La curiosa legge dei casi umani

di Ruth Spencer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vetro ***
Capitolo 2: *** Legno ***
Capitolo 3: *** Argilla ***
Capitolo 4: *** Sughero ***
Capitolo 5: *** Torno a fango ***



Capitolo 1
*** Vetro ***


                                                                                                A Lavinia, Ludovica, Martina e Margherita
                                                                                                                       perché abbiamo condiviso tanto.
 
 
 
 
Okay. Ho appena finito di scrivere Tomboy ed entro un quarto d’ora aggiornerò. Intanto però ho pubblicato questo. L’idea mi è venuta in mente grazie ad una domanda su ask alla quale, purtroppo, non ho potuto rispondere completamente per problemi di spazio. Sarà una raccolta di cinque One Shot, quattro delle quali dedicata ad una persona in particolare, che fa parte del mio “universo quotidiano”, e che prenderà il titolo da un materiale diverso, come il vetroin questo caso. E’ lo scritto più  personale che abbia mai pubblicato qui, su EFP, anche più di “Memorie di una squilibrata” e “The Lady is a Tramp”, perché in ognuna di queste quattro persone riesco a riconoscere una parte di me stessa. Mi auguro con il cuore che vi piaccia e che lo troviate poetico, perché al mondo di poesia ce n'è davvero poca.  
                            
 
                             
                                         
                                                                           
 
                                                                                                          Vetro
 
                                                      A Naima, perché prima o poi troverai la tua forma proprio come il vetro.
 

 
 
Il telefono squilla e l’eco del suo trillo si disperde nella stanza vuota, e va ad infrangersi contro i muri. Vedo balenare nell’oscurità due occhi neri come l’inchiostro, ombreggiati da ciglia scure, che mi restituiscono uno sguardo ammiccante: le labbra carnose sono distese in una sorriso contagioso che mostra una fila di denti perfetti e candidi, sulla pelle ambrata di un viso dalla fronte alta e gli zigomi così affilati da sembrare scolpiti nel marmo.
Le potrei ripetere cento volte quanto sia attraente, ma non mi presterebbe mai ascolto: perché lei è fatta così, testarda, orgogliosa e determinata come pochi; è pigra quanto intelligente, schietta e piena di senso critico; eclettica ed ironica. Qualsiasi discorso venga intrapreso, dalla politica alla musica, lei esporrà sempre una sua idea. Vivace, teatrale e spigliata; sa essere raffinata a tavola e altrettanto scurrile con le amiche.
Si innamora ogni giorno, non è mai convinta del colore dei suoi capelli, odia la carne e si sottopone a diete assurde; soffre di insonnia e sviene spesso tanto da averla soprannominata “il mio cerotto ambulante”.
Ma, lei è fatta così, con la sua risata limpida e il suo senso dell’umorismo. Lei che a volte si fa del male da sola e sembra non capirlo: in quei momenti, vorrei potesse bastare un abbraccio e un “Ti voglio bene” per convincerla a smettere. Ma, lei non si scompone: la barriera che si è costruita attorno attutisce i colpi e rende più flebili le mie proteste. Ride e si stringe nelle spalle ai miei “Non fare cazzate, Naima”.
Naima è una strana combinazione di forza e fragilità, incoerenza e frustrazione allo stato puro; un continuo fluire di pensieri, contraddizioni e speranze, che riesce a intuire gli altri, ma non se stesso.
Quando ho un dubbio o un problema, il primo numero della rubrica che cerco è il suo; discorriamo per ore intere di tutto, del mondo che vorremmo e di quello che invece abbiamo, della gente che incontriamo e delle persone con cui talvolta ci scontriamo; discutiamo su come trascorrere il fine settimana e su come trascorrere la nostra vita. Facciamo progetti per il domani effettivo e per quello ideale, progetti da infiocchettare con un nastro rosso, da seppellire nella terra umida in attesa che germoglino, da conservare nei cassetti polverosi delle nostre stanze per gli anni a venire.
Naima è lunatica e curiosa, teme di essere sbagliata, un giorno apprezza la sua voce calda e profonda e quello dopo la detesta. Adora i suoi due cani e le volte in cui le sento dire al telefono “Tesoro mio!”, non si riferisce certo a me, ma ad uno di loro. Con un bicchiere di birra sarebbe perfettamente in grado di ubriacarsi, si spalma il burro di cacao sulle labbra almeno dieci volte al giorno, mangia latte e cereali a cena e cucina solo pesce. Ama l’anticonformismo e gli anticonformisti in generale.
-Tu sei come il vetro…- le bisbiglio. Nei suoi occhi neri come il mare e la notte, come le delusioni e il sapore dell’insoddisfazione vi è tutta la sofferenza che si porta addosso inconsapevolmente. Così, capisco: è ossido silicio che ha dimenticato di cristallizzarsi, vetro bollente tra le dita che deve trovare ancora la sua forma.
Sembriamo fatte su misura, per stare insieme ed essere amiche: ognuna con i propri sogni da realizzare e le sue paure intrappolate sotto il cuscino ma, comunque frammenti di uno stesso mosaico, uniti da una promessa che intendiamo mantenere.
Il telefono continua a squillare alle 14 e 43 e lei non risponde. Starà dormendo, perché avrà trascorso un’altra notte insonne.
Lei è Naima, un caso umano.
                                                     

