a Sif e Thor e al loro rapporto,
che più complicato definirei “confuso”, soprattutto da parte di lui; nella mia
ottica il buon Thor ha della confusione anche riguardo a Jane, e chissà che non
riesca a sbrogliarsi le idee prima della conclusione. Altra cosa diversa qui sono
gli Einherjar, termine con cui in The
Dark World vengono chiamati tutti i soldati di Asgard e che invece io ho
mantenuto nell’accezione mitologica, ovvero quella degli eroi mortali scelti
dalle Valchirie per divenire guerrieri eterni leali solo a Odino. Sul fronte
Jotunheim il nostro Dio degli Inganni tesse le sue trame e Býleistr… beh, chi
può dirlo? Di certo il riferimento alla madre Farbàuti (che esiste sia nei
fumetti che nei miti, sebbene in questi ultimi Laufey e Farbàuti siano
rispettivamente madre e padre dell’Ingannatore e non viceversa)
non ha lasciato Loki totalmente indifferente, né privo di una valanga di dubbi
e domande. I nomi dei generali jotun, salvo Hugrun che è di mia invenzione,
sono ripresi dalla pagina wikipedia sugli Jötnar.
Veniamo alle questioni musicali: i
tell you so many lies and then i’ll let you go into the night è un verso di
Northern soul dei Verve, già citata
nel titolo del secondo capitolo; per la cavalcata di Loki e Býleistr tra le
nevi di Jotunheim, il brano perfetto è I
giorni dell’ira di Riz Ortolani – a parer mio, ovviamente ;)
Per le grafiche relative ai nostri due sposi e alle loro avventure, e per
grafiche e disegni di mia produzione più in generale, rimando al mio piccolotumblr
Grazie mille a chi segue e legge! E mi raccomando, se volete recensite :D
Il
concerto dedicato a Beethoven e Stravinskji era andato molto bene.
Non che
Erin vi avesse fatto troppo caso: dal ritorno di Loki ad Asgard aveva fatto ben
poco, salvo rimirare la fede che ora sfoggiava con sommo compiacimento e
cantare a squarciagola a giornate intere canzoni significative come You and me di Alice Cooper, Mamma mia degli Abba e soprattutto Will you love me tomorrow? di Carole
King – in maglione di lana, mutande e calzettoni a giro per casa, le giornate
che oltre le finestre del suo appartamento si facevano via via più lunghe. E
aveva bevuto e suonato come una disperata, e si era distratta a suon di libri e
serie televisive, arrivando a pensare, birra e telecomando alla mano, che il
suo divino consorte avrebbe apprezzato molto Dexter, se avesse accettato di guardarlo. Si era lasciata tentare
da Owen e persino da Francis, in onore dei tempi andati delle loro strane
storie, e tutto solo per distrarsi e non rovinarsi le giornate affogando in
dubbi e sospetti e timori, e in fondo le era servito. Poi c’era stato il gran
concerto, appunto: un trionfo strepitoso che aveva sommerso d’applausi la
Boston Opera House e colmato le testate dei giornali della metropoli con
entusiastiche recensioni e splendide foto degli orchestrali.
Ripresasi
dall’ultima sbronza aveva quindi deciso che era tempo di tornare a Galway,
approfittando delle ferie concesse a tutti i musicisti della BPO, e carica solo
di bagaglio a mano e borsa contenente il flauto magico, un biglietto last minute
in tasca, aveva di buon’ora preso la metro fino all’aeroporto, la mattina del
lunedì dopo l’esibizione. L’aria era limpida e luminosa, ventilata e pulita in
prossimità dell’oceano nonostante il caos cittadino: due settimane erano
passate dalla visita di Loki, e la primavera era davvero alle porte.
Così
quella sera stessa, stordita dal jet-lag e dal desiderio di dormire, mise piede
sul suolo irlandese. Chiamò a casa per avvisare, lievemente in ritardo, che
stava tornando e che si aspettava una lauta cena da riscaldare in forno; sua
madre salutò la notizia con una colorita imprecazione, in lontananza udì suo
padre congratularsi con lei per il consueto tempismo e riconobbe la risata
congiunta di suo fratello e suo nonno. Se li immaginò comodamente stravaccati in
salotto, in attesa del telegiornale, e sorrise nel salire sull’Éireann Bus che
l’avrebbe condotta all’altro capo dell’isola. Il cielo era ormai scuro sopra
Dublino, le luci della città che baluginando andavano a sfumare e farsi
sporadiche man mano che la corriera avanzava verso le campagne, ma a ovest
permaneva una striscia del colore del crepuscolo, sospesa tra le nuvole e
l’orizzonte oltre la distesa indefinita di praterie e colline. Il vento
profumava di terra bagnata e di pioggia e il petto di Erin si gonfiò di
nostalgia: quasi non pensò nemmeno al marito e a tutte le incognite a lui
legate, mentre guardava il buio verde d’Irlanda scivolare rapido fuori dai
finestrini, e si lasciò cullare dall’andamento della vettura. Superarono
Kinnegad, Athlone con le acque placide del Lough Ree che s’indovinavano alle
sue spalle e il piccolo centro di Athenry, e alle nove entrarono infine a
Galway, fermandosi al capolinea in Eyre Square. Nonostante la fame e la
stanchezza, e nonostante Grattan Road non fosse esattamente dietro l’angolo, la
flautista raggiunse a piedi la sua casa natale – con le mani cacciate nelle
tasche del parka imbottito e le borse a tracolla si godette la camminata lungo
i canali del Corrib e le strade lucide per il piovasco e il salmastro, respirando
l’aria di mare a pieni polmoni. A giro c’era pochissima gente, essendo lunedì
sera, e ciò acuì il piacevole senso d’estraniamento di Erin: in quei giorni si
comportava come se tutto fosse normale, come se fosse rimasta la rutilante,
giovane musicista di sempre, quella senza troppe beghe per il capo, quella che
beveva e suonava e faceva la spola tra Boston e l’Irlanda andando in deliquio
di fronte al minimo accenno di paesaggio natìo. E lo era, in effetti, e
tuttavia adesso era anche una sorta di eroina intergalattica, la moglie del Dio
degli Inganni e principessa asgardiana d’adozione, e mai come quel periodo in
solitaria le era parso tanto difficile riuscire a far collimare i diversi,
inconciliabili tasselli della sua nuova vita. Quando si spremeva le meningi non
si chiedeva soltanto cosa poteva essere successo nel Reame Eterno durante la
sua assenza e cosa aveva in mente Loki di preciso, ma anche per quanto ancora
avrebbe potuto portare avanti quello sdoppiamento, quel saltare da un mondo
all’altro usando un fottuto ponte dimensionale che rassomigliava a un enorme
arcobaleno, e non contava il fatto che essendo mortale presto o tardi avrebbe
comunque esaurito il tempo a sua disposizione: sentiva che prima di quel giorno
avrebbe dovuto fare una scelta, e non sarebbe stata facile. Sperava almeno che
sarebbe dipesa da lei e non da accadimenti trascendentali di cui, stando laggiù
su Midgard come un’idiota, non avrebbe ricevuto facilmente notizia.
La
villetta degli Anwar-McNulty, con la sua facciata dipinta di giallo tenue che
dava sull’oceano e sui prati di Claddagh Park, spiccava nella notte grazie alle
molte luci accese e alle voci allegre che fuoriuscivano dai vetri socchiusi
della finestra della cucina. Erin si affacciò a essa chiamando rumorosamente i
familiari, e subito questi corsero ad aprirle il portoncino d’ingresso ridendo
e facendo una gran confusione: la accolsero i loro abbracci, il tepore interno
della casa e i suoi pavimenti di legno rossiccio, e uno stuzzicante odore di
zuppa di cipolle e patate arrostite, e lei lasciò cadere i bagagli a terra con
notevole sollievo.
Sotto il
sole di mezzodì inoltrato il verde dell’erba e l’azzurro dell’acqua erano
straordinariamente vividi, e gettavano riflessi cangianti sulle pareti della
vecchia stanza da letto di Erin. Le ultime volte che assieme al divino consorte
si era recata dai genitori aveva dormito con lui nella camera degli ospiti,
dunque era da molto che non trascorreva la notte affondata tra la confortevole
montagna di cuscini e trapunte in cui si era rotolata per i primi diciotto anni
della sua esistenza. Le lenzuola sapevano di bucato come allora.
«Via quel
culo dal materasso, signora Inganni! Il pranzo è quasi pronto e hanno già
chiamato due o tre tuoi amici reclamandoti con ardore per strimpellare in
qualche pub.»
Seamus
spalancò la porta con un calcio, asciugamano gettato sulle spalle e spazzolino
da denti brandito a mo’ di spada, e la flautista gli lanciò d’istinto una
pantofola, centrandolo:
«Via tu
dalla mia stanza, decerebrato! Ti sembra questo il modo di dare il buongiorno a
una dama altolocata come me? E poi che cazzo di nome è “signora Inganni”?»
grugnì.
Suo
fratello scoppiò a ridere: «Come dovrei chiamarti? Su ad Asgard non hanno
cognomi.» rispose tirandole indietro la ciabatta; «Dai, ti aspetto giù con il
nonno.»
«Tu non
dovresti essere all’università invece che qui a cazzeggiare?» lo provocò Erin
emergendo dalla massa di coperte, i capelli gonfi e scarmigliati come un nido.
«Esami.
Faccio quello che voglio.» trillò Seamus scendendo le scale.
La cucina
profumava di caffè appena fatto e la vecchia radio d’epoca sopra il frigorifero
trasmetteva una canzone italiana che Erin amava molto, Le piccole cose. Enoch McNulty sedeva al tavolo con il giornale del
mattino sotto il naso e una sigaretta tra le labbra, i folti capelli canuti
simili a una nuvola nella luce che entrava dalla finestra:
«Buongiorno,
bella nipote. Ti sei ripresa dal viaggio?» la accolse solenne.
«Ho
dormito dodici ore, nonno, direi che mi sono ritemprata a sufficienza.»
sghignazzò lei prendendo posto e guardandosi intorno; «Cosa c’è da mangiare?»
Seamus le
versò un’abbondante tazza di caffè fumante: «Fidati di quel cuoco di tuo
fratello, donna! Piuttosto, credevamo che saresti tornata subito ad Asgard,
dopo il concerto. Invece eccoti qui, a sorpresa e da sola. Non vi sarete mica
lasciati, tu e il signor Inganni?» domandò.
«Mus,
andiamo. Non vedi che tua sorella porta la fede, ora? E non penso si sia
risposata.» lo interruppe Enoch gettandogli una rapida occhiata di avvertimento.
Erin
continuò a ridacchiare, divertita dal fatto che tutti imputassero a un
fantomatico divorzio il suo trovarsi sulla Terra, e si ricordò di non aver
ancora raccontato alcunché ai familiari: non li aveva mai chiamati, da quando
era giunta a Boston, salvo la sera dell’esibizione.
«In
realtà non torno ad Asgard da quasi un mese.» cominciò a spiegare con un
sospiro, sorseggiando l’espresso bollente: «Stanno succedendo cose assai gravi
e Loki ha ritenuto opportuno allontanarmi per tenermi al sicuro. È venuto a
trovarmi due settimane fa.»
Enoch
abbassò il quotidiano, ripiegandolo: «Quali cose gravi?»
La musicista
fece un gesto vago: «Minacce di guerra, piani contorti. C’è un popolo, storico
nemico degli Æsir, che ha proposto a mio marito un’alleanza nascosta volta a
distruggere Asgard in nome di una vecchia vendetta. Lui ha finto di accettare e
ha elaborato un controinganno, di cui sia Odino che Thor sono al corrente, per
togliere di mezzo i suddetti nemici una volta per tutte. Ha motivi molto personali
per non sopportarli.» riassunse.
«Chi
sarebbero questi tizi?» volle sapere Seamus. Aveva le sopracciglia aggrottate e
sembrava affascinato dalla vicenda, che doveva apparirgli dannatamente epica.
«Jotun,
Giganti di Ghiaccio. Mai visti in vita mia, ma mi dicono che sono dei grandi
figli di puttana.» borbottò Erin da dentro la tazza.
«C’è già
stata battaglia? Oppure è quello che stanno aspettando prima di farti tornare?
E quale sarebbe il piano contorto di cui parli?» interloquì il nonno in tono
grave.
Una delle
pentole sul fuoco sfrigolò e Seamus si affrettò a controllarne il contenuto,
distraendo per un minuto i congiunti dal difficile discorso e dando campo libero
alla radio, che adesso stava diramando le ultime notizie nazionali.
«Vorrei
tanto sapere se c’è stata o no. Potrebbe essere esploso l’intero regno, per
quel che ne so, e finché qualcuno non si degnerà di scendere quaggiù ad
aggiornarmi non potrò far altro che inventarmi le peggiori ipotesi al riguardo.»
sbottò Erin abbandonandosi contro lo schienale della sedia e rovesciando la
testa all’indietro; «Il piano contorto prevede che Loki se ne vada su Jotunheim
a intervalli regolari portando false informazioni ai Giganti sugli armamenti
asgardiani, mentre in realtà preparerà una trappola ai danni dei Giganti e a
vantaggio degli asgardiani. Non che mi convinca, ma lui è sicuro che quegli
stronzi blu non abbiano dubbi sulla sua presunta sincerità.»
«Sono veramente blu?» se ne uscì suo fratello
mentre rimestava nella casseruola.
«Perché non
ti convince?» indagò invece Enoch.
Lei
scrollò le spalle: «Perché dubito che gli jotun siano tanto sciocchi,
considerato poi che sono nemici di Asgard da eoni, e il mio divino consorte non
è proprio quel che si definisce una personcina affidabile. Inoltre questo suo
intrappolare con loro, quando avrebbe potuto trattarli da avversari
direttamente, ora che ha di nuovo l’appoggio della famiglia reale, mi fa
sospettare che abbia qualche mira nascosta di cui nemmeno io sono al corrente.»
«Qual è
la vecchia vendetta a cui ti sei riferita prima, Erin?» chiese Seamus spegnendo
il fornello.
«L’uccisione
dell’ex re di Jotunheim, Laufey, e la tentata distruzione di Jotunheim stesso.
I Giganti imputano a Thor tutto ciò, o così almeno hanno detto a Loki, ma è stato
Loki a fare entrambe le cose.» rispose la flautista guardando alternativamente
il fratello e il nonno, i quali sgranarono gli occhi e si bloccarono con in
mano il mestolo e l’ennesima sigaretta, fissandola: «Capite perché non sono del
tutto convinta di questo maledetto piano?»
Il
silenzio che calò nella cucina le confermò che capivano eccome. Enoch ritenne
opportuno alzare il volume della radio, tornata a trasmettere brani leggeri, e
Seamus scosse i ricci color rame chinandosi ad aprire lo sportello del forno:
la straordinaria fragranza di pane alle erbe che da esso si levò ebbe il potere
di rilassare Erin e di farle venire un grande appetito.
«Situazione di merda, sorella.» decretò il ragazzo.
«Grazie, fratello,
non me n’ero accorta.» lo schernì lei con un sorriso storto.
Il nonno
si affrettò ad apparecchiare la tavola e a tirar fuori tre bottiglie di
Guinness dal frigorifero: «Niente crucci a pranzo, nipoti. Mus ha preparato un
ottimo stufato e un dolce di birra e cacao che supera i confini della comune
bontà.» suggerì, e Seamus gongolò senza ritegno nell’affettare i suoi scones appena sfornati; «Ci occuperemo
più tardi dei problemi di Asgard, a stomaco pieno.»
Non che
ci fosse molto di cui occuparsi, pensò amaramente Erin. Quantomeno si dedicò al
cibo, distraendosi, e ad altre piacevoli conversazioni, e quando ebbero finito
di mangiare telefonò agli amici che l’avevano cercata durante la mattinata:
erano i ragazzi del suo gruppo di musica tradizionale, e poiché quella sera al
Crane era in programma una trad session e il proprietario reclamava la loro
presenza, le chiesero se le andava di provare nel pomeriggio e poi recarsi
direttamente là. La flautista accettò volentieri, sia per tenersi impegnata sia
perché da diverso tempo non suonava brani della sua verde terra e non stava coi
suoi vecchi compari.
Così indossò
la sua giacca di tweed prediletta, ereditata dall’adolescenza anni Settanta di
sua madre, e con la custodia del flauto in spalla si recò dagli amici. Grosse
nuvole gonfie e tinteggiate di grigio andavano addensandosi all’orizzonte,
simili a una flotta in rapido avvicinamento alla costa, e promettevano pioggia,
ma Erin non si curò di prendere l’ombrello. Si esercitarono blandamente fino
all’ora di cena, dedicandosi più alle chiacchiere che alle prove, e per le otto
raggiunsero il pub in Sea Road, giusto dietro il Claddagh e dunque non lontano
da casa Anwar-McNulty; c’erano già diversi altri musicisti, mescolati agli
avventori, e il palco al piano superiore era adorno di microfoni e alti sgabelli.
Dalle finestre si aveva una chiara visuale delle nubi sull’oceano, del Burke
Park, del prato in riva al mare e dei tetti delle villette di Grattan Road.
Alle nove e mezza, puntuali, iniziarono le sessioni musicali: il locale era
pieno su entrambi i livelli, e le esibizioni dei gruppi professionali si
alternarono a quelle degli amatori al pianterreno. La musica fluiva dall’alto
verso il basso e viceversa, i clienti la seguivano e la birra scorreva copiosa,
e più le pinte si colmavano più le voci si facevano allegre e in molti
azzardavano danze e canti d’accompagnamento.
Quando
giunse il turno di Erin e i suoi, il tasso alcolemico e quello di delirio erano
splendidamente elevati. Proposero brani classici come Drunken sailor e Rocky road
to Dublin e alcuni più particolari come il marinaresco South Australia, e subito prima di attaccare con lo strumentale Morrison’s jig un paio di potenti
fulmini squarciarono il cielo notturno, subito seguiti da rombi di tuono: la
flautista, che per fortuna aveva diverse battute d’aspetto, sussultò e col
cuore in gola combatté l’impulso di correre fuori per scoprire se si trattava
del temporale che le nuvole e il vento del pomeriggio avevano preannunciato o
se erano fenomeni che poco avevano a che fare col tempo atmosferico. La pioggia
prese però a scrosciare tranquilla ed Erin si portò il flauto alle labbra e
cominciò a suonare, gli occhi comunque puntati su quel che riusciva a scorgere
dalle finestre. Ci furono un altro lampo e poi un altro ancora, ma il secondo
non riverberò bianco nel buio né durò un istante – fu più simile a uno scroscio
di luce iridescente che si riversò proprio su Claddagh Park e che strappò un
grido di meraviglia agli astanti. La giga terminò un attimo dopo, quasi
accompagnando alla perfezione la comparsa del Bifröst nei cieli di Galway, ed
Erin non attese oltre: sapeva che qualcuno era finalmente sceso su Midgard per
darle notizie e che questo qualcuno non era necessariamente suo marito; la
prospettiva la terrorizzava, poiché se fosse stato Thor, o uno dei Guerrieri, o
Sif, o addirittura Odino, al solo vedere il messaggero avrebbe capito che
qualcosa di brutto era capitato a Loki. Afferrando la borsa dello strumento al
volo e infilandosi malamente la giacca, incurante dei richiami perplessi dei
compagni, abbandonò la propria quinta pinta di Guinness al suo destino e si
precipitò in strada come una furia, dirigendosi a gambe levate verso casa. La
pioggia fine e persistente le sferzava il volto, inzuppandole flauto, capelli e
indumenti, eppure la sua attenzione era tutta per il bagliore ormai attenuatosi
lasciato dal Ponte Arcobaleno.
Arrivò di
fronte al portone senza fiato, gli stivali completamente annacquati che
schioccavano a ogni passo, e udì i suoi parlare in soggiorno: ne scorgeva le
sagome attraverso le tende tirate, e distinse almeno un ospite in piedi vicino
al divano. La figura era alta e vestita di scuro, e prendendo un profondo
respiro Erin entrò, seminando acqua nell’ingresso.
«Hai fatto
un tuffo in mare, moglie?» la apostrofò la voce di Loki in tono sornione non
appena mise piede in salotto, e il sollievo fu tale da strapparle una sonora
risata.
La chioma
corvina del dio era solo lievemente imperlata di gocce di pioggia, e nonostante
si trovasse in terra mortale indossava una delle sue tuniche di velluto verde
dai ricami dorati sui bordi e calzoni e stivali neri. Seamus, Maeve e Enoch stavano
comodamente seduti, distribuiti tra i sofà e le poltrone, e Patrick
fiancheggiava il genero con un bicchiere di whiskey in mano.
«Datemi
dieci minuti per asciugarmi e sono da voi.» annunciò la musicista dopo aver
stampato un lungo bacio sulla bocca del consorte, e con ciò sparì al piano di
sopra.
«Domani?»
annaspò Erin cercando di deglutire senza soffocarsi la birra che stava bevendo.
«Domani.»
confermò Loki, che le sedeva accanto, guardandola di sottecchi.
Fuori la
tempesta sembrava giunta a una tregua e un forte vento si era levato, facendo
vibrare i vetri. La famiglia Anwar-McNulty pendeva dalle labbra dei Dio degli
Inganni, dai suoi racconti sul Regno dei Ghiacci e da quel che aveva appena
annunciato: l’indomani si sarebbe recato laggiù per l’ultima volta, per dare il
via libera per l’attacco. I varchi erano aperti, l’esercito di Asgard
approntato, e il tutto lievemente in anticipo rispetto a quanto aveva detto ai
Giganti; ecco perché confidava che le loro truppe non fossero ancora al
completo e che l’effettiva partenza di un contingente di Einherjar per
l’entroterra non avrebbe costituito un grosso problema. Tacque alla consorte e
ai suoi parenti il fatto che la già labile fiducia di Thor e Odino andava
assottigliandosi, il crescente nervosismo che serpeggiava a corte nonostante la
segretezza dell’operazione e la difficoltà di garantire l’efficienza delle
truppe senza che qualcuno violasse tale riserbo; tacque sui sospetti e sulle
minacce di Sif che cominciavano a contagiare, come prevedibile, anche Hogun,
Fandral e Volstagg, e tacque nuovamente al riguardo di Býleistr e della richiesta
circa l’uccisione del Dio del Tuono. Qualcosa, nelle pieghe più recondite della
sua mente, gli gridava che era uno sbaglio – minimo, ma pur sempre uno sbaglio:
Erin Anwar era sua moglie e l’unica persona di cui si fidasse, nonché l’unica
che di lui si fidava, e almeno con lei avrebbe dovuto essere completamente onesto.
E tuttavia era così certo della riuscita delle proprie macchinazioni che si
disse che avrebbe potuto tranquillamente rivelarle quei dettagli quando tutto
fosse finito, quando finalmente avrebbero osservato, abbracciati, il Reame
Eterno divenuto ormai suo.
«Al più
tardi tra due dì tornerò a prenderti.» asserì quindi circondandole le spalle
con un braccio e sorridendole con espressione sinceramente rassicurante.
Lei
mugugnò in risposta e si accoccolò maggiormente sul divano, la fronte corrugata
sopra il bicchiere di Guinness. Seamus allora si alzò di scatto dalla poltrona
battendosi entrambe le mani sulle cosce: «Il messaggio è chiaro. Io mi ritiro.
Voi?» se ne uscì platealmente e con un sopracciglio inarcato con aria
sfrontata, rivolto ai genitori e al nonno.
«Vado a
prepararvi il letto nella camera degli ospiti!» cinguettò la madre dileguandosi
verso le scale, seguita a ruota dal coniuge che dedicò un cenno di saluto
all’asgardiano; Enoch terminò la propria sigaretta, la spense nel posacenere e
li imitò dando ai due sposi la buonanotte. Il secondogenito degli Anwar fu l’ultimo
ad andarsene e la sorella gli ringhiò dietro un secco “idiota!” a cui il
ragazzo replicò ridacchiando di gusto.
L’irlandese
e il dio rimasero soli nella stanza morbidamente illuminata e in cui l’ultima
Pall Mall di Enoch aveva tracciato un lieve alone di fumo. Il suono del vento
che giungeva ovattato dall’esterno, il comodo sofà e il calore del corpo di
Loki le misero addosso una gran voglia di starsene lì stretta a lui, a lasciarsi
cullare da quel senso di pace, dalla stanchezza e dal desiderio, e tuttavia si
costrinse a mettersi in piedi e a deambulare fino alla cucina: odiava i domani, e soprattutto i domani di quel genere. D’un tratto era
come ritrovarsi alla base dello S.H.I.E.L.D. in mezzo al deserto con la
promessa di una battaglia e di una separazione a pendere sopra le loro teste, e
sulla sua in particolare, come una fottuta spada di Damocle. Il dio le aveva
garantito che avrebbe potuto fare presto ritorno alla reggia e lei non dubitava
della sua parola, se le cose fossero andate bene – e proprio quello era il
problema: non c’era alcuna certezza, nella sua visione della faccenda, che essa
sarebbe finita nel migliore dei modi. E se Loki pareva incrollabile nella
propria confidenza, il dubbio che gli jotun fossero meno stupidi del previsto e
il timore che quella sarebbe stata l’ultima notte che trascorreva col marito
continuavano a mordere odiosamente lo stomaco di Erin, al punto di relegare in
secondo piano l’idea che lui le stesse mentendo o addirittura la stesse
imbrogliando.
«Erin. So
che sei preoccupata, e non dovresti esserlo. Credimi.» la apostrofò il principe
entrando in cucina e intuendo il suo turbamento. Si chiuse la porta alle spalle
e si avvicinò alla musicista, osservandone le belle gambe che spuntavano nude
al di sotto della casacca abbottonata e dei corti pantaloni del pigiama e
pensando a quanto aveva bramato stringerla nei giorni precedenti. Portava
ovviamente il suo anello d’oro, notò compiaciuto.
«E ti credo,
marito, ti credo. È dei tuoi dannati Giganti che non mi fido affatto.» ribatté
lei mentre sciacquava il bicchiere usato; «Come ti dissi un anno fa, però, sei
talmente sicuro di ciò che affermi che mi fiderò ancora di te.» aggiunse
guardandolo.
Si spostò
al tavolo per asciugare la stoviglia e l’asgardiano le fu alle spalle, calmo e
silenzioso, senza smettere di fissarla. Erin sentì il suo fiato tiepido sul
collo e inghiottì un sospiro vibrante, agognando il suo tocco, e quando le mani
di lui scesero tranquille a sganciarle i bottoni della maglia quasi sussultò.
Poi si allontanarono per pochi secondi, il tempo di aprirsi i ganci della
tunica, e tornarono indietro, e scivolarono sulla pelle tiepida dell’irlandese
fino a infilarsi oltre l’orlo dei suoi calzoncini, e oltre ancora. Lei emise
una buffa, brevissima risata simile a un soffio e si appoggiò al consorte
rovesciando il capo per baciargli la linea del mento: era dagli anni del liceo
che non faceva clandestinamente sesso in casa dei suoi, e l’idea la divertì ed
eccitò insieme. Sentì le lunghe, forti dita di Loki risalire ai suoi seni,
tornare indietro e fermarlesi sui fianchi tenendola saldamente contro il
proprio bacino, e una morsa ben nota le trafisse il basso ventre, una voglia
tangibile che la pungeva tra le gambe.
Chinandolesi
sopra, il dio spinse la moglie ad abbassarsi, e vedendola aggrapparsi al tavolo
e chiudere gli occhi e inarcare la schiena strinse la presa sui suoi lombi e
affondò in lei con un fremito. Ed Erin si morse la lingua per non urlare
troppo, e le tristi prospettive di morte, d’ignoto, di separazione, inganno e
lontananza che la crucciavano furono spazzate via; non scomparvero del tutto,
ma non poterono competere col piacere che come una marea di lava le arroventò
ogni cellula – e che altrettanto infiammò l’asgardiano, che si tenne ai fianchi
e alle natiche della donna d’Irlanda come se temesse, segretamente, di vederla
svanire, o di svanire lui stesso. Con le mani andò a premerle sull’inguine e
più giù, e lei non seppe esimersi, stavolta, dal gridare. E poiché aveva
bisogno di guardarlo, di mirare il volto che tanto amava, si sforzò di fermare
il marito e di staccarsi da lui quel poco che bastava per girarsi, distendersi
sul tavolo e tirarlo tra le sue cosce, impossessandosi finalmente della sua
bocca.
E
continuarono così a fare l’amore, scomodamente adagiati l’uno sull’altra e
reciprocamente, completamente ebbri, nell’accogliente stanza immota colma solo
dei loro caldi respiri.
Fuori
aveva ripreso a piovere.
Note
E così finisce la quiete prima della tempesta.
Un capitolo ambientato in quel di Galway era doveroso, anche perché adoro
la famiglia (di pazzi) di Erin: nel cast ideale di un film tratto dalla storia
Seamus sarebbe Eddie Redmayne, mamma Maeve sarebbe Catherine Tate, babbo
Patrick sarebbe Tim Daly e nonno Enoch nientepopodimenoche
Clint Eastwood. E se prendete una mappa di Galway ritroverete tutte le vie, i
parchi e i locali che ho citato. L’appellativo “signora Inganni” che Mus dà
alla sorella è la traduzione migliore che ho potuto dare, in italiano, a “Ms.
Mischief” – ovvero come Mus la chiamerebbe in lingua originale, essendo Loki “Mr.
Mischief” ;)
Il titolo del capitolo è tratto da Jump
on my shoulders degli Awolnation, che nella prima strofa dice there’s a mad man looking at you / and he
wants to take you soul / there’s a mad man with a man plan / and he’s dancing
at your door. La canzone che la radio passa, Le piccole cose, è del mio vecchio gruppo, Les Griotes: dovreste
ancora trovarla su Facebook, MySpace e simili, se vi va di sentirla; anche
altri due dei brani che accompagnano questo capitolo, Planxty Davis per la parte del viaggio in autobus e Morrison’s jig, sono rintracciabili
sulle pagine del mio gruppo di musica irlandese, gli How Now Brown Cow *ora la
pianto con lo spam musicale*, mentre per la scena finale ho scelto The lightning strike degli Snow Patrol.
Cosa accadrà mai adesso, secondo voi? Eddai, una recensioncina
lasciatemela, siamo quasi a Natale :D
Grazie a tutti e ci sentiamo col prossimo (importantissimo) capitolo.
Ossequi asgardiani :)
Capitolo 8 *** 8. This town ain't big enough for the both of us ***
8
8.
This
town ain’t big enough for the both of us
«I
soldati ai varchi sono in posizione, Maestà.»
Odino
sollevò il capo nell’udire la voce di Týr figlio di Hymir, generale
dell’esercito del Reame Eterno, il quale si era appena inchinato alla base della
scalinata del trono con il proprio elmo ossequiosamente tenuto tra le mani. Il sovrano
raddrizzò Gungnir e osservò la grande sala: oltre al lui e al comandante gli
unici presenti erano le guardie silenziose disposte lungo il colonnato che dava
all’esterno e Thor, che a braccia conserte guardava verso l’Osservatorio.
«Che
ordini vuoi che dia al resto delle truppe, mio re?» chiese ancora il Dio della
Guerra.
«Fa’ che
siano pronti a tutto ma non dare disposizioni precise. Non sappiamo con
esattezza come giungerà l’attacco, e dobbiamo attendere il ritorno di mio
figlio da Jotunheim. Sino ad allora nulla faremo. Ti è stato possibile
mantenere il segreto sul suo piano?» rispose Odino.
Týr annuì
lentamente: «I miei uomini non fanno domande inopportune quando si tratta di
vostri comandi, Maestà. Sanno che sul regno grava la minaccia di una possibile
guerra, la stessa per cui avete mandato gli Einherjar nell’entroterra.»
garantì.
L’accenno
al diversivo suggerito da Loki e che il Padre degli Dei aveva messo in pratica,
pur con riluttanza, indusse Thor a voltarsi in direzione dello scranno reale
con vago nervosismo, mentre lo sguardo di Odino s’incupiva un poco:
«Molto
bene. Ho dato disposizioni a Lady Brunhilde affinché gli Einherjar rimasti a
Folkvangar siano messi a difesa delle mura della capitale. Una volta che il
principe sarà tornato manderò un messaggero oltre le montagne per richiamare
gli altri.» egli disse.
«E la
cavalleria, mio re? Chi la guiderà?» volle sapere il generale.
«Uno dei
migliori guerrieri della mia casata. Tu preoccupati delle legioni della
fanteria, valoroso Týr. Io e mio figlio Thor ti daremo manforte.»
Il dio
s’inginocchiò portandosi un pugno al petto, comprendendo che la conversazione
era giunta al suo termine: «Obbedisco, mio signore.» si congedò.
Il
sovrano lo salutò con un breve cenno solenne, quindi il barbuto comandante si
rialzò, si coprì nuovamente la testa con l’elmo e uscì a passi misurati dal
salone. Il Dio del Tuono aspettò che fosse scomparso oltre il portico prima di
avvicinarsi al seggio d’oro del padre; indossava già l’armatura completa,
sebbene avesse lasciato Mjölnir all’armeria.
«Cosa ti
cruccia, padre?» indagò, anche se conosceva la risposta.
Odino
abbandonò il trono e discese i gradini per accostarsi al primogenito:
«Seguire
il consiglio di tuo fratello sull’allontanamento degli Einherjar potrebbe
essere stato un errore. Con le truppe delle Valchirie a ranghi ridotti potremmo
avere gravi problemi nel respingere gli jotun, per quanto le trappole
funzionino e l’attacco non ci colga impreparati.» gli confidò; «I rinforzi
potrebbero arrivare troppo tardi comunque.»
Thor ebbe
un lieve spasmo d’insofferenza: «Parla chiaro, padre, ti prego. So che ciò che
temi è che Loki ci tradisca o ci abbia traditi, poiché è ciò che tormenta me.»
Ripensò a
quella mattina, quando il Dio degli Inganni era rientrato dalla sua ultima
visita alla moglie e si era fermato a scambiare qualche ambigua parola con lui;
poi lo aveva visto recarsi nelle proprie stanze e uscirne con indosso elmo,
corazza e mantello per chiudersi, infine, nella sala dei cimeli. Di sicuro da
lì aveva attraversato il portale per andare fin su Jotunheim seguendo i
sentieri oscuri che mai Thor aveva percorso. Immaginò che in quel momento suo
fratello stesse convenendo coi Giganti sull’inizio dell’assedio e sperò con
tutto sé stesso di vederlo comparire a breve lì, nella sala del trono, per
annunciare che tutto era andato alla perfezione: solo allora avrebbe ripreso a
respirare liberamente e avrebbe saputo che la fiducia che si sforzava di dargli
non era stata malriposta né futile.
«Hai
parlato chiaro per entrambi, figlio.» mormorò il Padre degli Dei con amarezza.
