Ritratto estivo di ragazzo svedese

di aelfgifu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Disgelo ***
Capitolo 2: *** No man is an island (prima parte) ***
Capitolo 3: *** No man is an island (seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Suo, Stefan Levin ***
Capitolo 5: *** I stared in wonder at the young and the old ***
Capitolo 6: *** God kväll ***
Capitolo 7: *** Questi siamo noi ***
Capitolo 8: *** Solstizio d'estate. Epilogo ***



Capitolo 1
*** Disgelo ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

1. Disgelo

 

Io sono Lazzaro, tornato dai morti,

tornato per dirvi tutto, e vi dirò tutto

 

T. S. Eliot, Canto damore di J. Alfred Prufrock

 

L’ombra di un albero, lo Schwabinger Bach a pochi passi, un’arietta leggera che passa tra i suoi capelli.

La sua bici appoggiata al tronco dell’albero.

Il suo fedele telo da scampagnata.

Il suo zaino e una bottiglia d’acqua a portata di mano; il suo cellulare, posato accanto a lui, impostato sulla modalità silenziosa.

I libri che ama.

Se non è questa la felicità, ci va molto vicino.

Con la bella stagione il parco comincia ad affollarsi di turisti e residenti, ma i turisti spesso passano solo per farsi un’idea del posto, mentre i monacensi vengono soprattutto nella pausa pranzo o dopo il lavoro, o nel fine settimana. Quando va lui non c’è mai troppa gente, le ore passano quiete. A volte qualcuno si avvicina per chiedere la direzione, o una sigaretta. A volte una ragazza di passaggio gli lancia un’occhiata, gli fa un sorriso, ma non osa molto di più.

 

***

 

Ha preso l’abitudine di frequentare una libreria nel quartiere universitario. Gli piace l’odore della carta, gli piace leggere i titoli sul dorso delle copertine, sfilare i volumi dagli scaffali, aprirli a una pagina a caso, nella speranza che qualcosa di bello e inaspettato gli venga contro e lo colpisca come un pugno in faccia, come un bacio in bocca. Capita di rado, ma è meraviglioso quando capita.

È così che ha trovato quel libro. È stato il titolo a incuriosirlo, un titolo che fa proprio al caso suo.

 

Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

a lettere nere sulla copertina del volumetto in formato tascabile. Un sorriso gli è spuntato sulle labbra.

Come sempre, ha aperto a una pagina, casualmente, e ha letto:

 

I suoi antenati erano adoratori del sole: sulle rupi della Svezia meridionale sono stati ritrovati graffiti con simboli solari risalenti alletà del Bronzo...

 

Ha richiuso il libretto e guardato meglio la copertina.

L’immagine: una natura morta con girasoli di van Gogh, una vera esplosione di giallo e arancio.

Il titolo, centrato, nella parte superiore della copertina:

 

Ritratto estivo di ragazzo svedese

Racconti

 

E immediatamente sopra al titolo, in caratteri più piccoli:

 

Julia Gutenbrunner

 

Ha comprato il libretto. Mentre pagava, ha chiesto alla commessa:

“Sa dirmi qualcosa di questa Julia Gutenbrunner?”

La commessa gli ha sorriso:

“Non molto, a dire la verità”.

“Giovane?”

“Credo di sì. Scrive racconti, è anche una brava poetessa. Ha pubblicato parecchio sul web, se digita il suo nome sui motori di ricerca riesce a trovare un bel po’ di cose. Ha vinto anche un paio di premi prestigiosi, ma a quanto pare non è il tipo che ama la pubblicità, non lo ha mai sbandierato in giro”.

“È la prima volta che prendo qualcosa di suo”.

“Ha uno stile semplice, chiaro e raffinato. E tagliente come un bisturi. Ma la cosa più interessante sono le storie”.

“Che cos’hanno le storie?”

“Sono... sono particolari. Non saprei come dire” ha risposto la ragazza senza guardarlo, mentre digitava il prezzo sul registratore di cassa.

“Vuol dire che ne riparleremo dopo che avrò letto il libro” ha replicato lui con uno dei suoi sorrisi assassini. “Quanto devo?”

“Dieci euro. Vuole una busta?”

“No, grazie, va bene così”.

La ragazza ha infilato lo scontrino dentro al libretto.

“Buona lettura!”

“Speriamo, grazie!”

 

***

 

Julia Gutenbrunner ha uno stile molto bello. E certamente è giovane: molti dei suoi personaggi sono giovani, o addirittura adolescenti, descritti con quella tenerezza appassionata che può avere solo chi ricorda bene com’è avere vent’anni, perché i suoi, benché passati, non sono ancora tanto lontani. Nel libretto si alternano storie più lunghe a storie molto brevi, di una pagina, mezza pagina, o addirittura poche righe; alcune sono favole filosofiche in cui volpi, cani e gatti parlano tra loro e con le persone.

I racconti hanno un denominatore comune: fanno male. Sono racconti violentissimi, e sì che non avviene mai niente di cruento, non scorre sangue, nessuno picchia nessuno, non avvengono stupri, non c’è nemmeno una scena di sesso. Sono storie di vita quotidiana e di rapporti umani e familiari in cui sarebbe inutile cercare amore, amicizia, attaccamento, affetto, perché trovereste solamente solitudine, perdita, lotta per il potere, sopraffazione, emarginazione, ferocia.

Stefan si è trovato spesso a rabbrividire leggendo quelle righe, leggendole e rileggendole per timore di non aver compreso bene.

Bambini discriminati dai loro genitori e dai loro insegnanti, anche solo con un’occhiata.

Giovani donne discriminate per il loro supposto poco valore di mercato.

Ragazzine vittime di un bullismo che non ha bisogno di pugni e schiaffi, perché le parole arrivano prima e fanno più danno. Come la piccola sedicenne Sophie:

 

Hanno incominciato durante la seconda, ridendo del mio modo di vestire. Poi hanno sparso la voce che puzzavo. Ci hanno creduto anche i professori; la coordinatrice, durante l'incontro alunni-genitori, ha chiesto a mia madre se avevo qualche problema di salute, se per caso soffrivo di incontinenza. Lanno scorso ho passato i sei mesi più faticosi della mia vita: odissea che tra le sue tappe ha avuto la visita dall'urologo (per stabilire se mai soffrissi di incontinenza, come ha sentenziato mia mamma, con unaria un po schifata mentre pronunciava la parola “incontinenza”), poi dal dermatologo (per stabilire se mai il mio cattivo odore derivasse da funghi, batteri e simili), poi dalla ginecologa (per stabilire se mai questo cattivo odore preludesse a qualche infezione degli organi genitali), poi dallendocrinologa (per stabilire se i miei ormoni funzionano). Esami del sangue, esami delle urine, un migliaio di euro di spesa per capire lorigine della mia puzza. E già che cera, mio fratello ha preso a chiamarmi “stinking Sophie”, che fa pure figo, così allinglese. Risultati: tutto negativo, non puzzo per niente, non ho niente. Però ormai a scuola tutti stanno ad almeno un metro di distanza; pure i prof quando vengo interrogata s’inventano qualunque scusa per tenermi lontana, o mi fanno le domande dal posto o mi mandano a scrivere gli esercizi alla lavagna.

 

Il racconto che dà il titolo alla raccolta, Ritratto estivo di ragazzo svedese, è la storia di Lennart, uno studente di Malmö, che a Monaco prepara la sua tesi di master.

Lennart studia scienze internazionali diplomatiche, ha capelli di un biondo quasi bianco tagliati cortissimi, porta – quando vuole lui – occhiali dalle lenti rettangolari, mangia per lo più sandwich con salmone e insalata, non beve birra, a volte eccede con lo Schnaps. Ha una bella voce e gli piace cantare. Legge racconti di scrittori underground. Si sposta quasi esclusivamente in bici.

Lennart è di aspetto attraente e di modi cortesi.

Lennart ha una vita estremamente promettente davanti a sé.

Lennart ama passare le belle giornate all’Englischer Garten.

Lennart è ancora pieno di rabbia per un abbandono che ha subito.

Lennart non sa come sfuggire alla solitudine.

 

***

 

È notte fonda, una notte di aprile, ma ancora fredda.

Stefan è steso nel suo bel letto, nel suo bell’appartamento, in una bella zona residenziale della città. Si è tirato il piumino fin sopra le orecchie per non prendere freddo e cerca di dormire, ma non riesce. Si gira a destra, si gira a sinistra, si mette a pancia in giù, si mette supino, toglie il guanciale da sotto la testa, poi ce lo rimette. Prova a contare le pecore, poi prova a contare le ombre che attraversano il soffitto della stanza. Niente riesce a procurargli il benedetto sonno, e domani dovrà alzarsi presto per prendere un aereo.

Steso nel suo letto, a gambe e braccia larghe come un uomo crocifisso, non riesce a prendere sonno.

Quel dolore lancinante che per anni ha portato con sé, prima sotto forma di furia distruttiva, poi come vuoto, quel dolore di cui non è mai riuscito a parlare veramente con nessuno, che nessuno umanamente è riuscito a soccorrere ed è sbiadito solo per la misericordia del tempo. Tutto sommato, pensa, non è stata tanto la sofferenza a fargli male per tutti questi anni, è stata la solitudine che ne derivava, la sensazione di non poterla condividere, per troppa educazione – “le nostre sofferenze interessano solo a noi”, diceva nonna Malin – o per paura di non essere capito. Ora ha scoperto che anche qualcun altro sa e conosce quello che ha provato lui – qualcuno che riesce anche a parlarne, riesce anche a scriverne.

Che io non riesca a dormire è il minimo, sussurra tra sé e sé.

Qualcosa ha echeggiato dentro di lui come un rumore che conosce bene, quello del ghiaccio che si crepa quando inizia il disgelo. Qualcosa nella sua testa ha fatto crac. Che cosa ne sta uscendo fuori? Sangue? Pus? Materia necrotizzata? Sente che qualcosa a lungo imprigionato dentro di lui inizia a defluire, lentamente ma inesorabilmente.

Non potrebbe dormire comunque, con questo formicolio nelle braccia.

 

***

 

Note al testo. 1) Lo Schwabinger Bach è uno dei ruscelli che attraversano l’Englischer Garten, il bellissimo e grandissimo parco di Monaco. 2) Il mio Stefan Levin è un ragazzo colto e sensibile. Non è comune trovare soggetti del genere tra i calciatori, ma... diciamo che ho prestato a Levin molti tratti di Jürgen Klinsmann, grande idolo della mia infanzia. Per chi volesse saperne di più su questo grande calciatore tedesco, il web è ricco di informazioni: anche l’Enciclopedia Treccani online ha una voce dedicata al mitico Klinsi. Non penso comunque che per questo il mio Levin debba essere considerato OOC: la sua sensibilità esasperata è un tratto che fin dall'inizio gli ha attribuito il maestro Takahashi... 3) Il Levin che compare qui è un po’ più maturo rispetto a quello delle ultime serie di Captain Tsubasa: ha intorno ai ventotto anni, gioca sempre a Monaco di Baviera ed è diventato un buon amico di Karl-Heinz Schneider.

