Occhi viola, occhi da Targaryen

di Artemisia17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quando tutto ebbe inizio ***
Capitolo 2: *** Sei solo un bastardo ***
Capitolo 3: *** Arriva il re! ***
Capitolo 4: *** Lyanna/Robert ossia la spiegazione di ogni vostro dubbio ***
Capitolo 5: *** Occhi viola, condanna e redenzione ***
Capitolo 6: *** Gli Uomini del Nord ***
Capitolo 7: *** Capitolo in cui si scopre che non tutti sono felici ***
Capitolo 8: *** Jon/Catelyn ***
Capitolo 9: *** L'inizio di una nuova era ***
Capitolo 10: *** Il principe Targaryen ***
Capitolo 11: *** Il tempo scorre ***
Capitolo 12: *** Addio, Grande Inverno ***
Capitolo 13: *** Ali oscure, oscure parole ***



Capitolo 1
*** Quando tutto ebbe inizio ***


Ned respirò piano, deglutendo a tratti.
Si aspettava da un momento all’altro che il suo alito evaporasse nell’aria frizzantina, formando una nuvola calda, dispersa nella brezza del mattino tra i fiori di gelsomino e il canto dell’allodola.
Eppure ogni volta, ogni maledetta volta che ciò non accadeva, le spalle dell’uomo si scuotevano, a tratti, senza tregua, un singulto che minacciava di sopraffarlo come una mano nera sulla gola, che premeva, stringeva sempre più forte.
Lui non era più al Nord.
Il Nord faceva paura a tutti gli altri; così imprevedibile, duro, letale, una stilettata sottile di ghiaccio e vita. Il suo manto candido di bellezza sopraffina splendeva agli occhi dei forestieri, li intorbidiva con le sue spire di morte, per poi colpire. Potente, implacabile, senza lasciare scampo, uccidendo.
L’Inverno aveva una sua ineluttabile ingiustizia, assai più onorevole di quella degli uomini.
Una delle prime cose che suo padre gli aveva insegnato era di non temere l’inverno. Nelle oscure notti del gelo, quando la bruma calava sopra i pini centenari e neppure il battito del suo cuore bastava a rassicurarlo, le antiche storie della sua balia lo cullavano.
Lui era un uomo del Nord. Un discendente dei Primi Uomini. L’inverno era il suo maestro più severo e rigoroso, ma mai suo nemico. L’estate con la sua finta gioia e sete di vita, poteva essere letale per un metalupo.
Loro erano i figli del Nord. Ma ora, adesso, loro non erano più al Nord. La logica di questo fatto lo devastava.
Ned respirò affannosamente, tentando invano di arrestare le lacrime che calde scorrevano sul volto. Erano tutti morti. Da suo padre a Brandon, il suo fratellone, il vero erede di Grande Inverno. Dai soldati che lo aveva accompagnato giù dalle vette degli Arryn ai suoi compagni lungo i viottoli di Approdo del Re.
Da Rhaegar a lei. La luce del Nord. Che risplendeva fugace e immobile in un remoto angolo del Sud.
Prometti, Ned, prometti!” E lui aveva promesso, stringendola forte a sé, baciandole le mani, sussurrandole le loro malefatte infantili, con quella tacita speranza nel cuore. Vivi, Lyanna, vivi. Perché lei doveva vivere. Per il mondo che gli stava crollando addosso – e sarebbe rimasto solo lui a raccoglierne i cocci- per quel fagotto adagiato su un lato, per tutto il sangue versato e perché, scioccamente, lei era la sua sorellina.
Prometti, Ned, prometti.”
 Anche se è suo figlio. Erano aleggiate fra loro quelle parole, mai dette, taciute, ferendolo per sempre.
Lui aveva scosso la testa, stringendole forte la mano. Lontano da loro, adagiata sul tavolino, vi era una corona di lillà e rose, seccata, sfiorita. Abbandonata. Proprio come il loro amore.
Ned non le raccontò che Rhaegar era morto sul Tridente per mano di Robert. Ironico, no?
In altra occasioni, in altre ere passate, Lyanna ne avrebbe riso con quella sua risata, così simile a una frusta. Il suo unico vero amore, il grande erede del reame, così cortese e raffinato, ucciso dal suo promesso sposo, un ribelle, immagine stessa della virilità villosa e orgogliosa di esserlo. Ne avrebbe riso. Ora potevano solo piangere.
Lei era sempre stata una vera figlia del Nord. I suoi capelli castani che s’infiammavano di note dorate sotto il calore del sole, il suo corpo slanciato e scattante come la corda di un arco, la sua lingua maliziosa e sfrontata e i suoi occhi. I suoi occhi. Come ghiaccio puro, prelevato dai recessi più oscuri della Barriera, saettanti e intelligenti. Nessuno la batteva nella corsa a cavallo e per lungo tempo sembrò che nessuno potesse rapire quel cuore di ghiaccio.
Fino ad Harrenal. Fino a quando il principe Targaryen non fermò quel maledetto cavallo bianco davanti alla tribuna, fissando con quei suoi occhi color pervinca, ametista incastonata in un volto da dio, la sua sorellina.
E per uno sciocco momento, Ned aveva pensato che Lyanna avrebbe riso e allontanato sfrontatamente quel spasimante ramingo, così come aveva fatto con centinaia di giovani prima di lui.
Perché lui era Rhaegar Targaryen, erede al trono, le cui dita danzavano fluide sulle note dell’arpa e il suo nome diventava di paese in paese, di vittoria in vittoria il nome di un eroe. Sposato con Elia Martell, padre di due figli piccoli, figlio di un pazzo, ma forse quello era il male minore.
Lyanna avrebbe dovuto inchinarsi e respingere il dono con educata fermezza e pudicizia.
Lyanna non avrebbe dovuto essere lì a dire il vero.
Niente di tutto ciò sarebbe dovuto accadere. Eppure lei gli aveva sorriso.
Ned lo vedeva ancora nei suoi sogni quel sorriso aperto e allegro, diverso dai ghigni lupeschi lanciati nelle gare di corsa, in cui lei prontamente vinceva; diverso dalle risa sciocche delle dame di compagnia, pudiche lascive civetterie da cortigiane, diverso da ogni altro: perché era il loro sorriso, il dolce e caldo amore, che scorreva in quegli occhi freddi, era riservato solo ai suoi fratelloni, i suoi compagni di brigata. Solo Brandon e Ned avevano mai potuto godere del calore di quei raggi. E ora anche il principe.
Dopo, quando era finito tutto, dopo ancora il cicalare fastidioso delle dame e la rabbia mal celata del re, Ned aveva capito finalmente capito. Sembrava una fiaba. Il giovane e bellissimo re che s’innamora della lady ribelle, contro ogni tradizione e buon senso, contro tutto e tutti. E la fiaba si sarebbe presto trasformata in un incubo. Non ci sarebbe mai stato un lieto fine. Mai. Per nessuno di loro. Per loro due, soprattutto. Per un momento era stato tenato di arrabbiarsi, di prendere Lyanna, issarla a forsa su un cavallo e portarla al Nord, dove sarebbero stati tutti al sicuro. Nessuno le avrebbe fatto del male e lei sarebbe rimasta insieme a lui. Lui l'avrebbe protetta. ma, come al solito, lui aveva sbagliato. Di nuovo. Stupido, Ned, stupido.
Niente, nulla sarebbe dovuto accadere, ma ora erano lì. Non erano più al Nord, non erano più da nessuna parte. 
Strinse angosciosamente il corpo rigido. Gli ricordava tanto il freddo dei corridoi di Grande Inverno, dove i piccoli fratelli sgattaiolavano a piedi scalzi e l’odore della prima colazione risvegliava il loro appetito. Quanto tempo.
Ned non avrebbe mai saputo dire quanto tempo rimase lì, stringendo spasmodicamente il corpo inerte.
Pianse, gridò, con la dolorosa consapevolezza che non sarebbe servito a niente. Pianse di una disperazione tremante e furibonda, chiedendosi quale dei permettessero una tale atrocità.
Pianse. E come tutti i pianti finì. Ned aprì piano gli occhi rossi, richiudendoli subito dopo.
Il fagotto, adagiato sul petto immobile, si mosse piano. Ned lasciò lentamente andare il corpo freddo.  Le braccia bianche colpirono le lenzuola fradice mentre il collo si rovesciava sul cuscino in un posa innaturale. Restistendo all'impulso di gettarsi sulla sorellina, il giovane si diresse verso le coperte macchiate di sangue.
 Il neonato piangeva piano, singhiozzando a stento mentre scuoteva i pugnetti chiusi nell’aria.
Il suo vagito era così flebile, il suo corpicino così piccolo. Sarebbe stato facile. Avrebbe potuto nasconderlo sotto il mantello foderato di pelliccia, nascondendolo. Avrebbe trovato un balia, nessuno lo avrebbe visto. Ma non sarebbe stato per sempre così piccolo.
L’uomo lo prese tra le mani. Era prematuro e gli stava in una sola mano, notò appena. Sotto la sottile pellicola di sangue i capelli erano scuri, la boccuccia stretta in una smorfia. Aveva le sue stesse labbra.
Ned se lo strinse al petto, coprendolo con il mantello. Cullandolo. Senza neanche accorgersene, cominciò a piangere di nuovo. Non poteva permetterlo. Non lui, non suo figlio. Avrebbe dovuto nasconderlo, proteggerlo, amarlo. Sì, sì. Per il mondo sarebbe stato suo figlio, il suo bastardo, Snow.
“ Perdonami.” soffiò sulla pelle candida di Jon. Perdonami se sarai sempre un bastardo. Perdonami se non sarò mai tuo padre.
Prese tremante la corona di fiori, baciò la fronte di Lyanna e scappò. Scappò dalla verità, scappò dall’ignomia. Scappò per amore.
Cavalcò per un giorno intero da quella maledetta alba di sangue fino al limitare di un villaggio a poco più di un giorno da Approdo del Re.
Confiscò una casupola in nome del Re Robert e affittò una balia per il piccolo Jon. Lyanna aveva sussurato quel nome fino allo spasmo, stringendosi il ventre ormai vuoto. La sua ultima parola non era stata per il suo fratellone, no, un altro nome aleggiava nel suo cuore. Jon.
Mentre mangiava qualche tozzo di pane, una contadino lo informò che il re aveva condotto a rotta di collo la sua avanguardia verso la Torre della Gioia e lì aveva trovato il corpo esamine della sua promessa sposa, Lyanna Stark. Ned deglutì sommessamente e licenziò il servo.
In teoria sarebbe dovuto accorrere anche lui. Cosa avrebbero pensato i grandi Lord, ma specialmente cosa avrebbe detto Robert? Accecato dal dolore, avrebbe visto tutto quel sangue? Difficile non vederlo. Ancora più difficile non capire. Ma Eddard sapeva che un uomo che non vuole vedere la verità è assai più cieco di un invalido. E Robert a volte era più stupido di un folle. Ma accanto a lui ci sarebbe stata una persona assia più sveglia, in gradi di osservare oltre la coltre di dolore. Jon Arryn avrebbe voluto vedere?  
Jon squittì, richiamando la sua attenzione. La donna, dolorante, cambiò lato, prima di sorridergli educatamente, mostrando una lunga fila di denti sconnessi.
“Il bambino è sano e forte, my Lord. Anche se è prematuro. Una maschietto. Ha dei bellissimi occhi viola, il piccolino.” Ned lasciò cadere il pugnale da caccia, con già un boccone infilzato a metà. Il mondo gli era appena caduto completamente addosso.


Avete idea di quante cose, dalle idee alle intere vite, possono cambiare per un solo unico dettaglio? Un dettaglio può cambiare il corso dell'intera storia. Personalmente lo trovo molto eccitante per la mia mente arida di idee. Che altro? Non scrivo da ben cinque mesi. Cinque. Sono un enormità. Vi sarei molto grata se mi faceste sapere che cosa ne pensate, soprattuto perchè volgio vedere se sono ancora in grado di scrivere. Ergo, le critiche sono molto ben accette. Certo anche un piccolo commento non guasterebbe. A domani!

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Capitolo 2
*** Sei solo un bastardo ***


“Jon! Jooonnn!!” Arya Stark di Grande Inverno irruppe nella calda camera, avanguardia di un robusto esercito formato da tutti i piccoli lupetti.
Spettro alzò appena lo sguardo con i suoi grandi occhi rossi, per poi accasciarsi sul sacco che gli fungeva da cuccia con un rumoroso sospiro, già sconfitto e sfinito prima ancora di cominciare.
Jon si sentiva un po’ come lui. Non aveva nessuna voglia di lasciare il comodo e amorevole rifugio delle sue coperte, solo per gettarsi nel freddo addiaccio del cortile, pronto a prostrarsi al suo re. Ma evidentemente i suoi fratellini minori erano di tutt’altro avviso. 
Mentre Arya scuoteva invano la massa informe di pelliccia, Rickon stava tentando di scalare il mucchio. Nel frattempo Nymeria stava sgranocchiando le orecchie di Spettro, ma il metalupo fissava cupo davanti a sé, deciso a non darle soddisfazione. Cagnaccio stava annusando nella ciotola di Spettro, in cerca di qualche rimasuglio.
Con un rauco muggito, il ragazzo decise di entrare nella mischia. Emerse dalla coltre informe come un antico eroe  del Nord e si gettò a capofitto sulla sorella minore, tentando di farle il solletico. Ma Arya non era una lady qualunque, che scappava spaurita, squittendo e ridacchiando, e Jon fu costretto a ricordarselo bene. Un deciso calcio allo stomaco lo fece cadere per terra.
“ Jon-è-caduto. Jon-è-caduto.” Canticchiò il bambino, ridacchiando. Arya rise a sua volta, i capelli castani arruffati.
“ Oh, oh qualcuno si dovrà rifare i capelli.” Disse Jon aggrappandosi alle coperte e facendo cadere i fratellini. Arya si aggrappò agilmente alla testata del letto, salvandosi da un sicuro capitombolo, ma il fratellino non fu altrettanto svelto. Rickon cadde a testa in giù sul pavimento in legno, seppur attutito dalle coltri. Immediatamente un urlo sdegnato si propagò nei corridoi. Arya, per niente scossa dal piccolo incidente, si avvicinò allo specchio che ricopriva l’intera stanza.
“Ufh, e adesso chi la sente più la septa!” mormorò fissando infuriata i capelli castani ribelli che erano scappati dalla complessa treccia. I capelli, quasi sentissero tutto il peso di quegli occhi grigi, si afflosciarono ancora di più.
“ Sono dovuta stare due ore immobile. Due ore! Ti rendi conto, Jon? Due ore per un maledetto codino mentre mia madre mi ha rimbrottato per tutto il tempo.” La bambina tentò passarsi una mano tra i capelli, ottenendo esattamente il gesto opposto.
“ Se tua madre sentisse che lo chiami codino, ti avrebbe già sottoposto ad un lungo interrogatorio su quanto sia dignitoso essere una lady.” Sbuffò divertito il fratello, cercando di consolare Rickon, invano.
“ O su quanto io non lo sia, molto più probabilmente. Dammelo.” Rispose con un ghigno lei, pienamente soddisfatta, prendendo il fratellino tra le braccia.
“ Se solo capisse, Jon. Se solo capisse.” Sussurrò mentre Rickon si stava calmando, più che altro divertito dalla scena che si gli si parava davanti. Nymeria aveva chiesto l’aiuto del fratellino e ora entrambi i metalupi stavano spingendo Spettro giù dalla cuccia a colpi di testate.
“ Vedrai che capirà. Lei ti vuole bene ed è tua madre. Tutto si sistemerà.” Jon si alzò, scompigliando ancora di più i capelli della sorella.
“ Ma ora è meglio che tu vada prima che ci veda insieme.” Il sorriso di Arya si incrinò, tuttavia la ragazza si avviò verso la porta. Poi si fermò sovrappensiero. Nymeria trotterellò felice  verso la sua compagna di giochi, sommamente soddisfatta dell’espressione sconfitta di Spettro.  Cagnaccio invece leccò rumorosamente la faccia del lupo prima di avviarsi con il resto del gruppo.
“ Ah, quasi dimenticavo, papà ti aspettava dieci minuti fa nella sala grande. Auguri.” Con un sorriso Arya schivò un cuscino e scese le scale della torretta, non badando alla sequela di bestemmie che provenivano dall’alto.
Jon si tolse la lunga camiciola, rabbrividendo per il freddo.
Ned Stark era un uomo magnanimo e calmo, ma se c’era una cosa che non sopportava era il ritardo.
Infilò a fatica i pantaloni stretti fino alla vita, dannò un paio di sette dei nel mettere il farsetto argentato;  allacciò il cinturone da allenamento e riuscì con qualche aiutino a calzare gli stivali di pelle.
Prima di prendere la spada, si concesse qualche secondo di venerazione. Per tutti quegli anni, Ned Stark non aveva permesso ai suoi figli e a tutti i giovani della fortezza di allenarsi con spade vere.
Solo quelle di legno, piombate all’interno, in modo da risultare abbastanza pesanti e allenare le braccia.
Ma l’arrivo del re, aveva imposto un accelerazione dei tempi.
 Inguainata in un fodero di pelle, con dei minuscoli rilievi di caccia a decorarlo, la spada incantava tutti gli sguardi. Non era eccessivamente voluminosa né decorata, anzi, era assolutamente normale, ma per il ragazzo aveva un valore diverso: era la sua spada, la sua spada vera. La sua prima spada. Il fabbro gli aveva raccontato che ogni arma ha una propria anima ed è compito di ogni spadaccino domarla.
Jon aveva passato anni di notti insonni a pensare, bramare quel momento; il secondo in cui sarebbe diventato uomo, quando suo padre lo avrebbe portato con lui nelle sedute con i suoi alfieri, magari affidandogli un qualche misteriosa operazione oltre la Barriera.
 E poi, quando lui sarebbe tornato stanco e infreddolito, Ned Stark lo avrebbe abbracciato davanti a tutti, complimentandosi con lui mentre il suo cuore caldo e pulsante, batteva eccitato dei colpi di campana a festa.
Era il sogni di tutti i bastardi, no? Il riconoscimento, l’amore, la gloria originata dal merito e dal valore.
 E come tutti i bastardi, Jon si era accorto che quel momento non sarebbe mai arrivato.
 Un giorno avrebbe imbracciato uno scudo, sguainato una spada vera per lanciarsi all’attacco di qualche bruto, intenzionato ad ucciderlo.
Se sarebbe sopravvissuto, suo padre, il grande Ned Stark, lo avrebbe guardato; sì, guardato, ma solo per un secondo, un attimo dove l’amore paterno vinceva sull’onore, in cui gli diceva, anche se in un sussurro, bravo figliolo. Ma era solo per un attimo e dopo tutto sarebbe tornato normale.
Robb sarebbe stato abbracciato, il giovane fratellastro sarebbe rimasto in ombra.
Un giorno, quando le scorrerie si sarebbe succedute e diventate tutte uguali, colorate di un apatia grigia, si sarebbe sposato. Non una bella principessa venuta da lontano, circondata da damigelle e paggetti e il suon di trombe che ne annunciavano l’arrivo, così bella e raffinata da sfolgorare nei suoi abiti ricamati.
No. Qualche figlia di un lord minore, che sarebbe stato felice e orgoglioso che la sua progenie si imparentasse con i lord Stark. Certo, avrebbe borbottato a denti stretti, con un sorrisetto nella piazza del mercato, era un bastardo, ma una bastardo Stark perbacco, figlio del grande Ned e, poi, tanti figli illegittimi sono diventati dei grandi, oh sì. E lui l’avrebbe incontrata il giorno delle nozze, il viso tagliente e le mani grosse di chi è abituato ad operare la vanga più che l’ago, i capelli biondi e gli occhi azzurri, il vestito, minuto e decoroso, su cui aveva passato tante notti insonne.
No, per lui non ci sarebbero stati squilla di trombe roboanti o mani delicate di lady. No. Forse il freddo di una lama pianta nel cuore, in una delle tante campagne per suo fratello, forse il gelo della Barriera, dove sarebbe stato uguale a tutti, dove non sarebbe stato nessuno. Forse solo il freddo della morte.    
È solo un bastardo.
Jon credeva di sentire quella voce stridula e imbarazzata ogni notte e nei suoi peggiori incubi le guance rubiconde del mercante divenivano magre, incorniciate da capelli ramati e occhi azzurri, sottili e affilati che lo trapassavano, lo accusavano con quel suo tono di voce lapidaria, aspra: sei solo una bastardo.
Jon respirò piano, le mani strette. Sono solo un bastardo. Un bastardo con una spada. Il ragazzo prese il fodero e se lo legò alla cintola. Andava di fretta, quel giorno sarebbe arrivato il re. Doveva andare. E in fretta anche!
“Spettro.” Chiamò prima di dirigersi verso la porta. Il cucciolo di metalupo scosse la testa, sconsolato, fissandolo con i suoi occhi rossi. Sei solo un bastardo.
“ Spettro!” Questa volta il lupacchiotto ubbidì saltando sul pavimento e caracollando verso le scale. Con uno sbuffo, Jon chiuse la porta. Sei solo un bastardo.
 
 
 
 
“ Sono arrivati i rifornimenti da Porto Bianco?” Le luci incerte delle candele proiettavano  delle macabre figure sul soffitto  di pietra mentre un sussurrio ciabattante si ripercuoteva nelle navate laterali, crescendo sempre più, come lo scroscio di un torrente diretto a valle, fino al confluire di tutti i mormorii, le paure, i desideri.
“ Si, mio Lord.” Ned Stark era seduto su un imponente scranno di legno intarsiato e visionava attento delle serie di carte. Solo dopo averle lette, le licenziava in un angolo della tavola dove mastro Comon le impilava ordinatamente.
“ E il picchetto di guardie?”
“ è tutto pronto. Manca solo il re.” Il Lord annuì, consegnandogli un ultima carta.
“ E anche tu, Jon, a quanto pare.” Il padre si girò per rivelare la figura atletica e flessuosa del ragazzo, che si stava avvicinando al tavolo del banchetto.  
Jon aveva indossato i suoi migliori vestiti e lucidato la sua spada, notò il padre con una nota di dolore e orgoglio insieme. E con uguale tristezza e amore, doveva ammettere che sarebbe stato un degno Stark. Aveva ereditato tutti i tratti della sua casata: la statura alta, i capelli scuri intarsiati di rosso, la carnagione candida, il fisico temprato e scattante, proprio come un lupo di montagna pronto all’attacco.
Ma i suoi occhi. Ned sospirò mentre si alzava.
 Se non fosse stato per quegli occhi, lui sarebbe stato davvero suo figlio.
Occhi belli, come cantava la balia al neonato. Occhi belli come la vita.
Occhi viola, occhi che assumevano a tratti la dolcezza della pervinca e l’affilatezza dell’ametista di montagna. Occhi che riassumevano la sua natura, che ne denunciavano la stessa presenza: Stark fino al midollo, ma Targaryen, sì, Targaryen erano i suoi occhi.
“ Mi dispiace, padre. Ho legato Spettro nelle stalle insieme ai suoi fratelli. Non era molto contento.” Jon si avvicinò, piegando lievemente il capo, già in colpa per quella sua piccola mancanza.
“ Lo immagino. Beh, non tutti siamo felici di questa visita. Re Robert ha finito le scorte in ogni castello in cui il suo seguito si è fermato. Dobbiamo sperare che se ne vada presto.” I due si avviarono verso l’uscita.
“ Antichi dei, dove sono arrivato, augurarmi che il mio più vecchio amico se ne vada il più presto possibile.” Sbottò dopo qualche secondo. Jon rimase in silenzio. Sapeva che era per causa sua, tutto era per causa sua. In breve, arrivarono sotto il portico che conduceva al primo cerchio di mura interne.
“ Vuoi che ti aiuti a mettere il mantello, padre?” Ned perso nei suoi pensieri, si riscosse, annuendo appena. Il mantello in questione era una coltre unica di pelliccia di metalupo, pesante per l’arrivo dell’inverno, decorato con fili d’argento e d’oro, fino a formare la fisionomia di un lupo.
Il ragazzo pose il pesante manto sulle spalle robuste, prima di legare le catene che lo assicuravano alla corazza, le dita che scorrevano agili e senza intoppi sulla corazza.
Già da tempo lady Catelyn aveva chiesto e ottenuto che Jon diventasse lo scudiero di Robb. “Perché tu impari il mestiere della armi con chi ti sta più a cuore, i vostri destini saranno indissolubilmente legati in battaglia”, aveva spiegato loro Eddard, il viso contratto.
“Perché tu impari qual è il tuo posto, bastardo,” gli aveva sibilato la lady del castello mentre i bambini, felici di rimanere insieme, scappavano via.
“ Grazie Jon.” Disse Ned, intenzionato a parlargli, ma il corno della torretta del maestro tuonò.
“ Padre, venite, dobbiamo andare.” Jon fece per dirigersi all’entrata, ma il Lord lo fermò.
“ Jon …” un secondo suono tonante seguì al primo.
“ Jon, tutti noi dobbiamo compiere dei sacrifici. Non mi fa piacere questa visita al completo  della corte, perché può significare solo una cosa per noi: guai. Ed è meglio per tutti noi, non dar loro un motivo di ripicca a cui possano aggrapparsi.
 Figliolo, sarebbe meglio che tu rimanessi lontano dal re per il momento. Quando gli parlerò, ti faremo convocare nel mio studio e lì potrai offrirgli il tuo pegno di lealtà. Ma fino ad allora, rimani nelle tue stanze.”
L’ultima frase era un ordine, secco, da Lord a un suo suddito e questo Jon lo capiva bene, come vedeva gli occhi di quel Lord che sembravano dirgli: fallo per me, ti voglio bene, ragazzo mio, lo faccio per il tuo bene, non vogliono che ti feriscano.
Ma non parlavano mai quegli occhi. Non lo dicevano mai. Forse per questo faceva sempre così male. Gli sembrava quasi di sentire la voce di lady Catelyn: “ è disdicevole che un bastardo presenzi al saluto della famiglia al re.” Disdicevole. Una parola carina da dire in occasione affettate, quando non si ha mai niente da dire: mettersi quel vestito è disdicevole, quell’insetto è disdicevole, essere vivo è disdicevole. Una parola vuota, fredda, coniata per l’esatto scopo di non dire niente e forse per questo diceva tutto.
“ Jon.” Ned riscosse il figlio: “ Potrai presenziare al banchetto se lo vorrai.” Gli occhi grigi di Ned erano arrivati ad un livello a Jon sconosciuto: sembravano implorare. Lo faceva stare male, male da morire far soffrire il padre, ma era una sofferenza che sia andava sommando alla vergogna. Vergogna di cosa? Non lo sapeva nemmeno lui.
“ Sì. Sì. Capisco, padre. È giusto. ”
C’era stato un tempo in cui chiamarlo padre era così facile. Ned gli diede una robusta pacca sulla spalla.
 Jon sentiva già le ruote dei carri attraversare la strada maestra. Malgrado l’arrivo imminente, il Lord si concesse ancora qualche secondo prima di voltarsi e andarsene.
 Il grande metalupo degli Stark sembrò ululargli contro, derisorio.
 
 
 
Taraddan! Eccomi qua! La storia dovrebbe seguire le massime di zione Martin, almeno per i prossimi due capitoli, poi avverrà una svolta, poichè non ho nessuna intenzione di mandare Jon alla Barriera, in esilio vero e proprio. Beh, che dire. A parte il fatto che recensioni sono sempre ben accette, anzi, ne ho bisogno per la mia stabilità mentale, vorrei ringraziare Ainsel e bic per aver recensito il primo capitolo, donandomi una pace mentale in un periodo di travaglio scolastico. Grazie ancora!

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Capitolo 3
*** Arriva il re! ***


Arriva il Re!


Re Robert, primo del suo nome, re degli andali e dei primi uomini, fece la sua entrata nella fortezza del Nord a bordo di un enorme carrozza, un’alcova di profumi e di piaceri fluttuanti a dispetto del gelo e del fango. L’intera popolazione del contado si era riunita per l’occasione e i vessilli verdi e oro dei Baratheon garrivano al vento insieme al lupo grigio, come non accadeva da quindici anni.
Robert rabbrividì.
I visi sporchi e affilati dei contadini lo fissavano muti, senza accennare ad alcuna lode in suo onore o il minimo gesto di stizza. Rimanevano lì, immobili, gli occhi azzurri piantati saldamente sulla sua figura massiccia, sui suoi gioielli, le sue guardie. Più che dei fedeli sudditi venuti a salutare il loro re, parevano più dei comandanti silenziosi, che soppesavano le forze, la velocità, i rifornimenti.
Stranieri, parevano gridare i loro occhi muti. Stranieri, ululava il vento che sbatteva prepotente contro i mantelli preziosi. Stranieri, gente del Sud stridevano le insegne delle locande. Carne fresca!-gongolava vorace il gelo.
“ Sembra …. Cosa diavolo hanno da fissare, per i Sette Dei!” sbottò il sovrano, rivolgendosi alla moglie. Cersei sollevò appena lo sguardo verso la piccola finestra, prima di tornare fisso sulla tappezzeria color porpora.
“ Ti odiano. Cosa ti aspettavi da un simile traditore?” grugnì, arricciando le sopracciglia bionde e perfette.
Il sovrano agitò una mano, facendole segno di tacere. Si voltò nuovamente verso la folla, che ricambiò lo sguardo.
Robert credeva di conoscere tutti i tipi di folla che abitavano variegatamente tutti i suoi Sette  e dannati Regni.
Detto in confidenza, le folle erano un po’ come delle puttane. Tu le compravi.
Solo che, al posto dell’oro sonante, nell’aria si rincorrevano le trombe e i vessilli spiegati, le alte gride dei banditori che si scontravano contro le lucide armature dei guerrieri.
E come non parlare dei banchetti popolari, del vino gratuito e gli spettacoli circensi, ingredienti indispensabili per il bene comune.
A seconda dei luoghi, naturalmente, un metodo riscuoteva più successo di un altro.
Nei territori dell’Altopiano i tornei cavallereschi erano i meglio accetti; I Tully preferivano lauti banchetti serali, conditi con balli e buffoni reali. Non era saggio presentarsi dai Martell senza del buon vino dorniano e spettacoli in cui le protagoniste erano donne affascinanti e amichevoli.
E solo dopo aver sborsato il denaro, la folla andava in estasi, eccitandosi alla sua semplice vista. Bastava presentarsi, salutare un pochino e magari lasciarsi scappare qualche bestemmia.
A quel punto i villani andavano in delirio, osannando il suo nome, ricordando le sue imprese di guerre.
Gli uomini orgogliosi barrivano mentre le donne sospiravano.
Poi il cocchiere frustava i cavalli e Robert poteva rifugiarsi in qualche sala grande, a bere e a divertirsi, mentre la popolazione cantava lodi in suo onore.  La mattina dopo, complici mal di testa post sbronza e tradimenti perpetui, la folla si era già dimenticata di lui, permettendogli un veloce e festoso ritorno a palazzo.
Ora, questo accadeva normalmente, ma il Nord, come in tutte le cose, faceva eccezione.
Robert ripercorse mentalmente tutte le spese. Aveva inviato un paio di araldi in tutto il contado, eretto tribune e pagato alcuni debiti di gioco, lucidate le armature e promesso del vino gratis. Che cosa aveva dimenticato? Preferivano forse donne o tornei?
Gli occhi fissi sembravano rispondergli.
“Gli uomini del Nord sono degli ingrati.” Proruppe ad un certo punto, riempendosi la coppa di vino.
Ad un tratto il viso rasato e attraente di Jaime Lannister fece capolino dalla stretta finestra, che metteva in comunicazione la carrozza con il resto del mondo.
“ Siamo arrivati, maestà.” Disse sorridendo alla sorella, che ricambiò a sua volta.
“ Mamma, secondo te gli Stark mangeranno il mio Principe?” intervenne la piccola principessa Myrcella, accarezzando protettiva il suo gattino.
“ No, tesoro. Non sono ancora a quel livello di barbarie.” Soffiò candida la regina, accarezzandole la testa.
“ Forse non loro, piccola lady. Ma ho sentito dire che i piccoli Stark allevano nelle loro segrete dei piccoli cuccioli di metalupi, fatti venire apposta dalla Barriera. Se fossi in te, nasconderei i tuoi pargoletti.”
Sorrise lo zio, inviando un bacio alla nipote.
Myrcella scosse i lunghi boccoli d’oro, intensificando le coccole sul povero animale.
Robert tracannò un'altra coppa, incapace di sentire simili conversazioni. Una volta anche i miei figli dovevano giocare con i lupi, pensò. Ma fu solo un attimo, poi la carrozza si fermò.
Il cavallo bianco della guardia reale scartò di lato e Jaime scomparve alla vista mentre una lunga fanfara invitava tutti ad inchinarsi a lui, il re dei Lord, sovrano degli Andali e dei Primi Uomini, lui, Re Robert, primo del suo nome. L’Usurpatore.
La piccola porticina di velluto fu aperta e una ventata gelida diede il benvenuto alla famiglia reale.
Robert scese aiutato da un paio di paggetti, Cersei strinse a sé i figli e guardò fieramente il plumbeo scenario che le si presentava davanti. Tutti inchinati, come dovevano essere.
Robert sbuffò per il freddo, il respiro che si condensava nell’aria.
L’intera famiglia Stark era presentata davanti a lui, inchinata profondamente sul selciato di pietra grigia.
Su tutte le figure grigie e argentee, colori della casata, spiccava il Lord di Grande Inverno.
Ned non era cambiato, notò sorridendo l’amico.
Lo stesso corpo aitante e robusto, i capelli crespi, le mani consumate dal lavoro. Quando il cavaliere osò alzare il viso, Robert sentì un colpo. Sì, anche gli occhi erano i medesimi. Era invecchiato, piegato quasi da tutte le guerre, i dolori, le preoccupazioni, ma sempre lui, nonostante tutto.
Eddard Stark. Lord di Grande Inverno, protettore del Nord e dei suoi sudditi, il suo migliore amico.
 O almeno lo era stato.
“ Ned!” urlò Robert ridendo, avvicinandosi a grandi falcate sul terreno bagnato. Gli occhi grigi del vecchio lupo si oscurarono per un attimo, in un sorriso stentato.
Robert capì. Non mi ha riconosciuto. Non l’aveva riconosciuto.
 E come fargliene una colpa, pensò l’uomo. Quindici anni di gozzovigli e tribolazioni di governo avrebbero cambiato anche l’integerrimo Ned Stark. Così tante tante notti passate a bere e sempre con donne diverse. Così tanti fantasmi abitavano i suoi sogni, non abbandonandolo mai, nel bene e nel male.
“ Maestà.” Rispose modesto lui, fissando sconcertato i gioielli e le sue vesti. C’era stato un tempo in cui Robert considerava gioielli e fragranze, trastulli da donne. Ma c’era anche stato un tempo in cui il suo amico glielo avrebbe detto senza rammarico o peli sulla lingua.
Il sovrano lo abbracciò stretto, fracassandolo in una morsa.  Ned rispose, questa volta senza esitare.
“ è un piacere averti qui, Rob.” Il re sotto la folta barba scura sorrise.
Finalmente i due amici si erano riconosciuti. Un educato scalpiccio interruppe il quadro idilliaco e Robert fu costretto a voltarsi, suo malgrado. Gli ci volle qualche secondo per collegare la figura magra e tagliente della donna con una piccola e pallida fanciulla Tully, intravista in un tempo remoto.
“ Lady Catelyn.” Salutò il sovrano, tentando un brusco bacia mano, ma la donna si professò in un profondo inchino sfuggendo alla mano ingioiellata.
“ La vecchiaia si è dimenticata di voi. Siete bella come un fiore d’estate.” Disse Robert, stupendosi una volta di più come fosse facile fingere anche con i suoi più vecchi amici.
Catelyn non era mai stata il suo genere di ragazza.
Pia e devota alla propria casa, sembrava che il detto dei Tully – famiglia, dovere, onore- fosse stato creato a sua immagine e somiglianza. Non che non fosse attraente, pensò il re.
Ma il viso fanciullesco era perennemente corrucciato e controllato, i bei occhi azzurri che fissano freddi gli estranei. Robert ci avrebbe provato, sedici anni orsono, tuttavia sapeva che ci avrebbe pensato Brandon.
 Il fratello maggiore di Ned era l’esatto contrapposto della sua dama e forse Rickard Stark non si era reso conto di aver creato un pessimo contratto matrimoniale.
Certamente, da un punto di vista dinastico, l’unione era esemplare: la figlia primogenita del Lord delle Terre dei Fiumi con il primogenito delle Terre del Nord.
In caso di morte prematura del piccolo e malaticcio fratello di Catelyn, suo figlio avrebbe ereditato un immensa fortuna, senza contare il prestigio. Ma tutto il Nord sapeva che Brandon Stark non si sarebbe mai fatto legare da un stupida promessa di matrimonio e ben presto tra i due sarebbero scoccate scintille. Robert non era stato il solo a scommettere sulla fine immediata dello sposalizio.
Tutto questo prima che Brandon morisse, tutto questo prima che scoppiasse la guerra. Quanto sangue.
 E ora la piccola lady trota, come la soprannominava Bran, era andata in moglie a Ned. Che atroce eredità.
“ Non qui, maestà. L’Inverno sta arrivando.” Rispose fiera la lady, invitando il re a proseguire.
Robert sbuffò, divertito e nauseato. Il motto degli Stark strideva sulle belle labbra da donna.
Sembrava quasi una frase programmata per l’occasione, ripetuta, ripetuta fino alla nausea, fino all’autoconvincimento.
Chissà se comprendeva davvero il significato di quelle parole.
Non era un mistero che la giovane moglie di Ned, appena arrivata a Grande Inverno, avesse provato un istintiva avversione per la sua nuova terra, il luogo dove sarebbero cresciuti i suoi figli.
Robert si domandò se la odiasse ancora.
“ Quasi dimenticavo di essere arrivato al Nord, Ned. Per tutti gli dei, ha nevicato! Non vedevo la neve da quasi trent’anni, ero poco più che un poppante.” Il sovrano tirò una robusta pacca sulla spalla al Lord, che sorrise bonario.
“ è solo una spruzzatina, maestà. Tra poco la lunga estate avrà fine e allora sì che gli dei ci mostreranno la loro potenza.” Sorrise bonario l’uomo, paziente come con un bambino.
“ Per allora io sarò ad Approdo del re, quel letamaio, e staro bevendo del vino dorniano direttamente dai seni di una donna. Brinderò a te, amico mio.” Ned fu percorsa da una roboante risata come non gli accadeva da quindici anni.  Sotto quello strato di adipe, il cuore del Lord di Capo Tempesta batteva ancora.
 Il suo migliore amico, nonostante tutto, era ancora lì.
Ned condusse il sovrano verso le figure prostate, in attesa di potersi rialzare. Robert notò un piccolo visetto affilato dagli occhi grigi, sormontato da una massa di capelli spettinati, fissarlo per poi rivolgersi lentamente al suolo.
“ Vorrei presentarti la mia famiglia. Lui è Robb, il mio figlio primogenito.”
Eddard indicò un ragazzo di quattordici, forse quindici anni, facilmente scambiabile per un Tully.
I capelli ramati e ondulati incorniciavano un viso magro candido con incastonati due occhi azzurri, brillanti come i torrenti di montagna. Ma dal modo in cui si inchinò, in cui giurò fedeltà, Robert capì che era l’esatta copia di suo padre, Stark fino al midollo, nel cuore e nell’anima.
 Avrà problemi con le ragazze, gli salteranno letteralmente addosso, pensò.
 Catelyn fissò orgogliosa il figlio e prese per mano una ragazza accanto a lui.
“ Lei è Sansa e la fanciulla accanto a lei è Arya.” La ragazzina fece una profonda e aggraziata riverenza, un sorrisetto sulle labbra virginali. Robert la fissò con attenzione. I suoi informatori gli avevano detto che aveva dodici anni ed era bellissima, e non si erano sbagliati ne su l’una ne sull’altra cosa. Lady Catelyn aveva di nuovo partorito una Tully: capelli rossi e castani, un miscuglio indefinito di colori dell’autunno, gli occhi chiari, la pelle lattea, la vita stretta, i seni piccoli. Eppure, a differenza della madre, il viso non era affilato e pudico, ma curioso, voglioso di vita. Robert le sorrise. Sì, il piano era fattibile. Sarebbe piaciuta a Joffrey.
Gli ci volle qualche secondo prima di riconoscere la figura accanto alla fanciulla, lo stesso profilo che prima aveva scorto.  Arya Stark era notevolmente più bassa rispetto alla sorella maggiore e non possedeva ne la sua bellezza esteriore ne la sua grazia. Ma possedeva ben altre qualità. Gli occhi freddi e duri degli Stark lo fissarono, senza paura o indecisione. È così simile a Lyanna. Quel pensiero fu un fulmine a ciel sereno, che invase la mente del re. Non si assomigliavano per nulla, eppure gli stessi occhi della zia risplendevano in quel viso serio. Robert preferì sfuggire a quello sguardo indagatore che sembrava possedere la stessa arte e maestria. Robert scappò.
I due bambini davanti alla ragazza si inchinarono a loro volta.
Brandon e Rickon erano il frutto della reale unione delle sue culture: se i maggiori erano dichiaratamente Tully e Arya figlia del Nord, i minori mischiavano le une e le altre cose, gli occhi azzurri con i capelli neri. 
Robert fu costretto ad ammettere che erano tutti ugualmente belli, sani, forti, buoni.
Così Stark, per dio, così del Nord. È la più piccola, una piccola Lyanna.
Quasi per ricordargli a quale famiglia faceva parte, Cersei si avvicinò, stringendo a sé i figli più piccoli.
E i suoi figli, così Lannister.
“ Maestà.” Tutta la popolazione della fortezza sprofondò al passaggio del regina, che non li degnò di uno sguardo. Cersei quella mattina aveva optato per una lungo mantello di pelliccia bianca che ricopriva completamente il corpo longilineo. Gli zaffiri della sua tiara baluginarono nella rada luce invernale.
“ Marito caro, siamo tutti molto stanchi , il viaggio è stato molto lungo e disagiato.” Cersei parve fulminare la neve che ricopriva i l’arco d’entrata e i ghiaccioli con il loro baluginare parvero risponderle, per niente intimiditi.
“ Ti prego di condurre la corte all’interno perché possiamo ristorarci.” Disse al consorte, ma il messaggio era in realtà diretto alla lady del castello, che si affrettò a dire:
“ Siamo più che felici di offrirvi le nostre stanze e di condividere il nostro cibo. Ho ordinato di far preparare un grandioso banchetto dedicato alle vostre maestà. Vi prego entrate. La mia casa è ora anche la vostra.” Cersei accennò un sì contrariato, le labbra arricciate vezzosamente.
Ad un tratto, dietro la carrozza, comparve il resto della colonna, momentaneamente impantanata. Robert riuscì a scorgere quell’odioso Lannister e il Folletto, e dopo ancora Ditocorto, mastro Pycelle e alla fine anche la mole imponente della Montagna Che Cavalca. Poco più indietro il fratello bruciato, Il Mastino, e accanto un giovane biondo inguainato in una veste porpora e una smorfia dipinta in viso.
 Suo figlio. Il sovrano si girò di nuovo verso l’amico.
 Joffrey Baratheon fece avanzare il purosangue fin davanti alla famiglia schierata per poi degnarsi di scendere. Quando gli stivali di pelle sprofondarono violentemente nel fango, il principe muggì un insulto, pestando con ancora più forza.
“ Lady Catelyn, vorrei presentarvi mio figlio Joffrey, l’erede al trono.” Cersei sorrise per la prima volta di quel giorno, indicando con un ampio gesto del braccio il ragazzo che si stava avvicinando.
Robert si chiese una volta di più se quel bel principe profumato e agghindato come una donna fosse suo figlio.
“ Mia lady.” Il bel giovane accennò ad un saluto con la testa alla Lady del castello per poi dirottare tutta la sua fervida attenzione sulla figlia maggiore di Eddard.
Joffrey lasciò che un sorriso educato e abbagliante si disegnasse sulle labbra carnose, avvicinandosi galantemente alla fanciulla, con un andatura che si potrebbe definire da galletto. Il principe si inchinò a baciare la mano bianca di Sansa, fissandola al contempo con i suoi occhi scuri, sfavillanti.
“ Onorato di conoscervi, mia lady” soffiò. Il viso di Sansa si imporporò vistosamente, rispondendo al suo re con una pudica riverenza.
Robert scosse vigorosamente la testa, compiaciuto e schifato insieme.
Laggiù gli era sembrata una così grande trovata dinastica e politica, ma ora, vedendo gli occhi di suo figlio sfavillare della luce predatoria della caccia e quelli della figlia di Ned, così puri, dannatamente innocenti, tutto crollava. Ma sapeva che Joffrey non avrebbe mollato la presa, una volta sentito il profumo della preda. Era suo figlio. E lui stesso, ancora adesso, andava  a caccia di donne.
 Almeno da quel punto di vista, si poteva dire suo degno erede.
Il sovrano strinse la spalla di Ned, riconoscendo la luce fredda e minacciosa. Il lupo vigila sulle sue lupacchiotte.
“ Entrate dentro, lady Catelyn vi mostrerà la via. Io devo porgere i miei ossequi.” Sbottò Robert. La reazione di Cersei fu secca e immediata come una vipera all’attacco.
“ I morti possono aspettare, mio re.” Non lei. Non lei.
“ Ma io no.” Ringhiò il marito, indicando le viscere sotto i suoi piedi. Sulle labbra screpolate di Ned comparve un sorriso, ma il Lord tentò di nasconderlo girandosi verso un servitore. Sì, Eddard.
Robert avrebbe voluto ridere, ma il protocollo non lo permetteva.
Io non ho dimenticato, proprio come i tuoi dei, proprio come il Nord, proprio come te. Non potrei mai dimenticarla e non voglio farlo. Anche se ogni volta fa male come se fosse la prima. Ogni dannata volta questa non farà di certo eccezione. Dunque, andiamo, amico mio.
Portami da lei, portami dalla mia sposa, portami dalla mia regina.