Tacquero,
e insieme camminarono fino alla balconata che fiancheggiava le logge. La città
brulicava di vita sotto di loro, coi suoi palazzi e ponti, e al di là delle sue
muraglie i Campi di Idavoll splendevano verdi nel sole velato, belli e infidi
come il mare prima della tempesta.
La mole
della Cittadella incombeva su di lui come un’infausta promessa, e tuttavia Loki
non si fermò. Lasciando una netta scia d’impronte nella neve profonda e
farinosa coprì il tratto che lo separava dall’ingresso della fortezza, le
spalle ben dritte nonostante giungesse a piedi e non a cavallo: passare dal
varco aperto nella gola tra i monti a nord dei Campi di Idavoll avrebbe
costituito un rischio, dacché era quello che l’armata dei Giganti avrebbe
utilizzato per riversarsi nel Reame Eterno – e portare un destriero nella
stanza dei trofei non sarebbe stato esattamente saggio. Del resto, il passaggio
era vicino alla rocca di Býleistr.
Gli jotun
erano ovviamente in fermento. Gruppi di fanti entravano e uscivano dalle mura, nel
grande cortile lupi e pentapalmi venivano bardati per essere cavalcati e l’aria
gelida odorava di fumo e metallo; l’asgardiano riconobbe Glaumar e Hroar e
scambiò con loro un’occhiata e un cenno, e considerò fugacemente che se gli
uomini del fratellastro erano tutti lì erano assai meno di quanti avesse
immaginato. Non riuscì a discernere se ciò fosse un bene o piuttosto
l’inquietante indizio di qualcosa che gli era sfuggito, e per un istante esitò,
pensando che forse avrebbe dovuto assicurarsi che ogni cosa si stesse svolgendo
come aveva previsto, prima di presentarsi dal figlio di Laufey. Ma questi comparve
in cima alle scale d’ingresso del castello a braccia spalancate, reso ancor più
possente dall’armatura di cuoio e nero uru che lo ricopriva, e Loki non potè girare
i tacchi e andarsene:
«Salute,
fratello. Sembra che tu sia pronto alla battaglia.» si sforzò di apostrofarlo.
«Salute a
te, fratello!» esclamò Býleistr; «Siamo invero pronti a marciare, se tu mi
darai carta bianca. L’ora della vendetta è finalmente arrivata.»
Il
principe ingannatore gli lanciò un sorriso storto e salì fin sulla soglia, sempre
guardandosi intorno nel tentativo di cogliere dettagli che potessero
rassicurarlo o allarmarlo definitivamente. Non vide però niente di particolare,
all’infuori dei soldati e delle bestie che già aveva notato e che continuavano
a muoversi nel vento offuscato da scaglie di ghiaccio.
«Hai
carta bianca. I varchi sono tutti aperti, gli Einherjar lontani dalla capitale,
e il Padre degli Dei non sospetta alcun attacco da parte vostra. I suoi timori
sono concentrati sull’ancor più catastrofica idea che sarà il Folle Titano ad
assaltare Asgard.» mentì dunque, e improvvisando aggiunse: «Mi crede nelle mie
stanze, intento a sondare il cosmo in cerca di segnali che indichino la
presenza di Thanos, e se non sarò di ritorno entro un giro di clessidra
s’insospettirà. Non sei riuscito a radunare le tue forze al completo, fratello?
Mi aspettavo un’armata assai più numerosa.»
Il
giovane re sorrise e gli fece strada dentro il palazzo, solerte:
«Riscaldati
e bevi una coppa di vino con me, fratello. Brinderemo alla vittoria.»
L’asgardiano
esitò di nuovo, e nel frattempo l’altro chiamò due servi con uno schiocco di
dita e ordinò che Hugrun fosse convocato al suo cospetto. I due obbedirono in
fretta, dileguandosi nel dedalo di alti e bui corridoi che si spalancava dietro
Býleistr, ed egli versò di persona il vino nei bicchieri di bronzo che gli
erano stati recati.
«Una
coppa soltanto.» concesse Loki con celato nervosismo, e con una mano saggiò la
tasca interna del pastrano per controllare che i suoi fidi pugnali fossero al
loro posto. Doveva assecondare il Gigante fino all’ultimo, si ripetè mentre
beveva l’aspro nettare.
L’anziano
generale comparve nella stanza, seguito da un drappello di guerrieri, e vi fu
un brevissimo intreccio di sguardi tra lui e il sovrano che il dio trovò
strano. Abbassò allora il calice e il fratellastro innalzò il proprio, il volto
ceruleo acceso e fiero:
«Brindo a
questo giorno, il giorno in cui chi ci colpì e distrusse a tradimento conoscerà
quella medesima sorte. Brindo alla caduta di Asgard e alla gloria di Jotunheim,
e brindo a mio padre Laufey il Grande, che mai sarà dimenticato.» declamò in
tono vibrante, fissando l’asgardiano dritto negli occhi – e i suoi ardevano di
una luce che a Loki non piacque.
Býleistr
gli passò un braccio sulle spalle, bloccandogli la visuale e buona parte dei
movimenti, e il principe contrasse d’istinto i muscoli.
E lo
jotun disse: «Brindo alla mia vendetta, fratello. E alla tua fine.», e nel
dirlo un ghigno gli aprì le labbra sottili, e fulmineo estrasse dal fodero la
propria daga.
Ma il Dio
degli Inganni non si fece cogliere completamente impreparato. Riuscì a divincolarsi
in modo da schivare il potenziale affondo dell’altro, e ruotò su sé stesso per
capire con precisione cosa stava accadendo e come muoversi: per adesso sapeva
soltanto che il suo glaciale congiunto lo aveva preso in contropiede, e ne
ignorava i motivi. Aveva sgarrato o fatto qualcosa che Býleistr aveva ritenuto
uno sgarro? Era una sua mera precauzione per evitare imbrogli da parte di colui
che degli imbrogli era il maestro? Oppure il Gigante aveva pensato di agire
così fin dall’inizio? Nel dubbio, Loki non aveva alcuna intenzione di farsi
catturare.
Un paio
uomini di Hugrun gli furono addosso e lui li prese di striscio con un unico
fendente dato con uno dei suoi pugnali; uno dei due urlò, portandosi una mano
alla faccia, e subito altri tre soldati si fecero avanti e compatti come
macigni si lanciarono sull’asgardiano: il primo lo colpì sulla mascella, facendogli
vibrare dolorosamente la testa e cadere l’elmo, il secondo lo costrinse a
piegarsi in avanti con un pugno al centro del torace e vi accompagnò una
gomitata ben assestata tra il collo e le scapole; l’Ingannatore crollò su un
ginocchio, digrignando i denti, il coltello gli sfuggì dalle dita e il terzo
jotun lo frustò sulla schiena con la lama della propria spada prima che potesse
allungarsi per riprenderlo.
Con un
grido ringhiante e furibondo Loki cadde su entrambe le ginocchia e le mani,
avvertendo il calore malsano della ferita unirsi al freddo che saliva dal
pavimento. Tentò di combattere il malessere e di scuotersi abbastanza da poter
ricorrere alle arti magiche, ma i Giganti gli furono nuovamente sopra e gli
cinsero i polsi con una bizzarra, leggera catena che bruciava come ghiaccio e
che gli tolse le poche forze che gli rimanevano.
Býleistr
rise di gusto: «Trattatelo come si conviene a un principe. Lo voglio innocuo,
non morto o incosciente.» comandò, e i suoi tirarono malamente su il
prigioniero tenendolo per le braccia incatenate. Hugrun rimase silente nel suo
angolo.
«Comincio
a credere che ci sia stato un equivoco, fratello. Uno spiacevole equivoco.
Parliamone, se lo desideri, e poi lasciami andare. Altrimenti il nostro piano
si vanificherà.» azzardò il dio facendo appello a tutto il suo fascino e
restituendo al ceruleo re una rauca risata, mentre si concentrava per
sdoppiarsi o smaterializzarsi. Eppure nulla accadde.
«Oh,
vorresti usare i tuoi incanti? Mi dispiace, non sono così sciocco da bloccare
te e non la tua magia. Quella catena è fatta di uno speciale uru che di certo
voi asgardiani conoscete meglio di me. L’ho avuto a buon prezzo da un mercante
di Vanaheim e ammetto che svolge alla perfezione il proprio dovere.» lo schernì
Býleistr quasi con affetto.
Loki si
divincolò appena: «Perché dovrei fuggire se non ho fatto niente di male?»
seguitò a blandire il fratellastro, pur con una punta d’ansia nella voce.
«Perché
io ti ucciderò, principe. Non è forse un’ottima ragione per volersi dare alla
fuga? Inoltre tu hai fatto qualcosa
di male. Non in questo frangente, te lo concedo, ma l’hai fatto eccome.»
rispose il figlio di Laufey lentamente, assaporando ogni parola e il mutare
delle espressioni sul viso dell’asgardiano, il suo pallore che aumentava a
dismisura; «Io ho sempre saputo, principe, che quello di cui accuso l’altro tuo
fratello è in realtà imputabile a te. Ho sempre saputo che sei stato tu a
lanciarci contro morte e distruzione. Ho sempre saputo che tu, e non lo stolto
Dio del Tuono, hai tradito e ucciso mio padre a sangue freddo.»
Lo
stomaco di Loki si contrasse, sebbene se lo fosse in un certo senso aspettato,
e dunque si mantenne quasi impassibile nel replicare sibilando:
«Mi rendo
conto di aver commesso un imperdonabile errore, e non a caso ho scelto di
aiutare la mia gente per rimediare. Ciò che probabilmente ignori è che mai finii
disperso tra le nevi, né mai venni rapito degli asgardiani. È stato nostro
padre ad abbandonarmi a morire al gelo, dacché non mi riteneva un degno erede.
Non te lo ha raccontato, questo?»
Le iridi
di Býleistr si ridussero a due fessure rossastre, ed egli si avvicinò:
«Mi ha
raccontato molto più di questo, mio
padre.» disse lapidario.
«Già due
volte ti sei riferito a lui come tuo
padre, invece che nostro. Devo quindi
pensare che tu non sia davvero mio fratello? O che io non sia meritevole
nemmeno d’esser definito “figlio di Laufey”?» chiese l’Ingannatore, la mente
d’improvviso confusa.
Il
giovane jotun sorrise: «Oh no, tu sei mio fratello, Loki. Solo, non da parte di
padre.»
S’interruppe,
godendo della palese e rabbiosa curiosità che scorgeva nei verdi occhi ardenti
del dio, e si rivolse al generale: «Hugrun, va’ a prendere posizione. Bláin e
Vardrun guideranno assieme a te il primo attacco con le truppe regolari. Hroar
e Glaumar vi raggiungeranno con la seconda ondata. Assicurati che i soldati
scelti attraversino i portali diretti alla reggia di Odino, poi guida l’esercito
fin nei Campi di Idavoll.»
«Consideralo
fatto, mio signore. Caleremo impietosi su Asgard.» asserì il comandante.
«Bene.
Voi,» riprese Býleistr facendo cenno ai guerrieri che ancora trattenevano il
prigioniero, «legate il nostro ospite e attendete qui.»
Quelli
fissarono la catena di uru alla colonna centrale del salone, e Loki non seppe
reprimere l’impulso di divincolarsi ed esclamare: «Cosa significa? Non potete
far partire ora l’assalto! Non senza che io sia tornato ad Asgard. Se non mi
vedranno...»
«Se non
ti vedranno, e non ti vedranno, penseranno ciò che io voglio che pensino.» lo
interruppe il Gigante: «Che li hai traditi. Il che è effettivamente accaduto,
dal momento in cui hai accettato la mia alleanza. Moriranno maledicendoti,
com’è giusto che sia.»
Prese a
girargli intorno come una belva con la sua preda ormai spacciata, e il solo
pensiero logico che il Dio degli Inganni riuscì a formulare fu che il suo
nemico non sospettava che lui avesse giocato sempre contro Jotunheim, e non
contro il Reame Eterno. V’era ancora speranza per Odino e il suo dorato
esercito, nonostante la precocità dell’assedio, e Býleistr ignorava l’esistenza
delle trappole ai varchi minori. Tuttavia per sé Loki ne aveva meno di un
soffio, di speranza: «Sarebbe questa, la tua vendetta? Confidare nella labile
fiducia che gli asgardiani nutrono nei miei confronti e quindi uccidermi?»
proruppe, sprezzante.
«Ti
ucciderò soltanto alla fine. La mia vendetta è appena iniziata e tu ed io non
abbiamo alcuna fretta. Ho una storia da narrarti, principe.»
Il
giovane re richiamò i servitori e si fece portare uno scranno su cui si assise,
placido e ferino, dopo essersi versato con calma un secondo calice di vino. L’Ingannatore
deglutì a vuoto, la gola fastidiosamente secca; la ferita sulla schiena gli
pulsava senza posa.
«Rammenti
quando ti parlai di nostra madre, fratello? Rammenti? Farbáuti la bella, dai
capelli color del buio e la risata d’argento, così bella che da Svartalfheim
sino a Nidavellir in molti si sfidarono per averne la mano, durante la sua
gioventù. Era figlia di un ambasciatore del precedente sovrano dei ghiacci, e
assieme al genitore viaggiava spesso, entrando in contatto con gli individui
più disparati.» esordì Býleistr, sognante e asciutto al contempo: «Conobbe
così, tra gli altri, un giovane degli Æsir, un nobile guerriero, e si dice che
tra i due sorse subito un’incredibile passione. Non che fosse destinata a
durare, come ben immaginerai. Farbáuti era stata promessa, a sua insaputa, a
colui che avrebbe ottenuto il trono di Jotunheim alla morte del vecchio Fornjót,
e dunque a mio padre che vinse la lotta per la successione. E il giovane
asgardiano sposò una dama della sua razza, non so se per scelta o per dovere.»
Fece una
pausa, scrutando il fratellastro da sopra l’orlo della coppa di bronzo, e Loki
sentì il proprio respiro farsi pesante e affannoso: non poteva trattarsi di una
banale coincidenza, quel riferimento del figlio di Laufey al misterioso,
anonimo, nobile guerriero di Asgard. E poiché lo jotun gli aveva rivelato che
condividevano il sangue materno, e non quello paterno, con un serpeggiante
brivido comprese che il racconto era volto a far luce sull’identità di colui
che assieme a Farbáuti lo aveva messo al mondo.
«Trascorsero
gli anni, e giunse la lunga guerra tra Asgard e Jotunheim. Iniziò su Midgard, e
solo dopo si spostò nelle nostre terre. Eppure fu al termine degli scontri su
Midgard che l’antico amante asgardiano di nostra madre tornò. Non è stato mai
provato che fosse lui, ma a quell’epoca comparve un ignoto viandante, nei
pressi della reggia di mio padre, e Farbáuti sovente lo ricevette, mentre il re
era tra gli umani. Soltanto dopo, quando gli Æsir intervennero per fermare la
nostra espansione tra i Nove Regni, fu chiaro che lo straniero dimesso e
incappucciato altri non era che una spia del Reame Eterno.» proseguì Býleistr
con una certa teatralità; «Al principiare del periodo di combattimenti su
Jotunheim, nostra madre scoprì di essere gravida di un figlio. “Il primogenito
del nostro sovrano!”, esultarono sudditi e soldati in ogni dove, e Laufey
medesimo ritenne che si trattasse del frutto del suo seme. Si venne a sapere
che anche Odino e Frigga sua sposa avevano avuto un erede, il biondo Thor, e
ciononostante la guerra non si fermò. Poi Farbáuti partorì, alla vigilia di
quella che sarebbe stata la battaglia finale, e qualcos’altro divenne evidente
agli occhi di mio padre: il neonato che diede alla luce aveva, della stirpe
degli Jötnar, unicamente il colore della pelle, un blu sbiadito su carne troppo
morbida e liscia. Ed era piccolo, e rotondo, ed esile, un cucciolo degli Æsir
con sangue dei ghiacci nelle vene. Il figlio bastardo della regina e del suo
amante asgardiano.»
Loki
cessò di respirare per una manciata di attimi. Il cuore gli rimbombò nelle
orecchie e gli occhi gli bruciarono, come se lacrime irose gli offuscassero la
vista:
«Quale
asgardiano? Chi era lui, Býleistr? Chi
era?» domandò convulsamente, la voce che a malapena gli usciva. Poteva
trattarsi di un’altra menzogna del ceruleo re, ma se realmente era figlio di un
uomo di Asgard e di Farbáuti molte cose si sarebbero spiegate: la sua conformazione
fisica, soprattutto, l’esiguo amore che provava per Jotunheim e il legame che
suo malgrado sentiva con il Reame Eterno; avrebbe finanche dato un’altra
dimensione al gesto del Padre degli Dei – e si chiedeva se lui avesse sempre
saputo chi era, e perché gli avesse fatto credere d’esser dapprima suo figlio e
dopo figlio di Laufey. Questo si chiedeva, o tentava di chiedersi, poiché la
sua mente non riusciva a elaborare riflessioni compiute.
«Pazienza,
principe, pazienza.» ridacchiò lo jotun con dolcezza, prendendo tempo e
sorseggiando il vino: «Non t’interessa sapere cosa ne fu della nostra povera,
bellissima madre? Mio padre non la uccise immediatamente. Le fece confessare
ogni cosa, e ti abbandonò tra la neve a morire di freddo e di stenti. Quindi la
ingravidò e tenendola sotto chiave attese che il suo legittimo erede nascesse,
e una volta che io fui uscito dal suo ventre la soffocò sul suo letto di
puerpera. Alla gente fu detto che era morta di parto e che tu, il primo
rampollo, eri scomparso durante l’ultimo scontro, lo scontro che sancì la
nostra sconfitta.»
Rise,
deliziato, e quello sgradevole suono andò a pungere lo sterno del Dio degli
Inganni, già stretto a causa dell’immagine della sua vera madre ammazzata come
una cagna:
«Dimmi il
nome di quell’asgardiano.» quasi gridò.
Býleistr
lo ignorò: «Ah, quale non fu la mia sorpresa nell’apprendere che eri vivo,
nientemeno che ad Asgard, e che proprio il Padre degli Dei ti aveva cresciuto
come un principe e come suo figlio! Il mio, di padre, non è vissuto abbastanza
per poter godere assieme a me di un tale beffardo, incredibile, perfetto
scherzo del fato.»
«Voglio
quel nome, Býleistr!» ripeté Loki ormai urlando.
«Non hai
ancora capito, fratello?» sibilò il Gigante facendosi serio e crudele: «Non è
abbastanza ovvio? Tuo padre probabilmente non si è mai reso conto di aver
salvato e accolto il suo erede illegittimo, o non avrebbe pensato che tu fossi
figlio di Laufey. Eppure tuo padre e colui che ti trovò sono la stessa persona,
e credimi, non potrei esserne più sicuro.»
Si alzò
dal seggio, e torreggiando sull’Ingannatore scandì:
«Quanta
sofferenza inutile hai seminato e patito, Loki figlio di Odino.»
Fu come
se un fulmine lo avesse colpito. Il quadro gli parve lampante, completo e spietato;
si aggrappò disperatamente alla possibilità che Býleistr stesse mentendo,
eppure in cuor suo era conscio del contrario: se comunque lo avrebbe ucciso,
perché rivelargli una cosa del genere? C’era stato un tempo, in seguito alla
scoperta di essere uno jotun – un mezzo
jotun – in cui Loki avrebbe dato qualunque cosa pur di cancellare quella
consapevolezza e tornare a essere il secondogenito del Padre degli Dei, e
adesso che ciò si era avverato, ribaltando nuovamente il suo mondo e le sue
convinzioni, si stupì di quanto odiasse quella verità.
Vanificava
tutto, vanificava il suo disprezzo, le azioni che aveva commesso in nome di una
causa divenuta sua soltanto, vanificava quel che aveva perduto, costruito e
infine riconquistato. Era una gigantesca beffa, un giro a vuoto attraverso il
cosmo, un ritrovarsi al punto di partenza con un fardello di rovine sulle
spalle. Difficilmente avrebbe potuto venirlo a sapere senza l’intervento del
suo vendicativo fratellastro, e tuttavia si sentì uno stolto, un patetico
ingenuo, un povero idiota. E se morirò qui, pensò, verrò ricordato dagli Æsir
come figlio di Laufey, traditore e criminale, e per loro niente sarà cambiato.
Dalle
labbra serrate esalò una gutturale e cantilenante risata simile a un lamento,
il capo chino sul petto: «E ora mi darai il colpo di grazia, fratello?» soffiò contro Býleistr.
«Lo
desideri così tanto? Non vorresti prima rivedere la tua dolce sposa mortale?
Oh, hai ragione,» rispose questi gesticolando verso i sei guerrieri che ancora
attendevano comandi sul fondo della sala, «non potresti comunque. Lei è su
Midgard e tu qui, e come se non bastasse l’hai ripudiata.La sua sorte non dovrebbe più toccarti,
giusto?»
Il
riferimento a Erin spiazzò l’Ingannatore, mozzandogli il cupo riso nella gola
arida.
«Erin di
Galway.» sillabò il giovane re: «Ritengo che tua moglie si trovi lì, essendo
Galway la sua città natìa. Prode Gangr, ti recherai subito là coi campioni tuoi
compari e troverai la Dama del Flauto. E quando l’avrai trovata, farai ciò che
sai.»
«Býleistr.
Quella donna non significa nulla per me.» azzardò il dio annaspando, le mani
chiuse a pugno. Sapeva dove il suo nemico sarebbe andato a parare. Lo sapeva,
lo avvertiva, inevitabile come il sudore freddo che gli colò dalla nuca fino
alla base della schiena.
«Vuoi che
faccia esattamente quel che mi hai
detto, mio signore?» s’informò Gangr.
Il figlio
di Laufey lo guardò, le iridi scarlatte che fiammeggiavano, e sorrise.
«Býleistr!»
tuonò l’asgardiano. Fingere che non gl’importasse di lei si faceva arduo, e
cominciava a dubitare che sarebbe servito a fermare il fratellastro. Si agitò,
scuotendo le catene, e l’uru gli graffiò i polsi.
«Lo voglio,
Gangr. Uccidete l’irlandese.» fu l’ordine del Gigante.
E mentre
i sei soldati uscivano, Loki gridò, e fu un suono inumano e terribile quello
che gli uscì violento dai polmoni. E Býleistr si versò soddisfatto l’ennesima
coppa di vino e mirò fuori dalla grande porta del palazzo, verso la strada
maestra che pullulava di legioni.
E ad
Asgard un allarme fu affannosamente lanciato: gli avamposti di Jotunheim stavano
sciamando, a centinaia e anzitempo, sul verde mare d’erba dei Campi di Idavoll.
Note
Ho
rimandato più a lungo del previsto la pubblicazione di questo capitolo per almeno un paio di motivi.
Il primo sono le vacanze natalizie – per me vacanze per modo di dire, visto che ogni
anno c’è da suonare come dei disperati; il secondo è l’impopolarità della mia
povera storia, della quale devo prendere tristemente atto tutte le volte che
apro EFP *sigh*; il terzo, infine, è il capitolo stesso, perché è il punto di svolta
di tutto quanto e la rivelazione che dà è una vera e propria bomba, e non sono
sicura di come la prenderete :D
Va da sé che non è una mia idea: in Earth-1610 Loki è effettivamente figlio di Odino e Farbáuti, che
viene “data” ad Asgard in qualità di ostaggio/offerta di pace. La storia qui è
diversa, ma l’avere sangue per metà asgardiano e per metà jotun spiegherebbe
molte cose del nostro Ingannatore, a partire dal suo aspetto fisico – a me
devono ancora spiegare, nei film, come faccia a essere soltanto un nato
prematuro da due Jötnar, visto che ha le fattezze di un neonato ‘umano’ dai
colori sballati!
Questo capitolo è di gran lunga il mio preferito, per crudele
che sia, e mi ha dato modo di mostrare finalmente il vero carattere di Býleistr,
villain di cui vado sinceramente
fiera :) sebbene la nostra irlandese sia ora nelle peste a causa sua, e peste
GROSSE…
Il titolo è quello di una canzone semi-sconosciuta degli anni
’70 degli Sparks che è stata utilizzata per la colonna sonora di Kick-Ass, anche se qui la soundtrack è
meglio rappresentata dall’Adagio dei
Daft Punk in TRON Legacy.
Se intanto volete venirmi a trovare su tumblrtroverete grafiche sui due ingannevoli sposini e sul MCU in generale.
Ci sentiamo al prossimo aggiornamento! Tantissimi auguri di buon inizio
anno e ossequi asgardiani a tutti ;)
Capitolo 9 *** 9. And from the edge of Ireland shout out loud ***
9.
And from the edge of Ireland shout out loud
Dopo aver
salutato il marito, Erin se n’era rimasta a letto, quel mercoledì mattina:
trascorrere la giornata tra le coperte e nell’incoscienza si era sempre
rivelato per lei un ottimo espediente per non aggrapparsi coi denti alle tende
di casa in attesa di notizie dal cielo.
Ma poi,
intorno alle una, Seamus aveva alzato a manetta il volume del suo formidabile
impianto audio della Bose, Enoch per contrastarlo aveva fatto lo stesso con la
televisione in salotto e Maeve e Patrick erano rientrati contemporaneamente,
parlando a voce poco contenuta; avevano il pomeriggio libero entrambi, di
mercoledì.
Così Erin
aveva rinunciato al suo ineccepibile progetto e imprecando si era trascinata
fino in cucina, reclamando un caffè. Suo nonno l’aveva accontentata e suo
fratello li aveva raggiunti cantando per dare gli ultimi ritocchi al pranzo,
mentre i genitori si rinfrescavano; la flautista era troppo nervosa per avere
realmente fame, però si era seduta comunque a tavola, persa nel ricordo
dell’ardente amplesso che con Loki aveva consumato in quella stanza la notte
prima.
Allo
scoccare delle tre si ritenne infine abbastanza lucida e in forma da sostituire
il pigiama con abiti civili e fare qualcosa di costruttivo: una scampagnata e
un giro di compere con Seamus, per esempio, a godersi l’inizio della primavera.
Il ragazzo accettò di buon grado ed Erin si cambiò in fretta, indossando jeans
e stivali e un giacchetto di pelle sopra il maglione a collo alto; lei prese la
fida reflex, lui le chiavi della propria Vespa 50 Special e i caschi per
entrambi, e ignorando le rimostranze della madre circa l’inesistente impegno
universitario del secondogenito uscirono di casa, cipiglio fiero e occhiali da
sole piazzati sul naso.
La pioggia
aveva ripulito l’aria, rendendola limpida e nitida come un cristallo. I
gabbiani si lanciavano richiami volando alti sopra la baia, e oltre le sue
acque scintillanti si scorgevano i profili delle Isole Aran – e più oltre
ancora la distesa cobalto dell’Oceano. I fratelli Anwar, in sella al prezioso
mezzo italiano di Seamus, risalirono il fiume seguendo stradicciole di campagna
e giunsero sulle sponde occidentali dell’immenso Lough Corrib. Per un’ora
abbondante si godettero il tepore dell’Equinozio, stesi tra l’erba ancora
imperlata di gocce a scattare foto e guardare pigramente i pescatori che
sfidavano gli abitanti del lago, e quando l’astro diurno iniziò la propria
parabola discendente verso l’orizzonte si avviarono senza fretta in città.
Parcheggiarono nei pressi del cimitero, in cima alla Bohermore, e bighellonando
e occhieggiando vetrine si diressero in centro; si fermarono a chiacchierare
del più e del meno con diversi conoscenti e amici, ed Erin scoprì con notevole
sollievo di sentirsi più leggera. L’arte della distrazione era sempre stata un
punto forte degli Anwar-McNulty.
Ma come
arrivarono nei pressi di Eyre Square si accorsero che c’era qualcosa di strano,
nel cuore di Galway: c’era fermento, nella piazza, voci concitate si alzavano e
alcune persone si allontanavano correndo, gli sguardi abbacinati e i volti
pallidi. La scena ricordava per certi versi quella che la musicista e il Dio
degli Inganni avevano trovato a Dublino durante l’attacco dei soldati di
Thanos, seppur meno catastrofica, e non prometteva niente di buono.
«C’è
qualcosa che dovrei sapere, sorella?» le chiese Seamus in tono canzonatorio.
«Di
qualunque cosa si tratti, io non c’entro nulla.» lo freddò piano lei. Non era
troppo sicura di ciò che stava dicendo, né di cosa stesse realmente accadendo
di lì a qualche metro. L’unica certezza che aveva era il brutto presentimento
che le attanagliava le viscere.
«Allora
andiamo a vedere. Di nascosto, naturalmente.» propose il ragazzo.
Erin lo
seguì con relativa convinzione, rimpiangendo di avere a tracolla solo la
macchina fotografica e non la borsa del flauto. Una donna con due bambini per
mano passò accanto a loro di corsa, urtandoli, e un uomo dall’altra parte della
strada consigliò ai fratelli Anwar di non avvicinarsi a Eyre Square: «Altri alieni!»
urlò nel fuggire.
Nella
cornice che le case all’angolo tra Prospect Hill e la piazza formavano si
delineò una scena che nemmeno la flautista si aspettava: un nutrito gruppo di
donne, tutte dai capelli chiari, era tenuto sotto controllo dalla minaccia
delle rozze daghe di una mezza dozzina di alti e grossi esseri dalla forma
umanoide e dalla pelle cerulea; tutt’intorno ondeggiavano spettatori impotenti
e una squadra di spaesati poliziotti barricata dietro un paio di auto.
«Stiamo
cercando una giovane femmina bionda dagli occhi scuri.» stava dicendo con voce
stentorea e gelida uno dei giganteschi stranieri: «Gira armata di un flauto
magico, è la sposa di Loki di Asgard e il suo nome è Erin Anwar.»
Celati
dietro il muro di uno degli edifici, i fratelli soffocarono un’imprecazione e
Seamus sibilò alla sorella: «Tu non c’entri nulla, eh? Chi cazzo sono quelli?»
«Temo che
siano tizi di Jotunheim, i nemici degli asgardiani, e ho idea che non siano qui
per una visita di cortesia.» grugnì Erin. Con le dita contratte sull’intonaco
si sporse quel tanto che bastava per vedere e udire meglio, e la paura le punse
la gola.
«Ma non
mi dire.» fu la strozzata, sarcastica replica del ragazzo.
«Se Erin
Anwar è tra queste donne, che si palesi. Se non lo è, esigo che me la consegniate.»
proseguì Gangr – poiché di Gangr si trattava – rivolto al
tremebondo pubblico; «Se non lo farete uccideremo ogni giovane femmina bionda
della vostra piccola città, per fugare il rischio che ci scappi. Collaborerete,
miseri umani? O ci costringerete a forzarvi?»
Per
sottolineare la pienezza della propria intimidazione, il Gigante afferrò uno
degli ostaggi per il collo, una ragazza sui trent’anni che lavorava al Crane, e
la trascinò in avanti.
«Io non
sono Erin Anwar!» strillò la malcapitata, dimenandosi inutilmente.
«Allora
dimmi chi è, donna, o sarai la prima a morire.» ringhiò il suo aguzzino.
Per un
attimo il tempo parve fermarsi, in Eyre Square, fino a che una fiera e
perentoria esclamazione non s’innalzò dai bordi dello spiazzo:
«Non
oserete, fottuti jotun.»
Tutti si
voltarono: la musicista se ne stava a gambe orgogliosamente divaricate
all’angolo con la Prospect, un dito puntato contro gli alieni con aria di sfida
e lo sguardo furente. Non era stata in grado di trattenersi, e solo quando i sei
Giganti la fissarono e mossero il primo passo verso di lei Erin capì che
mordersi la lingua a sangue sarebbe stato meglio.
«Prendetela!»
ordinò Gangr con sommo compiacimento.
«Oh,
merda.» rantolò la flautista.
«Cogliona.»
deliberò lugubremente Seamus.
Quindi
girarono i tacchi e tagliarono la corda a gambe levate in direzione della
Bohermore.
«Tu farti
i cazzi tuoi mai, eh?» abbaiò il secondogenito degli Anwar contro la sorella
maggiore mentre correvano a perdifiato per tornare alla Vespa.
«Questi
sono cazzi miei, purtroppo! Vogliono me!» rispose Erin, stridula, boccheggiando
in cerca di ossigeno. Non osava voltarsi indietro, ma udiva distintamente una
babele di grida, schianti e persino spari alle loro spalle.
Seamus le
sputò in faccia una sorta di risata di scherno:
«Hah,
certo! Non venirmi a dire che non ti avrebbe fatto comodo lasciare quelle
povere tizie in mano a quei puffi farciti di steroidi. Sei una cazzo di
megalomane, non un’eroina!»
«Mai
detto di esserlo.» si difese debolmente lei; quindi azzardò un’occhiata a ciò
che stava accadendo tra la piazza e Prospect Hill e aggiunse: «Però forse loro mi ritengono tale.»
Anche
Seamus si girò, scoprendo così che i concittadini presenti, sia quelli che
avevano assistito alla scena intera sia coloro che erano stati testimoni della
fuga soltanto, stavano cercando in tutti i modi di impedire ai Giganti di
lanciarsi all’inseguimento degli Anwar; i poliziotti stavano chiamando
rinforzi, poiché le pistole d’ordinanza poco facevano contro i nemici. Era
chiaro come il sole che non li avrebbero trattenuti per più di qualche minuto,
e dovevano perciò essere immensamente grati alla musicista per il suo impavido
gesto, dacché stavano mettendo a repentaglio le proprie vite per lei.
«Sono la
signora Inganni. Risolvo problemi alieni.» fece il ragazzo scimmiottando
l’immortale battuta di Harvey Keitel in Pulp
Fiction.
«Zitto e
prendi le chiavi, idiota. Ci siamo quasi!» ansimò Erin di rimando.
La 50
Special scintillava nella luce calante del tardo pomeriggio come un piccolo, verde
faro di speranza. Gangr e i suoi erano nel frattempo riusciti a superare le
improvvisate barricate di civili e forze dell’ordine e si stavano avvicinando,
percorrendo a grandi falcate la Bohermore.
I due
fratelli se ne infischiarono dei caschi e saltarono sul veicolo, i polmoni in
fiamme e lo stomaco annodato, per poi partire sgommando. Seamus puntò con
decisione verso Moneenageisha Road: avrebbe costeggiato il Lough Atalia fino
alla stazione e aggirato così Eyre Square, e passando dai Docks si sarebbero
ritrovati in un baleno di là dal fiume.
Ma Gangr
non era uno sciocco. Abituato a studiare il terreno per battaglie e agguati,
nell’arrivare a Galway aveva subito individuato le zone d’acqua e la loro
posizione rispetto alla città – e augurandosi che non lo oltrepassassero
da sopra intuì dunque che la Dama del Flauto e il suo compare avevano
intenzione di fuggire lungo le rive del vicino lago: se li avessero preceduti e
attaccati lateralmente, i due midgardiani non avrebbero avuto scampo.