Disclaimer. I diritti sulla storia di Captain Tsubasa appartengono al suo creatore Yoichi Takahashi e alle case editrici che la pubblicano nei rispettivi paesi. La piccola "stinking Sophie", Lennart Grönkvist Björnsson e la loro creatrice Julia Gutenbrunner, invece, sono miei.

 

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Capitolo 2
*** No man is an island (prima parte) ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

2. No man is an island (prima parte)

 

No man is an island,
Entire of itself,
Every man is a piece of the continent,
A part of the main.
If a clod be washed away by the sea,
Europe is the less.
As well as if a promontory were.
As well as if a manor of thy friend's
Or of thine own were:
Any man's death diminishes me,
Because I am involved in mankind,
And therefore never send to know for whom the bell tolls;
It tolls for thee.

 

John Donne

 

Dovrei essere felice per questo evento. La mia ultima raccolta verrà presentata nei locali di una libreria del centro. Il libraio e l’editore hanno chiamato un attore professionista per recitare alcuni brani scelti, avevano anche pronti dei musicisti per l’accompagnamento se io non fossi radicalmente ostile all’idea di far leggere, o leggere io stessa, le mie parole con sottofondo musicale. Hanno creato e stampato e inviato inviti bellissimi, raffinati.

Il presentatore sarà un critico molto severo che ci ha stupiti tutti dedicando quindici righe di recensione a me, e che l’editore ha voluto per forza coinvolgere nella campagna di lancio del libro.

E ancora non sei contenta, direte voi.

Non sono contenta, per nulla. Sono commossa per tutto quello che hanno fatto, editore, libraio, critico, sono grata all’attore per come leggerà – sono sicura che comunque deciderà di leggere, sceglierà un buon approccio – ma eventi di questo tipo mi mettono solo tristezza e un po’ di vergogna.

Perché sono pieni di ipocrisia.

Arriveremo all’evento ben vestiti e profumati, l’editore il libraio il critico e io, prenderemo posto dietro a un tavolo, ci passeremo a turno il microfono per dire i soliti quattro ringraziamenti, introdurremo l’attore, il quale leggerà sei o sette brani, alla fine di ognuno dei quali riceverà un applauso educato da un pubblico costituito di tutt’al più trenta persone. Ve le elenco in ordine di tipologia:

cinque = i ragazzi della libreria

due-tre = fotografi amici di qualche organizzatore

dieci-dodici = intellettuali di varie età appassionati di letteratura

cinque = cooptati dall’editore o dal libraio

cinque = miei amici o parenti,

e se siamo fortunati sarà presente anche un giornalista.

A pochi di loro interessa quello che viene detto; molti verranno per far piacere a qualcuno, o per un do-ut-des morale o materiale (io oggi vengo a far presenza qui, tu domani vieni a far presenza a un mio evento). Perfino i miei amici, se qualcuno di loro verrà, ci saranno per me, non perché gliene importi un fico secco del libro.

Perché del libro non gliene frega niente a nessuno, o quasi.

 

***

 

All’ora stabilita iniziano ad arrivare gli ospiti. Un quarto d’ora dopo, decidiamo di incominciare. La parola all’editore e al libraio; al termine dell’introduzione il libraio, alla mia destra, mi passa il microfono perché lo dia al critico. Io prendo il microfono e lo passo alla mia sinistra, quindi rivolgo lo sguardo verso il pubblico.

E vedo lui.

Dev’essere appena arrivato, perché cinque minuti fa non l’ho notato.

Si è seduto nell’ultima fila, appartato.

Diverso dagli studenti seduti davanti a lui.

Una chioma di folte ciocche colore del lino.

Pallido, lineamenti del viso puliti e armoniosi.

Braccia e gambe lunghe e forti da sportivo.

Che cosa ci fa un tipo del genere qui?

Avrà sbagliato posto?

Non ha sbagliato posto. Ha con sé una copia del mio libro.

Allora è qualcuno che conosco?

Me ne ricorderei se conoscessi un tipo del genere.

Incrocia il mio sguardo e mi fa un sorriso, appena accennato. È come se mi sparassero dritto in faccia. Sento un rossore incoercibile salirmi sulle guance; fingo di aver sete, apro una delle bottigliette d’acqua posate vicino a me, prendo un bicchiere, verso un po’ di acqua e bevo, tanto per nascondere la faccia.

 

***

 

Alla fine alzo gli occhi ed è rimasto solo lui. Si alza lentamente dal suo posto, e lentamente viene verso di me. Quando siamo faccia a faccia, mi rivolge di nuovo quel sorriso di prima, mi tende la copia del libro:

“Posso avere l’onore di un suo pensiero?”

Io cerco di rispondergli con un sorriso che sia bello almeno la metà del suo e prendo il libro dalle sue mani.

“L’onore è mio” dico, e non può sapere quanto veramente ne sono convinta.

Sorride ancora. “Ho scoperto il libro per caso, mi aveva incuriosito il titolo. Nei giorni scorsi ho visto che c’era una presentazione e...”

Parla il tedesco molto bene, ma la cadenza lo tradisce. Non sono sicura della provenienza, perciò provo a fargli dire ancora qualche cosa. Gli indico il libro:

“Ne ha già letto qualche pagina?”

“Qualcosa, ma... sono lento, purtroppo. Non riesco a leggere velocemente”.

La sua cantilena... la sua cantilena.

“Svedese...”

“Sì”, risponde lui; e un’espressione di gioiosa sorpresa gli sboccia negli occhi. “Sì, ma... come –”

“Il suo accento”

“E io che pensavo di riuscire a mimetizzarmi bene”. Esita. “Senta... ha impegni per dopo?”

Non ne ho.

“Posso invitarla a bere qualcosa qui vicino? Così potrebbe pensare con calma a una bella dedica per me”.

“È gentile...”

Lui sembra conoscere bene i dintorni, perché mi guida senza esitare verso un piccolo locale poche centinaia di metri più avanti, un piccolo locale odoroso con i pannelli di legno alle pareti e un profumo di caffè caldo e cioccolato diffuso a mezz’aria.

“Va bene qui?” chiede indicando un tavolino accanto ad una delle grandi finestre.

“Benissimo”.

Ci sediamo, ho ancora tra le mani la sua copia del mio libro, e improvvisamente capisco che non ho nessuna idea per una dedica che non sia anonima, e questo ragazzo, a questo punto, non merita più una dedica anonima.

“Che cosa prendono i signori?”

La cameriera ci coglie di sorpresa, non abbiamo ancora avuto neppure il tempo di pensarci.

“Un caffè, non troppo forte per favore” dico precipitosamente.

“Lo stesso per me”.

È chiaro che abbiamo ordinato tanto per ordinare qualcosa, per mandare via la cameriera.

“Non so ancora il suo nome...”

“Stefan. Stefan Levin”.

“Bene, signor Levin, sono lieta di fare la sua conoscenza... anche perché un ragazzo giovane come lei a un reading è qualcosa che dovevo ancora vedere”.

“Io a dire il vero non sono un frequentatore abituale...”

“E allora come mai...?”

“Come mai c’ero?” annuisce, più a sé stesso che a me. “Vediamo... direi che ero lì per il libro”.

“Allora ama leggere?”

“Abbastanza... ma non me ne intendo molto".

“Che vuol dire non se ne intende molto? Non tutto deve piacere a tutti, per fortuna. Qualcosa è già molto. Se ne occupa per motivi professionali?”

A questo punto lui scoppia a ridere di cuore, con un lampo che gli allarga quegli incredibili occhi cilestrini.

“No no, per l’amor di Dio... il mio lavoro è tutta un’altra cosa!”

“Ah! Un lavoro manuale?”

“Se così si può dire... soprattutto un lavoro per cui bisogna spostarsi, stare lontani da casa”.

Che faccia il modello?

“Il titolo... è quello che l’ha incuriosita?”

“Mi è sembrato che avesse a che fare con me”.

“Per via della nazionalità...”

“No... è che io faccio molte delle cose che fa Lennart”.

“Davvero? Per esempio?”

Comincia ad elencare:

“L’Englischer Garten... i sandwich di salmone e lattuga... la bici...”

“Vuol dire che ho fatto un suo ritratto senza saperlo?”

“A quanto pare”.

Arriva la cameriera con i nostri caffè, la zuccheriera e i bicchieri d’acqua. In silenzio, la aiutiamo a disporre le cose sul tavolino.

“Ha amato molto Lennart?”

“Eh?”

Lui beve il suo caffè lentamente, un sorso alla volta.

“Lennart, è il ritratto di qualcuno a cui ha voluto molto bene, vero?”

“Oh!”

“... un ragazzo svedese?”

“No, no”.

“No nel senso che non è il ritratto di qualcuno a cui ha voluto molto bene, o nel senso che non si trattava di un ragazzo svedese?” riprende lui con un lampo malizioso negli occhi.

“Tutte e due le cose”.

Come faccio a spiegargli che Lennart per un quarto è pura invenzione, per un altro quarto somiglia a una persona che mi è molto cara, e per metà è me stessa?

“... e poi perché proprio svedese?”

A questa posso rispondere:

“Perché a me serviva uno che fosse straniero due volte. E poi... com’è che dite di voi stessi? Jag känner mig ensam?”

Mi guarda.

“Jag känner mig ensam...” ripete tra sé, con un tono astratto, la voce di chi con la testa è chissà dove.

Hai perso qualcuno anche tu, Stefan Levin? Vorrei chiederglielo, ma sono fatti troppo personali, meglio non girare il coltello nella piaga. Forse hai attraversato un grande deserto senz’acqua e senz’ombra, e forse quello che hai letto è stato come avvistare le prime palme di un’oasi? Forse quando hai avvistato le prime palme eri già quasi del tutto disidratato e sconvolto dall’insolazione, e non credevi ci fosse più acqua o ombra sulla faccia della terra? Eppure, sai, anche così, nessuno è un’isola.

Lennart, vorrei spiegargli, è nato perché un tale, qualche tempo fa, ha visto che a casa sua cominciava a mancare lo spazio, e ha deciso di togliere tutto quello che non gli serviva, anche se era ancora nuovo e buono. E mentre lui, a malincuore, portava tutte quelle cose nuove, buone, e inutili, al cassonetto, io l’ho intercettato e gli ho tolto un sacco di roba dalle mani.

Ma è necessario che glielo spieghi?

Quello che qualcun altro aveva destinato alla spazzatura è diventato qualcosa di bello, tu ti ci sei imbattuto per caso, e hai trovato che era bello, hai voluto essere qui oggi, e ora sei seduto davanti a me e bevi con calma la tua tazza di caffè non troppo forte mentre chiedi il perché e il percome di questo racconto.

Ho trovato una dedica per te, giovane Levin.