Ok, so che sarete tutti un pò delusi, ma l'arrvio di Robert era decisamente troppo lungo per cui ho deciso di dividerlo in due parti, e naturalmetne il prossimo capitolo sarà dedicato al rapporto Robert/Lyanna ma soprattutto che cosa lui provi nei confronti di Jon. * rullo di tamburi*
Spero che si sia capito che c'è stato una rottura drastica e netta nei confronti dei due amici, i cui motivi veranno spiegati in seguito, per questo motivo dunque la battaglia contro i Greyjoy non c'è mai stata, Theon è l'erede diretto al trono del mare, anche se prometto per quelli a cui piace * non riesco a capacitarmi come facciano* che arriverà ben presto anche lui, non eccessivamente cambiato dopo tutto. Sono fermamente convinta che questo sia il suo carattere, anche se probabilmente esclamerebbe - Dio Abissale!- o - Per tutti i calamari!- piuttosto che per gli antichi dei.
Naturalmente potete farmi sapere se vi garberebbe o meno vederlo nel futuro o se vorreste leggere di una sua morte letale e truculenta. A voi la scelta, ordunque. Recensite e diffondete il verbo di GoT nel mondo! Alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Lyanna/Robert ossia la spiegazione di ogni vostro dubbio ***




 In breve arrivarono le lampade. Eddard lo precedette nelle insidiose scale che portavano nelle viscere più recondite di Grande Inverno.
Quei dannati gradini erano ripidi e viscidi come la pelle di un serpente. Ned canticchiava qualcosa in quel cunicolo stretto e tortuoso, che si sviluppava senza fine verso la terra negra e fredda.
“ Esistono cinque livelli, mio re.” Ned si volta verso di lui, uno dei suoi sorrisi felini che tagliava il volto invecchiato.
“ Gli ultimi due sono ormai crollati e il nostro maestro pensa che fossero le antiche tombe dei vandali e degli elfi prima loro. Il terzo è chiuso e puntellato; è solo questione di tempo prima che segua i suoi predecessori.” La voce fresca dell’uomo rimbombava sulle pareti di pietra.
“ Ecco, ci siamo.” Spinse un grande portellone di ferro battuto, che dopo un paio di spinte si dischiuse con un rumore sinistro. Il cavaliere si infilò nella stretta apertura. Robert sentì una lunga goccia di sudore colargli sul collo.
“ Vuoi lasciarmi qui e liberarti di me, vecchio trombone?” Le mani callose del Lord grattarono la porta e dopo un paio di secondi il portone si aprì greve.
“ Mai, Robert.” Rispose Ned. Il re lo fissò per un attimo, prima di borbottare: “ Sei sempre il solito rincoglionito, vecchio poltrone.” Prima di scansarlo con un rude e virile mano sulla spalla.
Robert Baratheon non era mai stato un uomo troppo espansivo. Ma, d’altraparte, quando erano giovani, era anche pericoloso farsi stritolare da una piramide di muscoli qual era il giovane Lord di Capo Tempesta. Ora l’altezza aveva lasciato il posto ad una vecchiaia prematura, il grasso adiposo aveva vinto la battaglia contro il fisico e la coscia del re aveva lo stesso diametro del suo vecchio braccio, l’unico in grado di alzare la temibile mazza da guerra Baratheon.
 Ned si riscosse e prese la lampada, raggiungendo velocemente l’amico. Non aveva più il passo scattante di una volta. Il sovrano lasciò che l’amico lo superasse in un gesto di cortesia.
In realtà preferiva che la lanterna espandesse la sua luce benefica sull’oscuro mondo circostante. Non l’avrebbe mai ammesso ma l’antica tomba di casa Stark lo terrorizzava ogni volta. Non che ci fosse qualcosa di così speciale. Anche a Capo Tempesta esisteva un analoga catacomba che si inerpicava lungo la montagna scoscesa e ed era lì che giacevano i suoi genitori da quando aveva dieci anni.
Una tale consuetudine rimaneva ancora nella casate più antiche e illustri eppure, lì, nel cuore pulsante e in decomposizione del Nord tutta appariva meramente insulso, quasi una pallida riproduzione. Ogni piano possedeva un lungo corridoio centrale con a lati, ad intervalli di quattro o cinque passi, tombe di antichi re e perduti cavalieri. Su ogni masso pietra grigia si ergeva una statua rassomigliante al sovrano, seduto su una piccola sedia da campo e la spada della loro casata, Ghiaccio, sulle loro ginocchia, minacciosa.
La stessa spada che ora oscillava sulla schiena del loro discendente.
Ogni volta che la luce colpiva un sepolcro, le zanne di un metalupo si profilavano nello squarcio, per poi ritornare nelle tenebre. Robert non aveva mai capito tutta questa attenzione degli Stark per il loro animale emblema. Ogni statua aveva il proprio caro e fedele cagnolino ai piedi, alcune volte mansueto, altre in posizione d’attacco e proprio in quel momento ne scorse uno ululate.
Mentre il re fissava sconcertato la galleria, Ned si avviò verso dei muretti ai lati della parete e accese una miccia nel primo loculo. Immediatamente una fiammata roboante e alacre si propagò alla sinistra del sovrano, illuminando il mondo circostante. Il Lord si avviò verso il loculo destro e compiendo un’operazione analoga, la luce irruppe anche nell’altro lato. L’intera galleria risplendeva di luce e le ombra delle fiamme si rincorrevano sulle pareti grigie, sui visi barbuti dei cavalieri.
Robert deglutì. Doveva ammettere che vi era una sorta di gloriosa teatralità in questo.
Ned rise contento, avviandosi verso la fine. O meglio, dove avrebbe dovuto esserci una fine. Robert non riusciva a scorgere nessuna pietra che segnasse un limite, solamente un buio sfumato che sembrava perdersi  nell’infinita lontananza. In un certo senso, la luce aveva solamente accentuato la grandiosità del monumento e anche la paura di Rob. Facendosi coraggio, rincorse l’amico.
Camminarono per vari secondi, oltrepassando vani oscuri e statue pompose prima di arrivare alla fine. Robert riconobbe subito il viso austero e allungato di Rickard Stark e dietro di lui il figlio primogenito, Brandon, in posizione di guardia con la lunga spada da combattimento sul fianco.
E dopo, dopo c’era lei.
Robert sentì una mano che lo afferrava prepotentemente alla gola, stringendo sempre più.
Lyanna Stark era stata la donna più bella e fiera che avesse mai visto nella sua vita.
Alcuni denigravano le sua mente determinata e allegra,  troppo libera per essere una lady, altri segretamente spiavano il suo corpo agile e scattante che risuonava come un arpa durante le gare di corsa. Robert la venerava. L’unica capace di tenergli testa, la sola donna che avesse mai osata guerreggiare in un torneo -vincendo!-, la più spietata e insieme dolce, affettuosa e crudele, sincera al limite della superbia.
Era stato un colpo di fulmine, un lampo feroce e silenzioso, come una stilettata, in mezzo alla tempesta di tuoni.
La sua lady, la sua regina, non poteva immaginare altra donna al suo fianco, altra musa per il suo cuore. Poco importava che i sentimenti non fossero proprio ricambiati, anzi, questo acuiva l’ardore del Lord, ne esaltava la virilità. E soprattutto faceva infuriare Lyanna.
Quanto era bella! Le mani strette a pungo, così tanto che ti aspettavi che da un momento all’altro le nocche avrebbero bucato la pelle, tutto il corpo teso in un unico scatto finale che quasi sempre culminava con uno schiaffo ben piazzato- ciaff- così fulmineo da neanche vederlo, malgrado te lo aspettassi. Sentivi sempre la guancia ardere, bruciata dal suo tocco, e gli occhi pizzicare, quasi in un atavico richiamo di culla.
E i suoi occhi. I suoi occhi erano in grado di incenerirti e congelarti insieme, con un istintivo desiderio di scappare a gambe levate, ma quegli occhi azzurri, che si scurivano come mare in tempesta, ti inchiodavano al suolo, lì. Non facevi nemmeno caso alle urla squillante, che pure tutti temevamo,  o alle labbra rosse e succose.
Solo a loro. I suoi occhi.
Robert aveva sempre avuto paura di quegli occhi, eppure ogni volta ne ricercava l’ira, come un masochista amante dell’amore. Non potevi scappare, non potevi nasconderti mentre loro ti sbattevano in faccia tutte le tue colpe con un dolore maggiore di qualsiasi schiaffo.
 Eppure era così bella. Anche l’ultima notte. 
L’ultima notte che l’aveva vista. E anche allora i suoi occhi lo avevano ucciso, con un colpo così secco, così letale da aver paura. In quella notte, in quel secondo era riuscito a percepire tutto il dolore che avrebbe provato, tutte le vite spezzate e l’odore del sangue fresco appena versato. In quegli occhi, così abitualmente allegri adamantini, in quegli occhi che piangevano un dolore viscerale, istintivo.
Non l’aveva mai vista piangere. Non aveva mai visto piangere una donna. E il solo pensiero che lei, Lyanna per gli dei!, era impossibile da recepire. Mai sentito tutto quel dolore prendere forma in quell’acqua salta che scorreva via, via chissà dove. Eppure ci aveva fatto l’abitudine.
Il re respirò a lungo prima di avvicinarsi alla statua. L’artista non era stato in grado di riprodurre un viso così perfetto. E come dargliene una colpa? Come imprimere una tale vitalità alla fredda pietra, come ricordare una vita vissuta con amore e forza nell’oscurità della morte?
“ Il suo posto non è qui. Non tra i vostri freddi morti e oscure segrete. Il suo posto era in superficie, tra i fiori, il sole e il vento, Ned. Il suo posto non è questo.” Disse.  
Il suo posto è accanto a me. Per lei ho conquistato un regno, per lei ho fatto tutto, tutto. E ne ho tratto solo morte.
Il sovrano si tolse meticolosamente il guanto nero e poi sfiorò la superficie della pietra grigia, fredda, gelida, immobile. Proprio come lei.
La Torre della gioia. Che fosse maledetta! Come fosse maledetta lei, il bosco che la circondava, il terreno su cui poggiava. Aveva fatto distruggere tutto. Tutto quello che poteva anche solo ricordargli lei o la progenie dei draghi era stato estirpato, nascosto, bruciato.
Odiava i Targaryen. Gli avevano portato via tutto. Tutto quello che aveva e tutto quello che doveva avere. Lyanna era il simbolo, emblema della sua vita. E Rhaegar gliela aveva portata via. Via!
Recisa come lo stelo di un fiore primaverile, strappato dalla nuda terra. Uccisa, addirittura!
Robert scosse la testa villosa.
Lui aveva fallito! Doveva conquistare un regno, doveva salvare la sua famiglia, doveva portare la pace. Nessuna di queste promesse era stata assolta. Brandon e Richard Stark erano stati barbaramente uccisi, decine e decine di battaglia avevano solcato il continente, i suoi uomini cadevano come spighe mietute dal Contadino.
E poi finalmente La battaglia. Lo scontro finale.
Lui e Rhaegar, nessun altro, il duello che avrebbe deciso le sorti del mondo, del regno, degli uomini, degli dei. Il punto di snodo di un’intera era, oggetto di decine di canzoni e di poemi, sognata e rinvangata per i secoli e secoli a venire.
Quante fantasie e orpelli avrebbero creato!
Il ribelle alto e forte, combattente per la sua terra oppressa contro il fanatismo e la pazzia.
E il principe, bello come un dio, raffinato e colto, erede di un regno deturpato, paladino dei suoi avi e della sua gente.
Eppure non combattevano per questo, no.
Combatteva per una donna. Combattevano per Lyanna. 
Lo sapevano entrambi, Robert lo percepiva nei freddi occhi viola del principe.
Era sua! E lui l’aveva infangata!
Non era bastata nemmeno la morte per uccidere il drago. No!
Aveva visto le labbra del principe, rosse di sangue versato, muoversi.
Aveva letto la preghiera in quel nome. No! Lei era sua!
 E poi la mazza da guerra era calata e la testa si era aperta con un tonfo, i capelli argentei bagnati dal fiume del Tridente, rosso e turbinoso, un arteria ferita nel corpo del continente.
 
Robert aveva vinto, ma sentiva lo spettro della sconfitta dietro di lui.
Aveva vinto un regno prostrato da guerre e indecisioni, in cui violenza si sommava a violenza, intrighi ad assassini, bugie ad indifferenza, in un vortice nero e rosso.
Aveva vinto un regno. Ma non sapeva che cosa farci, con un regno.
Una corona ti scalda il letto la notte?
Ti fa fremere il cuore ad ogni sua visione? Ti da amore e fa l’amore con te, una corona?
No. Lui voleva una regina. La sua regina. Ma la sua regina era morta, per mano di quel drago.
 Anche dopo la morte lo feriva, anche dall’oltretomba era in grado di ucciderlo.
Nel modo più brutale e vile. Un figlio. Gli sarebbe piaciuto avere un figlio da Lyanna.
Ma lui, no. No.  Avrebbe sopportato tutto nel suo nome.
Ma non suo figlio. No.
 
Non il figlio del drago.
 
La statua di Lyanna parve rispondergli, le fiaccole che illuminava i suoi occhi bui.
Non riusciva ad essere arrabbiato con lei. Non poteva. Non era stata colpa sua. Ma solo sua, del drago.
Ned si avvicinò all’amico, gli occhi fissi sull’amata sorellina.
L’avevano amata entrambi. Robert lo sapeva. Per questo non riusciva a capire.
 Perché non aveva ucciso il neonato? Perché lo aveva lasciato vivere? Perché lo aveva portato con sé?
“Ti sbagli, Rob. Il suo posto è esattamente questo. Come lei avrebbe voluto.” Ned si avvicinò alla sorellina, sfiorando come le dita il freddo marmo. Lyanna era sempre stata una Stark,  come lui non avrebbe mai potuto nemmeno sognare. Come spiegare al suo migliore amico, ormai un estraneo, uno del Sud, che per loro la morte era un fatto breve e ineluttabile.
Ma c’erano cose che nessun uomo del Sud avrebbe mai compreso. Nemmeno Robert .
La famiglia era sacra, intoccabile.
 “Perché Ned?” Robert muggì, rauco. Era la stessa domanda che gli aveva rivolto quindici anni prima.
Ricordava tutto di quei giorni. Faceva caldo. C’era il sole, per gli dei!
E lui piangeva, di rabbia e di dolore. Era in lutto e ne premeditava un altro.
Ned era scomparso da giorni, senza dire niente, portando con sé i cavalieri e gli alfieri più fedeli.
Quel maledetto lupo, scomparso nel nulla! E con il bambino, come Tywin Lannister ripeteva notte e giorno, notte e giorno.
Con il bambino, maestà, con il figlio del drago, sire, bisogna ucciderlo, mondare l’atroce delitto, mio re. Quel Lord sputava così tanta merda e verità che finivano per fondersi.
E alla fine Eddard Stark si era presentato al suo re, perché questo il suo onore gli ordinava, anche se questo significava morte certa. Ned aveva sfidato il brusio della corte, lo sguardo glaciale del Lannister, fino al Trono di Spade. Fino al suo migliore amico. Fino a Robert.
Ma potevano ancora dirsi amici dopo quello che era successo?
Ned si era rifiutato di consegnare il bambino.
“ è figlio di del drago, Ned” ruggì il re, nel presente, voltandosi con occhi di brace verso il Protettore del Nord. Stavano ripetendo le stesse battute di quindici anni prima, come attori consumati e tristi, con le stesse parole, le stesse emozioni. Robert provava ancora quella rabbia furiosa e furibonda.
Ma era vecchio ormai, di una vecchiaia che andava al di là dell’età. E tutto sembrava non avere più significato. Voleva rivedere quel suo amico un ultima volta, ripetere la stessa domanda. Non sapeva nemmeno lui perchè. Forse per capire finalmente il motivo. La ragione per cui Ned non gli avesse dato ascolto.
“ E anche figlio di Lyanna.” Gli occhi freddi del Lord si assottigliarono mentre pronunciava greve quelle parole.
“ Ed è mio nipote. Quante volte te lo sei dimenticato, Robert? Quante volte?” Se solo volesse vedere oltre quegli occhi, lui vedrebbe Lyanna, pensò.
“E tu, quante volte, hai finto di non vedere? Credi che non sappia? Che le mie spie non mi abbiano detto?” Robert si mosse come un animale in gabbia, scuotendo la testa, più disperato che realmente arrabbiato. Aveva passato un intera vita nell’odio.
“ Ha i suoi stessi occhi! I suoi occhi! Gli occhi del drago!” L’urlo ferì il silenzio rispettoso dei Re del Nord.
“ Tu avresti dovuto darmelo! Tu sei il mio Lord, il mio alfiere! Tu eri il mio migliore amico! Dovevo ucciderlo, per il nostro stesso bene!” Il sovrano si fermò accanto al suo suddito. Le lacrime scorrevano sulle guance di entrambi, come quindici anni prima.
“ Perché, Ned, perché?” domandò stanco. Le labbra dell’amico si aprirono diverse volte, prima che l’aria, greve di parole, ne uscisse.
“Perché glielo promesso. Ho dato la mia parola, Rob. Le ho dato la mia parola.” Ned chinò la testa, sconfitto. Non aveva più niente da dire. Era già stato detto tutto.
Robert ululò di dolore e si avvicinò zoppicando alla statua.
Ricordava tutto di lei.
I suoi capelli, castano scuro che sotto il calore del sole si imporporavano di bagliori e luccichii; le sue mani, le sue dita così incredibilmente lunghe e affilate come artigli, il suo corpo, la sua vita stretta, le sua labbra asimmetriche, il labbro inferiore più piccolo e casto, setoso, che si contrapponeva a quello inferiore, più grosso e succoso, frequentemente coperto di pellicine per il freddo.  
Il re si lasciò andare ad un singhiozzo mal trattenuto. La amava. Per gli dei, se la amava.
E voleva bene anche a quel vecchio trombone del suo migliore amico. Lo considerava un fratello, più di quelli di sangue. Le aveva dato la sua parola. Non poteva tradire Lyanna, Ned, proprio come lui.
Robert si appoggiò contro la statua, mormorando frasi sconnesse. L’uomo dietro di lui, incapace di proferire parola, gli strinse la spalla, come aveva fatto tanto tempo prima.
Prima di scappare da lui, dal suo odio. Dal suo amore.
E fu in questo momento, così delicato, in cui i due uomini, finalmente riappacificati, sotterravano l’ascia di ogni guerra e rovina, che Ned colse un movimento con la coda dell’occhio. Si girò.
La sorpresa e la rabbia lo immobilizzarono sul posto, incapace di pronunciare alcunché. Robert, con ancora il viso coperto di lacrime, si voltò.
Jon Snow fisso i due uomini spaventato, gli occhi viola dalle candide ciglia che saettavano da una figura all’altro, anch’egli bloccato dalla paura.
Dalla scoperta.
Dalla consapevolezza di essere il frutto di ogni colpa, di ogni peccato.
Che per lui migliaia di uomini erano morti, centinaia di violenze perpetrate. Che per lui solo, suo padre, suo zio, era considerato un traditore dalla corte e un eroe dalla sua gente.
Il motivo di ogni odio di lady Catelyn e di ogni carezza di mastro Luwin.
Era lui. Lui era tutto questo. Era tutto l'odio e tutto l'amore di una guerra insensata e di un amore impossibile.
Scorse un secondo infinito ,in cui tutti rimasero immobili, guardandosi, fissandosi, prima che un gemito carnevoso uscisse dalla bocca impastata.
“Tu … tu!!”
Robert Baratheon si gettò sul ragazzo, accecato dall’ira e dalle lacrime.
Forse fu perché ormai la tempra di un tempo era definitivamente tramontata o perché semplicemente il fanciullo se l’aspettava, ma Jon riuscì  a schizzare via. Prima che il re potesse di nuovo rialzarsi, il lord lo inchiodò al suolo, gridando: “ Corri, Jon, scappa!”
Jon saettò veloce sulle scale arrugginite, ma le urla irate del re lo trovarono lo stesso:
“ Scappa pure quanto vuoi, marmocchio! Ma io giuro sulla tomba di Lyanna che tu ucciderò, ti squarterò con le mie stesse mani! Tu, abominio, bastardo degli dei. Io ti ucciderò, poppante. Hai sentito, figlio del drago, hai sentito?!”




 Ok, quato è uno dei capitoli di cui sono più insicura. Non io personalmene, ma per il fatto che quasi nessuno aveva capito che Robert già sapeva, ma è solo colpa mia che non lo avevo scritto esplicitamente. Volevo lasciarvi la sorpresa, dato che, per questa settimana, è già tanto se troverò il tempo per dormire. In più sono anceh raffredata al massimo e il moto parabolico mi esce e mi rientra da un orecchio all'altro. Perfetto.
Tornando alle cose serie, sono davvero curiosa di sapere se vi è piaciuta o meno questa svolta, se la trovate o meno in linea con i personaggi.Ci sentiamo!
ps. mi rendo conto che Robert sembra essere schizofrenico, ma credo che sia tutto spiegabile. L'odio è uno dei peggior moti del cuore umano, ma alla fine, personale esperienza, se ne va e lascia solo una tristezza infinita. Ho immaginato che quindici anni fossero abbastanza, no? Inoltre Ned e Rob si sono sempre voluti bene, per cui è fattibile una loro comprensione. ma l'arrivo di Jon ha rimesso in gioco tutto.
p.p.s sono davvero preoccupata per le vostre reazioni, oddio, cosa ho fatto....

 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 5
*** Occhi viola, condanna e redenzione ***