«Tagliate
per di qua!» ordinò ai suoi indicando la destra; «Io proseguo.»
I cinque
jotun non se lo fecero ripetere e si sparpagliarono tra il cimitero, lo stadio
e le vie traverse che riconducevano su College Road. E proprio in College Road
la Vespa filava a tutta birra, ed Erin e Seamus discutevano senza fiato su come
fare a mettersi in salvo.
«Dobbiamo
allontanarci da Galway!» insisteva lei.
«Non con
la Vespa! Non ho abbastanza benzina e siamo esposti come due polli allo spiedo.
Ci serve il Transporter del vecchio!» protestò lui, superando una macchina.
La
musicista estrasse nervosamente il cellulare da una tasca della giacca e chiamò
Enoch:
«Prepara
il Volkswagen, nonno!» ululò nell’apparecchio; «Io e Mus siamo nella merda!»
«Io e il
Volkswagen siamo arrivati adesso al Corrib per pescare, invece. Non so in che
genere di merda siate, ma non potreste accontentarvi di un altro mezzo di
famiglia?» ribatté laconico Enoch attraverso il vivavoce. Se ne indovinavano le
labbra strette sull’immancabile Pall Mall.
«No, qui
urge un mezzo corazzato come il tuo. I Giganti di Ghiaccio ci stanno inseguendo
e temo che vogliano farmi la festa. Dobbiamo scappare!» spiegò malamente Erin,
e Seamus chiese come mai quel giorno tre Anwar-McNulty su cinque fossero andati
al Lough Corrib.
In quella
uno jotun sbucò dalla strada del Greyhound Stadium, piombando su di loro da
dritta, e i due irlandesi urlarono come ossessi mentre la 50 Special sbandava,
evitava un’auto per un pelo e riguadagnava equilibrio grazie alla maestria del
ragazzo alla guida. Un secondo jotun irruppe sulla College un centinaio di
metri più avanti, e ovunque esplosero grida e colpi di clacson; più indietro,
Gangr stava loro alle calcagna.
«Giganti
di Ghiaccio? I nemici di tuo marito? Credevo tu fossi al sicuro!» esclamò il
nonno.
«A quanto
pare ci siamo fatti prendere tutti per il culo.» constatò Erin, cupa, e un
serpeggiante, brutto pensiero ancora privo di forma avviluppò la sua mente.
«Torno
subito a Galway. Barricatevi in casa finché non mi vedete.» suggerì Enoch.
«Questi
ce la spazzano via, la casa!»
«Ne
dubito. Mus, tu sai cosa fare.» asserì fermamente l’anziano congiunto.
Seamus
sogghignò, e con un verso battagliero gabbò un avversario sfrecciandogli tra le
gambe: la Vespa sembrava essere troppo scattante e imprevedibile per i cerulei
guerrieri. I due fratelli infilarono Forster Street, sterzarono in Fairgreen
Road e furono sul lungolago, tallonati dagli inseguitori; fortuna volle che che
un treno tagliasse la strada a questi ultimi all’altezza di Clarinbridge, dando
a Erin e Seamus il tempo di raggiungere le banchine del porto: qui trovarono il
corpo di polizia della contea al completo che, in assetto antisommossa,
presidiava Dock Road. Gli agenti avrebbero fatto del loro meglio per rallentare
gli alieni, garantì il comandante ai fuggiaschi, e tuttavia consigliò loro di
portare i loro guai intergalattici fuori dalla città: in centro c’erano feriti
e case distrutte, disse con freddezza.
La
flautista lo ringraziò in un grugnito riconoscente, e la 50 Special potè
finalmente conquistare l’altra sponda del fiume e svoltare sul Claddagh Quay
per fermarsi infine, esausta e rovente, di fronte al numero 19 di Grattan Road.
Maeve e
Patrick erano tranquillamente impegnati a sfaccendare, quando videro i figli
rientrare come furie e chiudersi a doppia mandata la porta alle spalle,
congestionati e senza fiato. Tuttavia si preoccuparono soltanto quando la
maggiore prese a sbarrare freneticamente tutte le finestre e il minore si
precipitò nello scantinato lanciando bestemmie a rotazione.
«Voi due!
Cosa avete combinato?» li apostrofò la madre.
Erin la
ignorò e, tirato l’ultimo catenaccio, corse in camera a prendere la borsa del
flauto magico. Si udiva intanto Seamus che spostava oggetti al piano interrato.
«L’importante
è che non siate braccati dalla polizia.» scherzò il padre, una birra in mano.
«Ti
assicuro che se fosse così sarebbe meglio.» ringhiò la musicista sbirciando la
strada attraverso le tende tirate: sui Docks la lotta appariva serrata, ma
ancora nessun Gigante era riuscito a superare efficacemente le barricate.
«Erin.»
la richiamò Maeve, il tono basso e grondante d’apprensione.
Lei si
voltò: «I tizi di Jotunheim mi hanno trovata. Mi danno la caccia, probabilmente
per uccidermi, e hanno inseguito me e Mus quasi fino a Griffin Road. I
poliziotti li stanno trattenendo ai moli, ma se il nonno non arriva in tempo
col furgone siamo spacciati.»
Nel
silenzio che lapidario calò nel salotto, la madre sussultò mormorando un “oh,
mio Dio” e Patrick abbandonò la lattina di Guinness, l’espressione grave:
«Loki
ieri sera ha detto che oggi si sarebbe recato dai Giganti e che poi ci sarebbe
stata battaglia ad Asgard.» ragionò; «Se i Giganti sono venuti qui a ucciderti
cosa significa? Che lui ha fallito? Oppure che...»
«Ho un
paio di ipotesi su cosa cazzo possa significare tutta questa merda, e sono una
peggio dell’altra.» lo interruppe la primogenita, tagliente e tremante dal
nervoso e dalla paura: perché aveva
paura, e più si rendeva conto di cosa poteva essere successo nel Regno dei
Ghiacci e più quel terrore la soffocava. Ciò che le veniva più naturale temere
era che il Dio degli Inganni fosse stato gabbato, catturato, forse persino
ammazzato dai suoi nemici dalla pelle blu, e che questi avessero deciso di far
fuori anche la sua debole moglie umana; se così era, lei aveva sempre avuto
ragione nel ritenere una trappola a suo danno quell’insistere con Loki sul
ripudiarla, sul mandarla via – e chissà in quante altre cose lo avevano
fregato.
Ma la
seconda possibilità era talmente atroce che il solo contemplarla le suscitò un
lieve conato e accelerò in maniera malsana il battito cardiaco: poteva essere
stato il principe in persona a dare l’ordine di toglierla dalla faccia della
Terra, o ad appoggiarlo se era venuto da altri. Poteva averla allontanata fin dal
principio con quell’intento, si disse. Per quanto non ci credesse fino in
fondo, per quanto riflettesse sul fatto che Loki era suo marito e che non
avrebbe avuto alcun motivo logico per sbarazzarsi della sua mortalissima
consorte con metodi così contorti, sapeva perfettamente chi Loki era e di cosa
era capace.
«Cosa
facciamo?» domandò Maeve gettando occhiate spaurite verso l’ingresso.
«Io devo
scappare e salvarmi il culo, mamma. Per questo ho bisogno del Transporter.»
rispose Erin; «Voi non saprei.»
«Noi ti
aiuteremo, figlia.» fu l’orgogliosa affermazione del padre: «Dicci solo come.»
«Il
“come” è di mia competenza, se permettete.» s’intromise una quarta voce.
Il
secondogenito ricomparve in cima alle scale della cantina, un sorriso scaltro e
feroce dipinto sul viso, la zazzera fulva scompigliata e un enorme scatolone
tra le mani: e dai bordi di tale scatolone spuntavano, lucenti, le canne di una
mezza dozzina di armi da fuoco.
La
flautista emise un suono a metà tra una risata e uno sbuffo:
«Da dove
diamine arriva quell’arsenale, pazzi furiosi che non siete altro?»
«Dai
tempi dei tuoi amici skrull o come si chiamavano.» gongolò Seamus; «E dalle
eroiche imprese del vecchio in guerra, naturalmente. Come credi che ci siamo
difesi quando non c’eravate tu e il signor Inganni a salvare capra e cavoli
come a Dublino?»
Patrick
si avvicinò e afferrò la canna più lunga con decisione:
«Questo
dovresti rammentarlo, Erin. Il mio fido Winchester 1873.» disse nel caricarlo.
«E
queste,» interloquì Maeve sollevando due pistole dall’aria vintage, «sono le
gloriose armi del nonno, la Luger rubata a un ufficiale tedesco e una Beretta
che riportò dall’Italia.»
«Una
Luger P08 e una Beretta 92, per essere precisi.» sottolineò il ragazzo; quindi
posò la scatola a terra e mostrò il resto, gli occhi accesi: una Smith &
Wesson calibro 44 Magnum, la stessa che brandiva l’ispettore Callaghan, e un
possente fucile a canne mozze.
«Con
questo uscirò là fuori e urlerò: “Allora, idioti primitivi, sturatevi le
orecchie! Vedete questo? Questo è il mio Boomstick! È un Remington a doppia
canna, calibro 12...”» declamò, ma la sorella gli tolse perentoria il fucile
dalle dita e lo guardò malissimo:
«Non mi
sembra un buon momento per citare L’Armata
delle Tenebre.» ringhiò.
Seamus ridacchiò:
«È sempre un buon momento per citare L’Armata
delle Tenebre.»
I
genitori si scambiarono uno sguardo angosciato, le armi in pugno:
«Hai
davvero intenzione di combattere quei Giganti, Mus?» indagò il padre; «Non sono
sicuro che questi siano utili, contro simili creature, e credevo voleste
aspettare Enoch.»
Erin
tornò alla finestra del soggiorno e osservò la situazione. Con orrore vide gli
agenti di polizia sparpagliarsi sui Docks e verso il ponte sul Corrib che
conduceva sul Quay, e capì che Gangr e i suoi avevano sbaragliato le esigue
difese irlandesi. Da dove si trovava non poteva scorgere l’inizio della via, ma
se gli jotun avevano imboccato quella giusta non avrebbero tardato a
riconoscere la Vespa verde riversa nel giardino di casa Anwar. E di Enoch
ancora non c’era traccia.
«Barricarci
qui non ha senso. Sfonderanno la porta e saremo con le terga al muro. Sperando
che il nonno arrivi entro una decina di minuti, l’unica soluzione che abbiamo è
affrontare gli stronzi blu a viso aperto. Siamo armati fino ai denti.» decretò.
«Sono
d’accordo. È ciò che intendeva anche il vecchio.» la appoggiò il fratello.
La madre
si torse le mani: «Avete già un piano d’attacco?»
«No, ma
improvviseremo.» replicò Erin: «Io e Mus li accoglieremo sulla soglia. Tu e
papà passerete dalla porta sul retro e ci raggiungerete costeggiando la casa da
entrambi i lati per coglierli di sorpresa. Siamo quattro contro sei, e abbiamo
un asso nella manica. Se non ci ammazzano prima, penso che li tratterremo
finché non avremo il Volskwagen.»
«È una
follia!» squittì Maeve, quasi eccitata a discapito dell’agitazione e del
panico; il secondogenito prese la Luger e la Beretta e le porse in cambio la
Magnum, e tutti si misero, solerti, a riempire i caricatori di proiettili e a
ficcarsi munizioni in tasca.
«Boomstick
è mio.» annunciò la primogenita. Teneva il fucile con aria eroicamente
incazzata, e si era messa a tracolla la borsa del flauto sopra il giacchetto di
pelle.
In
effetti, Gangr impiegò meno di un minuto nell’individuare il piccolo mezzo
midgardiano a due ruote. Inoltre aveva seguito a distanza l’ultimo tratto di
strada coperto dai due irlandesi in fuga, prima che la polizia intervenisse, e
sapeva già dove cercare.
Erin li
avvistò così sbucare dall’ampia curva che univa Claddagh Quay a Grattan Road, e
disse alla famiglia che era tempo di agire. Allora i genitori fecero scattare
le sicure delle armi e si dileguarono verso l’uscita posteriore – e Maeve
afferrò anche una padella, passando dalla cucina; la musicista e il fratello
attesero che i nemici fossero abbastanza vicini da essere a tiro e non troppo
da entrar loro in casa, e fissandosi annuirono deglutendo a vuoto.
«Se ne
usciremo vivi, ricordami di non accompagnarti più a fare spese.» mormorò
Seamus.
«Se ne
usciremo vivi, Mus, accompagnerò te ovunque tu voglia.» sorrise appena lei; «So
che col senno di poi avresti voluto essere altrove, oggi, però finora mi hai
salvato la vita.»
Il
ragazzo strinse le nocche sui calci della Luger e della Beretta:
«Stavolta
dovrai salvarti da sola, signora Inganni.» la avvertì, bonario.
Erin
sogghignò e si appoggiò al legno della porta d’ingresso:
«Ovvio. Ho
un canne mozze, razza di moccioso insolente.» gli rispose, e togliendo il
catenaccio aprì l’uscio con un gesto spavaldo.
Il sangue
le ruggiva nelle vene, il cuore le palpitava nella gola, e riconobbe la
sensazione che la pervadeva come la stessa che aveva provato prima della
battaglia alla base dello S.H.I.E.L.D. e durante lo scontro finale nel Reame
Eterno, quando lo avevano riconquistato strappandolo alle grinfie del Folle
Titano. E come in quelle passate occasioni paura e adrenalina si mescolavano,
divenendo impossibili da distinguere, e adesso a queste si aggiungeva una
rabbia sorda: se Loki aveva osato tradirla non ci sarebbe stata vendetta grande
a sufficienza da cancellare il sentimento orribile che ciò le avrebbe lasciato.
Ma se invece fosse stato lui quello tradito, se i fottuti jotun gli avevano
torto anche un solo capello, avrebbe fatto di tutto pur di salvarlo e riaverlo
al suo fianco.
Se ne
uscirò viva, convenne tra sé, non darò niente per scontato – non senza
certezze.
I
fratelli Anwar si piantarono a gambe divaricate di fronte al cancello di casa,
pur rimanendo entro il perimetro del giardino, e fissarono gli jotun. Gangr si
fece avanti:
«Ebbene,
irlandese, conto che questo significhi che ti arrendi.» esordì bieco.
Erin
sentì il cuore rombarle nelle orecchie e le labbra aprirlesi in un sorriso
strafottente:
«Io conto
che ho questo, stronzo.» gli rispose, e alzò Boomstick puntandoglielo in
faccia.
In
rapidissima successione, un colpo esplose dal fucile e fracassò il cranio del
Gigante, che rovinò a terra stecchito poiché una distanza così ravvicinata era
letale persino per una robusta creatura del Regno dei Ghiacci; mentre la
flautista si buttava di lato, per ricaricare al riparo del muretto, i compagni
di Gangr si lanciarono all’attacco urlando e Seamus tuonò di rimando sparando
all’impazzata con entrambe le pistole. I proiettili roventi sortirono il loro
effetto sulla carne gelata dei nemici, disorientandoli e ferendoli, e quando
Maeve e Patrick avanzarono per unirsi ai figli nella lotta la confusione degli
alieni fu totale.
Per
cinque minuti abbondanti la battaglia fu serrata e incredibile. Sarebbe stata
quasi esilarante, se invece di trovarcisi nel mezzo gli Anwar-McNulty vi
avessero assistito stravaccati sulle poltrone di un cinema: perché affrontare
esseri come quelli con semplici armi da fuoco era assurdo, delirante e
disperato, e tuttavia i quattro irlandesi si battevano ferocemente, nonostante
la mira maldestra e l’inesperienza di tutti loro. Il padre si teneva nelle
retrovie con il Winchester, la madre aiutava il secondogenito a coprire le
spalle alla maggiore e si faceva scudo con la grande padella, alternando botte
e spari. Seamus era una furia ed Erin, pur non avendo replicato il magistrale
colpo d’inizio, ne mise a segno un altro paio che presero in pieno un braccio e
uno sterno di due avversari.
Poi, d’un
tratto, dal Quay giunsero distintamente il rombo di un motore e le note
irriverenti di Hey, bulldog!: nella
luce del tramonto si delineò la sagoma del Volkswagen Transporter T2 Split di
Enoch McNulty, verde e lucido come l’erba d’Irlanda e dal robusto paraurti
anteriore rinforzato in acciaio cromato. Arrivò filando come il vento e
sconcertò gli jotun quel tanto che bastava per costringerli a sparpagliarsi
disordinatamente; quello che la musicista aveva ferito al torace tardò a
spostarsi, e il furgoncino lo travolse impietoso, cozzandogli violentemente
contro. La carrozzeria si ammaccò, ma l’impatto fu fatale al Gigante.
«Sono
persuasa che è morto.» disse Erin trionfante all’indirizzo del nonno, che con
occhiali da sole e sigaretta in bocca sedeva minaccioso alla guida.
«Salite a
bordo prima che questi figli di puttana si riprendano.» grugnì Enoch.
Il resto
della famiglia non se lo fece ripetere. Spalancarono il portellone laterale del
T2 e si accalcarono per prender posto, eccezion fatta per la musicista che si
accomodò accanto al vecchio McNulty. Il Volkswagen si rimise immediatamente in
moto, accompagnato dalle grida rabbiose dei nemici che rialzandosi a fatica
tentarono di inseguirli ancora.
«Volete
riassaggiare il mio paraurti, fottuti ghiaccioli?» li provocò Enoch.
Uno jotun
si aggrappò al finestrino del passeggero in un ultimo attentato alla sicurezza
della donna d’Irlanda, ma Maeve si sporse dal vano posteriore e abbatté il
metallo della padella sulla faccia del malcapitato: quello ringhiò, e mollò la
presa.
«Voi mia
figlia non la toccate, bastardi.» ansimò la madre col fiato corto.
Erin
sorrise, orgogliosa dei propri folli congiunti, e il petto le si gonfiò dal
sollievo. Il Transporter aveva infatti ormai seminato i cerulei avversari, e
sfrecciava lungo il mare verso occidente, sotto l’arco del cielo che sfumava
dall’oro rossastro dell’orizzonte fin nel blu violaceo del crepuscolo che
andava spandendosi come inchiostro da Est.
Si
allontanarono presto dalla costa e rientrando nell’interno viaggiarono fino
alle sponde del Lough Corrib che davano sulle Isole Inchacommaun – e il
vasto lago si mostrò loro, per la seconda volta in quel giorno, come una sorta
di luogo del destino, una tappa fondamentale, un punto da cui non si poteva
tornare indietro. Erin lo seppe con certezza, e il sollievo cedette il passo a un’emozione
completamente diversa, incomprensibile, e tanto profonda e imperscrutabile da
sembrarle una voragine. Era oscura, eppure non del tutto, e le diede la forza
necessaria per togliersi ogni remora riguardo a quel che doveva fare.
Scesi dal
furgoncino, gli Anwar-McNulty si guardarono intorno:
«Vedi
niente di preoccupante, Mus?» chiese Patrick al rampollo minore.
«Soltanto
il rumore della pioggia, signore.» asserì solenne il ragazzo.
«Quale
pioggia?» chiosò il nonno con aria di disapprovazione.
«Vi
prego, vi prego, basta con queste
dannate citazioni.» brontolò Maeve.
La
musicista alzò il volto per osservare le prime stelle della sera e disse:
«Devo
tornare subito ad Asgard.»
Gli altri
la circondarono all’istante, le fronti aggrottate, e in coro le domandarono se
ne era sicura, se non era troppo rischioso, se non le conveniva nascondersi lì,
in Irlanda.
«Potrebbe
esserci battaglia, lassù, guerra, e puffi farciti di steroidi ovunque. Se sono
venuti fin sulla Terra per farti fuori, sorella, non molleranno l’osso nemmeno
ad Asgard.» le fece notare Seamus, d’improvviso serio e preoccupato, sebbene
suonasse retorico.
«E dunque
in cosa mi andrebbe meglio, restando qui?» rispose lei: «Io devo tornare da
loro, Mus. E voglio scoprire cos’è accaduto realmente a mio marito.»
Nessuno
dei familiari si oppose ulteriormente alla decisione della primogenita, ed ella
promise che avrebbe dato loro notizie quanto prima. O almeno, sperava di
poterlo fare.
Quindi
rovesciò nuovamente il capo all’indietro, borsa del flauto in spalla e
Boomstick in pugno, e rivolta al cielo comandò: «Heimdall! Apri questo cazzo di
Bifröst!»
La
cascata iridescente non si fece attendere, e in meno di un minuto Erin
scomparve nel lucore vorticante del Ponte Arcobaleno, gettando riflessi
accecanti sulla lucida carrozzeria del Volkswagen, negli occhi dei presenti e
sulle nere acque placide del Lough Corrib.
Note
Sappiate che per quanto ami il precedente capitolo, questo che avete
appena finito di leggere è probabilmente il mio preferito in assoluto –
un concentrato di azione, delirio e citazioni tarantiniane. Perché sono una
dannata tarantiniana DOC, e non riesco a non citare il vecchio Quentin (anche
Bruce Campbell nei panni di Ash e Battlestar Galactica, in questo caso) quando ne ho l’occasione. Se
non le riconoscete tutte chiedete pure ;D
Inoltre, questo nono capitolo serve ad alleggerire un po’ la tensione
creata dall’ottavo e a respirare in vista dei prossimi che saranno tutto
fuorché divertenti per i nostri eroi. Voi che dite, Erin l’avrà scampata?
Gli Anwar-McNulty sono dei pazzi furiosi e hanno un debole per i veicoli e
le armi vintage, e si vi state domandando com’è possibile che un irlandese
abbia partecipato alla Seconda Guerra Mondiale, vi riporto un passo preso
direttamente dalla pagina Wikipedia sulla Repubblica d’Irlanda: Durante la seconda guerra mondiale l'Irlanda, dissestata dalla recente guerra
d'indipendenza sfociata poi in guerra civile, scelse un'attenta e cauta
neutralità, anche perché intimorita dalle ritorsioni britanniche in caso di
alleanza con l'Asse. Dublino venne però bombardata per errore dalla Luftwaffe
il 31 maggio 1941, da aerei tedeschi che erano diretti a bombardare il porto di
Belfast e ciò spinse molti irlandesi ad arruolarsi come volontari nell'esercito
inglese. Forse le avventure di nonno
Enoch in guerra meriterebbero una storia a sé ;)
Il titolo del capitolo è un
verso della canzone The planets bend
between us degli Snow Patrol. Per l’inseguimento ascoltate la già citata This town ain’t big enough for the both of
us degli Sparks e per lo scontro a fuoco Hey, bulldog! dei Beatles, ovviamente. Mica può essere solo Tony
Stark quello che entra in scena accompagnato da musica badass a tutto volume :D
Ci sentiamo al prossimo
aggiornamento. Ossequi asgardiani a tutti!
Capitolo 10 *** 10. The perfect halo of gold hair and lightning ***
10
10.
The
perfect halo of gold hair and lightning
Il
Guardiano del Reame Eterno appariva turbato, quando Erin si materializzò sul
pavimento levigato dell’Osservatorio. Le sue iridi color dell’ambra non si
posarono su di lei, fisse com’erano a scrutare le pieghe del cosmo e del tempo,
e l’irlandese si stupì della celerità con cui aveva comunque risposto al suo
trafelato richiamo.
Gli si
accostò con passo felpato, nonostante l’urgenza e l’ansia le riempissero i
polmoni di voglia di strepitare e scalpitare, e attese che togliesse la spada
dal piedistallo per fermare il flusso del Ponte. Quindi fu lui per primo ad
apostrofarla:
«Perdonami,
mia signora. Ho assistito al tuo tribolare su Midgard, ma soltanto nell’udirti
chiedere aiuto ho aperto il Bifröst.» si scusò inchinandosi; «Non ho potuto
tenere i miei occhi fissi su di te, poiché altri gravi avvenimenti li hanno
tenuti impegnati.»
«Che
accade, Heimdall?» domandò Erin. Aveva la schiena umida di sudore freddo.
«Gli
Jötnar hanno attraversato i varchi anzitempo. Le trappole poste a quelli minori
hanno funzionato, impedendo loro di arrivare allo Scrigno o all’interno della
reggia, ma l’esercito nemico avanza sui Campi di Idavoll da circa un giro di
clessidra e ci ha colti meno preparati di quanto avremmo dovuto essere.» rispose
il dio dalla pelle scura: «Thor si è già recato a contrastarne gli avamposti
con metà dei reparti di fanteria. Il re è ancora a palazzo in consiglio di
guerra. Ho mandato a chiamare una scorta per condurti là.»
L’espressione
dell’irlandese ebbe un inequivocabile guizzo di speranza:
«Se
l’attacco è iniziato significa che Loki è qui.» constatò trattenendo il
respiro.
Heimdall
scosse lentamente il capo e parlò con voce estremamente contrita:
«No, mia
signora. Il tuo sposo non ha fatto ritorno da Jotunheim.»
Il cuore
di Erin sobbalzò in maniera dolorosa per poi scivolarle nello stomaco, battendo
sordo, e l’anelito speranzoso di poco prima le scomparve del tutto dal volto
impallidito:
«Tu
riesci a vederlo, Heimdall? Riesci a vedere dov’è e cosa sta facendo?»
gracchiò.
«So che è
là, nel Regno dei Ghiacci.» disse il Guardiano chiudendo le palpebre; «Tuttavia
la sua presenza mi risulta offuscata, e ignoro la sua attuale condizione.»
Lei
strinse le nocche intorno al legno tiepido del fucile: «Offuscata come se si
stesse celando alla tua vista?» indagò. Il sospetto che l’aveva accompagnata da
Midgard ad Asgard, sin dal momento in cui Gangr e i suoi avevano cominciato a
inseguirla, tornò prepotente a suggerirle che il suo divino consorte la avesse
imbrogliata, tradita e venduta ai sedicenti nemici.
Ma
Heimdall aggiunse: «O come se qualcuno stesse bloccando i suoi poteri.»
Erin
allentò la presa su Boomstick, riprendendo a respirare più liberamente. Fu
grata al suo interlocutore per aver contemplato anche quella possibilità, e di
nuovo pensò che fosse assai più plausibile dell’altra – e ugualmente
spaventosa. Si chiese cosa sapessero i membri della famiglia reale, se come
Heimdall davano fiducia al Dio degli Inganni o se ne avevano già deciso la colpevolezza
come in passato era sovente avvenuto, e udendo voci e nitriti fuori
dall’Osservatorio si avviò all’uscita. Doveva correre subito alla reggia.
«Va’, mia
signora. E resta al sicuro.» la esortò l’asgardiano.
Cinque
guardie a cavallo attendevano l’irlandese con aria nervosa e un sesto destriero
tenuto per le briglie scalpitava sulla superficie del Bifröst, atterrito dai
lontani suoni di guerra che a tratti una folata di vento portava sin lì. La
costa, la città e l’altura del palazzo di Odino sembravano intatte e inviolate,
incuranti della cupezza del cielo plumbeo che su di esse incombeva, sintomo dell’ancor
sicura distanza della battaglia da esse. La luce fredda che filtrava dalle nubi
gettava una cappa metallica e innaturale sopra ogni cosa.
«Bentornata,
altezza.» dissero i soldati a Erin, inchinandosi mentre montava in sella.
«Signori,»
rilanciò la musicista, «ho una certa fretta.»
E con ciò
spronò l’animale con decisione, memore degli insegnamenti di Sif in proposito. Gli
uomini la seguirono e si disposero prontamente a ventaglio attorno a lei.
In
verità, Erin non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe detto e fatto, una
volta al cospetto dei suoi divini congiunti, e se Loki era bloccato a Jotunheim
quella sua fretta non aveva alcun senso. Non soltanto ignorava come sarebbe
riuscita a convincere il Padre degli Dei ad ascoltarla e a dare un’ultima occasione
al principe ingannatore, ma neppure era certa di volerlo fare: non sarebbe
stata capace di mentire e di sostenere a spada tratta la presunta innocenza del
consorte, poiché lei per prima si barcamenava tra quella e il sospetto, e
odiava sentirsi così – dubitare di lui, ritenerlo responsabile della propria
sventura. Era come trovarsi faccia a faccia con la vera natura del Dio degli
Inganni e scoprirsi una completa imbecille per non averla affrontata prima,
benché fosse sempre stata cosciente del pericolo e benché lo amasse. E proprio
perché lo amava non si capacitava di aver preso un simile, fatale abbaglio.
Era tornata
ad Asgard unicamente per sapere, e tuttavia era sicura di non avere alcuna
intenzione di fuggire di nuovo su Midgard: la minaccia contro la sua vita era
inevitabile in entrambi i mondi, e forse Loki aveva bisogno del suo aiuto.
Il ritmo
degli zoccoli del cavallo sul Ponte, la brezza che le sferzava guance e zigomi,
il groppo che aveva tra cuore e gola, la borsa del flauto che le batteva sulla
schiena e il peso del fucile nella mano le richiamarono alla mente una
cavalcata del passato, in un’analoga situazione e di pari angoscia. La
differenza era che allora il marito era con lei, e non era una differenza da
poco.
Giunto
che fu il drappello nel cortile principale della reggia, Erin si catapultò su
per le scale che conducevano al piano della sala del trono. Quivi non incontrò
nessuno, salvo poche guardie e un paio di cortigiani che prendevano provvedimenti
per trasferire le dame nelle stanze blindate e che le comunicarono che il
sovrano e la regina si trovavano nel locale delle udienze. La trattarono con la
medesima deferenza di Heimdall e dei cavalieri, senza riservarle occhiate
astiose nonostante fosse la moglie di Loki l’Infido, e la flautista ne rimase
stupita, e sollevata: essere ben vista nel Reame Eterno le avrebbe recato
vantaggi.
Odino e
Frigga non si aspettavano la sua venuta, a giudicare dalle espressioni attonite
che sfoggiarono nel vederla comparire sulla soglia in abiti terrestri e
brandendo una bizzarra arma, e probabilmente nulla sapevano dell’attacco degli
jotun a Galway. Sif era con loro.
«Erin!
Per Yggdrasil, non dovresti essere qui.» esclamò la Madre degli Dei.
«Non
dovrei essere da nessuna parte, purtroppo, mia signora.» ribattè mesta
l’irlandese.
La
guerriera le corse incontro: «Cosa significa? Cos’è avvenuto su Midgard?»
Erin
tentennò, fissando il re che a sua volta la mirava apprensivo:
«Vorrei
che ci fosse un modo facile per raccontarvelo, e non c’è.» iniziò a denti
stretti; «Sei Giganti sono venuti a cercarmi sulla Terra per catturarmi e
uccidermi. È successo poco fa, quando Loki era già a Jotunheim, o almeno credo.
Sono scappata grazie ai miei e ho invocato Heimdall per farmi riportare qui.
Midgard non è più un buon rifugio per la sottoscritta.»
I tre
impallidirono, e il Padre degli Dei inclinò di poco Gungnir verso la nuora:
«Perché
ti vogliono morta, figlia?» domandò, la voce sinceramente preoccupata.
«Non lo
so.» ammise lei: «So soltanto che quei bastardi vogliono farmi la festa, che mio
marito è ancora da loro e che l’idea di mandarmi a casa mi è sempre suonata
storta.»
Sif
sollevò il mento, imperiosa: «Storta,
amica mia? O magari la ritenevi una trappola?»
Fu il
turno di Erin di impallidire, centrata proprio nel punto intorno al quale
avrebbe preferito girare senza mai arrivare a parlarne direttamente. Lo sguardo
indagatore della dama in armatura era ciò che più aveva temuto e ciò che più la
metteva a disagio, dacché Sif era colei che meno apprezzava il Dio degli
Inganni, a corte, e non glielo nascondeva.
«Sì, la
ritenevo una trappola. Loki mi disse che gli jotun avevano preteso che mi
ripudiasse, come assicurazione circa la sua lealtà, e che fingere di
assecondarli era la mossa migliore. Risposi che a me la cosa puzzava, e adesso
non ho più dubbi al riguardo.» fece la musicista, e preparandosi a un’accesa
discussione si portò il fucile in spalla: «Il fatto che Loki non sia tornato e
che qualcuno abbia sguinzagliato quegli stronzi contro di me mi fa temere per
la sua sorte, oltre che per la mia. Colpire me significa colpire lui. È roba da
manuale, tanto più se lui è già loro prigioniero e se i Giganti mi considerano
la sua debolezza.»
Frigga si
torse le mani e Odino si rabbuiò ulteriormente. Sif le strinse un avambraccio,
ferma e gentile insieme, e la scrutò come se volesse scavarle dentro:
«Tu non
sei così ingenua, Erin. Non puoi non aver considerato anche che...»
«Che in
realtà potrebbe avermi imbrogliata e tradita? Che potrebbe aver tradito tutti
quanti noi? Oh, Sif, non sono tanto idiota da non pensarci.» la interruppe Erin
in tono aspro; «Dalle mie parti c’è però un detto che recita “fidarsi è bene,
non fidarsi è meglio” e suggerisce quanto sia importante non tirare le somme
prima di avere certezze, a dispetto di tutto. Ecco perché proverò a dargli
fiducia fino alla fine. Sono sua moglie, e glielo devo.»
Nel
chiarore nuvoloso che entrava dal portico della stanza, il volto tirato della
regina si ammorbidì di gratitudine nell’udire le parole dell’irlandese; anche
il re parve rilassarsi appena, e la dama guerriera allentò la presa
distogliendo gli occhi.
«Hai
asserito che Loki si trova sempre su Jotunheim, figlia.» interloquì Odino: «È
stato Heimdall a riferirtelo? Riesce a vederlo?»
Erin
annuì: «Sì, sebbene la presenza di Loki gli risulti velata e non ne capisca il
motivo.»
«Consigli
dunque di non condannarlo a prescindere, e il mio cuore ti dà ragione. Loki ha
dato la sua vita per salvarci da Thanos, e non riesco a credere che un simile
gesto sia stato una menzogna, un trucco per riconquistare il nostro rispetto e
pugnalarci poi alle spalle al momento opportuno.» considerò gravemente il Padre
degli Dei; «Tuttavia capirai, mia giovane signora, che non posso nemmeno
ritenerlo innocente, non ancora. L’attacco degli Jötnar è partito senza che lui
tornasse, e questo non era nei patti.»
Lei quasi
rise, rammentando come il suo sposo avesse effettivamente pianificato di
correre in soccorso del Reame Eterno con lo scopo conclamato di far la parte
dell’eroe, all’epoca; e al contempo prese a rendersi nuovamente conto
dell’ascendente che aveva sugli asgardiani, dell’idea positiva che questi
avevano di lei: le era bastato esprimere il proprio ardente parere sul principe
per calmare, almeno un po’, i tormenti dei suoi divini parenti, e per far sì
che essi si soffermassero a considerare la sua opinione, la possibilità che
Loki fosse una vittima.