Mentre lui continua a sorseggiare il suo caffè, tiro fuori una penna dalla mia borsa, apro la sua copia del mio libro alla prima pagina, e scrivo:

 

Al “vero” ragazzo svedese

Prendi laccetta e spacca il ghiaccio – buona fortuna!

J.G.

 

Quindi rimetto il cappuccio alla penna, chiudo il libro e lo spingo verso il mio interlocutore dall’altra parte del tavolo.

 

***

 

Note al testo. 1) Il caffè che i due ordinano è ovviamente preparato alla tedesca, filtrando la polvere di caffè con acqua bollente; a seconda della quantità di polvere usata e di come è macinata, la bevanda può risultare molto leggera o terribilmente forte. 2) Jag känner mig ensam: io mi sento solo, in svedese. 3) La dedica di Julia riecheggia una frase di Franz Kafka: das Buch ist die Axt für das gefrorene Meer in uns ‘un libro è l’accetta per (rompere) il mare ghiacciato dentro di noi’.

 

Disclaimer. Stefan Levin appartiene al maestro Takahashi, Julia Gutenbrunner è mia.

 

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Capitolo 3
*** No man is an island (seconda parte) ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

3. No man is an island (seconda parte)

 

Ho combattuto il silenzio urlandogli addosso

e levigato la tua assenza solo con le mie braccia

 

Tiziano Ferro, Sere nere

 

Oggi ho conosciuto uno strano ragazzo.

Oddio, strano.

Strano era il contesto, più che il tipo.

Pensa, un ragazzo di qualche anno più giovane di me, carino, biondo, alto, estremamente gentile e ammodo e dotato di un sorriso bellissimo. Era alla presentazione del libro. Là per là ho creduto di avere le traveggole: un tipo del genere alla presentazione di un libro? Ecco, senza volere sono stata discriminatoria, ho pensato che il posto di un bel ragazzo non è una libreria.

È stato davvero molto amabile, ha voluto una dedica sulla sua copia, mi ha invitato a prendere un caffè, mi ha chiesto dei racconti. Mi ha parlato un po’ della sua vita, ma si è mantenuto piuttosto sul vago.

È svedese. Dice che ci sono molte somiglianze tra lui e il Lennart della mia storia.

Sembra un tipo molto riservato ed è rimasto quasi sempre serio serio durante la nostra chiacchierata, ma quando gli ho chiesto se si occupava di libri per professione si è fatto una bella risata e ha detto che il suo è un lavoro di tutt’altro genere, un lavoro che comporta molti spostamenti. Ho pensato che forse fa il modello o l’attore, ma che ci fa un modello o attore svedese a Monaco? Le piazze europee sono Parigi, Londra, fuori d’Europa ci sono gli Stati Uniti, New York o Hollywood. Bah.

Magari è un gigolò!

Comunque, ha una risata calda e scampanellante, che fa bene ascoltare, come una bella canzone o una bella melodia. È un peccato che rida poco. I suoi occhi hanno un fondo di tristezza, come succede a chi ha sofferto un gran dolore: è una cicatrice che rimane lì, incisa nella carne, a lungo o per sempre. Sarà per questo che gli è piaciuto il libro, non solo perché è svedese come il mio Lennart? Capisce i personaggi che descrivo?

Tutti quelli che mi leggono, a un certo punto, vogliono sapere il motivo per cui parlo sempre di persone isolate, umiliate, non amate, discriminate, sofferenti. Lui non ha chiesto nulla, come se la cosa fosse totalmente ovvia.

Credo che abbia qualcosa in mente. L’invito a prendere un caffè deve essere stato il suo primo passo. Non so perché penso questo.

Non sarà un maniaco assassino?

Un maniaco assassino che ha puntato la qui presente Julia, figurarsi! Ridiamo, eh?

La verità è che mi ha spiazzata. Non riesco a giustificare razionalmente quello che ha fatto.

Probabilità che un ragazzo così leggesse i miei racconti: pari a zero.

Probabilità che un ragazzo così trattasse con tanta premurosa attenzione l’autrice di detti racconti: pari a zero.

Eppure è successo, e io sto qui a chiedermi, come è possibile? Come? Un fatto del genere non rientra nella categoria del due più due, del probabile, dell’atteso o del certo. E quando qualcosa scardina la legge della probabilità, io vado fuori di testa.

Devo capire.

E poi che vuol dire, un ragazzo così? Stai di nuovo generalizzando, Julia! Non devi generalizzare!

E continuo a non capire, continuo a non capire.

So solo che non finirà qui.

Non chiedetemi come lo so.

 

***

 

Che strano tipo sei, Julia Gutenbrunner.

Quanto sei alta? Un metro e cinquantacinque? Sei molto più piccola di me, non mi arrivi neanche alla spalla, per guardarmi negli occhi devi alzare la testa, proprio come io devo abbassarla per guardare te. Sedendoci a parlare davanti a una tazza di caffè abbiamo stabilito una par condicio, non credi? Eppure non dai la sensazione di essere piccola, apri la bocca e subito sembri altissima.

E poi sei timida.

Non pensare che non me ne sia accorto: quando mi hai visto sei rimasta colpita, e hai fatto finta di aver sete soltanto per poter dedicare la tua attenzione a qualcos’altro e dissimulare il tuo imbarazzo.

La mia presenza e il mio sorriso ti hanno messa in imbarazzo. Avevi le guance rosse mentre stappavi la bottiglietta, mentre versavi l’acqua nel bicchiere, mentre bevevi.

Sei una donna adulta, eppure ti è bastato un mezzo sorriso di uno sconosciuto per sconvolgerti. È stato il secondo regalo che mi hai fatto; il primo, ovviamente, è stato questo strano Lennart che è il mio ritratto preciso – le uniche differenze sono che lui studia e io gioco al calcio, lui ha ventiquattro anni e io ventotto. Per il resto, tutto uguale: l’aspetto, le abitudini, il carattere, quello che ha vissuto. Lì per lì ho pensato che sapessi chi ero e ti eri ispirata a me per il tuo personaggio; ma una volta faccia a faccia non mi hai neanche riconosciuto, avrei potuto essere chiunque per te, uno studente come Lennart, un responsabile dell’Ikea per la Germania del Sud, un killer professionista. Un killer professionista, perché no? Sai che uno dei miei soprannomi è il giovane dio della distruzione?

Hai fatto il mio ritratto senza conoscermi. Meglio, mi conoscevi senza sapere il mio nome e cognome, né la mia storia.

Posso rivederti, Julia?

“Che fai, ti sei incantato?”

La voce irritata di Schneider mi riporta alla realtà. Sono fermo davanti alla porta degli spogliatoi, perso nelle mie fantasticherie, e impedisco anche agli altri di entrare.

“Sempre a sognare, eh?” sghignazza Sho.

“Allora? Hai due possibilità, o ti sposti o apri la porta” gli fa eco Karl. Che rompiscatole questo Schneider, grande attaccante, ragazzo di tempra eccezionale, affidabile sotto tutti i punti di vista (metterei senza timore la mia vita nelle sue mani, se ce ne fosse bisogno), ma che rompiscatole galattico riesce a essere, alle volte.

Gli rispondo con un gesto evasivo, spalanco la porta con veemenza e mi faccio di lato:

“Prego!”

Karl è il primo a entrare, e mentre entra mi rivolge uno sguardo tra l’incuriosito e lo sfidante. Io gli rispondo ammiccando, con una specie di sorriso sotto traccia che riuscirebbe a sfuggire a tutti, ma non a lui.

“Beh” mormora.

“Chiedo venia alla vostra maestà imperiale” sogghigno.

“Uah, uah” questo è Shunko “Quando ci si mette è fenomenale, peccato che se ne stia sempre così zitto!” e mi molla una pacca sulla spalla dall’alto del suo metro e ottantuno, con quella mano enorme che si ritrova, salvo poi scappare subito dentro di corsa perché sa che se esiterà un secondo di più gli restituirò la pacca con gli interessi.

Ecco i miei colleghi, Julia, i miei amici. Sono dei bravi ragazzi, nonostante il mestiere che facciamo, un po’ gladiatori, un po’ giullari, intrattenitori di grandi folle, giovani uomini che il culto popolare ha piazzato in una specie di pantheon neo-pagano nel quale tutti crediamo con fervore.

Chissà che cosa ne pensi tu di noialtri calciatori? Ho paura di quello che potresti pensare.

Che scemo, eh? Sì, ho paura di te.

E nonostante abbia paura di te: posso rivederti?

 

***

 

Una lettera

 

Al mio signore, la sua amica augura felicità e salute.

 

Mio signore.

 

Oggi qui è un giorno vento-piovoso,

immagini di oceani e fiumi e torrenti e laghi e ruscelli e pozzanghere

mi si ammucchiano allegramente in testa,

tu non sei qui (casa tua è altrove),

io – rigiro in bocca le parole della mia lingua

prima di mandarle, come devono, all’avventura.

 

Ad ogni modo, che ridicolo strumento per provare ad avere voce,

per dire, chiaro e tondo, ecco: scegli sempre prima che arrivi

il momento di scegliere, perché arriverà il momento:

e sotto qualunque specie ti apparirà,

apparirà e sparirà nello stesso respiro,

e l’unico modo per non perderlo sarà averlo saputo prima.

 

E detto questo, amico mio, mio signore,

poso la penna, chiudo la lettera e m’inchino

a te così – e ricapitolando, rifacendo i conti

sulle dita di una sola mano, i conti non tornano,

né sarò io a farli tornare –

te così distante.

JG

 

***

 

Note al testo. 1) Per quanto riguarda l'epigrafe: di solito vado sulle epigrafi colte, ma stavolta mi hanno ispirato due versi di Tiziano Ferro (eh sì, sono abituata a mescolare impunemente cultura "alta" e popolare!). 2) Inauguro qui una forma di fiction che potremmo intitolare “poetry fic” o meglio "poem fic", ovvero un racconto ispirato dalla presenza di una o più poesie. Qui abbiamo una poesia di Julia, rivolta – inconsapevolmente – a Stefan. Il senso di questi versi è: quando capita un avvenimento decisivo nella nostra vita, occorre saperlo riconoscere, senza farsi destabilizzare dal fatto che il detto avvenimento possa sembrare assurdo, inverosimile o anche troppo bello per essere vero.

 

Ringraziamenti. Grazie ad Agatha, Capitanhyuga, Eldarion e Sakura chan per i loro bellissimi commenti! Speriamo di non deludervi con la prosecuzione della storia...

 

Disclaimer. Stefan Levin, Karl-Heinz Schneider e Shunko Sho appartengono al maestro Takahashi, Julia è mia.

 

 

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Capitolo 4
*** Suo, Stefan Levin ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

4. Suo, Stefan Levin

 

In questo capitolo Levin getta finalmente la maschera, e Julia s’improvvisa investigatrice (con sorpresa finale)...