Capitolo V
 
 
Erano ormai tre notti e altrettanti giorni che un vento pungente e ostile schiaffeggiava beffardamente i mantelli dei grandi Lord e gli scialli delle lady, infiltrandosi nelle sottane delle fanciulle e petti degli uomini, provocando in ognuno un gelido brivido. Gli unici che sembravano godere di questo tempo erano proprio le guardie di Grande Inverno, che, le braccia scoperte e muscolose orgogliosamente esposte, vedevano arrancare davanti a loro uomini ricchissimi e superbi, oltre che fugaci visoni di pelle quando le dame cadevano a causa del ghiaccio. Inutile dire che i giovani accorrevano con solerzia.
La moda di corte aveva dovuto  adattarsi e ben presto gli ampi scolli vennero coperti con la lana più pura mentre i gloriosi mantelli dei cavalieri assomigliarono sempre  più alle grandi pellicce dei bruti del Nord.
Ma per quante coperte circondassero il suo letto, per quanto donne e vino- puro vino di Dorne, per gli dei!- scorresse nella sua gola, re Robert, primo del suo nome, sentiva sempre un piccolo soffio d’aria dietro la schiena, quasi per ricordargli come la sua vita fosse vana, il suo potere futile.
Ci erano volute ore, lunghe e furiose ore, per calmare l’ira del sovrano, lungo le quali Jon aveva potuto sentire tutte le urla e le imprecazioni sul suo conto come la voce baritonale e calma di suo padre.
Al culmine del litigio, il ragazzo aveva sentito quella voce, così solitamente calma e pacata, alzarsi sempre più, fino a trasformarsi in urlo disperato e grave.
Non aveva mai sentito urlare suo padre.
Ned Stark aveva insegnato ai suoi figli che solo gli ignoranti urlano poiché non hanno ragioni da contrappore. L’uomo saggio rimane in silenzio e parla quando interpellato. Non urla, non bestemmia, ma pondera attentamente le sue decisioni.
Per questo Jon aveva sentito un singhiozzo nascergli nel petto allo stridere di quelle urla. Se suo padre urlava, voleva dire che tutto era finito.
Quante volte il bastardo, al riparo tra le coperte del suo letto, aveva percepito, sentito distintamente che lui era una colpa vivente, il simbolo di tutto ciò non era dovuto succedere invece era avvenuto? Quante volte? Tante, troppe.
Ma tra l’immaginare e il sapere, il peso insopportabile della conoscenza, c’era un mare infinito di lacrime. Le sue lacrime e quelle di centinaia, migliaia di persone – gente che lui non aveva mai visto, gente che lui aveva ucciso, violentato, ferito.
Era un bastardo per gli antichi dei! Era uno Stark, anche se derelitto, anche se emaciato, non voluto. Era figlio di un uomo che lo amava- anche se non lo avrebbe mai ammesso, anche se non glielo aveva mai detto- aveva dei fratelli, che amava, che lo amavano. Aveva una casa- Grande Inverno- che con la sue mura baciate dalla neve lo accoglieva materna. Avere un posto dove andare, ma soprattutto qualcosa per tornare. Un luogo da chiamare casa, dei fratelli da chiamare famiglia.
Era qualcuno. Qualcuno di non voluto, che non avrebbe mai dovuto esistere. Ma qualcuno. 
Sempre meglio di essere un nessuno.
Un paria. Un figlio di una guerra che si era portato via tutto e aveva risputato il resto. Una guerra in cui tutti avevano preso parte e che si raccontava nell’ombra paterna del focolare. Tra i brividi, tra i ricordi.
Era stata la guerra più furiosa e devastante dai tempi di Aegon il Conquistatore, gli aveva detto mastro Luwin.
Nessuno era scampato, tutte le grandi famiglie si erano disputate il potere per eccellenza, il trono temprato da lame e dolore. Come dei bambini che volevano la stessa coperta, avevano digrignato i denti e tirato e tirato ancora finché non si era rotta, pezzi e stracci stupiti nelle loro mani. Il reame strappato. Per sempre.
Interi villaggi saccheggiati, come se non fossero uomini, ma Estranei della Barriera, senza pietà. Le donne violentate, bambini impalati, uomini costretti a fissare il loro stesso dolore, se ancora avevano occhi. Come l’estraneo in persona fosse sceso sul continente, pronto a immolare sull’altare della pazzia umana tutto il sangue.
Questo si sussurravano le guardie di Grande Inverno, tremando nei corridoi freddi e bui, quasi aspettandosi di vedere ricomparire, le gengive digrignate ad azzannare la morte, le ombre di coloro che li avevano preceduti, che erano nati, che erano morti.
Il re pazzo che uccideva con il fuoco perché si credeva un drago, quando in realtà era soltanto un verme, mormoravano le strade dei villaggi. Che uccideva e uccideva e uccideva. Tutti da aspettare e tutti ad attendere.
Il nuovo re non sarà così, frinivano le foglie al vento. Il nuovo re sarà buono, sarà misericordioso, lui odia la guerra e ama la sua patria. Lui sarà grande, lui sarà re. Lui è Rhaegar Targaryen.
Mio fratello e mio padre morirono per mano di Aegon il Pazzo, insieme alla migliore gioventù dei Sette Regni, aveva decretato Ned Stark davanti ai suoi giovani figli, i riverberi della fiamma sul viso, il dolore di una perdita che non sarebbe mai passato.
La guerra del Re Pazzo iniziò per amore, bisbiglia il popolo insulso. Iniziò per l’amore di uomo e di una donna. Rhaegar Targaryen e Lyanna Stark furono i loro nomi.
Erano belli, implacabili come l’inverno- scricchiola il ghiaccio gagliardo- figli di dei diversi- così bello lui, così immortale nella sua divina presenza, nelle sue dita agili e snelle che dispensano morte e dolcezza al medesmo tempo- e quella giovane donna, frutto di una terra mai piegata, occhi di ghiaccio della Barriera, pelle bianca e lingua svelta, degna regina di un popolo di uomini liberi.
Forse, in un’altra epoca, in un altro tempo, il loro amore sarebbe stato permesso, sussurra tiepido il vento. E al riparo delle fronde degli alberi, nel cuore di una foresta illibata, il principe destinato a regnare e una donna pensarono questo. Forse, rifletterono davvero sull’ironia degli dei. Sul fato che li avevi salvati e condannati insieme, destinati a vedere tutto ciò che amavano sgretolarsi, morire. A causa loro.
Come può l’amore essere portatore di tanta sventura e gioia insieme?
E l’acqua che scrosciava gorgheggiante sulle rive di un torrentello, di certo vide il loro dolore.
Dolore di conoscenza.
Entrambi comprendevano di aver trovato alla fine quella cosa che le vecchie si sussurravano al focolare, le fanciulle sospiravano vane tra le coperte e per cui gli uomini combattevano. E morivano.
Sì, sì, quella cosa dalla parola effimera, irrisoria, masticata e risputata da così tante labbra da risultare incomprensibile e misteriosa.
Amore. Una così ardente, imperiosa, in cui tutto si sgretolava. Dove era l’onore, la pudicizia, il decoro? Dove erano finite quelle virtù così decantate dalle septe in quella tempesta, in quella grandine che distruggeva ogni cosa.
Si erano tutti sbagliati. Lyanna e Rhaegar compresero subito quale odio il loro amore avrebbe generato. E non poterono fare a meno di ridere, una risata che aveva il suono di un cuore che si incrina. Erano destinati a stare insieme, come il vento violento di burrasca e la foresta illibata, il cielo e la terra, il ghiaccio e il fuoco. Cosi perfetti da sembrare reali. Quale reale ostacolo si poteva frapporre fra loro?
Se Rhaegar non fosse stato sposato con Elia Martell, tutto sarebbe andato per il verso giusto, pensava Lyanna. Perché lei non avrebbe mai potuto resistere a quel principe straniero. Ironia, no?
Lei, così superba, cosi del Nord, così derisoria nei confronti del Sud. Oltre l’Incollatura non è più casa, sembrava impresso nel suo genoma di Stark, è pericolo, ottusità, morte. Eppure.
Eppure quel corpo flessuoso, aggraziato, emanavano potenza quelle spalle larghe, che deridevano agili le lance avversarie. Perfino da centinaia di metri, la fanciulla poteva scorgere l’armatura nera del principe. L’avrebbe osservata per lungo tempo, dopo, domandandosi se avrebbe tradito il suo padrone, alla fine di tutto. Possedeva una sua bellezza implacabile, il metallo scuro e perlaceo, intarsiato di rubini splendenti, minacciosi. Era inesorabile. Proprio come lui.
Molte donne avevano visto Rhaegar Targaryen. E nessuna, non col cuore sereno, poteva dire di non aver provato nulla. Rhaegar semplicemente risplendeva. Assorbiva l’aria intorno a sé, la luce, l’oscurità.
Lyanna non avrebbe mai potuto spiegare che cosa fosse. Era tutto.
Era il corpo muscoloso, ma che si muoveva pacato e sicuro, malgrado il peso dell’armatura. Era la sua pelle diafana, che attirava i raggi del sole. I suoi lineamenti, anche, regolari e decisi.
Erano i suoi capelli, così chiari da sembrare argento fuso e risaltavano perfettamente  contro il metallo scuro o i vestiti eleganti, che fasciavano il suo corpo flessuoso.
La sua intelligenza era vivace, guizzava con l’agilità e l’affilatezza di un falco pellegrino. Un cavaliere senza macchia, un poeta malinconico, un abile politico, tutte questi personaggi si alternavano sul viso dell’uomo, che però appariva stranamente controllato. Come un burattinaio che sa quali marionette utilizzare.
Di certo, il suo stesso nome contribuiva alla sua fama. Il principe per antonomasia, ultimo frutto di una casata antica e gloriosa – fuoco e sangue ruggiva l’araldo dalle tribune- ma ormai sterile. Rhaegar non era soltanto un uomo, erede dei draghi, che pur nella sua spaventosa grandezza, era concepibile.
 Il principe del Drago era un concetto, un emozione, il gigantesco sospiro di un continente che bramava solo speranza.
Con lui tutto sarebbe risorto, nuova luce avrebbe scorso nella decadente sala del trono, riempita di teschi di drago, come un monito. Un segreto da mostrare con orgoglio e nello stesso tempo da nascondere.
I Targaryen non avevano più draghi.
I discendenti di Aegon il Conquistatore, colui che aveva forgiato il Trono con la fiamma di Baelor, si erano trovati orfani del loro potere. Come dei tiranni illuminati, che si accorgono in un lampo di aver perso la loro arma più preziosa, si affannavano a ricercarla ovunque, cercando nel contempo di mostrarsi ancora più potenti.
Erano morti così tanti uomini, per il fuoco, sotto il regno di Aegon il Pazzo.
Rhaegar rappresentava il cambiamento, la ragione, la potenza di un miracolo. Il popolino lo amava, lo venerava come un dio che finalmente aveva deciso di venire in terra. Tutti si permettevano di sognare, quando lo vedevano incedere nella sala del trono: draghi.
Ero troppo vero. Rhaegar assommava in sé le paure di una casta sull’orlo della distruzione e il sogno di un intero popolo, che poteva facilmente tramutarsi in odio.
E quel che è peggio, lui ne sembrava pienamente consapevole.  
Le labbra erano carnose, piegate in una ruga malinconica, che si poteva scambiare per uno sbuffo di ironia.
Ma quello che colpiva di più gli astanti, ancora più del suo potere, della sua storia, erano i suoi occhi.
Non aveva mai visto degli occhi così. Erano diversi da quelli di Ned, sicuri e grigi, o di Robert, verde smeraldo, che eppure entrambi incantavano. 
Erano viola. Delle scaglie di ametista mischiata alla pervinca dei monti.
Ti risucchiavano in un mondo senza fine, un vortice di incantata eternità. Si poteva scorgere la purezza dei torrenti di montagna e la brillantezza dei fiori di campo, mischiato ad una inossidabile affilatezza.
 Lyanna aveva provato una breve stilla di rabbia. Come faceva quel principe venuto dal Sud a sapere del suo mondo e delle sue bellezze? Perché riusciva a scorgere in quello specchio i bagliori di vita della Barriera? Era forse un libro aperto per quel cavaliere, che continuava a fissarla e a fissarla.
Tuttavia, nonostante la loro incantevole bellezza, quegli occhi emanavano una tristezza taciuta, senza nome, come una fiera rinchiusa in gabbia per troppo tempo, assetata di libertà. Quasi che sapessero già il loro destino.
Non abbassava mai lo sguardo, lo teneva fisso sugli astanti, quasi a sfidarli. Raramente il suo interlocutore si ricordava che lui aveva solo visto 24 anni succedersi l’uno all’altro. Erano sempre gli altri a scansarsi alla fine, che fossero donne o uomini, grandi lord o cavalieri. E sempre con un brivido nascosto, come la preda che carpisce la presenza del cacciatore.
Lyanna non riusciva a staccarsi da quello sguardo, misterioso, tentatore. Non poteva. Non voleva. Il suo spirito fiero di Stark glielo imponeva. La sua volontà lo comandava.
Incantati l’uno dall’altro, non riuscivano a smettere di fissarsi.
Fu naturale per lui fermarsi. Doveva guardare ancora quegli occhi freddi e duri, spietati, che non vacillavano, ma al contrario, lo scrutavano sicuri e canzonatori.
 Poi avvenne. Che cosa? Il tutto, l’irreparabile, in cui il cuore di entrambi pulsarono della stessa emozione.
Sarebbero state inutile le scenate di Ned o di Elia. Era successo e niente sarebbe più stato come prima.
Perché Rhaegar era sposato, con la sorella di uno degli uomini più potenti dei Sette Regni. Perché Lyanna era promessa a un altro. Perché semplicemente così doveva accadere.
Lyanna amava quegli occhi, li ricercava ogni qual volta la sua volontà vacillasse, il suo cuore fremesse. Aveva sperato fino all’ultimo che suo figlio avesse gli occhi di suo padre. Padre che non avrebbe mai conosciuto.
Di lui, del suo pensiero, della sue gesta, sarebbero rimasti solo loro, un frammento di ghiaccio e fuoco.
Quegli stessi occhi con cui ora Jon vedeva, capiva, piangeva. Che sarebbero stati la sua salvezza e condanna insieme.
Jon Snow non avrebbe mai avuto una famiglia. Questa gli era stata strappata via.
Non aveva mai avuto una madre che lo chiamasse figlio. Ma fino ad allora aveva avuto il conforto di un padre.
In realtà lui non sapeva chi fosse suo padre. Ned Stark, che gli aveva sempre mentito- per proteggerlo dalla verità di sé stesso- oppure un principe lontano di cui non sapeva nulla, a cui non aveva mai chiesto nulla?  
Era solo, solo perché non avrebbe mai capito il suo senso di colpa.
Essere il frutto dell’Eden di ogni guerra e morte, colpevole solamente di esistere.
Lo distruggeva. Da dentro. Sentiva una bestia che lo lacerava con artigli di veleno. Come avrebbe potuto guardare suo padre o suo zio, negli occhi?
Oh sì, occhi. Dannati occhi!
Jon non sapeva dove stesse andando, le gambe che lo conducevano via da quel posto maledetto. Le segrete di Grande Inverno, in cui lui e Jon avevano così tante volte giocato. Avrebbe mai potuto rientrarci?
Ad un certo punto del suo peregrinare, il ragazzo cadde malamente.
L’urto con il terreno freddo fu folgorante. Un momento prima era in un mare di nero e dopo aveva sentito il suo corpo volare, fino al contatto con l’erba. Riusciva a vedere i singoli fili di erba, le zolle che lui aveva disossato, insieme al suo respiro che si condensava nell’aria fredda. Faceva freddo. Ma, Jon, in mezzo all’intricarsi compulsivo del suo cervello, sapeva solo che il freddo era buono. Voleva rimanere immobile per sempre. Scomparire.
Gli ci volle qualche minuto per notare la presenza di un laghetto, poche spanne più in là.
Si trovava nel parco degli Dei. Solo allora si accorse che quello era l’unico vero posto dove voleva trovarsi. Non a chiedere spiegazioni o a disperarsi. Non voleva vedere gli occhi azzurri di Robb che lo fissavano stupiti e addolorati. Volevo solo questo. Rimanere immobile.
Rimase così per molto tempo finché Michae lo vide.
Michae aveva visto passare molti inverni dietro di sé, ben più di Rhaegar Targaryen ai suoi tempi.
Non aveva mai parlato direttamente con Jon, ma sapeva chi era.
Tutti lo sapevano.
Tutta la popolazione del Nord, e almeno buona parte del resto dei Sette Regni, stavano aspettando solo che Ned Stark, momentaneamente accecato dall’amore per la sorella defunta, si decidesse a spiegare tutto al ragazzo. O che qualcuno, provvisto di maggiore perspicacia, facesse le sue veci.
Non che i sudditi di Ned Stark disubbidissero ai suoi ordini.
Eddard era un brav’uomo che rispettava la sua terra e i suoi abitanti e quest’ultimi facevano altrettanto. Non avrebbero mai disubbidito ad un ordine esplicito del loro Lord, sancito inoltre da una riunione plenaria tra tutti i suoi alfieri scampati alla guerra.
Ciò non toglieva che non fossero d’accordo. Un po’ come una moglie assai saggia, che annuisce al marito, ma nel mentre prepara le provviste per la tempesta e i “te l’avevo detto” a disastro avvenuto.
L’unico non senziente in questa piroetta politica era proprio l’interessato, come spesso accade.
 E Jon ora ne stava pagando tutte le conseguenze .
L’uomo, dalla folta barba rossa, prese il ragazzo per le spalle e lo girò fissandolo, non senza soddisfazione. Aveva visto Lyanna Stark crescere davanti a lui e la sua figlia minore le aveva fatto da damigella.
Jon poteva anche apparire bello ad un occhio oggettivo, ma non era queste le caratteristiche ricercate dal fabbro. Fissò amorevole il naso dritto e fiero, il mento appuntito, la pelle bianca e diafana contro i capelli scuri e ricci. Le sue labbra. L’uomo sorrise. Jon aveva le labbra di sua madre. Il labbro inferiore più grosso rispetto a quello superiore, la pelle rosea e tenera.
“ So che nessuno ti ha mai detto niente.” L’uomo sussurrò al ragazzo. “ E non saprai mai tutta la verità.
Ti diranno molte menzogne, ragazzo. Non li ascoltare. Girano tante leggende. Tutti ne parlano.
Ma io sono sicuro di una cosa: i tuoi genitori si amavano. Li ho vista sai? Ho visto i loro brillare l’uno dell’altro. E tu sei il frutto del loro amore, non te lo scordare.
Sei un miracolo. Tu sei colui che aspettavamo da tanto tempo, figliolo. Tu sei il figlio del Nord e noi non permetteremo mai che qualcuno ti faccia del male. Ti aspettavamo da così tanto tempo.”
Jon non lo sentì, non percepì il tremolio delle mani grande e nodose mentre lo alzavano delicatamente da terra. Non sentì nemmeno lo stormire delle fronde dell’albero diga, che parevano chiamarlo, la grande bocca protesa. Michae si fermò a fissarlo, conscio di quello che stava avvenendo.
Ma nonostante il lamento disperato di Lyanna, l’albero diga rimase muto, in silenzio.
Nessuno avrebbe mai raccontato questa storia a loro figlio.
E Lyanna Stark e Rhaegar Targaryen, in qualche angolo remoto di pace, piansero.   




Mi dovreste amare solo perchè sono riuscita col dito rotto. Se trovate errori di scrittura, probabile, è a causa del gesso, per cui avvertitemi e io provvederò. Mi dispiace solo di avervi fatto aspettare così tanto. Scusatemi enormemente!

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Capitolo 6
*** Gli Uomini del Nord ***


Capitolo VI - momento, siamo già al sesto?
Titolo completo, ma troppo lungo: Il perchè gli Uomini del Nord sono Uomini del Nord e l'abbraccio di un padre a un figlio.
 
 
 
 
Jon rimase addormentato per diversi giorni, a metà tra l’incoscienza e la dolorosa consapevolezza di essere, sfinito e sconfitto, così tragicamente solo nell’enormità del letto.
 E durante quel breve arco di tempo, tutti gli abitanti delle fortezza vennero a vederlo.
Chi a gruppi, subito rimbrottati da Michae, chi alla spicciolata, badando bene a non farsi vedere. Le madri portavano i figli, indicando il naso aquilino e fiero, le labbra disegnate mentre gli uomini si ritiravano in un angolo della piccola casa, stringendosi, le ombre delle fiamme sul viso. Ognuno aveva portato qualcosa, un salame, una pelliccia in cambio dell’ospitalità del fabbro, che senza nemmeno salutare, apriva la porta e invitava ad entrare.
Era una piccola città, Grande Inverno. Formata principalmente solo dagli inservienti e dalle famiglie delle guardie. I vecchi posavano le armi per consegnarle a quegli stessi poppanti che avevano visto ruzzolare per la strada pochi anni prima.
Difficile davvero provare timore per uno, quando lo avevi visto correre nudo per le strade gelate, le natiche sporche esposte al vento e allo scherno.
Si conoscevano tutti, dalle vecchie baggiane che una volta erano giovani fino ai parenti di qualche città degli Umber. Sapevano quando il vicino aveva la cagarella o quante volte il marito tradisse la moglie.
Le donne fingevano di scandalizzarsi al sentire queste notizie.
In realtà, non vi era nulla di nuovo, sotto il sole d’inverno.
 
Strana gente, quella del Nord. Interessante assai.
Il clima gelido aveva insegnato loro l’umiltà e la fierezza insieme. Certuni li avrebbero definiti superbi. E lo erano, a onor del vero.
Non si legavano a vuoti giuramenti, prorompenti grida di potenza, ad armature fredde e imporporate. I titoli nobiliari sono utili quanto i capezzoli sull’armatura davanti a un bruto inferocito.
Perché tra la morte e la vita, c’era proprio l’uomo. Uomo vero, spogliato impietosamente dalle proprie bugie e gettato in un mondo in perpetua e magnifica lotta.
Quando sei solo, in un solitudine così densa e pesante da poterla sfiorare, quando il tuo unico obbiettivo è la sopravvivenza stessa, il mondo degli uomini, con le loro leggi e istituzioni, non vale più nulla.
Niente.
E dopo, quando potevi concederti il lusso della vita, riemergevi come un sopravvissuto dalle tenebre. Divieni un estraneo, il salvato per la gente e la gente si trasformava negli altri, negli stranieri, negli sciocchi uomini che ancora si cullano nella loro stupidità.
 Perché non potevi guardare le cose con gli stessi occhi. Tutto assumeva un significato diverso.
 
Il mondo ha il colore dei nostri occhi.
E gli occhi del Nord erano affilati e arrochiti da mille battaglie, fieri e silenziosi.
Erano accusati di essere incivili, dei selvaggi, dei bruti come gli abitanti della Barriera.
Perché pensavano con la loro testa, perché non si piegavano di fronte al passaggio di un solo uomo.
Perché erano liberi.
Accettavano di farsi governare da dei signori, di cui gli Stark erano personificazione.
Erano come loro, li consideravano come loro.
I figli degli Stark si allenavano accanto ai figli delle guardie, dei contadini e le lady del castello scendevano nelle piazze della gente. Erano tutti discendenti dei Primi Uomini e tutti, dai Lord ai piccoli servi, si piegavano alle stesse leggi, adoravano gli stessi valori e dei.
Gli Stark erano l’emblema stesso del Nord.
Non erano soltanto una casata o i rappresentanti del potere regio, tanto meno. La sovranità, il reame, la corona, tutti del Sud, tutti concetti estranei alla loro vita.
Loro non erano soltanto amati dalla gente, erano rispettati.
Rispetto, nozione così complicata e densa insieme.
L’amore è diverso dal rispetto. Può implicare gelosia, odio, indecisione. È un sentimento così mellifluo e mutabile. Non a caso, può generare odio.
Il rispetto, la stima reciproca si basa sulla consapevolezza dei proprio meriti, delle virtù, dei limiti. La devozione non si può giurare in una sala regia, sulla lama di una spada. Come può un alfiere essere leale nei confronti di un re lontano?
Il rispetto non si giura, non è un concetto teorico, una qualità innata o da acquistare col tempo.
Il rispetto si guadagna, con i proprio sacrifici, con le proprie lacrime e stille di sudore. Si spilla dalle decisioni difficile e aspre, che non accontenteranno mai tutti, dalle battaglia impossibili e condotte per amore. Si assomma alla paura, perché il rispetto è anche sinonimo di timore.
Questa era la differenza sostanziale tra qualsiasi casata e gli Stark. I discendenti dei Primi Uomini rispettavano i loro uomini, la loro terra.
Il Nord, nella sua sterminata prateria di animali e boschi, animato da elementi contrastanti da sembrare sentimenti, pareva una creatura viva. E lo era. Nessun uomo del Nord lo dubitava.
La rispettavano, ammirandone la bellezza intrinseca, la vastità, la grandezza; consci di essere figli di quella terra spietata e fatale. Bellissima.        
E ne avevano anche paura.
 
Gente implacabile e fiera, quella del Nord.
Silenziosa. Quasi che il freddo avesse insegnato loro a tenersi dentro quel calore sprecato, ponderare, assicurarsi, utilizzare il potere inafferrabile delle parole.
E poi colpire. Con onore, non indietreggiando mai. Ma distruggendo il nemico, non lasciandone nulla, nulla per cui rialzarsi, per tornare dal regno dei morti. I morti non hanno motivo per vendicarsi, i vivi sì.
Onore, altro grande frammento di un concetto così complesso. L’amore e la famiglia.
Quegli uomini e quelle donne avevano capito. Valar Morghulis.
Tutti gli uomini devono morire. E dopo, dopo, non c’è differenza tra re e ciabattini, grandi cavalieri e contadini. Tutti nel medesimo stampo, pressati nella stessa fornace.
Conta solo quello che hai fatto in vita. E ti accorgi che tutti i tuoi sogni di gloria, di destino, di eroi, sono vani. Non a confronto dell’amore di una donna. O dell’amicizia. Della lealtà, del rispetto, dell’onore.
Erano questi i grandi valori inculcati nelle testolina dei nuovi nati.
L’eternità non è un nulla. È meno di un soffio di vento autunnale. I re, gli eroi vanno e vengono.
Si ha solo una vita da vivere. Meglio viverla da uomini veri, allora, non animali famelici di gloria e immortalità.
 
Gente strana, quella del Nord.
Gente strana, gli Stark, che come uno specchio riflettevano la loro gente.
Strani i loro Lord, che per il bene della loro gente, erano disposti a immolarsi.
Che cos’è una misera vita a dispetto della felicità dei bambini, della fertilità dei campi, della pace di una terra?
Implacabili e fieri, forti e onorevoli e sì, anche sentimentali, gli Stark. Per questo erano amati, per questo erano rispettati. Per questo le loro piccoli peripezie quotidiane e le grandi gesta venivano seguite con trepidazione da ogni uomo e donna del Nord.
Avevano amato Brandon Stark che con la sua voce roboante si allenava coi loro figli, prendeva le loro figlie.  Avevano rispettato Ned Stark, uomo giusto, senza il carisma del fratello, ma che amava lo stesso la sua terra.
Ma per Lyanna era stato diverso. Brandon erano un ubriacone e ipocrita, Ned uomo troppo solitario e freddo per mettersi davvero in contatto con la sua gente. Erano uomini, dopo tutto.
Lyanna invece era una dea. Quasi il simbolo stesso del Nord, nella sua anima più fiera e primitiva.
L’avevano amata, sentimento così fulmineo e letale, con le sua risate adamantina e la lingua affilata e sibilante.
Quella ragazza dai capelli scuri e dagli occhi di ghiaccio si era conquistata, col sudore della fronte, con le mani di lady scorticate dal freddo, il loro rispetto.
Ovunque il suo nome era pronunciato con venerazione, ogni uomo e ogni donna credevano in lei, partecipavano alle sue emozioni. Era impossibile non rimanerne incantati, non essere orgogliosi se quella ragazza, se quella donna libera non volesse piegarsi ad uno stupido uomo del Sud.
Orgoglio, sì, gli uomini del Nord, erano orgogliosi della loro lady. E dopo tutto, non rimasero così sorpresi quando riuscì ad conquistare il cuore del principe Targaryen. Chi poteva resisterle?
Giudicavano quasi … naturale, che la legittima moglie del principe, madre dell’erede al trono, fosse spodestata per sua mano. D’altronde un grande re non meritava una grande regina?
Piansero indignati per la morte di Brandon, per l’inizio della guerra che avrebbe strappato loro le vite dei fratelli, dei figli, delle madri e dei padri.
Non piansero quando il corvo nero recò quella notizia. Lyanna.
Rimasero immobili, il viso scavato dalla fame e dal freddo. Non era soltanto una morte che si aggiungeva ad altri morti, no.
Era la morte di un simbolo. Di una speranza. Come se il simbolo vivente del Nord fosse spezzato. Provarono odio verso quegli invasori, verso quella gente del Sud, vili bastardi, che infangavano ciò che c’era di più sacro, la vita. Giurarono sui corpi frementi di sangue e di morte vendetta, la più truce, la più fredda, recata dal vento gelido che sibilava :”Inverno”. Sì, l’Inverno.
L’inverno sta arrivando, era il motto degli Stark. L’Inverno era implacabile come la morte che recava. L’Inverno era eterno. L’Inverno ricordava.
Sapevano attendere gli uomini del Nord. In silenzio, covando il proprio dolore all’interno dell’animo, nutrendolo con le visioni del sangue e dell’orrore,  delle morti e del dolore.
Erano in grado di provare vendetta per anni e anni, gli Uomini del Nord. Per questo non si erano alzati in ovazioni di tripudio al passaggio del re. Anche se sulla carta, Ned Stark era il più fedele vassallo di Robert, nessuno aveva dimenticato.
Gli Uomini del Nord erano ancora in guerra. Provavano ancora rancore per quegli invasori, indegni portatori di corone e allori, che avevano causato la morte dei loro cari. Disprezzavano fermamente quegli uomini e donne deboli, incapaci di sopravvivere senza la servitù, vermi striscianti nel sottosuolo.
Li odiavano. Odio feroce e malsano, gelido come le pareti della Barriera.    
 
Forse fu per tutto questo, per l’amore che tutti serbavano nella figura, ormai leggendaria, di Lyanna, forse per l’animo più profondo degli Uomini del Nord, che Jon sopravvisse.
Tutti sapevano chi fosse. Sebbene il loro Lord tentasse di mantenere tutto segreto, chiunque possedesse un cervello, e gli Uomini del Nord lo avevano, questo era certo, poteva fare due più due.
Anche se la maggior parte della popolazione era analfabeta. Si prendeva i capelli scuri e il naso aquilino, si sommavano le circostanza misteriose della morte di Lyanna, si suddivideva per il suo amore per Rhaegar Targaryen, ed ecco. Ecco.
Ecco Jon Stark, o Targaryen, a seconda dei punti di vista. Perché i suoi occhi viola, nonostante fossero la prova più impellente, caratteristica fisica più unica che rara, emblema stesso della casa Targaryen, non erano l’aspetto più importante per loro. Era vero, Jon era figlio di Rhaegar Targaryen, ma soprattutto di Lyanna.
Sfortunatamente, quello che per gli Uomini del Nord rappresentava un elemento trascurabile, per il resto dei Sei Regni era di importanza fondamentale.
I Targaryen non erano morti. Non tutti, almeno. Era sfuggito l’ultimo nato il più importante. L’erede al trono di un intero continente, frutto dell’amore impossibile del favoloso principe del drago, Rhaegar Targaryen, e la leggendaria Lyanna Stark. Due eroi, due leggende, due personaggi con un consenso strabiliante. E loro figlio. Il mitico bambino dagli occhi viola.
Le leggende avevano seguito il cavalcare incessante di Ned Stark verso Nord, verso la salvezza della propria casa. Verso un posto sicuro dove nascondere il bambino.
Neonato, che appena venuto al mondo rappresentava un pericolo vivente per la maggior parte del Lord e delle Lady del Concilio Ristretto. Neonato che era cresciuto fino a diventare bambino.
Il bambino che scorrazzava felice per le strade di Grande Inverno e che la sua gente aveva protetto con tutte le forze. Non bisogna pensare che Re Robert, nella sua infinita lungimiranza, o i Lannister non avessero tentato di ucciderlo, al contrario. Ma se centinaia di sicari vennero inviati a infrangersi sulle mura di Grande Inverno, altrettante teste venivano riportate al mittente.
Non avrebbero permesso. Ben pochi avevano avuto l’onore  di conoscere di persona Jon, ma tutti conoscevano il suo nome. I suoi occhi di ghiaccio e di fuoco.
Credevano in lui. Nel suo piccolo corpo venivano profuse speranze per ogni angolo dei Sette Regni. Da Dorne alle montagne degli Arryn, dall’Altopiano fiorito fino al Tridente insanguinato il suo nome si diffondeva. Era il nome della speranza, di un futuro migliore.
Tutte le forze che sembravano essersi assopite con la morte dei due amanti risorsero nel loro splendore. Venivano inviati doni, messaggeri, ambasciatori. Mai Grande Inverno era stato fuoco di un turbinare di simile relazioni. Il principe di Dorne inviò perfino una compagnia di guerrieri dorniani scelti, che con le loro lunghe lance, avrebbero difeso il piccolo.
E il bambino si fece ragazzo. E le voci crebbero sempre più, la leggenda si nutrì della sua stessa linfa. Se fino ad allora il Re, conscio delle perdite subite durante la guerra e della necessità di una pace, aveva deciso di non intervenire, le sue richieste si fecero sempre più pressanti.  Ma Ned Stark rimase impenetrabile come la Barriera, sordo alle minacce di Approdo del Re.
 
E ora, finalmente, il ragazzo era diventato uomo.
Michae lo sapeva, come lo sapevano tutti ormai. La voce si diffondeva e la storia di Jon Targaryen, figlio di Lyanna Stark e del principe del drago, stava per iniziare.
Il fabbro si avvicinò calmo al pagliericcio, fissando un ultima volta il viso del suo Lord. Del suo re.
 Lo avevano difeso dai sicari e dalla guardie dei Lannister per tre lunghe notti, ma alla fine sarebbero riusciti a scoprire, malgrado la freddezza degli abitanti. Nessuno lo avrebbe mai tradito.
“ è tempo di svegliarsi, ragazzo. Non c’è più tempo. È ora di tornare a casa.”  Gli occhi viola, magnetici, si aprirono per un lungo istante, prima di richiudersi.“ Non ho più una casa.” Jon ingoiò aria, prima di concedersi un lungo sospiro. Anche respirare era diventato doloroso.
“ Grande Inverno è la tua casa, figliolo. Gli Stark la tua famiglia.” Proruppe calmo il fabbro.
“ No … io … non ho più una casa, una famiglia … io non l’ho mai avuta.” Sussurrò tremando Jon, cercando di controllare il tono della voce, inutilmente. La verità di quell’affermazione lo stordiva.
“ Non comportarti da stupido, piccolo. Non lo sei. Ti vedo scorrazzare per le strade da quando sai camminare. Tu hai una famiglia ed lì, lì ad aspettarti nel castello. A preoccuparsi per te. Tu avrai sempre una famiglia, Jon. Sono i fratelli con cui sei cresciuto e che tu chiamerai sempre fratelli, perché è questo sono. Sono le sorelle inviperite che ti svegliano presto la mattina, che ti cercano nelle notti di tempesta.  È un padre che ti amato a tal punto da nasconderti la verità, non facendo trapelare nulla dal suo cuore per quindici anni. Saranno sempre la tua famiglia, l’unica di cui ti potrai mai fidare. Saranno la tua casa, il tuo rifugio, il branco che ti ha sempre protetto e ti proteggerà fino a che avranno vita. Non gli importerà mai il tuo cognome. Solo chi sei veramente. Perché tu nel tuo cuore sarai sempre uno Stark” Michae toccò il braccio del ragazzo che rimase immobile ad occhi chiusi. Non voleva che quel brav’uomo vedesse le sue lacrime.
“ Non avrò mai una madre.” Mormorò sconfitto. In cuor suo Jon aveva sempre sperato in sua madre. Nella tranquillità delle suo coperte immaginava una donna bella e buona, dai capelli lunghi, che fremeva di dolore al pensiero del suo bambino, strappatole alla nascita. Sognava che un giorno suo padre gli avrebbe finalmente raccontato la verità. E allora sarebbe corso da quella donna, finalmente non più solo, finalmente non più bastardo, non voluto, abbandonato. Ci aveva sperato, fantasticato tante di quelle notti di bambino.
Ora tutto si frantumava. Nessuno sarebbe venuto a cercarlo, gettandogli le braccia al collo. Sua madre era morta. Morta.
“ Vai.” Michae toccò nuovamente il braccio del ragazzo, che questa volta si mosse. Rimase seduto per qualche secondo, prima di alzare lo sguardo sull’uomo. Non pronunciò una parola, bastavano i suoi occhi magnetici.
Grazie.
Il ragazzo prese il mantello graziosamente risposto sulla cassapanca e si gettò nell’abbraccio freddo del vento invernale, fuori dalla porta.
Michae sospirò. Non l’avrebbe visto mai più.
 
Il Lord di Grande Inverno sedeva sulla sua sedia in legno di quercia, fissando le carte sparse sul tavolo davanti a lui. La luce delle candele gettava dei lugubri bagliori sul viso incavato del vecchio. Già, vecchio. Ned Stark era invecchiato di tutti i quindici anni precedenti in quei tre giorni di pazzia. Tutto il castello di carte che aveva creato si era frantumato al suolo sulla persona a cui teneva di più e che aveva meno colpa in quella storia. Jon. Ned Stark tormentò a lungo i suoi capelli scuri, venati di grigio.
Quel maledetto giorno. Prometti, Ned, prometti. E lui aveva promesso, giurando su quello che aveva più caro al mondo, il corpo della sua sorellina. La testa bruna di un neonato, ancora venata di sangue.
Aveva fatto tutto il possibile e l’impossibile, per proteggerlo, anche da se stesso.
Non gli erano mai importate le vuote missive del reame o furiosi rimbrotti di sua moglie. Ad un tratto la voce di lady Catelyn bucò il silenzio della sua mente, non doveva fare fatica per ricordare un monito ripetuto per anni.
“ Stai mettendo a rischio la vita dei nostri figli, Ned! Dei nostri figli, dei miei, dei tuoi figli! Ricordarti quanto sangue è corso per questa guerra, quante violenze e dolore. Hai dimenticato? I Targaryen hanno ucciso tuo padre e tuo fratello! E tu disonori la loro memoria, allevando sotto le stesso tetto un bastardo Targaryen. Il re non rimarrà fermo per sempre, muoverà guerra e verrà a prenderlo. E cosa troverà? La giustizia del re trapasserà i corpi di Robb e Sansa e dei nostri figli, prima di arrivare a lui. Mio signore, non mettere in pericolo un intero regno per un neonato.”   
E la sua risposta era rimasta sempre la stessa, invariata in anno in anno.
“ è il figlio di mia sorella. È mio nipote.” E quella risposta più che recidere sul nascere le urla, le alimentava sempre più e crescevano e crescevano.
Nonostante le loro furiose litigata, sempre a senso unico tra l’altro, Catelyn non aveva mai osato insultare la memoria di Lyanna. Non poteva. Non doveva.
Come un patto segreto sancito dal matrimonio, ognuno sapeva gli argomenti proibiti, indelebilmente incisi nell’anima del compagno. E così, senza che Eddard se ne accorgesse, l’odio della moglie cresceva, eruttando sempre sulla stessa persona. Quel neonato.
Quel neonato che era diventato bambino e da bambino si era fatta ragazzo e ora il ragazzo era stato ucciso, per fare uscire l’uomo.
Ned non riconobbe a stento Jon, la sua ombra felina dardeggiata sulle pareti di legno. Non avrebbe saputo dire come fosse entrato o avesse eluso le guardie all’ingresso, l’esercito di servi che lo cercavano in ogni dove, il manipolo di sicari di Cersei.  Ma in fondo non gli importava. L’importante è che fosse ritornato a casa.
Jon si avvicinò piano, come un cane che teme di essere scacciato dal padrone. La pupilla dilatata per la febbre scorse sulla figura dell’uomo.
Per un momento regnò il silenzio. Fu il padre ad avvicinarsi per primo, percorrendo quei due passi, velocemente, macinandoli, la braccia protese verso quel figlio tanto amato.
Jon rispose all’abbraccio stringendolo forte. Ned si domandò da quanto tempo fosse diventato così alto, i capelli scuri che gli solleticavano l’orecchio. Non gli importava.
I due rimasero così per un secondo che sapeva tanto di eternità, ascoltando l’uno il cuore dell’altro, beandosi di quel contatto contraccambiato.
La voce spezzata e commossa di Ned ruppe il silenzio: “ Ben tornato a casa, figlio mio.”
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo in cui si scopre che non tutti sono felici ***


Cersei Lannister fissava furiosa le guglie di Grande Inverno, cercando quasi di incenerire quelle piccole formichine operose, quei piccoli insetti che brulicavano sul cadavere in decomposizione.
La donna, la regina del reame sentiva quel lezzo sprigionarsi in ogni dove. Era un odore greve, nauseabondo che si alzava dalle baracche dei contadini, permeava le strade delle città, le stanze e gli stessi uomini che vi sopravvivevano. Lo stesso cibo, che loro chiamavano ipocritamente libagioni, sprigionava il puzzo, un odore rivoltante.
Si infiltrava in ogni risvolto delle vesti, dei mantelli, dei capelli. I suoi capelli!
La fluente cascata di capelli d’oro, come gli scrigni di Castel Granito, decantanti in odi e sonetti, era appassita, trasformandosi in un pavido rigagnolo di acqua torbida.
Furiosa era un eufemismo, un piccolo e inutile aggettivo per descrivere la bestia nera come l’inferno che si agitavano nel ventre snello di Cersei Lannister.
Non le erano bastate le continue attenzioni di suo fratello durante la notte passata né le coltri di pellicce a ricoprirli. Quel tanfo era arrivato anche lì.
E sapeva anche che nome conferire a quel putrido ammasso di foruncoli, sì. Era l’odore del tradimento.
Questo aveva urlato con tutta la forza dei suoi polmoni di leonessa davanti al suo regale marito, Robert Baratheon, primo del suo nome.  Il grande Robert Baratheon, il vincitore di Rhaegar Targaryen nella battaglia del Tridente. Rhaegar.
Robert non valeva nemmeno i capelli di Rhagar, non meritava nemmeno di baciare i suoi piedi.
Cersei ricordava bene i capelli d’argento del principe del drago. Ancora dopo quindici anni, nella profondità della notte, riusciva a vedere quegli occhi di malva sfiorare il suo volto.
Cersei, stizzita, si allontanò con uno scatto dalla finestra, non badando al corpo abbandonato sul letto.
Tutto ciò che era suo, tutto ciò che doveva essere suo, glielo aveva portato via! Quell’ammasso di lardo vivente con un corona sopra il grugno non doveva neanche nascere.
Eppure con la sua semplice esistenza aveva distrutto la sua. Sradicato come una tempesta il suo matrimonio, la sua vita felice con l’uomo che amava. Rhaegar Targaryen non era soltanto un uomo, ma un dio. Una divinità così perfetta da ferire gli occhi degli astanti.
 E Cersei, come quegli occhi viola, splendenti nella loro essenza, si erano posati sul suo volto, aveva capito.
Sarebbe stata sua, perché il futuro re dei Sette Regni, meritava una degna regina al suo fianco. E chi meglio di lei? Più bella dei suoi capelli d’oro, più astuta della figlia di Tywin Lannister, più ricca dell’erede di Castel Granito. 
Lei sarebbe stata regina. Era un ragionamento perfetto, calmo e fluente, maestoso. Non poteva essere altrimenti. Per mille motivi o forse per uno soltanto: Tywin Lannister manteneva sempre la parola data. E lui aveva promesso.
Cersei sapeva quale glorioso destino la aspettasse. Regina dell’intero continente. Moglie di un re, di un dio. Madre. Sì, madre. Cersei era più che disposta a diventare madre per i figli di Rhaegar.
Il leone e il drago, Cersei e Rhaegar.
E in breve, si era fatta trasportare dallo sciocco difetto che accomuna ogni donna: aveva sognato. Immaginato il momento esatto in cui il mantello di Rhaegar si fosse adagiato lieve sulle sue spalle e il sorriso del principe, i suoi occhi, i suoi capelli.
Aveva costruito nella sua mente la perfetta riproduzione del corteo nuziale: i cori, le feste, le battute salaci e piccanti, al cui proferire le sue guance si sarebbero tinte di porpora mentre la mano di Rhaegar sarebbe corso a confortarla, protettivo verso la sua cucciola.
Veduto con i suoi stessi occhi i suoi, i loro figli gattonare sul marmo bianco e stringersi al suo seno. I capelli biondi misciti a quegli occhi maledetti.
E la corona sì, anche la corona, posata sul suo capo. Compiuta nel suo potere, splendida nella regalità dei draghi.
La corona. L’unica profezia che i suoi occhi verdi avevano visto compiersi. Eccola lì, la colpevole, derelitta testimone di quanto la sua vita fosse andata storta. Lì, posata sul cuscino di broccato.
Cersei la odiava e l’amava poiché emblema del suo successo e del suo fallimento insieme.
Doveva andare così, era naturale, maledizione!
La regina emise un urlo strozzato prima di accasciarsi su una sedia accanto al fuoco.
Malgrado Cersei Lannister covasse molto odio, ciò è indubbio, non era tutto rivolto verso un'unica persona. Non era così egoista da non dispensare il proprio disprezzo a tutti gli attori della farsa che era stata la sua vita negli ultimi quindici anni.
Tutto era incominciato con quel re pazzo che aveva dovuto rovinare tutto, rifiutandola e ,ciò che più era odioso, invitare una puttana dorniana nel talamo dei draghi.
Per non parlare del sua amato marito, la cui persona sarebbe stata meglio rappresentata da  un maiale.  Aveva distrutto tutto, aveva ucciso Rhaegar, il suo futuro. E anche la sua speranza, la sua gioia la prima notte di nozze. Sì, aveva anche ucciso lei, aveva strappato via tutto ciò che vi era di buono lasciando solo il vuoto.
L’unico sentimento che la donna provava per l’uomo che molti sciocchi chiamavano re era proprio il disprezzo. La convivenza di quindici anni di matrimonio avevano solo contribuito ad accrescerlo.
Più gli stata accanto e più erano lampanti i suoi difetti, le sue colpe, il suo essere più torbido e vile, esattamente come il luogo dove si era voluto recare.
Quando Re Robert si era presentato al Concilio Ristretto proclamando che sarebbero partiti per il Nord, ogni singolo membro tirò un sospiro di sollievo, ringraziando non si sa bene quali dei per quella rara perturbazione di intelligenza, capitata al sovrano.
Per un attimo Cersei si era dovuta ricredere, non era completamente un inetto.
Certo, aspettare che il figlio del proprio nemico giurato crescesse fino a diventare adulto, mentre metà del regno minacciava di giurare fedeltà a quest’ultimo, non era proprio una manifestazione di furbizia. Meglio tardi che mai, si era detta.
E invece, no. Al posto del tumore cadenzato del truppe in marce e il gorgheggio delle trombe, queste erano le uniche canzoni che Ned Stark si meritasse, Robert inviava una missiva di pace.
Pace!
La donna non riusciva a capire per quale motivo, dopo quindici anni di facezia e immobilità, Robert si fosse svegliato. Come un bambino aveva dimenticato gli anni passati per accorrere dalla donna amata.
Sì, anche Lyanna Stark meritava un posto speciale nel personale inferno di Cersei.
 Inizialmente aveva provato un misto di curiosità e fastidio per quella ragazza. Circolavano molte voci e tante ne sarebbero in seguito circolate su quella donna del Nord e Rhaegar Targaryen.
Pensò che il principe, ingiustamente accusato dal padre incapace, si fosse buttato fra le braccia della prima sgualdrina, pronta ad approfittare di quella creature dell’Eden scesa dal cielo. Un folata di vento, una piccola sbandata nel rettilineo percorso del suo principe. Come biasimarlo, inoltre?
Solo, braccato dal padre e con una moglie come Elia di Dorne. Era quasi naturale, uomini inferiori sarebbero già caduti. Questi erano stati più o meno i suoi pensieri.
Solo dopo, il disturbo si trasformò in astio e dopo ancora in odio.
Odio implacabile, fulmineo. Come poteva una donna plasmare così tanti uomini?
Era vero, Cersei lo ammetteva, una donna, seppur nella sua debole materia, era in grado di influenzare gli uomini, veri detentori del potere.
Aveva rifiutato il pensiero che Rhaegar amasse Lyanna, che la guerra fosse scoppiata a causa sua, che per sua colpa due uomini si fossero scontrati e uno di loro, il migliore, fosse morto.
Ma si era dovuta ricredere.
Cersei fissò apatica la coppa di bronzo, il viso che si rifletteva sul vino, due paia di occhi che si fissavano.
Robert aveva sussurrato il suo nome. Dopo la loro notte di nozze, solo la prima di una lunga serie di orrori. Robert aveva sussurrato il suo nome, tra le sue labbra grevi di parole non dette.
Era ancora un bell’uomo e lei aveva sperato, sciocca ragazza, che forse, con il tempo, si sarebbero amati. E le sue speranze come tremule libellule si erano schiantate su quella labbra piene.
Lyanna.
Un nome, uno soltanto. Quello sbagliato.
Cersei scagliò la coppa contro il fuoco vivace che si nutrì della sua ira funesta.
Anche dopo tutti quegli anni non riusciva a capire. Come poteva un donna, come poteva lei, una sciocca puttana del Nord, avere irretito tra le sue spire così tanti uomini?
Rhaegar, Robert erano soltanto i protagonisti di una farsa più ampia, ma comunque gli uomini migliori del reame, gli astri nascenti, fulgide comete che abbagliavano nel loro splendore.
Ed erano tutti caduti. Di fronte a lei.
Anche ora la regina riusciva a vedere la sua ombra. Negli occhi del fratello, che la venerava, degli abitanti del castello, in suo figlio. Anche dopo la morte, lei continuava ad opprimerla.
Cersei non l’aveva mai incontrata, eppure temeva il suo confronto. Il confronto anche con quel figlio nascosto, conteso dalle diplomazie e dagli eserciti di un continente. Era curiosa di vederlo, vedere quanto del principe Targaryen fosse fluito, fosse stato corrotto dalla sporca neve del Nord.
Eppure temeva anche lui. Sì, temeva, anche se non lo avrebbe mai ammesso. I leoni non hanno mai paura.
 