«Lo so,
Padre, lo so. Ma come vi sentireste se non accorrendo in suo soccorso lo
lasciaste morire e scopriste solo in seguito che non aveva colpa alcuna?»
disse; «Se lo amate, e so che lo amate, vi prego di darmi ascolto. E tu Sif
fallo per me, non per lui.»
Calò il
silenzio nella sala delle udienze, e addirittura prima che il sovrano riaprisse
bocca Erin seppe di averli convinti. Le tempie le pulsavano ed era madida di
sudore, si accorse.
«Non
abbandonerò il mio secondogenito, figlia. Dopo che avremo sconfitto gli jotun
mi adoprerò per organizzare subito una missione di salvataggio, o di ricerca.
Non lo lascerò in mano loro nemmanco se fosse un traditore.» le garantì Odino.
«Ti
ringrazio, Padre. Quali sono i piani per la battaglia?» s’informò la musicista.
Sif
inarcò le sopracciglia, perplessa dal quesito, mentre il re rispondeva: «Thor e
i Tre Guerrieri conducono metà delle truppe di fanteria. Io raggiungerò il
comandante Týr per capitanare l’altra metà. Ci servirà il possente ausilio
della cavalleria per resistere efficacemente sino al ritorno degli Einherjar
dall’entroterra, e ancora non so chi la guiderà.»
«Mi sono
già offerta io, Maestà.» se ne uscì con fervore la dea combattente.
«E non
potrei desiderare capitano migliore di te, mia signora. Eppure saresti sola
nell’eseguire il difficile compito, e forse mi saresti più utile al mio fianco.»
La mente
di Erin, nell’assistere a tale conversazione, ebbe un imperscrutabile moto che
la indusse a intervenire affermando d’impulso:
«Guiderò
io la cavalleria assieme a Lady Sif. Lasciate che vi aiuti.»
Frigga
sussultò e le si precipitò accanto: «Erin, no. Dovresti venire con me e le
altre dame, per restarcene al sicuro nelle stanze blindate della reggia finché
la tempesta non sarà passata. Perché rischiare la vita proprio ora che hai evitato
per un soffio la morte?» quasi gridò.
«E
starmene di nuovo confinata da qualche parte ad aspettare notizie mordendomi i
gomiti e senza poter muovere un dito? No, Madre, non lo farò.» fu la secca
replica dell’irlandese: «Avrei dovuto essere al sicuro su Midgard, e guardate
com’è finita.»
L’occhio
di Odino scintillò nella luce grigio-dorata che li circondava:
«Perché
rischiare la tua vita per noi, dunque, Erin d’Irlanda?» chiese solenne.
«Cazzo,
perché io qui ci vivo. È così assurdo voler aiutare il resto della propria
famiglia?» proruppe Erin, e per onesta che fosse colse per la terza volta
l’effetto mirabolante che le sue frasi e i suoi gesti avevano sulle emozioni
degli Æsir, soprattutto dei presenti. Nessuno le avrebbe rifiutato un aiuto né
clemenza per il Dio degli Inganni, se mai fosse servita.
«Accetto
con onore la tua proposta, dama Erin.» disse Sif con voce vibrante.
«E io vi
do la mia approvazione. Come intendi agire, Lady Sif?» indagò il Padre degli
Dei.
«Passando
dalla porta occidentale della città attraverseremo la foresta, Maestà. Ci
porteremo sul fianco destro dell’esercito di Jotunheim e dalla selva caleremo,
sfondando i loro ranghi laterali. Questo, unito all’opera dei soldati a piedi,
dovrebbe indebolirli molto.»
«È una
buona strategia.» assentì il sovrano.
Sif chinò
il capo: «È la sola efficace e di rischio accettabile per la cavalleria.»
«Ci
vedremo allora sul campo, mie signore. E tu, mia regina, mettiti in salvo.»
egli concluse.
Così
ciascuno prese congedo, Odino diretto al salone del trono, Frigga alle zone
protette del palazzo ed Erin e Sif alle scuderie. Fuori, verso i Campi di
Idavoll, il clamore era aumentato.
Il Dio
del Tuono e i suoi tre leali compagni avevano ormai perso la cognizione del
tempo, quando il Padre degli Dei e il Dio della Guerra giunsero a dar loro
manforte, da tanto a lungo pareva loro di star combattendo. Le avanguardie dei
Giganti erano spietate e compatte, benché armate soltanto di tozze daghe di uru
e acciaio, e senza un comando le falangi dell’esercito asgardiano rimaste
scoperte erano in difficoltà.
Se Erin
si fosse trovata sul campo, o in una posizione sopraelevata che le consentisse
un’ampia visuale, avrebbe assistito all’arrivo del re, avrebbe visto gli
stendardi rossi e oro che si dibattevano nel vento accompagnando Odino, Týr e
la loro scorta, avrebbe udito le alte grida di guerra che le Valchirie e gli
Einherjar, posti a difendere le mura di Asgard, avevano lanciato al loro
passaggio, e avrebbe notato il sollievo dipinto sul volto di Thor.
Ma
l’irlandese aveva seguito Sif nelle stalle reali, ed era lì che si trovava. I
bassi corridoi e colonnati, situati al pianterreno, erano in pieno fermento:
nel clangore ritmico dei martelli che percuotevano gli zoccoli dei destrieri,
ferrandoli, gli animali venivano sellati e bardati e i cavalieri degli Æsir si
armavano quanto più velocemente potevano. Non potevano permettersi ritardi, dal
momento che le ondate di jotun che superavano il varco non accennavano a
fermarsi, e senza cavalleria le difese sarebbero state incomplete.
Due
attendenti recarono manti e armature per le due donne, e mentre indossava elmo
e cappa bordata di pelliccia sopra la propria corazza Sif indicò Boomstick:
«Qual è
il funzionamento della tua arma, Erin?» domandò.
La
musicista, che stava riponendo su un pancale la giacca di pelle e gli occhiali
da sole rimastile in tasca da Galway, le mostrò la scatola di munizioni che
aveva messo nella borsa dello strumento durante la fuga verso il Lough Corrib:
«È un
fucile, un’arma da fuoco. Infilando nelle sue canne questi cilindri di polvere
da sparo, pallottole, esplode colpi
molto efficaci. Mortali anche per gli stronzi blu, se a distanza ravvicinata.»
illustrò; «Il limite è che va ricaricato ogni due tiri.»
La
guerriera le tolse Boomstick di mano con cautela e lo appoggiò sul giacchetto:
«Non ho
ben compreso tutto quel che mi hai detto, ma ti consiglio di non usarlo in
questa battaglia. Devi essere agile per cavalcare, e il flauto è perfetto per
questo.» suggerì.
«Non ho
mai usato il flauto contro gli jotun. Credi che mi sarà utile?» mugugnò
l’altra.
«È
un’ottima arma ed è indistruttibile e pratica. Fidati, lascia qui il tuo
fucile.»
Erin
obbedì con vaga riluttanza e tolse anche il maglione. Sollevò entrambe le
braccia per permettere al suo scudiero di allacciarle i legacci di cuoio
dell’armatura leggera sopra il lupetto senza maniche che portava a contatto con
la pelle; poi toccò ai gambali, ai parabracci che Loki aveva fatto per lei
l’anno precedente e a un mantello color notte simile a quello scarlatto di Sif.
Si sentì confortevolmente appesantita e scrollò le spalle per sgranchirle, stringendosi
i lunghi capelli chiari in una crocchia.
I loro
destrieri, un morello scattante e un robusto roano sauro, erano quasi pronti.
La dea bilanciò il proprio piccolo scudo e controllò la lama elaborata della
spada che aveva scelto, quindi indugiò osservando la midgardiana con
espressione adombrata:
«Perdona
la mia franchezza, Erin, se ripeto che a tratti fatico a capirti.» mormorò.
«Che c’è
da perdonare? Sono giovane, sono umana, sono emancipata e lavoro come musicista.
È normale che tu non riesca a capirmi.» ridacchiò l’irlandese per sciogliere il
nervosismo.
Sif le dedicò
un breve sorriso: «Hai ragione. Ma mi stavo riferendo al tuo sposo.»
L’ilarità
di Erin si tramutò in un sospiro d’esasperazione che lei non seppe reprimere, e
resasi conto di doversi spiegare meglio la dama le toccò una spalla in uno
slancio assai somigliante a certuni tipici di Thor: «Ascoltami, e non adirarti
con me. L’amore che hai per lui è per me fonte di continuo stupore, poiché è
forte e ardente e incondizionato, e tu sei una donna straordinaria mentre Loki
è... Loki.» disse d’un fiato.
«Sif,
fammi il sacrosanto piacere di piantarla.» sbottò la flautista; le era di colpo
tornato il nodo al petto che la vessava da quando Gangr e i suoi avevano
cominciato a inseguirla, quel grumo soffocante di affetto, terrore e rabbia che
il pensiero del marito e del suo possibile destino le provocava: «Voi dannati
dèi avete la dannata tendenza a vedere ogni cosa in bianco o in nero, ma a casa
mia ci sono un sacco di grigi, nel mezzo. E ci sono uomini assai peggiori di
Loki, per quanto tu possa faticare a immaginartelo. Hai mai pensato che lui
potrebbe essere, anche solo talvolta, migliore di come lo ritieni?»
Tacque,
affannata, e Sif distolse lo sguardo come aveva fatto nella sala delle udienze:
«È un
grande amore, il tuo. Spero che il principe se ne riveli degno.» commentò, e il
suo tono si era addolcito, assumendo una sfumatura sognante che di rado la
guerriera lasciava trapelare. Chissà se le era venuto in mente il suo, di
amore, si chiese l’irlandese.
Montate
che furono a cavallo, e uscite nel vasto cortile delle scuderie, le due vennero
affiancate da uno dei capitani, Hödr il Cavaliere d’Inverno, il quale annunciò
loro che la cavalleria era pronta a partire e a seguirle fin sui Campi. Il
bellissimo viso della guerriera ebbe un feroce guizzo d’orgoglio ed ella spronò
il morello con un grido, diretta alle porte del palazzo; Erin la imitò, il
flauto saldamente legato alla cinta, e dietro di loro vennero i seimila soldati
in sella dalle corazze color bronzo: sciamarono fuori dalle innumerevoli
stalle, unendosi al corteo in marcia come affluenti a un grande fiume, e il
suolo lastricato risuonò degli zoccoli dei loro destrieri, vibrando
incessantemente.
Sfilarono
per le strade della capitale e la gente li acclamò dai balconi. Dai monti
spirava aria più fredda, e la musicista distinse meglio i tremendi rumori degli
scontri che si facevano più prossimi. Gettò un’occhiata verso le muraglie della
città, scorgendo le Valchirie e i loro dorati eroi disposti lungo di esse, e
per un attimo rimpianse di non aver assecondato Frigga e la cieca sicurezza
delle stanze blindate della reggia. Ma la foresta le si apriva d’innanzi e Sif le
galoppava accanto, e l’impellenza di accertarsi se il Dio degli Inganni fosse o
meno presente tra le file nemiche le cancellò dalla testa l’idea di fare
dietrofront. Si sforzò di non badare alla consapevolezza di essere sulla via
per la sua prima, vera battaglia, una via che poteva rivelarsi a senso unico:
se le avesse concesso spazio la paura l’avrebbe sopraffatta, pietrificandola
sul posto e impedendole di proseguire. E non era ciò che Erin voleva.
Si
fermarono nel punto in cui gli alberi si diradavano, formando una radura d’erba
e cespugli che discendeva gradualmente fino ai Campi di Idavoll, e Sif sollevò
un pugno per indurre la più assoluta immobilità e mantenere la segretezza che
l’ombra del bosco garantiva alle migliaia di cavalieri. Le due donne scrutarono
con attenzione lo scenario che si spalancava loro davanti, i nervi tesi: dalla
gola tra le montagne il flusso di nemici era regolare e costante, e tuttavia
l’esercito di Asgard non cedeva, non arretrava, mantenendo la propria posizione
sulla metà meridionale dei Campi; la figura rossa e argento di Thor spiccava al
centro del marasma di armi e combattenti, Mjölnir che sfolgorava continuamente
attirando saette dal cielo plumbeo e stendendo Giganti a ripetizione, e sotto
la mole di Folkvangar, a Est, la guerriera distinse quella aurea del Padre
degli Dei. Benché non sembrassero in netto svantaggio, le fu presto chiaro che
le legioni del Reame Eterno erano state costrette ad allargarsi per non far
passare gli jotun e che così facendo avevano perso forza nel mezzo – e il Dio
del Tuono, per abile e invicibile che fosse, non poteva difendere quella zona
da solo ancora per molto.
Poi
entrambe si volsero a guardare gli invasori, che già Erin andava osservando
febbrilmente, e un altro dettaglio fu loro lampante: Loki non c’era. Non era
alla testa dell’Armata dei Ghiacci, né ai bordi del campo, né sulle cime
innevate a controllare la situazione. Non c’era, semplicemente, e il cuore
provato dell’irlandese fece l’ennesimo tuffo:
«Non è con
loro, cazzo, non è con loro!» cantilenò con voce strozzata e con un ghigno sbilenco
che indicava il suo dilemma. L’assenza del principe in battaglia le confermava
che non era al comando degli Jötnar, ma non escludeva che fosse dalla loro
parte e che fosse rimasto a Jotunheim per non sfidare l’ira degli Æsir. Non
escludeva, soprattutto, che gli Jötnar lo avessero piuttosto imprigionato o
ucciso, e non toglieva alcun funesto dubbio dall’animo di lei. Era una sorta di
odiosa agonia, e le prudevano le mani.
«Non
gioire troppo, amica mia, te ne prego.» disse infatti Sif.
«Lasciami
sperare in bene per un minuto, Sif. Potrebbe essere la mia ultima occasione per
credere mio marito innocente o vivo, o entrambe le cose.» replicò Erin.
Quell’
“ultima occasione” provocò nell’asgardiana un sobbalzo appena accennato, e
l’altra contemplò d’improvviso un’eventualità troppo spaventosa per essere
espressa a parole:
«Se
dovesse succedermi qualcosa di brutto, Sif, non sentirti responsabile per me.
So di non essere una guerriera, ma se mi trovo qui è per una mia fottuta
scelta.» aggiunse.
Sif si
riscosse immediatamente. Sfoderò la spada e girò il proprio cavallo in modo da
essere faccia a faccia con le migliaia di cavalieri che dipendevano da lei e da
un suo segnale, i volti fieri e gravi incorniciati dai pesanti elmi. Il vento
le scompigliò i neri capelli mentre parlava, e ugualmente danzarono i vessilli
cremisi dai disegni argentati della cavalleria.
«Ci
muoveremo in formazione compatta. Dovremo essere un muro di lame, un’onda che
non lascia scampo, e non ci fermeremo per alcun motivo. Ci apriremo la strada
sfondando le loro truppe dal fianco esterno, quindi proseguiremo sino a
raggiungere il principe Thor, dacché è al centro che le nostre legioni hanno
bisogno di noi.» tuonò, e levò alta la propria arma, e aveva fiamme nelle iridi
scure: «E non avrete pietà alcuna, miei compagni! Seguitemi con coraggio,
grandi cuori, e i nemici sussureranno con terrore i nostri nomi negli anni a
venire, e mai più oseranno sfidare il Reame Eterno! Seguitemi, per la rovina e
per la gloria!»
«Morte a
loro!» inneggiò il Capitano d’Inverno, e unanime si alzò in risposta il coro
dei cavalieri che ripeterono quel canto di guerra, e spade, alabarde e flauto
scintillarono nella penombra verde della foresta, e le note dei corni
riecheggiarono per la valle.
«Morte a
loro!» tutti ruggirono.
E si
lanciarono al galoppo giù per il pendìo, e il terreno tremò come per un
terremoto, e parve che fosse venuta l’ora della Fine di Tutto: poiché terribile
e possente era il grido dei seimila Æsir e delle due dame, e gli jotun non
avevano previsto un simile attacco. Gli asgardiani e i loro destrieri li
travolsero, e dal resto dell’esercito del Padre degli Dei salì un boato di
trionfo nel vederli piombare, implacabili, sugli abbacinati Giganti.
Erin
rimase presto separata da Sif, quando furono ormai addentro all’orrenda
confusione dello scontro, e dovette arrangiarsi da sola per non soccombere:
governando con difficoltà il suo roano evitava maldestramente i colpi e pochi
ne tirava a sua volta, e ciononostante lo strumento le si sporcò in fretta del
sangue livido dei nemici. Il rumore attorno a lei era assordante, un intreccio
di voci rabbiose e secchi clangori e nitriti convulsi.
Il varco
tra i monti vomitava ora enormi soldati Jötnar muniti di strane lance, e lupi
grandi quanto bisonti e nere bestie cornute simili a triceratopi.
La
musicista giunse comunque per prima abbastanza vicina al punto che il suo
biondo cognato difendeva strenuamente, e fu per questo che fu anche la prima a
vederlo in pericolo: due dei campioni di Jotunheim avevano chiuso il Dio del
Tuono in una morsa, impedendogli la fuga, e usando una delle bizzarre picche
che Erin aveva notato gli gelarono completamente il braccio destro e Mjölnir
con esso. Bloccato a terra e impossibilitato a reagire, Thor urlò di dolore e
frustrazione, il ghiaccio che gli bruciava la pelle, e l’irlandese non esitò un
solo istante a lanciarsi a rotta di collo verso di lui – poiché aveva la mente
sgombra da qualsiasi cosa che non fosse istinto, in quel momento, e l’istinto
le disse che Thor non doveva morire.
Col
flauto colpì il Gigante che si preparava a massacrare il dio con la propria
daga, e l’impatto tra il suo destriero e il secondo nemico la sbalzò via dalla
sella: atterrò di pancia sull’erba martoriata dei Campi, sentendo le costole
scricchiolare e il respiro morirle nei polmoni, e nel rialzarsi a fatica udì il
cognato che le gridava qualcosa che non capì.
Da
lontano, sia Odino che Sif scorsero la scena, e temendo per la sorte di
entrambi tentarono di correre in loro soccorso. Ma troppi, tra invasori e Æsir,
li rallentavano.
Erin
caricò di nuovo i due jotun, a piedi, e vibrando un affondo contro il ginocchio
di quello meno robusto riuscì a farlo cadere. Non s’illudeva di poterli
sconfiggere, ragionò confusamente: voleva soltanto tenerli occupati fintanto
che Thor non si fosse tolto d’impiccio o che qualcuno non fosse arrivato ad
aiutarli. Il secondo Gigante la percosse sulla schiena con l’asta dell’alabarda
per poi puntargliela contro, e pur incespicando e rotolando al suolo lei evitò
per un soffio la scia di ghiaccio che scaturì dall’arma, e si mise tra
l’assalitore e il biondo figlio di Odino.
«Erin,
vattene! Vattene!» seguitava questi a implorarla, stravolto e ferito.
«Erin!»
la chiamò anche la dama guerriera, che nel frattempo si era avvicinata, e
galoppò sul Dio del Tuono per spezzare la trappola di gelo che lo teneva in
scacco.
E in
quella accadde. Prima che Sif guadagnasse l’obiettivo, lo jotun calò la propria
lama su Thor, e l’irlandese urlò e sollevò il flauto con tutte e due le mani
per bloccare il colpo. Solo allora si avvide che lo strumento era incrostato di
ghiaccio esattamente al centro: era stata la scia gelida di poco prima, quella
che credeva la avesse mancata.
Fu
questione di un attimo, un misero scarto di una frazione di secondo, ma bastò.
Proprio
mentre la spada della guerriera mandava in frantumi il gelo sul braccio del
principe, liberando lui e il Martello, quella del Gigante spezzò in due il flauto
d’argento e squarciò il petto della donna d’Irlanda.
Sif
s’impietrì sul posto, disperatamente incredula, e altrettanto fece il Padre
degli Dei che non era giunto in tempo. Thor gridò come un ossesso e uccise il
nemico con Mjölnir.
Ed Erin
cadde all’indietro, i tronconi dello strumento che le volavano via dalle dita intorpidite:
avvertì il freddo della lama, e subito dopo il calore malsano del sangue che la
abbandonava, bagnandole vischioso la maglia e la carne e togliendole ogni
forza. E poi venne il dolore, rovente e pulsante, e come toccò terra il sangue
le riempì la bocca e le mozzò il fiato.
«Erin!»
ruggì invano Thor, e precipitandosi da lei la strinse e la scosse.
Gli occhi
sbarrati e offuscati della musicista fissavano senza realmente vederlo il cielo
nuvoloso e gonfio. Erin sentì il proprio cuore dare due lenti, tremuli battiti,
e con uno spasmo s’inarcò in cerca d’aria. Loki,
fu il solo, ultimo pensiero che seppe formulare.
E
chiudendo le palpebre stanche si accasciò esanime tra le braccia del Dio del
Tuono, e nulla vide e più non fu.
Note
E adesso – e adesso.
Altro non dirò. Questo capitolo è stato forse il più bello e doloroso da
scrivere.
Il titolo è il verso portante della già citata The lightning strike degli Snow Patrol,
e può riferirsi tanto a Thor quanto a Erin. La colonna sonora imprescindibile,
da quando Odino scende in battaglia sino alla fine, è il pezzo The battle della colonna sonora del
primo film delle Cronache di Narnia.
Vi aspetto al prossimo aggiornamento. Ossequi asgardiani a
tutti.
Capitolo 11 *** 11. She was built with a brain and some swagger ***
11.
She was built with a brain and some swagger
Býleistr
era furibondo. Il rientro dei quattro sopravvissuti della squadra che aveva
spedito su Midgard, sconfitti e bastonati, lo aveva sorpreso e reso folle di
rabbia: Gangr e Baugi erano morti, e dopo un serrato combattimento la donna
irlandese era riuscita a fuggire.
Il figlio
di Laufey era rimasto sconcertato dalla cosa, poiché era per lui inconcepibile
che una misera femmina umana si fosse rivelata più abile di un manipolo di
guerrieri spietati ed esperti. E poiché era imperdonabile il loro ridicolo
fallimento, egli non aveva esitato a ordinare che fossero giustiziati tutti e
quattro. Erano in guerra, e non poteva concedere alcuna grazia, alcuna
comprensione, a chi lo deludeva e lasciava vincere il nemico.
Dopo che
le guardie avevano condotto via i recalcitranti condannati aveva inviato di
fretta un messaggero ad Asgard: se Erin di Galway era tornata nel Reame Eterno,
chiunque dei suoi la avesse vista avrebbe dovuto ucciderla o catturarla e
condurla da lui; avrebbe potuto mandare altri uomini in Irlanda per assicurarsi
che non si trovasse ancora lì, eppure non voleva privarsi inutilmente di
guerrieri, e per quello poteva attendere che la battaglia fosse terminata.
Ma ciò
che più gli aveva instillato una rabbia cieca in corpo era stata l’espressione
trionfante del suo fratellastro, alla notizia che l’irlandese era ancora viva:
Loki si era come illuminato, e risollevandosi gli aveva riso in faccia, le
iridi verdi di nuovo ardenti.
«È della
mia sposa che vai parlando, fratello.
Non sottovalutarla.» lo aveva schernito.
E tuttora
il Dio degli Inganni rideva, alle sue spalle, mentre il giovane Re dei Ghiacci
fissava cupamente la Cittadella ormai quasi deserta e la strada che conduceva
al varco, poiché sembrava che la sorte della donna mortale gli stesse più a
cuore della propria, più dell’essersi scoperto troppo tardi figlio di Odino,
più dell’andamento della guerra e della speranza di salvarsi. E Býleistr
lo odiava più che mai, temendo di dover rinunciare a parte della vendetta che
con tanta precisione aveva organizzato in quei mesi.
Il
secondo contingente dell’esercito era da poco partito alla volta dei Campi di
Idavoll, quando il messo fece ritorno: già da lontano gli occhi allenati dello
jotun distinsero, tra le mani del soldato, un paio di oggetti oblunghi e
scintillanti nella luce che diminuiva.
«Mio
signore, reco con me un’importante novella.» esordì inchinandosi di fronte al
sovrano, in cima alla scalinata d’ingresso del palazzo, e gli porse i due misteriosi
arnesi; «Non ho riferito il tuo comando, mio re, perché non ve n’è stato
bisogno.»
Il figlio
di Laufey riconobbe l’oggetto, e un fremito vittorioso lo scosse nel prenderlo:
«Vieni
con me, buon Lut. Vieni e racconta per filo e per segno ciò che hai visto.»
disse facendo strada al messaggero e celando il suo bottino al di sotto della
pelliccia. Sogghignava, compiaciuto, e il suo freddo sorriso si rispecchiò in
quello di Loki non appena quest’ultimo lo vide ricomparire nella stanza seguito
dal guerriero.
«Cosa ti
procura cotanta ilarità, fratello?» lo canzonò l’asgardiano.
«Racconta
a me e al mio ospite ciò che hai visto, Lut, e con dovizia di particolari.»
ripeté Býleistr, ignorandolo, e fece cenno all’interpellato di farsi
avanti; teneva le braccia incrociate sotto il mantello, e Loki non capì dove
volesse andare a parare. Non gli piaceva, ovviamente, ma il sollievo di sapere
Erin in salvo aveva notevolmente abbassato la sua soglia d’allerta – e
dopotutto cosa mai avrebbe potuto fare, incatenato com’era alla colonna?
Lut annuì
e incominciò a narrare: «Sono giunto sul campo di battaglia per conferire coi
generali come da te ordinato, mio signore. Mi sono tenuto in disparte, su
un’altura, per non venir coinvolto nello scontro e individuare le loro
posizioni, e nell’osservare ho notato due dei nostri campioni che attaccavano e
bloccavano con successo il Dio del Tuono.»
Il
principe strinse i pugni e inclinò il capo, malcelando il proprio acceso
interesse, e il Gigante seguitò a sorridere con segreta soddisfazione.
«Ma
qualcuno è corso ad aiutarlo, ed io mi sono avvicinato per vedere meglio.»
riprese il soldato: «Si trattava proprio della donna irlandese, mio signore.
Con il cavallo ha travolto i nostri e si è messa a lottare contro di loro per
difendere il Tonante. Usava il flauto magico, e l’ho riconosciuta all’istante.
Ho pensato d’intervenire di persona per accertarmi di non deluderti, o re, ma
come ti ho detto non ve n’è stato bisogno. Uno dei nostri le ha spezzato l’arma
con la daga e l’ha colpita a morte.»
Le parole
di Lut sprofondarono nel petto di Loki come un macigno. Gli annebbiarono la
vista, gli imperlarono la fronte di sudore marmato, gli squarciarono lo stomaco
e seccarono la gola, e un conato bruciante gli sconquassò i polmoni. Non gli
parvero plausibili, le ritenne uno scherzo di dubbio gusto, un malinteso, un
modo per farlo soffrire, eppure fino a quel momento il suo infido fratellastro
non aveva mai mentito, o non che lui sapesse.
«Con
dovizia di particolari, buon Lut. Vorrei che il principe potesse immaginarsi la
scena con estrema chiarezza, e anch’io.» ribadì lentamente Býleistr.
«Il
flauto era ghiacciato al centro, mio signore. La spada le ha dilaniato il
torace e lei è rovinata al suolo. Il figlio di Odino ha ucciso i nostri
campioni e si è precipitato a soccorrerla, invano, poiché era già spirata.
Questo è quanto.» obbedì Lut, e forse c’era una sfumatura contrita nel suo
tono, come se assistere al terribile accaduto lo avesse leggermente sconvolto.
Il dio
sentì che le ginocchia gli cedevano inesorabilmente, e aggrappandosi all’unico
brandello di speme rimastogli esalò con voce sprezzante e inasprita dalla
mancanza di respiro:
«No. Mia
moglie non farebbe mai una tale idiozia. Non morirebbe mai per Thor.»
La risata
cattiva del fratellastro spinse ancor più in profondità il macigno acuminato
che gli gravava addosso. Ed estrasse, Býleistr, due cose luccicanti
dalle pieghe del manto, e gliele mostrò tenendole in bilico sui palmi aperti
delle mani, e qualcosa di simile a una nera, devastante follia calò sull’animo
già debole e vessato dell’asgardiano: perché erano le due metà del flauto
spezzato di Erin, quelle due cose luccicanti, e l’argento era macchiato di
sangue violaceo e sangue scarlatto, e recava tracce di gelo sui bordi troncati.
Era
morta. Era morta. Era morta per
salvare colui che Loki voleva morto, era morta dopo essersi salvata, era morta
per sua scelta. Era morta a causa della sua ostinazione a non volerle dire
tutto, a causa della sua stoltezza. Era morta e lui avrebbe potuto evitarlo, se
le avesse dato ascolto, se non la avesse fatta tornare su Midgard – o
magari no, magari sarebbe avvenuto comunque, dacché Býleistr non le
avrebbe lasciato scampo ovunque si fosse trovata.
Sulla
pelle e nelle vene aveva ancora il dolce, nostalgico anelito del calore di
Erin, del suo fiato, delle sue cosce tese che gli stringevano i fianchi, e nulla
di più gli sarebbe rimasto: fredda, immobile e muta era ormai la sua sposa, e
lo era divenuta troppo presto persino per la norma del caduco fato umano. La
donna che gli aveva stregato anima e corpo, la donna che più di chiunque altro
lo amava, la sola che lui ricambiasse, più non viveva, e al suo posto un’enorme
voragine di vuoto, assenza e silenzio andava allargandosi nel cuore del Dio
degli Inganni.
Avrebbe
voluto urlare di nuovo, e con più violenza, e tuttavia nessun suono gli uscì
dalle labbra, né lacrime dagli occhi. Non udì o avvertì più niente, solo il
rombo sordo del proprio battito nelle orecchie, e scivolò a terra, i polsi
dolorosamente incastrati nella catena di uru.
Il
fratellastro gli pose accanto i due monconi d’argento, delicato e beffardo:
«Goditi
la compagnia dei tuoi pensieri, principe. A più tardi.» si congedò mellifluo.
Ma Loki
non reagì. L’abisso in cui era piombato era il più oscuro e triste che avesse
mai conosciuto.
Del
soffitto si intuiva a fatica la fine.
Era
dorato, come quelli delle grandi sale della reggia, formato da altissime volte
decorate e sostenuto sui lati da gigantesche colonne. Tra una colonna e l’altra
si aprivano finestre prive di vetri e l’ambiente era circolare, vasto, una
sorta di anfiteatro di panche auree che si arrampicavano sino alla base delle
monofore.
Riflessa
nelle lucide lastre chiare del pavimento, Erin girò piano su sé stessa, il naso
all’insù: quel luogo era meraviglioso, immoto e solenne, e non aveva senso. O
meglio, avrebbe avuto un qualche senso se lei non vi si fosse risvegliata dopo
essere stata – questo ricordava – praticamente sventrata come un
povero coniglio in battaglia salvando il culo a Thor.
Si tastò ogni
parte del corpo, scoprendo di avere il torace perfettamente intatto e di
indossare un abito di impalpabile seta bianca al posto dell’armatura, della
cappa blu, dei jeans e degli stivali. Aveva i capelli sciolti e i piedi nudi, e
nessun anello all’anulare sinistro.
«Ehi!»
chiamò agitata nello spazio deserto: «Dove cazzo sono finita?»
«Sei a
Valhalla, figlia. Questo è il Cerchio degli Eroi.»
La voce
di Odino la raggiunse, inaspettata, e con un piccolo salto nervoso l’irlandese
si voltò. Il re era sulla soglia, la corazza macchiata e ammaccata, la testa
canuta scoperta e Gungnir in mano, e dietro di lui s’indovinavano la chioma
color grano e lo splendido viso di Lady Brunhilde, colei che comandava le
Valchirie. Aveva tutta l’aria di recare qualcosa di grosso tra le braccia,
qualcosa che Erin non distinse.
«E chi mi
ci ha portato? Cosa accidenti è successo, Padre? Siamo in una versione norrena
di Dead like me?» domandò, e nel
frattempo si sforzò di rimettere insieme i pezzi: Valhalla, eroi, Valchirie,
battaglia, elencò tra sé. Ricordò la lama crudele del gigantesco jotun, il
dolore e il sangue ed ebbe un capogiro, poiché era assolutamente sicura di
averci rimesso le penne. L’ironia era l’unico argine che aveva contro quella
spiazzante consapevolezza.
«Vi sei giunta
da sola, figlia, dopo che Lady Brunhilde e le sue sorelle ti hanno scelta.»
rispose piano il Padre degli Dei; la Valchiria annuì e restò immobile alle sue
spalle.
La
musicista sentì gli occhi pizzicarle: «Scelta? Dunque sono una... un Einherjar? Sono diventata un fottuto
fantasma corporeo?» farfugliò.
«Sei quasi una Einherjar, mia valorosa
giovane. E hai perso la tua vita mortale salvando quella del mio primogenito.
Per questo motivo voglio che sia tu a decidere, e per questo l’armatura che
farà di te uno degli Eroi è là che ti attende, se la vorrai accettare.» disse
Odino, e indicò l’angolo più distante delle gradinate: un completo assetto da
guerra di splendente metallo era ivi adagiato. «Sai cosa significa essere un
Einherjar, figlia?» egli aggiunse.
«So che
significa essere immortali, invulnerabili, e che lo scopo di un Einherjar è
combattere per te e per il Reame Eterno. C’è altro che dovrei conoscere al
riguardo?» asserì Erin, tormentandosi con le mani sudate la stoffa morbida
della tunica.
Il sovrano
le si avvicinò: «Un Einherjar non ha volontà propria. È dedito e fedele esclusivamente
a me, e ad Asgard. Un Einherjar non può tornare su Midgard, mai, né può
allontanarsi da Folkvangar se non per allenarsi e recarsi in battaglia. Un
Einherjar non può vivere come uno degli Æsir, pur condividendone la vita
eterna, e non può essere padre, o madre. Un Einherjar non potrà fare a meno di
lottare per difendere il re e il regno da chiunque rappresenti per noi una
minaccia, poiché tale sempre sarà la sua volontà.»
L’irlandese
deglutì a vuoto. Se quello che le stava martellando impazzito nel petto si
poteva ancora chiamare “cuore”, aveva la netta impressione che le sarebbe
esploso da un momento all’altro: «Chiunque? Indistintamente?» gracchiò.
«Chiunque.
Anche tuo marito, figlia, qualora occorresse.» mormorò il Padre degli Dei; «E se
anche non fosse questo il caso, non potresti comunque stare con lui come moglie
e madre dei suoi eredi. Ecco ciò che volevo ti fosse chiaro.»
«E quale
alternativa mi offri, Padre? Perché me la stai offrendo, non è così? O non mi
avresti detto quel che mi hai detto.» volle sapere Erin, e fremendo aspettò.