 

***

 

There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy

William Shakespeare, Amleto

 

 

Due giorni dopo, insieme alla posta dell’ufficio, ricevo un’elegante busta di cartoncino filigranato color sabbia, una di quelle buste usate per gli inviti alle occasioni mondane. Dentro trovo un biglietto scritto a mano:

 

Cara Julia,

vorrei ricambiare la sua gentilezza dellaltro pomeriggio con qualcosa di altrettanto bello, o almeno spero. Le piace il calcio? Non potrò tenerle compagnia durante la partita perché purtroppo sarò sul campo a fare il mio lavoro, ma se vuole potremo vederci dopo. Mi aspetti. Suo, Stefan Levin

 

Guardo nella busta: biglietto per la partita Bayern Monaco-Eintracht Francoforte di sabato prossimo, posto riservato nella tribuna VIP della Allianz Arena.

"Ma porca...", mi lascio sfuggire a mezza voce.

Ecco che cosa intendeva con lavoro stressante. Fa il calciatore nella massima serie.

Un calciatore che è venuto alla mia presentazione, ha voluto una dedica e mi ha invitata a bere un caffè.

E il tono del suo messaggio non è di quelli che tollerino repliche.

 

***

 

La mia mente annaspa: è una botta inaspettata. A chi posso chiedere lumi? Penso fulmineamente a Frank, che nella sua rocciosa natura di maschio, scozzese di nascita e bavarese di adozione, divide la sua fedeltà tra il Celtic di Glasgow e il Bayern, appunto.

Corro da lui, nello studio accanto, e gli chiedo:

“Senti, come va interpretato un invito ad assistere a una partita casalinga del Bayern nella tribuna dei VIP?”

“Perché... ti hanno mandato un invito del genere?” domanda Frank incredulo.

“Eh!!!” rispondo allargando le braccia.

“Beh, normalmente per avere queste facilitazioni devi essere o un politico, o un giornalista, o l’amante segreto di uno dei capoccia, oppure appartenere alla famiglia o al giro di amicizie di un dirigente o di un calciatore” risponde Frank serio. “Tu a quale di queste categorie appartieni?...”

“A nessuna... anzi, forse... No, non ne sono sicura, non farmi dire sciocchezze”.

“E dunque?” inquisisce Frank.

“Se te lo dicessi non mi crederesti”, dico.

“Provaci lo stesso” mi sfida Frank.

Be’, Frank, allora stai a sentire cosa ti racconto. Hai presente Stefan Levin? Sai che gli piace quello che scrivo? Sai che è venuto alla mia presentazione della scorsa settimana? Sai che ha voluto che gli scrivessi una dedica? E che abbiamo preso un caffè insieme? E che ora mi ha invitato a una sua partita, chiedendomi con molta nonchalance, anzi proprio di straforo, di uscire con lui dopo? Io te lo dico, Frank, ma non me la prenderò se non ci crederai, perché neanche io ci credo.

Eppure, Frank, gente come te e me dovrebbe sapere che ci sono più cose in cielo e in terra... eccetera eccetera.

“Tieni” dico, e gli porgo invito e biglietto. Frank legge, quindi alza la testa e mi guarda stupefatto:

“Stiamo parlando di quel Levin?...” domanda.

“A quanto pare”.

“E tu lo conosci perché...”

“Vuoi farti due risate, Frank? È un mio lettore. Era alla presentazione di sabato scorso. E tu pensa: avevo capito che era svedese, ma non l’ho riconosciuto. Eppure devo averlo già visto qualche altra volta, sui giornali o alla televisione”.

Frank si batte la tempia col palmo della mano:

“Non ci credo” dice.

“Neanche io” rispondo. E scoppio a ridere.

Scoppia a ridere anche lui.

È la tipica risata di noialtri, la risata di cui abbiamo bisogno quando dobbiamo razionalizzare qualcosa che va oltre la nostra comprensione.

Quando ritorna serio, Frank ripete:

“Davvero, Jools, scusami, ma non riesco a crederci”.

“A me lo dici? a me?...”

 

***

 

Porto a casa l’invito col biglietto e me ne sto a rimuginare per l’intera serata.

È stato un gesto molto carino, devo ammettere.

Ma, come sempre, la gentilezza mi mette a disagio. Mi innervosisce. Non so più come comportarmi.

Non ci sono abituata, ecco.

Tranquilla, Julia, dico a me stessa. Non hai ragione di temere. È soltanto gentilezza per amore di gentilezza. Gli piace come scrivi, l’altro pomeriggio sei stata cortese e ha voluto ricambiare. Inutile girarci intorno: quello che mi incute timore è la coda del messaggio.

Se vuole potremo vederci dopo. Mi aspetti.

Suona come un appuntamento.

E anche se non riesco a vederci nessun secondo fine, sono agitata.

Non capisco che cosa vuole da me questo ragazzo.

 

***

 

Il giorno dopo devo passare a casa di mia sorella, e lei subito ne approfitta per invitarmi a pranzo perché faccia una ramanzina a mio nipote.

Uta è arruffata come al solito e mentre mangiamo ne dice di tutti i colori a Michael, sedici anni, che passa tutto il tempo coi suoi amici skaters e non apre libro. Di questo passo rischia la bocciatura e “non ti vergogni, hai intenzione di ripetere l’anno?”

Michael è seduto davanti a me e mangia di malavoglia, ha un’aria scocciata quanto mai. Di botto, gli chiedo:

“E che ne pensi del Bayern quest’anno, Mick?”

Una folgore sembra trapassargli la spina dorsale. Anziché dar man forte a sua madre nei suoi rimproveri, gli chiedo un parere sul calcio! Anzi sulla squadra per cui fa il tifo!

E infatti, subito mia sorella:

“Julia! Anziché dirgliene quattro perché non studia cominci a fargli domande sul calcio?”

“Lo sa già che non studia e rischia di essere bocciato” rispondo io. “Allora, Mick?”

“Quest’anno abbiamo fatto uno squadrone!”

“Ah, ah, davvero? E quali sono le novità? Non ho seguito molto il calcio di recente...”

“Che dici Julia, saranno vent’anni che non segui il calcio” s’intromette Uta.

“E come volevi che seguissi il calcio, se avevo altro da fare? però un minimo di interesse l’ho sempre conservato”.

“Tua zia a quindici anni era una vera esperta” spiega mia sorella al suo figliolo recalcitrante. “Ricordi che sapevi la formazione di tutte le squadre del campionato? E la storia della nazionale per filo e per segno?”

“E quando non dovevo studiare guardavo solo i programmi sul calcio! Anche la sera! E tutte le partite, di campionato e di coppa!”

Michael è sbalordito.

“E facevi il tifo per il Colonia!” sbotta a ridere Uta.

“Come per il Colooonia?” fa Michael schifato.

“Il Colonia, il Colonia” confermo io ridendo.

“Perché ci giocava un certo calciatore!” rilancia Uta. “Che era proprio carino, bisogna dire, e tua zia ha sempre avuto un debole per i bei ragazzi, altro che...”

“Altro che carino, era bravo, non dire cazzate” nella mia voce ripassa un’eco della Julia di vent’anni fa. “È stato un grande, se proprio vuoi saperlo!”

Michael è sempre più confuso. Povero Michael, vent’anni fa non esisteva neanche nei sogni di sua madre e suo padre; per lui stiamo parlando di cose giurassiche, peggio dei Karl Moor e dei Wallenstein che non riesce a mandar giù a scuola.

“Vabbè, bando alle ciance, io volevo sapere del Bayern di questa stagione”.

“E perché?” fa Michael sospettoso.

“Perché esco con uno che sa tutto del Bayern e non posso farmi trovare impreparata” rispondo. Non è neanche – o quasi – una bugia!

“Julia!” mi sgrida mia sorella. Lei è convinta che non bisogna mettere i “bambini” a parte dei nostri fatti privati. Michael invece gongola.

“Allora, devi sapere che hanno investito molto sui nuovi acquisti...”

“Parlami degli stranieri, Mick”.

“Okay. I più forti sono Shunko Sho, Levin...”

“Sho non è quello di origine cinese? E Levin? Ho già sentito questo nome. Di dove è? Suona inglese. Come gioca?”

“No zia, è svedese. Gioca a centrocampo. È un biondino dall’aria delicata, ma sai come si dice... delicato fuori, bastardo dentro! Ha una potenza di tiro eccezionale. Molto bravo nel dribbling!”

E qui piazzo la mia domanda-trappola:

“Non è quel tale che ama la vita mondana e che dicono stia insieme a Viktoria Sonnenfels?”

“Nooo, che dici, proprio lui no. È uno scontroso, non dice mezza parola, non frequenta i posti fighi né tantomeno le tipe fighe...”

“Michael, modera il linguaggio!” gli ingiunge Uta.

“E che avrò detto mai...” Michael alza le spalle sogghignando.

“Lascia, Uta, fa per provocare” dico ridendo a mia sorella. “E tu, ragazzino, non credere di sconvolgerci più di tanto... alla tua età dicevamo di peggio”.

“...”

“Ok, sei sicuro che il calciatore di cui parli non sia lo stesso di cui sto parlando io? Il tale con cui esco dice che è arrogante e presuntuoso e fa strage di cuori”.

“Nooo, non gli credere. Quello è un tipo che si fa i c***i suoi”. Vedo Uta che si porta una mano sugli occhi e mi viene da ridere. “E non è nemmeno arrogante come dice il tuo amico. È gentile, però... freddo, molto freddo”.

“Di dove hai detto che è?”

“Stoccolma, Göteborg, non ricordo bene. Ah... un’altra cosa”.

“Sì?”

Michael trattiene un sorrisetto:

“Prima di venire a Monaco, ha giocato... indovina dove?”

“Boh? Dove?”

“Nella tua vecchia squadra del cuore...”

“No! A Colonia? Dici sul serio?”

“Com’è vero Dio”.

Scoppio a ridere.

“Mi sembra di avere di nuovo quindici anni... che ne dici eh, Uta?”

Uta rovescia gli occhi al soffitto. Se ne ricorda bene, lei, di come ero quando avevo quindici anni!

“Michael, senti” dico, piegandomi verso mio nipote e sussurrandogli all’orecchio come una cospiratrice “dove posso trovare qualcosa sul conto di questo Levin?”

“Se vuoi vedere qualche sua azione memorabile, vai su YouTube” sogghigna lui “basta che digiti il nome ed esce di tutto di più”. E mi fa un sorriso canagliesco, come a dire: “T’ho capito, vecchia gallina!”

 

***

 

Tornata a casa, faccio come m’ha consigliato Mick. Faccio anche di più: cerco notizie sui motori di ricerca.

Leggo una ventina di articoli, guardo almeno una decina di video. Qualcuno ha perfino postato un’intera partita, i quarti di finale del campionato del mondo under 20 di qualche anno fa: mi vedo anche quella, dal primo all’ultimo minuto.

Alla fine abbandono la testa sulla tastiera del pc e piango.