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Capitolo 2
*** Legno ***


Sono di nuovo qui, con la seconda One Shot. Stavolta parliamo di una persona totalmente diversa: spero vi piaccia almeno quanto è piaciuto a me scriverla. Il trentuno sera aggiornerò con la terza One Shot. Ringrazio di cuore le due persone che hanno recensito e chi ha inserito questa raccolta tra le preferite/seguite. Siete stupende :)   
 
 
                                                                                                 Legno
 
                                     A Shatze, perché guarderemo il mondo dal nostro furgoncino hippie e sgangherato.
 
 
 
Ma, se mi volto ne incrocio un altro, di caso umano.
Tamburella ritmicamente le dita affusolate sul tavolo, suonando chissà quale melodia su un pianoforte invisibile. Il volto è celato da una cortina di capelli bruni, corti e pari che le sfiorano il collo e gli occhi grandi e castani, sotto delle sopracciglia scurissime e arcuate, sono rivolti verso il basso.
Per descriverla basterebbero poche parole scelte con attenzione oculata, qualche aggettivo gratificante e una manciata di virgole messe al punto giusto, ma forse, risulterebbero riduttive e semplicistiche. Non credo che renderebbero sino in fondo la sua personalità. Sotto la maschera di silenziosa timidezza infatti, si nasconde un mix esplosivo e sconvolgente di umor e originalità.
Per due anni quasi non vi rivolgete la parola e poi un giorno, durante l’intervallo ti dice che “Ti ricordavo meno simpatica”. E così ti rendi conto di cosa ti sei persa in questi due anni di frasi banali e castelli di ipocrisia e cartapesta.
Perché lei è vera, non come il resto del mondo. “Dante li mette all’Inferno i pusillanimi” commenta stizzita, perchè detesta chi non si schiera, chi non prende posizioni di fronte alle circostanze.
Odia studiare filosofia, forse perché la sua vita è un imperterrito ed instancabile filosofeggiare; vive di ideali, di sogni utopistici e discorsi insensati.
“Voglio imparare la lingua elfica di Tolkien.” Ti avvisa. “Come vorresti che fosse il tuo funerale?” chiede invece un’altra volta con il tono di chi ti sta domandando il gelato che preferisci.
Stilate liste infinite di film che prima o poi guarderete insieme sul divano di casa sua, tra cuscini e tranci di pizza, o delle esperienze che desiderereste vivere; fantasticate su un futuro comune in un angolo della sua camera con la carta da pareti ricoperta di scritte e citazioni tratte dalle canzoni dei Beatles.
Vi spedite lettere una volta al mese, pur vivendo nella stessa città e frequentando la stessa classe.
Perché lo fate? Perché vi piace la poesia e per voi, l’uomo senza poesia sarebbe solo un involucro vuoto di carne e sangue. Ridete senza un motivo tutte le volte che entrate in ascensore insieme e da quando Nelson Mandela è malato, entrambe avete una sua foto come sfondo del cellulare.
“Sei il mio alter ego.” ti dice, quando sparate le stesse battute o parlate all’uni solo. Condividete un amore platonico e segreto per Paul McCartney, Ewan McGregor e Jude Law , e generalmente se una di voi ha una fissazione tende a trasmetterla all’altra. Quando sedete vicine al banco di scuola, scarabocchia i bordi del tuo quaderno con disegni e vignette spiritose che crea sul momento e ogni volta che la inviti a cena, inverte la posizione di due quadri quasi identici appesi all’ingresso per vedere se tua madre questa volta se ne accorgerà; ruba sempre il Times ai vicini che hanno l’abbonamento e se ti dovessi addormentare incautamente sul suo letto, al risveglio potresti ritrovarti due baffi di dentifricio sotto il naso.
Shatze è generosa, disponibile ed umile. La prima volta che hai sciato, c’era lei davanti a te che volteggiava sulla neve come una farfalla, per guidarti sulla pista.
Piange solo di fronte ad un bel film, non dice mai parolacce e le sue tattiche per conquistare i ragazzi che le interessano ti lasciano tutt’ora perplessa; è lo specchio della tranquillità e della calma, tanto che sembra sempre avere il pieno controllo delle situazioni.
Shatze è come il legno, un ramoscello che scricchiola e si inclina su un lato allo sferzare gelido del vento, senza accennare a spezzarsi.
Lei non dipinge, non canta, non scrive. Eppure, a modo suo è un’artista.
Lei è Shatze, un caso umano.
 