Era ovvio che non avrebbe mai accettato di farsi Einherjar, ma l’altra opzione
non doveva essere semplice. Se lo fosse stata, Odino non le avrebbe chiesto
niente: l’avrebbe messa in atto e basta.
Il re
gesticolò verso Brunhilde, che uscendo dal cono ombreggiato in cui era avanzò
al centro del grande salone. Tra le braccia teneva il corpo della Dama del
Flauto, il vero corpo, esanime e livido e completamente imbrattato di sangue e
terriccio; i capelli erano scarmigliati, la bocca socchiusa, l’espressione
cristallizzata in una tenue smorfia malinconica, e terribile era lo squarcio
che aveva sulla corazza e sulla carne. La Valchiria distese la spoglia sulla
panca d’oro più bassa con estremo rispetto, quindi s’inchinò all’altro
sembiante della donna d’Irlanda.
Questa
fissò sé stessa e lo stomaco le si contorse. Annaspando si piegò in due,
strizzando le palpebre per contenere l’urto del vomito, e distolse lo sguardo
dal proprio cadavere cercando l’occhio lucido e preoccupato di Odino:
«Dimmi
che la fottuta alternativa è farmi tornare indietro, Padre.» lo implorò.
«Ascoltami,
Erin.» principiò il sovrano, grave, cingendole le spalle: «Non potrai più
essere una donna mortale, mai più. È un miracolo che neppure io potrei
compiere. Quello che ti offro è di tornare nel tuo corpo primigenio e di
essere, in tal modo, alla stregua di una Asynja, una dea, dacché il tuo spirito
è ormai immortale e tale resterà, e immortale diverrà il tuo fisico se la mia
previsione è corretta. E poiché non sono certo che lo sia, poiché non l’ho mai
fatto prima, debbo metterti in guardia e confessarti che potrebbe non
funzionare e che potresti rimanere così, e saresti allora costretta ad accettare
il tuo destino di Einherjar.»
«E se
invece funzionasse?» indagò frettolosamente lei, interrompendolo.
Odino
emise un lungo, profondo sospiro: «Se funzionasse avresti il tuo libero
arbitrio, potresti seguitare ad andare su Midgard e vivere alla reggia, ed
essere la sposa di uno dei principi. Ma vedresti morire i tuoi cari e mutare il
mondo che ti ha vista nascere, e non potresti muovere un dito per impedirlo.
Saresti legata al nostro fato, indissolubilmente. E parlando di Loki...»
Si
bloccò, dondolando lo scettro tra le dita inquiete come se stesse racimolando
la formula giusta per concludere il proprio discorso, e l’irlandese ne indovinò
la parte mancante:
«Lo so.
Potrebbe essere già morto o potrebbe aver tradito.» ammise con amarezza.
«E
capisci che ciò comporterebbe per te una vita eterna senza di lui, figlia?»
Erin si
passò una mano sulle palpebre bagnate e si riempì i polmoni d’aria per
calmarsi, per riflettere. Eppure si rese conto di aver ben poco su cui
rimuginare: aveva già fatto la sua scelta, e doveva solo darle voce, cosa per
cui le sarebbe servita un’enorme dose di coraggio.
«Perché
concedermi un simile privilegio, Padre degli Dei?» chiese invece in un
sussurro.
«Oh,
Erin, Erin, straordinaria Erin di Galway!» esclamò Odino; «Hai salvato la vita
di mio figlio al prezzo della tua. Hai salvato entrambi i miei figli! Ti devo tutto e non c’è cosa che non farei
per colmare il mio debito, e forse non sarebbe comunque sufficiente.»
Il
vantaggio che suo malgrado si era guadagnata sugli asgardiani, l’ammirazione
che questi nutrivano nei suoi confronti – ogni cosa aveva raggiunto il
più alto livello possibile, nel bene e nel male, e per quanto impaurita ne
fosse quella era l’ultima, migliore e più grandiosa occasione che la flautista
aveva per riaggiustare la situazione, a qualunque costo.
Raddrizzò
la schiena, il volto fiero e il mento alzato:
«Capisco,
e voglio tentare. Non me ne importa se è un rischio, m’importa che funzioni,
anche se dovessi rimanere sola. Perché se mio marito fosse morto intendo essere
io a vendicarlo, e se avesse tradito dovrò essere io a ucciderlo.» proclamò,
vibrante, dura, commossa; «E se fosse ancora vivo, Padre, non ci saranno
stronzi di ghiaccio capaci di fermarmi.»
«Lo ami
tanto, figlia. Lo ami così tanto.»
ribatté il re, e non era una domanda.
Erin
sorrise: «Sì. Più di ogni altra creatura vivente in tutti gli universi che
esistono.»
Allora
Odino brandì Gungnir con entrambe le mani e glielo puntò gentilmente contro il
petto. Dalle sue antiche labbra cominciò a fluire una misteriosa litania, e
l’irlandese fu invasa da una stranissima sensazione, un formicolìo, un tepore
che non apparteneva ad alcuna delle leggi fisiche che aveva conosciuto e
sperimentato. E nel chiudere gli occhi si sentì dissolvere, si fece leggera
come un respiro e perse la capacità di percepire ciò che la circondava,
similmente al cadere in un denso e imprevisto sonno.
Svanì,
trasformandosi in una nube di dorato, luminoso pulviscolo che si sollevò dal
marmo candido del pavimento e piroettò con calma nell’aria per la meraviglia di
Lady Brunhilde e del Padre degli Dei medesimo. Danzò fino al corpo esangue
della donna d’Irlanda e da esso si lasciò assorbire, o dentro gli penetrò di
sua sponte, e per una manciata di attimi la spoglia brillò di un portentoso
alone che abbacinò gli astanti.
Poi
scomparve, e lei rimase immobile e distesa sul gradino più basso
dell’anfiteatro.
Odino e
la Valchiria attesero, ansiosi, nel silenzio più assoluto, e temettero il
peggio – ma d’un tratto Erin s’inarcò con un singulto e l’aurea polvere
di poco prima le serpeggiò addosso dalla testa ai piedi: ridiede colore alle
sue guance, cancellò l’infame ferita dal suo esile torace e curò i graffi e le
ecchimosi che le costellavano la pelle, e riportò fiato nei suoi polmoni.
Infine
l’irlandese si ridestò con un breve grido e si alzò di scatto a sedere, viva e
vegeta e incredula, e i due Æsir immediatamente le corsero appresso. La
tastarono, scrutarono, desiderosi di sapere quale fosse il suo sentire, se
riusciva a parlare e a muoversi, ed Erin scrollò il capo arruffato mentre una
risata le sgorgava dalla gola pulsante.
«È stato incredibile.»
boccheggiò, e non avrebbe potuto descrivere con termini più adatti l’esperienza
di scindersi in migliaia di particelle scintillanti e svegliarsi da immortale nel
proprio corpo nel giro di un singolo minuto.
«Stai
bene, figlia?» insistette il re con preoccupazione.
«Mai
stata meglio, cazzo.» fu la risposta.
La
musicista si mise in piedi barcollando appena e si liberò della corazza
fracassata, quindi si avviò verso la porta con passo ardito. Sono immortale, si
ripeté come in un mantra per dare una forma alla novità, sono immortale o
almeno credo. Non che la faccenda la rendesse felice: era troppo grande e
ignota da accettare, era un infinito spazio aperto in cui non filtrava ancora
alcuna luce. Si sarebbe tramutata in gioia soltanto quando e se avesse riavuto
Loki al proprio fianco, e comunque avrebbe dovuto rinunciare ai familiari, agli
amici, all’esistenza cui tanto teneva e che mai gli erano parsi teneri e
confortanti come adesso.
Eppure il
Dio degli Inganni era ormai divenuto più importante di loro, più importante del
noto e del certo, e valeva ogni rischio. Non si rammaricò nell’ammetterlo,
poiché era la verità.
E aveva
fuoco nelle vene, e quel fuoco reclamava vendetta.
Odino la
inseguì: «Di cosa necessiti, Erin? Hai intenzione di tornare in battaglia?» la
apostrofò.
«Sì, se
lo scontro non è ancora terminato. Cosa mi sono persa?»
Brunhilde
intervenne per la prima volta: «Quando sei caduta eravamo da poco arrivate ai
Campi con gli Einherjar al completo. La nostra presenza, oltre al vostro
intervento con la cavalleria, ha ribaltato la situazione a nostro favore. Se
dal varco non è uscita una terza ondata di Jötnar credo che li sconfiggeremo. E
il principe Thor era inarrestabile.»
Chiamata
in causa, l’irlandese sorrise nuovamente e si appoggiò allo stipite:
«Per
tornare in battaglia avrò bisogno di un paio di cose, Padre. Di un’armatura
integra, per esempio, e di un altro cavallo. Dov’è il mio flauto?»
«Dubito
che potremo ritrovarlo prima che la guerra finisca.» sottolineò il sovrano.
«Già,
dubito. Dunque mi servono altre armi.» concordò Erin, e di sottecchi fissò il
divino suocero: «Più precisamente, mi serve il fucile che ho lasciato nelle scuderie.»
Note
Se là fuori
c’è ancora qualcuno, battete un colpo!
Non aggiorno da febbraio e so che è veramente un grosso lasso di tempo – di proporzioni asgardiane, direi:
sono stata assai impegnata e non avevo nemmeno tutta questa gran voglia tornare
su EFP. Ma amo troppo Loki, Erin e le loro avventure, e non potevo lasciare
incompiuta la pubblicazione della storia (di cui sto scrivendo gli ultimi due
capitoli).
Avevate creduto morta la nostra irlandese? Grazie a Wagner l’ha scampata
bella, anche se da qui a dire che tutto è risolto ce ne corre… Se avete
presente la tetralogia dell’Anello del
Nibelungo, e in particolare la Valchiria,
saprete che nella sua versione e nella mitologia norrena in generale gli
Einherjar sono gli eroi umani morti in battaglia o in duello che le Valchirie
scelgono come guerrieri invulnerabili da portare nel Valhalla – e non,
come nei film, i soldati asgardiani in toto; normalmente i corpi dei caduti
restano su Midgard e certo Odino non interviene per cambiare la loro
situazione, ma nel caso di Erin il corpo mortale era su Asgard e lei ha fatto
quello che ha fatto.
Se non sapete cos’è Dead like me
(in Italia nota anche col triste titolo di La
vita dopo la morte o roba del genere) vi prego, guardatevelo, perché è
piuttosto geniale e politicamente scorretto.
Titolo del capitolo tratto dalla prima strofa di Not your fault degli Awolnation (she was built with a brain / and some swagger / […] i’m a joke in my own mind / but she still
loves to dance / with my punch lines); per la scena iniziale avrei scelto E lucevan le stelle, la straziante aria
dell’eroe della Tosca di Puccini,
giusto per patire un po’; per la resurrezione di Erin, invece, da dopo che lei
vede il proprio cadavere fino al risveglio, il brano migliore è The enigma of River Song dalla VI
stagione di Doctor Who.
Giuro che aggiorno tra una-due settimane al massimo. Ossequi asgardiani
a tutti!
Capitolo 12 *** 12. Won't be no peace when I find that fool who did that to you ***
12.
Won’t be no peace when I find that fool
who did that to you
«Battono
in ritirata, mio signore!» esultò uno dei cavalieri levando alta la propria
spada verso Thor.
Questi
rispose con un ruggito vittorioso e sollevò Mjölnir tra il giubilo dell’esercito
intero, ma non sorrideva come suo solito, nonostante l’esito felice della
battaglia. Tra il molto sangue di cui era sporco v’era pure quello giovane e
tristemente eroico di Erin di Galway, e ciò gli appesantiva dolorosamente il
cuore: se e quando fosse tornato, Loki non lo avrebbe mai perdonato per averle
permesso un simile gesto, né se lo sarebbe perdonato lui per primo.
Si guardò
la mano destra, quella con cui stringeva il manico del Martello, e si chiese
perché fosse ancora degno di brandirlo. Lo scontro era vinto e gli Jötnar
superstiti fuggivano disordinatamente in direzione del varco tra i monti,
eppure il Dio del Tuono sentiva di aver ben poco per cui gioire.
Sif gli
si accostò. Anche lei era pallida e stravolta, ferita sulle braccia e sul
volto, e Hogun e Fandral la seguivano a qualche passo di distanza; Volstagg era
rimasto indietro ad aiutare un drappello di fanti malmessi.
«È
finita?» chiese il biondo spadaccino, che come il principe ostentava meno della
metà della propria consueta brillantezza.
«Non ne
sono sicuro. Mio fratello è ancora nelle mani dei nemici e dobbiamo chiudere il
passaggio, cosa peraltro di cui solo lui è capace. Finché non tornerà mio padre
non oso prendere decisioni.» rispose piano Thor.
«Dov’è il
re adesso?» interloquì la guerriera guardandosi nervosamente intorno, e nessuno
avrebbe saputo dire se stesse solo controllando la situazione sul campo, se
cercasse una traccia del flauto spezzato e disperso della donna d’Irlanda o se
segretamente sperasse di veder comparire quest’ultima in carne e ossa,
scoprendo così di aver preso un abbaglio. Non avrebbe mai ammesso ad alta voce,
Sif, che si riteneva pienamente responsabile della morte di Erin, malgrado
l’espressa richiesta contraria di Erin medesima, e la colpa le scavava dentro indisturbata.
Tuttavia era felice che Thor fosse vivo grazie a quel che la giovane
midgardiana aveva fatto, e al contempo la invidiava perché da sempre era convinta
che sarebbe stata lei a sacrificarsi per colui che amava e ammirava con fervore
– e non avrebbe dovuto essere l’irlandese a farlo, dacché era l’altro principe ch’ella amava e ammirava.
Pensarlo non faceva che aumentare in Sif quel logorìo.
«L’ho
visto allontanarsi con Lady Brunhilde, diretti alle mura, e ne ignoro la
ragione.» disse il dio. La Valchiria aveva raccolto con estrema gentilezza
l’esile spoglia di Erin, e lui non riusciva a esimersi dall’ipotizzare che suo
padre avesse in mente qualcosa, una soluzione, un miracolo. Ma la musicista era
legata a un ben diverso destino rispetto a quello degli Æsir, e quella di Thor
era una vana speme.
Hogun
puntò d’improvviso il dito innanzi a sé, gli stretti occhi neri accesi di
stupore:
«Potrai
sapere a breve la ragione, amico mio. Il Padre degli Dei giunge tra noi, e non
è solo.»
Il
principe, la guerriera, lo spadaccino e tutti coloro che li circondavano si
voltarono, e rimasero a bocca aperta: Odino avanzava calmo e maestoso,
sfavillante d’oro, e alla sua sinistra cavalcava una fanciulla dal fiero
cipiglio, i capelli chiari raccolti sulla nuca, una giubba in pelle sopra
l’armatura, una spada alla cinta e una bizzarra, robusta arma tra le dita.
Altri non
era che Erin Anwar in persona, e nel riconoscerla tutti rimasero senza fiato, e
Thor sentì i propri occhi impolverati e stanchi riempirsi di lacrime.
«Erin!»
esclamò correndole incontro.
Pur
desiderando tirarla giù dalla sella per abbracciarla, si limitò a stringerle
una mano, mirandola con viva e abbacinata commozione; era scosso dal sollievo,
dalla gratitudine e dall’orgoglio, e per la prima volta da quando
quell’infausta vicenda era iniziata fu certo che tutto poteva finire per il
meglio, che anche suo fratello aveva almeno una possibilità di salvarsi. Era,
in effetti, la prima volta che ragionava su quel che poteva essergli accaduto,
dal momento che solo la battaglia aveva occupato la sua mente sino ad allora, e
temeva per lui.
Eppure la
straordinaria guarigione o rinascita della giovane irlandese dal cuor di leone
gli faceva pensare che niente era impossibile, né già deciso, e che non avrebbe
abbandonato Loki.
«Come ti
ha salvata?» domandò a Erin continuando a tenerle la mano libera nella propria
e accennando al Padre degli Dei.
«È la
storia più incredibile che potrei mai raccontarti, caro cognato, e non lo farò
adesso. Ho un marito da recuperare.» affermò lei ricambiando la stretta.
Non
rimpiangeva di aver fatto quanto aveva fatto, benché fosse conscia che forse un
giorno, o quel giorno stesso, si sarebbe amaramente pentita di non essere
rimasta alla reggia con Frigga e le dame. A patto, naturalmente, che quel suo
atto di totale abnegazione non servisse a qualcosa di più dell’aver ottenuto la
completa e fiduciosa riconoscenza imperitura di Thor e Odino: in tal caso mai
azione le sarebbe parsa più saggia e legittima.
Guardò il sovrano di sotto in su
in attesa di un segnale ed egli annuì lentamente per poi spronare il proprio
destriero e portarsi al centro dello spiazzo che gli astanti avevano formato;
Sif fissava la flautista come avrebbe fissato le Norne se le si fossero
materializzate di fronte in quell'istante, e oscillava tra il riso e la più
totale incredulità.
«Soldati e cavalieri, figlio mio
e mia signora, grande è stato il vostro ardimento, e grazie ad esso il nemico è
ora in fuga e decimato. Asgard è salva!» annunciò Odino scuotendo Gungnir, e il
cielo che andava scurendosi sopra l'erba arrossata dei Campi di Idavoll vibrò
del boato unanime dell'esercito che celebrava la vittoria; e il re proseguì: «Non
è però ancora tempo di riporre le armi e fare ritorno entro le mura. Non lo
sarà finché il mio secondogenito non sarà di nuovo tra noi e la sua sorte non
ci sarà nota, e andare a Jotunheim è l'unico modo per risolvere la questione.»
Un mormorìo attraversò la folla,
pronto a crescere in un coro di proteste, e il Padre degli Dei lo smorzò sul
nascere: «So bene che è un'impresa suicida quella che vi chiedo di compiere, ma
non posso lasciare uno dei miei figli nel reame che ci ha sfidati. Lo
riporteremo qui, lo puniremo se necessario, oppure lo vendicheremo. Sua moglie
ha salvato suo fratello e ha fatto un'ardua scelta per salvare lui, e vorrei
che non la deludeste.»
«E io vorrei la mia vendetta.»
precisò Erin facendo scattare minacciosamente la sicura di Boomstick. Avrebbe
volentieri sparato persino agli asgardiani, se le avessero impedito di prendere
la via che conduceva al Regno dei Ghiacci, a costo di giocarsi il debole che
avevano per lei.
«Chi è con me?» aggiunse con un
lievissimo tremito nella voce.
«Fino alla fine dei giorni, Erin
di Galway, io sarò con te.» sentenziò subito Thor porgendole simbolicamente
Mjölnir.
«E noi con voi.» si accodarono i
Tre Guerrieri di nuovo riuniti, Fandral che parlava a nome dei compagni.
«E io lo farò per te, amica mia.»
garantì la dama guerriera.
Anche Hödr avanzò per inchinarsi
all'irlandese e al Dio del Tuono:
«La cavalleria è ai vostri
ordini, altezze.»
Il principe comandò che fossero
forniti cavalli freschi a lui e ai suoi quattro leali amici, e dal padre volle
sapere se lui ed Erin avevano carta bianca per agire.
«La avete. Ma tornate da vivi, e
con Loki. Altro non desidero né pretendo.» Odino disse loro.
Thor sorrise con gioia feroce e
alzò il Martello sopra la testa, invitando la cognata a fare altrettanto, e lei
lo imitò sollevando il fucile; alle loro spalle i cavalieri proruppero in un
ruggito unanime e Sif, Hogun, Fandral e Volstagg li fiancheggiarono due a due.
Seguendo il lucore di Mjölnir e Boomstick il contingente partì al trotto alla
volta della gola in cui s’apriva il varco, e nuovamente il terreno fu scosso da
un tremore incessante che prometteva tempesta. Il Padre degli Dei li osservò
sparire tra le pareti di roccia e fece disporre la fanteria a ventaglio in modo
da bloccare qualunque cosa ostile fosse uscita dal passaggio in vece del suo
primogenito e della Dama del Flauto – e se non avessero fatto ritorno,
considerò tra sé col cuore stretto in una morsa, avrebbe dovuto adoprarsi per
serrare il passaggio senza inviare altri uomini al di là di esso, o i rischi
sarebbero stati irreparabili.
E intanto gli asgardiani e
l’irlandese cavalcavano senza sosta, e presto i bordi danzanti del portale di
spalancarono loro dinnanzi, e tale era l’impeto di Erin e Thor che tutti lo
attraversarono con decisione, ritrovandosi sul sentiero sospeso nel buio
stellato di quel cosmo a parte. Tuttavia ancora avanzarono, e seguirono la via
sino a scorgere il baluginare candido e metallico delle nevi di Jotunheim, e
sulle sue lande di grigio gelo sciamarono al galoppo puntanto verso la strada
maestra e i suoi alti archi di ghiaccio. Il freddo era ostile e pungente e
ghermiva la carne trapassando la stoffa, il cuoio e le corazze, ma niente
avrebbe potuto ormai fermarli: di certo non avrebbe fermato Erin, né il tumulto
ch’ella aveva in petto e che le spinse in gola un poderoso grido belligerante
non appena scorse la Cittadella ergersi oltre l’ultima curva. Ed era un grido
che assai somigliava al nome del suo divino sposo.
Hugrun fu il primo a vederli
arrivare. Stava organizzando il campo per curare i feriti e le carovane di
morti e superstiti da mandare in città, dopo aver comunicato la novella della
pesante sconfitta al furibondo Býleistr, e l’ondata di Æsir a cavallo
guidati dal Tonante e dai suoi migliori guerrieri lo costrinse a correre ancora
dentro al palazzo per dare l’allarme.
«Mio re, ci attaccano!» esclamò
maldestramente entrando nel salone dove il figlio di Laufey camminava a passi
nervosi per decidere sul da farsi; quindi prese fiato e precisò: «Thor e la
cavalleria di Asgard sono qui, mio signore, e ci attaccano. Hanno seguito le
nostre retrovie in fuga attraverso il varco, sebbene abbiano vinto.»
Gli occhi sanguigni del giovane
Gigante fiammeggiarono:
«Sono venuti per lui. Una folle missione atta a
riprenderselo! Cercano la morte, quegli sciocchi, e io non gliela negherò.
Pensa alle difese, generale, ti raggiungerò a breve.»
Guardò Loki e scoprì con sollievo
che l’annuncio sembrava non averlo minimamente toccato, se mai l’aveva anche
solo udito: se ne stava sempre lì, accasciato alla base della colonna col
flauto spezzato tra le dita, e vacue e spente erano le sue verdi iridi.
Býleistr rifletté
freneticamente: se gli asgardiani mettevano a repentaglio la propria vittoria
per il principe cadetto era perché lo ritenevano colpevole e intendevano
punirlo secondo il loro stolto onore, oppure avevano mangiato la foglia e lo sapevano
innocente e volevano salvarlo; in ogni caso era ovvio che non avrebbero
desistito dall’intento, non senza vender cara la pelle, e lo jotun si chiese
cosa era andato storto, su quale punto si era sbagliato.
Ucciderlo, dunque, non avrebbe
avuto senso, non adesso. Col fratellastro morto non avrebbe potuto insistere
efficacemente nell’accusarlo di tradimento contro il Reame Eterno, né gli
sarebbe stato possibile – ne ebbe improvvisa illuminazione – tenere
i nemici in pugno. Forse avrebbe dovuto ucciderlo subito, eppure neanche ciò
sarebbe stato utile o sensato, nello schema della sua vendetta, e il piano che
aveva testè elaborato gli parve un ottimo compromesso.
All’esterno erano esplosi suoni
inconfondibili di combattimento, e Býleistr sogghignò prendendo malamente
il Dio degli Inganni per la collottola per tirarlo su in piedi. Gli sfilò con
cautela le catene dai polsi, ma Loki rimase afflosciato, muto e pallido nella
propria triste inerzia, quasi aggrappato ai monconi d’argento dello strumento,
e il figlio di Laufey non faticò affatto nel trascinarlo fin sulla soglia della
fortezza.
Fu battaglia immediata entro il
perimetro della roccaforte, quando Erin, Thor e i loro vi confluirono come
furie. Gli Jötnar erano decimati e stanchi, e ciononostante reagirono
prontamente sotto l’abile guida di Hugrun, facendo del loro meglio per impedire
agli assalitori di guadagnare l’ingresso del palazzo. In molti tra coloro che
erano partiti per la capitale tornarono in fretta indietro, richiamati dai
messi e dai corni d’allerta, e presto gli Æsir si ritrovarono in lieve
svantaggio, bloccati al centro della Cittadella.
L’irlandese non aveva però alcuna
intenzione di perdere tempo: scaricando cartucce su cartucce sulle brutte facce
degli jotun che le si paravano davanti si allontanò dal punto critico dello
scontro, alla ricerca di una porta che potesse condurla all’interno della
reggia più o meno di nascosto, e scese dalla sella. Sentiva che Loki era lì, e
non avrebbe atteso né una seconda vittoria né di essere catturata assieme ai
compagni d’arme per andare a cercarlo.
V’era in effetti un uscio di
servizio, sul lato destro dell’enorme edificio di pietra e gelo, e protetta
dalla confusione che ovunque regnava e dal buio che cresceva riuscì ad
arrivarvi, inciampando nella neve e imprecando con voce soffocata. Aveva le
mani fredde come il marmo e vampe di calore le infuocavano il volto e la
schiena, confondendola, ma l’energia completamente nuova che le fluiva in corpo
e la rabbia che a malapena teneva a freno rendevano trascurabile quel
malessere. Non aveva più dubbi o timori concreti: voleva solo sapere,
definitivamente, e farla finita, e poco importava cosa sarebbe accaduto in
seguito.
Con un colpo di fucile fece
saltare la serratura della porta e rapida s’intrufolò nel passaggio su cui essa
si affacciava. Salì una rampa di scale, sbucò in una vasta sala dal soffitto di
altezza quasi normale che aveva tutta l’aria di essere una cucina e proseguì
oltre, imboccando un corridoio così ampio che un carro armato vi sarebbe
transitato senza toccare le pareti – e quanto avrebbe desiderato averne
uno, in quel momento! Si rese conto di star avanzando come un cingolato lei
medesima, accecata dall’urgenza di vendicarsi, incapace di formulare un
pensiero che contemplasse lucidamente l’ipotetico destino che l’avrebbe attesa
dopo aver soddisfatto tale bisogno. Ed era assai meglio così, o avrebbe dovuto
fronteggiare ancora l’abisso oscuro e ignoto di un’indesiderata immortalità
potenzialmente solitaria, un’eternità che sapeva già di non voler vivere se il
Dio degli Inganni non fosse stato con lei.
Come giunse al termine del
passaggio, arrivando in una sorta di armeria, un manipolo di Giganti urlò nel
notarla e le piombò addosso con le daghe spianate: Erin sparò a quello che
aveva più vicino, abbattè il calcio di Boomstick sull’inguine del secondo e
schivò gli altri per guadagnare terreno e inserire goffamente una cartuccia
intonsa nelle canne mozze dell’arma mentre correva al capo opposto della
stanza; scivolò sul ghiaccio che ricopriva il pavimento di roccia levigata,
bestemmiò e aggrappandosi allo stipite della prima porta che incontrò girò
pericolosamente sui tacchi e fece fuoco contro i nemici che erano tornati alla
carica. Avrebbe potuto continuare a fuggire, ma doveva togliere di mezzo tutti
gli jotun presenti nella fortezza, almeno quelli che vedeva, o non le sarebbe
stato possibile agire indisturbata in seguito. Perciò invece di scappare
arretrò mantenendosi rivolta verso i soldati, ricaricando il fucile con estrema
e folle rapidità e sparando con i bossoli di ricambio pronti tra i denti. I
Giganti caddero sotto quelle piccole e devastanti esplosioni a loro
sconosciute, tra scintille e fumo e odore di polvere da sparo, chi ferito e chi
defunto, e l’irlandese si fermò solo quando fu sicura che nessuno potesse più
nuocerle. Nessuno o quasi, dacché qualcuno la afferrò da dietro per il collo
uggiolando: «Ferma dove sei, dannata asgardiana!»
Con una smorfia irosa, Erin non
fece complimenti: rovesciò Boomstick fino a toccare la fronte dell’assalitore e
premette il grilletto all’istante. Lo jotun lanciò uno stridulo suono e mollò
la presa rovinando a terra con il cranio sfacciatamente dilaniato dal
proiettile, lasciando schegge di gelo e schizzi di sangue bluastro sulla giacca
e sulle tempie della flautista, la quale gettò un’occhiata fredda al caduto:
«Fuori dalle palle, stronzo.»
ringhiò.
Il salone che le si spalancava
ora davanti era il più grande tra quelli in cui aveva transitato fino a quel
momento, spaventoso nella sua cupa imponenza e con le sue massicce colonne che
disegnavano ombre lunghe e dense al suolo, nella già fioca luce che penetrava
dalle feritoie aperte nei muri e dal gigantesco portone che dava sul cortile
della Cittadella.
E fu proprio l’ingresso ad
attrarre l’attenzione dell’irlandese, accelerandole il battito cardiaco in modo
insostenibile: esattamente al centro di esso, sotto il suo grande arco
acuminato, stava un robusto Jötnar avvolto in un manto di pelliccia e coperto
da un’armatura di cuoio nero, e teneva saldamente per la gola Loki in persona,
Loki che era smunto e silente e completamente abbandonato, inerte, nella
stretta del suo aguzzino. Questi gli premeva un pugnale sulla giugulare e
parlava in direzione di qualcuno che si trovava all’esterno, oltre la visuale
di Erin – Thor, suppose lei, ma non riusciva a capire cosa il Gigante
stesse dicendo, né quali fossero le reali condizioni dell’Ingannatore. Allora
si spostò con passo felpato, portandosi alle spalle dello jotun, e riparandosi
tra i pilastri pensò a cosa fare, a come intervenire senza nuocere al marito e se intervenire, poiché la situazione non
le era chiara e perché per essere efficace sarebbe dovuta arrivare a meno di
due metri dal bersaglio. E le era rimasto un unico colpo.
Erin non aveva in effetti
assistito a ciò che era avvenuto subito dopo che si era allontanata dall’area
della battaglia, e non aveva visto il giovane Re dei Ghiacci uscire dal palazzo
trascinando il fratellastro con sé e indurre i combattenti ad arrestarsi sul
posto proclamando con voce stentorea: «Æsir! Ecco il vostro principe! Deponete
le armi, o sarà morto prima che possiate raggiungermi.»
Thor non aveva esitato ad
abbassare Mjölnir, facendo cenno ai compagni e ai cavalieri di imitarlo, e
aveva mosso un passo verso la scalinata:
«Con chi, per Hel, dovremmo
trattare? Chi sei, jotun?» aveva replicato.
«Býleistr figlio di Laufey
son io, asgardiano, e detengo il trono di Jotunheim.» era stata la lapidaria,
ghignante risposta del suo interlocutore, e tra i guerrieri del Reame Eterno si
era insinuato un brivido di sconcerto. Sif aveva toccato brevemente un braccio
del Dio del Tuono, pregandolo silenziosamente di non commettere errori
impulsivi e di valutare la portata di quella nuova informazione:
Býleistr e Loki erano fratelli, fratelli di sangue, e questo non poteva
essere un bene. Thor ne era consapevole, ma la disperazione dipinta sul viso
cereo del Dio degli Inganni e lo scintillìo dei pezzi del flauto di Erin che
serrava tra le dita contratte lo avevano convinto della sua innocenza,
indipendentemente dal legame familiare che forse aveva con il sovrano nemico
– legàmi che mai Loki aveva d’altronde onorato.
«Cosa vuoi in cambio della
libertà di mio fratello, Býleistr figlio di Laufey?» aveva chiesto.
Lo jotun aveva riso: «Saresti
pronto a darmi qualunque cosa, nevvero, figlio di Odino? Altrimenti non avresti
messo a repentaglio una vittoria inviolabile per inseguire i miei uomini fin
qui in cerca del tuo infido congiunto. È divertente, considerato che il nostro
comune fratello mi ha pregato di farti uccidere sul campo, durante l’ormai
passata battaglia.»
Il biondo si era irrigidito,
contraendo la mascella, e la dama guerriera gli aveva sibilato all’orecchio
qualcosa di maledettamente simile a un “io lo avevo detto”. Tuttavia non aveva
mutato la propria opinione sul ruolo del principe cadetto in quella vicenda:
«Sei uno stolto se ritieni che ti
crederò, Gigante. Perciò ripeto la mia domanda, e gradirei che tu non tentassi
di confondermi con menzogne del genere.» aveva asserito.
«Come preferisci, Tonante.» lo
aveva schernito l’altro: «Ciò che voglio è semplice. Esigo che vi arrendiate e
che mi consegniate lo Scrigno degli Antichi Inverni, come avevo concordato con
il vostro Ingannatore. In cambio lo lascerò andare e lascerò andare voi via di
qui vivi e in salute. E mai più oserete minacciare il nostro Regno.»
Thor era stato scosso da un
fremito d’irritazione: «Dovrei essere io a chiederti questo. Vi concederò lo
Scrigno soltanto se tu mi assicurerai che non ostenterete più intenzioni
belligeranti nei confronti di Asgard. La nostra rivalità è andata troppo oltre.»
«Ed è colpa della tua arroganza e
delle macchinazioni del nostro comune parente se ciò è accaduto, principe.» gli
aveva soffiato contro Býleistr. La punta del suo coltello aveva inciso
una minuscola ferita d’avvertimento sulla gola scoperta di Loki, facendone
stillare una singola, rotonda goccia di sangue, e quest’ultimo non aveva
reagito.
«Non lo nego. Ma anche la tua
vendetta ha avuto una parte in questa vicenda. Libera dunque mio fratello e avrai
lo Scrigno e la nostra resa.» aveva esclamato l’asgardiano.
«Deponete le armi e lo farò.»
aveva insistito il re, ghignando.
Il tempo si era come fermato.
Býleistr intendeva sterminarli, dando l’ordine non appena avessero fatto
la mossa di abbassare la guardia, e contemporaneamente avrebbe sgozzato il suo
derelitto, odiato fratellastro. Poco importava se il Dio del Tuono non avrebbe
più potuto fare ritorno a casa per prendere lo Scrigno e portarglielo: vi
sarebbe andato lui di persona, recando seco i cadaveri dei due principi di
Asgard e dei loro più valorosi eroi, alla cui vista il Padre e la Madre degli
Dei e gli Æsir tutti avrebbero capitolato. Oppure li avrebbe attaccati
nuovamente, indebolendoli nell’animo e nella volontà.