 

***

 

Note al testo. 1) Jools è un diminutivo/vezzeggiativo inglese di Julia. 2) Karl Moor e il generale Wallenstein sono i protagonisti di due grandi testi teatrali di Friedrich Schiller, rispettivamente I masnadieri e la trilogia Wallenstein, che gli studenti tedeschi si devono sorbire alle superiori proprio come noi ci dobbiamo sorbire la Divina Commedia e I promessi sposi. 3) Il Colonia (1FC Köln) attualmente milita nella serie B tedesca, ma nei primi anni ’90 era una delle squadre più forti della Bundesliga. Non a caso, Yoichi Takahashi fa giocare Levin per due anni a Colonia prima del suo trasferimento al Bayern! 4) Viktoria Sonnenfels: ho pensato a una specie di Belén tedesca ed ecco il nome che mi sono inventata...

 

Disclaimer. Stefan Levin, Shunko Sho & C. sono di proprietà del maestro Yoichi Takahashi. Julia, Frank (Williamson) ovvero "lo scozzese", Uta e Michael sono miei.

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Capitolo 5
*** I stared in wonder at the young and the old ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

5. I stared in wonder at the young and the old

 

E ora si dia fiato alle trombe...

 

***

 

I stared in wonder at the young and the old,

for in the maze time had not been with me

Edwin Muir, The Labyrinth

 

È strano come i segreti, in realtà, non siano affatto segreti.

Noi ci sforziamo di proteggere i nostri dalla curiosità e dalla crudeltà altrui, eppure stanno scritti a chiare lettere nel nostro sguardo, nelle modulazioni della nostra voce, nei nostri gesti, perfino nel nostro modo di dormire.

Io quando dormo incrocio le braccia al petto, in modo che la mano destra abbracci la spalla sinistra e la mano sinistra abbracci la spalla destra. Dormo abbracciandomi: e tu? Come dormi tu?

Sono pronta a scommettere che dormi raggomitolato. Non è difficile immaginarselo.

E così il tuo segreto era davanti agli occhi di tutti nel video di una vecchia partita postato su YouTube. Pensa, l’ho scoperto grazie al mio nipotino svogliato, che di solito sono io ad aiutare tutte le volte che deve scrivere un Referat di letteratura, e invece stavolta è stato lui ad aiutare me.

Nessun segreto, perciò, è veramente un segreto.

 

***

 

È una partita serale, un anticipo. Inizierà alle otto e terminerà prima delle dieci. Nonostante sia maggio, fa ancora molto freddo, perciò mi porto dietro anche il cappotto.

Lo stadio acceso di rosso somiglia davvero a un canotto gonfiabile, come dicono affettuosamente i frequentatori abituali. Io non c’ero mai venuta: son passati i tempi di quando andavo alle partite insieme a papà, la domenica pomeriggio. Quasi vent’anni... è una magnifica opera di architettura, senza dubbio, un Colosseo del ventunesimo secolo, e questi splendidi artifici dell’illuminazione danno al contesto un che di veramente irreale.

Mostro il mio invito a uno steward, lui spalanca tanto d’occhi, quindi mi fa scortare al mio posto con una deferenza che rasenta il ridicolo.

Sono curiosa di vedere chi ci sarà. Nonostante segua poco questo mondo, sicuramente riconoscerò qualche faccia – leggo ancora le riviste di gossip quando vado dal parrucchiere.

Mi accomodo al mio posto e mi guardo intorno.

Poco più avanti a me, alla mia sinistra, c’è un gruppetto di ragazze sui trent’anni, molto belline, molto cool. Non ne conosco nessuna.

Intanto sono state accese tutte le luci, continua ad affluire gente, qualcuno soffia negli altoparlanti, i tifosi incominciano a provare cori e slogan, vengono spiegate le prime bandiere, i primi striscioni.

Anche la tribuna VIP si sta riempiendo, vedo entrare alcuni uomini di mezza età. Passa un signore di una sessantina d’anni e il mio cuore salta per aria: è incredibile quanto sia diventato grigio, ora porta anche gli occhiali, ma il lampo del suo sguardo è sempre quello: Kalle Rummenigge. Domani andrò a trovare papà e gli dirò: ho visto Rummenigge di persona! Arriva un altro gruppo di giovani donne. Una di loro mi lancia un’occhiata indefinibile, poi, prima di passare oltre, dà di gomito alla sua vicina, attirandone l’attenzione. Dicono qualcosa. Non sono un volto conosciuto, per loro: saranno curiose di sapere chi sono e perché sono qui.

Poi vedo movimento attorno alle panchine, le squadre stanno uscendo sul campo.

Si schierano.

Vengono presentate le formazioni.

Si procede ai saluti di rito.

Si giocano a sorte il campo e il calcio d’inizio.

Alcuni ritardatari arrivano correndo, sento il rumore dei loro passi dietro di me.

Chiudo gli occhi... mi sento così sperduta quassù, tra questa gente che non conosco, che non è nulla per me. Così pesce-fuor-d’acqua. Avevo ragione a essere agitata... quella ragazza di prima, che aveva da guardare? Voleva fare commenti sul mio aspetto? Sul mio abbigliamento? Troppo poco fighetta per la tribuna delle persone importanti? Inspiro profondamente e ordino a me stessa di fare soltanto bei pensieri, durante questa partita.

Immagina come dev’essere stare sul campo, mentre migliaia di tifosi chiamano a gran voce il tuo nome. Levin è abituato a tutto questo, chissà come deve essergli sembrata buffa la nostra presentazione con trenta persone trenta di pubblico? Voglio chiederglielo. Ma chissà, forse avrà provato disagio come ne sto provando io ora, forse non è questione di pubblico, è solo un fatto di abitudine.

Immagina, Julia... immagina i custodi dello stadio, quelli che di questo posto conoscono ogni buco, ogni scaletta o passaggio segreto, ogni stanzino, ogni condotto dell’aria. Che meraviglia dev’essere per loro quando fanno la ronda di controllo, che emozione.

E immagina come dev’essere stare qui quando squadre, pubblico, tutti sono andati via dopo una partita serale, come dev’essere stare qui e abbracciare con un unico colpo d’occhio tutto il campo ormai vuoto e silenzioso, un secondo prima che vengano spente le luci.

“Julia?... Julia Gutenbrunner?”

La voce mi arriva sparata da destra mentre sto guardando dall’altro lato, manca poco che mi prenda un colpo. Mi giro di scatto.

Un giovane alto, biondo, dai capelli che gli ricadono a ciocche spettinate sulla fronte e sulle tempie, con un bel viso dalle linee pulite e penetranti occhi di un azzurro cupo è a pochi passi da me, e mi guarda come se conoscesse il mio nome ma non la mia faccia e aspettasse una conferma.

Mi occorrono tre secondi per mettere a fuoco la fisionomia, e credo – non posso verificare – che sulla mia faccia sia apparsa un’espressione a metà tra lo sbalordito e il cretino, ma prima ancora di poter articolare suono, il giovane prende posto velocemente accanto a me, dicendo:

“Permette?...”

Quindi mi tende la destra indirizzandomi un sorriso più largo della faccia:

“Molto lieto, Karl-Heinz Schneider”

 

***

 

È lui. Inequivocabilmente.

Non ti puoi sbagliare.

Perché Karl-Heinz Schneider tutti sanno chi è. E tutti lo riconoscono a prima vista.

Come i versi della gita di Pasqua nel Faust.

E le torri rotonde della nostra cattedrale.

Karl-Heinz Schneider, a Monaco, è più o meno dappertutto.

(E non solo a Monaco)

Stringo la mano che mi viene tesa – sorprendentemente stringiamo allo stesso modo, con cordiale energia – e rispondo:

“Julia, ma...”

“Ero preavvisato” mi anticipa lui. “Le istruzioni erano: cerca una ragazza sui trentanni, piccoletta, capelli castani corti... avrà sicuramente unaria spaesata, non è il tipo che frequenta stadi di calcio, perciò vai da lei, presentati e stalle vicino finché non arrivo io”.

“Levin?”

“Sorpresa? Sapesse come sono rimasto sorpreso io. Non aveva mai parlato tanto!”

“Ma lei che fa quassù, non gioca?”

Lui allarga le braccia:

“Un piccolo infortunio”.

“Mi dispiace, spero che non sia una cosa seria”.

Schneider si tocca la spalla sinistra con due dita:

“Scontro di gioco. Vogliono risparmiarmi per la finale di Champions League...”

Sorrido tra me e me. Schneider è del Nord, e nonostante abiti a Monaco ormai da molti anni, non ha perso il suo bell’accento settentrionale.

Nicht allein mich zu ergötzen bin ich hier so hoch gestellt, recito a fior di labbra.

Non ho mai visto quest’uomo se non nelle inquadrature televisive, eppure la sensazione che dà se gli si è fisicamente vicini è esattamente la stessa che si prova guardandolo alla televisione. Sarà per il passo ampio ed elastico da sportivo, il viso sempre alto e diritto, lo sguardo osservatore, inquisitivo, lievemente ironico, la massa di ciocche bionde sparate in tutte le direzioni che somigliano a una criniera, ma viene naturale paragonare questo ragazzo a un leone.

È talmente vicino a me che riesco anche ad avvertire il suo profumo, qualcosa di deciso ma dal fondo amaro.

“È vero che lei scrive?”

Annuisco.

“E come ha fatto una che scrive a conoscere Levin?”

“Non gliel’ha detto?”

“No, ha solo detto che le aveva mandato un biglietto per la partita e...”

“Se è curioso glielo domandi. Potrebbe anche rispondere”.

“Oh, bene, non sono affari miei” alza leggermente le spalle, come un bimbo birichino che dica “tanto non me ne importa” quando in realtà gliene importa moltissimo. E sorride. Ancora. Poi aggiunge: “Però ammetto di essere curioso...”

Stavolta sono le mie labbra a incresparsi impercettibilmente, involontariamente.

“È la prima volta che invita una ragazza e...”

“Non sono una ragazza, signor Schneider”

“Come?...”

“Ho trentacinque anni, signor Schneider, la parola ‘ragazza’ non fa per me”

 

***

 

E così eccola. È lei.

Esattamente rispondente alla descrizione.

Sulla trentina.

Piccola di statura.

Capelli corti.

E aria estremamente spaesata.

Però è venuta. Ha accettato l’invito.

Mi guarda con stupore, deve avermi riconosciuto, ma io non le dò il tempo di parlare e mi presento.

Risponde alla mia stretta di mano senza imbarazzo, con energia.

È chiaramente sorpresa di vedermi qui, non sa spiegarsi come e perché io l’abbia individuata.

E allora glielo dico.

Ancora stupito io stesso.

Ancora col ricordo della folgorazione ricevuta martedì scorso, dopo l’allenamento, quando Levin mi ha fermato e mi ha chiesto:

“Tu sabato non giochi, vero?”

Ho confermato che no, non avrei giocato.

“Però sarai alla partita?”

Sì, sarei stato alla partita.

“Allora posso chiederti un favore?”

“Sentiamo...”