Anche se Cersei era regina, non sarebbe mai stata amata quanto Lyanna Stark.  Per questo si meritava il suo odio.
 
Ad un tratto, un corno muggì. La regina si scosse, tendendo nuovamente le orecchie all’aria immobile. Un secondo corno seguì al primo, più lucido e calmo, perfettamente udibile nell’aria fresca del mattino.
Jaime, fino ad allora addormentato sul talamo, poggiò i piedi sul pavimento gelido, già perfettamente sveglio, i muscoli del petto e delle braccia in tensione.
Cersei non poté fare a meno di pensare che era meravigliosamente bello.
Il cavaliere si alzò calmo dal letto fino ad arrivare alla bifora, non mostrando segno di notare il freddo che tormentava il corteo del re dal loro arrivo. Bastò poco agli occhi verdi per comprendere la situazione, saettando da una parte all’altra del cortile. Infine si girò, sorridendole di un sorriso mesto e scarno.
Jaime era i suoi occhi, le sue orecchie, le sue mani. Era l’ossigeno grazie al quale respirava, l’unica sua ragione di sopravvivenza. L’unico che l’amasse davvero.
“ è tornato.” Annunciò greve il gemello, avvicinandosi a lei.
“Chi?”
“ Gli uomini del Nord stanno festeggiando giù nel selciato mentre tuo marito sta andando in escandescenze. Il figlio di Lyanna e Rhaegar è tornato.”
 
 
 
 
 
Jeremy scappò lesto lungo i corridoi ombrosi e cupi, il grembiule da lavoro che sbatteva sulle gambe scarne come secchi ramoscelli battuti dal vento.
Era un semplice servo, uno dei tanti parassiti che infestavano la corte del Nord. Uno di quei piccoli e insopportabili insetti che sorreggevano con le loro fatiche e angosce il grande corpo dello Stato, ne permettevano la vita, i soprusi, i dolori.
Jeremy, nella sua umile condizione, correva, i piedi che scattavano lesti sulle lapidi grigie, sentendo il proprio cuore marciare sempre più forte verso il declino della rovina.
Correva, non tanto per timore della propria incolumità- aveva imparato fin da bambino a disprezzare il dolore fisico e conosceva il suo sommo adepto, l’oscuro falciatore di anime, con la confidenza di un vecchio compagno d’arme- quanto per la salvezza di quella piccola pergamena, legata alla cintola.
Ben pochi abitanti del Nord comprendevano l’alto Valyriano, anzi.
Jeremy aveva assistito ai deplorevoli e vili sforzi dei figli del Lord nell’imparare la più munifica e raffinata lingua che un umano avesse osato articolare.
Il Valyriano non era stato creato dagli imperfetti esseri umani, no, ma dalle divinità stesse, che sussurrando al creato il suo fato, avevano indicato loro la via della gloria.
Jeremy si stupiva ogni giorno di più. Gli Uomini del Nord erano delle creature affascinanti.
Selvaggi, certamente, tuttavia nella loro tracotanza percepivano i grandi moti della vita e della morte, in perfetta contemplazione l’una dell’altra. Ne racchiudevano i valori fondanti, scortecciando l’uomo fino a lasciare solamente il fulcro dell’anima, puro e immortale.
Jeremy rispettava gli Uomini del Nord.
E lui lo era. Sotto alcuni punti di vista, naturalmente.
Ciò che invece era sfuggito a quei gloriosi selvaggi era proprio la duttilità dell’opinione. Strano, probabilmente era l’ultima qualità che mancava ad un popolo quasi perfetto. Per questo, probabilmente gli Uomini del Nord non sopravvivevano al Sud.
Sapevano narrare, ricordare i grandi moti dell’anima e della natura, ma non conoscevano il gioco delle parole che governa il regno degli uomini. Non avrebbero mai potuto padroneggiare la sottile arte dell’oratoria, delle frasi fulminee e delle pause eloquenti. Era troppo raffinato per loro, selvaggi dall’animo buono, comprendere che tutto è relativo, plastico come la creta tra le mani dell’artista. Lo consideravano disonorevole, sbigottiti davanti a quel mistero incompreso.
Gli Uomini del Nord non erano avvezzi al Gioco del Trono. Per questo sarebbero morti.
Se Ned Stark fosse stato un uomo più astuto, avrebbe utilizzato quel gran colpo di maestro che era suo nipote, probabilmente la sua unica carta vincente. Invece lo aveva rinchiuse tra le mura della propria fortezza, credendo, o forse sperando, che nessuno si ricordasse del potenziale, della storia di quel bambino, già leggenda appena nato.
Jeremy scosse il capo. Ormai viveva al Nord da più di quindici anni, aveva sposato un brava donna- del Nord fino al midollo- che lui amava e rispettava, avevano avuto cinque figli, uno di questi morto di febbri.
Aveva vissuto come un Uomo del Nord, aveva sofferto e amato come tale, ma non sarebbe mai stato uno di loro.
Lui era diverso. Lui aveva giurato davanti al suo Lord, promettendogli rispetto e aiuto. E così avrebbe sempre fatto. Provava simpatia per Ned Stark, un uomo gentile e pacato. Ma non in lui riponeva la sua fedeltà, non a quell’uomo andavano i suoi servigi.
Jeremy scherzava sempre che Ned Stark fosse il suo Lord, e lo era, ma un principe è sempre più grande di un Lord.
L’uomo fisso attento i corridoi deserti prima di avanzare verso la torre del maestro. Lì erano tenuti i corvi, messaggeri di novelle buone e cattive, implacabili messaggeri del destino. Era vietato a qualunque estraneo avvicinarsi a quello studiolo, ma Jeremy era ormai una presenza costante da più di dieci anni e i suoi incontri si erano incrementati sempre più.
Sì, Jeremy era una spia. E anche brava, a onor del vero. Non era l’unica a Grande Inverno.
Col tempo quella massa nera e sfuggevole aveva imparato a conoscersi l’un l’altra in un sostanziale equilibrio che l’arrivo del re aveva distrutto. Prima di allora infatti essi coesistevano più o meno pacificamente, aspettando tutti che il bambino divenisse uomo. Solamente l’informatore dei Greyjoy era stato scoperto, famiglia inadatta sia a seminare che alla vita civile, e un paio di amici dei Lannister.
Negli ultimi tre giorni, Jeremy aveva ucciso un servo dei Tyrell e almeno cinque agguerriti segugi dei Lannister, da sempre i più bellicosi.
La verità era che Grande Inverno pullulava di spie o di amici delle casate dei Sette Regni, tutte desiderosi di controllare il ragazzo, o almeno di ottenere informazioni.
Jeremy però era scaltro e prudente, il migliore nel suo campo. Per questo il suo principe aveva inviato solo lui, mischiato in un regimento scelto di lancieri dorniani.
Doran Martell era troppo intelligente per non capire che le sorti del continente si sarebbero giocate sulle spalle di Jon. Schiacciato e oppresso da ogni fronte, il sole di Dorne si era visto umiliato e attaccato da più riprese da quel grassone che si dava il nome di re, quando era solo un Usurpatore.
La stessa famiglia reale era stata distrutta. Doran ormai solo con le ossa di una sorella amata e il ricordo dei suoi nipoti e Oberyn Martell, pazzo di dolore, che nelle sua acuta pazzia avrebbe perfino potuto uccidere il giovane Jon, incolpandolo della morte della sorella. Per fortuna, il principe si era limitato, se questo era il termine giusto, a prendere con sé il proprio seme sparso nel continente, addestrando quelle figlie alla nobile arte della parola e dell’assassinio.
Per questo Doran aveva inviato quel manipolo di fedeli su al Nord: per controllare, per difendere e se necessario anche rapire quel rampollo.
Era giunto il momento. Jeremy prese il proprio corvo, addestrato da anni di perlustrazioni, affidò il messaggio a quelle piume nere e lo lanciò verso l’immensità del cielo plumbeo. L’uomo rimase a fissarlo finché non divenne soltanto un puntino alla deriva delle nuvole.
Non era stato l’unico pennuto a levarsi in volo. Da altre torrette del castello ali nere fremevano e si lanciavano verso il vuoto, recando con sé informazioni. Jeremy prese nota dei luoghi, sorridendo appena.
Quella notte sarebbe corso altro sangue nei corridoi di Grande Inverno. E non sarebbe stato il suo.     
 


Mi scuso in anticipo per il ritardo, ma sono stata molto occupata in questo mese. Buono anno a tutti! Anche se in ritardo ...

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Capitolo 8
*** Jon/Catelyn ***


 
Jon fissava le grandi porte di quercia scura che racchiudevano gelosamente i segreti e le urla che si stavano consumando al loro interno. Era lì da così tanto tempo che le membra si erano intirizzite per il freddo, malgrado lo spessore delle coltri e delle pellicce.
Quasi per salutare il ritorno del suo figlio prediletto, la neve aveva incominciato allegramente a scendere sotto lo sguardo sbigottito della corte reale. Aveva nevicato tutta la notte e quando finalmente il ragazzo aveva aperto gli occhi su un mondo che non l’aveva mai voluto, questi gli si era presentato nelle sue vesti migliori. L’intero castello era ammantato da una soffice spuma aggraziata, più dolce di tutte le vesti dell’Oriente.
La terra del ghiaccio non era stata l’unica a rispolverare le proprie vesti da battaglia. Nel suo girovagare per il castello, Jon aveva visto guardie schierate ad ogni angolo; le loro cappe parevano avere i colori dell’arcobaleno, alle volte verdi come i sontuosi prati dell’Altopiano oppure tinti di rosso vermiglio sull’oro del denaro sonante. Qualunque fosse la stirpe di quei bravi, l’effetto era sempre lo stesso.
Il ragazzo passava senza proferire parola, accompagnato da uno stolido paio di occhi, così assetati da parere naufraghi nel deserto.
Anche Jon aveva aperto le ante del proprio armadio quella mattina, sfiorando delicatamente le sue vesti più ricche. Non erano molte, ma fino d’allora si era sempre vantato di possederle. Perché Jon se le era conquistate, in un mondo dove nulla era regalato, nemmeno l’affetto di un padre. Ora, mentre le valutava con quei suoi nuovi occhi, parevano semplici e soprattutto inermi, come delle vittime impalate sulle asticelle di legno.
Si era vestito silenziosamente, senza produrre il più minimo suono. I suoi calzoni neri e pesanti, la camicia di lana con gli sbuffi, il farsetto ricamato d’argento, lo stesso che aveva indossato il giorno dell’arrivo del re. Jon rimase inebetito a fissarlo. Era davvero lo stesso farsetto? Così almeno sembrava. Ma l’argento non era più così splendente e fulgido e il colletto gli serrava la gola come il cappio del boia. O forse, l’abito non era cambiato, ma semplicemente il suo improbo occupante. Era la stessa persona che lo aveva così allegramente indossato, solo una settimana prima?
Preferì non dare risposta a questa domanda. Si riscosse, seppur a fatica, infilandosi più velocemente gli stivali di pelle. Per ultimo si buttò sulle spalle una spessa coltre di pelliccia, unica sua armatura per il freddo. Non si girò a guardare la stanza che gli aveva funto da rifugio per anni e anni della sua vita. Avrebbe visto un piccola, ma calda stanza, albergata di così tanti ricordi felici da esserne satura. Non voleva vedere quei piccoli spiriti di un tempo che era stato.
Non si girò a vedere Spettro, perché il metalupo era stato rinchiuso nelle scuderie, insieme ai suoi fratelli. Jon si domandò se si ricordasse ancora di lui. Aveva aperto la porta e la richiuse dietro di lui subito dopo. Aveva sceso quelle scale rapide con uno strano senso di claustrofobia. La verità era che non voleva domandarsi se sarebbe mai ritornato in quella stanza.
E ora sedeva lì, davanti alle porte serrate della corte interna. Appoggiato ad un arco del porticato, non smetteva di fissare lo sguardo su quelle assi di legno scure, quasi che potessero scomparire davanti a sé.
Anche se ormai era perfettamente possibile. Tutto poteva accadere.
Jon era così perso nella contemplazione di quel monumento all’attesa che non si accorse dell‘arrivo della donna. Né tantomeno lei diede segno della sua presenza.
 Rimase lì, a fissarlo, con un intensità uguale se non maggiore a quello di Jon per la porta. Solo dopo diversi minuti di contemplazione silenziosa, la donna si mosse silenziosamente sul pavimento di pietra e con un guizzo dell’occhio Jon ne percepì la presenza.
“ Lady Catelyn.” Jon non osò guardare negli occhi quella che per lungo tempo era stata la cosa che più assomigliava ad una genitrice. Aveva troppo paura di quegli occhi azzurri, affilati e arrochiti dalla tempesta, che non mostravano la stessa timidezza, anzi, sembravano voler squarciare il volto del giovane, penetrandolo nella sua natura più profonda. Jon notò appena che erano gli stessi occhi di Robb.
Le piccole labbra della signora di Grande Inverno si aprirono e distesero più volte, prima che il suono scivolasse su di esse.
E non era per mancanza di parola, affatto, lady Catelyn ne aveva fin troppe, che eruttavano vive e rabbiose dalla sua gola fino al promontorio fumante della lingua. Erano così tante, che si sovrapponevano, come i cavalloni della tempesta, cosicché si ritrovo a fissare silenziosamente il ragazzo.
“E così sei tornato. Avresti fatto meglio a non ritornare, qui. Ti rendi conto che con il tuo comportamento hai messo tutti in pericolo?!” . C’era qualcosa di terribile nella voce di lady Catelyn. Non sfiorava nemmeno le ottave dei litigi col marito, no, era calma, piatta, melodica. Senza picchi ne bassi, solamente la lingue che grondava odio e disprezzo. Lo stesso suono era sferzante e doloroso come una frusta nell’aria, eppure quasi impercettibile, innocente.
“Io ….” Jon, che fino ad allora aveva studiato attentamente il selciato, osò alzare lo sguardo verso quella erinne dell’inferno. Il dolore per il colpo fu tale da indietreggiare di un passo. Quegli occhi vibravano di una forza atavica e pungente, pericolosa, che colpivano il ragazzo con la forza dirompente di una carica di cavalleria.
Erano implacabili, spietati, non lasciavano vie di scampo, ti inchiodavano alle tue colpe, ai tuoi peccati immensi e spregevoli, sì, Jon era ben conscio di averne, e chi non ne avrebbe avuti sotto quello sguardo?
“Tu, sì, tu. Tu sei il centro di tutto.” Lady Catelyn avanzò di un passo, pervasa da un forza demoniaca troppo grande per il suo esile corpicino di donna. Jon non poté fare a meno di notare le sue guance notoriamente candide,  ora paonazze e gravide.
“ Tutto questo …” La donna segnò il terreno circostante, puntando alla fine il dito verso il grande portale: “ .. è solo colpa tua. Tutto questo è avvenuto per colpa tua! Stai mettendo in pericolo ogni cosa per cui ho così faticosamente lottato! I miei figli, che tu chiami ipocritamente fratelli, la mia casa, mio marito, tutto, tutto per causa tua!”
La forza di quelle parola, così umilmente vere, sconvolsero Jon con la forza di un terremoto. Quel viso contratto dall’odio, il dito puntato verso il suo petto inerme, quegli occhi che lo attaccavano ferocemente e quelle labbra che nella forza delle loro imprecazioni sputavano saliva. Il ragazzo alzò le mani, difendendosi istintivamente da quella minaccia da cui non vi era scampo, opponendo quel poco che aveva.
“ Io non ho colpa! Non metterei mai in pericolo la mia famiglia, la mia casa! Sono tutto quello che ho, l’unico luogo dove potrei ritornare. Non farei mai del male ad Arya o a Bran o a Robb, preferirei morire piuttosto che causare sofferenza. Mia signora, io non ho fatto niente, non è colpa mia!” Jon urlò quelle parole con tutta la forza che aveva in corpo, nella mente, nel cuore. Perché voleva credere disperatamente a quelle sue convinzioni di innocenza. Voleva urlarlo fino a sentire i polmoni cedere, la gola bruciare; voleva che ogni abitante di quella fortezza sapesse.
Sapesse che non aveva colpe, che non avrebbe mai fatto nulla per causare il dolore di cui era accusato, che avrebbe preferito morire, sì, darsi la morte con le proprie mani piuttosto che vivere con quella bestia nera nel cuore, quel dolore senza fine né inizio che lo accompagna ovunque e lo soffocava, lo stringeva, lo strozzava senza dargli possibilità d’ossigeno.
Non aveva colpe di essere nato e se così era, bene, lui era lì. Pronto a braccia protese, avrebbe sacrificato quel corpo virile e gagliardo della gioventù per liberarsi da quel male della vecchiaia. Meglio il buio eterno della morte senza fine, anziché vivere una vita piena di dolore e senso di colpa.
“ Tutto è colpa tua, sciocco ragazzo! Se solo fossi più intelligente, avresti capito già capito tutto e te ne saresti andato, risparmiandomi da questo ingrato compito.” Il ragazzo restò muta a fissarla. Non osò controbattere nulla. In compenso l’armatura di freddezza che Catelyn aveva minutamente costruito su se stessa si disgregò tra le sue mani. Cominciò a muovere le mani, toccandosi più volte i lunghi capelli castani, muovendosi su se stessa, preda di uno sconforto di cui era fautrice e vittima.
“ Credi che sia facile? Credi che sia stato facile vedere un bastardo, figlio di una guerra che mi ha portato via tutto, giocare accanto ai miei figli? Credi che sia stato facile vedere l’amore di Ned per te?
Tu, un bastardo senza nome, che non si merita nulla! Tu mi hai portato via tutto! Tutto l’amore che era mio per diritto, l’affetto dei miei figli, il cuore di mio marito.
Qual è la tua colpa?! Di esistere. TU ESISTI, Jon Snow, tu vivi quando non dovevi nemmeno nascere! Ecco qual è la tua colpa in questa vita e in tutte le altre! Tu esisti! E con la tua sola presenza metti in pericolo quel poco che mi è rimasto, me lo rubi, me lo strappi via … Tu e quella puttana di tua madre!!”
L’ultima affermazione fu urlato con un sospiro senza più voce, fiacco, disperato, esausto. Più imprecazione agli dei della vita e della morte che un’accusa vera e propria, ma bastò a risvegliare Jon dallo stato catatonico in cui era caduto, probabilmente senza farvi più ritorno.
Negli ultimi due giorni, che Jon aveva passato con la sola compagnia del padre, per la prima volta veramente padre e veramente figlio, il ragazzo non aveva osato nominare quegli eventi passati, che tanto causavano dolore nell’animo di entrambi.
Non aveva mai incontrato sua madre né l’avrebbe fatto. Non avrebbe mai visto i suoi capelli scuri e splendenti, gli occhi cerulei e affilati. Non avrebbe mai conosciuto la dolcezza del suo abbraccio e la forza del suo spirito. Solo voci atone e squallide, racconti che lasciavano il sapore del rimorso.
Niente. Tutto ciò che gli rimaneva di sua made era il ricordo di un passato mai realmente esistito, uno spirito, una donna da venerare nel profondo dell’animo.
“ Voi conoscevate mia madre?” C’era una forza nuova, una linfa vitale che tornava a scorrere in quel volto smagrito. Se ne accorsero entrambi mentre Jon rialzava fieramente il capo e fissò la lady con i suoi occhi viola da Targaryen. Lady Catelyn non si era mai accorta che fossero così luminosi, così vivi, animati da una passione che non aveva mai percorso il corpo stanco.
“ Voi conoscevate mia madre, dunque? Parlate, mia signora. Quello che di voi mi accusate è giusto, ma parlate di mia madre. Com’era? Mi assomigliava?” La signora di castello rimase muta davanti a quei due fari di speranza. La voce di Jon vibrava di emozione repressa, di una curiosità fremente e tremante insieme, che pareva pregare  quella donna che tanti dolori gli aveva causato di parlare. Orsù, parlare, descrivere quella donna, raccontare ad un orfano il viso di sua madre.
Fu  troppo per lady Catelyn, fu un colpo da cui non si sarebbe mai più ripresa. Vedere quel ragazzo che tanto odiava, per mille ragioni e molte altre, ancora saldo sulle proprie membra, gli occhi ancora alzati quando prima erano nascosti e pieno di una forza nuova, che concedeva speranza. La bocca e gli occhi pieni di lei.
“Sì, io conobbi tua madre. Era la sorella di Brandon e Eddard. Tutti la adoravano.” Quest’ultime parole vennero sputate con disprezzo. “ Era bellissima, lasciva, amava distruggere ogni regola, superare qualsiasi limite, proprio come te. Avete molte cose in comune, Jon. E come te, non seppe mai stare al suo posto.
Vuoi sapere la sua storia?! È tuo diritto saperla! Scappò via con Rhaegar Targaryen, lasciandosi dietro i suoi genitori addolorati, i fratelli disonorati e suo marito, il suo promesso sposo. Tutti la amavano, ma lei non si meritava alcun tipo di amore. Fu tutta colpa sua! Per lei morì Richard Stark. Per lei morì Brandon!”
Catelyn diede le spalle a Jon, voltandosi verso la porta.
“ Brandon … tutto doveva andare a Brandon. Lui era perfetto. Gentile, cavalleresco, bellissimo. Lui era il mio promesso sposo, ma mi abbandonò all’altare perché doveva andare a salvare la sua sorellina, che si sarebbe meritata solo una accoltellata. Lui non aveva colpe, lui doveva andarla a salvare. Lui era buono.”  La voce si incrinò.
“ E poi scoppiò la guerra. Neanche se vivrai cent’anni potrai mai immaginare come fu quella guerra, Jon Snow. Terribile, mostruosa. I padre uccidevano i figli e i figli si rivoltavano ai padri. C’era così tanta violenza, così tante morti. Tu non hai idea della sofferenza. La si respirava, ti entrava nei polmoni e ti uccideva da dentro.  Non potevi fidarti di nessuno ed ero certa che il mio nuovo marito sarebbe morto, lasciandomi sola con Robb.” La lady del castello si raggrinzì sotto la sguardo del ragazzo, attonito.
“ E poi Ned tornò.” La labbra della donna si riaprirono, ma nessun fiato spirò tra esse. Era troppo, troppo perfino per la gelida moglie del Lord di Grande Inverno.
Non era mai stata così tanto sincera con Jon. Aveva iniziato quel discorso con il chiaro intento di ferirlo, di fargli male, di distruggerlo. Che provasse il suo stesso dolore, la sua stessa vergogna.
E ora da sacerdotessa si era trasformata in ostia sacrificale.
Battuto dalla potenza dei ricordi come il salice dal vento, il piccolo corpo oscillava.
“ Tornò. E io ero così felice. E poi ti vidi.”  Jon avrebbe voluto avvicinarsi alla donna. Per la prima volta da anni sentiva qualcosa di simile all’affetto nella sua voce.
“ Eri così piccolo. Prematuro, mi dissero. Ti avevo sempre davanti agli occhi, sebbene Ned ti tenesse nascosto nella cucine. Ero contenta.” Catelyn sputò quelle due parole fuori dal suo corpo, con un sorriso più amaro della cicuta.
“Ero contenta. Per tutti gli dei! Come ero sciocca, appena una bambina, nono stante tutto. Mio marito, l’uomo che avevo conosciuto per appena una notte, era tornato. E la guerra, quella dannata mietitrice di uomini, era finita. Finita. Sai, Jon, prima di allora pensare ad un futuro senza guerra era quasi impossibile. Ma …” Lady Catelyn aveva fino ad allora voltato le spalle a quel ragazzo, sperando di allontanare da sé il bruciante tocco del suo sguardo. La donna si voltò, lentamente, paurosa quasi della sua azione di pace.
“ Ora potevo pensare ad un futuro per mio figlio. Non c’è nulla di più terribile per un genitore di non poter provvedere al futuro del proprio figlio. Potevo perfino osare di avere altri figli e di vederli crescere, senza il timore di doverli perdere o, peggio, vederli soffrire.” Soffiò la donna, avvicinandosi delicatamente al ragazzo.
“Provai anche un certo sollievo. Ned non mi avrebbe mai tradito con una prostituta del porto.” L’ombra di un sorriso aleggiò sulle labbra tremule.
“ Tu non eri un bastardo, Jon. Eri il figlio di sua sorella. Mio nipote.” I due si fissarono a lungo. Jon non aveva mai pensato a lady Catelyn in quel modo. Non poteva nemmeno immaginare una giovane in miniatura che lo prendeva in braccio o provava simpatia e affetto per lui. Quella giovane donna era troppo lontana, troppo diversa da quella gelida signora. Anche Catelyn rimase incapace di parlare, i suoi occhi di Tully che osservavano il volto aperto.
Vi era rimpianto in quegli occhi azzurri senza pietà? Forse la traccia di un amore, di un legame spezzato, l’ombra di un passato che sarebbe potuto effettivamente esistere. Sì, Catelyn avrebbe potuto sopportare l’onta di Lyanna Stark. Se Jon fosse stato solamente un figlio illegittimo qualsiasi, in ogni caso suo nipote, forse avrebbe potuto amarlo. E chissà comprendere maggiormente le sue scelte, le sue paure. Avrebbe accettato il legame di fratellanza con i suoi figli. Il suo nome sarebbe stato Jon Stark o Jon Baratheon, per salvare le forme. E tutto sarebbe andato bene, ogni caso al suo posto.
Ma così non era stato e questo lo sapevano entrambi.
“ Sì, ero sollevata di tutto ciò. Ma ero una sciocca, una stupida se pensavo che il resto del continente avrebbe continuato a vivere pacificamente.
 Ecco, perché ti odio, Jon Snow. Per i tuoi dannatissimi occhi viola, per tua madre che non ha mai saputo stare al suo posto e per tuo padre. Per il fatto che tutte le balie volevano averti, per avere l’onore di allattare l’ultimo dei Targaryen. Per il fatto di essere nato e con la tua semplice esistenza di mettere in pericolo quella dei miei figli. Non hai idea di quanti attentati sono stati sventati, di quanto hai posto Robb, mio figlio, vicino alla morte. Ogni spia e assassino dei Sette Regni brama la tua vita, i grandi Lord si azzannano come voraci avvoltoi nell’attesa della tua venuta.
E sai una cosa? Non me ne importa niente. Non importa se tua madre ha aperto spudoratamente le gambe ad un principe o a uno stalliere. Lei ha tradito tutti quelli che l’amavano. Ha condotto suo padre alla morte e ha ucciso Brandon. L’intera guerra è scoppiata per lei! Io ho perso tutto per lei e ora, in questo stesso momento, sto perdendo tutto per TE!” Catelyn, nuovamente se stessa, aggredì il ragazzo, sovrastandolo con le sue terribili parole.
Non aveva intenzione di vedere la sua famiglia nella polvere per un’unica vita.
Lo avrebbe consegnato già ai Lannister, ucciso con le sue stesse mani pur di liberarsi da quel dolore continuo.
Jon Snow rappresentava tutto ciò che lei non aveva mai avuto. Una vita felice accanto a Brandon, l’acqua ridente di Delta delle Acque. Tutto le era stato strappato via dalla guerra, tutto le era stato strappato via da lui.
Jon era l’emblema di una minaccia continua, di una spada di Damocle che pendeva sulla testa dei suoi figli. Non sarebbero mai stati al sicuro vicino a lui, vicino all’ultimo dei Targaryen nel mondo dell’Usurpatore. Sarebbero sempre stati spiati, sbeffeggiati per quella parentela, umiliati.
Il suo Robb valeva il doppio di Jon, eppure non veniva mai considerato nei giochi politici del Regno. Non sapevano nemmeno chi fosse, nessun matrimonio prestigioso era stato intavolato, a differenza del bastardo, che fin troppo proposte aveva ricevuto. Perfino Ned sembrava voler favorire il ragazzo al posto del suo primogenito. Più ore nello studio della storia e degli emblemi della casata, più ore d’addestramento accanto alla guardia dorniana, più momenti passati accanto al Lord nel consiglio degli Alfieri. Catelyn non era stupida. Poteva forse sembrare un’attenzione nei confronti del figlio legittimo, riempiendo al contrario il bastardo di compiti.
La realtà era che lo stavano addestrando. Insegnando a sopravvivere ad una vita che lo avrebbe sempre avversato, in un mondo che non l’aveva mai voluto. Dettagli trascurabili per la madre, che vedeva il destino dei figlio proiettato verso il baratro.
Voleva fargli male, provocare una tale breccia nella cittadella del suo animo da distruggerlo dall’interno. Voleva allontanarlo, fargli comprendere il suo errore- l’errore di essere in vita?. Che prendesse il nero, che scappasse al di là della Barriera. Qualunque luogo, bastava che scomparisse dal mondo degli uomini. Che loro ricominciassero a vivere.
Eppure Jon Snow era ancora in piedi. Ferito, umiliato, forse, ma ancora lì, con un espressione fredda e severa che assomigliava tanto, troppo, a quella di Eddard Stark. Si era aspettata di aver a che fare con una bestia braccata, invece assomigliava ad un cacciatore.
“Vi sbagliate su mia madre.” Replicò il ragazzo, le mani strette a pugno. Sì, Jon aveva capito. Compreso l’odio, il dolore originato da quella guerra immane di cui lui era involontariamente figlio.
 Lady Catelyn aveva raggiunto il suo scopo, almeno in parte. Lui aveva capito. Capito di essere un bastardo, di essere una minaccia, un pericolo, che niente sarebbe mai stato più come prima. Aveva visto il suo dolore scorrerle sul viso, capito le ragioni del suo odio. Non poteva accettarle, ma almeno sapeva per quale motivo quella donna l’aveva odiato per tutta la vita. E un sentimento nuovo aveva fatto capolino nel suo cuore.
Pietà. Sì, Jon Snow provava pietà per lady Catelyn e di certo, se quest’ultima l’avesse saputo, non ne sarebbe stata contenta. Non era giusto, niente lo era, eppure Jon non poteva fare a meno di immedesimarsi in quella ragazza spogliata di tutto e minacciata.
E alla pietà si era aggiunto il disgusto. Lady Catelyn non si rendeva conto di quante cose possedesse, degli affetti e dei piaceri della vita di cui potesse godere.
 Si stava lamentando che la sua vita non era andata come avrebbe voluto. Non era una fiaba delle septe, spiacente lady Catelyn, la vita non lo è mai. Stava dando tutta la colpa a sua madre e a lui, quando non ne avevano nessuna. Jon Snow non aveva mai incontrato sua madre e non poteva fare a meno di difenderla.
“Mia madre non era una puttana.” Scandì lentamente e con forza, avvicinandosi. Ormai solo un palmo divideva i loro volti.
“ Mia madre era una lady di Grande Inverno, una Stark fino al midollo. Non si sarebbe mai abbassata a simili colpe che voi le attribuite. Vi lamentate perché la vostra vita non è stata la fiaba che avevate immaginato, perché non avevate sposato l’uomo a cui eravate predestinata.
Se voi dunque parlate d’amore non potrete di certo giudicarne una sua adepta.
 Voi vi lamentate di dolore, ma non siete mai stata suoi campi di battaglia.” La voce di Jon si fece sempre più affilata e sferzante mentre i suoi occhi bruciavano.
“Mi dite di essere un mostro, un aborto, per il semplice fatto di esistere. Nessuno decide di venire al mondo, ma bisogna lottare per divenirvi parte. E io sto lottando con tutte le mie forze, lady Stark.
Voi mi accusate di essere un bastardo. Io sono figlio di Lyanna Stark di Grande Inverno, che ha sempre combattuto per quello che amava. Ha vissuto. Ed è morta, sì, morta. Preferirei morire sapendo di aver vissuto piuttosto che continuare a piangere sulle disgrazie che mi sono capitate nella vita, piuttosto che esistere passivamente.
Io sono figlio di Lyanna Stark. E che vi piaccia o no sono più Stark di quanto voi immaginiate.” Proruppe Jon, infervorito, gli occhi che brillavano.
Perché lui credeva a quello che aveva appena detto. Credeva di essere figlio di Lyanna Stark, nipote di Eddard e fratello di Robb, Sansa, Arya, Bran e Rickon. Era quello il suo posto, il seggio che tutti gli avevano negato. Erano la sua famiglia, il luogo a cui ritornare dopo essere scappato.
In quei giorni di esilio, Jon lo aveva capito. Per gli Antichi Dei, loro erano l’unica famiglia che avesse. Ed era disposto a lottare. Sì, lottare per trovarsi un posto nella vita, perché potesse vivere accanto a loro.
E non era giusto, no, non era affatto giusto che lady Catelyn lo odiasse. Non aveva colpa. Non aveva mai fatto nulla per contrariarla. Era la sua presenza a renderlo odioso. Era lui, nella sua essenza più primitiva.
Erano i suoi occhi viola, brillanti come i diamanti delle montagne.
Occhi da cui lady Catelyn non poteva scappare ora. E li fissava stupita per tanta sfacciataggine, questo oltraggioso attacco alla sua persona e … sì, anche incantata … e disgustata. Non poteva, non poteva cedere, non poteva dar ragione a quel bastardo, che le stava portando via tutto.
Eppure quel ragazzo, quasi uomo, che le si presentava innanzi, era assai diverso dal bambino che si era divertita a dominare negli anni passati.
In una sola settimana il viso si era fatto più affilato e maturo, una rada barbetta a disegnargli il volto, frutto del dolore e della sofferenza. Perfino il suo corpo era diverso, sì. Non incavava più la testa fra le spalle muscolose e i grandi occhi viola studiavano guardinghi il mondo che li circondava. Non nascondeva più quella sua manifesta colpevolezza, ma la utilizzava per sopravvivere. Con dolore, sì, è vero. Il dolore traspariva da quella figura affilata.
Era cambiato il suo modo di porsi, di vedere il mondo. Il mondo ha i colori dei tuoi occhi.
E Jon aveva finalmente accettato quella sua eredità tanto strana, soppesando gli eventi e le persone accanto a lui.
Era cambiato. Non fuggiva, ma attaccava. Lupo ancora imberbe e insicuro, ma conscio della sua appartenenza al grande cerchio della vita. Cucciolo che forse allontanava via da sé la figura troppo ingombrante del padre, ma che richiamava orgogliosamente l’ascendenza materna.
Era alla fine avvenuto ciò che lady Catelyn aveva tentato a lungo di scongiurare.
 Jon Snow sentiva di appartenere a qualcosa. Sentiva di avere dei fratelli, un padre e una madre, anche se morti. Era conscio dell’ingiustizia della sua condizione. Era consapevole del dolore che causava ai suoi cari, dei tormenti e delle urla. E il senso di colpa lo trafiggeva dall’interno, come le lame azzurre di lady Catelyn. Eppure non era mai stato così spaventosamente vivo.
E di questo se ne rendevano conto entrambi.
“ Come … come osi??!!” Perfino la saggia signora era rimasta senza condanne o insulti da elargire. La sfrontatezza e la rivoluzione in quella semplice discussione la terrorizzavano.
Il fato però non gli concesse un ulteriore dimostrazione delle sue capacità.
Le grandi porte scure, che fino ad allora avevano assistito come muti testimoni allo scontro, si aprirono rumorosamente, lasciando uscire, miracolosamente salvo, il Lord di Grande Inverno. Ned Stark era invecchiato in quegli ultimi giorni, ma non era mai stato così deciso nelle sue azioni. Gli occhi grigi saettarono sulle due figure protese, ma non lasciarono trapelare nulla.
“ Mia signora.” Eddard si inchinò davanti alla minuta figura della moglie, prima di rivolgersi direttamente al suo protetto.
“Jon, sono contento che tu stia meglio.” Il ragazzo annuì appena, tentando di fare entrare quanta più aria possibile nei suoi polmoni vuoti, già sfiniti per l’incontro. Ed era solo l’inizio.
Ned gli sistemò velocemente  la grande pelliccia sulle spalle, prima di prenderlo per le spalle e condurlo verso la sala. Il Lord non aveva mai abbracciato Jon davanti alla moglie, che li precedeva astiosamente, evitando di fissarli.
Nonostante la fatica, il sonno e la battaglia imminente, c’era una strana speranza nel padre, mentre gli sussurrava cautamente: “ Il concilio ristretto si è riunito poco fa, insieme ai maggiori Lord del Regno. Il re vuole vederti.”
E le grandi porte di legno scurosi richiusero su di loro, come un bozzolo. Lì, in un piccolo angolo di Nord, si sarebbe deciso il destino di un Continente. E mentre lo scontro si preparava ad esplodere, fuori incominciò a cadere la neve, lentamente. E finalmente regnò il silenzio.