Thor aveva intuito il pericolo, e
aveva indugiato. Sia che obbedisse o meno alla condizione posta dall’avversario
avrebbe rischiato la morte di Loki, dato che non si fidava della parola del
figlio di Laufey e che scagliandogli il Martello contro avrebbe colpito anche
il prigioniero. Il Dio degli Inganni avrebbe dovuto divincolarsi, agire per
primo, affinché quella fase di stallo si risolvesse, ma nulla sembrava scalfire
il suo stato catatonico.
«Dov’è Erin?» aveva sussurrato il
primogenito di Odino ai compagni. Se il fratello avesse visto che la moglie era
viva si sarebbe ripreso, poiché quale motivo poteva egli avere per non
ribellarsi affatto, per non tentare di difendersi né di fuggire, se non il
crederla morta? Lo strumento d’argento che aveva tra le mani avvalorava la
triste ipotesi di Thor.
«Ne ho perso le tracce a inizio
battaglia.» aveva mormorato Sif gravemente.
L’oggetto della loro apprensione
si era intanto approssimato a Býleistr quel tanto che bastava per udire
le ultime frasi da costui pronunciate e per percepire l’indugio fatale degli
astanti: il Dio del Tuono aveva il busto piegato in avanti, l’espressione
combattuta, e il movimento appena accennato del gomito destro dello jotun aveva
suggerito all’irlandese che qualcosa di spiacevole sarebbe presto successo.
Così, nell’attimo stesso in cui
gli asgardiani s’interrogavano sul destino della musicista e il giovane sovrano
tendeva i muscoli per affondare la lama, una deflagrazione riecheggiò
all’interno della rocca e un’aspra imprecazione la accompagnò:
«Fottuto figlio di puttana!»
Býleistr gridò di dolore e
sorpresa, spalancando le braccia e incespicando, Loki cadde a peso morto e
rotolò malamente sino alla base della scalinata d’ingresso, Thor si lanciò in
suo soccorso e i guerrieri del Reame Eterno gioirono: alle spalle del Gigante,
Erin brandiva il fucile ancora fumante e fissava il nemico con iridi
fiammeggianti di collera.
«Proteggete i prìncipi!» tuonò
Fandral, e lo scontro riprese feroce nella Cittadella.
Vessato sulla schiena dalla
grande ferita che il proiettile di Boomstick gli aveva provocato, il ceruleo re
si voltò come una serpe: «Chi ha osato colpirmi?» ruggì.
«La sposa di Loki di Asgard.»
disse Erin con immenso orgoglio.
Per quanto colui che la stava
fronteggiando fosse enorme, temibile e palesemente furibondo, lei era di gran
lunga più incazzata, e nessun terrore la adombrava.
Lo jotun sgranò gli occhi
rossastri: «La donna d’Irlanda? No, non è possibile.» sibilò con una secca
risata; «Sei scampata alla cattura su Midgard, ma non alla morte nei Campi di
Idavoll. Il mio messaggero non può aver mentito, e ho i due tronconi del tuo
flauto spezzato!»
«L’idea è stata tua, allora,
lurido bastardo. Tu mi volevi morta.»
constatò lei.
«Sì, Dama del Flauto, ti volevo
morta per infliggere al mio sleale fratellastro la sofferenza e la perdita che
lui ha inflitto a me uccidendo mio padre. E tu non puoi essere viva, irlandese,
non puoi essere sopravvissuta a quel fendente. Sei umana, e per molto meno gli
uomini muoiono.» confermò Býleistr con vigore, attonito e furioso.
Erin non badò al termine
“fratellastro” che il suo opponente aveva usato parlando del suo divino
consorte, e increspò sprezzante le labbra:
«Hai ragione. Ma io non sono un
uomo.» sentenziò, e urlando fieramente gli si lanciò addosso tenendo il fucile
per le canne, e con il calcio gli colpì lo sterno.
Lui ringhiò come una belva e le
restituì la cortesia utilizzando l’elsa del proprio pugnale, puntando alla sua
tempia sinistra; la musicista lo schivò, ricevendo però in compenso un pugno
nello stomaco e un successivo graffio su uno zigomo, e trovando Boomstick troppo
pesante e d’impaccio per sostituire un’arma contundente agile come il flauto lo
gettò in un angolo per estrarre la spada che Odino aveva voluto donarle. Era
lunga, sottile, lineare nella forma e quasi bianca nel metallo con cui era
stata forgiata, con fitte rune incise al centro della lama e sull’impugnatura
di nero, scintillante uru, ed era comunque troppo grande per lei: Erin la
bilanciò facendo forza con entrambi i polsi e a fatica parò il terzo attacco
del Gigante, che aveva ripreso la daga, barcollando all’indietro. Le mosse di
lui erano classiche, approssimative e contrastabili persino da un’inesperta
spadaccina, ma la sua potenza fisica era impressionante.
Nel mentre, inginocchiato nella
neve che ricopriva il suolo scuro del cortile, Thor stava scuotendo Loki nel
tentativo di sottrarlo all’oblio di cui era preda: «Fratello! Fratello, ti
prego, alzati!» lo chiamava.
Il Dio degli Inganni battè le
palpebre un paio di volte, ancora riverso a terra, e corrugò le sopracciglia in
un palese segno di istintiva stizza che il biondo ritenne più che positivo. Poi
l’altro lo mirò di sbieco e lui lo incalzò:
«Fratello, ascoltami. Erin sta
combattendo per te, e ha bisogno d’aiuto.»
Al nome della moglie Loki
sussultò, e con un lamento riuscì a sollevarsi facendo perno sugli avambracci:
«Taci. Erin è morta.» protestò con voce roca e amara.
«No, fratello, non lo è. Guarda!»
rispose Thor indicando l’ingresso del palazzo.
E il principe la vide, e credette
di sognare a causa dell’angoscia che lo attanagliava: eppure il clangore delle
spade dell’irlandese e di Býleistr che s’incontravano ritmicamente e con
violenza era reale, e così le esclamazioni che i duellanti lanciavano e
l’evidente difficoltà di Erin nel non soccombere alla sproporzione tra la sua
mole e quella dello jotun.
Qualcosa di straordinario era
evidentemente avvenuto, e lei era viva, ed era lì.
Senza più badare alla
spossatezza, al freddo e al pulsare delle ferite, l’Ingannatore si alzò
finalmente in piedi e parve riacquistare all’istante ardore e lucidità.
Congiunse tra loro i due pezzi del flauto e le sue verdi iridi si accesero del
bagliore intenso che si sprigionò dalle sue dita per una manciata di secondi,
vibrando nell’aria e riflettendosi sulle schegge di ghiaccio che il vento
faceva mulinare tutt’intorno – e quando la luce si dissolse Thor esultò,
perché il flauto era tornato integro e splendente, e non recava tracce di
frattura.
In cima alle scale l’irlandese
scivolò per evitare un colpo e il giovane Gigante le fu sopra, pronto a calare
la propria lama. Ma il fendente si fermò assai prima del dovuto: il Dio degli
Inganni si era frapposto tra i contendenti, superbo, terribile e saldo come una
roccia, e con lo strumento d’argento della sua sposa aveva fermato Býleistr.
Di nuovo la battaglia
s’interruppe, l’attenzione di Æsir e Jötnar concentrata su ciò che accadeva di
fronte alla fortezza, e l’irlandese sorrise con un fremito d’incontenibile
felicità e col fiato corto, e seppe con assoluta certezza che colui che amava
non l’aveva tradita e che mai aveva avuto intenzione di farlo.
E Loki disse soltanto:
«Allontanati, Erin. Lui è mio.»
Note
Perché Erin è raffinata come Debra Morgan e se non cita Éowyn
non è contenta. E io nemmeno :D
Per curiosità, posso chiedervi com’è possibile che i miei capitoli abbiano
una media di più di cento letture e che siate in una trentina a seguirmi e che
nonostante ciò le recensioni per questa povera storia non arrivino nemmeno alla
mezza dozzina? È un tantino umiliante… Insomma, se leggete e seguite immagino
che la storia un minimo vi piaccia. E se qualcuno recensisce – a tal
proposito, grazie mille a Blue_moon, Krisy, Pheonix, Arya_nne
e Nyxnyx! – vuol dire che non è strano né improbabile lasciarmi un
commento e un’opinione. Non temo eventuali critiche o dubbi o perplessità,
anzi: preferirei cose del genere a questo silenzio che mi fa pensare di aver
scritto qualcosa di insignificante e che emoziona me soltanto. C’mon ladies,
sotto con le vostre impressioni: non ho mai preso a ciabattate nessuno (a parte
il mio consorte) ;D
Il titolo del capitolo viene da Who
did that to you? di John Legend, canzone molto assai badass scelta da Tarantino per Django Unchained e che potrebbe andar bene anche per la scena del
ritorno di Erin e Odino e la carica degli asgardiani. A meno che non vogliate
piuttosto scegliere la versione di Child’s
anthem dei Toto suonata da David Garrett, epic-tamarra ai massimi livelli.
Per il resto consiglio di dargliene secche con pezzi di Bacalov e Morricone
come La corsa e La resa.
Capitolo 13 *** 13. Some say I am to blame. – Brother, brother, some days I feel the same. ***
13.
“Some say I am to blame.” –
“Brother, brother, some days I feel the same.”
«Lui – è – mio.» scandì
Býleistr citando le parole che il fratellastro aveva appena pronunciato,
un ghigno sottile e non ancora del tutto convinto sulle labbra e la fronte
scintillante di minuscole stille di sudore ghiacciato; discese i gradini,
avvicinandosi ai due sposi, e il suo sorriso s’allargò: «La tua brama di
vendetta è tangibile, principe, e non potrei desiderare di meglio. Dimmi, mi
stai sfidando?»
Ignorandolo,
Loki si rivolse di nuovo a Erin: «Dammi la tua spada, moglie.» mormorò deciso,
e nel restituirle il flauto le sfiorò la pelle fredda della mano destra
guardandola intensamente negli occhi. Entrambi avrebbero voluto raccontarsi
ogni cosa, stringersi l’uno all’altra e lasciarsi alle spalle quella follia,
poiché ritrovarsi vivi era ciò che importava loro, ma non era così che sarebbe
finita la vicenda ed entrambi ne erano consapevoli.
Così
l’irlandese accettò di buon grado di allontanarsi, raggiungendo Thor, Sif e i
guerrieri, e a camminarsi intorno in cerchio alla base della gradinata rimasero
il principe e il ceruleo re, le lame in pugno. E il Dio degli Inganni rispose
al suo nemico:
«Sì,
Býleistr, ti sto sfidando. Affrontami in singolar tenzone, adesso, e chi
tra noi vincerà decreterà la vittoria dei suoi una volta per tutte. Accetti?»
Lo jotun
rise sprezzante: «Un duello contro di te? Mi prendi forse per uno sciocco? Tu
hai la magia dalla tua. Non sarebbe uno scontro alla pari.» sottolineò.
«Ed è un
genere di scontro che tu non conosci affatto.» lo canzonò l’asgardiano; il
corpo gli doleva, le ferite pulsavano e il respiro gli usciva a fatica
graffiandogli i polmoni, e nonostante questo non aveva alcuna intenzione di
fermarsi e di abbandonare la propria idea: «Io non userò i miei poteri, Gigante.
Combatterò contro di te armato solo di questa spada.»
Il Dio
del Tuono, ai margini dello spiazzo che si era creato intorno ai contendenti,
fu scosso da un fremito di timore e strinse le dita sulle spalle di Erin, sia
per trattenerla dall’intervenire sia per riceverne conforto. Se suo fratello
era onesto circa le modalità della contesa, Thor aveva dei seri dubbi sul fatto
che ne sarebbe uscito imbattuto e indenne, considerate poi le precarie
condizioni in cui versava, e tuttavia le regole d’onore avrebbero impedito a
lui, alla fanciulla di Galway e a chiunque altro di aiutare Loki a sconfiggere
il figlio di Laufey.
«Quale
coraggio, principe! E dovrei fidarmi di tale garanzia?» continuò a ridacchiare
Býleistr.
«Non sei
nella posizione per dubitare di alcunché.» lo interruppe bruscamente il dio.
Alzò la propria lama, tendendo il braccio innanzi a sé, e aveva il volto
pallido e impassibile come il ghiaccio che li circondava: «Un duello,
Býleistr. Tu rappresenterai Jotunheim, io rappresenterò Asgard. Se ti
batterò i tuoi si arrenderanno e noi torneremo indietro vittoriosi. Se sarai tu
a battere me, farete dei miei quello che volete.» proclamò.
Un
brivido attraversò gli astanti, Æsir e Jötnar, e il giovane sovrano si fece
serio:
«Dunque
finirà com’è giusto che finisca. Non credi anche tu che fosse scritto,
principe? Il figlio di Laufey contro il figlio di Odino nell’ultima, fatale battaglia!
Non era forse destino?» esclamò, e nell’udire ciò Thor sobbalzò e scambiò una
lunga occhiata incredula e confusa con l’irlandese e i compagni – perché
lo jotun si stava riferendo a Loki, non a lui, e non era possibile che il
ceruleo re non sapesse che l’Ingannatore era sangue e carne del suo stesso padre.
Cosa sfuggiva loro? V’era un ulteriore segreto che attendeva di essere svelato?
Eppure Loki sembrava esserne già a conoscenza, e fissava l’avversario con una
fiamma d’odio nelle iridi verdi che mai il biondo aveva visto, nemmeno diretta
a lui.
«Accetto,
principe.» disse infine Býleistr, e tese a sua volta la daga in avanti.
Lenti
fiocchi di neve avevano preso a cadere dal cielo sempre più nero. Nel silenzio
spazzato dal vento gelido che soffiava dalle lande desolate che cingevano la
Cittadella, i fratellastri si studiarono a lungo, calcolando la distanza e lo
spazio e ponderando sulla strategia da adottare, fino a che il Gigante non
attaccò: piombò dall’alto sul Dio degli Inganni e questi parò subito il colpo e
uno ne restituì, e le spade presero a cozzare violentemente tra loro in una
serratissima danza ferale. I duellanti piroettavano su sé stessi, schivavano
fendenti, si alzavano e chinavano, e i loro passi sollevavano nuvole di
ghiaccio tutt’intorno.
Loki
resistette più a lungo che poté senza mai abbassare la guardia, ma la sua
resistenza fisica era troppo compromessa per consentirgli di contrattaccare
efficacemente e d’un tratto una gamba gli cedette, facendogli perdere
l’equilibrio e deviare un affondo che altrimenti sarebbe stato magistrale.
Allora Býleistr sogghignò e approfittando del momento trafisse il congiunto
esattamente al di sotto della spalla sinistra, e forse sarebbe finanche
arrivato a tagliargli via il braccio se l’asgardiano non avesse avuto la
prontezza di arretrare con un grido di dolore; Erin gli fece eco con
un’imprecazione angosciata e il Dio del Tuono dovette fare ricorso a tutta la
propria volontà per non lanciare Mjölnir contro la creatura dalla pelle
azzurra.
Il dio
dai capelli corvini barcollò, l’arto sinistro appoggiato contro lo sterno e il
sangue che copioso gli bagnava la manica, e rifiutando di cedere bilanciò la
spada con il polso destro prima di lanciarsi di nuovo contro lo jotun e ferirlo
con successo al viso. D’altronde anche Býleistr doveva fare i conti con
lo squarcio che i proiettili di Boomstick gli avevano lasciato sulla schiena, e
nemmeno lui riusciva a muoversi con sufficiente agilità.
«Quanta
rabbia hai in corpo, principe? È per ciò che è accaduto alla tua dolce sposa? È
per ciò che ho fatto a te?» egli lo provocò col fiato corto: «O magari è per la
triste sorte di nostra madre?»
Loki
evitò accuratamente di replicare, pur contraendo la mascella, e sferzò il cuoio
della corazza del nemico aprendovi un taglio che raggiunse la carne e costrinse
lo jotun a piegarsi in due. Per qualche istante entrambi rimasero fermi sul
posto, affannati, quindi il re soggiunse con sdegno: «Il tuo problema,
principe, è che la mia ira è pari alla tua.»
Urlò, e per
tre volte abbatté l’elsa della daga sul fratellastro – una in volto che
gli spaccò un labbro, una in pieno stomaco che lo fece cadere in ginocchio e
una sul dorso della mano con cui ormai debolmente teneva l’arma, la quale
rovinò a terra con un secco schiocco metallico. L’asgardiano tentò di
riafferrarla ma l’altro fu più rapido e la calciò via, mandandola a perdersi
tra i cadaveri di Æsir, Jötnar e cavalli che giacevano nel vasto cortile.
L’irlandese
serrò convulsamente la presa sul flauto fin quasi a farsi sanguinare le dita e
puntò i piedi nella neve, i nervi tesi e pronti a scattare sebbene sapesse che
non glielo avrebbero permesso. Si sentiva impotente, furibonda e disperata:
essere giunta fin lì e aver scoperto che il marito era innocente e in vita per
poi vederselo uccidere davanti in uno scontro uomo a uomo non corrispondeva a
quello che si era immaginata.
Il principe,
però, non sembrava per fortuna né spacciato né intenzionato ad arrendersi. Evitando
per un soffio la quarta frustata della lama di Býleistr si buttò di
lato, rotolò lontano dal rivale macchiando di rosso il suolo e si rialzò in
fretta, gli occhi che febbrili guizzavano in cerca di qualcosa che sostituisse
la spada perduta. Quello che trovò nelle immediate vicinanze fu una lunga e
robusta picca appartenuta a uno dei cavalieri di Hödr, e poiché brandire
Gungnir e lo scettro di Thanos lo aveva reso più che avvezzo a maneggiare lance
del genere non esitò ad agguantarla e farla roteare per saggiarne il peso e il
bilanciamento; adoperarla con un braccio soltanto non sarebbe stato semplice, e
tuttavia non aveva scelta. Strinse i denti, e anticipando il re ceruleo ripartì
all’attacco.
La
notevole lunghezza dell’alabarda gli permise di arrivare a toccare il Gigante
senza avvicinarsi troppo e di graffiargli lateralmente il collo:
Býleistr parve quasi deliziato da quella dimostrazione di caparbio
ardore, e non badando alla nuova ferita, per sanguinante che fosse, rispose
all’affronto colpo su colpo. Non prese una lancia per sé, dato che la sua
stazza lo manteneva comunque in vantaggio, e giacché entrambi sembravano aver
recuperato le forze il duello riprese in guisa di ballo, crudele e al contempo
splendido a vedersi con le figure dell’asgardiano e dello jotun che muovendosi
veloci davano l’impressione di disegnare scie scure, verdi, bluastre, scarlatte
e argentee sullo sfondo bianco e immoto della neve e contro la mole nera del
palazzo. Tutti, nel cortile del fortilizio, trattenevano il fiato.
Erin non
avrebbe saputo dire quanto andarono avanti in quel modo, se per pochi minuti o
per un’ora intera, ma il tempo parve dilatarsi dolorosamente quando la
situazione mutò di nuovo e il figlio di Laufey afferrò la picca dell’avversario
con la mano sinistra; Loki tentò di strapparla alla sua presa, invano, e con la
daga l’altro tranciò di netto la punta acuminata della lunga arma. Ritrovandosi
solo con un misero moncone di legno l’asgardiano azzardò un’ultima mossa
estrema e disgraziata, usandolo come un semplice bastone, e com’era prevedibile
a nulla servì – e Býleistr gli sferzò la coscia destra con la
propria lama e gli sferrò un pugno in pieno viso. Il principe volò all’indietro
con un grido strozzato, cadde nella neve per la seconda volta con un tonfo
sordo e il Gigante, affatto pago, gli assestò un forte calcio nello stomaco
spingendolo ancora più in là. Loki non riuscì a rialzarsi: era coperto di
sangue e pallido come la morte, boccheggiava in cerca d’ossigeno nell’aria
gelida e con le dita tastava affannosamente il terreno. L’irlandese lo chiamò
ripetutamente, stridula.
Lo jotun
si avvicinò a colui che ormai considerava la sua preda, un sorriso terribile
sul volto, e non si affrettò per godersi quel momento fino in fondo. Si
concesse di osservare uno a uno i guerrieri Æsir che fissavano la scena con
inerme terrore e si soffermò su Erin e Thor, sulle loro espressioni livide e
sui loro sguardi lucidi e sbarrati, e rise. Poi guardò il congiunto,
pregustando la vendetta che avrebbe coronato e la vita che gli avrebbe preso, e
impugnò la daga come un pugnale portando il braccio sopra la testa per vibrare
il colpo finale.
Ma mentre
la donna d’Irlanda si chinava d’istinto in avanti per correre in soccorso del
marito prima che fosse troppo tardi e il nemico calava impietoso la mano, l’Ingannatore
reagì cogliendo tutti di sorpresa: si sollevò fulmineo facendo perno sul gomito
sinistro nonostante la brutta ferita e dipinse un arco scintillante tra sé e il
giovane sovrano, e non fu immediato per gli astanti capire con esattezza cosa
fosse appena accaduto. Fu solo nel vedere Býleistr barcollare e lasciar
cadere l’arma che divenne chiaro che Loki aveva recuperato la spada per puro
miracolo e che con la lama aveva trafitto il fratellastro all’altezza del
cuore.
La scena
si cristallizzò nel perfetto silenzio che seguì. Come l’asgardiano allentò la
presa sull’elsa, lo jotun si portò incredulo le mani al petto tingendosele col
proprio sangue violaceo e quasi elegantemente rovinò al suolo. Con difficoltà
il principe si rimise in piedi e si appressò allo sconfitto sino a torreggiare
su di lui con una bizzarra smorfia di sollievo, dolore e collera non ancora
sfumata e il respiro che poco a poco si placava. Il re ceruleo gli artigliò un
lembo del pastrano con polso tremante, tirandolo a sé, e in un rantolo supplichevole
disse:
«Non mi
lascerai davvero morire, Loki. Sono tuo fratello.»
Il Dio
degli Inganni si abbassò appena e lo mirò nelle iridi rossastre che si facevano
vitree:
«Io ho
già un fratello.» rispose con voce chiara e forte.
Spinse la
spada più in profondità inchiodando il Gigante a terra e fu così, con un
singolo spasmo che gli attraversò il corpo per intero, che Býleistr
figlio di Laufey esalò il suo ultimo respiro. Allora Hugrun depose le armi,
s’inginocchiò e subito Glaumar, Blàin e i soldati Jötnar rimasti in vita lo
imitarono, chi riluttante e chi spaventato; i cavalieri e guerrieri del Reame
Eterno trattennero il proprio giubilo attendendo un segnale da parte del principe
vittorioso, e Thor ed Erin sorrisero senza fiato, praticamente aggrappati l’uno
all’altra.
L’Ingannatore
raddrizzò le spalle, ergendosi glorioso tra la neve e sotto la notte
incombente, e l’esercito di Asgard esplose finalmente in alte grida felici per
salutarlo e onorare la sua vittoria e nondimeno la scampata ecatombe.
Nel
momento esatto in cui gli Æsir iniziarono a inneggiare, la donna d’Irlanda volò
incontro al suo sposo. Il dio si mosse per fare altrettanto, e tuttavia la
spossatezza che lo vessava era tale che gli impedì di avanzare per più di due
passi: finì a terra su entrambe le ginocchia, ormai stremato, ed Erin non esitò
a lanciarsi carponi nella neve soffice per raggiungerlo più in fretta che
poteva. Con gli abiti inumiditi e freddi e le membra indolenzite lo sostenne
per evitare che cadesse ancora, cingendogli il torace con le braccia, e il
sangue le macchiò la giacca di cuoio e i capelli scarmigliati; benché
moltissime parole le premessero contro le labbra, parole anche aspre su ciò che
avevano dovuto passare a causa di verità taciute e cose date per scontate, il
calore del corpo di lui e la splendida sensazione di poterlo nuovamente
stringere a sé le scacciarono una per una. Loki le sfiorò il viso, le mani tremanti,
come se fosse un sacro e miracoloso tesoro, e il suo verde sguardo traboccò di
qualcosa che lei vi aveva scorto soltanto nel riflettervi il proprio – e
nel riconoscere quel qualcosa come l’amore che mai il marito le aveva a voce
dichiarato il respiro le si fece rovente e rapido e le provocò un singulto che
si sciolse in un sospiro quando un velo di lacrime salì a colmare le iridi di
lui. Il principe le poggiò la fronte sulla fronte e con le forze che gli
rimanevano la abbracciò. La tenne saldamente contro il proprio petto, inebriato
dal suo odore e dal vivo palpitare del suo battito, e l’irlandese gli si
aggrappò alle spalle arrendendosi al conforto dilagante di quel contatto.
Restarono
così avvinti, i fiocchi bianchi che impalpabili si posavano su di loro, e a
nulla più badarono di quanto accadeva tutt’intorno, e in silenzio mescolarono
pianto e riso e baci senza fine.
Fu Thor a
conferire con Hugrun mentre gli asgardiani rimontavano a cavallo per far
ritorno a casa e i Giganti raccoglievano il corpo del defunto re e sciamavano
fuori dalla Cittadella, diretti alla capitale. Lo jotun aveva seriamente e a
ragion veduta temuto che gli dèi non se ne sarebbero andati senza sterminare
quanti più di loro potevano, poiché ai vincitori spettava il diritto di decidere
della vita dei vinti. Il generale era pronto ad accettare quel destino, ma non
era ciò che il primogenito di Odino aveva in mente: troppo sangue era stato
sparso in entrambi i regni, quel giorno e per molti anni sino ad allora, ed era
tempo che le cose cambiassero.
L’anziano
comandante sgranò gli occhi scarlatti nell’udire le parole del principe: «Perché
dovreste risparmiarci, Tonante? Abbiamo seguito con lealtà la follia di un
sovrano accecato dalla vendetta e vi abbiamo arrecato danni e morti che non
meritavate. La guerra tra Asgard e Jotunheim era giunta a una tregua e noi
l’abbiamo di nuovo scatenata.» disse con gravità e voce contrita, ben
consapevole della posizione in cui si trovava.
«Avevate
forse altra scelta se non quella di seguire il vostro signore, generale?» gli
fece notare Thor; «E se sua è stata la colpa di abbandonarsi al desiderio di
rivalsa contro mio fratello, mia è stata quella di attaccarvi scioccamente in
gioventù e di Loki quella di aver ucciso Laufey scatenandovi poi contro la
distruzione in nome dello stesso sentimento che ottenebrava Býleistr. A
noi prìncipi va il biasimo, e ciascuno di noi è già stato a suo modo punito per
le turpi azioni commesse.»
Hugrun
chinò la testa e si portò un pugno al petto: «Ti prometto che la tua
magnanimità riceverà in cambio tutto il nostro rispetto, altezza. Dimmi, però,
cos’altro vuoi che io faccia per garantire la pace tra i nostri popoli.»
«Sei
saggio e intelligente, generale. Confido che riuscirai a placare e guidare la
tua gente e che troverai un uomo degno di salire al trono.» rispose il Dio del
Tuono, e incredulo di fronte a una simile dimostrazione di fiducia il vecchio
Gigante si prostrò garantendo che non avrebbe ottemperato ad altri compiti per
i dì che gli restavano da vivere. Il biondo guerriero lo ringraziò con un
solenne gesto d’assenso e prese congedo: gli Æsir erano ormai tutti in sella e
attendevano lui per riprendere la via che conduceva al varco tra i monti.
Loki ed
Erin si erano già portati in testa al corteo dei cavalieri in groppa a un solo animale,
lei davanti e lui dietro che, appoggiato contro la schiena della moglie, teneva
le redini; Fandral e Hogun li affiancavano sorreggendo una torcia ciascuno per
illuminare il cammino. Thor li raggiunse col proprio destriero e si soffermò
per pochi istanti a guardare il congiunto, il sorriso e le iridi offuscati da
un pianto che presto egli non sarebbe più riuscito a trattenere o dissimulare:
aveva così tante cose da chiedere a suo fratello, e così tante ne aveva da
dirgli! Il moro ricambiò l’occhiata con espressione stanca e indecifrabile,
annuendo appena, e l’altro si rivolse quindi all’irlandese sillabando un
vibrante “grazie” che trasudava felicità, riconoscenza e commozione in tal
misura che Erin liquidò d’istinto il cognato sorridendogli frettolosamente e stringendo
le gambe sui fianchi del cavallo per spronarlo ad avanzare: un’emozione in più
e sarebbe crollata, dopo ciò che aveva vissuto quel terribile giorno – un
giorno lungo una vita, dacché aveva perso la propria e una nuova ne aveva
ricevuta in dono.
Il Dio
del Tuono, Fandral, Hogun e il resto dei soldati subito li seguirono,
disegnando una lunga linea serpeggiante che si dipanò al di sotto degli alti
archi di ghiaccio pallido che baluginavano, traslucidi, alla fiamma delle fiaccole.
E nell’andare al trotto verso il sentiero oscuro gli asgardiani intonarono un canto
sommesso, una nenia lenta, ritmata e maestosa che riecheggiò tra le rocce e la
neve, salì fino alla volta nera del cielo e penetrò dritto nel cuore già
provato della musicista gonfiandoglielo di meraviglia: di rado aveva sentito
cantare gli abitanti del Reame Eterno, e sebbene non comprendesse la lingua
antica e strana di quell’aria la sua melodia era così bella che poco importava
ciò che diceva. Loki non si unì al coro, ma premette appena le labbra sulla
tempia di lei e respirò quieto solleticandole la pelle e le palpebre, e mai si
spostò durante l’intero tragitto.
E dopo
aver percorso la via di buio e di stelle, i geli imperituri di Jotunheim ormai
alle spalle, il corteo uscì dal passaggio ancora cantando, e Odino e Týr
udirono le loro voci profonde riempire la limpida notte di Asgard prima di
vederli comparire dalla stretta gola tra i monti di fronte alla quale
attendevano. Il Padre degli Dei quasi sobbalzò sulla propria sella: aveva ormai
perso le speranze e temeva il peggio, pensandosi costretto ad abbandonare i
figli e la nuora al loro destino; Frigga lo aveva raggiunto, incapace di aspettare
oltre nelle dorate sale impenetrabili del palazzo, e anche lei si lasciò
sfuggire un lieve grido di sorpresa al fianco del consorte nell’appurare che
entrambi i figli, la giovane nuora e i più valorosi combattenti del regno erano
vivi e che il secondogenito aveva l’aria d’esser tutto – stremato,
ferito, smunto e sconvolto – tranne che colpevole o prigioniero.
Quando la
cavalleria si fu riversata per intero ai piedi delle montagne, il principe
cadetto annuì in direzione del re e annunciò, rauco, che il varco tra i mondi
era chiuso. Non vi furono rinnovati scoppi di gaudio, tra i soldati, e una pace
sconfinata parve invece invadere ogni cosa e gli animi dei presenti, come un
unico grande sospiro di sollievo che soffiava assieme al vento notturno
sull’erba verde delle piane di Idavoll.
Ulteriori
parole non vennero scambiate e tutti girarono tacchi e cavalli verso la
capitale e le sue fiaccole che gettavano aloni e bagliori nell’oscurità. Il
terreno della battaglia era stato liberato dai tristi cadaveri dei caduti, pur
recando evidenti tracce di sangue e relitti d’armi e armature, e alle porte
della città le Valchirie e gli Einherjar vegliavano sugli Æsir morti disposti
in lunghe file ordinate. Nel passarle accanto, Erin dedicò un grato cenno a
Brunhilde e questa le rispose nello stesso modo: l’Ingannatore colse lo scambio
e con mente confusa si chiese, per la prima volta coscientemente, cos’era
davvero accaduto a sua moglie e com’era mai possibile che fosse sopravvissuta,
ammesso che Býleistr non avesse mentito. Per ansioso che fosse di
scoprirlo, ogni domanda avrebbe trovato risposta a tempo debito, e non valeva
la pena intaccare la quiete che lo colmava per soddisfare quella curiosità. L’avere
la donna d’Irlanda palpitante e tiepida accanto a sé non era forse sufficiente,
al momento?
Nessuno
si era coricato, entro le mura, e le vie e piazze pullulavano di asgardiani che
in silenzio e con trepidazione guardarono sfilare la famiglia reale, i
cavalieri, la fanteria e gli stendardi scarlatti e oro mossi dalla brezza. La
folla arrivava sino al ponte d’accesso principale ai bastioni della reggia,
quello che li collegava direttamente con la città e su cui il corteo passò
senza fretta, le figure che si riflettevano sulle acque già punteggiate di
stelle; i portoni bronzei si richiusero placidi dietro di loro e finalmente
quel giorno infinito potè dirsi concluso.
Accolti
con stupito calore dai cortigiani, i sovrani, i prìncipi e la Dama del Flauto
si separarono dai guerrieri ed entrarono a palazzo, nei suoi bianchi cortili
che parvero loro immensamente tiepidi dopo la notte, i ghiacci e il freddo
metallo di spade e picche. Soltanto Sif li seguì, mentre Hogun, Fandral e
Volstagg salutarono Erin e i due fratelli con inchini e discrete strette di
mano. Thor assistette Loki quando questi scese dal destriero dell’irlandese e
lo sorresse per aiutarlo a camminare; Odino dispose che i guaritori si
recassero nelle stanze del Dio degli Inganni e la regina abbracciò la giovane
nuora, ben sapendo ciò che aveva patito e affrontato e ciò che era diventata.
Ognuno di loro aveva centinaia di frasi pronte nella gola e sulla punta della
lingua, centinaia di quesiti da porre a ciascuno degli altri, e tuttavia
rimandarono ancora, tanto era il desiderio che avevano di cedere alla
stanchezza, di lasciarsi finalmente andare.
Una volta
che il Padre e la Madre degli Dei si furono congedati, i quattro raggiunsero i
corridoi sui quali si affacciavano gli alloggi dei due sposi. Avanti di qualche
passo rispetto alla guerriera e alla musicista, il Dio del Tuono non riuscì a
trattenersi e in un soffio confessò al fratello: «Býleistr mi ha detto
che hai preteso la garanzia ch’io venissi ucciso, nel patteggiare con lui. Non
gli ho creduto e continuo a non credergli. Ne saresti stato capace, Loki?»
L’Ingannatore
si fermò, scostandosi appena, e inghiottì un profondo sospiro:
«È possibile.
Ma se lo avessi fatto sarebbe stato unicamente per ingannarlo e convincerlo della
mia lealtà verso Jotunheim.» replicò, e non era una completa menzogna. Il
livore che fino ad allora si era convinto di covare contro il biondo gli era
scivolato via di dosso come terra lavata dall’acqua – probabilmente nello
scoprirsi sangue del sangue di Odino al pari di Thor – lasciandogli una
bizzarra bolla di leggerezza al centro del petto.
«E voi?
Cosa vi ha convinti a venire in mio soccorso? Avevate ogni buona ragione per credermi
nuovamente un traditore.» aggiunse in tono più aspro.