“Ho invitato... una persona. Una mia... ehhhm... amica”. Qui il viso di Levin ha preso fuoco. “Non è un tipo che frequenta gli stadi. Si sentirà spaesata. Potresti tenerle compagnia? Le ho promesso che a fine partita l’avrei raggiunta ma nel frattempo... è brutto trovarsi da soli in un posto poco familiare”.

Ha detto: una mia amica? Non credo alle mie orecchie; non ci credo, ho pensato.

Ha detto: è brutto trovarsi da soli?

Quando mai ha parlato così tanto Levin?

E con tanta accoratezza?

“Ah, e, Schneider... sii educato. Non è dei tipi che circolano nel nostro ambiente. È una che scrive...”

“Hmmm?” ho domandato, e la mia espressione non doveva promettere niente di buono. Mentre nella mia mente si articolava il seguente pensiero “accidenti, Levin, per una volta che ti fai una ragazza, deve essere proprio una che scrive?”, lui, guardandomi con i suoi occhi colore del mare ghiacciato, con molta calma ha aggiunto:

“Non te lo farà pesare, stai tranquillo. È una persona fuori dal comune”.

Ha detto: persona fuori dal comune?

O sono pazzo io o è impazzito lui, ho pensato.

E così eccola. È la prima volta che Levin invita una ragazza, mi lascio sfuggire.

Lei sorride impercettibilmente e mi risponde che non è una ragazza, che è un po’ troppo grande per quest’appellativo. Lo dice gentilmente, ma piena di serietà, guardando davanti a sé con aria assorta.

Siamo già al quinto minuto del primo tempo e non ho dato neanche uno sguardo alla partita.

Credo di capire perché Levin tenga a questa donna. Se quando l’ha incontrata per la prima volta gli ha fatto lo stesso effetto che sta facendo ora a me, credo proprio di capire.

Incroci il suo sguardo ed è come se ti rompessi. Poi ti parla, e i tuoi pezzi esplosi si ricompongono.

 

***

 

Note al testo. 1) I stared in wonder at the young and the old eccetera. Il titolo e l’epigrafe riprendono alcuni versi di The Labyrinth, del poeta scozzese Edwin Muir (1887-1959). Secondo me è una delle cose più belle che siano mai state scritte, se ne avete l’occasione leggetela, è meravigliosa! I versi in questione si riferiscono al fatto che Julia d’improvviso viene catapultata in un mondo che non conosce. 2) Le torri della Frauenkirche di Monaco hanno una caratteristica copertura a bulbo. 3) I versi sulla passeggiata fuori porta di Pasqua tratti dal Faust di JW Goethe sono tra i più famosi della letteratura tedesca; parlano dell'arrivo della primavera e della rinascita della natura a nuova vita. 4) Nicht allein um mich zu ergötzen... per capire questi versi, andare alle note al testo de Il suo cuore come un dizionario :-D

 

Nota (pazzerella) dell’autore. Ho inserito una apparizione fugace di Karl-Heinz Rummenigge perché è appurato e pacifico che il maestro Takahashi si sia ispirato a lui per il personaggio di Karl (tranne per il soprannome di “(giovane) Kaiser”, che copia quello di Franz Beckenbauer). Io ho voluto fare un pochino di filologia schneideriana e sono andata a cercare delle immagini di Rummenigge da giovincello: è impressionante la somiglianza che aveva con il nostro Karlchen! Guardare per credere:

http://www.kicker.de/news/fussball/bundesliga/bl50/574303/artikel_karl-heinz-rummenigge-%28bayern-muenchen%29.html

Disclaimer. Ricordiamo sempre che Karl-Heinz Schneider e Stefan Levin appartengono a Yoichi Takahashi...

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Capitolo 6
*** God kväll ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

6. God kväll

 

Capitolo zuccherosissimo, siete avvertiti/-e!

 

***

 

 

Breathe your honesty
Breathe your innocence to me
Breathe your word and set me free
Breathe to make me breathe


 

Midge Ure, Breathe

 

Emerge dal buio come un grappolo concentrato di luce. Camicia azzurra, jeans scoloriti, e un bel paio di occhiali da vista sul naso. Accidenti, gli donano quegli occhiali, gli danno un’aria aristocratica e intellettuale. Potrebbe essere facilmente scambiato per un collega di Julia.

Deve essere letteralmente scappato dagli spogliatoi, perché ha i capelli ancora umidi, non se li è asciugati bene. “Torna dentro e asciugali, di sera l’aria è fredda”, sta per ordinargli Julia, ancor prima di pensare che lui è un uomo di trent’anni e non suo figlio.

“God kväll” dice Levin.

“God kväll” risponde lei, chinando lievemente la testa a mo’ di risposta. Poi ripete, a beneficio di Schneider: “Buonasera, bene incontrato...”

“Come vedi te l’ho portata sana e salva” s’inserisce Schneider con un ghigno mefistofelico.

“Bravo, grazie!”

“Beh, allora, Julia, il mio incarico è finito” il giovane imperatore posa una mano, leggera ma forte, sulla spalla di Julia, tanto che lei può sentire il calore delle dita di lui attraverso la stoffa “mi ha fatto piacere guardare la partita con lei... e convinca quell’orso del Nord lì a uscire un po’ più spesso”

“Ci proverò” fa Julia.

Lui le prende la destra e gliela stringe, come ha fatto prima.

“E in bocca al lupo per la finale di Champions League...”

“Tanto vinceremo noi senz’altro” risponde Schneider con l’aria di ragazzino terribile che è solito inalberare quando è assolutamente sicuro di quel che dice.

“Non è mica detto” interrompe Levin.

I due si guardano per una frazione di secondo e a Julia sembra di percepire qualcosa di più che uno scambio di battute tra vecchi compagni di squadra.

Schneider lascia la mano di Julia. Immediatamente, ora è Levin a tenderle la sua:

“Andiamo?”

Julia guarda due volte quella mano stesa. Che ci devo fare con la tua mano? pensa. A Schneider dovevo stringerla, lo stavo salutando, ma tu...? Devo prenderla...?

L’idea di un contatto così confidenziale fa quasi arrossire Julia.

“Su, andiamo” ripete Levin con un tono di voce più basso e dolce, ma ugualmente deciso, e mentre lo dice si accosta a Julia, fa scivolare il suo braccio contro quello di lei e s’impadronisce della sua mano. Nel frattempo, si gira a salutare:

“Grazie ancora, Karl”

Schneider sorride e alza leggermente le spalle, come a rispondere: “Non c’è di che”.

“Grazie, signor Schneider...” fa eco Julia. “... è stato un onore”

Schneider si porta due dita della mano sulla fronte, di piatto, esegue una specie di saluto militare.

E ora?

Ora Julia si fa portare via dal berserk gentile, senza pensare a nulla, perché tanto non conosce la strada.

“E dove andiamo di bello?...” chiede, non sa quanto tempo dopo, alzando la testa verso Levin.

“Dovunque. Dove vuoi tu” risponde lui.

 

***

 

Intermezzo:

mani, ovvero dello stringere la mano e dell’essere tenuti per mano

 

Stasera ha stretto per due volte la mano alla stessa persona, presentandosi e congedandosi.

Sostengono gli storici della cultura che la stretta di mano nella sua forma attuale derivi da una forma di saluto che tendeva a mostrare e far sentire all’interlocutore il palmo della mano destra aperta, per dimostrargli che non si brandivano armi e non si portavano anelli con punte avvelenate. Insomma, un gesto di fiducia e di apertura reciproca: non sono tuo nemico, non intendo né assalirti all’arma bianca né ammazzarti a tradimento.

Quindi, riassumendo, stasera lei e Karl-Heinz Schneider si sono dimostrati reciprocamente apertura e fiducia per ben due volte, incontrandosi e salutandosi.

E ora si avvia fuori con Stefan che la tiene per mano.

La sensazione di essere tenuti per mano è ancora più singolare.

Quando e perché veniamo tenuti per mano?

Quando siamo piccoli sono gli adulti a farlo, i nostri genitori, i nostri nonni, gli zii, i cuginetti più grandi – per guidarci, per farci sentire il loro calore, per proteggerci mentre facciamo qualcosa. Quando erano bambine, Uta la prendeva per mano tutte le volte che dovevano attraversare la strada. Sua madre la prendeva per mano quando la faceva uscire d’autorità dalla sua cameretta, dove si era attardata a leggere, per portarla in cucina a cenare. Papà la teneva per mano durante le gite, mentre s’arrampicavano su un crinale o attraversavano un ruscello.

Quando siamo adulti chi è che ci tiene per mano? Normalmente il nostro partner, e normalmente lo fa soprattutto in pubblico, come a segnalare a tutti gli altri il suo possesso “questa persona è già occupata e chi la occupa sono io”. Una persona come una fortezza. Del resto, quando parliamo di amore, non sembra che parliamo piuttosto di guerra o di schiavitù? Non diciamo forse “conquistare una persona”? Non ci istruiscono fin dall'infanzia a sviluppare "strategie" più o meno subdole per "far capitolare" chi amiamo?

Territori da occupare e fortezze da conquistare, o perlomeno per gli altri è così.

I suoi uomini non l’hanno quasi mai tenuta per mano, per lo più si sono sempre limitati a starle accanto, a portata di sguardo. E Julia, che non ha mai saputo distinguere tra comportamenti convenzionali e gesti sentiti, non ha mai capito se non le abbiano mai preso la mano perché erano tipi non convenzionali o perché non hanno mai tenuto a lei.

Per questo ora l’idea della sua mano stretta in quella decisa di Stefan Levin è veramente motivo di meraviglia.

 

***

 

“Allora, giovane dio della distruzione...”

Lui non replica, ma un sorrisetto compiaciuto gli deforma la bocca.

“... altrimenti noto come cavaliere del sole di mezzanotte...”

“...”

“... o, per non tralasciare l’ultima invenzione dei tifosi bavaresi, berserk gentile...” continua Julia “... che tra l’altro è anche un magnifico ossimoro: come vedi ho fatto i compiti”

“...”

“... controfigura del mio Lennart... o il contrario”

“...”

“... insomma, signor Stefan Levin da Stoccolma”.

“Sì”.

Julia gli tende la mano:

“È bene se ci presentiamo ancora una volta... Io sono Julia, detta Bücherwurm per ovvie ragioni”.

Levin ora sorride apertamente e stringe con convinzione la mano che gli viene data.

“Piacere di conoscerti, piccolo Bücherwurm. Hai un soprannome molto simpatico”.

Julia esita un momento, poi riprende:

“Senti... se sono venuta alla partita, non è solo perché ero curiosa... e, a proposito, grazie per avermi fatto trovare un comitato d’accoglienza veramente eccezionale... il grande Karl-Heinz Schneider in carne e ossa, quando lo racconterò a mio nipote lui scuoterà la testa pensando che ho una malattia degenerativa delle cellule cerebrali”.

Levin aspetta il seguito.