 
  

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Capitolo 3
*** Argilla ***


Salve a tutte: oggi sono puntuale come un orologio svizzero…più o meno. Ho tardato solo di qualche ora, dai.
Prima di lasciarvi  alla lettura vera e propria, volevo fare un enorme ringraziamento alle lettrici che hanno recensito gli scorsi capitoli e a tutte quelle che preferiscono/ seguono questa raccolta di One Shot. Siete dolcissime <3
Per insultarmi   qualsiasi domanda o curiosità, mi trovate su ask:http://ask.fm/RuthSpencer 
Spero vi piaccia,
con affetto, Ruth :)

 

 
 
                                                     Argilla
 
                                  Ad Audrey, perché “chi l’avrebbe mai detto che saremmo diventate amiche?”
 
 
 
E poi ci sei tu, Audrey: diciassette anni e un metro e settanta di razionalità, sarcasmo e frasi taglienti.
Mi sono sempre chiesta se disponessi di un manuale apposito per rifilare agli interlocutori indesiderati delle risposte a tono così pertinenti.
Tu ed io siamo come il giorno e la notte, lo yin e lo yang. Diverse, per certi aspetti addirittura opposte, ma ugualmente inseparabili. Esisterebbe il giorno, se non giungesse la notte e viceversa? Lo yin sarebbe completo senza l’altra metà, e lo yang?
Siamo diverse, ma forse, solo apparentemente. “L’ho pensato anch’io”, “Davvero? E’ capitato anche a me”, “Non ci credo. Sai che avrei voluto dirtelo pure io?”.
Ostenti un’indifferenza beffarda, che conoscendoti non ti appartiene affatto, di fronte all’opinione degli altri sul tuo conto, vorresti che il resto del mondo ti considerasse cinica, ambiziosa e forte abbastanza da cavartela da sola. Ma, è semplicemente una posa, una stupida maschera che ti sei appiccicata in faccia.
Sei perspicacie, intuitiva, ombrosa e talvolta taciturna; sensibile e terribilmente permalosa. Anzi, direi quasi irascibile.
I capelli sbarazzini ti incorniciano il viso squadrato e spigoloso. Ti sistemi una ciocca dietro l’orecchio, lasciando scorrere i pollici sulla tastiera del cellulare. Lo fai spesso per rispondere ai messaggi di Sean.
Ripenso alla nostra reciproca antipatia durante il primo anno di conoscenza, quando la mia esuberanza ti innervosiva ed io mi chiedevo come fosse fatto un tuo sorriso, perché effettivamente non sorridi spesso. Lo fai ad una battuta di spirito, gli angoli della bocca si sollevano verso l’alto e gli occhi si accendono di puro divertimento, oppure davanti all’obbiettivo quando sfoderi il tuo sorriso forzato come a voler biascicare a denti stretti: “Sbrigatevi. Odio le foto”.