Umh, allora. Credo che voi tutti stavate aspettando questo momento, lo scontro finale che era pronto già da due giorni. Solo che da i 500 lettori iniziali, ne ho persi 400, tra cui bic e altri. Ma sì, meglio pochi ma buoni:)
Come avrete intuito lo scontro Robert e Jon, con l'appoggio della dolce Cersei, arriverà nel prossimo capitolo, per cui se credete che già in questo capitolo ci sia stato un utilizzo indiscriminato delle ugole, vi ricrederete.
Voglio ringraziare tutte le persone che mi seguono e che hanno recensito. posso affermare senza ombra di dubbio che senza di voi e il vostro continuo sprone questo capitolo non avrebbe mai visto la luce. I vostri dubbi e i vostri complimenti sono una continua motivazione per scrivere e creare. Siete voi l'origine di tutto questo. Per cui se non posso farlo singolarmente, vi ringrazio sommamente. Questo è per voi.
E questo è anche dedicato ad una persona speciale, che mi ha guidato per tutto l'anno. Mi ha consigliata, spronata e condiviso con me i momenti più belli e quelli un pò meno. Per farla breve, la mia vata, Irene. Conosciuta anche come
Kafkaesque.
quindi, direi che potrei intolare questo capitolo:" fase della vita i cui capisci chi sei e soprattutto a chi lo devi."
 

 

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Capitolo 9
*** L'inizio di una nuova era ***


L’inizio di una nuova era
 
 
Lord Baelish aspettava, con la calma serafica e flemmatica di un gatto accostato al tepore del focolare. Il piccolo Lord delle Dita ci era abituato; avvezzo a vedere gli intrighi di corte a prenderne parte, ormai uso ai banchetti gretti e lussuriosi del re e ai cadenzati scoppi d’ira della regina.
Petyr era fatto per la vita ad Approdo del Re.  Nato in uno arcipelago sperduto, cresciuto  e infine ripudiato in una corte ridente e falsa, Ditocorto, un nomignolo che odiava eppure accettava con ironia, sentiva di essere stato creato per questo. Niente poteva concedere- nemmeno una donna, neppure lei- l’eccitazione dell’intrigo, dell’inganno, del potere. Gli uomini, tutti, senza eccezioni, desideravano avere il controllo. Chi sulla propria vita, chi sul proprio pollaio. Alcuni, modesti omuncoli, si accontentavano del proprio villino sparso nel mondo.
Certi erano naturalmente portati al governo di tutti gli altri. E lui faceva parte di questa schiera di eletti. Non era un bugiardo né un bastardo, come molti lo avevano definito. D’altronde che cos’è la verità? Nient’altro che pura illusione, oppio delle anime pascenti.  La stessa realtà era fraintendibile, duttile, appagante nella sua pazzia.
 Petyr sapeva sempre e comunque la verità, poiché sapeva come corromperla. Comprendeva gli arcani meccanismo della parola e delle lode e, con intelligenza, utilizzarli. Nessuno poteva dubitarne. Petyr era un splendido oratore, paladino degli ignavi e dei suoi interessi. Era facile instillare il dubbio negli animi deboli, ancora di più rassicurarli nelle loro innocue bugie.
Varis poteva tenersi il suo titolo di ragno tessitore. Non sarebbe mai stato più di un insetto accanto a lui. Il giovane membro del Concilio conosceva gli uomini e le loro paure. Motivo per cui era odiato.
Osservava da lungo tempo il disgregamento della corona, senza prenderne parte direttamente. Petyr si meravigliava ogni giorno di più dell’inettitudine umana.
Re Robert non solo non aveva consolidato il suo trono, ma si era posto nel talamo nuziale una serpe incestuosa. Il grande, il magnanimo, il giusto Ned Stark si era barricato a Grande Inverno sperando che il mondo si dimenticasse di lui. E Catelyn. Catelyn aveva finto che nulla fosse successo.
Petyr piegò dolcemente la testa, un pigro ghigno che fluiva sulle labbra. Era bellissima. Malgrado tutti quegli anni. Malgrado cinque parti. Gli si era profilata all’orizzonte, sgargiante nella sua rettitudine di Tully, leonessa della propria casa, disposta a tutto pur di salvare il suo mondo. Petyr ammirava Catelyn. Adorava la sua forza, la sua determinazione oltre ogni ragionevole confine. Aveva spasimato per così tanti anni, tentando di corrompere quella Barriera di ghiaccio e bellezza. E lei nulla, radiosa, felice, attenta.
La sua ostinazione nel resistere aveva contribuito solo ad attizzare le braci del suo amore. Aveva pianto per lei, aveva sofferto, aveva amato e aveva anche combattuto per lei.
L’unico pegno d’amore che ci aveva guadagnato era una profonda cicatrice nel costato.  E anche ora, a distanza di quindici anni, Catelyn non l’aveva degnato di uno sguardo. Ma i suoi occhi azzurri erano cambiati. Più affilati, arrochiti dalla tempesta. Tristi, disperati.
Anche lui era cambiato. Non era più il giovane Petyr. Era Ditocorto. Ed era abbastanza furbo da poter trarre molti vantaggi da quella situazione.
Le porte di quercia si spalancarono lasciando entrare gli occupanti. Ned Stark non era cambiato. Sempre il solito stupido imbecille, almeno abbastanza da lasciare la moglie sola per abbracciare il nipote bastardo.
L’attenzione di tutti i presenti si focalizzò sulla figura ombrosa, a malapena scorta sotto la luce impalpabile delle lanterne.
Jon Snow o Jon Targaryen non era molto diverso da come Petyr lo paventava.
Se non fosse stato per quegli occhi così luminosi, probabilmente nessun uomo gli avrebbe mai giurato fedeltà. La figura era meno massiccia rispetto al patrigno, il viso affilato e sottile, la mascella ben pronunciata appena ricoperta da uno strato di peluria. Il naso era aquilino e forte mentre le labbra erano grosse e succose, mordicchiare appena da denti bianchi come le perle. Capelli scuri, carnagione candida, Jon si candidava al premio Stark dell’anno.
Non era brutto, ma assomigliava terribilmente ad un adolescente imberbe e spaventato più che a un erede al trono.
Jon, leggermente abbagliato dall’improvvisa penombra, si stagliò indeciso prima di avanzare verso il trono marmoreo. Come si mosse, Petyr si lascio volutamente sfuggire uno sbuffo di derisione.
La sentenza era ormai emessa: Stark fino al midollo. Dai movimenti impacciati e timidi, dall’inchino grottescamente rigido e onorevole. Non sarebbe sopravvissuto un giorno ad Approdo del Re e nemmeno a qualunque altra corte del continente. Troppo onorevole, troppo legato ad un idea utopica di verità.
Non ci si poteva aspettare che disordine da lui. Proprio quello che Petyr stava aspettando.
 
Jon avanzò fino al trono marmoreo, il cuore che gli martellava nelle orecchie. Non gli era sfuggito le chiacchiere concitate che erano seguite al suo arrivo, come le risatine e i commenti salaci. Tutti si aspettavano qualcosa da lui.
E Jon aveva l’impressione che qualunque cosa avesse fatto, non sarebbe stata quella giusta.     
Non osava staccare lo sguardo dal pavimento, il pugno sul petto in segno di rispetto, non badando nemmeno a dove stesse andando, bastava che quel supplizio avesse fine. Capì che era finita quando Ned tossì piano inchinandosi dietro lui. Il ragazzo fece lo stesso, curandosi di non staccare lo sguardo dal tappetto rosso, anzi, chiudendo gli occhi, pregando gli Antichi Dei di sua madre e dei suoi avi. Non sapeva bene in quale modo potessero aiutarlo. Intuiva soltanto di avere un bisogno disperato di aiuto.
Era troppo stanco, appena uscito da un duello verbale che ancora non comprendeva pienamente ma che aveva risucchiato tutte le sue forze. Era dannatamente stanco, stanco di essere sballottato da un luogo all’altro, forse anche arrabbiato per quella situazione che non vedeva fine, ma soprattutto spaventato.
Si aspettava un qualche invito ad alzarsi, un colpo di tosse piuttosto che un secco ordine. Ma di qualunque natura fosse quel segnale, esso non avvenne.
Re Robert, primo di questo nome, lo fissava. Non che potesse poi vedere molto da quella posizione. Il ragazzo era avanzato nella penombra, esponendosi agli occhi dei cortigiani e dei Lord, ma non a quello della coppia reale, illuminata da un fascio di luce, accecante sia per gli astanti che per loro medesimi.
E anche quando il cucciolo di drago si era presentato remissivo davanti a lui, l’unico elemento che poteva scorgere erano i suoi capelli scuri. Neri, almeno così gli sembrava, piatti alla foce e sempre più mossi al fluire. I suoi capelli.
Re Robert non voleva dare il segnale per due principali motivi. Voleva umiliare il figlio del suo nemico, il seme dei suoi lombi venuto a perseguitarlo dall’aldilà. Voleva vederlo soffrire, urlare, osservare la carne purpurea della sua gola mentre la squarciava. E poi. Poi non voleva frantumare quel momento.
Non era mai stato bravo nelle cose di cuore, delicato e gentile come Ned- le fanciulle lo ricercavano per altri motivi- preferiva non immischiarsi. E così stava di nuovo avvenendo.
Volevo cullarsi, almeno per un paio di minuti, di essere davanti al figlio di Lyanna, come tentava di ripetergli assiduamente Ned. Di vedere la sua prosecuzione, di accarezzare un’altra volta i suoi capelli corvini. E così era.
Ma quando il ragazzo si sarebbe alzato , e per quanto lui tentava di rimandarlo sarebbe avvenuto, non avrebbe più visto Lyanna, ma Rhaegar. Avrebbe visto tutto quello che avrebbe potuto essere e non era stato.
 E fremeva già di rabbia, dolore e nostalgia insieme.
Fu la regina ad alzare lievemente il palmo della mano candida, in un segno di divina benevolenza.
A differenza del reale consorte, Cersei Lannister era molto interessata a svelare il viso del giovane Targaryen. Il figlio di Rhaegar Targaryen, il principe del drago. Un nome roboante, come minimo.
E la regina era ben decisa a sviscerare quel viso e decretare quanto sangue Targaryen vi fosse. Quello che per il marito era una maledizione da debellare ferocemente, per la moglie era motivo di interesse altrettanto predatorio.
Jon, origine e conseguenza di ogni interesse, si sbilanciò lievemente con le spalle, tentando di incassare la testa fra le spalle armoniose. Anche Eddard si alzò, sospettoso e soddisfatto insieme, fissando intensamente il suo sovrano. Da parte sua Robert non contrasse nessuno muscolo facciale, limitandosi ad ardere di furore.
Con sagacia provvidenziale, Ditocorto uscì dalle tenebre, anteponendosi tra il cordone di luce e i cortigiani.
“ Jon Snow ha giurato fedeltà a Sua Maestà il Re. Da questo momento tutti i Lord, i cavalieri e le dame sono invitanti ad uscire per lasciare un momento di intimità alla coppia reale.” Un sonoro scoppio di esclamazioni e ilarità strappò il feroce silenzio.
Le dame sbuffarono insoddisfatti di essersi lasciate sfuggire un simile bocconcino- e non stavano parlando del pettegolezzo- e i cavalieri marciarono via impettiti nello loro uniformi sgargianti, per essere poi riportati bruscamente alla realtà dal vento gelido invernale.
In breve, la sala ritornò nuovamente nel buio e nel silenzio dei convitati. Petyr si concesse un rapido sorrido prima di girarsi verso la coppia reale.
“ Siamo finalmente soli, maestà.” Proruppe fervidamente, inchinandosi davanti al suo grasso signore.
“ Non mi sembra Ditocorto. C’è ancora la tua presenza ad ammorbare l’aria.” Re Robert stava tentando disperatamente di calmare quella bestia nera nel suo petto, ma l’unico risultato visibile erano le sue guance paonazze.
Ditocorto chinò nuovamente la testa, nascondendo la stizza d’ira a quella affermazione.
Solo la coppia reale e la famiglia Stark avrebbero assistito a quello scontro, anche se molti ne avrebbero udito le conseguenze.
Catelyn mantenne altera lo sguardo fisso davanti a sé mentre lui gli passava accanto, ma la sua rabbia, l’odio trasformato in cieca disperazione, ammorbava l’aria. Petyr poteva quasi sentire la sua invocazione d’aiuto. Tentennò appena sulla porta, gettando un ultimo sguardo alla scienza immobile.
I reali sui loro troni, Re Robert che minacciava di esplodere ogni secondo di più e la sua reale consorte protesa verso l’oggetto della sua attenzione. Jon, un cucciolo che aveva appeno finito di poppare il latte, indebolito, asservito e terrorizzato da quello che doveva venire. E Catelyn, una statua di ghiaccio accanto al suo Lord dell’Inverno.
“ Fuori da qui!!!! Esci immediatamente!!” L’urlo baritonale del sovrano lo gettò nella bufera di neve, la porta che si richiuse delicatamente.
Robert sbuffò rumorosamente , alzandosi faticosamente dalla sedia e protendendosi verso il boccale di birra, bestemmiando a mezza voce tutti gli dei. Cersei rise ferocemente, non degnando il marito di uno sguardo, ma concentrandosi verso Jon.
“ Abbiamo sentito parlare molto di te … Jon Snow.” La voce della regina era soave, cinguettante e stonava orribilmente col suo viso contratto e indurito.
Jon, per la prima volta chiamato in causa come uomo e non come oggetto, gettò una rapida occhiata al padre, prima di rispondere.
“ è un grande onore, vostra maestà.” Disse, tentando di mantenere il capo basso. Aveva la sensazione che se il Re non lo avesse visto, tutto sarebbe andato per il meglio.
La risata argentina di Cersei lo colpì come uno schiaffo. La donna poggiò il mento sulle lunghe dite, impegnata a studiarlo sempre più a fondo.
“ Vedo che il cucciolo ha capito qual è il suo posto. Ed è anche beneducato. Non c’è che dire, lady Catelyn, avete fatto un ottimo lavoro.” La Lady del castello sobbalzò, punta nell’orgoglio, ferita indelebilmente nell’animo.
La regina la fissava sorniona. Lady Catelyn era stata così stupida da mostrare il suo punto debole. Che principiante nel gioco del Trono.
Perché, che gli Stark lo volessero o no, stavano giocando per la loro vita.
“ Tutto per compiacere le vostre maestà.” La donna si inchinò nuovamente, il viso indurito e scarno.
La risata di Re Robert, più simile ad un ringhio, non si fece attendere.
“ Ed è per compiacere i vostri sovrani che siete scappati nel cuore delle notte, portando con voi il figlio del Principe del Drago. Non è vero? Non è così?” La voce si trasformò sempre più in un urlo stridulo, gli occhi rapaci che artigliavano la figura del ragazzo.
“ Robert.” Ned, fino ad allora rimasto in disparte, sperando disperatamente, si frappose fra di loro.
“ Nessuno voleva questo.” Constatò il Lord, avvicinandosi lentamente.
“ Ah NO??!! E che cosa ti aspettavi? Che cosa credevi di fare, disobbedendo ad un ordine esplicito del tuo sovrano??”
 Cersei sorrise nuovamente, gongolando per il suo inetto marito, che per una volta aveva deciso di tirar fuori gli attributi reali. A Catelyn questo non sfuggì.
“ Credevo di star facendo la cosa migliore per il mio migliore amico e per mia sorella.” Proruppe Eddard, gli occhi luminosi e tristi. “ Io ti ho giurato fedeltà, tu sei il mio sovrano. E sei, o forse eri, il mio migliore amico. Avrei dato la vita per te e tanti nostri amici sono morti in quella guerra. Tante persone che abbiamo amato con tutti noi stessi sono state ferite dai suoi artigli.” Il sorriso di Cersei si spense.
“ Lyanna è morta, Robert. E niente e nessuno può riportarla indietro. Ma lei vive ancora in suo figlio. Io dovevo rispettare la sua promessa, io dovevo rispettare te. Ho cercato di fare il meglio per entrambi. Voi eravate le persone più importanti al mondo per me.” Sia Cersei sia Catelyn si immobilizzarono, per una volta accumunate da un sentimento umano.
Robert sospirò e bevve un’altra coppa, il che non contribuiva a calmarlo. Ma non ribatté e fisso nuovamente il ragazzo.
“ è sempre lei, non è vero? C’è sempre lei! È tutto avvenuto per colpa sua!” Il suono sibilante graffiò l’aria. Jon si sorprese di come una voce umana potesse cambiare da miele soave e lama affilata.
La regina si rizzò, i tratti del viso induriti, il corpo proteso quasi allo scontro, e più che mai assomigliava ad una leonessa.
“ Taci, donna.” Il re ingurgitò una nuova coppa, fissando malevolo la sua consorte. Lyanna era un argomento intoccabile, un’ombra scura e persistente nel loro matrimonio.
“ Io sono la regina!! Tu non puoi ordinarmi nulla!”. Jon non aveva mai visto un uomo colpire una donna.
La scena si svolse lentamente, con un aria grottesca. Con una velocità impensabile per la sua mole, il re si avventò verso Cersei, il braccio alzato in segno di minaccia.
Jon non aveva mai neppure pensato che un re potesse picchiare la propria regina. A dire il vero, trovava ripugnante già solo il fatto che un uomo qualunque si scontrasse contro una lady.
Non che loro non fossero in grado di rispondere; Arya ne era l’emblema. Ma si trattava in ogni caso di una lotta contro natura, persa in partenza. Gli uomini e le donne erano diversi, questo era un dato di fatto inoppugnabile. Raramente le donne possedeva la forza e velocità necessaria per opporsi ad un uomo. La loro arma migliore era il cervello, la ragione persuasiva.
Al di là delle ragioni fisiche, era un abominio. Era una questione di rispetto, di onore. Valori che Ned Stark gli aveva inculcato fin da piccolo, idee fondanti dell’essere umano.
 Un re, consacrato dagli dei e dagli uomini, un cavaliere, che aveva giurato di difendere i deboli e gli innocenti, e in ultima istanza un uomo: questo era Robert.
E più Jon ne scopriva l’anima, più lo disgustava.
Se il sovrano era specchio, emblema e araldo del proprio reame, non osava pensare che genere di popolo governasse Robert Baratheon.
Lo schiaffo fu tremendo. Il corpo setoso e pallido della regina sobbalzò, inarcandosi all’indietro, i capelli biondi che esplodevano nell’aria circostante. Per un attimo Jon credette che la donna sarebbe rovinata a terra, stracciando qualsiasi barlume di dignità, ma Cersei con un estremo gesto della mano riuscì ad aggrapparsi alla spalliera del trono. I capelli d’oro splendettero sotto il sfrigolare delle torce, mentre la corona del reame sfuggiva alla loro presa. La regina se ne accorse troppo tardi e protese il braccio verso quel suo desiderio innominato, il rifulgere delle sue speranze, il simbolo di un potere che le sfuggiva tra le mani. L’aveva sognata per così tanti anni, adagiata sulla sua fronte, accanto al suo gemello, al suo sposo. L’aveva ordinata lei stessa, dopo che quella dei Targaryen era andata perduta: con magnifici smeraldi e rubini incastonati in fili d’oro purissimo, che si confondevano tra i suoi capelli.
Era la sua corona, il suo potere, il suo trono. La sua sconfitta.
Il cerchio dorato si librò per un secondo, dotato di vita propria, mentre gli invitati alla farsa osservavano la sua inesorabile caduta in una atmosfera fatata, immobile.
Il clangore metallico fu raccapricciante.
La corona cadde una prima volta, per poi librarsi e ripiombare nuovamente sui gradini di pietra e rotolare su se stessa, lontano dalle dita patetiche di Cersei, lontano dalle mire di Robert Baratheon, fino a depositarsi davanti ai calzoni neri di Jon Targaryen.
Jon non osò nemmeno sfiorarla. Con un balzo si protese verso la regina e le porse il suo braccio per rialzarla. Contro ogni previsione, anche quella del marito, Cersei non si scostò sdegnata, ma lasciò che il ragazza la riponesse delicatamente sul trono. Lady Catelyn si affannò a cercare dell’acqua mentre Ned si interpose fra l’amico di un tempo e la regina a cui doveva rispetto. Negli occhi della famiglia Stark vibrava il disprezzo.
Robert si scostò imbarazzato di fronte a quello sguardo di fuoco, Eddard così simile per rabbia a Lyanna. Perfino lady Catelyn non osava alzare lo sguardo; troppo sdegno ne sarebbe piovuto.
Oltre al pigolante bisbiglio di Catelyn, nella stanza regnava il silenzio. Eddard, troppo arrabbiato e deluso, e Robert, orgoglioso e altero nelle sue vesti di sovrano.
“ Cosa c’è Eddard? Evidentemente non ci hai mai visto litigare.” Bofonchiò, dirigendosi verso il tavolo. Il Lord non commentò che si trattava più di un macello che di un diverbio.
“ SEI UN ANIMALE.” Cersei si nascose la carne offesa con un mano, urlando.
“ E tu una cagna!” Il re scagliò via le brocche, voltandosi nuovamente. Probabilmente senza un nuovo ed eloquente sguardo di Eddard, Robert avrebbe proseguito nella sua ammirabile arringa.
Ma non fu lo sguardo di Ned a bloccare la lingua del sovrano.
Jon lo fissava senza più alcuna paura, curioso e implacabile nella profondità dell’animo. Robert rivide finalmente quegli occhi viola così tanto decantati. Sì, finalmente li rivedeva, dopo quindici, lunghi anni.
Non avrebbe potuto confonderli con nessun altro. Erano gli occhi che lo perseguitavano ogni notte.
La pupilla affilata come quella di un gatto, lo sopracciglia folte che proteggevano uno sguardo aperto e fulminante. Sì, lo sguardo di Rhaegar bucava l’anima. Brillanti, forse più di quelli di Lyanna, splendenti come il sole d’inverno contro la neve delle montagne, lo sguardo di Jon abbagliava. Costringeva gli astanti ad abbassare i propri occhi, costringeva gli occhi di un re a rivedere il passato.
Non ci potevano essere dubbi: Jon era figlio di Rhaegar. Robert ne era convinto. Aveva guardato il padre dritto negli occhi prima di ucciderlo. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto confermarlo. Se non forse Lyanna.
Le labbra del Re si aprirono. Avrebbe voluto ordinare la sua condanna a morte. Ma non poteva. Non poteva per la promessa fatta a Ned poche ore prima, non poteva perché il viso, le labbra, i capelli e l’anima erano quelli di uno Stark. Come poteva un lupo avere gli occhi di un drago?
“ Jon Snow.” I presenti si immobilizzarono e perfino Cersei costrinse la propria rabbia al silenzio.
“ Molti ti chiamano Jon Targaryen, ne sei conscio?” Jon deglutì sommessamente, ma rispose con voce calma e ferma.
“ Solamente da tre giorni, vostra maestà.” Robert sbuffò, arrabbiato e insieme divertito. Possibile che quello sciocco non avesse mai sospettato l’ovvietà? Menzogne.
“ Perché tu lo sei. Tu sei il bastardo di Rhaegar Targaryen.” Eddard lo fissò per la prima volta spaventato, cercando disperatamente una soluzione a quelle parole. Se il sovrano confermava la diceria, significa solo una cosa per il ragazzo: morte. Perfino lady Catelyn si lasciò sfuggire un ansito, stringendosi il mantello addosso.
Jon continuò a rimanere immobile.
“ Non posso negare che tu sia una minaccia per il mio trono. Come tutti i discendenti dei draghi. E sono felice di constatare che della vostra stirpe maledetta ne rimangono solo più due: tu e Aemon Targaryen. Tu sai chi sia?” La stupore si disegnò sulle labbra ben tornite, riscuotendolo. Negli ultimi giorni innumerevoli quesiti si erano profilanti nella mente del giovane: la morte, la vergogna di essere non soltanto un bastardo, ma un bastardo maledetto, l’amore.
 Jon si vergognava profondamente dei suoi occhi, di suo padre o almeno colui che era responsabile della sua nascita. Rhaegar Targaryen non era suo padre. Era solo il responsabile della sua rovina, di Jon e di sua madre. Nient’altro.
Ma mai aveva pensato che un altro derelitto come lui respirasse, che avesse l’onore di vivere da uomo libero.
“ No, mio signore, non so chi sia.” Mormorò, chinando nuovamente il capo. La risata del Re fu greve e mesta.
“ Era il terzo figlio di re Maekar I Targaryen e fu costretto a divenire un maestro e nascondere la proprio esistenza al mondo nel nero della Barriera. È così venerando e saggio che di lui si è ormai perso il ricordo.” Fu Ned Stark a spiegarlo al figlioccio, protendendosi verso di lui, in un inconscio istinto di protezione.
 La delusione di Jon fu selvaggia. Per un momento soltanto aveva creduto possibile l’esistenza di un altro Jon Snow dimenticato, bisognoso di aiuto. Il Re invece descriveva un principe educato alla raffinata corte di Approdo del Re, di puro sangue reale, dotto e venerando senza alcuna onta a macchiare il suo onore. Tutto il contrario della sua situazione.
“ Ned è sempre stato più bravo di me con le parole.” Robert si sedette pesantemente sul trono, non badando alla figura irosa al suo fianco. “ Beh, è sempre stato più bravo di me in molte cose.” Mormorò a mezza voce.
“ Ed è esattamente questo quello che ho deciso per te. Due cose vi uniscono: l’immondo sangue che vi scorre nelle vene e il destino che vi attende. Tu prenderai il nero alla Barriera.” Il corpo di Eddard tremò per un attimo mentre una sottile luce di speranza nasceva negli occhi di sua moglie.
“ Non credere che non ti taglierei volentieri la testa.” Aggiunse immediatamente dopo, in uno scoppio d’ira. Il cuore di Jon cominciò a martellargli il petto.
“Ma … ho fatto una promessa ed è mio dovere mantenerla.” Robert fisso intensamente Ned, scandendo lentamente le parole. “ Per troppo tempo le nostre famiglie sono state divise. Avevi ragione e tu sai quanto mi costa ammetterlo. Jon è anche figlio di Lyanna. È il figlio che avrei potuto avere.” Un nuovo sentimento scorreva dalla sua parole. Nostalgia, speranza? Non lo sapeva, ma si domandava che aspetto avrebbe potuto avere il loro figlio mai nato e quanta somiglianza ci sarebbe stata con Jon. E poi, sì, Jon era indubbiamente un nome del Nord. Un nome che la stessa Lyanna aveva scelto.
“Io ti ordino di prendere il nero. In questo modo avrai modo di redimerti tramite le tue azioni e il sangue del drago non avrà discendenza. Lo faccio solo in nome di tua madre.
Ma ho anche degli ordini per te, Ned. È ora che regni la pace nel mio regno. Jon Arryn è morto e io non mi fido di quel letamaio di serpi. Diventa il mio Primo cavaliere. Porta la pace nel reame. E fai che i nostri figli crescano insieme. Joffrey e Sansa hanno la stessa età e Lyanna fu scelta per me quando era ben più giovane. In questo modo sarà siglata una pace duratura e profetica per la nostra terra.
Te lo ordino come sovrano, ma te lo chiedo come amico.”
Ned rimase immobile per diversi secondi. Pensò alla sua piccola bambina, pensò alla sue terra, pensò all’odio che la opprimeva. Poi Robert si alzò dal trono e fu naturale abbracciarlo, come se quei quindici anni non fossero passati. Come se tutto si stesse finalmente ricollocando al suo posto.
Jon assistette a quella festa con incredulità. Era entrato con la consapevolezza della morte opprimente e ne usciva pieno di vita. Avrebbe avuto un futuro. Jon sarebbe vissuto. Gli uomini erano tutti uguali nei Guerrieri della notte, tutti accumunati dallo stesso mantello. Non sarebbe più stato un bastardo. Non avrebbe più dovuto difendersi dalle occhiate malevoli di lady Catelyn.
Si sarebbe costruito una vita con le sue sole forse, grazie ai suoi meriti. Sarebbe diventato comandante dei Ranger come suo zio.
Avrebbe trovato una casa. Una famiglia. Dei compagni.
Era più di quanto aveva sperato. Più quanto meritasse, a dire il vero. Abbassò la sguardo, tentando di nascondere un sorriso.
Non sarebbe più stato solo.
E forse avrebbe anche trovato chi poteva raccontargli la verità. La verità.
Lady Catelyn si alzò e fissò felice la coppia abbracciata. Era andato tutto bene. La casata Stark era ancora in piedi. E avrebbe avuto un futuro. Sansa asarebbe diventata regina e Jon se ne sarebbe andato via. Vivo, ma lontano. Era più di quanto sperasse.
Robert rise contento, finalmente sincero, e non badò alla saetta che si rifletté negli occhi della moglie.
Da quel giorno Cersei meditò la sua morte.



Taaddaaaa! Lo so che mi sono fatta attendere, ma vi giuro che sto annegando nello studio. Con mia somma felicità è iniziata la quarta stagione per cui potrò inserire i Martell senza venire bannata a vita * hip hip hurrà!*
Ma ho una grande, sincero e commoso ringraziamento da fare. Grazie a voi, e mi dispiace se sono monotona e ve lo continuo a dire, ma siete voi il mio carburante. Probabilmente senza le vostre recensioni questa storia si sarebbe fermata al terzo capitolo, e mi dispiace immensamente se non riesco a rispondere a tutte le vostre recensioni. Credetemi, lo vorrei e appena troverò un pò di tempo lo farò, promesso.
Alcune mi hanno addirittura commosso perchè mi accorgo che non sono l'unica pazza a crederci e a sognare. Mi potranno togliere tutto ma non la mia fantasia.
Ah sì, volete sapere la mia fantasia di Jon. Eccola qui! Ok, lo ammetto questo avrà sicuramente i capelli biondi, ma la fronte ampia, le labbra grosse, la mascella pronunciata e il naso forte ... beh, dovete ammettere che ci sono. Aggiungete i capelli scuri e ricci e naturalmente il colore del'iride che fa tanto discutere.
 Fatemi sapere che cosa ne pensate! ( della storia, non del modello, è sottointenso che è un figo XD)
 
    
 
 
 
 
  

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Capitolo 10
*** Il principe Targaryen ***


I passi piccoli e saettanti di Cersei Lannister tuonavano sul lastricato di pietra scura, le minute scarpe di velluto quasi consunte dalla rabbia della padrona.
La regina aveva ricevuto molte delusioni nel corso della sua vita- Robert era sicuramente una delle maggiori- ma mai come in quel momento sentiva il furore dei leoni scorrerle nelle vene.
Se solo fosse stata un uomo avrebbe brandito la spada di suo padre, affondandola in quell’ammasso di carne, trapassando lo strato di grasso fino a sgozzarlo come un maiale, qual era. Lei era una regina di casa Lannister, per tutti gli dei e le puttane di Approdo del Re!
Se L’Usurpatore credeva di poter fare a meno di lei si sbagliava di grosso e avrebbe pagato quell’errore con la sua misera vita.
I fieri Leoni dorati garrivano al gelido vento del Nord quando la regina fece un ingresso poco trionfale nei suoi appartamenti privati.
Un caldo e scoppiettante fuoco gli porse i suoi omaggi mentre la luce effimere disegnava ombre di orribili demoni e candidi angeli sulle pareti. Sebbene il Lord della fortezza avesse fatto tutto il possibile per rendere il soggiorno confortevole a tutti gli ospiti, Cersei trovava la stanza un tugurio.
Per fortuna aveva provveduto ad addobbarla con mobili di Dorne e raffinati tappeti dell’Altopiano fiorito. Non era di certo casa, ma almeno una tana a cui ritornare.
Una tana era confortevole. Cersei si adagiò sulla comodo poltrona, muovendo deliziata i piccoli piedi davanti al tepore del focolare.
Un tana aveva dei cuccioli. Dalla porticina delle scale comparvero delle piccole teste bionde, che squittirono di gioia alla vista della loro madre. Tommen corse a per di fiato, buttandosi con eccitazione poco regale ai suoi piedi, stringendole la mani. Myrcella, più pacata, levitò felice sui tappeti, baciandola sulle guance. Joffrey si concesse qualche attimo prima di scendere la scale pesantemente con indosso la sua armatura da battaglia completamente d’oro. Era un principe, un giovane leone che si affacciava alla vita. L’unico re a cui si sarebbe mai inchinata. Suo figlio.
Un tana era governata da una leonessa. Una leonessa ha il suo leone. Jaime aveva preferito rimanere lontano dal diverbio, ponendosi abbastanza vicino per proteggere la sua amata, ma nel contempo, lontano dalla portata della sua spada. Troppe volte aveva desiderato di rinnovare il soprannome. Sterminatore di Re, lo chiamavano. Non capivano che aveva solo ucciso il sovrano sbagliato.
Si era rifugiato nei suoi allenamenti infuocati, vibrando di rabbia e ardore. Era l’unica cosa che sapeva fare, combattere. Ed era il più bravo in questo. Il più abile. Il più letale che i Sette Regni avessero mai conosciuto.
Il migliore.
E ora si presentava a lei, con solo le brache di allenamento, i muscoli ancora i tensione e unti dal sudore e dal sangue degli avversari. Disarmato, con solo il suo sorriso a proteggerla.
Loro erano così, uniti per l’eternità dal vincolo indissolubile dell’amore. Nessuno aveva potuto dividerli. Nemmeno Robert e neanche il loro potente padre.
Ma era arrivato il momento così agognato da entrambi.
 Gli dei li avevano destinati all’amore e al potere, ora anche gli uomini lo avrebbero riconosciuto.
Cersei non badò alle proteste dei figli quando Jaime li allontanò dalla stanza. Vide soltanto il suo viso, le mani amorevoli che la sorreggevano sulle scale che portavano alla torre.
Sentì soltanto il calore dei suoi baci.  
 