L’altro
sorrise: «Se sottovaluti più noi o te stesso, per me rimarrà un mistero,
fratello. Ti abbiamo sempre dato molta più fiducia di quanto credessi, e
innocente o meno che tu fossi non potevamo lasciarti nelle mani degli jotun. Ed
Erin,» esclamò voltandosi verso di lei, «Erin mi ha salvato la vita, e io mille
e mille volte salverei la sua e la tua.»
L’irlandese
si avvicinò, un po’ malferma sulle gambe, e subito si strinse al marito osservando
Thor di sottecchi: «Sì, sì, cognato, non ne dubito. Non ne dubito.» borbottò
imbarazzata, e lui le rispose con una splendida risata sommessa.
Al capo
opposto del corridoio comparve il drappello dei cerusici e delle guaritrici,
preceduti da un buon odore di unguenti e stoffe pulite, e con un ultimo cenno
del capo Loki ed Erin si allontanarono, varcando la soglia della loro stanza; i
medici li seguirono e chiusero la porta, non prima di aver assicurato al
principe ereditario che a nessun soldato sarebbero mancate le cure necessarie.
Egli li ringraziò e raccomandò loro la salute dei due sposi.
Sif lo
aveva raggiunto ed era ora alle sue spalle, tranquilla, quasi senza respirare.
Thor si girò e la dama lo sorprese: gli tastò il volto, le braccia e il torace
con una delicatezza che raramente mostrava, e tosto si ritrasse come se si
fosse scottata.
«Sono
così grata a Erin per averti salvato.» mormorò.
Il dio
aggrottò la fronte e studiò la sua espressione, preoccupato nel vederla
stranamente debole e al contempo intrigato da quella sua inconsueta morbidezza:
«Ti senti
bene, Sif? Sei forse ferita?» azzardò, eppure si scoprì a sperare che il motivo
fosse un altro.
Lei si
fece di nuovo fiera e compunta, ma gli rimase accanto e gli accarezzò le guance
barbute: «Prendi la mia felicità per un malessere fisico, mio signore? È un
equivoco che dovrò chiarire una volta per tutte.» disse, e leggera lo baciò.
Senza
aspettarsi che ricambiasse, e il biondo fu in effetti troppo stupito per farlo,
lo baciò recuperando gli innumerevoli anni trascorsi a sognare di mettere da
parte l’orgoglio, le lunghe stagioni in cui aveva disprezzato ciò che provava
ritenendolo fallace e degno soltanto di sciocche donne normali.
Poi se ne
andò, silenziosa, lasciando Thor nella penombra ambrata dei bracieri e degli
alti soffitti, il fantasma tiepido del suo tocco a solleticargli le labbra.
Note
E così ci avviamo alla conclusione, e Býleistr ha avuto ciò che si
meritava. Non ricordo se vi ho detto che nel mio cast ideale il succitato è
interpretato da Matt Smith, che con quella faccia lunga e strana – non
fraintendetemi, adoro Smith e il suo Undicesimo Dottore – sarebbe
perfetto per una parte da jotun.
Abbiate pazienza se ho rimandato l’aggiornamento. Ero impegnata nella
stesura dell’altra storia cui mi sto dedicando assieme alla signora Frau Blucher, ovvero La Leggenda degli straordinari Vendicatori che potete trovare QUI
Il titolo del capitolo è una strofa della canzone Brother di Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, perfetta per i
Brodinsons sotto molti aspetti. Per il duello ho scelto Frost Giant battle dalla colonna sonora del primo Thor, mentre per la scena del sospirato
abbraccio tra Erin e Loki (scena sulla quale vado in brodo di giuggiole tutte
le volte che la rileggo) non c’è pezzo migliore della splendida One last try di Ane Brun.
Confido di conoscere le vostre opinioni e impressioni – a proposito,
grazie mille a Nyx Nyx e Mayaserana! – e vi aspetto al prossimo,
terzultimo capitolo.
Capitolo 14 *** 14. It is a wise father that knows his own child ***
14.
It is a wise father that knows his own child
Loki
dormì a lungo. Sognò, anche, ed era una cosa che non gli capitava da molto
tempo. Fece sogni privi di forma di cui nulla rammentò al risveglio; altri
furono belli e strani, brandelli di luminosi ricordi più o meno recenti che
nemmeno credeva di avere e guizzi del sorriso di Erin – Erin che
finalmente era tornata a riposargli accanto e che ogni mattina si destava col
corpo che aderiva al suo alla perfezione. E ogni mattina i guaritori si
recavano nei loro alloggi, applicavano gli unguenti necessari e cambiavano i
bendaggi che coprivano le molte ferite del Dio degli Inganni, e ogni giorno che
passava le sue condizioni miglioravano a vista d’occhio. L’irlandese si rimise
in forze assai più velocemente, e tuttavia non ebbe né il modo né la volontà di
raccontare al marito quali erano state esattamente le sue vicissitudini mentre
lui languiva nel freddo palazzo di Býleistr: il più delle volte glissò
sull’argomento, poiché la musicista per prima non sapeva come rivelargli che
era morta da umana e risorta da immortale. Non sapeva come il principe
l’avrebbe presa, non avendo ancora capito come l’aveva presa lei medesima, e
d’altronde il dio era di rado da solo e spesso addormentato.
Egli, dal
canto suo, rimandò il confronto col Padre degli Dei riguardo a ciò che il
figlio di Laufey gli aveva raccontato, sebbene tanto Odino quanto Thor e Frigga
andassero regolarmente a fargli visita. Soltanto il Dio del Tuono si azzardò a
domandargli perché mai il ceruleo re lo avesse chiamato “figlio di Odino”, e
l’Ingannatore si limitò a rispondere che gli Jötnar non avevano mai avuto ben
chiaro quali fossero i suoi natali – e io nemmeno, finora, avrebbe voluto
aggiungere, ma serrò i denti e ancora procrastinò. Così entrambi sapevano di
non sapere qualcosa, lui ipotizzando che Lut il messaggero avesse mentito o
preso un abbaglio, lei rammentando la parola “fratellastro” pronunciata
dall’odioso Gigante, ed entrambi si rodevano quietamente dalla curiosità.
Poi,
quando ormai due settimane erano trascorse dal loro rientro ad Asgard, Loki
rivisse in sogno il gelo e le ingiurie delle terribili ore passate da
prigioniero nella Cittadella: udì nuovamente la risata tagliente del
fratellastro e le sue parole lapidarie gli rimbombarono nella mente come un
martellante ritornello, restandogli conficcate in testa anche dopo che si fu
svegliato. Quanta sofferenza inutile hai
seminato e patito, Loki figlio di Odino, ripeteva ossessivamente la voce di
Býleistr nel suo cervello, e il dio decise infine di darle ascolto.
Il
mattino era sorto da qualche giro di clessidra, quando quel giorno di due
settimane dopo gli scontri Erin si decise ad aprire gli occhi mugugnando. Al
suo fianco sedeva il marito, una casacca di morbida lana indossata sotto le
coltri e l’espressione corrucciata, e tutt’intorno al letto attendevano i
cerusici con aria rispettosamente divertita.
«Oh,
merda. Da quant’è che aspettate che mi svegli?» farfugliò riemergendo dalle
coperte.
«Non volevamo
svegliarti, mia signora.» sorrise il guaritore più anziano con estrema
cortesia; «È l’ora del medicamento del principe, e sua maestà il re desidera
convenire con lui una volta che avremo finito.»
L’irlandese
scosse i capelli arruffati e inarcò le sopracciglia mentre si costringeva ad
abbandonare il giaciglio: «Me ne vado, allora. Ne approfitto per tornare a
trovare i miei.»
«Non è
necessario.» protestò debolmente Loki agitando una mano nella sua direzione.
«No, non
lo è, ma ho voglia di andare a Galway.» rise Erin; non precisò che nemmeno i suoi
genitori, Seamus e nonno Enoch sapevano della sua nuova condizione e che forse
era giunto il momento di affrontare con loro per primi il difficile argomento.
Odino se
ne stava sulla soglia, stranamente dimesso senza Gungnir in pugno e con una
semplicissima tunica di velluto color ruggine: sembrava un vecchio qualunque e
non capitava spesso che la musicista lo vedesse privo di orpelli regali,
sebbene abitasse alla reggia da ormai un anno della propria vita. Le piaceva,
quell’uomo antico e dall’aria familiare, quando non si mostrava unicamente come
Padre degli Dei, e non perché quando lo faceva la mettesse a disagio –
solo, le piaceva di più. Lui le rivolse un sorriso mentre gli passava accanto:
«Buongiorno,
figlia.» la apostrofò con gentilezza.
«‘Giorno,
suocero.» rispose Erin chinando appena la testa scarmigliata.
Il
sovrano la osservò dileguarsi con passo leggero lungo il corridoio, diretta
alle sale da bagno con un mucchietto di indumenti tra le braccia e la veste da
notte stretta sul petto, e provò per quell’esile, giovane donna di Midgard un
rinnovato trasporto d’affetto impossibile da esprimere con termini che gli
rendessero giustizia. Continuando a sorridere tra sé, Odino si affacciò alla
porta della camera e con pazienza attese che i cerusici terminassero il loro
minuzioso lavoro intorno alle ferite ormai asciutte di suo figlio; questi di
tanto in tanto gli gettava brevi occhiate sfumate d’apprensione, e il re non ne
capì il motivo. Intuiva che Loki andava portandosi in petto un nodo, un
segreto, qualcosa che lo tormentava dal momento in cui aveva rimesso piede sul
sicuro suolo di Asgard, e non riusciva a discernere se fosse dovuto unicamente
a ciò che aveva subìto per mano di Býleistr o a crucci di diversa
natura.
Infine i
guaritori se ne andarono, ossequiosi com’erano giunti, e il Padre degli Dei
scivolò oltre i battenti intarsiati richiudendoli con cura dietro di sé; per un
istante l’immota bellezza della stanza illuminata dal sole, i raggi che si
riflettevano sul pavimento lucido, lo distrasse, inducendolo a respirare
profondamente per bearsi del senso di calma che quel mattino pacifico gli
comunicava. L’aria profumava di foglie nuove.
«Vuoi
accomodarti, padre? Posso offrirti soltanto l’idromele rimasto da ieri sera.»
se ne uscì Loki a mezza voce, il tono incolore. Aveva distolto lo sguardo e
mirava le alte finestre.
«Accetto
volentieri, figlio.» disse Odino, e sedendo sul bordo del letto si servì una
coppa della dorata bevanda. Iniziò a sorseggiarla, l’occhio basso, e quando si
fu bagnato la gola alzò il capo verso il secondogenito: «Sono felice di vedere
che hai riacquistato le forze. Le tue ferite erano numerose e terribili, e ho
temuto per te. Tra pochi giorni potremo finalmente celebrare le vostre gesta di
fronte al popolo intero, come sempre facciamo. Il tuo piano è stato di grande
rischio per tutti, per te più di chiunque altro, ma la tua idea era giusta.»
«No, non era
giusta affatto.» lo interruppe l’Ingannatore, guardandolo di sbieco.
L’anziano
dio posò il calice mezzo pieno sul piccolo tavolo vicino all’alcova: «Cosa
intendi dire? Non potevi prevedere che gli Jötnar ti avrebbero catturato e
avrebbero cercato di uccidere la tua sposa. L’importante è che il nemico non
abbia mai sospettato di te.» argomentò attentamente. Alla luce di quanto era avvenuto
si pentiva di aver dubitato del principe cadetto per l’ennesima volta, e voleva
rendergli merito e giustizia per la sua impresa.
«Non
avrei dovuto sottovalutarlo, il nemico.» lo corresse amaramente Loki.
«Non
riesco a immaginare su quale punto tu lo abbia sottovalutato.» replicò il re
scuotendo la testa canuta; «Ignoravi che Býleistr fosse figlio di
Laufey? Thor mi ha raccontato che costui ti ha chiamato “fratello”, mentre vi
minacciava. Cos’è accaduto realmente laggiù, Loki?»
Il Dio
degli Inganni inghiottì un grosso, lunghissimo sospiro, e così rispose:
«Sin dal
nostro primo incontro Býleistr ha ritenuto opportuno rivelarmi i suoi
natali. Sapevo chi era e sapevo chi voleva farmi credere ch’io fossi. Eppure
non sono chi credevo di essere, ed è stato durante le tremende ore di prigionia
su Jotunheim che l’ho scoperto. Era ciò che lui voleva. La mia sofferenza, la
morte di Erin, l’assedio di Asgard, la mia
morte, tutto era concepito come vendetta per Laufey e Jotunheim, e mettere in chiaro
quali siano le mie vere origini è stato il culmine del suo implacabile disegno.»
Odino si
protese in avanti, confuso, le rughe del viso accentuate dal dubbio: «Quali origini,
figlio? Býleistr non era forse il tuo fratellastro?» indagò. Uno strano
sentimento gli adombrò la mente, disseppellendo lontane memorie che aveva
doviziosamente relegato nell’incoscienza nel corso dei secoli, per volontà
propria o per puro istinto.
«Lo era.
Solo, non da parte di padre.» affermò Loki, riportando le esatte parole dello
jotun, e contrasse le dita sulle pesanti coperte; «Perché quel giorno mi
dicesti con tanta sicurezza che ero figlio di Laufey?» soggiunse.
Cadde il
silenzio. Il Padre degli Dei aggrottò le folte sopracciglia, come se stesse
racimolando e riordinando le idee, e lentamente parlò: «Fu durante l’ultima
battaglia su Jotunheim. Eravamo penetrati di molto nel territorio nemico, e il
nostro esercito stava scontrandosi con quello dei Giganti nei pressi di una
zona ricca di templi di ghiaccio e pietra nera. Da dove mi trovavo vidi una
figura muoversi circospetta all’interno di uno dei cortili sacri, e riconobbi
Laufey. Non esitai a raggiungerlo, poiché era la mia occasione per eliminarlo.
Non si accorse subito di me: aveva qualcosa tra le mani e lo vidi trafficare
con essa tra le colonne del tempio, nel suo angolo più buio. Gli arrivai alle
spalle, lo attaccai, lui reagì e cominciammo a lottare. Fu un duello serrato,
estenuante, e il prezzo ch’io pagai fu il mio occhio destro. Laufey rimase a
sua volta ferito ma mi sfuggì, vanificando in tal modo il mio tentativo.»
Loki
immaginò la tenzone tra i suoi due padri, entrambi reali e presunti a fasi
alterne, e con un brivido ben celato realizzò come la storia si fosse ripetuta
e rispecchiata in lui, in Býleistr, forse finanche in Thor per riflesso
e conseguenza. Poi lasciò che Odino proseguisse:
«Ero
stremato, eppure non avevo dimenticato la strana scena cui avevo assistito.
Così mi avvicinai all’angolo in ombra del tempio, dal quale si era levato un
flebile pianto che il vento disperdeva tra la neve, e ti vidi.» egli narrò,
l’espressione fattasi d’improvviso sognante; «Per cerulea che fosse la tua
pelle e rossi i tuoi occhi, apparivi in tutto e per tutto un esile figlio degli
Ási o degli uomini, e non ebbi difficoltà a credere che fossi un erede
illegittimo che nessuno tra gli Jötnar avrebbe potuto scambiare per purosangue.
Per questo Laufey ti aveva abbandonato a morire di stenti. Ti presi in braccio,
e come ti sfiorai il blu e il rosso sbiadirono in una carnagione di pallido
rosa e in due brillanti iridi verdi, e cessò il tuo pianto. Mi imposi di
ragionare come si conviene a un sovrano, di portarti via con me unicamente come
riverito ostaggio, come principe nemico decaduto e dunque plasmabile secondo il
volere di Asgard, ma non riuscii a frenare l’affetto che il solo guardarti mi
provocò.»
L’ingannatore
avvertì le proprie palpebre pizzicare e vibrare, inequivocabile segno di una
commozione che premeva per sopraffarlo, e ricacciandola indietro a fatica
raddrizzò il busto sui cuscini, ormai pronto alla rivelazione che tanto aveva
rimandato.
«Se non è
però il sangue di Laufey quello che condividevi con Býleistr, di chi è
dunque?» lo anticipò Odino scuotendosi d’un tratto dagli antichi ricordi.
«Di
Farbáuti.» mormorò Loki, e tosto suo padre vacillò e sgranò l’occhio, e parve
quasi che il tambureggiare del suo vecchio cuore riecheggiasse tra le pareti
auree della stanza.
«Farbáuti.»
sillabò il re come per riassaporare quel nome dopo lungo tempo: «Farbáuti era
tua madre. Allora con chi ella ti generò?», e nel dirlo già seppe la risposta e
si sentì mancare, e ciononostante continuò a fissare il giovane dio aspettando
che fosse lui a rispondere.
«Eri tu
il viandante che si presentò alla reggia di Laufey con la guerra in corso,
nevvero?» chiese il principe di rimando. Tenne a stento sotto controllo il
proprio tono febbrile, ansioso di sapere se Býleistr aveva mentito o no,
e si rese conto di essere stato fin lì completamente sincero e se ne stupì.
D’altronde a cosa gli sarebbero servite le menzogne, in quel momento?
«La amai
in gioventù, e la amai follemente. Quando conobbi Frigga avevo già rinunciato a
Farbáuti e non m’innamorai della mia sposa per ripiego.» ci tenne a
sottolineare Odino, roco per l’emozione; «Mi giunse notizia dell’unione tra
Laufey e Farbáuti, ma non la vidi né più la pensai sino a quel giorno, quando
spinto da una vaga e pericolosa idea per carpire informazioni sul nemico e
bloccarne la scellerata avanzata contro Midgard mi introdussi come mendicante
nel palazzo di Laufey medesimo. Ella non mi riconobbe subito, e d’altronde io
non lo desideravo, ignorando se e come fosse mutato il suo animo e se si fosse
data al Re dei Ghiacci per onesto amore. Mi accolse e sfamò ogni volta che mi
presentai alla loro porta, credendomi qualcuno che non ero, e io mantenni il
segreto ottenendone al contempo di importanti sui piani di Laufey. Eppure più
le stavo vicino e meno resistevo alla tentazione di rivelarmi, alla tentazione
di sfiorarla, poiché era bella e nobile come la ricordavo, e triste si era fatta.
E non resistetti, Loki, mi fu impossibile. Che Frigga mi perdoni per questo, ma
non resistetti! S’illuminò a tal punto, Farbáuti, nel vedermi gettar via il mio
travestimento, che non mi pentii affatto di aver ceduto al desiderio, nelle
notti che seguirono.»
S’interruppe,
quasi sorpreso di quel che andava raccontando, prese fiato e bevve di nuovo
dalla coppa di idromele: «Scoprii che Laufey aveva intenzione di conquistare
quanti più regni possibile, dopo Midgard, e che quindi andava fermato in tempo.
Lei mi pregò di portarla via di lì, a guerra finita – non di portarla via
con me, solo di liberarla da un
legame che il padre le aveva imposto. Promisi di farlo, grato per l’aiuto che
mi aveva dato e per ciò che ci aveva uniti, ci amammo un’ultima volta e infine
me ne andai. Il resto è storia nota: sconfitti dal nostro esercito su Midgard,
gli jotun ripiegarono in patria e gli scontri si spostarono là. Frigga diede
alla luce tuo fratello, io ti trovai, vincemmo e non m’interessai più alla
sorte di Farbáuti. Tu sai quale fu, figlio?»
«Laufey
la uccise subito dopo la nascita di Býleistr.» disse l’Ingannatore, i
denti stretti.
Odino si
nascose il viso tra le mani: «Per Yggdrasil.» sussurrò pieno di amarezza, e il
senso di colpa lo travolse. Sapeva che difficilmente avrebbe potuto fare
qualcosa per la sua antica amante, e sapeva anche che quasi con sollievo la
aveva presto dimenticata.
Aveva
fatto quel che voleva fare ignorando le conseguenze, aveva volto e sfruttato la
situazione a proprio vantaggio e per il bene del Reame Eterno, e poco contava che
gli fosse rimasta, nascosta tra le pieghe di animo e memoria, una traccia del
passato amore per Farbáuti. E aveva tradito la sua regina.
«Se solo
avessi saputo, se solo avessi saputo…» ripeté dondolandosi appena in avanti.
Loki
spostò le gambe in modo da sedergli al fianco. Avrebbe potuto infierire e
affondare parole taglienti nella piaga riaperta della vigliaccheria del padre,
eppure non volle farlo. Le palpebre continuavano a fremergli, e d’impulso toccò
la spalla destra di Odino:
«Davvero
non sospettavi alcunché, quando mi hai trovato?» gli chiese lentamente.
«Forse il
dubbio mi sfiorò, e se lo fece seppi reprimerlo in fretta. Che tu fossi il
figlio non voluto di Laufey mi parve l’ipotesi più verosimile.» ammise il re, e
guardando il principe con occhio carico di rimpianto riprese a mormorare: «Se
soltanto avessi saputo!»
Il
giovane dio strinse la presa sul velluto color ruggine della tunica dell’altro:
«Una
volta mi dicesti che ero tuo figlio, che sempre lo sarei stato. Ed era così, è così. Senza saperlo lo hai comunque
saputo sin dall’inizio.» sentenziò in tono vibrante, e la voce gli si incrinò e
aggiunse: «Niente conta più di questo, padre.»
E non vi
furono più incertezze né interrogativi, e con un singulto Odino abbracciò Loki con
tutta la forza che aveva: «Figlio, mio figlio!» esclamò, e in silenzio pianse
lacrime che gli liberarono il cuore come null’altro prima di allora. E Loki di
rimando lo abbracciò, e padre e figlio così rimasero nella luce danzante che i
tendaggi lasciavano entrare nella stanza.
Erin fece
ritorno quando ad Asgard il meriggio era appena iniziato.
Aveva gli
occhi lucidi ed era scossa: la rivelazione della musicista aveva provocato una
crisi di pianto collettiva negli Anwar-McNulty, e lei non aveva fatto
eccezione, prendendo infine coscienza della longevità non prevista che adesso
le si dipanava dinnanzi. La voleva, perché così non avrebbe più dovuto rinunciare
al suo sposo o fuggire da lui nel momento in cui la vecchiaia avesse iniziato a
impossessarsi del suo corpo – o una malattia, o un’altra tremenda ferita,
o semplicemente la stanchezza che assale ogni umano negli anni – e al
tempo stesso sarebbe volentieri tornata indietro per evitarla, per liberarsi da
quella scelta, per rimanere com’era: se fosse tornata indietro non avrebbe
tentato di salvare Thor, si diceva, e tuttavia sapeva che salvare lui,
sacrificandosi, le aveva permesso di salvare Loki. Se gli asgardiani, e in
particolare il re e il principe, non fossero stati in debito con lei, nessuno
si sarebbe mosso tempestivamente per assicurarsi che l’Ingannatore avesse
davvero tradito o meno, nessuno avrebbe messo in gioco la vittoria per recarsi
a Jotunheim e Býleistr avrebbe avuto la meglio. L’immortalità era la
sola via che avrebbe e aveva voluto seguire, ed era tempo di accettarla. Accettarla
significava raccontare tutto al marito, si ripeté per l’ennesima volta, e per
sdrammatizzare ripensò a come suo fratello e suo nonno avevano risolto il
pianto collettivo chiedendole se potevano trasferirsi nel Reame Eterno e bere
idromele divino sino a diventare immortali come lei e spassarsela per
l’eternità.
Sorrise e
varcò la soglia della camera, spolverandosi distrattamente le gonne dell’abito
informale che indossava; Loki se ne stava seduto sul letto, poggiato alla
testiera finemente lavorata, ed Erin si stupì lievemente nel notare che anche
lui aveva lo sguardo velato.
«Ciao tesoro, sono a casa.» lo salutò
allegra, e mentalmente prese nota del fatto che per asgardiana d’adozione che
fosse diventata continuava a snocciolare stupide citazioni da Doctor Who che lei soltanto, lassù,
poteva apprezzare.
Il Dio
degli Inganni si voltò e la sua espressione si distese nel vedere l’irlandese:
«Bentornata,
moglie. Hai l’aria di una che ha pianto.» commentò pacatamente.
«Potrei
dirti lo stesso.» gli rinfacciò Erin inarcando le sopracciglia; chiuse la porta
e si lanciò a peso morto sul giaciglio, accomodandosi accanto al marito: «Non è
facile trovarti così emozionato dopo un colloquio con Odino. Di che diavolo avete
parlato?» volle sapere.
Stranamente
Loki non sogghignò, né rispose subito. Il suo viso si fece invece malinconico e
pacifico come poco prima, e passando un braccio dietro le spalle della donna
d’Irlanda non attese oltre per riferirle quanto ancora ignorava – sul
Padre degli Dei, su Býleistr, su Farbáuti, su lui medesimo che davvero
era sangue del sangue di Odino. Le raccontò di ciò che aveva passato alla
Cittadella, di come il fratellastro avesse goduto nello sputargli in faccia la
verità, senza fretta e pezzo per pezzo, e di quando gli aveva mostrato,
trionfante, le due metà del flauto d’argento spezzato mentre Lut descriveva la
fine di Erin sul campo di battaglia. E nel toccare finalmente quel tasto, il
dio chiese alla consorte:
«Lut ha
dunque mentito, Erin? Oppure ha visto soltanto una parte di quel che è
accaduto, credendoti perita, e non ha assistito al momento in cui ti hanno
tratta in salvo per curarti? Perché non v’è altra spiegazione, se non una tra
queste. Sei umana, e nessun umano potrebbe sopravvivere alla ferita ch’egli ha
descritto.»
Lei fece
un sorriso storto e prese fiato: «Non ho mai detto di essere sopravvissuta.»
Venne il
suo turno di narrare ogni cosa, e più parlava e più la luce sui bei tratti del
volto dell’asgardiano oscillava e mutava al pari di quella che le tende
lasciavano entrare, e i suoi verdi occhi ardenti si spalancavano dallo stupore
e sempre più vicino si faceva alla sua sposa. E una volta che quest’ultima ebbe
terminato il proprio racconto lui rimase muto e incredulo a fissarla, e la
musicista non riuscì a trattenere una brevissima risata sbuffante:
«Quello
stronzo di Býleistr a qualcosa è servito, dopotutto. Tu e tuo padre
avete scoperto di aver fatto molto rumore per nulla, finora, e io ho risolto
senza volerlo l’annosa questione della mia deperibilità.» constatò con voce
squillante per mascherare l’emozione.
Risero
allora entrambi, senza fiato, stringendosi l’uno all’altra, e Loki non seppe
decifrare con chiarezza quello che provava. Nel pensare alla vita di Erin come a
qualcosa destinato a finire aveva sperato di poterne cancellare la scadenza
senza tuttavia credere che fosse possibile, e ora quel nuovo “per sempre” lo
sbigottiva, lo sconvolgeva quasi: per sempre avrebbe avuto la donna d’Irlanda
al proprio fianco, per sempre giovane e bella, per sempre sua. Sebbene non
fosse l’unico sentimento che gli scuoteva in quel momento l’animo, riconobbe
che il più forte e vivo tra tutti era una gioia pura e serena, un enorme ed
eterno sollievo.
Sorrise e
delicatamente spinse la moglie giù sulle coltri, stendendolesi accanto e
posandole la mano destra in mezzo al petto, la sinistra che le sfiorava le
chiome sciolte; sentì il suo cuore battere e le carezzò la pelle che la
scollatura lasciava scoperta, e lei di nuovo ridacchiò dolcemente a un soffio
dalle sue labbra.
«Non ti
libererai di me tanto facilmente, adesso.» gli disse piano.
«Né tu di
me.» mormorò il principe in risposta.
Si
baciarono, e fu un bacio lento, morbido, languido e profondo, e senza fretta lo
assaporarono; la mano destra di lui le scivolò sul seno attraverso la stoffa
dell’abito, ed Erin sospirò felice contro la sua bocca mentre il marito apriva
uno a uno i bottoni che le chiudevano la veste sul torace. Con le labbra il dio
sostituì le proprie dita sui suoi seni, e con le dita scese a sollevarle le
gonne di seta e velluto per insinuarsi tra le sue gambe, godendo nello
scoprirla già tiepida e umida di desiderio. L’irlandese si allungò
all’indietro, offrendoglisi completamente come amava fare, e Loki strinse la
presa sulle sue ciocche color dell’oro antico.
Poi si
alzò per liberarsi della casacca e rimase nudo in piedi di fronte a lei, le
bende candide che ancora aveva sulle ferite che a malapena si distinguevano
sulla sua carnagione pallida, i capelli color del buio che gli si arricciavano
magistralmente lungo la linea delle spalle. Ammirandolo, Erin si mise in piedi
a sua volta e misurando ogni gesto si spogliò del proprio abito facendolo scivolare
al suolo con un discreto fruscìo – e ancora senza fretta alcuna si baciarono
e sfiorarono ovunque, e i loro ansiti deliziati scandirono quei minuti,
dilatati e infiniti come giorni di sole, come la volta azzurra del cielo che
campeggiava oltre le alte finestre della stanza. E quando più non seppero
resistere ricaddero assieme sul letto, e lui le afferrò le mani e in lei entrò,
e con calma voluttà presero a ondeggiare l’uno contro l’altra – l’uno
dentro l’altra – i bacini soltanto che si toccavano, i muscoli che
armonicamente si contraevano, i corpi in un incastro perfetto, guardandosi con
la meraviglia di chi ancora non si capacita del dono immenso che ha ricevuto.
Infine la
tenerezza e l’ardore li travolsero, e l’asgardiano e la donna d’Irlanda si
abbracciarono, strinsero e amarono come se non ci fosse un domani ad
attenderli, ma di domani ne avrebbero
invece avuti a profusione. E rotolarono tra baci e sospiri, saziandosi di fuoco
e piacere e lavando via il sangue e l’orrore come già in passato erano stati
capaci di fare col solo reciproco e totale abbandono.
Fuori,
bagnata dalla luce gonfia del meriggio dell’ormai giunta primavera, ogni cosa
era pace.
Note
E così se ne va anche il terzultimo capitolo, e io già mordo le tende di
casa in preda alla nostalgia.
Questo è stato il giorno dei nodi sciolti, in quel di Asgard, e il dialogo
tra Loki e Odino ne è stato il punto focale; per chi non lo ricordasse,
rammento che in Earth-1610 Farbáuti e
Babbo Orbo sono gli effettivi genitori dell’Ingannatore, anche se le
circostanze sono molto diverse – e molto più crude. E Odino ha ancora
almeno un’altra conversazione delicata da affrontare sulla questione…
Il titolo del capitolo è una citazione dal II atto del Mercante di Venezia di Shakespeare, e
come brani portanti ho sempre avuto in mente la Suite dal Parsifal di
Wagner per la prima parte e Coming down
delle Dum Dum Girls per la (ennesima) scena d’ammmmòre tra i nostri
intergalattici coniugi.
Lascio nuovamente qui i link al mio tumblero(dove potete trovare,
tra le altre, un po’ di grafiche sulla storia) e a La Leggenda
degli straordinari Vendicatori(l’avventurosa long story che sto scrivendo a quattro
mani con un’allegra compagnona). E grazie mille millerrime a chi legge, segue e
commenta ;)
Capitolo 15 *** 15. Is there a man who would be king? ***
15.
Is there a man who would be king?
«Non
saresti degno di alcun perdono, figlio di Bòr.»
La voce
di Frigga trafisse Odino con più freddezza d’un pugnale affilato, incurante del
languore del tramonto che imporporava cielo e tendaggi e l’oro scintillante dei
bastioni. Il re tremò nel voltarsi a guardarla, certo che la sua sposa lo
avrebbe fronteggiato furente e livida come una tempesta di fulmini, eppure ciò
che vide lo spaventò molto di più: la regina lo fissava altera, implacabile e
gelida come una statua, temibile come una delle Norne.
Thor se
n’era da poco andato, scombussolato e insieme felice per quanto aveva appreso,
e i regali coniugi erano rimasti i soli occupanti degli alloggi reali.
Odino
sentì l’inoppugnabile impulso di prostrarsi ai piedi della moglie e implorarla
finché avesse avuto fiato per farlo. Il coraggio che aveva racimolato per
riuscire a confessare tutto quel che aveva rammentato e scoperto sembrava
essergli scivolato via dal corpo assieme alle ultime parole che aveva
pronunciato, e uno schiacciante senso di colpa ne aveva preso il posto.
«Lo so.
So, dolce e saggia figlia di Fyörgynn, che per averti tradita non merito
perdono.» cominciò a dire in tono spezzato, avvicinandolesi a braccia
spalancate e tese, ma Frigga gli puntò un dito contro e le sue iridi blu ebbero
un lieve guizzo di sorpresa:
«Tradito me? Oh, lo hai fatto, Odino, e tuttavia
è per aver tradito lei che non meriti
perdono.» lo interruppe, e fu il turno di lui nel mostrare stupore.
«Io non
ho tradito Farbáuti.» protestò debolmente.
«Hai
tradito la sua fiducia. Non t’implorò forse di portarla via dai Ghiacci Eterni,
quando la guerra fosse giunta al termine?» ribatté la Madre degli Dei con
malcelata stanchezza, come una maestra che ripete per l’ennesima volta un
concetto a un allievo cocciuto.
Il
sovrano abbassò entrambe le mani, colpito: «Non pensavo che Laufey l’avrebbe
uccisa. Non pensavo che aspettasse un figlio da me! E con quale motivazione
avrei potuto condurla qui, a palazzo, senza sollevare scalpore?» tentò ancora
di difendersi maldestramente.
Frigga
rise, di una risata arida e graffiante assai simile a quelle irose di Loki: «Hai
ragione, non hai pensato affatto.» lo schernì; «Ma sei ed eri il re di Asgard,
e se avessi voluto avresti potuto portarla via con te senza fornire alcuna
spiegazione a chicchessia. Avresti potuto garantirle rifugio e requie in
qualsiasi angolo dei Nove Regni, e lasciare che allevasse vostro figlio lontano
da crucci e occhi indiscreti e permetterle di vivere serenamente il resto dei
suoi anni. E invece è morta malamente a causa della tua codardia, Odino.»
Cadde il
silenzio nella stanza, e il Padre degli Dei desiderò che il Sonno lo cogliesse
in quel preciso istante per liberarlo dal senso di colpa come già era accaduto
in passato. Non era però più tempo di fuggire e mentire, e dunque egli chiuse
l’occhio buono, inghiottì un profondo respiro e tornò a mirare la moglie,
conscio che nessuna scusa lo avrebbe scagionato.
«L’ho
amata. Prima d’incontrare te, io l’ho amata.» si ritrovò a mormorare scioccamente.
Il viso
di Frigga si distese appena: «Non lo metto in dubbio. Ma a Jotunheim l’hai
usata soltanto. Non importa che tu l’abbia fatto anche per nostalgia e antico
affetto. Hai usato la sua solitudine e la sua tristezza, hai usato la sua
posizione, hai usato la sua speranza di veder sconfitto il crudele consorte che
le era stato imposto, e hai agito in questo modo unicamente per vincere la
guerra. L’hai amata perché ti andava e come un uomo qualunque l’hai sedotta e
abbandonata subito dopo aver ottenuto ciò che volevi. Per questo, Odino, io non
ti perdono.»