“Tra l’altro è un ragazzo molto simpatico... e credo volesse essere all’altezza del compito che gli avevi affidato. Comunque, volevo dirti... Ho fatto veramente il tuo ritratto, l’unica differenza è che Lennart non gioca a calcio e poi la somiglianza è totale. Perciò, se ti ha turbato leggere la storia, se pensi che abbia violato la tua sfera privata... posso anche toglierla dalla circolazione”.

“Sei venuta per dirmi questo?”

“Bene... anche”.

“E poi perché?” insiste Levin.

“Non lo so... per capire, immagino”.

“Capire cosa?”

“Capire cosa può averti spinto a cercare un tipo come me”.

“... trovato una risposta?”

“Non lo so. Ci sei rimasto male perché non ti ho riconosciuto subito?”

“Chi, io?”

“Beh, mi è venuto in mente mentre ero lassù con Schneider e pensavo, cavolo, questo qui è Karl-Heinz Schneider! E il mio amico bibliofilo è nientedimeno che Stefan Levin... gente famosa...”

“Ah ah, il tuo amico bibliofilo...”

“... e non è che qualche paparazzo ci ha fotografato?”

“... è possibile”.

“Come, è possibile?”

“... è possibile, in effetti”.

“Non dirmi così”. Sulla faccia di Julia si dipinge un’espressione afflitta e desolata.

“Tranquilla, se ci provano a pubblicare una tua foto li facciamo neri” sogghigna Stefan.

“Come neri?”

“Violazione della privacy. L’avvocato di Schneider deve combattere con queste cose un giorno sì e l’altro pure. Il mio un po’ meno, però anche lui sa cosa fare, nel caso”.

“Oh Signore”.

“Vedi, stiamo parlando da cinque minuti e già la violazione della privacy è venuta fuori due volte”. Stefan ritorna serio. “Pensavi volessi farti causa per il tuo racconto?”

“Non saprei” risponde lei alzando le spalle “ma penso che se avessi voluto farmi causa non ti saresti preso la noia di venire a conoscermi... Non credere, anche a me ha fatto impressione, è una coincidenza inquietante. Perciò, se la cosa ti disturba...”

“Non mi disturba”.

Levin ha parlato scandendo per bene le parole.

“No, non mi disturba per niente”.

“Hm...”

“Io sono felice che tu abbia scritto quel racconto!”

 

***

 

Nessun segreto è veramente un segreto, ecco.

Basta avere gli occhi, basta cercare.

Mentre cercava notizie sul web, Julia è incappata nell’edizione online di un famoso settimanale di opinione. E lì ha trovato un ampio reportage della redazione sportiva, in cui si mettevano a confronto diversi sportivi, con le loro personalità e i loro stili di vita. Inaspettatamente, Levin era tra gli intervistati. E il titolo del servizio, accanto a una bella foto a figura intera, era

 

Meister mit Understatement.

Ein Tag aus Stefan Levins Leben

 

L’articolo parlava della storia sportiva di Levin, dei suoi interessi, della sua vita quotidiana. La parte più divertente era stata quella in cui erano stati intervistati alcuni suoi fan, un ragazzino di dodici anni, uno studente di ingegneria di ventidue, una parrucchiera di cinquanta e un pensionato di settanta. Alla domanda “perché amate Stefan Levin?” avevano risposto: “Perché è uno dei più forti, ma non gli importa di fare la star” (incredibilmente, il ragazzino); “Perché è deciso, determinato, coraggioso, lotta per i suoi obiettivi, non ha paura di sbagliare, e se sbaglia non ha paura di chiedere scusa” (lo studente); “E me lo chiedete? Perché non è il solito pallonaro fanatico che pensa solo alle discoteche e alle donne! Poi è gentile e parla bene il tedesco, non come certi sbruffoni che dicono che la nostra lingua è difficile e anche se si beccano bei soldi dalle loro società e stanno qui da anni non si prendono il disturbo di imparare neanche una parola per scambiare un saluto coi tifosi” (la parrucchiera); “Perché mio nipote gioca a calcio e mentre gli altri ragazzini dicono che vogliono diventare professionisti per i soldi e la fama, lui dice che vuol essere come Levin” (il nonno). Il nonno a questo punto si era meritato una domanda supplementare: “Ma i bambini sono più attratti dalle superstar, secondo lei perché il suo nipotino è attirato da un ragazzo riservato come Levin?” Risposta piccata del nonno: “Evidentemente perché mio nipote sa già distinguere tra apparenza e sostanza!”

Il servizio era accompagnato da alcune foto. Una ritraeva Levin a quindici anni con la maglia del suo vecchio club; una mostrava l’ormai leggendaria azione con cui, qualche anno prima, arrivato da pochi mesi a Colonia, aveva portato la sua squadra a una stupefacente vittoria fuori casa contro l’HSV, fracassando la mano al portiere avversario; infine, nell’ultima compariva in borghese, ovvero con la solita felpa e i soliti jeans, insieme agli studenti di una scuola dove era stato invitato a confrontarsi coi ragazzi sui temi del sacrificio, del lavoro di squadra e della motivazione.

Julia non ricorda se è lì, tra le righe di quell’articolo, o altrove, che ha letto una manciata di parole che raccontavano, sinteticamente, che Levin, a diciotto anni, ha perso la sua fidanzata per un incidente d’auto.

La fidanzata dei diciotto anni, figurati: il primo amore.

Forse sarà per questo che i suoi occhi ogni tanto sembrano perdere di vista il mondo e diventano così vitrei?

A diciotto anni si è troppo piccoli per un dolore del genere. Forse si rimane sempre troppo piccoli per il dolore che si prova a perdere qualcuno, ma quando sei più grande hai tante cose che ti distraggono, non ultimo il fatto che devi sopravvivere, guadagnarti il pane, badare ai tuoi figli, non lasciar scappare il tuo partner, cercare di non morire tu stesso. Hai tante distrazioni che ti dimentichi di soffrire. Ma quando si è così giovani...

Una ex compagna di scuola di Julia, Sarah – che tra l’altro non le è mai stata troppo simpatica – ha perso anche lei il suo ragazzo per colpa di un incidente durante l’ultimo anno di liceo. Le ci sono voluti quasi dieci anni per riprendersi dallo shock, ricominciare a vedere gli amici, decidere di frequentare un altro uomo.

Mentre guarda dentro al suo bicchiere, che tiene con entrambe le mani, Levin chiede a Julia:

“Sai di Katarina, vero?”

Julia annuisce.

Si guardano negli occhi per un lunghissimo secondo. Poi Levin s'informa:

“E... ti è piaciuto guardare la partita dalla tribuna?”

“Se non ci fosse stato Schneider, sarebbe stata una tortura” confessa Julia “odio i posti dove stanno i politici, le ragazze di lusso e i dirigenti. La prossima volta me ne vado tra i tifosi”.

“Karl si è comportato bene?”

“Oh, certo, è stato gentile, mi ha spiegato un sacco di cose. Magari avrebbe dovuto fare un po’ più attenzione alla partita, invece ha perso tempo a chiacchierare con me”.

“Non ti ha dato fastidio?”

“Schneider? In che senso?”

“Nel senso di provarci con te, piccolo Bücherwurm” spiega Stefan con un tono di voce incredibilmente carezzevole.

“Con me?” chiede Julia stupita.

Figurati, la prima cosa che gli ho detto di me è che sono vecchia, riflette. E il resto lo ha visto coi suoi occhi.

 

***

 

Sono usciti dal pub e ora passeggiano tranquillamente, affiancati, senza parlare. È incredibile come non abbiano bisogno di buttarsi fiumi di parole addosso, per capirsi. Fatto sta che parlano solo a tratti, e solo per dirsi delle banalità, come “fa ancora fresco, eh, la sera”, “eh sì, non è ancora estate” oppure “che ore sono?”, “l’una e un quarto”.

E tra una chiacchiera e l’altra, e tra i molti silenzi, si fanno le sei del mattino.

Finiscono anche per vedere l’alba. È di buon auspicio, pensa Julia, guardando di sottecchi questo enigmatico giovane con cui ha trascorso la serata e l’intera notte, e con cui ha parlato molto più di quanto non abbia davvero fatto.

“Spero di non averti tenuto in piedi quando avresti potuto riposare” dice.

“Non dovevo riposare, e tu?”

“Oggi è domenica...”

Si guardano con aria complice e ridono silenziosamente.

“E dunque che cosa posso fare per te, Stefan Levin da Stoccolma?” prosegue Julia.

Lui respira profondamente.

Vediamo, che potresti fare? Starmi vicino, per esempio? Abbracciarmi, qui e ora? Oppure, volendo andare sul complicato: concedermi lonore di essere tuo amico?

E così, come sempre accade quando prova forti emozioni, Stefan non riesce più ad articolare neanche una parola in tedesco, figuriamoci poi in inglese: attacca a parlare nella sua lingua e parla ininterrottamente per un paio di minuti, acceso, con Julia che gli guarda dentro agli occhi come se guardasse nell’acqua di un pozzo per scoprire dove è il fondo.

Quando Levin s’interrompe, lei fa cenno ripetutamente di sì con la testa e alla fine esclama:

“Ho capito!”

“Hai capito?!?”

“Ho capito che quando sei emozionato riesci a parlare solo svedese... poi ho capito anche qualche parola”.

“Ah sì?”

“Veramente, a essere onesti, ho capito solo una parola... hai ripetuto spesso vän...”

Senza sapere da dove gli è venuta quell’ispirazione, Stefan afferra la mano della giovane donna con entrambe le sue e la bacia con trasporto.

Oh cavolo.

“Come devo interpretare questo, Stefan Levin?” domanda Julia.

Lui risponde, sinceramente:

“Non riesco a dirlo a parole”.

“Beh, spiegamelo in altro modo, se puoi...”

“Sì, forse posso” e mentre dice così l’abbraccia, prima blandamente, con dolcezza, poi stringendo fino al punto che Julia non ha più spazio di manovra e deve per forza appoggiarsi contro di lui. Riesce a sentire il suo respiro, riesce a sentire i battiti del suo cuore. Ognuno come un grosso peso che cade, ognuno un tonfo acquatico e convulso, come il battito del cuore di Robert. Oh mamma mia, sa di sapone di Marsiglia... le braccia di Levin, il suo collo, profumano di sapone di Marsiglia! È lo stesso sapone che usa sua madre, il profumo delle braccia di sua madre, un ricordo che precede anche i suoi ricordi più antichi.

“Questo nella mia lingua significa ‘Ti voglio bene’, e nella tua?”

“Anche nella mia” risponde a bassa voce lui soffocando un sorriso.

È a questo punto che Julia ricambia la stretta, con una forza inaspettata in una donna così piccina.

“E questo? Vuol dire ‘anche io’?” rilancia il giovane.

“La mia lingua è la tua lingua, Stefan Levin”.

È questo che ha capito, da subito... ed è questo che ha cercato di far capire a me fin dalla volta della presentazione?

Parliamo la stessa lingua, io e lui.