 
Robb Stark si aggirava guardingo, spiando prudentemente tutti gli affranti prima di avanzare.
Grande Inverno era la sua casa. Quelle stanze avevano osservato i suoi primi passi, subito tramutati in corsa, per quelle scale aveva assaporato il primo sapore del sangue e i lividi delle cadute. Nei cortili il maestro gli aveva affidato la sua prima spada di legno e piombo, pesante per le piccole spalle puerili. Con essa aveva imparato i suoi primi affondi e il prezzo dell’onore. Le brughiere fiorite erano state le prima spettatrici delle sue urla di vittoria e di dolore. Le montagne fredde e implacabili gli avevano fatto da insegnante della vita, i gelidi torrenti e il calore del sole sulla pelle nuda lo facevano sentire così magnificamente vivo.
Era un lupo, era uno Stark. Sebbene il suo aspetto fosse dichiaratamente Tully, così gli Antichi Dei avevano deciso, il suo animo era temprato dal Nord, gli occhi azzurri affilati e arrochiti.
Ma un lupo ha sempre un branco. Robb non era cresciuto da solo, non aveva compreso il valore della vita senza un compagno a cui appoggiarsi. Ora quel suo compagno di giochi era scomparso.
Robb stava cercando suo fratello. Gli stranieri del Sud potevano dire ogni menzogna, lady Catelyn poteva dissuaderli, alternando blandizie a minacce, ma il branco Stark sapeva che un loro fratello era in pericolo.
Robb non vedeva Jon da una settimana. Una terribile e lunga settimana in cui la menzogna si era alternata alla verità, stracciandola con le proprie spire. Nonostante i perentori ordini paterni, i suoi figli aveva al fine saputo la verità.
Robb non riusciva a capacitarsi della reale discendenza di Jon. C’era stato un momento in cui si era sentito anche offeso. Perché Jon non li cercava?
Poi aveva capito. Jon era prigioniero nella fortezza che aveva fatto loro da casa.
Non sapeva bene quale indizio andasse cercando. Ned Stark gli aveva interdetto l’accesso alla maggior parte del castello, relegandoli ai loro appartamenti. Perfino le guardie avevano l’ordine di riportarli indietro. Dopo qualche momento di esitazione i fratelli Stark si erano uniti davanti alla minaccia.
Brandon, così abile ad arrampicarsi, era stato destinato alle torri del castello.
Sansa e Rickon dovevano mantenere invece le apparenze che tutti i fratelli fossero all’interno delle stanze, anche se il più delle volte la ragazza era invitata alla corte delle regina.
Arya non aveva voluto sentire ragioni. Ogni giorno studiava i movimenti delle guardie e, malgrado le ampie gonne, sgusciava tra le loro maglie, alla ricerca del suo fratellone.  Robb aveva almeno ottenuto che non si sarebbe avvicinata agli appartamenti reali, ma solo alla parte bassa della fortezza.
Theon che non aveva mai nutrito forti simpatie per Jon, si ritrovò suo malgrado coinvolto nell’impresa. A lui toccarono tutti i territori esterni al castello. Non era da escludersi che Jon fosse imprigionato lungo le mura o fuori da esse.
Robb, da futuro erede di Grande Inverno, tenne per sé la parte più pericolosa e anche la più probabile. Se Jon era davvero così importante come supponeva, allora il re non lo avrebbe tenuto lontano da sé.
Il ragazzo aveva già compreso che il fratello correva un gravissimo pericolo. E non avrebbe permesso che Jon, suo fratello, il suo migliore amico, morisse sotto il suo tetto, senza che lui combattesse con tutte le sue forze.  Era determinato a salvarlo, anche a costo della sua stessa vita.
Non aveva molto pensato a che cosa fare dopo averlo trovato. Inviarlo alla Barriera da zio Benjen sembrava la più probabile.
In ogni caso, quei lunghi giorni di ricerche non avevano prodotto alcuni risultato. L’intuizione che Jon fosse stato, almeno per un certo periodo, fuori dalle mura, si era rivelata corretta, almeno a giudicare dalle urla del Re. Ma la sua attuale posizione rimaneva un mistero.
Robb si era preparato ad ogni evenienza. Indossava un farsetto da viaggio, scuro e senza fronzoli, e un lungo mantello nero che nascondeva un piccolo pugnale alla cintola. Se Jon era prigioniero, lui l’avrebbe salvato.
Il ragazzo girò l’angolo e, come gli occhi si abituarono alla luce improvvisa, lo stupore fu immenso.
Jon era appoggiato ad un fascio di colonne, le mani che si massaggiavano le tempie. Dire che fosse cambiato era di certo un eufemismo della situazione. Indossava lo stesso abito della presentazione al re, ormai logoro e sfilacciato. Era dimagrito. Le mani nascondevano un viso contrito e affilato, con una barbetta non curata sulle guance.
Robb rimase immobile per alcuni secondi prima di muoversi silenziosamente. Jon però si accorse lo stesso della sua presenza, fissandolo che una magnifica espressione di stupore e bramosa felicità.  La carnagione era, se possibile, ancora più bianca e cadaverica, che esaltavano ancora di più gli occhi. Robb non aveva mai trovato strano le pupille di suo fratello. Speciali, forse, ma mai motivo di angherie e rimorsi. E per quanto si  sforzasse non poteva farlo neanche allora.
I due giovani si lanciarono l’uno nelle braccia dell’altro, così impacciati da scontrarsi con la forza burrascosa di due giganti. Si strinsero, timorosi di perdersi un’altra volta, mentre ognuno si riprometteva che ciò non sarebbe più avvenuto.
Rimasero così per diversi secondi, i pugni stretti, gli aliti caldi che sfioravano la pelle dell’altro, i mantelli che ancora si muovevano per la forza dell’impatto. E i due occhi, per colore e discendenza così diversi, ugualmente commossi, felici, splendenti di vita.
Coloro che per storia si sarebbero dovuto odiare, ora si amavano come fratelli.
Ad entrambi non importava chi fossero in realtà i proprio padri, bastava che loro fossero cresciuti insieme e insieme avrebbero lottato e vissuto.
Robb cominciò a ridere, prendendo la testa del fratello tra le mani.
“ Ti ho cercato dappertutto, vecchio bastardo! Come stai?” Anche Jon incominciò a ridere, dopo così tanto tempo.      
“ Sto bene. Sto bene.” Il bastardo lo ripeté più volte, assaporandone il sapore sulle labbra screpolate. Da troppo tempo si era dimenticato che cosa volesse dire sentirsi felici.
Robb frenò la propria voce tremante e si limitò a fissare il fratello con i suoi occhi adamantini.
“ Arya ti ha cercato ovunque e perfino Sansa si è adoperata per la tua ricerca. Ci sei mancato. Non sparire mai più.”
“ Non lo farò.” Promise Jon, abbracciando nuovamente l’amico. “ Ma non dovresti essere qui. Papà potrebbe vederti.”
“ Infatti vi ho visto.” La voce rombante di Eddard Stark tuonò per la campate a vela fino a scuotere il corpo dei due ragazzi. Il Lord dell’Inverno era appena uscito dall’assemblea reale stanco e sfinito, ma nonostante ciò, un lieve sorriso era disegnato sul viso sfiorito.
“ E come vi osservo io, possono farlo gli altri. Seguitemi.”
L’ordine non ammetteva repliche, così il gruppo si avviò senza proferire parola. Davanti il padre che guidava la comitiva e infine i cuccioli spaventati davanti ad ogni bivio.
Mai la loro casa gli era apparsa più oscura e minacciosa.
Il cammino continuò per corridoi bui e vicoletti usati dai popolani, vie nascoste e spogliate di ogni ornamento, che si inerpicavano per le torri del castello. E fu appunto nel torre del Lord che Eddard li condusse, chiudendo finalmente la porta alle loro spalle.
“ Padre …” Tentò di biascicare in scusa il primogenito. “ Non ora, Robb.”
Il Lord chiuse ogni tenda prima di lasciarsi cadere sulla poltrona in legno con accanto un fuoco scoppiettante e vari calici di vino. Poi li fissò entrambi.
“ Non mi aspettavo di meno da voi. Siete fratelli. Io vi ho educati come tali. È giusto che tu, Robb, cerchi il tuo compagno in difficoltà. Ma è altrettanto giusto che le donne e i bambini siano esclusi da questa pericolosa ricerca.” Gli occhi grigi si illuminarono pericolosamente mentre Robb chinava la testa.
“ Detto ciò, sedetevi. Stiamo aspettando.” I due fratelli si interrogarono silenziosamente prima di accostarsi al seggio paterno. Il viso di Ned Stark pareva scavato dalle mille guerre intestine che aveva affrontato, lui, un uomo d’onore, abituato alle gloriose campagne militari. Aveva imparato a proprie spese che il nemico più pericoloso era quello alle proprie spalle.
Robb e Jon fissavano mortificati quei segni di dolore, affliggendosi della stessa pena.
“ Posso versarvi una brocca, padre?” Chiese umilmente Jon, chinandosi istintivamente. L’uomo, prima perso nella contemplazione del fuoco, si riscosse e osservando materno i gesti affettuosi dei suoi cuccioli.
“ Succederanno molti fatti d’ora in avanti, figli miei, e di certo questo sarà quello più oscuro. Dovete essere forti perché l’Inverno sta arrivando.”
Il motto degli Stark risuonò sinistro nelle stanza del suo Lord, vibrando di luce mortifera.
“ Ma qualunque cosa succeda, se questa sarà l’unica occasione per poterci parlare da uomini liberi da ogni orecchio e pregiudizio, voglio che sappiate … io sono orgoglioso di voi.” Gli occhi grigi dello Stark si illuminarono di una luce calda, più tepida e molle di quella del fuoco.
“ Sono fiero degli uomini che diventerete, dei ragazzi che siete. Non dimenticate mai che voi siete fratelli, un branco legato da legami di sangue e di lealtà. Comportatevi con onore, rispettate i più deboli e difendente sempre la vostra famiglia, poiché quando arriverà l’Inverno troverete solo in essa il calore dell’amore.” La voce di Ned tremò per un attimo mentre i visi dei suoi figli si scioglievano come creta davanti alla fioca luce.
“ Questa fu la benedizione che mio padre consegnò a me, quando l’Inverno si abbatté sulla nostra casa.
Io ora la consegno a voi. Con il ricordo sincero di questi momenti.”
 Il Lord si alzò solennemente mentre i ragazzi scattarono in piedi, eccitati, felici, commossi.
Ned era un padre affettuoso, ma, da quando i suoi figli erano in grado di portare le armi, era diventato più distaccato e rispettoso, trattandoli da uomini quali ormai erano. Le pacche sulle spalle erano rare e ben meritate. Gli abbracci non consentiti.
Eppure fu un gesto talmente naturale accogliere quei due uomini- uomini!- tra le sua braccia e stringerli forti a sé. Jon gli stringevano forte il braccio, commosso da quell’affetto forse non meritato. Robb sorridente, un smorfia che sapeva di pianti e di addio.
Sì, quell’abbraccio aveva il sapore di un addio imminente. Non sapevano da quale minaccia, da quale orribile mostro dovevano difendersi. Eppure era lì, chiaramente presente, che li incalzava.
Si strinsero con la foga e l’ardore di giovani uomini all’alba del proprio destino, si abbracciarono come i figli amano il proprio padre, si lasciarono con il dolore di un vecchio alla fine della vita.
Ned, percependo dei piccoli passi, fu il primo a staccarsi, continuando però a fissare ardentemente i figli. Jon e Robb ebbero appena il tempo di guardarsi prima che gli intrusi facessero il loro ingresso.
Il primo sconosciuto era di statura media ma incredibilmente magro e affilato, il corpo fasciato da grandi manti neri. Gli occhi azzurri come il ghiaccio della Barriera studiarono la stanza prima di sciogliersi in una roca esclamazione.
“ Ned!” Benjen Stark si lanciò verso il fratellone, stritolandolo fra le sue spire.
“Ben!” Anche il Lord rise, battendo le grosse mani sulle spalle.
“Zio!” esclamarono all’unisono i due fratelli, sorpresi per quella visita così piacevole.
“ Ragazzi! Per tutti gli Antichi Dei! Salutai dei bambini e ora trovo degli uomini pronti alla guerra!”
 Robb si concesse una piccola smorfia mentre lo zio li salutava. Per tanti anni aveva sognato quell’agognato augurio, ma ad un tratto gli appariva freddo e minaccioso.
Diventare uomini, no, non era così che se lo era aspettato.
Jon invece fu catturato da una minuta figura che veniva dietro lo zio. I capelli erano lunghi e bianchi, così fini da sembrare seta. L’intero corpo era rattrappito su se stesso, scavato quasi dal gelo e dal freddo, eppure si muoveva svelto e circospetto, studiando tutto e tutti con un paio di luminosi occhi azzurri. Le pupille guizzarono quando incontrarono la figura longilinea del ragazzo, fissandolo.
“ Ragazzi, questo è Aemon Targaryen, maestro della Cittadella e dei guardiani della Notte.”
Il freddo di quegli occhi pervase il ragazzo. Questo dunque era l’ultimo dei Targaryen, la famigerata stirpe di dei e demoni che aveva portato i Sette Regni alle vette del Paradiso e alla miseria dell’Inferno?
Il vecchietto appariva assolutamente innocuo, questo forse aveva convinto i suoi nemici, ma quegli occhi vispi nascondevano troppo intelligenza per risultare inoffensiva.
“ Ho sentito tanto parlare di te, Jon Snow.” La voce era gracchiante, tuttavia nell’insieme piacevole. Jon fu grato dell’utilizzo del suo cognome ufficiale. Ma non poteva togliersi la sensazione di essere studiato in ogni suo movimento.
Quando il Lord invitò tutti a sedersi, Aemon si accomodò come un vecchio corvo sulla sedia più vicina al fuoco e da quel momento non tolse più gli occhi dal ragazzo.
Eddard fu sbrigativo.
“ Abbiamo poco tempo, ben presto il re verrà a sapere del vostro arrivo. D’altra parte è stato lui ad ordinare la vostra venuta.”
“ Concordo. I Lannister di certo sanno del nostro piccolo conciliabolo, ma ho disposto spie e guardie lungo tutto il castello. Se vorranno arrivare in questa stanza, lo faranno solo da cadaveri.” Benjen ghignò sotto la luce del fuoco.
“ Non è necessario, Lord Ranger. Lord Mormont vi manda i suoi ossequi, lord Stark.” Mormorò delicatamente Aegon.
“ I ragazzi possono restare?” Benjen fissò acutamente i due fratelli.
“ Riguarda loro. È giusto che apprendano il loro destino, anche se non lo comprenderanno appieno.” Rispose Ned. Ci fu un minuto di silenzio in cui tutti i presenti, tranne Aegon ovviamente, fissarono rapiti il fuoco.
“ Il Re mi ha chiesto di ricoprire la carica di Primo Cavaliere e vuole che Sansa e l’erede al trono si sposino quanto prima.” Annunciò lugubre il Lord, non smettendo di trucidare il fuoco con il proprio sguardo. “ Il pensiero che un ragazzo si avvicina a una della mie figlie mi è insopportabile e ancora di più Joffrey. Non mi piace quel ragazzo. Odia troppo suo padre ed è troppo simile alla madre.
Robb, anche se non interpellato, confermò con una smorfia.
“ Questo cambia i nostri piani.” Commentò Benjen.
“ E perché mai? Era già deciso che Jon non sarebbe andato alla Barriera.” Il mondo crollò in un colpo sulla testa del povero ragazzo, che si ritrovò a boccheggiare davanti alla sua brocca di vino. Per non palesare il proprio affanno davanti ai presenti, che già lo fissavano minutamente, cercò di tracannare in un sorso il proprio boccale, finendo in un principio di soffocamento. Mentre Robb lo soccorreva, Benjen gli spiegò.
“ Jon, mi dispiace, ma sarebbe troppo pericoloso per te.”
“ Per quale motivo? È la mia unica possibilità per sopravvivere, per trovare una compagnia e una posizione rispettabile. Potrei diventare un ranger e, se gli altri miei fratelli mi reputeranno adatto, potrei succederti come primo Ranger. È la mia unica possibilità, zio, è la mia unica possibilità.”
Queste ultime parole furono sussurrate con il tono stridulo della preghiera mentre pia piano tutte le difese che in tre giorni Jon si era costruito crollavano miseramente.
 Aveva sopportato troppo.
Uno scontro con la sua matrigna, con un sovrano che lo voleva morto. E poi era risorto, ritornato alla felicità dei suoi cari. E ora nuovamente il futuro gli appariva incerto e burrascoso.
Avrebbe mai trovato un posto sicuro?
Jon chinò gli occhi viola, non voleva piangere davanti alla sua famiglia, a suo padre e a suo zio che già lo chiamavano uomo.
“ Tuo zio dice il vero, Jon.” Il ragazzo, stupito, alzò la testa davanti a quella calde parole di conforto che non provenivano dalla sua famiglia. Aegon Targaryen lo fissava mesto e affettuoso.
“ I Guardiani della Notte non sono più quelli di una volta. Quando avevo all’incirca la tua età, scelsi per me la via del servizio e mio padre fu contento di ciò. All’epoca vi erano troppi pretendenti al trono.” Gli occhi brillarono di una risata derisoria.
“ Forgiai la mia catena e quando compresi che sarei potuto diventare un pericolo per me e per il mio popolo, scelsi nuovamente e la mia destinazione furono i Guardiani della Notte. E come vedi sono ancora qui. Vuoi sapere il motivo?”
Jon ascoltava incantato e, timoroso della propria voce, annuì.
“ Perché i governanti, i re, le regine, i comandanti, non si curano dei servi. E io, per quanto regale, sono un servo di tutti gli uomini. E ormai sono troppo vecchio. Quasi tutti hanno dimenticato il mio nome e quei pochi che lo pronunciano o sono cari amici …”, Aemon sorrise a Ned: “ o i miei nemici.
Quello che ti volevo spiegare, caro ragazzo, e che i Guardiani della Notte sono l’ombra di quanto erano cinquanta anni fa, per non parlare dei secoli precedenti. Non soltanto in forze militari, ma soprattutto in tempra morale. Nella vita precedente erano stupratori, ladri, assassini, traditori, spie … e non sono cambiati dopo il giuramento. Le casate hanno molto da guadagnare nella tua vita o nella tua morte.
 I Lannister più di tutti godrebbero nella tua sfortunata dipartita. Nemmeno un battaglione dedicato alla tua difesa riuscirebbe a salvarti al Castello Nero se qualcuno dei confratelli ti volesse morto. Troppi cunicoli, segreti e sotterfugi che un novellino come te non conoscerebbe.
I Guardiani della Notte non sono un buon posto per te, caro ragazzo.”
Jon fissò il maestro sotto shock. Forse era la tremenda verità di quella affermazione o gli occhi azzurri del suo prozio, ma sentì che non avrebbe mai visto la Barriera. Non come corvo, per lo meno.
“ Mastro Aemon è più bravo di me a spiegare, nipote. Ma rimane in ogni caso il problema della destinazione di Jon.” Il ragazzo era ormai caduto in un profondo coma di disperazione, troppo profondo per altre rivelazioni. Fu Robb a parlare per lui.
“ Perché Jon dovrebbe andarsene? Il castello è il luogo più sicuro per lui, lo hai affermato tu stesso, padre!” Ned scosse la testa.
“ Forse un tempo, ma ormai con l’arrivo del re, chissà quante spie si sono infiltrate nelle nostre difese. Grande Inverno non è mia stata così debole come ora.”
Il silenzio regnò nuovamente sovrano.
“ Non puoi andare al Sud, fratello.” Proruppe Ben, il terrore della perdita coperto dalla rabbia: “ La corte di Approdo del Re è piena di serpi e di vipere. Non andare.”
“ Ho già accettato.” Rispose il Lord, evitando gli occhi del suo fratellino. “ Già Jon ha rischiato un pericolo mortale, presentandosi davanti al re. Robert è solo l’ombra di quello che era. Se avessi rifiutato, avrebbe potuto uccidere il ragazzo.” Ben ringhiò, sempre più simile ad un lupo nell’animo, e si servì un’altra coppa di vino.
“ Ciò non vuol dire che Sansa sposerò Joffrey. Quando arriverò alla corte, avrò anche l’occasione di svelare qualche suo scomodo segreto, che utilizzerò per ricattarlo. Troverò a mia figlia un uomo giusto e che la rispetti.”
Sì, Ned Stark non era più il ragazzo semplice e onorevole di quindici anni prima. Il tempo, l’Inverno lo avevano fatto crescere.
Era un uomo, ormai addestrato anche lui al Gioco del Trono. Avvezzo a sorridere al suo migliore amico, anche sapendolo il suo peggiore avversario.
Era passato così tanto tempo da allora. Lyanna. Lyanna.
“La vostra scelta è saggia, Lord Eddard, e propongo che il ragazzo parta con voi, approfittando del trambusto. Si dirigerà verso la Barriera, ma non vi arriverà mai. Una sera, lord Benjen, aprirete le dispense e l’armeria. Viaggerete nella notte e sparirete dal Nord.”
L’ipotesi di un viaggio, di una destinazione talmente lontana e misteriosa riscossero Jon, per farlo solo catapultare in un girone più stretto e terribile.
“ E quale sarebbe la destinazione?” Fu Robb a porre la domanda cruciale, timoroso egli stesso della risposta. Ned e Ben si zittirono. Perfino il fuoco, padrone incontrastato dell’intera stanza, fremeva in attesa.
“ Dorne. Sarà Dorne.”
Jon alzò fieramente la testa, i capelli che scattarono con il rumore di una frusta.
Lui, un lupo, uno Stark, nel profondo Sud!! Il maestro si doveva essere sbagliato.
 Perfino un vecchio venerando come lui doveva prender degli abbagli. A Dorne! Per tutti gli Antichi Dei!
Ma Mastro Aemon continuò  a fissarlo, imperterrito, forse un po divertito.
“ Da anni il principe Doran ha a cuore la sorte del giovane lupo. Da anni continua ad inviarmi lettere circa la tua salute.
Vi precedo, Lord Eddard, è indubbio che il principe abbia dei progetti politici per Jon, come tutte le casate dei Sette Regni. Ma Dorne è lontana, molto più che Grande Inverno da Approdo del Re.
Sono certo che nessuna spia Lannister potrà anche solo avvicinarsi al ragazzo, che crescerà sano e forte.”
“ Con tutti i miei rispettosi ossequi, voi siete pazzo, mastro Aemon!” Gridò il primo ranger, fissando alternativamente il giovane e il vecchio Targaryen.  
“ Jon potrà anche essere figlio di Rhaegar Targaryen, ma è uno Stark a tutti gli effetti, per gli Antichi Dei.” L’imbarazzo calò purpureo sulle guance del ragazzo. Mai prima di allora, qualcuno glielo aveva sbattuto con tale foga davanti. Guardò timoroso Robb, che però in risposta gli strinse la mano.
“ Questo la sappiamo tutti, lord Benjen. Per quanto voi abbiate ragione, dimenticate sempre una parte del problema, quella più spinosa. Jon è un Targaryen e mentre voi lo avete protetto da questa verità, per quanto pesante, i Martell lo venereranno per questo.
Certo, lo considereranno un proprio pari, dato che anche loro hanno sangue di drago nelle vene. Ma ciò che conta è che lo proteggeranno proprio perché lo considerano un Targaryen. Non una pedina come tutti gli altri, non uno Stark, ma un erede al trono.”
Ben fu costretto a zittirsi mentre Jon si alzò in piedi. La velocità dello scatto gli fece quasi perdere l’equilibrio, ma non il contatto con la realtà.
“ Io non sono un erede al trono, mastro Aemon, vi sbagliate. Io sono uno Stark di Grande Inverno e non aspiro affatto al trono.  Non tradirei mai la mia casa.” La foga di quelle parole lo lasciò senza fiato.
“ Lo sappiamo tutti, figliolo.” Lo calmò Eddard, invitandolo a sedersi.
“ Lo sanno anche loro. Ti assicuro che anche il principe ne è ben conscio. Io e tuo padre abbiamo già discusso con lui le modalità dell’accordo. Finché la situazione non si sarà calmata, è ben disposto ad ospitarti e ad allevarti insieme ai suoi figli e nipoti, in cambio di un adeguato compenso. Avrai una tua scorta personale e potrai girare armato all’interno della reggia. Questo è un onore che il principe ti accorda dato che ciò è permesso solo ai membri di sangue reale.”
Onore? Era un onore essere rinchiuso in una reggia straniera, con degli sconosciuti armati, lontano dalla sua famiglia, dai suoi fratelli, dalla tua terra? Lui, un uomo del Nord, gettato nel profondo Sud! Più che un onore, aveva il sapore della morte.
“ è la soluzione migliore.” Quando Jon interrogò con gli occhi suo padre non ricevette risposta. Lo fissavano tutti benevolenti – con perfidia?- limitandosi ad annuire. Solo Robb sembrava provare la sua stessa disperazione.
Prima che Jon potesse anche solo muovere le labbra, il Lord gli accordò il permesso di andarsene. Jon si voltò, esterrefatto, sconvolto, istupidito dalla disperazione, le mani che arrancavano sul farsetto logoro, gli occhi che vedevano nero. Robb lo precedette e spalancò la porta, catapultandosi verso l’esterno. 
Jon voleva solo seguirlo. Voleva solo rivedere Spettro e la sua famiglia. Aveva bisogno di Arya.
“ Jon.” La stessa voce che aveva dettato tutta la conversazione lo fermò sullo stipite della porta.

“ Non potrai ripudiare per sempre la figura di tuo padre. Lui ti voleva bene.”
Jon non badò alle parole di Aemon e senza rispondere scese rumorosamente le scale.
 
Poco più sotto lo aspettava il fratello, visibilmente sconvolto.
“ Tu hai capito che cosa ha detto prima Mastro Aemon?” Gli domandò sbalordito.
“ Sì, ma sono solo menzogne.” Jon continuò la discesa, non badando ai tremuli occhi azzurri.
“ Jon …. Lui ti ha appena parlato in alto Valyriano …”
Jon si immobilizzò, lo sguardo nel vuoto. I fratelli Stark non avevano mai studiato l’alto Valyriano.
 
  
 
 
 
 Ecco qua tutti i miei piani per il futuro svelati! Spero che vi piaccia, scritta tutta di getto in un pomeriggio che avrei dovuto passare a studiare matematica. Pregate tutti in coro che domani non mi interroghi, vi prego. Signori sappiatelo, sono profondamente mortificata che in tre giorni questo capitolo sia stato letto "solo" da 35 persone dopo uno share medio di trecento :( Ditemi quello che non vi è piaciuto! :)

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Capitolo 11
*** Il tempo scorre ***


Una piccola premessa. Questo capitolo è appena un assaggio dell'addio definitivo di Jon, che si sta allungando sempre più, e mi rendo conto che leggere quindici pagine, per quanto commoventi, possa essere davvero pesante. E non ho intenzione che il più bel capitolo che io abbia scritto venga considerato "pesante". Modestia, lo so.;)
In ogni caso non credo che sia un capitolo da sottovalutare. Gli avventurieri e gli amanti dell'azione potrebbero trovarlo troppo melenso, ma credo che dopo tutti i sotterfugi dell'ultimo capitolo i nostri " personaggi" possano godersi un ultimo momento di felicità insieme. Per cui, tutti quelli che amano la fratellanza degli Stark, apprezzeranno questo omaggi, dedicato solo a loro.
Il capitolo dell'Addio arriverà forse domani sera e farò di tutto perchè ciò avvenga. Ah, non dimenticate, recensite lo stesso ;)




Il fermento montava come mare in tempesta alla corte del Nord. In trecento polverosi anni mai così tanti uomini d’armi si erano accalcati nell’ombra delle sue mura, ma così tanti paggi e servette scodinzolanti si erano adoperati al passaggio dei proprio mecenati. Mai così tanti Lord e cortigiani, permeati da un purpureo candore, avevano segnato con i propri nobili passi il bianco selciato.
Nevicava a Grande Inverno. Non era bufera né tormenta. Solo una delicata spolverata di zucchero a velo sull’armatura delle guardie e le merlature dei torrioni, abbastanza per solleticare le barbe degli uomini, per far comprendere la loro ineluttabile passività di fronte alla potenza del Nord, ma pur sempre un passeggero stato atmosferico. In quali terre e forme quella neve vigorosa si sarebbe posata non era dato sapere.
Il castello si era come addormentato nell’ansia dei suoi preparativi. Il re finalmente tornava ad Approdo del re. E questo bastava sapere.
I servi scorrazzavano guardinghi tra i corridoi, i bravi si buttavano sui sacchi di iuta, mormorando bestemmie e imprecazioni serafiche, riscaldati dal pensiero che in meno di un mese Grande Inverno - e tutti i problemi che esso comportava – sarebbe svanito come neve sotto il sole del Sud. Tanto bastava.
Nessuno osava chiedere di più, per timore di infrangere quel sacro equilibrio cristallino.
Nessuno. Tanto meno Sansa. Perfino la rispettosa Sansa, la lady del Nord, come i cavalieri del Sud usavano chiamarla, che più di tutti voleva conoscere il contenuto delle laboriose conversazioni intorno al fuoco. E forse proprio per questa sua maliziosa curiosità, era stata confinata nelle sue stanze. Gli unici guizzi di vita in quel torpore erano rappresentati dagli invita della regina, rivolti solo ed esclusivamente a lei.
All’inizio, ciò l’aveva inorgoglita. Era fiera dei suoi capelli splendenti, che assommavano in loro tutti i colori delle foglie d’autunno, come se uno stregone si fosse divertito a ricreare le stagioni in quel piccolo corpicino. Rosse le sue labbra succose, come le ciliegie d’estate. Candida la pelle, perfetta come una perla d’Oriente, scavata nelle profondità della Barriera. La sua indole allegra e frizzante come la Primavera.
Sansa Stark era la signora delle stagioni, regina di bellezze dei futuri tornei, anche se di una bellezza diversa da quella della zia. Eppure un solo titolo premeva a quel piccolo cuore di usignolo.
Non regina, come a suo tempo Cersei aveva bramato; non amante, tale disegno del fato toccò a Lyanna Stark; neanche madre, come Catelyn Tully. No.
Sansa desiderava essere la lady di un unico cuore, quello del suo promesso sposo. Il pensiero che un giorno sarebbe stata la sposa di Joffrey Baratheon, l’aveva riempita di gioia. E non solo.
Lo stregone dovette essere nuovamente richiamato per descrivere quella marmaglia irrispettosa che affannava il tremulo petto.
Amore? Sansa era forse troppo giovane per conoscerne le acri spine.
Orgoglio? Sì, fierezza del proprio lignaggio, del suo corpo, di tutte quelle qualità che le altre ragazze le invidiavano. Tranne sua sorella, ovvio. Arya disprezzava tutto ciò per cui Sansa si ostinava a combattere. Era una bestia, che mordeva la mano ai propri benefattori, che in realtà chiamava “invasori!”.
Nonostante i litigi e le frecce avvelenate d’astio e rancore, Sansa invidiava un poco quella sua sorella, bella non di un patina esteriore, ma di una splendente tempra che la rendeva simile ai propri antenati e per la quale Ned Stark avrebbe voluto nome Lyanna.
Invidia, rancore, gioia, trionfo. Emozioni troppo intese e turpi per lei.
 Si lasciò trasportare, come una barca nella corrente, accettando gli omaggi dei cortigiani, i sorrisi di sua madre, i balli incantati con il suo promesso.
 Infine erano anche arrivati i colloqui privati con Cersei.
La regina era ansiosa di incontrarla. L’aveva fatta ricevere con pomposi squilli di tromba, dolcetti al limone che lei sapeva essere i suoi preferiti. Sansa aveva accettato pudica queste conferme al suo prestigio, ma era rimasta sorpresa dal contenuto delle conversazioni. Sua madre e le sue amiche l’avevano preparata.
Sì, era vergine, ma non ancora in grado di concepire figli sani e forti al suo unico sposo. Fedele, sempre e comunque alla casata regnante dei Baratheon.  E no, suo padre non avrebbe mai interferito nei suoi affari. Sapeva già le risposte che avrebbero taciuto tutte le domande.
Ma, per quanti argomenti avesse preparato, nessuno le aveva anticipato il problema “ Jon Snow”.
Sansa non si era mai troppo interessata a quel fratello bastardo dallo sguardo solitario e gli occhi magnetici e mai nessun abitante aveva accennato a quello strano colore d’iride. Solo allora Sansa si era sentita una stupida di fronte alle domande sempre più pressanti e affilate della donna.
Come era possibile? Non si era mai posta delle domande?
Jon sapeva della sua paternità? Come aveva saputo? Dove si nascondeva?
La stessa ragazza si poneva quelle medesime domanda, constatando il vuoto che producevano.
 Perfino lei sentiva l’ovvia sciocchezza.
No, non si era mai posta la domanda.
Pensare che il proprio fratellastro, senza madre e avvenire, fosse l’ultimo discendente di una delle più importanti casate, basandosi solo sul colore degli occhi. Pareva tutto così ovvio e naturale sotto le domande striscianti della donna.
Cersei rimase delusa da quell’uccellino, facile marionetta nel gioco del trono. L’aveva interrogata per ottenere risposte e ne ricavava solo dubbi.
Sansa rimase per un’intera settimana nella stanza con i fratelli. Le battutine salaci di Arya e gli sguardi di Robb bastavano per incenerirle il volto di vergogna.
Quando il paggio recò un secondo invito, ne rimase sorpresa. Credeva di aver perso ogni possibilità. 
Quella volta e per tutte quelle a venire, Cersei non parlò più di verginità o questioni politiche. Chiese di suo fratello, ma in modi e termini insoliti. Chiese della sua infanzia, delle sue paure e dei suoi sogni. Del suo aspetto prima, dopo e durante la scoperta. Dei suoi occhi. Della sua pelle. Di come sorridesse. Chiedeva le sua abitudini, le sue capacità in combattimento.
Forse faceva parte di una oculata politica di conoscenza dell’avversario, ma le domande erano troppo personali, gli occhi verdi troppo brillanti e pericolosi.
Il giorno prima della partenza, mentre la regina sorvegliava dal suo scranno l’esercito in marcia delle servette, le aveva rivolto una domanda, di cui Sansa non seppe dare una risposta.
Le chiese se Jon era in grado di procreare figli. E di fronte alla naturale ritrosia della vergine, si incattivì come il predatore al sapore della preda.
Aveva mai conosciuto donna? O uomo? Sansa lo aveva mai scorto nella sua nudità?
Cersei la studiava, con quei suoi terribili occhi di smeraldo, non fermandosi, ma continuando nella sua frenetica bramosia. Poi il desiderio si spense.
Gli occhi si scurirono e la donna ridiventò regina, calmandola con languidi gesti e offrendole tartine.
Sansa non conosceva bene suo fratello. Aveva saputo rispondere a metà delle domande e a ognuno si fissava stupita.
Davvero lo conosceva così poco?
Davvero quel solitario ragazzo era un principe di lignaggio ancora più puro di quello di Joffrey?
Al riparo offerto dalle proprie coperte Sansa aveva pensato. Aveva ricordato a tutte le domande a cui non c’erano state risposte e tutti i momenti passati insieme. Aveva rimuginato su quel bastardo, che tanto bastardo non era, fino ad elevarlo alla soglia della legittimità. Tutte le frenetiche domande avevano attizzato la sua curiosità. Ricordò i suoi capelli riccioluti, il mento ben pronunciato, scoprendo incantata che suo fratello non era più bambino, ma uomo. Si fissò su quegli occhi magnetici che nei suoi ricordi divennero ancora più splendenti.
Nel giro di una notte Jon Snow, il bastardo, si elevò a Jon Targaryen, principe. E nonostante i tentativi della ragazza, ad ogni crepuscolo il suo viso si affacciava su i suoi sogni.
 
Jon Snow aveva avuto poco tempo per stare con i suoi fratelli minori. Pressato da richieste in ogni dove, diviso tra i doveri paterni e quelli regali, aveva preferito le calde braccia della sua infanzia.
Nelle frequenti battute di caccia reali, Jon e Robb si scostavano dalla comitiva per affrontare pendii impervi e gloriose conquiste.
Il ragazzo avrebbe ricordato quei giorni per tutta la sua vita.
Furono giornate spensierate, vissute nello splendore innocente della pubertà.
Al pieno delle proprie forze, i ragazzi si buttavano dalle scogliere di ghiaccio fino ai torrenti squillanti delle montagne. Lottavano nell’acqua gelida fino a sentirsi morire per poi emergere e rinascere nuovamente. Bevevano calde cioccolate dagli otri di pelle per poi cacciare, la lancia in mano e il cuore nel petto, così gloriosamente vivi e primitivamente selvaggi, annunciati dagli ululati tenebrosi dei loro metalupi.
Scalavano le pareti come Primi Uomini, bevevano il sangue caldo delle bestie appena uccise. Si divertivano a scoprire i limiti di quei nuovi corpi, così diversi dalle curve dell’infanzia, e lo stupore di veder quei limiti infranti, i confini spezzati!  
Lontano dai vincoli e dalla corte, Robb e Jon divennero per sempre fratelli.
Non si sentirono mai così liberi e così uniti. Combattevano per poi abbracciarsi, si tiravano i lunghi riccioli non ancora tagliati e urlavano al vento la propria gioia. Correvano per le verdi praterie, le pellicce abbandonate vicino ai cavalli, il sangue che pompava fiero nel petto, calde lacrime di sale che scendevano sulle guance rosse dal vento per recare conforto.
Quando al crepuscolo si riunivano alla carovana, nessuno osava predicarli.
Comparivano come spettri dell’aldilà, i due cavalieri solitari, accompagnati solamente da due metalupi; anche loro stavano abbandonando la muta dei cuccioli per assumere quella dei predatori.   
Il loro sorriso, i loro muscoli tenaci suscitavano risa e commozioni. Ned li fissava, senza dire niente, gli occhi pieni di una tale vista.
Perfino lady Catelyn mordeva il freno. Ignara per una volta tanto dei piani del marito, sedeva austera, scorgendo la gioia dirompente con una punta di invidia. Si crogiolava nella certezza che mancava appena un giorno alla partenza. E dopo tutto sarebbe tornato al suo posto.
Al contrario delle previsioni, Arya era la più scontenta fra tutti. Lanciava lontano da sé l’ago e il filo da cucito, fissava ansiosa le finestre, cercando un qualche segno  dei fratelli perduti. Tutte le umiliazioni e le botte venivano ampiamente ripagate all’arrivo del crepuscolo.
Venivano prima le fanfare di tromba, che annunciavano l’arrivo del re, poi le guardie armate, i cacciatori, i cani, le carrozze dei cortigiani e delle puttane. Infine, mai così belli ed innocenti, i due fratelli Stark.
Le serate erano passate nelle loro stanze, al riparo di occhi e lingue indiscrete. Tutta la famiglia prendeva parte alla festa.
Bran regalava al fratello piccoli pegni; uova colorate, il piccolo teschio di un passerotto trovato in cima alla torre del maestro. Sansa allietava i presenti con la finezza della propria voce. Rickon si divertiva a pestare i piedi dei fratelli, gettandosi in rapide risse a cuscinate.
Arya e Jon fingevano di duellare con dei rami essiccati, ignorando i consigli di Robb e le urla oltraggiare della sorella.  La vecchia Nan presiedeva quel concistoro di matti, di cui era degna rappresentante, preoccupandosi più della loro paura alle sue storia, che dell’incolumità.
Malgrado tutta la gioia e tutti i sorrisi, alla fine il giorno predestinato arrivò. Jon sperò di poter rimandare.
 Il re non poteva partire a causa di una sbornia più intensa delle precedenti, ma lo sguardo freddo di Ned fu implacabile. Doveva partire. E in fretta.
 