Poi, siamo cresciute. Sono cambiata e tu hai imparato a conoscermi d’accapo. Abbiamo iniziato a telefonarci ogni domenica mattina, quasi l’avessimo appuntato sul calendario appeso in cucina; tu od io, una delle due alzava la cornetta per sentire l’altra. All’inizio ci confrontavamo sui compiti assegnati, poi sui professori che trovavamo insopportabili; parlavamo dei compagni arrivati da poco, fino alle discussioni con i genitori, ai ragazzi che ci piacevano e alle nostre passioni diverse, ma che ci procurano le medesime sensazioni. Mi raggomitolavo sul divano, con il pigiama ancora indosso e una tazza di latte che scottava tra le dita e ti ascoltavo. Ti ascoltavo e basta. Condividevamo emozioni, circostanze, parole che ci avevano toccato, scalfito oppure appena sfiorato; parole che ci avevano colpito, urtato o ferito nell’animo. Condividevamo scene, colori, semplici immagini perché le tue paure si rispecchiano nelle mie e le mie nelle tue.
Ed è stata proprio una di quelle domeniche che me l’hai confidato. –Ruth, voglio farlo con Sean-.
Io ho deglutito contro la cornetta prima di risponderti e forse tu te ne sei accorta. Ero la prima a cui lo dicevi, ma non perché fossi la più adeguata con cui parlarne. Semplicemente ero lì, in quel momento, mentre tu sentivi il disperato bisogno di confidarti con qualcuno, ed io ero felice di esserci, di poterti consigliare senza che me lo chiedessi, di aiutarti ad affrontare un momento che non si sarebbe più ripresentato.
-Sei preoccupata?-.
-No… Un po’, forse-. E nella tua voce carica di tensione ho colto le mie stesse insicurezze. Non volevi che ti giudicassi e non l’ho fatto.
Poi, il tuo attaccamento per Sean è aumentato e così la domenica mattina lo trascorrevi con lui: la nostra routine è scesa in secondo piano, sei diventata distratta e talvolta totalmente assente. Hai cominciato a liquidarmi con scuse banali ed io ho finito con lo smettere di chiamarti. Ma, forse ho sbagliato: avrei dovuto essere caparbia come Naima, insistente quanto Shatze, dirti che non era giusto trascurare le amicizie per un ragazzo, magari farti anche una scenata di gelosia. Sapevo però che avresti frainteso. “Non è vero”. Ecco, la frase che sai pronunciare meglio. Accampi scuse ed io sono stanca di sentirle.
Forse dovremmo imparare a tenerci per mano, invece di punzecchiarci appena possibile. Le nostre dita si intreccerebbero e l’argilla si fonderebbe con l’argilla, si solidificherebbe al sole. Allora tutte le nostre paure scivolerebbero via come pioggia sull’asfalto e al loro posto ci sarebbero solo le nostre mani, strette fino a farci male.
 
Tu sei Audrey, un caso umano. Prendere o lasciare. Ed io prendo.
  