Un’improvviso
refolo di vento fece frusciare le tende e le fronde degli alberi dal perenne
fogliame scuro che adornavano il cortile esterno. Assomigliava a un sospiro, e
il canuto dio rabbrividì mentre una strana pace gli calava addosso.
«Non è
dunque per il torto che ho fatto a te che ho il tuo disdegno, moglie mia.»
constatò.
«Il torto
che hai fatto a me è misero rispetto a ciò che Farbáuti ha subìto.» assentì
lei, asciutta. Avanzò lentamente verso il balcone e si appoggiò a una colonna,
lo sguardo puntato sul disco di fuoco liquido del sole che baluginava tra torri
e bastioni.
Odino la
seguì: «E Loki?» chiese in un soffio. Nemmeno lui sapeva quale fosse il reale
senso di tale quesito – disprezzi anche lui, adesso?, avrebbe potuto
significare, o forse voleva essere una curiosità, una semplice e fondamentale
conferma.
«Loki
resta comunque mio figlio, e io come figlio lo amo. L’ho cresciuto e amato come
madre anche per Farbáuti.» gli venne risposto; la voce di Frigga si era
nuovamente addolcita, eppure riacquistò durezza quand’ella soggiunse: «Ti sei
macchiato di un grave torto anche nei suoi confronti, Odino. Per insicuro che
fossi circa l’essere suo padre, perché dargli la terribile certezza d’esser
figlio di Laufey? Perché non dirgli semplicemente ch’era un trovatello di
sangue misto? Il caos che hai così generato, o re, ha rischiato di portarci
tutti alla fine di ogni cosa.»
La volta
celeste aveva assunto una splendida sfumatura carminio. Oltre i monti l’occaso
era infiammato dagli ultimi barbagli del giorno, e fioco si udiva il canto
delle onde che lambivano la costa della capitale. La regina rimase dov’era, ma
il sovrano del Reame Eterno decise ch’era giunto il momento di sottrarsi alla
sua vista e arretrò fino a lasciarsi inghiottire dall’ombra bronzea che regnava
all’interno.
«Domani renderemo
omaggio a Erin, ai prìncipi e agli altri eroi. Parlerò al popolo, Frigga. Ho
ben chiaro cosa devo fare e cosa tutti dovranno sapere.» disse.
La sua
sposa non fece domande e nemmeno si mosse, stagliata contro il rosso del cielo
come una cariatide, e Odino scivolò fuori dalla camera a passi mesti.
Erin non
era più tornata nello smisurato salone delle cerimonie da quando gli asgardiani
avevano celebrato la vittoria contro Thanos inneggiando a lei e a Loki, il
giorno in cui quest’ultimo aveva chiesto la sua mano. Il Padre degli Dei era
solito ricevere sudditi, dignitari e ambasciatori nella sala del trono ai piani
superiori della reggia e nella corte delle udienze: l’immenso spazio delimitato
da colonne che riceveva aria e luce attraverso l’ampissima balconata circolare
posta sopra l’alto seggio aureo del re veniva perciò utilizzato soltanto in
occasioni di estrema importanza quali incoronazioni e trionfi, restando vuoto e
immoto nella sua vastità echeggiante per il resto del tempo.
Ma in
quel magnifico meriggio primaverile era di nuovo brulicante di vita e fervore
come l’irlandese lo rammentava e come meritava di essere. Dal soffitto
pendevano ondeggiando le insegne scarlatte e oro della stirpe di Bòr, dal
porticato il sole allungava i propri raggi irradiando l’intero ambiente e cortigiani,
dame e popolani mormoravano con bramosia dietro le due file di guardie che
costeggiavano il camminamento d’onore.
«Guardali,
moglie, guarda come scalpitano. Avevi ragione quando dicevi che la gente ama
questo genere di cose, piuttosto che le minacce.» mormorò l’Ingannatore
all’orecchio della musicista senza dissimulare il proprio divertimento.
«Io ho
sempre ragione, marito.» sghignazzò lei. Il ricordo dei primi tempi della loro
relazione le parve estremamente delizioso. «Perché i tuoi concittadini hanno
questa incredibile fissazione per le celebrazioni tamarre?» aggiunse.
Lui rise
con garbo: «Pur avendo ancora qualche difficoltà nel capire i termini volgari
di Midgard che tanto ami utilizzare, Erin, sono persuaso che ciò che è tamarro piaccia molto anche a te.»
«Quanto
mi conosci bene!» sospirò lei, inorgoglita.
In quella
Thor comparve alle loro spalle, in cima alla gradinata che in quel giorno
dell’anno precedente era stata testimone dell’abbraccio tra i coniugi. Come
loro, anche il Dio del Tuono sfoggiava l’armatura completa e il manto rosso da
guerra, Mjölnir in pugno; la stessa Erin si era rifiutata di indossare abiti e
orpelli femminili, quella volta, e faceva fiera mostra della giacca di pelle
macchiata del sangue bluastro degli jotun al di sotto della cappa indaco che
aveva messo durante la cavalcata con Sif, Hödr e i suoi uomini. Aveva il flauto
alla cintura e Boomstick in mano, poggiato sulla spalla destra.
«Fratello,
mia coraggiosa Dama del Flauto.» li salutò il biondo sorridendo quieto;
sembrava mancare della sua consueta, rassicurante tracotanza.
«Cosa ti
turba, fratello? Di norma queste situazioni sono il tuo forte, assieme
all’agitare sgraziatamente quel Martello.» lo canzonò infatti Loki. Il re e la
regina avevano intanto fatto il loro ingresso sulla pedana del trono,
accompagnati da Fandral, Volstagg, Hogun e Sif – e né al principe cadetto
né alla donna d’Irlanda sfuggi l’occhiata che Thor lanciò in direzione della
guerriera.
Lo
squillo delle chiarine troncò la conversazione tra i tre e il brusio del
pubblico. Odino pronunciò le frasi di rito, introducendo i figli e la nuora in
qualità di prodi salvatori del Reame Eterno, nonché l’una degli altri; quindi i
principi e l’irlandese sfilarono affiancati tra le ali di soldati e folla, e
tra le ovazioni crebbe persino un canto, lo stesso canto che aveva scandito il
rientro dei cavalieri vittoriosi da Jotunheim. Ed Erin, come quella notte, ebbe
un fremito.
Quando si
furono inchinati dinanzi al trono gli astanti tacquero e il sovrano si alzò in
piedi, affiancando Frigga: teneva Gungnir rivolto verso terra e mirava il trio
con espressione intenerita e malinconica, ed era invece la sua sposa ad
apparire regale e ieratica com’egli usualmente si presentava. L’Ingannatore e
la flautista si scambiarono una scorsa d’intesa, curiosi di sapere a cosa era
dovuto l’atteggiamento dimesso del Padre degli Dei e a cosa avrebbe portato.
«Thor,
Loki, figli miei, e straordinaria Erin di Galway, noi vi salutiamo e vi
onoriamo.» egli disse, e le genti di corte e di spada ripeterono in coro le sue
parole.
«E noi
onoriamo te, padre.» replicò il Dio del Tuono parlando a nome del trio.
Odino
assentì con un lieve sorriso: «Non vi sono ragioni per cui dobbiate onorarmi.
Nessuna, salvo quella di riverire colui che sta per cedere il proprio scettro.»
Un basso
grido di stupore serpeggiò nel salone, subito messo a tacere da un gesto del
re, che così riprese: «Troppo a lungo ho rimandato questo momento e non posso
rimandarlo oltre. Gli errori che ho commesso sono divenuti insostenibili, e se
anche non fosse ancora per me tempo di cedere il trono ugualmente lo farei,
giacché non ne sono più degno.»
Frigga si
lasciò sfuggire un breve sospiro e lo osservò di sottecchi.
«In
questo fausto giorno io, Odino figlio di Bòr, annuncio pertanto la fine del mio
regno.» proclamò il Padre degli Dei: «E di fronte ad Asgard tutta…»
«Padre.»
lo interruppe Thor a gran voce, e non vi fu persona che non lo fissò con
rinnovata sorpresa; «Padre, ascoltami. Prima che tu dica altro, concedi a me di
esprimermi.»
Loki ed
Erin si scostarono di un passo, osservando alternativamente il sovrano e il
biondo, e prendendo coraggio questi proseguì:
«Ignoro
quali siano gli errori insostenibili che ti turbano, ma so perfettamente quali
pesano sulle mie spalle. Da quando mi dichiarasti immeritevole di succederti
sono soltanto cambiato, non divenuto più savio, e continuo a sbagliare laddove
un grande signore non dovrebbe farlo. Sono impulsivo, sciocco, testardo. Sono
capace di comandare fulmini e tempeste e abbattere giganti e bestie, e tuttavia
non riesco a salvare coloro a cui tengo, non da solo. Non riesco nemmeno a
comprendere il mio stesso cuore.»
Guardò
per un attimo Sif, per la seconda volta, e lei ricambiò con volto grave e
immobile; il Dio degli Inganni ebbe un presentimento ruggente e gradevole e
strinse le dita della moglie tra le proprie, sforzandosi di non sogghignare
prima di udire la fine del monologo del fratello.
E Thor
s’inginocchiò: «Nemmeno io sono degno di questo trono, né tantomeno di quello
scettro. E sarei oltremodo felice se questo trono e quello scettro andassero a
Loki. Sarei felice e onorato di servire sotto di lui. Perciò ti prego, padre,
per quanto ha fatto, rimediato, imparato e sofferto sino ad ora, fa’ di Loki il
re che merita di essere.»
Attonito,
l’interpellato perse all’istante la voglia di ridere, tale fu la sua meraviglia
nell’assimilare quel che il primogenito di Odino aveva testé affermato in tono
vibrante: il suo nerboruto e caparbio congiunto aveva rinunciato alla corona
ammettendo le proprie mancanze ed esaltando invece le sue doti e le sue gesta,
dichiarandosi pronto a essergli fedele suddito. Quasi boccheggiando cercò gli
occhi di Erin e scoprì che li aveva spalancati e lucidi, una mano premuta sulla
bocca a coprire il sorriso che le si andava allargando fino agli zigomi e,
sospettò, a trattenere uno dei suoi gaudiosi turpiloqui midgardiani.
Colto da
un’istintiva ispirazione, l’Ingannatore imitò l’altro genuflettendoglisi al
fianco e si portò un ossequioso pugno al petto: «Ti sono immensamente grato per
il tuo nobile discorso, fratello. Eppure non mi ritengo migliore di te, né più
encomiabile, e sono reo di sbagli e colpe che non riuscirò mai a cancellare del
tutto. Non sono certo di poter accettare di brandire Gungnir nuovamente,
qualora nostro padre decidesse di darti ascolto.» asserì con quanta più umiltà
gli fu possibile raggranellare – e avrebbe invero risposto l’esatto
contrario, se non avesse saputo con totale sicurezza che un pretenzioso,
immediato “sì” gli avrebbe allontanato il trono molto più di un servile e
modesto diniego.
L’unanime
anelito commosso dei presenti confermò il suo pensiero; il Dio del Tuono gli
scoccò uno sguardo supplichevole e riconoscente al contempo, mentre
l’irlandese, la regina, i Tre e la dama guerriera trattenevano il fiato, e il
Padre degli Dei levò un braccio per imporre la quiete.
«Entrambi
i miei figli riconoscono di non essere perfetti ed entrambi hanno dimostrato
grande tempra e saggezza. Entrambi i miei figli parlano come parlerebbe un buon
re.» dichiarò: «Entrambi, perciò, saranno re.»
Thor e
Loki, ancora inginocchiati, sollevarono di scatto la testa, e la donna
d’Irlanda non fu in grado di reprimere un’esclamazione inarticolata che fu però
coperta da quella lanciata dai sudditi. Frigga vacillò impercettibilmente e l’antico
monarca percosse con lo scettro il gradino più alto della scalinata per
riottenere il silenzio: «Mai prima d’ora Asgard ha avuto due sovrani. Ma io non
posso né intendo scegliere tra coloro che sono sangue del mio sangue. Sangue del mio sangue.» ribadì con la
voce che tremava d’emozione; «Entrambi i miei figli sono caduti per poi
rialzarsi in ritrovata gloria. Entrambi hanno conosciuto la rovina e la
perdita, la passione e la guerra, le stelle e altri mondi. Entrambi sono stati
uomini per ridiventare dèi. Entrambi loro sono migliori di me, e so che per
questo devo rendere merito a colei che con me li ha generati e cresciuti e alle
fanciulle che li amano. E se i miei figli accetteranno l’immenso onore che sto
loro chiedendo di accordarmi so che tu, Dama del Flauto, sarai una magnifica
regina.»
Allora
anche Erin cadde in ginocchio, più per incredulità che per una questione
d’etichetta, e tornò a cercare le dita del marito. Sembrava che il cuore
volesse scoppiarle.
«E come…
come regneremo?» farfugliò Thor con la gola e le labbra aride.
«Completandovi
come sempre avete fatto. Vi dissi un dì che entrambi eravate nati per essere
re, e così è.» sorrise il re chinando il capo; «Cosa rispondete, dunque, figli
miei?»
Non vi fu
alcun rumore nello sterminato salone. Il primogenito mirò l’Ingannatore e la
musicista, dedicò loro un cenno d’accordo e lasciò che fosse il fratello a
parlare:
«Accettiamo,
padre.» fu il semplice responso, e non appena la sua eco si dissolse tra le
altissime volte del soffitto, oltre il vasto lucernario circolare, un boato
incomparabile esplose tra la folla, gioioso e liberatorio.
I tre si
rialzarono, scossi, l’irlandese e il suo divino consorte che si tenevano per
mano; Frigga era raggiante nella propria commozione, Fandral, Volstagg e Hogun
gridavano ridendo e con le braccia spalancate, e Sif aveva un piglio incerto
dipinto sul viso – non appariva né lieta né cupa, e soltanto lei e Thor
avrebbero potuto spiegarne il perché.
Il Padre
degli Dei decise che l’incoronazione effettiva avrebbe avuto luogo di lì a
pochi giorni: dovevano essere invitati rappresentanti, ambasciatori e ospiti da
ciascuno dei Nove Regni, e naturalmente la famiglia Anwar-McNulty e la giovane
Jane Foster. Il pubblico rimase forse leggermente deluso, pregustando già
un’immediata, tripla investitura, e tuttavia la prospettiva di una nuova
cerimonia mitigò quella generale insoddisfazione.
I due
principi e la donna d’Irlanda abbandonarono la sala camminando fianco a fianco
così com’erano giunti, e la gente seguitò ad acclamarli senza posa. Ed Erin
socchiuse le palpebre e rise e Loki la strinse a sé, e insieme contemplarono il
compimento dell’ambizione che entrambi, sin dall’inizio, sin da prima d’incontrarsi,
avevano coltivato.
Note
Questo è il penultimo capitolo.
Sono felice di essere riuscita a dare spazio anche a Frigga prima della
conclusione della vicenda, e mi son tolta la soddisfazione di farle dare una
solenne strigliata a Odino. Ho voluto inserire una citazione dal primo numero
del Thor a fumetti, e se la
riconoscete al volo vi faccio tanto di cappello :)
Il titolo viene dalla già nominata Shock
to the system di Billy Idol, uno dei brani portanti della storia, mentre
come colonna sonora del presente capitolo ripropongo la Suite del Parsifal di
Wagner. Per ringraziamenti, ulteriori aneddoti e quant’altro aspetterò
l’epilogo, ma nel frattempo svelo l’identità di colei che è stata fidata e
affidabile correttrice di bozze & test reader per la saga intera, ovvero la
mia compare Frau Blücher – che
non ringrazierò mai abbastanza, temo!
Spero che da qui alla fine definitiva chi mi ha seguita in silenzio mi
lascerà un piccolo commento ;)
Vi do appuntamento al gran (uh?) finale. Ossequi asgardiani a tutti!
All’incoronazione
dei nuovi re di Asgard nessuno mancò.
Giunsero
rappresentanti da Vanaheim, Nornheim, Alfheim, persino da Niflheim e
Nidavellir; la congregazione proveniente da Jotunheim era guidata da Hugrun in
persona, che con la piena fiducia degli Ási avrebbe ricoperto il ruolo di
reggente finché i Giganti non avessero trovato un successore al trono vacante.
Da
Midgard vennero ovviamente gli Anwar-McNulty e Jane Foster, invitata
personalmente da Thor che così facendo prese una decisione definitiva circa i
propri sentimenti: Sif dovette accettarlo, quando scorse la minuta astrofisica
farsi strada tra la gente a braccetto con Maeve McNulty, e del resto la dama
guerriera non si era aspettata niente di diverso nonostante il bacio che aveva
donato al Dio del Tuono. Anzi, quel bacio fu l’unica, sincera e ardente
manifestazione d’affetto nei confronti del biondo che l’asgardiana si concesse,
e col senno di poi la trovò estremamente liberatoria. Le venne anche da
pensare, e un po’ si sentì in colpa per questo, che Jane Foster non sarebbe
vissuta in eterno e che lei avrebbe invece atteso Thor fino al giorno della
Fine di Tutto e oltre, se necessario. Mentre prendevano posto sotto alla
scalinata del trono Seamus Anwar la affiancò e le sorrise, memore di ciò che
avevano condiviso in passato, ed ella lusingata ricambiò il sorriso.
Lo
sconfinato salone delle cerimonie era gremito fino al colonnato di una folla
più che mai variopinta e trepidante, e altre migliaia di persone accorse da
ogni angolo del Reame Eterno si accalcavano sotto ai bastioni della reggia, sui
ponti e nei cortili, e tra i soldati e le guardie di palazzo si notavano le corazze
dorate degli Einherjar e delle Valchirie.
Ai due
lati del seggio reale stavano Odino e Frigga, in piedi, e alle loro spalle
ondeggiavano quieti due grandi stendardi nuovi fiammanti e uno più piccolo al
centro: il primo raffigurava il simbolo trilobato di Mjölnir, ricamato in filo
d’argento in campo rosso; il secondo era blu come il mare e fregiato da tre
trifogli stilizzati in bianco platino, e sul terzo un serpente d’oro spiccava
sul verde.
Le trombe
cantarono al comparire dei tre destinati all’investitura e ne accompagnarono
l’avanzata sul camminamento che costoro ben conoscevano, ed erano così regali e
splendenti che tutti li mirarono in solenne silenzio e con volti radiosi.
Entrambi i prìncipi erano in alta uniforme, imponenti nelle rispettive armature
da parata e negli ampi mantelli e sotto il bagliore che i loro elmi
catturavano; l’irlandese, bellissima, appariva leggiadra nel suo abito color
del cielo malgrado l’alta acconciatura, l’elaborata collana che le copriva la
scollatura, i fitti ricami e il lungo strascico, e teneva a malapena a freno le
risa e l’emozione – perché diventare regina era ciò che sognava sin da
quando aveva acquisito discernimento, e ancora stentava a crederci. Loki la
teneva per mano e di tanto in tanto la carezzava con lo sguardo.
«Così
hanno inizio i giorni dei re.» disse il Padre degli Dei come parlando tra sé una
volta che i tre si furono inginocchiati di nuovo sotto al trono, e discese i
gradini della piattaforma per raggiungerli. Thor poggiò il Martello a terra e
chinò il capo per primo.
Il rito fu
breve e arcane le formule di passaggio e la benedizione che il sovrano abdicante
e la sua sposa dedicarono a coloro che ne avrebbero preso il posto.
Fugacemente, il Dio degli Inganni pensò che i suoi piani primigeni non
prevedevano una condivisione di potere col suo robusto e ridanciano fratello, e
non si sorprese tuttavia nel rendersi conto che poco gl’importava: perché il
Dio del Tuono non meritava più il suo odio e la sua invidia, e molto sarebbe
potuto mutare in millenni di regno. Volevo
soltanto essere tuo pari, gli aveva gridato contro in un giorno lontano, e
pari adesso erano, grazie a entrambi e soprattutto alla straordinaria donna che
mai si era allontanata dal suo fianco.
E infine
Odino invitò i tre a rialzarsi e offrì loro Gungnir: «Lo scettro appartiene ai
due re di Asgard in egual misura e in egual misura potranno utilizzarlo. Ma dal
momento che Loki già lo ha brandito è a lui che lo affido. Io vi saluto con
gioia, figli e figlia e miei signori.» annunciò inchinandosi.
E
fremendo il figlio di Farbáuti afferrò la lancia, sentì le rune e le incisioni
che ne ornavano il fusto imprimersi nei suoi palmi e le labbra incurvarglisi in
un sorriso la cui sfumatura avida fu colta solo da Erin. Per un attimo il
sangue gli ruggì nelle vene e l’immagine di sé come unico padrone di ogni cosa,
terribile e possente in cima all’Albero e all’universo intero, tornò a
riempirgli la mente come in passato. Eppure erano finiti i tempi dell’istinto e
degli impulsi dettati dall’ira: sapeva che una mossa del genere sarebbe stata
sciocca e avventata, e poiché la rabbia lo aveva miracolosamente abbandonato non
aveva alcuna ragione per mettere a rischio ciò che aveva guadagnato – la
pace, il rispetto, l’ammirazione altrui, forse persino sua moglie.
Allora
salì fino alla sommità della scalinata, seguito dagli altri due, e Frigga si
spostò accanto al marito osservandoli con orgoglio e benevolenza. Loki si fermò
dinanzi al seggio e sollevò Gungnir e mormorò qualcosa, e una grande luce si
spanse tutt’intorno creando rami e arabeschi scintillanti nell’aria, e i
presenti gridarono di meraviglia e socchiusero gli occhi. E il fulgore crebbe e
quasi esplose, abbacinante, e non appena si dissolse nel chiarore esterno fu
evidente ciò che l’Ingannatore aveva creato: tre erano ora i troni, due
maggiori e uno minore in mezzo a essi, in esatta corrispondenza con i tre
vessilli soprastanti.
Volgendosi
lentamente a guardare familiari, amici e sudditi, i prìncipi e la musicista
sedettero sugli scranni che spettavano loro, e il Padre degli Dei ripeté a gran
voce:
«Così
hanno inizio i giorni dei re!»
E nessuno
– asgardiano, midgardiano, vanr, jotun, alfar o dvergar che fosse –
nessuno mancò di esultare in quel luminoso dì.
Il tempo
passò, regalando ad Asgard e ai restanti otto mondi un periodo di duratura e
sospirata pace. Vi furono alcune scorribande dei Marauders nei territori di
Vanaheim e fu dunque necessario l’intervento dei soldati del Reame Eterno per
dare manforte alle truppe dei vanir, ma gli episodi si rivelarono isolati e
senza ripercussioni: la sola discesa di Thor in campo bastava a far vacillare i
mercenari ribelli, e se usava Mjölnir la vittoria era assicurata. Era amabile,
amato e forte, e l’intero esercito avrebbe dato volentieri la vita per lui.
Loki si
dimostrò puntualmente un maestro nell’arte della diplomazia e della trattativa
ed Erin fondamentale per mantenere proficui rapporti con Midgard, e insieme
formavano la coppia più ammirata del regno; bardi e cantori composero miriadi
di ballate sul duello tra il Dio degli Inganni e l’infido Býleistr,
poemi furono scritti sulla battaglia dei Campi di Idavoll e sul sacrificio
estremo della Dama del Flauto, e Hödr e i suoi cavalieri giurarono assoluta
fedeltà a quello che oramai veniva chiamato il Casato di Galway. Odino e Frigga
si ritirarono a Fensalir, la splendida dimora sul mare appartenente da sempre
alla famiglia di lei, e il Padre degli Dei quivi cadde con sollievo nel suo
atteso Sonno.
Fiorirono
commerci, scambi, innovazioni, musiche e feste in ogni dove, e spesso Seamus e
nonno Enoch comparvero sul Bifröst a bordo del glorioso Volkswagen Transporter
per allietare le serate a palazzo. Talvolta davano un passaggio a Jane.
Trascorse
così un intero ciclo di stagioni, e in un bel mattino di due estati dopo
l’incoronazione dei Due Re l’irlandese si destò con bizzarre sensazioni
addosso: aveva dormito poco, complici un fastidio che da qualche giorno le
aveva messo in subbuglio l’addome e i dubbi circa la sua permanenza nella
Boston Philharmonic Orchestra, e avvertiva vampate di calore salirle al volto e
uno strano groppo pulsarle in gola. Sedette sul bordo del letto, intontita, e
cercò di fare mente locale, contando e ricontando sulle dita, riflettendo,
concentrandosi, scuotendo a tratti la testa e grattandosi distrattamente il
naso. Loki si era recato nella sala del trono mentre lei ancora riposava.
La
conclusione alla quale arrivò dopo una mezz’ora buona la lasciò completamente
sbigottita e al contempo le parve la più verosimile, e ributtandosi
all’indietro sul giaciglio rise fino a finire il fiato. Poi decise che il modo
migliore per avere risposte sicure e immediate senza sollevare prematuri
scalpori a corte era recarsi a Boston alla chetichella, perciò saltò in piedi,
ripescò da una cassapanca una canotta chiara, un paio di jeans scuri e i suoi
adorati stivali di cuoio, mise grandi occhiali da sole e s’infilò le cuffie del
fido iPod nelle orecchie, e le sembrò di tornare all’inizio di quella grande
avventura, ai giorni del Duetto sulle polverose strade d’America, dello
S.H.I.E.L.D. e dei suoi Vendicatori, delle prime battaglie, della notte di
Stoccarda e di un dio nordico in disgrazia piovuto dal cielo.
Quatta
quatta e canticchiando scivolò fuori dalla reggia, passò dalle scuderie, si
fece sellare un cavallo e galoppò sino all’Osservatorio adducendo come rapida
scusa un impegno terreno di cui si era dimenticata; Heimdall la fissò in
tralice nell’aprire il portale, come se avesse intuito qualcosa grazie alla sua
acuta vista, ma nulla commentò e disse: «Buona discesa, maestà.»
Boston
era calda, frenetica e baciata dal sole. Erin camminò per le strade che
conosceva con la consapevolezza che le notizie che avrebbe potuto ricevere
avevano il potere di cambiare tutto, più di quanto tutto non fosse già cambiato da tempo – e allora lei avrebbe
dovuto dire addio, probabilmente in via definitiva, al barlume di vita
midgardiana che le era rimasto assieme alle prove e ai concerti. Eppure non lo
trovava né troppo triste né spaventoso.
Entrò in
un edificio di vetro e metallo non lontano dal suo vecchio appartamento per
uscirne un’ora più tardi con andatura barcollante e un sorriso inebetito
dipinto sul viso, una sottile cartella tra le dita. Negli auricolari Charles
Aznavour cantava For me formidable e
l’irlandese invocò Heimdall nel bel mezzo della via, incurante dello scompiglio
che il Ponte Arcobaleno provocò nel riversarsi tra i bostoniani impreparati
facendola scomparire nel solito turbine di iridato splendore.
Il
Guardiano si stupì nel vederla ricomparire gorgheggiando a squarciagola in un
idioma a lui sconosciuto, e solerte domandò se fosse in salute.
«Mai
stata meglio, vecchio mio. Mai stata meglio!» rispose lei in tono vibrante nel
piroettare fino al destriero che quieto attendeva fuori dalla cupola. Ed era la
verità, sebbene non lo avesse affatto preventivato, sebbene in un certo senso
non si sentisse pronta: era la verità, e si sentiva felice in maniera
inaspettatamente travolgente.
In un
battibaleno fu di nuovo a palazzo. Sotto al porticato che conduceva ai loro
alloggi trovò il marito, che come si accorse del suo arrivo si affrettò ad
andarle incontro:
«Erin, ti
ho fatta cercare. Cos’è accaduto?» indagò, una minuscola ruga di preoccupazione
a increspargli la fronte.
«Ho fatto
un salto a Boston. Niente di che, ti spiegherò quando avremo finito con i
doveri regali.» minimizzò la flautista senza fermarsi; «Ti raggiungo tra poco.»
Loki però
non sembrò intenzionato a lasciar correre e le circondò le spalle con un
braccio, conducendola fino alla balaustra finemente lavorata della loggia:
«Non vi
sono questuanti né consiglieri che desiderano convenire con i sovrani, al
momento. Possiamo rimanercene qui per un po’. Cosa tieni in quella busta?»
insistette pacato.
Il giorno
era alto nel cielo, fresca l’ombra del portico e delle fronde dei rami che
l’accarezzavano, e i giardini erano pressoché deserti; Erin deglutì e prese
fiato, colta in contropiede, ma la sua eccitazione era tale che parlare le
parve un sollievo.
«Mi sono
svegliata avvertendo buffi sintomi e ho voluto saperne di più andando da un
medico fidato giù su Midgard. Nella cartellina ho i risultati.» riassunse
mantenendosi sul vago.
«Avresti
potuto chiamare i nostri cerusici.»
Lei
scosse il capo: «Volevo una risposta immediata e qui non ci sono i giusti
macchinari.»
«E quale
risposta hai avuto?»
«Di cosa
ha bisogno un re?»
L’asgardiano
ridacchiò: «Stai giocando con me, donna d’Irlanda?»
«Può
darsi, marito.» nicchiò Erin girandosi tra le sue braccia per guardarlo, la
schiena poggiata alla balconata, e ripeté: «Di cosa ha bisogno un re?»
«Di un
regno.» fece prontamente il dio.
«Corretto,
e tu hai il regno dei regni. Di cosa ha bisogno un re?»
«Di
sicuro non di un roboante fratello a fargli da controparte.» sogghignò lui
strappandole una risata, quindi tornò a farsi serio; «Di un trono e di uno
scettro.»
L’irlandese
assentì: «E non ti mancano. Di cosa ha bisogno un re?»
L’Ingannatore
si abbassò con un sorriso sornione: «Di una bellissima e valorosa regina.»
Sua
moglie rise di cuore per la seconda volta e gli passò il dossier. E mentre Loki
scorreva con lo sguardo fogli e documenti e giostrandosi tra termini e immagini
completamente nuovi prendeva lentamente coscienza di quanto la fanciulla di
Galway stava cercando di dirgli, questa lo fissò con gli occhi appena lucidi e
ancora chiese:
«Di cosa
ha bisogno un re?»
E il Dio
degli Inganni capì e rise con lei e tra sé benedisse il fatto di non averla mai
perduta – poiché la amava, perché le era grato, e perché con la Dama del
Flauto al suo fianco e l’eternità dalla loro non sarebbe esistita cosa che non
avrebbero ottenuto.
Note
Finisce così la grande avventura del Dio degli Inganni e
della Dama del Flauto, durata per me circa due anni e per loro forever and a year, come canta Joan As
Police Woman. Ho atteso più del dovuto a pubblicare questo epilogo perché la
commozione è tanta e salutare questi miei amati personaggi mi metteva un po’ di
tristezza: dubito infatti che tornerò a scrivere dei coniugi Inganni, non
adesso che sono felici e sul trono. Non adesso che hanno scoperto quel che
hanno scoperto – e che credo vi sia chiaro… ;)
Scrivere questa piccola saga mi ha dato grandi gioie e
soddisfazioni. Spero che abbia regalato a voi altrettante emozioni, e ringrazio
tantissimo chiunque si sia fermato a leggere, apprezzare e, soprattutto,
recensire. Ringrazio anche e più di chiunque altro la mia fidatissima compagnona
d’avventure Frau Blücher
nonché correttrice di bozze e test-reader d’eccellenza.
Colonna sonora: nell’ordine, Sons of Odin dal primo Thor
per l’ingresso trionfale di Loki, Erin e Thor; L’Uccello di Fuoco (secondo quadro) di Stravinskji dalla Saga della Primavera per l’incoronazione
vera e propria con la comparsa dei tre troni; e naturalmente For me formidable di Charles Aznavour
per concludere in bellezza, splendida canzone d’amore che assai si addice ai
nostri eroi – je me demande même
pourquoi je t’aime, toi qui te moques de moi et de tout: avec ton air canaille,
how can i love you? :)
Io non sparisco. Consiglio intanto a tutti la lettura di
La Leggenda
degli straordinari Vendicatori, avventurosa long ambientata nel 1876 che sto
scrivendo a quattro mani con la fidata compagnona di cui sopra. E presto
tornerò con un paio di progetti sui quali nulla anticipo se non che certi asgardiani ne saranno i
protagonisti.
E nel rammentarvi il mio tumblr (dove
troverete anche grafiche sulle storie di Erin e Loki) lancio i titoli di coda
accompagnati da L’Eclisse twist di
Mina.
Ancora una volta ossequi asgardiani e a rivederci su
questi schermi!
MAIN CAST
Loki
– Tom Hiddleston
Erin
Anwar – Emma Watson
Thor
– Chris Hemsworth
Sif
– Jaimie Alexander
Býleistr
– Matt Smith
Odino
– Anthony Hopkins
Frigga
– Rene Russo
Heimdall
– Idris Elba
Patrick
Anwar – Tim Daly
Seamus
Anwar – Eddie Redmayne
Enoch
McNulty – Clint Eastwood
Maeve
McNulty – Catherine Tate
Brunhilde
– Ellen Hollman
Hugrun
– Jim Carter
SOUNDTRACK
1. Shock to the
system – Billy Idol | 2. Violet
Hill – Coldplay | 3. Heaven
– Depeche Mode | 4. Femina ridens
– La Band del Brasiliano | 5. Power
out – Arcade Fire | 6. The
death of you and me – Noel Gallagher | 7. Keep your hands to yourself – Georgia Satellites | 8. The action man – Joan As Police
Woman | 9. I giorni dell’ira –
Riz Ortolani | 10. Planxty Davis
– How Now Brown Cow | 11. Morrison’s
jig – How Now Brown Cow | 12. The
lightning strike – Snow Patrol | 13. Adagio for TRON – Daft Punk | 14. This town ain’t big enough for the both of us – The Sparks |
15. Hey, bulldog! – The Beatles
| 16. The Battle – Harry
Gregson-Williams | 17. E lucevan le
stelle – Placido Domingo (Giacomo Puccini) | 18. The enigma of River Song – Murray Gold | 19. Who did that to you? – John Legend
| 20. Child’s anthem – David
Garrett | 21. La corsa – Luis
Bacalov | 22. La resa – Ennio
Morricone | 23. Frost Giant battle
– Patrick Doyle | 24. One last try
– Ane Brun | 25. Parsifal suite
– Richard Wagner | 26. Coming down
– Dum Dum Girls | 27. Sons of Odin
– Patrick Doyle | 28. L’Uccello di
Fuoco – Igor Stravinskji | 29. For
me formidable – Charles Aznavour | 30. L’Eclisse twist – Mina