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Capitolo 12
*** Addio, Grande Inverno ***


Piccola premessa: ho scitto il finale di getto, ben conscia che domani ho un test di matematica che mi ucciderà, ma rischiavo di avere un infarto se non scrivevo. Mi rendo conto che sia lungo. 13 pagine per la precisioni. E so che può risultare lungo, per alcuni.
Ma io credo che valga la pena, sul serio. Ci ho messo l'anima a scriverlo e anche a pubblicarlo perchè è stato come strappare un pezzo di me.
Se, come me, sentite che le emozioni che provate sono troppe o troppo pallose, prendete il vostro fedele ipod e mettete le cuffiette. Ragionate. Cercate di capire se, l'ultima parte in particolare, vi riguarda o no. Siate umani. Provate emozioni ;)


Jon si svegliò. Rimase a fissare la condensa del proprio alito, cercando di riprendere conoscenza. Si passò le mani tra i capelli riccioluti, girandosi di lato.
Era alla fine arrivato il giorno. Non voleva crederci. Non voleva alzarsi. Non voleva andarsene via.
L’ultima sera era stata ancora più frenetica, se possibile. Lui e Robb avevano bevuto, non tanto per sentire il pugno caldo dell’alcool nello stomaco, solo per dimenticare che alla giornata piena di vita sarebbe seguita la notte di bagordi e lacrime. E dopo la notte, per quanto tetra o dolce essa potesse essere, veniva l’alba.
L’ultima alba.
I rumore dal cortile interno aumentarono: le ruote sul selciato, le porte sbattute sempre più frequentemente, i cani che latravano invano.
 Il castello si stava svegliando.
Jon deglutì. Forse, se avesse saputo la reale destinazione del suo viaggio, l’allontanamento sarebbe stato meno duro.
 La Barriera non era lontana. E i Cavalieri della Notte accoglievano tutti, come aveva affermato mastro Aemon stesso. Stupratori, ladri, assassini, traditori … bastardi. Sarebbe diventato Lord Comandante, forse, l’uomo più rispettato al di là della Barriera. Come zio Benjen sarebbe tornato dalla sua famiglia saltuariamente. Magari avrebbe partecipato ancora alle bevute con Robb.
Forse, un giorno, avrebbe accompagnato Ayra all’altare.
Dorne era troppo lontana. Ci voleva quasi un mese di navigazione o più. E anche se Robb continuava a ripetergli, con una nota di disperazione, che quel viaggio non era di sola andata, che quando le acque si sarebbero calmate lui sarebbe tornato da loro, da Stark in mezzo a Stark, Jon non ci credeva.
C’erano troppe lacrime. Troppi sguardi. Troppi saluti che sapevano d’addio.
Jon era convinto che non avrebbe più rivisto le montagne incantate e i torrenti in festa. Sarebbe morto di qualche malattia orientale nel profondo Sud, probabilmente ucciso dal veleno di qualche vipera, animale o umana che fosse. Sebbene suo padre cercasse di dipingere quel lontano regno nel migliore dei modi, le guardie si lasciavano andare a commenti lascivi.
Doran Martell era un vecchio gottoso. Suo fratello, Oberyn, conosciuto per la sua tremenda capacità di fottere e uccidere, voleva morti tutti gli assassini di sua sorella, Elia Martell. Aveva disseminato il regno di bastarde. E Jon non si sentiva affatto consolato da quella situazione. Aveva l’impressione che la condizione giuridica fosse l’unica cosa che unisse lui e quel manipolo di donne oscure.
Era frastornato, cupo, indeciso. Gli ultimi giorni avevano contribuito a renderlo libero dalla sua infanzia senza nome. Ma proprio allora, il massimo momento in cui Jon si sentiva ed era uno Stark, veniva strappato dalla sua terra, dalla sua famiglia.
Un pudico colpetto sulla porta lo risvegliò.
“Avanti!” disse, slanciandosi verso la rozza camicia poco distante.
Si aspettava Robb, che aveva promesso di aiutarlo a fuggire, oppure Arya in lacrime.
Sansa Stark fece il suo ingresso nella stanza spoglia, già impacchettata in vista del viaggio. Le guance si imporporarono vistosamente alla vista del fratello in quelle condizioni.
“ Sansa … io … non mi aspettavo che venissi …” Jon, forse più imbarazzato della sorella stessa, si infilò i pantaloni di pelle, per una volta tanto senza intoppi.
“Nemmeno io.” Sansa stessa era stupita dal suo coraggio. Aveva violato tutte le convenzioni che aveva così tanto propugnato agli altri, era entrata nella stanza del suo fratello bastardo, con lui ancora in tenuta da notte. Un condizione disdicevole per una fanciulla del suo rango.
“Volevo vederti.” Volevo capire.
Sansa studiava angosciata la fisionomia di quel giovane addormentato, cercando di eliminare dalla sua memoria i pavidi sogni di quella notte oscura. E più confrontava la realtà con la fantasia, più trovava delle differenze.
Jon era dannatamente meglio del ragazzo partorito dalla sua immaginazione.
Perfino in quel momento così imbarazzante, appena strappato dal calore delle coperte, Jon rimaneva imperturbabile, pienamente padrone di se stesso. In grado di vestirsi rapidamente, ma senza l’affanno della pubertà infantile.
La sorella faticava a riconoscerlo con il bambino dei suoi ricordi.
Forse gli avvenimenti degli ultimi mesi, forse la consapevolezza di non essere un comune bastardo, avevano irradiato in Jon Snow un aurea di potenza e fascino misterioso. Almeno per Sansa.
I riccioli lunghi, che il ragazzo aveva fieramente preservato dalla forbice del barbiere, la lieve barba che fioriva sul mento affilato, la fronte spaziosa, tutto contribuiva a renderlo un cavaliere dannato, cantato nelle storie della vecchia Nan. E quegli occhi.
Fissavano Sansa, senza remore, un po’ guardinghi e prudenti per quella drastica visita, e la abbagliavano. Più delle armature scintillanti o dei vestiti lussuosi. Più delle canzoni dei menestrelli o altisonanti titoli.
Sansa si ritrovò a fissare il suo riflesso, in quelle pupille brillanti ed enigmatiche.
“ Sarà un lungo viaggio. Ed è probabile che non ci vedremo per molto tempo. Partirò tra due giorni con il principe ereditario.” Lo informò, avvicinandosi.
“ Spero che la mia permanenza a Dorne si protragga per il più breve lasso di tempo possibile. Lord Eddard ritiene che durerà un paio di mesi. Vi auguro la più intensa felicità con il vostro promesso sposo.” Jon non riusciva a sbilanciarsi troppo per quella sorella, cercando di mantenersi il più possibile educato e rispettoso. Sansa gli ricordava troppo lady Catelyn.
Tuttavia l’effetto fu esattamente l’opposto a quello voluto. Sansa si avvicinò ancora di più, attirata da quel giovane compito.
“ Il principe ereditario. Il futuro re.” Aggiunse lei. “ E io sarò la sua futura consorte, la regina. “
Le sue parole storsero lievemente le sopracciglia del fratello, che non commentò.
“ Probabilmente godrò di un notevole prestigio a corte. Appena avrò consolidato la mia posizione, ti farò venire a chiamare. Dorne non è adatta a nobili del nostro rango.” Affermò convinta Sansa.
“ Non credo che il re e la regina mi vorranno accanto a loro.” Sussurrò ironico Jon.
“ Che sciocchezze!” scattò la ragazza: “ Chiederò a Joffrey un invito reale. Non mi ha mai negato nulla.”
Il ragazzo non insistette sul fatto che conosceva il principe da appena un mese e solo in occasioni ufficiali, sotto la tutela della madre. Si limitò ad annuire.
“ Secondo la regina, Approdo del Re è una corte raffinata rispetto a quella dei dorniani. Si raccontano terribili leggende nei loro confronti.” Jon preferì tacere, intimamente spaventato che perfino la sua sognatrice sorella conoscesse la cattiva fama di cui godeva Dorne, almeno da vent’anni a questa parte.
“ La prossima volta che ci rivedremo, vi racconterò tutto.” Disse, prendendo il farsetto di cuoio, sperando che quest’ultimo gesto convincesse la ragazza all’uscire.
Invece, Sansa, con il viso vistosamente arrossato dall’emozione e dal sangue, si fiondò verso il petto del fratello, abbracciandolo. Jon boccheggiò di fronte a questa spinta, indeciso su cosa fare, sconcertato da quell’istintivo gesto.
 Rimasero così per un tempo indefinibile, il viso della ragazza nascosto tra le pieghe delle sue spalle, e il fratello bastardo, pietrificato da quell’unico segno d’affetto o considerazione in quindici anni di vita. Non era l’abbraccio virulento di Robb e nemmeno quelli commossi di Arya.
Era qualcosa di purulento, pernicioso, sbagliato. Quando Jon se ne rese pienamente conto, si scostò delicatamente, fissando intensamente la fanciulla.
“ Fai attenzione, Jon.” Gli raccomandò.
“Lo farò.” Promise, sbalordito il ragazzo alle sottane di seta della sorella mentre queste sfuggivano dal suo profumo di lavanda e muschio.
Jon rimase immobile per diversi secondi, domandandosi che cosa diavolo volesse significare quell’abbraccio. Uno slancio di compassione? Un calcolo politico?
Vent’anni dopo, il principe Jon Targaryen, dopo una vita d’intrighi e calcoli politici, si sarebbe ancora ricordato di quella sua pavida sorella e di quell’abbraccio, di cui ancora gli sfuggiva il significato.
Per il momento, il ragazzo si limitò ad infilarsi il farsetto di cuoio, gli stivali da viaggio e il mantello foderato di pelliccia. Non c’era altro oggetto all’interno della stanza. Tutto era stato portato via e imballato in vista della partenza. Perfino i mobili, come per rendere maggiormente definitivo e inevitabile il viaggio.
Come se già l’abbraccio dell’unica sorella che non aveva mai sentito tale, non sottolineasse la drammaticità dell’evento.
Spettro lo stava aspettando nelle scuderie, insieme alla sua armatura e ai bagagli.
Prese un piccolo involto, appoggiato sul letto, e si avviò verso la porta. Chiuse gli occhi e respirò piano l’aria, che sapeva di legno e d’infanzia. Sospirò. Non disse nulla. Avanzò e chiuse silenziosamente la porta dietro di sé, che tremolò per il colpo, e quel suono si propagò per l’aria silenziosa della camera mentre la polvere volteggiava fino a posarsi sul pavimento. Nessun’altro avrebbe più dormito tra quelle pareti.
 
Arya Stark si stava sfilando rabbiosamente tutte le forcine che sua madre si era ostinata a metterle, quando vide la sagoma del fratello profilarsi sulla porta.
“ Jon!” La bambina si slanciò fra le braccia aperte del fratello, che la accolse gioiosamente. Quello era l’unico abbraccio che desiderasse dalla sua unica sorella. La sua sorellina.
I capelli puntigliosi di Arya gli pungevano il viso mentre lei si lamentava della rada barbetta di Jon, ma nessuno dei due si sarebbe sciolto per nessun motivo al mondo.
Alla fine, Jon le prese la testolina fra le mani, meravigliandosi ogni volta di più della forza dei suoi occhi. Arya era una vera Stark. Neanche una stilla di sangue Tully era passato in quel corpicino scattante.
 La chiamavano “Arya muso di cavallo”. Era l’unica che avesse il coraggio di vivere la sua vita con coraggio e onestà. Jon non avrebbe mai provato ammirazione più grande che verso di lei.
Nessuno. Nessuno con quegli occhi splendenti. Nessuno con quella tempra interiore. Nessuno. Solo lei. Arya.
“ Sei in ritardo, furfante.” Lo ammonì la bambina, quasi donna, colpendolo con un pugno sordo al petto. Jon incassò il colpo senza un lamento e con un sorriso, nonostante la forza di quelle piccole braccia.
“è venuta Sansa a salutarmi.” Lui stesso si meravigliò di quelle parole. Arya si voltò sbalordita.
“ Sansa?? E cosa ci faceva miss Futura Regina Del Pianeta in camera tua? È perché mai voleva salutarti?” La proverbiale furia degli Stark di abbatté contro il fratello, che rispose con un risolino.
“ Non mi dire che sei gelosa, mia lady.”
“IO? Gelosa? Di Sansa “ il mio Joffrey”?! Ma fammi il piacere, Jon Snow.” Arya lo colpì con la sua lingua argentina, esplodendo suo malgrado. Non capiva neanche lei il senso di quella visita, e di certo si sarebbe ancora più infuriata se avesse saputo del loro unico abbraccio, ma Jon ritenne più sicuro per la sua incolumità omettere quest’ultima parte.
Sì, Arya era gelosa.
Gelosa che Sansa avesse osata degnare Jon di uno sguardo dopo una vita di indifferenza totale.
Gelosa che Jon avesse passato le sue ultime giornate con Robb, invece che con lei.
 Gelosa che suo fratello dovesse partire per un territorio pericoloso come Dorne.
Non era giusto. Voleva andare con lui. Accompagnarlo in una vita di avventure piuttosto che in una esistenza di iniquità ad Approdo del Re.
Era furiosa. Furiosa di essere una donna. Furiosa con suo padre. Con Jon.
“ Sai che odio quanto mi chiami così! Io non sono una lady!” Arya si gettò sul letto, scalpitando. Jon si adagiò silenziosamente al suo fianco.
“ Per me sarai sempre la mia piccola lady guerriera, la mia sorellina.” Gli occhi viola si incatenarono a quelli di grigi. Targaryen in Stark. In un dualismo che si ripeteva nella storia.
“ Allora portami con te.” Stava supplicando, Arya Stark. Nell’unica richiesta che avrebbe fatto per tutta la vita. Solo con lui. Solo con Jon.
“ Sai che se potessi, lo farei.” Sussurrò Jon. “ Ti porterei via con me, nascosta in un baule da viaggio. Poi, appena lontano dalla mura, cavalcheremo a briglia sciolta verso la Barriera.”
“ La Barriera.” Sospirò estatica la sorella.
“ Già. La percorreremo e poi prenderemo una nave a porto delle Ombre. E lì viaggeremo ancora e ancora. Andremo a Dorne. E se non ci piacerò, potremmo viaggiare verso l’altra parte dell’oceano.”
“ Anche verso l’antica Valyria?” Aggiunse Arya.
“ Sì. E poi ancora oltre.” Jon sorrise, tremulo. Gli sarebbe piaciuto. Forse ancora più che con Robb.
Portare la sua sorellina lontano da un futuro che non le apparteneva e non meritava. Offrirle la libertà che cercava. Proteggerla. Amarla.
“ Ma tutto questo è un sogno, vero?” Arya lo studiò con quegli occhi affilati e troppo intelligenti, da adulta.
“ Sì, è solo un sogno.” Dovette ammettere il fratello, sfilandosi da quello sguardo di fuoco e ghiaccio.
Rimasero in silenzio per un po’, ascoltando il respiro regolare dell’altro, non fissandosi, pensando a quel magnifico sogno.
“ Devi promettermi una cosa, Jon Snow, devi darmi la tua parola.” Arya era l’unica della sua famiglia, insieme a lady Catelyn, per motivi diversi, a chiamarlo con il suo cognome.
Sua madre voleva umiliarlo.
 Lei glorificarlo. Sarebbe sempre rimasto suo fratello, qualsiasi cognome gli avessero affibbiato alla nascita.
“ La parola di un bastardo vale ben poco a questo mondo.” Tentò di scherzare.
“ Non mi interessa la parola d’onore di un bastardo, ma la tua.” Sotto gli occhi di Arya, Jon si inginocchiò a lei, fissandola intensamente.
“ Mi devi giurare che tornerai.” Proferì solennemente la sorella : “ Mi devi giurare che tornerai da me sano e salvo. E che mi porterai via con te.”
Jon deglutì. La fissò. E sentì l’amore fraterno e l’affetto sgorgargli dal petto e dagli occhi. Sperò che Arya lo vedesse.
“ Io ti giuro, Arya Stark di Grande Inverno, io giuro di tornare da te.  E quando sarà il momento, di portarti con me nel nostro viaggio.” Jon prese il piccolo fagotto, che aveva dimenticato  sul letto. Sfilò delicatamente il panno di lana, non togliendo mai gli occhi dalla sua sorellina.
“ Ma fino ad allora, avrai bisogno di un compagno.” L’incarto rivelò uno spadino. Era corto e affilato, slanciato nella sua lunghezza. Arya lo fissò timoroso e con un accenno affermativo il fratello le consegnò la sua prima spada.
Era leggera. Fu la prima sensazione della ragazza a contatto il manico duro e ruvido. E affilata. Splendeva nella stanza, bevendosi dei pochi raggi di sole che filtravano dalle imposte.
“ L’ho fatta fare apposta dal fabbro. È molto leggera, ma efficace, adatta per braccia poco allenate.”
Arya continuava a bersi si quella meravigliosa vista, ignara del mondo esterno, solo delle parole del suo fratellone.
Tentò di parlare, di ringraziare, di sciogliere quel peso al cuore. Non ci riuscì. Preferì gettarsi fra le braccia del suo cavaliere giurato, rischiando di affettarlo, ma gli baciò il viso, le mani e rise e pianse.
Emozioni contrapposte si facevano largo nel piccolo cuore.
Jon rideva commosso e piangeva insieme, stringendola a sé.
“ Ricordati, prima lezione. Colpisci con la punta.” Sussurrò alla piccola testolina.
“ Ago. Si chiamerà ago. E con lei ricamerò meglio di qualsiasi lady!” Rise Arya.
 Sapeva che il momento era giunto. Doveva andarsene ora, perché se avesse continuato non avrebbe più trovato la forza.
Arya era l’unica persona che lo avesse amato per quello che era, senza sotterfugi o impedimenti. Arya era la sua sorellina. E lui sarebbe davvero tornato da lei, dall’unica persona che lo accettasse nella sua totalità, in tutte le parti che lo componevano.
Per lei avrebbe scalato la Barriera. Attraversato l’intero continente. Sopportato Dorne. Ma alla fine sarebbe arrivato da lei e l’avrebbe portata via.
Si lasciarono con quella promesse, sancita dal sangue ed una spada.
Si lasciarono senza altre parole che non fossero le loro lacrime e i tocchi delle loro mani.
Jon si avviò verso la porta, ma non resistette alla tentazione di voltarsi. E la vide. Vide la donna che sarebbe diventata. Che splendida visione.
Vide gli occhi splendenti e il viso affilato dalle battaglie, vide le mani, abili portatrici di morte , e la spada che le stava accanto.
Vide i capelli raccolti e l’animo degli Stark, troppo retto da piegarsi, troppo forte da spezzarsi, come l’acciaio inossidabile di Ghiaccio.
Vide la bambina che non era più e la donna che sarebbe diventata.
Non si dissero nulla, abbagliati l’uno dalla luce dall’altro. Jon si voltò e percorse velocemente il corridoio.
Arya avrebbe voluto urlare, ma non lo fece. Strinse più forte il manico della sua spada, forte di un giuramento che sapeva sarebbe stato mantenuto.
 
 
Lady Catelyn lo aspettava al termine del corridoio, conscia che il bastardo avrebbe voluto salutare Arya prima di andarsene.
Jon non si accorse della sua presenza finché non fu troppo tardi. Si asciugò le lacrime con rabbia e si avvicinò ancora più velocemente; prima sarebbe finita, meglio era.
Lady Catelyn faceva la guardia alla stanza dei suoi figli. Rickon e Brandon dormiva ancora e Jon poteva vedere dalla piccola finestra il sole, che appariva come un disco perlaceo in quella mattina di fine estate. Jon avrebbe voluto salutare i suoi fratellini, ma gli basto gettare un’occhiata a Lady Catelyn per capire che ciò non era possibile.
Si fissarono per un lungo istante. La donna avrebbe voluto insultarlo. Jon avrebbe voluto difendersi. Ma non parlarono. Si fissarono solamente.
Tutte le parole erano già stata spese e gli insulto volati. Non c’era più nulla da dire.
Il ragazzo non provava molta rabbia, solo un po’ di rancore per la sua infanzia svanita. E anche soddisfazione, un pochino, perché suo malgrado in quei giorni Ned Stark si era impegnato ad annunciarlo come suo figlio bastardo. Nonostante i suoi sforzi Jon ormai si sentiva uno Stark.
Jon poteva anche essere in pericolo, ma mai come in quel momento si sentì un giovane falco che spicca il volo, mentre lady Catelyn assomigliava più ad un vecchio gufo, le occhiaie sempre più marcate e la pelle pallida. 
“ Addio, lady Catelyn.” Jon chinò lievemente il capo.
“ Addio, bastardo.” La donna proferì quell’epiteto con tutta la rabbia e la disperazione che si portava dietro da quindici anni. I suoi occhi azzurri sfavillavano e molto probabilmente la donna pensava di avere un contegno trionfale, ma era soltanto invecchiata nell’ombra del suo odio.
Il ragazzo non commentò. Guardò per un’ultima volta i suoi fratellini e proseguì il cammino.
Per il resto della sua vita si sarebbe pentito di non averli svegliati per abbracciarli.
 
Robb lo stavo aspettando ormai da diversi minuti, sbuffando e imprecando gli dei che gli avevano dato in sorte quel fratello sbadato, troppo attaccato agli affetti che il mondo si ostinava a togliergli.
I cavalli erano già sellati, i bagagli impilati ordinatamente l’uno sull’altro. Il Lord di Grande Inverno, Eddard Stark, stava discorrendo amabilmente con Tyrion Lannister. E come non se non bastasse Spettro non smetteva di fissarlo.
“ Non so dove sia!” si difendette il ragazzo, ma ciò non calmò le palpitazioni del metalupo, che, anzi, lo fissava ancora di più, domandandosi perché un cucciolo nel pieno delle sue capacità, sano e soprattutto non legato, non andasse a cercare Jon.
“ Sai me lo chiedo anch’io.” Assentì Robb, appoggiandosi alla staccionata. Proprio in quel momento passarono due lady, che alla vista di quella improbabile conversazione, scoppiarono a ridere.
“Bella figura mi fai fare. Perfetto, adesso sono anche il buffone di corte. Complimenti.” Spettro uggiolò, nascondendo il viso tra le zampe. I suoi gesti venivano sempre incompresi.
Quasi per magia, Jon Snow comparve dall’imboccatura del tunnel, ancora pensieroso dall’ultimo incontro avvenuto con la sua matrigna.
“Credevo di doverti venire a cercarti, cardellino.” Lo canzonò Robb, ghermendolo fra le sue braccia e spettinandogli i capelli.
“Ti saresti perso da solo, mio principe.” Jon lo spinse lontano, ridendo suo malgrado per quella innocua scazzottata. Intanto Spettro li studiava pacificamente.
Jon fece appena in tempo ad armeggiare con il suo collare che una voce lo richiamò all’ordine.
“ Non ancora, Jon. Aspetta di attraversare il centro abitato.” La voce baritonale di Ned Stark bloccò la tremula luce del sole. Malgrado Jon fosse chinato, si stupì di incontrare un paio d’occhi al suo stesso livello. Di due colori diversi, per l’esattezza, uno azzurro e uno marrone.
“ Jon Snow. Il tuo nome è sulla bocca di tutti, ormai, ma sei all’altezza di un nano.” Tyrion Lannister non poteva dirsi una persona bella. Non della bellezza di Sansa o di sua sorella Cersei o alla virilità di Jaime. Eppure, malgrado il viso asimmetrico, gli occhi limpidi e il corpo deformato, emanava pur sempre un suo fascino. Il sorriso, che assomigliava più ad un ghigno lupesco, gli tagliava il viso da parte a parte come il colpo di una scimitarra.
“Tyrion Lannister. Anche io ho sentito parlare di voi.” Jon si inchinò, anche se fu difficile, essendo già chinato e si rialzò lentamente. Sebbene il ragazzo avesse cercato di non ferirlo, la risata del nano fu troppo ironica e nell’insieme rabbiosa.
“Chi non ha mai sentito del buffo, goffo e deforme figlio di Tywin Lannister? Ragazzo, sei più ingenuo di quanti mi aspettassi. Ti chini ad un nano, ridicolo. Ti stai mettendo d’impegno per risultare uno stupido di fronte alla corte? ” Non aveva tutti i torti. Il cortile era gremito di gente e da ogni pertugio sbucavano teste e scialli di donne, tutti intenzionati a non perdersi l’esilio del figlio bastardo del defunto principe del drago, l’ultimo della sua dinastia, almeno così si sperava.
Jon si sentì immediatamente uno stupido. Non per un motivo in particolare- non aveva commesso alcun crimine-, ma le sue guance si tinsero di rosso e di umiliazione.
“ Tyrion ha espresso il desiderio di visitare la Barriera.” Lo informò Ned, scoccando una lunga occhiata di fuoco al nano, per nulla intaccato da quei gesti.
“Ho sempre sognato di pisciare sulla testa di qualche bruto.” Si limitò a sghignazzare Tyrion Lannister, con la sua risata da lupo. “ Ho già fatto i bagagli e avuto il beneplacito reale. Penso che possiamo andare dunque.”
Jon si domandò come avrebbe fatto a montare a cavallo mentre l’uomo si allontanò con quella sua strana andatura.
“ è stato inviato dal re ed è un Lannister. È una spia?” Robb espresse tutta la sua preoccupazione. Eddard scosse la testa.
“ Tyrion sarà anche un Lannister. Ma è molto diverso dalla regina o da suo padre, per cui nutre un odio mal celato. No dobbiamo sottovalutarlo affatto, ma non credo che sia agli ordini di Robert.”
“ E allora cosa facciamo? Sicuramente Lord Tyrion avrà una sua scorta personale. Potrebbe essere un pericolo per Jon!” Ululò Robb, i pugni stretti.
“Ho già provveduto, figliolo. Jon avrà sempre al suo fianco vostro zio. Tyrion Lannister non è uno stupido. Non cercherà di uccidere un ragazzo che tutto il Regno sa essere sotto la protezione dei Guardiani della Notte. I sospetti ricadrebbero subito sulla sua famiglia e sfortunatamente lui ne pagherebbe la conseguenze.” Eddard lo fissò con i suoi occhi di ghiaccio e il figlio fu costretto a chinare il capo.
“ Andiamo.” Il Lord si diresse verso le scuderie.
“ Venite con me?” Jon chiese stupefatto a Robb.
“Nostro padre ha deciso di salutarci fuori dalle mura, lontano dagli occhi indiscreti. E non ha tutti i torti.” Dovunque andassero, i loro movimenti venivano seguiti da ogni cortigiano o spia della corte, le loro emozioni catalogate e già il breve discorso con il Lord aveva suscitato moti nella folla.
I due ragazzi si infilarono rapidamente nelle scuderie.
Il cavallo di Jon era nera come la pece, in conformità con il suo desiderio di entrare nei Guardiani della notte. Il ragazzo legò Spettro, che da parte sua lo guardò offeso, alla propria sella, controllando che tutti i finimenti fossero al loro posto. Non aveva intenzione di cadere da cavallo nella sua ultima uscita da Grande Inverno. Già l’ultima.
Jon si rese inaspettatamente conto che non sarebbe più venuto nelle scuderie a giocare con Robb o per dare da mangiare a Spettro.
Le sue pupille si contrassero, meravigliandosi per ogni particolare che prima pareva insignificante. L’odore del cuoio e della merda, le travi di legno del soffitto che si congiungevano alle pareti di pietra grezza. La paglia che scricchiolava sotto i suoi piedi. Il suo cuore che batteva. Il respiro che si condensava nell’aria autunnale.
Tutti dettagli a cui non mai aveva fatto caso, ma che ora presentavano un’importanza fondamentale.
Jon montò a cavallo, il calore dell’animale sotto le sue cosce, gli zoccoli che ruzzolavano sulla paglia. Strinse forte le redini, tentando invano di riprendere il controllo del proprio corpo.
No. Non ce la poteva fare.  Non poteva lasciare Grande Inverno. Era un ordine troppo grande, troppo definitivo. Non aveva paura di che cosa lo stesse aspettando fuori dalle porte di quercia, ma di cosa stava lasciando alle spalle.
Eppure Robb gli sorrise mentre gli inservienti aprirono le porte. Prima andò Eddard con il suo splendido stallone, poi Tyrion Lannister, infagottato in lungo mantello purpureo che nascondeva le gambe deformi. Poi zio Benjen, che gli stava dicendo qualcosa, e i suoi confratelli in nero. Venivano le guardie di Tyrion e infine due ragazzi, loro due.
Jon vide la luce abbagliante del sole invernale, contrapposta al buio delle scuderie. Si voltò a fissare l’imponente profilo della fortezza. Vide i cortigiani, i servi i cavalieri. Scorse il palco reale montato per l’occasione e i capelli biondi della regina, che lo fissava senza timore. Sapeva che da qualche parte, Arya lo stava salutando da una piccola finestre mentre i suoi fratelli minori dormivano pacificamente. Si meravigliò di non scorgere un luccicare azzurro degli occhi di Lady Catelyn.
Il cammino proseguì e la colonna oltrepasso il primo portale. Quante volte lui e Robb avevano giocato a chi arrivava prima, beandosi della loro velocità? Così tante, che faceva persino fatica a contarle.
Jon distinse ogni singola pietra che formava l’arco della portone d’accesso; alla luce del cortile seguì il buio e poi di nuovo la luce, gli occhi viola che dovevano ancora abituarsi.
Superarono le prime cinte di mura e portarono i cavalli al trotto verso il villaggio. Una nuova folla li stava aspettando. Non più fini tessuti d’Oriente, ma robuste cappe di lane. Alle spade goffrate si preferivano le scuri implacabili. Le mani erano callose e screpolate dal lavoro nei campi.
Il popolo del Nord salutava per l’ultima volta il suo principe.
Erano venuti tutti, accorsi per vedere la sua fuga. Uomini dalle lunghe barbe, donne, bambini, vecchi che ancora ricordavano sua madre. Lo fissarono, senza paura, senza remore.
Non si inginocchiarono. Erano uomini del Nord. Discendenti dei Primi Uomini. Conoscevano il freddo, il terrore, la fame. La morte. Sapevano che cosa voleva dire amare, senza confini, senza fronzoli.
Videro quel ragazzo che per tanto tempo avevano custodito, galoppare al vento, lontano, verso l’esilio della Barriera. Lo salutarono senza parole, solo con un rigido cenno della testa, il principe del drago.
Jon sapeva che da qualche parte in quella folla, un commosso Michae lo salutava per sempre.
Jon avrebbe voluto urlare. Sentiva su di sé il peso di tutti quegli occhi, di quelle speranze, di quei sogni.
Jon Targaryen era un simbolo. Il simbolo di un futuro alternativo, migliore. Era il riscatto, la vendetta di tutti i morti e la consolazione di tutte le vedove.
E ora era costretto a fuggire.
Iniziò piano, flemmatico, cadenzato, per poi crescere, roboante come la tempesta che si infrange contro la scogliere, potente come solo un uomo può essere.
I piedi che battevano sulla madre terra, le lance contro gli scudi, le scuri che si abbattevano sempre più veloce, sempre più frequenti perché il ragazzo sapesse, perché tutti sapessero che il popolo del Nord non si piegava, che il Nord non dimentica, che l’Inverno stava arrivando, insieme alla loro vendetta.
Li sentì Jon, stupefatto da quella sterminata prateria di uomini.
Lì sentì il loro Lord, che alzò la mano in segno di ringraziamento e di affetto.
Lì sentì l’intera fortezza, che ammutolì stupefatta. Il Re si alzò infuriato. Al suo passaggio non c’era stata alcuna manifestazione di gioia. Per Jon Snow l’intero popolo si era riunito.
Se il sovrano avesse chiesto il motivo di quel comportamento, avrebbe compreso.
Robert era un tiranno, che aveva preso il potere con la forza; aveva promesso pace e vendetta e aveva offerto solo sangue e morte. Aveva umiliato il Nord. Aveva chiesto che tutti loro si inginocchiassero al suo passaggio.
Jon Snow non aveva chiesto loro niente, ma era disposto a donare tutto. E Per questo lo salutarono come l’ultimo re. Re del Nord, qualcuno osò urlare. Ma per lo più rimasero muti, lasciando che il proprio canto giungesse fino al cuore di Jon.
Addio, ragazzo.
 