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Capitolo 4
*** Sughero ***


Temevo che questo capitolo non sarebbe mai venuto alla luce, ma lentamente le idee e le parole sono emerse e si sono pian piano delineate. Insomma, vi annuncio una One Shot particolarmente strappalacrime, ma con le canzoni di Lucio Battisti come sottofondo non ho potuto fare altrimenti. Perdonatemi LOL.
Bene, grazie di cuore a chi lascia sempre un suo pensiero alla fine della one shot, a chi segue e preferisce questa raccolta. Grazie, significa tantissimo per me. E un ringraziamento speciale stavolta va a Bennet_love che ha segnalato “C’era un volta un caso umano” per le scelte. Non credo di meritarmelo, ma comunque vada a finire, sono contentissima così. Davvero, non me l’aspettavo proprio, sono rimasta scioccata quando ho letto la recensione *.*
Per qualsiasi cosa potete contattarmi su ask: http://ask.fm/RuthSpencer       
E…niente, buona lettura xx.

 
 
                                                                  Sughero
 

 
 
                                                                                                                    A  Judith che non ascolta mai.
 
 
 
-Lo ha fatto di nuovo?-.
-Perché glielo permetti?-.
-Dovresti lasciarlo-.
Le stesse frasi si ripetono all’infinito quasi fossero un mantra per scongiurare altro dolore, per scacciare via l’incredulità. Un giorno sembra che abbia capito e quello dopo torna da lui. Lo usa per sentirsi desiderata e poi, dice di amarlo. E’ un mantra anche il suo, una formula di rito per rincuorarsi di non aver sbagliato.
Ma, l’amore è ben altro. L’amore è rispetto: l’amore è affidarsi completamente all’altro, è correre a piedi sotto la pioggia fino a casa sua perché una parola di consolazione varrà un paio di scarpe fradice, cercare riposo tra le sue braccia quando il mondo sembra non volerti affatto; l’amore è vivere e permettere agli altri di fare altrettanto, non comprende restrizioni, divieti, condizioni o gelosie insensate. L’amore è lasciar andare ad una festa di compleanno la propria fidanzata perché è giusto così, perché saperla allegra rende felice anche te. L’amore è non impedirle di uscire con le amiche il pomeriggio, è sperare il meglio per lei. L’amore è l’ancora, è lo scoglio, il faro nella notte, il mare infinito. Si può stringere tutto il mare in una mano? Si può giungere ai confini di un sentimento così profondo?
Non c’è tempesta che regga: l’amore è altro; è essere affamati e tenere comunque da parte un ultimo tramezzino in attesa che l’altro sopraggiunga, è litigare, urlarsi in faccia parole mai pensate e poi tornare indietro, suonare il campanello coll’impazienza di vederlo: mettere da parte l’orgoglio e fare pace.
L’amore è risorgere ogni mattina dai propri brandelli, ricomporre i tasselli, curare le ferite con i baci e con le lacrime, insieme. L’amore è scegliere la parte migliore di sé in ogni caso.
Se solo Judith leggesse queste poche righe, il suo sorriso dolce si tramuterebbe in un’espressione indignata e l’aria mansueta verrebbe sostituita da un atteggiamento ostruzionistico. Si nasconderebbe dietro un’ incrollabile fortezza di scuse e frasi vuote, diverrebbe silenziosa: a volte è più semplice continuare a ripetersi una bugia, che accettare la verità.
Judith oltre ad essere un caso umano, è un caso a parte. Mi chiedo come sia possibile trovarsi così bene con una persona tanto diversa da me stessa.
Non condividiamo assolutamente nulla, forse solo la taglia dei jeans e una smodata passione per Johnny Deep e il cibo cinese: niente libri prestati e mai restituiti, niente rocambolesche avventure per i ragazzi che ci piacciono, o idee eccentriche da appuntare su un quaderno stropicciato. Nessun “Che film affittiamo oggi?” o “Across the Universe mi fa piangere ogni volta”. Niente di tutto questo, eppure siamo amiche perché la considero una persona affidabile, solida ed estremamente pragmatica; perché senza di lei, la chimica chi la capirebbe! Perché a volte solo una sua espressione buffa riesce a farmi ridere, perché sa sempre la cosa giusta da dire, perché non perde mai le staffe anche quando sono alle prese con le mie manie, o Naima esagera, o Shatze eccede negli scherzi, o Audrey non ammette i propri errori.
Come quando amaturità le cellule del sughero muoiono e il protoplasto viene sostituito da aria: Judith è il sughero, l’isolante termico che ci riscalda tutte, che con una risata e un aneddoto divertente scioglie la tensione di pochi istanti prima, è il tessuto di rivestimento che sostituisce le cellule del fusto, che permette di cicatrizzare le ferite, che le cura con le parole e i gesti quotidiani.
Può sembrare una ragazza come tante, ma non lo è affatto. Lei è Judith, un caso umano.
 
 
  

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Capitolo 5
*** Torno a fango ***


Non sono morta, no. Lo scrivo soprattutto per i lettori di Tomboy e Penfriends, in attesa di un mio aggiornamento. Sono successe molte cose...no, in realtà solamente una che però mi ha scombussolato parecchio e per un po' ho smesso di scrivere. Niente di brutto, anzi, ma ero roppo distratta per avvicinarmi ad un computer. Il titolo "Torno a fango" è chiaramente ispirato ad una canzone dei Negramaro, "Cade la pioggia", che vi consiglio di ascoltare perchè bellissima. Con questa One Shot si chiude il cerchio, ri ricongiunge un po' tutto; parla principalmente di...me, ma non come potreste immaginare. E' uno squarcio, un frammento, un piccolo ritaglio, eppure c'é ed è una sensazione con cui devo convivere molto spesso. Ero curiosa di sapere in quale personalità vi siete ritrovati di più o quale vi ha colpito maggiormente . Insomma, ditemi, qui o su ask che presto ritornerò ad usare (GIURO!). 
Ringrazio di cuore tutte le persone che hanno continuato a seguirla, chi dal principio, da "Vetro", chi più in là. Grazie davvero a tutti, a chi lascia sempre una sua recensione, chi mi fa sapere su ask, chi segue o preferisce questa raccolta.

Grazie infinite,
Ruth <3   
                                                                     
 
                                                                                              



                                                                                              Torno a fango



                                                                                                                                                                                                                                                            

                                                                                                                                          A Ruth, la mia parte migliore

Secondo Duncan MacDougall l’anima di un essere umano pesa ventuno grammi. Ma, cosa sono ventuno, miseri grammi in confronto agli strati di ossa, muscoli e pelle che ci rivestono? Cosa sono rispetto ai diecimila affluenti del Rio delle Amazzoni, o agli ottomila e ottocento metri dell’Everest?
Nulla, un pugno di sabbia, una zolletta di zucchero, una moneta da cinque centesimi. Neppure un bacio peserebbe così poco.
Dobbiamo accontentarci di ventuno grammi e poco tempo a disposizione per conoscere noi stessi: è una corsa infinita, una scoperta continua di nuove sfumature, combinazioni mai provate prima e straordinarie.
Cerco me stessa tra queste righe, in mezzo alle pagine, tra le parole velate d’ironia, sulla carta ingiallita dal tempo e quella che ancora odora d’inchiostro.
Cerco il collante che riesca a tenere insieme i frammenti di un quadro che non torna, l’ago di una bilancia tarata male.
-Non ci riesco-.
-Hai paura di soffrire-.
Si, ho paura. Non ci dormo la notte al pensiero di ripercorrere le orme di una vita che non mi appartiene, di voltarmi indietro e capire di aver preso le scelte sbagliate. Vorrei poter fermare le lancette dell’orologio, smettere di correre dietro ad un fantoccio di fumo, riprendere fiato, trovare me stessa qui e adesso, perché come afferma Eric Draven, “non può piovere per sempre”.
In quest’anestesia totale, in questo sogno annichilente e profondo, ho scorto una parte di me in quattro casi umani. Sembriamo fatte su misura, per stare insieme ed essere amiche: ognuna con i propri sogni da realizzare e le sue paure intrappolate sotto il cuscino ma, comunque frammenti di uno stesso mosaico, uniti da una promessa che intendiamo mantenere.
E allora non mi resta che destarmi e tornare a fango. Torno a fango, si e spero che ventuno grammi bastino. Devono per forza.

 

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