 
Continuarono a cavalcare per diversi minuti, ognuno assorto nelle proprie contemplazioni. Perfino Tyrion aveva rinunciato a qualsiasi conversazioni.
Si limitavano a lasciarsi trasportare, senza osservare con molta precisione la direzione.
Jon guardava il passaggio.
Vide i campi appena arati, pronti per l’ultima semina dell’anno; le montagne candide, che si stagliavano perlacee nell’aria fredda. Le nuvole basse erano solcate dal gentile vento autunnale e il cielo azzurro come il ghiaccio più puro si faceva largo nel cielo.
Jon avrebbe voluto essere un’aquila. Solcare senza fine quei cieli inesplorati, salendo al limite delle proprie capacità, sempre più su, verso il sole così lontano da sembra un disco d’argento. E poi piombare giù, lasciandosi trasportare dalle correnti verso i campi dei pastori, nutriti di bestie, lo zufolo di un bambino che accompagnava lo scrosciare delle acque limpide sulle pietre dei torrenti.
Avrebbe voluto cadere senza fermarsi, fino alle praterie incontaminate che sotto il sole si popolavano di mille colori ridenti. E poi al momento opportuno riprendere il controllo della situazione, piegare le ali e risalire nel cielo. Abbastanza lontano da capire il mondo, abbastanza vicino da viverlo.
Ma Jon non era un’aquila. Jon era un uomo. Un uomo appena fatto, spaventato, che aveva appena salutato per sempre la sua terra, la sua patria. Come poteva lui andarsene dal Nord?!
La sua culla natia, l’unica vera realtà che lo avesse mai accolto. Avrebbe voluto cadere da cavallo e lasciarsi andare sui sentieri di torba. Sentire il calore della terra e il freddo del cielo che si incontravano nel suo cuore. Artigliare la terra con le dita, le unghie sporche e deturpate, fino a che il sangue non si mischiasse con essa. Sentirsi vivo e immediatamente dopo morire.
Eppure il suo cuore batteva, il sangue fluiva denso e lui stava partendo.
Eddard Stark svoltò sulla strada del Re, sulla sommità di una collina, placando la colonna con un solo cenno del braccio.
Benjen e i Guardiani, con un tacito accordo, continuarono il loro cammino al piccolo trotto, sparendo in poco tempo alla vista. Tyrion Lannister si fermò per un attimo, con il suo sorriso ferino.
“ è stato un piacere incontrarvi, Lord Eddard.” E con un movimento dei piccoli calcagni, anche il nano con il suo pony avanzarono. Rimasero solo loro tre. Un padre, due fratelli. Un addio.
Jon avrebbe voluto urlare. Buttare fuori tutta la sua disperazione e il suo amore insieme per una famiglia e una terra che lo avevano sempre protetto.
Avrebbe voluto essere un altro tipo d’uomo. Più forte e controllato. Non così sensibile. Meglio il silenzio che tutte quelle emozioni predatrici.
Robb scese da cavallo, composto, studiando meticolosamente il terreno sotto i suoi stivali. Anche Lord Eddard smontò e Jon non poté fare a meno di seguirlo.
Sotto gli occhi grigi dell’ultimo Lord di Grande Inverno, i due fratelli si consegnarono all’eternità.
In un primo momento, si guardarono imbarazzati, come due vergini alla loro prima volta, ma infine si riconobbero l’uno nell’imbarazzo dell’altro, negli occhi così diversi e nei cuori così simili.
Fu un abbraccio, una morsa stretta di titani, l’uno che tentava di scomparire nell’altro in modo che non ci fossero più differenze o confini tra quei fratelli separati.
Jon stringeva a sé Robb spasmodicamente, le mani artigliate ai riccioli ramati del fratello, il cuore che batteva, gli occhi che bruciavano. Sapeva di stargli facendo male, perché sentiva la stessa presa sui lunghi capelli neri, come l’ala di un corvo, ma era un dolore troppo superficiale e così vano da sembrare dolce.
Rimasero così per un secondo che sapeva di eternità, in un saluto  ma non in un addio.
Robb lo aveva salutato ogni singolo giorni di quell’unico mese, cercando di imprimere nella sua memoria l’immagine del fratello, i suoi gesti, i suoi sguardi, il calore della sua presenza.
Si erano detti addio ogni notte, tra le coperte e le pellicce dei loro letti.
Avevano imparato a convivere quasi con l’ombra persistente della partenza definitiva, senza scampi, e ciò aveva nutrito ancora di più il loro amore.
Non si stringevano per non lasciarsi mai, no. Si abbracciavano furiosamente per trovare la forza di lasciarsi, per cercare nel cuore dell’altro il vigore di un uomo di cui avevano bisogno nella loro nuova vita.
Non sarebbero stati più ragazzi, le cui spoglie giacevano derelitte nei torrenti d’estate.
Quando si sarebbero sciolti da quel vincolo incrollabile, avrebbero dovuto riconoscere di essere uomini; con la forza morale e l’onore degli uomini.
Per cui si strinsero, si abbracciarono, trattenendo le lacrime e le parole nel petto.
Troppo era già stato detto.
Contro ogni aspettativa fu proprio Jon a sciogliersi, battendo forte sulla spalla dell’altro. Fu come un segno.
In breve furono liberi, ed insieme prigionieri, di guardarsi negli occhi: zaffiro in ametista, il calore della pervinca nel freddo del torrente.
Si riconobbero l’uno nell’altro. E in quel semplice gesto morirono e risorsero.
“ Prenditi cura di te, bastardo.” Robb lo disse senza malignità, solo sottolineando il grande pericolo che il fratello correva.
“ Non compiere azioni avventate o stupite, mio Lord.”
I due si fissarono, entrambi annuendo a quelle promesse di sopravvivenza.
Eddard Stark aveva preferito non intromettersi in quell’abbraccio fraterno mentre nelle sue pupille grigie scorrevano gli infiniti volti di Lyanna.
Jon chinò appena la testa e si incamminò verso suo padre, lievemente più in alto sull’altura.
Quando ritrovò la padronanza di sé, lo guardò.
Non aveva mai visto Ned Stark così provato dalla vita, che eppure era stata dura in tutti i suoi attimi, come se solo allora il tempo fosse venuto a riscuotere il conto.
I capelli erano sempre più grigi, venati di bianco, le rughe più fitte, le mani stanche. Eppure continuava ad ergersi imponente e dritto nella nebbia mattutina, gli occhi grigi che studiavano inflessibili il mondo circostante.
“ é giunto il momento, Jon.”
“ Sì, mio signore.” Constatò Jon, chinando la testa di fronte alla potenza di quello sguardo.
Eddard per un attimo non seppe cosa dire; sospirò e fisso i campi arati dalla nebbia.
“Spero che un giorno tu possa perdonarmi, figliolo.” Mai Jon Snow avrebbe pensato di poter sentire quelle parole scorrere dalla bocca del padre.
“ Ho cercato sempre di proteggerti, non rendendomi conto che nella mia foga, ormai quasi paterna, ti stavo danneggiando.” Gli occhi grigi si riflessero in quelli Targaryen.
“Ma dovevo rispondere alla promessa più importante che io abbia mai fatto nella mia vita.
 Jon, un uomo si riconosce dalla coerenza delle proprie azioni e dalla forza dei propri sentimenti. Senza di essi, l’uomo si trasforma in bestia, che si rifiuta di prendere il suo posto nella vita. Ci vuole coraggio nell’amare. Ci vuole coraggio nel vivere senza paura, con onore e onestà, rispettando gli altri esseri viventi, con il precido di dovere morale di difendere la vita in ogni sua forma. Tu questo lo comprendi?”
Jon sentì un tonfo al petto.
“Sì, padre.”
“ Ne ero certo.” Ned si commosse, ma mantenne la propria voce ferma e limpida. “ Ti chiameranno con molti nomi, ti insulteranno, ti umilieranno, cercheranno di spezzare in te la certezza di essere un uomo.
Ma l’uomo non risponde alla domanda “ che cos’è?” bensì, chi è?!
Tu chi sei, Jon?” Il Lord fece una pausa.
Jon deglutì, il cuore che pompava sangue. Si faceva quella domanda da una vita ormai, ma solo ora, sotto gli occhi imperscrutabili di sua padre, ne comprendeva il senso.
“ Nessuno potrà mai definirti, se non tu stesso. Tu sei Jon, figlio di Lyanna Stark e di Rhaegar Targaryen. Potranno strapparti titoli, terre, anche il tuo stesso nome. Ma non permettere mai che qualcuno ti tolga di essere uomo, di amare e di essere riamato a tua volta. Non dimenticare mai chi sei, Jon.
Ricorda il tuo passato per le fondamenta del tuo futuro. Segna nella tua memoria sia gli amici che i nemici.
Ricorda la tua famiglia. E quando l’inverno arriverà, richiama la memoria e ragiona non su cosa farebbe una persona meglio di te o peggio, ma su cosa faresti tu in quanto uomo, essere vivente, chiamato nel cerchio della vita.” Ned prese il figlio per le spalle.
“ Ho cercato con tutte le mie forze di aiutarti, di adempiere alla mia promessa, ma ora dovrai scoprire da solo che tipo di uomo vuoi essere.  Ho giurato di proteggerti e di educarti da Stark.
Tua madre sarebbe fiera di te e lo sarà sempre.” Jon tremò. Ned lo tirò a sé.
Fu un abbraccio senza tempo, come immerso in un limbo, entrambi le mente perse nei cunicoli dei loro pensieri. Mai Jon si sentì più vivo, come in quel momento.
Mai con tale intensità percepì il battito del suo cuore e la forza delle sue emozioni. Mai, mai, per tutta la sua vita, comprese così perfettamente il suo animo.
Vide ogni cosa. Vide la sofferenza, la stanchezza, il dolore, l’amore.
Comprese che facevano parte di lui, che facevano parte dell’essere uomo e non se ne scostò.
Forse non sarebbe mai stato all’altezza di suo padre, ma di sicuro sapeva che genere di uomo avrebbe voluto essere in un futuro.
Ned Stark lo strinse forte prima di lasciarlo andare.
Robb aveva già preso per la cavezza il cavallo del fratello e stava aspettando poco più indietro.
Jon comprese di dover partire.
Ora che ne aveva la forza, proprio allora che capiva finalmente i silenzi di Ned.
Si staccarono e si guardarono per l’ultima volta. Proprio in quel momento, in cui Jon lo stava ringraziando senza parole, troppo grande era la sua gratitudine, Ned vide sua sorella.
Nessuno gli avrebbe creduto, ma il fratello la vide aleggiare sul volto del ragazzo, nella stessa espressione seria e concentrata, il naso aquilino, i capelli scuri, la fronte spaziosa, ma soprattutto l’animo forte e implacabile degli Stark.
Ned la vide, riflesse in quegli occhi troppo viola e troppo splendenti per un uomo del Nord.
Non poté fare a meno di sorridere, capendo che il suo obbligo era finito, che la promessa era stata mantenuta.  
Jon si morse le labbra e gli voltò le spalle. Robb lo stava aspettando e gli consegnò le redini del cavallo mentre Jon montava in sella.
Jon era un uomo del Nord. Così volubile, superbo, umile, slanciato nel precipizio tra odio e amore, tra vita e morte. Jon era uno Stark. Finalmente si era riconosciuto.
Fissò gli occhi azzurri di Robb prima di andare. Colpì lievemente i fianchi della creatura sotto di lui che rapide si mosse nel vento. Jon sentiva il vento nei capelli, il freddo sulla pelle, un calore nel cuore.
All’ultimo momento fece fare una giravolta al cavallo, che si impennò riottoso. Voltandosi, Jon poté vedere quanto più amava al mondo.
Dalla sommità della collina si scorgevano le torri ombrose di Grande Inverno, risplendenti di vita, e lo sguardo scorreva fino alle montagne imbiancate di neve e le foreste alte e superbe. Vide la pianura ampia e prospera, la nebbia che la ricopriva come un caldo mantello.
Vide la sua terra, vide il Nord nella sua massima potenza, nella sua essenza primitiva, e sentì un fiotto d’orgoglio nascergli nel cuore, un amore istintivo verso quella madre-terra.
Vide suo fratello e suo padre, che a loro volta lo fissavano dalla radura, illuminati dal disco d’argento.
Se li impresse nella mente, beandosi di quella stretta al cuore, di amore e dolore insieme, che lo rendeva così vivo.
Vide la testa bianca di suo padre e quella ramato di suo fratello, vide il suo passato e il suo futuro, la speranza e la certezza.
Giurò di tornare. Giurò perché era un giuramento puro, proveniente dal cuore, fermo e invincibile, senza vincoli di terra e o di fedeltà. Era un moto dell’anima.
Poi sferzò il cavallo, si voltò e piombò al galoppo giù dalla collina, scomparendo dalla loro vista.
Quella fu l’ultima immagine che ebbe di loro. Non li avrebbe mai più rivisti.
Ned Stark, gli occhi grigi, da Stark, da Uomo del Nord, pieni di un amore che solo un padre può provare, sussurrò al vento e ai monti: “ Addio, figlio mio.”      
 
  
 
 
 
 
 
    
 
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               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Capitolo 13
*** Ali oscure, oscure parole ***


Cavalcarono a lungo i cavalieri, tormentati dal freddo e dalle chiacchiere salaci di Tyrion Lannister.
Man mano che le colonna si spostava verso Nord, il terreno diveniva sempre più duro e brullo, gli zoccoli dei cavalli che si abbattevano con sempre maggior ferocia sul selciato. Avevano lasciato la strada maestra dopo appena un’ora e subito dopo si erano addentrati in stradine salmastre e virulente.
Più Jon Snow si allontanava da Grande Inverno, più la madre terra sembrava ritornare al suo stato primitivo. Gli alti alberi del Nord, con la corteccia di muschio, proiettavano la loro ombra al suolo, mentre i centri abitati si scorgevano con sempre minor frequenza. Gli abitanti non si fermavano mai ad accoglierli. Bastavano i lunghi mantelli neri delle loro guide a rassicurarli e a scoraggiarli insieme.
Jon aveva sin da subito indossato la lunga tonaca da Guardiano della Notte, giurando a se stesso, che se anche non avesse mai pronunciato quel giuramento, ne sarebbe stato comunque degno.
Malgrado tutta la sua buona volontà, il ragazzo stentava a riconoscersi in quegli uomini rudi e volgari. Solo suo zio sembrava levitare nell’aria frizzantina, imperturbabile al freddo, alle bestemmie e a ogni bisogno materiale.
Jon non sopportava più la lunga camicia di lana grezza, che gli irritava la pelle. Se avesse potuto, avrebbe fatto volentieri scambio con quella indossata a Grande Inverno. Ma non poteva. I suoi indumenti, insieme a tutti i suoi ricordi passati, erano stati racchiusi in due pesanti bauli da viaggio, trasportati da un piccolo cavallo, che gli trotterellava gioioso davanti.
Jon Snow, il bastardo di Grande Inverno, era morto. Eppure il profilo che si stagliava sulla superficie dell’acqua era drammaticamente simile a quello di una settimana prima.
L’unico pellegrino che sembrava stesse mantenendo la sua innata salacità era proprio il Folletto. Dovunque andasse, qualunque cosa facesse, il piccolo nano deforme si portava dietro qualche tomo dei Grande Maestri della Cittadella. Jon non aveva mai visto un uomo così assorto nella lettura e, nello stesso tempo, attento a scorgere qualsiasi movimento furtivo nel mondo esterno. Quando il ragazzo gliene aveva chiesto il motivo, il nano aveva sorriso di quel suo sorriso troppo ferino. Sopravvivenza, aveva risposto.
Jon non poteva che essere d’accordo con lui.
Gli Antichi Dei erano stati inclementi con Tyrion Lannister. Già da neonato si era procurato più nemici di un sicario e, sebbene la sua miserevole stazza, appariva di troppo in qualsiasi luogo. Era bastato poco per capire che il piccolo uomo non avrebbe potuto cavalcare interrottamente per una giornata di viaggio e ad ogni, frequente, pausa, veniva additato dai corvi. Le sue membra erano grottesche. Le braccia e le gambe sembravano fagocitate nel tronco tarchiato a basso, il mento troppo sporgente e le dita grosse come piccoli salsicciotti. Forse per scusarsi di avergli dato in sorte un destino così tragico, gli Dei gli avevano concesso una mente arguta e salace. Le battute sferzanti del Folletto sapevano schiacciare sotto il loro pesi uomini ben più grandi di lui, Jon compreso.
Il ragazzo si era ritrovato in imbarazzo di fronte a quelle mura per lui insormontabili. Eddard Stark aveva anche provveduto alla sua educazione sui libri, ma nessun maestro di retorica aveva mai varcato le loro stanze. Anche se il ragazzo sospettava che quella rapidità di lingua non fosse dovuta a qualche lezione, bensì alla cruda vita che tentava di stritolarlo tra le sue spire.
Incominciarono a farsi compagnia, prima inconsciamente, i cavalli affiancati nelle dure ore di viaggio, poi con sempre più frequenza, prendendosi l’uno cura dell’altro.
Tyrion ogni tanto scoppiava in una risata pregna di derisione e tristezza.
Ciò che mancava all’uno, si sobbarcava nell’altro.
Tyrion era praticamente solo un nome, un nome altisonante, un Lannister di Castel Granito, un’intelligenza fulminea nelle cortine di Approdo del Re.
Jon Snow invece non era nulla, solo un bastardo del Nord o del Sud, che dir si voglia, ma il suo corpo era agile e scattante, anche se acerbo.
Si completavano nelle loro mancanze.
Finirono per divenire amici, o per lo meno, alleati.
Jon era affascinato dalla mente del Folletto e dai corposi tomi che lo accompagnavano, scritti in lingue mai studiate o in parole troppo complesse per lui. Più di una volta si vergognò della sua ignoranza, della sua ottusità che si scontrava contro l’arguzia del nano.
Come un cucciolo, lo seguiva ovunque, standogli accanto durante le lunghe ore di marcia, cercando di assorbire ogni stilla di conoscenza perduta, ogni più piccola parola arguta, sospirando a fine giornata. Si sentiva inadeguato di fronte al Folletto, ironia a farsi e a dirsi, e perfino il Folletto stesso lo scimmiottava per questo suo comportamento. Jon non era ben voluto lungo la carovana.
Consci di star vigilando su un carico prezioso non per loro, i suoi fratelli in nero preferivano ridere di lui intorno alle braci del fuoco e nessuno di loro aveva osato rivolgergli la parola, all’infuori di suo zio.
Zio Benjen, d’altra parte, si mostrava imperscrutabile di fronte alle angherie più o meno evidenti, lasciando morire il bambino che era in lui per far sorgere l’uomo.
Tyrion non avrebbe potuto invece spiegare, che cosa ci vedesse in quel lupacchiotto spelacchiato.
Jon Snow era poco più che un ragazzo e sarebbe morto in qualsiasi corte, Approdo del re e Lancia del Sole, in primis. Lo vedeva in quei suoi occhi troppo grandi e vispi, così sbagliati di gradazione, che studiavano affascinati il mondo. Troppo piccolo, troppo ingenuo. Troppo Stark.
Più lo conosceva, più sviscerava la sua essenza più recondita, e più la condanna rimaneva senza appello.
Eppure ogni volta torceva la bocca e ricominciava, come se non fosse successo nulla, con una determinazione se non pari, superiore. Gli erano sempre piaciute le cause perse.
E Jon Snow era dichiaratamente una causa persa.
Non valeva nemmeno la pena chiederlo. Sapeva che Jon non era diretto alla Barriera. Lo aveva capito dai suoi sguardi pudici e gli occhi da falco dello zio, gli abiti custoditi nelle borse di pelle, fino lino del Sud, avevano solo confermato il segreto che Jon Snow nascondeva.
Il Folletto avrebbe potuto smascherare il bastardo ogni secondo, ma si stava divertendo troppo. Qualunque cosa avrebbe fatto, Jon avrebbe finito per pestare i piedi a suo padre e alla sua cara sorella maggiore. Non c’era cosa che lo divertisse di più.
Così rimaneva insieme, nelle lunghe serate davanti al fuoco, immersi in conversazioni bisbigliate tra le labbra. Jon conosceva poco o nulla sul mondo esterno, ma la cosa più drammatica di tutte, conosceva pochissimo se stesso. O meglio, aveva addirittura paura di se stesso.
Paura della sua famiglia e del suo terrore, paura, anzi, terrore del suo passato e delle sue origine, cauta preoccupazione per il suo presente.
 Questo era il più grande crucio di Tyrion. Jon ricercava sempre la verità  con la cieca determinazione di un mastino, ma ogni volta essa lo colpiva duramente in volto. E come un cucciolo ritornava da lui, alla ricerca di confidenze e risposte, ma non bastavano gli sguardi abbattuti e la coda tra le gambe.
Le battute del Folletto gli facevano così male, solo perché lui lo permetteva.
Jon non faceva assolutamente nulla perché gli insulti o le prepotenze nei suoi confronti cessassero. Non muoveva un dito quando la sella del suo cavallo finiva misteriosamente slegata. Il viso bianco come la neve si incupiva per pochi secondi, le labbra viola che si stringevano salaci, ma infine, come da copione, la testa si incassava tra le spalle, gli occhi meravigliosi si inabissavano e chino chino riprendeva il suo lavoro.
Tyrion poteva scorgere il timbro di Ned Stark in quel comportamento. Che di certo era utile per la sopravvivenza di un bastardo. Ma Jon Snow non era soltanto del seme sparso al vento all’infuori del matrimonio.
Jon era un uomo. O almeno avrebbe dovuto esserlo. E il piccolo uomo stava dando tutto se stesso perché ciò avvenisse il prima possibile.
 
Ne Jon ne Tyrion avevano mai visto la Barriera. Certa potevano immaginarsela. Potevano sognare, con tutti i limiti posti alla mente umana, una lama di ghiaccio e tenebra posta a difesa del mondo degli Uomini. E chiedersi a che cosa i Cavalieri della Notte facessero la guardia era di certo la parte più emozionante del miraggio.
Eppure nessuno dei due era preparato alla visione.
Era viva. Pulsava all’orizzonte come il cuore di un drago immenso, captando i pallidi riflessi solari e accecando gli astanti con la sua letale luce. Sì, nel lontano Nord, non era il sole che illuminava la Terra, ma la Barriera.
Immensa, incrollabile. Schiacciante. Già. Sembrava opprimere perfino il terreno su cui poggiava e mano a mano che la distanza fra loro diminuiva, Jon Snow non poteva fare a meno di fissarla, incantato. Non aveva mai visto nulla di simile. Ed era convinto che nella sua vita non avrebbe mai visto niente di così meraviglioso, illuso.
Catturava gli sguardi, la Barriera, come una vedova nera che aspetta, sicura della propria bellezza e letalità. E Jon Snow, come un ignaro pellegrino, avanzava. Non poteva fare a meno di seguire il percorso tracciato per lui. Se ne sentiva oppresso, ma non schiacciato. Ad un tratto, una vita passata all’ombra di quella creatura di neve e ghiaccio, non gli parve più così spaventosa.
Anzi, il pensiero lo solleticava sempre più frequentemente. Non più per spirito di sacrificio, nemmeno per il senso di colpa- colpa di essere venuto al mondo?- o il senso dell’onore. Il ragazzo si accorse di voler andare alla Barriera. Per prestare servizio, per trovare un proprio posto nell’ordine del cosmo, per sviscerare i segreti di un passato a tutti ignoto.
Tyrion lo studiava irritato. Non poteva fare nulla per spezzare l’incantesimo che legava il ragazzo a Ned Stark, troppo grande era stato il danno, ma non si sarebbe arreso di fronte a quel ragazzo testardo. 
 
Il corvo arrivò alla torre di Brandon proprio quando il gruppo di cavalieri riusciva ormai a intravedere i filoni della Barriera.
Il primo a distinguere il puntino nero contro le nuvole soffici fu un ranger, vecchio di mille avventure, che lo indicò con un dito secco, senza proferire parola. Benjen Stark annuì e con ordine ben ponderato fece voltare la colonna verso la torre disabitata.
Il volto del comandante si indurì. Se mai ci fossero stati problemi a Grande Inverno, due corvi sarebbero subito partiti alla loro ricerca, uno alla Barriera, un altro verso la torre, entrambi recanti ordini di fuga immediata.
-Dei corvi che inseguono un altro corvo.- Il Folletto,  per nulla impensierito, continuava a dondolare ironicamente sulla sella del proprio cavallo, il ghigno malefico abbozzato sulla faccia ispida.
- Ali oscure, oscure parole. La vecchia Nan lo dice sempre.- Mormorò Jon Snow, il capo coperto da un pesante panno nero. La pelle delicata si era male abituata alle fredde temperature dell’estremo Nord e da sotto il tessuto, il Folletto poteva scorgere due guance paonazze che tutte le ragazze di Approdo del Re avrebbero invidiato.
- Non a caso, si trattava di una vecchia. I corvi solo i soli latori di novelle che tutti vogliono ricevere. Nessuno trae soddisfazione dal mozzare una lingua ad un corvo.-  Il nano sorrise. – A meno che non porti un mantello nero.-
- Ne siete davvero convinto? Mio padre non ha mai toccato un messaggero che ha toccato il suo sale e il suo vino dell’ospitalità.-  Quest’ultima espressione provocò un acuto attacco di ridarella nel figlio di Tywin Lannister.
- Voi dite di essere un giovane istruito, Jon Snow, non è così?- Le guance del ragazze divennero ancora più rosse. Il Folletto aveva appena toccato un suo punto debole.
-Non me ne sono mai vantato, Tyrion. Non c’è mai limite alla conoscenza. –
-Oh sì, questo è vero, mio ingenuo amico, acuta osservazione. Ma non basterà a farti sopravvivere in qualsiasi corte di questo mondo. Studia la storia, Jon! Gli unici ideali che fanno muovere l’intero fottuto cosmo sono il potere, le donne e il denaro. Non necessariamente in quest’ordine.
Scopri che cosa vuole qualcuno, quale di questi ideali può muovere una persona fino al precipizio e anche oltre, allora avrai in pugno la tua esistenza.- Gli occhi di due diversi colori lo fulminarono , eppure Jon tentò di rimanere imperturbabile.
-Non tutti ruotano intorno a questi “ideali”. Mio padre non ripudierebbe mai il suo onore.- Il Folletto rise di un’amara gioia.
- E questo il punto. L’onore muoverà tuo padre fino al precipizio e anche oltre. Purtroppo per lui, ciò non è così difficile da comprendere.- Le labbra di Jon si tirarono in un’unica affilata linea mentre gli occhi viola pulsarono minacciosamente.
-Mio padre è un uomo giusto e onorevole e …- L’arringa fu interrotta. Non da una battuta salace di Tyrion, come il Folletto si apprestava a fare, bensì da un robusto attendente che scosse rudemente Jon per la spalla.
-Il Lord Comandante ti aspetta in cima alla torre. Fai in fretta.-
I due si risvegliarono. La torre, un tempo orgogliosa della sua cupola d’oro, proiettava sulla colonna una fragile ombra. Jon scese da cavallo, senza incontrare gli occhi asimmetrici del suo compagno di viaggio. Si tolse il cappuccio nero e sguisciò tra le porte di quercia nera, come una lontra bagnata. Tyrion rimase solo a fissare il vuoto, domandandosi se Jon Snow fosse davvero una causa persa.
Il Folletto di casa Lannister e i suoi armigeri rimasero per diversi minuti ad aspettare, sotto il cielo coperto del Nord, e i minuti scorsero sempre più lenti fino a trasformarsi in ore. Solo dopo che la vescica del nano aveva già richiamato l’attenzione del suo proprietario, un ranger sbucò, informando che per quel giorno la marcia non sarebbe continuata e il campo sarebbe stato allestito al limitare della foresta.
Dopo il ranger che aveva dato la notizia, comparvero i restanti cavalieri, gli attendenti, i servi.
Il pomeriggio levitò verso lo scuro tramonto del Nord e Tyrion stava osservando meravigliato lo spettacolo offerto dalla Barriera, quando il Lord Comandante dei Ranger face il suo ingresso nel misero campo di brande e letame.
Eppure il Folletto non vide nessun cucciolo spelacchiato dietro di lui e perfino Spettro, presenza ultraterrena del bastardo, sembrava essere evaporato nell’aria frizzante.
Ci vollero diversi minuti prima che il nano decidesse di alzarsi e di andare a cercarlo. Non era abituato a camminare sull’intricato paesaggio del Nord e ancor meno in una foresta del Nord. Sì, perfino le foreste erano diverse lì. Non accoglienti e verdeggianti come quelle dell’Altopiano, nemmeno rade e lussureggianti come quelle dorniane.
Le selve del Nord conservavano una loro primitiva natura, immortali allo scorrere del tempo e degli uomini, che dal canto loro, non avevano fatto nulla o nulla avevano potuto contro quello strano equilibrio. Gli alberi apparivano ricoperti di una coperta di lanoso muschio, il terreno, così scuro da sembrare nero, era maciullato da sterpi, pietre, pietruccole e radi ciuffi d’erba. Le fronde ricoprivano completamente l’orizzonte e in breve Tyrion si domandò se avesse fatto la scelta giusta o se sarebbe morto in quel passaggio tra mondi. Quest’ultima eventualità avrebbe a dir poco rallegrato suo padre.
Un lampo bianco lo rincuorò. Spettro vigilava silenzioso sul suo padroncino.
Jon Snow giaceva dismesso su un masso grigio, la testa stretta fra le mani bianche. Sotto la luce fredda del bosco, la pelle candida del ragazzo sembrava brillare, ricoperta di lacrime di fate.
Il mantello nero era stato gettato di lato e quasi si confondeva sul terreno scuro.
Le spalle del ragazzo vibravano, scosse da un terremoto interno che nessuno poteva controllare.
Il Folletto si permise un paio di secondi, osservandolo con inusitata dolcezza.
Malgrado il dolore che lo squassava, Jon cercò di ritrovare il controllo, sferzandosi le guance con le mani. Poi, lentamente, come se dovesse riabituare la vista alla penombra del bosco, alzò il viso.
Era distrutto. Lacerato dentro, il cuore oppresso da un senso di colpa che lo avrebbe seviziato per tutta la vita.
Le dita lunghe, che fino ad allora aveva nascosto lo spettacolo, tremavano, così come tremava tutto il suo corpo. Le labbra viola e succose, il naso aquilino, le ciglia lunghe.
Tyrion, sebbene si fosse preparato, si stupì ancora una volta di fronte al suo giovane amico.
Gli occhi viola, gli occhi da Targaryen, gli occhi di Rhaegar che sfavillavano in un viso di Stark, piangevano. Calde lacrime che vibravano nella pupilla e scivolavano giù verso il mento glabro. Gridavano, quegli occhi, sì, urlavano di una disperazione nera e profonda, pari ai sentimenti di Jon.
Il Folletto si avvicinò lentamente, badando bene a dove metteva i piedi, prima di sedersi sul masso, accanto all’amico.
Jon, dopo una prima occhiata, non osava più alzare gli occhi.
Accanto al mantello nero, una tacita accusa alle lacrime di Jon, giaceva una lettera di pergamena, sfibrata per il continuo attrito delle dita. Il ragazzo seguì lo sguardo del nano e deglutì sommessamente. Eppure annuì, prima più sommessamente poi con maggior vigore, e l’amico la raccolse.
Seguirono dei secondi penosi, in cui la pena del giovane sembrò aumentare sempre più, fino ad ostruirgli le vie respiratorie.
-Mi dispiace molto per tuo fratello.- Commentò Tyrion, ripiegando educatamente la lettere. Jon accennò ad una smorfia che voleva essere di ringraziamento.
-è … è tutta colpa mia. È colpa mia.- decretò il ragazzo, nascondendo il viso fra le mani, strizzando i riccioli scuri fra le mani.
- Il bambino è caduto o almeno così dice la lettera.  Cadere da una torre è fuori dalla portata di chiunque mi pare.- Tyrion si umettò le labbra, cercando di confortarlo, ma lo scatto di Jon lo sorprese. Improvvisamente il giovane si tirò su, le spalle erette, le lacrime che ruscellavano a terra.
- Ma non capisci? Tu stesso me lo hai insegnato! Non esistono le fatalità. E …. Bran … Brandon non può cadere. Lui non cade mai, capisci? Lui non può cadere!- Spinto dall’incrollabile fede delle sue parole, Jon si alzò, camminando ferocemente sotto lo sguardo del metalupo e del nano.
- Bran sa scalare qualsiasi cosa. Ogni torre di Grande Inverno non ha segreti per lui. Lui non può cadere!!- Quest’ultime parole erano un rantolo, una preghiera. Con un singulto, Jon si risiedette.
-Ma Bran è caduto.- Constatò con il massimo tatto Tyrion. – Non c’è nulla che tu possa fare al riguardo.-
Jon si dondolò, preda della disperazione.
-Proprio tu, tu che mi hai insegnato … se lui non può cadere … ed è caduto …. qualcuno lo ha spinto, capisci?- Tyrion si congelò sul posto, studiando con più attenzione il suo protetto. A quanto pare non è poi così una causa persa, pensò. Jon continuò.
- E se questo è giusto … allora … allora lo hanno spinto per causa mia, per causa mia!- Il discorso finì in un singhiozzo.
Tyrion gli mise una piccola mano sulla spalla.
-Le persone sbagliano, Jon, sbagliano continuamente. Tradiscono le nostre aspettative, commettono errori. Sono umani. Potranno farlo in buona o cattiva fede, ma niente potrà mai sollevarci dal nostro destino di uomini. Forse tuo fratello ha sbagliato o forse è stato gettato giù volontariamente.- Quest’ultima affermazione provocò un moto di bile in Jon, ma la presa del Folletto si fece più salda.
- Forse lo avranno fatto per causa tua, ma non per colpa tua. O forse no. Ma quando saprai la verità, di qualunque natura essa sia, non permettere che essa ti distrugga.-
Jon si riscosse.
-Noi Stark non abbiamo mai paura della verità.-
-Oh sì, invece! Ne siete terrorizzati. Per questo la ricercate con tale cupidigia e alla fine è sempre la causa della vostra rovina. La verità fa male, Jon. È un’arma a doppio taglio, non uno scudo.
La verità non ti parerà mai il culo in battaglia. Elia di Dorne era la legittima moglie di Rhaegar, ma ti pare che qualcuno abbia avuto rispetto per lei o per i suoi bambini? Eppure erano nel giusto.- Jon fissò il Folletto terrorizzato dalla inconcepibile verità di quelle parole.
-Non fare quella faccia! Tu sai che io ho ragione. Robert aveva ragione a rivendicare la sua legittima moglie? Sì, era nel giusto. Adesso ha conquistato un regno. Ma ti pare che questo regno domini nell’armonia e nella ricchezza? No, perché la verità non vuol dire necessariamente giustizia. O merito.
Tu, dannato Jon, usi la verità come uno scudiscio, con cui ti fustighi da solo. E lasci che gli altri ti feriscano. Sai a chi fa paura la verità? A chi non la conosce. 
A chi tenta di allontanarla il più lontano possibile o, al contrario, chi la insegue in un impeto suicida.-
Tyrion prese Jon per le spalle e non gli importò se fosse più grosso di lui di un terzo e nemmeno che avrebbe potuto gettarlo a terra con un buffetto.
-Non permettere che siano gli altri ad usare la verità contro di te, Jon. È vero fa male, ti urtica la pelle e il cuore. Ma è la vita, ragazzo, e tu non puoi fare nulla per fermarla.
La verità non sarà mai un valido scudo. Vale quanto i capezzoli in una armatura, la verità, in guerra.
È un’arma a doppio taglio. E ferisce soltanto coloro che non sono pronti a riceverla. Ti stupiresti a scoprire quanti sono in questo mondo.
 Ma se tu già la conosci, se è già presente nel tuo cuore, allora non ti potranno mai ferire.
Mostra che le loro parole possono ferirti, e non sarai più libero dalla derisione. Se proprio vogliono darti un nome, accettalo, fallo tuo, in modo che poi non possano mai più usarlo per farti del male.–
Il Folletto saltò giù dal masso e studiò il suo corpicino deforme.
-Io sono un nano. Perché dovrei prendere come un insulto una verità così ovvia?
Guardati. Tu sei un bastardo. Non soltanto dal tuo comportamento dimesso, ma anche dal tuo cognome. Snow. La neve è ovunque al Nord, così come i bastardi nel mondo. Così come la sabbia, i monti e i fiumi.
Ma ciò non vuol dire che i bastardi siano migliori o peggiori degli altri. Solo vengono posti per primi di fronte alla crudeltà della vita. E sta a te decidere se rimanere un bastardo qualunque o qualcosa di più. Un uomo forse.
Essere nati bastardi non prescinde l’essere uomo. – Tyrion sbuffò, affaticato dalla sua predica.
-Mi dispiace molto per tuo fratello. Ma faresti uno degli errori più grandi della tua vita se ora ti voltassi e tornassi indietro. Oltre al fatto che faresti un enorme favore ai tuoi sicari. Un regalo di compleanno quasi. Devi continuare, andare avanti. Per la tua famiglia, ma anche per te stesso.-
Jon Snow lo fissava immobile dall’altro capo dello sguardo. Non aveva proferito parola, ma ascoltato attentamente ogni più piccola sillaba fuoriuscita dalle labbra tumide del nano. Le sue guance avevano ripreso l’usuale colorito porpora e le spalle avevano smesso di tremare.
Rimaneva lì, attento, studiando il suo mentore e il mondo in generale.
-Sai qual è stato uno degli errori più grandi della mia vita, Tyrion?- La voce del principe era roca e bassa e ben si intonava al frinire delle foglie nel vento. Le pupille si contrassero come uno schermo d’acqua.
-Non salutare i miei fratellini per l’ultima volta. Non gli ho detto addio. Non ho detto che li amavo e che credevo in loro.- Jon sospirò, fissandosi le dita.
- L’unica cosa di cui dovremmo aver paura è quello che può ferire le persone che amiamo. Ma nonostante ciò, non dovremmo mai aver paura di amare.- Jon si premette i pollici sulle palpebre chiuse, ascoltando il suono dell’aria nei suoi polmoni.
-Trovi che sia stupido, vero?- Il ragazzo non osservò il moto di dolore che si frantumò sul viso del Folletto. Jon non conosceva nulla dell’infanzia tormentata dell’uomo davanti a lui, senza amore, senza affetti. Un peso da buttare a mare, considerato con sdegno e disprezzo. Mai una parola di ringraziamento o anche solo positiva.
Tyrion Lannister non aveva mai ricevuto amore. Se non da Tysha. Già, Tysha. Che cosa ne poteva sapere un lupacchiotto spelacchiato dell’amore? E ancor di più del coraggio di amare. Quanto coraggio poteva esserci nello sposarsi di nascosto? Nel rifuggire qualsiasi dovere, nel rimanere nelle sue braccia tutta la notte, sentendosi per la prima volta accettato, normale, addirittura bello.
Quanti miracoli può compiere l’amore! Tysha non vedeva la sua fronte sporgente e gli occhi asimmetrici e mai lo aveva scimmiottato per le gambe piccole e tozze. Ammirava soltanto la sua intelligenza fulminea, le sue battute eleganti e l’autoironia che gli aveva permesso di sopravvivere. Lo chiamava il suo leone – il suo leone!- ma senza disprezzo, solo con dolcezza. 
Quanto amore era rimasto dopo l’arrivo di suo padre? Quanto? Solo il suo cuore devastato. La promessa di un futuro che non si sarebbe mai realizzato.
-Sì … sei un ragazzo dannatamente stupido.- Concluse il Folletto, un groppo che non gli permetteva di parlare. E sei un ragazzo dannatamente intelligente. Questo però non lo disse. Lo pensò soltanto.
Come quei discorsi inconsci, tra sé e sé, che si preparano da lungo tempo, ebbri di emozioni e buoni consigli, ma che alla fine raramente vengono proferiti.
Avrebbe voluto dirgli di non commettere il suo stesso errore. Di non aver paura di combattere per ciò che si ama. Che non era lui lo stupido, ma era il mondo in cui vivevano tremendamente sbagliato e crudele.
Se troverai mai una donna, una donna che amerai e ti ricambierà, promettimi che combatterai con tutte le tue forze per lei. Promettilo. Pensò il Folletto, ma non tradusse in parole questi pensieri. Non ne trovava la forza.
Jon Snow si alzò, raccogliendo con cura il suo mantello nero e la lettera abbandonata. Spettro li fissava, immobile.
-Dobbiamo andare, si staranno domandando dove siamo finiti.- Il ragazzo osservò le fronde, ma improvvisamente puntò i suoi immensi occhi viola sul nano, davanti a lui.
-Grazie, Tyrion. Non lo dimenticherò mai.-  Gli porse la mano guantata di nero, offrendogli un patto di pace.  
-E io non dimenticherò mai te, Jon Snow. Sarebbe molto difficile, d’altra parte.- Rispose Tyrion, la sua piccola mano immersa nel guanto nero del ragazzo.
Jon Snow sarebbe stata la sua miglior vendetta. Se ne rendeva conto ora, mentre fissava quel serio viso da uomo.
 Jon Snow non era una causa persa. Ed era l’arma più potente che avesse mai avuto contro suo padre.
Un ghigno ferino si disegnò sul viso abbronzato. Non avrebbe abbandonato il ragazzo.
  
E dopo un mese e mezzo di vita senza connessione internet eccomi qua!
E me ne vergogno tantissimo. Vi ho lasciato con un capitolo finale esplosivo, melodrammatico oltremodo ... insomma vi ho abbandonati! In un primo momento per mia stessa volontà, in quanto l'ispirazione languiva. E proprio quando ho incominciato a scrivere con un certo ritmo- fine giugno- la mia connessione internet è partita in vacanza, lasciandomi con un pc inutilizzabile. L'unica nota piacevole è che adesso ho già due capitoli pronti da sfornare uno dopo l'altro.
Spero che sia un piccolo regalo per i dispiaceri e i ritardi che vi ho fatto patire. E per questo voglio scusarmi immensamente.
Perchè una cosa voglio precisarla. Questa storia è nata con voi e soprattutto è proseguita solo per merito vostro. Grazie alle recensioni, sempre molto gradite, sono riuscita a sentire sulla punta delle dita il filone della storia. Ho creato nuovi scenari, nuove comparse solo grazie ai vostri spunti. Questa capitolo ne è proprio un esempio, inizialmente la Barriera non era nemmeno contemplata all'interno della mia mente, ma alla fine mi sono lasciata convincere che una visitina sarebbe stata più che gradita.
Per cui ... grazie, immensamente grazie. E scusatemi molto. E soprattutto continuate a farmi sapere che cosa ne pensate, le vostre idee o come vi piacerebbe che si svilupasse la trama.
Inoltre vorrei fare anche un piccolo punto della situazione.
Questo capitolo è per lo più un capitolo di passaggio da Grande Inverno alla Barriera e dovevo anche dare modo a Tyrion di diventare amico e mentore di Jon. La Barriera occuperà quasi sicuramente due capitolo- quasi completamente scritti- per poi passare a Dorne. Già, Dorne. Non so voi, ma credo che Jon fino ad ora ne abbia passate di cotte e di crude e mi sento di lasciargli vivere almeno cinque capitoli di relativa pace (?!) con intrighi di palazzo, combattimenti, veleni e soprattutto * rullo di tamburi* i primi amori.
Grazie ancora per il vostro supporto e mi scuso ancora, anche con tutti quegli autori,
Ainsel in prima linea, che hanno continuato * giustamente* le loro storie e che io per motivi di connessione non sono riuscita a seguire.
Beh, che dire, buone vacanze a tutti!
Artemisia17

 

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