 

***

 

E se l'amore che avevo non sa più il mio nome

se l'amore che avevo non sa più il mio nome

come i treni a vapore, come i treni a vapore

di stazione in stazione e di porta in porta

e di pioggia in pioggia e di dolore in dolore

il dolore passerà

 

***

 

Note al testo. 1) God kväll è buona sera in svedese. Levin ha una caratteristica: quando è emozionato non riesce a parlare se non nella sua lingua... 2) L’epigrafe riprende alcuni versi della canzone Breathe di Midge Ure, alias il cantante scozzese James Ure, pubblicata nel 1996. Il respiro è il primo e più importante segno di vita: quando si smette di respirare si è definitivamente morti. 3) “Berserk gentile” è un ossimoro perché il berserk, nel Medioevo scandinavo, era un guerriero caratteristicamente violento e feroce; un berserk, dunque, non può essere gentile per definizione. Stefan, però, nel cuore dei tifosi lo è... amore <3. 4) Meister mit Understatement. Ein Tag aus Stefan Levins Leben: campione con understatement. Un giorno della vita di SL, in tedesco. 5) vän significa amico in svedese. 6) I versi conclusivi vengono diritti diritti dalla meravigliosa "I treni a vapore" di Ivano Fossati, che Levin non conosce, ma che Julia conosce senz'altro.

 

Disclaimer. Karl-Heinz Schneider e Stefan Levin appartengono al maestro Yoichi Takahashi. Julia Gutenbrunner detta il Bücherwurm appartiene a me.

 

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Capitolo 7
*** Questi siamo noi ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

7. Questi siamo noi

 

E al termine di una settimana lavorativa d’inferno, la Aelfgifu Productions vi dà il benvenuto al settimo e penultimo capitolo di Ritratto estivo di ragazzo svedese. Pronti, partenza... via!

 

***

 

[…] But taking thought,

I’d tell to myself, ʻYou need not hurry. This

is the firm good earth. All roads lie free before you’.

But my bad spirit would sneer, ʻNo, do not hurry.

No need to hurry. Haste and delay are equal

in this one world, for there’s no exit, none,

no place to come to, and you’ll end where you are,

deep in the centre of the endless maze’ […]

Edwin Muir, The Labyrinth

 

IL BAYERN MONACO SI AGGIUDICA LA CHAMPIONS LEAGUE

La squadra tedesca sconfigge il Barcellona 3-2

 

dal nostro corrispondente B.I.

 

La finale della corrente edizione di Champions League, giocata ieri sera presso l’Estadio da Luz di Lisbona, ha visto contendersi il titolo due tra le squadre più blasonate del mondo. Il Bayern arrivava dalla semifinale col Manchester Utd, col risultato di 3-1 all’andata e 2-2 al ritorno, mentre la squadra catalana proveniva da una qualificazione molto sofferta col Milan. Pronostico ancipite, date le prestazioni notevoli di entrambe le squadre durante tutta la stagione; il fattore emozione dava forse lievemente avvantaggiato il Barcellona, a causa della presenza di una tifoseria più numerosa.

Tutti gli uomini-chiave di entrambe le compagini erano presenti all’appello, non c’è stata nessuna defezione importante per motivi di salute o disciplinari. Van Saal e Frank Schneider hanno schierato le solite formazioni ormai consolidate dalla pratica e dai successi ottenuti.

Ha aperto le marcature il Barcellona, con un gol su punizione di Tsubasa Ozora al 24’ minuto; i tedeschi hanno recuperato quasi immediatamente con Karl-Heinz Schneider e uno dei suoi classici Fire shot da fuori area. Sull’1-1 la partita si è fatta più concentrata e cattiva, con il Barcellona che ha adottato una tattica difensiva fino alla fine del primo tempo e numerosi falli da entrambe le parti (da segnalare quello di Gonzales su Sho e quello del nigeriano del Bayern, Minba, su Alberto, costretto a bordocampo per dieci minuti). Poco prima dello scadere del primo tempo, raddoppio del Barcellona col solito Ozora. Il Bayern ha sofferto e lottato per gran parte della ripresa, a causa della definitiva chiusura in difesa degli avversari, nonostante le giocate in avanti sempre magnifiche e generose di Ozora, nei confronti del quale la difesa bavarese si è comportata egregiamente, con un paio di salvataggi magistrali del portiere monacese Drener. Nell’ultimo quarto d’ora, il Bayern viene fuori in maniera spettacolare mostrando gioco e orgoglio e concretizzando al 73' (Sho, su ribattuta) e uno splendido gol di testa del solito Schneider su corner alto da manuale battuto da Stefan Levin all’85'. Nell’ultima azione Schneider è ricaduto a terra sulla mano sinistra e il suo marcatore Almieja gli è rovinato addosso, provocandogli la frattura del polso. Vittoria meritatissima dei tedeschi che ci hanno creduto fino in fondo e si sono imposti anche grazie all’irriducibile ostinazione di Schneider, capace di trascinarsi dietro tutto il reparto d’attacco del Bayern; qualche rimpianto per i blaugrana che non sono riusciti a mantenere il vantaggio iniziale, nonostante la performance impeccabile di Ozora e una difesa che ha meritato i più entusiastici applausi per almeno metà della partita.

Al goleador del Bayern vanno le nostre congratulazioni e i nostri sinceri auguri di una pronta guarigione.

A pag. 3 il riepilogo dei dati tecnici e la pagella delle squadre. A pag. 4 le interviste.

 

***

 

I passeggeri del volo LHS-44557 diretto a Monaco di Baviera delle ore 10.55 sono pregati di recarsi al gate 15 per limbarco – I passeggeri del volo LHS-44557 diretto a Monaco di Baviera delle ore 10.55 sono pregati di recarsi al gate 15 per limbarco...

 

Un folto gruppo di uomini muove compatto verso il gate, saranno una cinquantina di persone, alcuni portano la tuta di rappresentanza, altri sono in giacca e cravatta. Gruppi di tifosi si avvicinano, chiedono autografi, foto, si cerca di accontentarli meglio che si può, ma ovviamente non si può bloccare l’aeroporto né tantomeno si può far ritardare un volo di linea, quindi all’orario dell’imbarco sono tutti puntualmente al gate.

Karl è dietro a tutti, con l’avambraccio ingessato, l’espressione esausta, gli occhi profondamente cerchiati e i lineamenti tirati di chi nelle ultime dodici ore ha preso varie dosi di antidolorifici. Non indossa cravatta, porta la giacca ripiegata sul braccio destro, e viene avanti parlando animatamente col presidente e con suo padre.

Quando salgono sull’aereo vengono accolti dall’applauso dell’equipaggio schierato, perfino il comandante è in piedi in cima alla scaletta e saluta tutto lo staff con grandi strette di mano. Ovviamente il personale di bordo si fa in quattro per il campione ferito: “Signor Schneider, ha bisogno di un cuscino?”, “Glielo appoggio dietro la schiena?”, “Ne vuole un altro per il braccio?”, “Ha bisogno di qualcosa di speciale?” fanno a gara hostess e steward, mangiandosi con gli occhi, chi più chi meno, quel bellissimo giovane uomo dall’aspetto provato e la mano chiusa nel gesso.

Con gli auguri del comandante Bergmann viene stappato perfino lo spumante, che ovviamente il personale di volo non può bere, ma i ragazzi se ne servono più che volentieri. E mentre una delle assistenti, una biondina dal viso anonimo e dal fisico niente male, si avvicina a Schneider porgendogli il bicchiere, col musino atteggiato a un’espressione a metà strada tra compassionevole e arrapata, Sho non resiste e deve dirne una delle sue:

“Non lo guardi come se stesse per morire, sorella, lui è il più fortunato di tutti! Eroe della partita e si farà un mese di vacanze supplementari!...”

“Cretino” commenta Karl digrignando i denti per celare una risata.

La hostess guarda storto il cinesone del Bayern, che a sua volta le strizza l’occhio.

Se non ci fosse Sho, bisognerebbe inventarlo.

Alla fine il volo riesce a partire relativamente in orario, con arrivo all’aeroporto Franz Josef Strauss previsto qualche minuto prima delle quattordici.

Nel giro di dieci minuti, il chiasso viene meno. Mentre l’aereo sorvola la penisola iberica, ognuno comincia a dedicarsi ai fatti suoi. Chi si mette ad ascoltare musica, chi commenta a bassa voce col vicino di posto i giornali sportivi di stamattina, chi si addormenta come un sasso perché stanotte, tra interviste, festeggiamenti, varie ed eventuali, il massimo che si sono potuti concedere sono state due o tre ore di sonno.

Volare è così noioso, pensa Stefan con il viso appoggiato sul palmo della mano, mentre guarda dall’oblò il solito paesaggio – nuvole, nuvole, nuvole, azzurro, azzurro, azzurro, e la terra solo una macchia marrone-verdastra indistinta sotto di loro. Fosse per lui, avrebbe preso un treno o un bus, a costo di arrivare a Monaco in due giorni.

Schneider gli è seduto accanto, nel sedile centrale; hanno lasciato vuoto il posto di corridoio appositamente per lui, semmai avesse bisogno di più spazio per stendersi o per mettere più comodo il braccio leso.

Non hanno parlato da ieri sera, da quando Schneider è comparso ai festeggiamenti con il viso esangue e stanco, sorridendo debolmente agli “hurrà” dei compagni e scusandosi per non poter essere della brigata.

“Tutto bene?” gli ha chiesto Levin col suo solito fare sintetico.

“La prognosi è di quaranta giorni” ha risposto Schneider, col suo solito fare concreto.

“Beh, ora vai e cerca di dormire” ha detto Levin.

“Sì, ora vado e cercherò di dormire”.

E siccome sembra loro che si siano già detti tutto il necessario ieri sera, oggi non si dicono nulla. Karl si sistema in modo che il suo braccio sinistro stia nella posizione migliore possibile, Levin tira fuori un libro e si mette a leggere, fino a che la stanchezza non prende possesso anche di lui che reclina la testa contro lo schienale, assopendosi. Il libretto gli rimane aperto tra le mani, ma al primo scossone dovuto a turbolenza ruzzola a terra.

Karl, fulmineo, si piega a raccoglierlo.

 

***

 

Questo, dunque, è quello che scrive l’amica di Levin, questo è quello che scrive lei... Julia.

Sfoglia il volumetto, tenendolo fermo con la mano ingessata e voltando le pagine con la destra.

Sulla prima pagina è scritta una dedica a mano, in una grafia tondeggiante che può appartenere solo a una donna:

 

Al “vero” ragazzo svedese

Prendi laccetta e spacca il ghiaccio – buona fortuna!

J.G.

 

È una bella dedica, riflette Karl, si addice a quella specie di orso del Circolo Polare Artico che, nonostante il suo aspetto angelico (guardalo lì, addormentato com’è somiglia davvero a un angioletto), dentro è peggio di un blocco di marmo, difficile anche solo scalfirlo. Chissà se ci è riuscita lei? Quando è venuta alla partita, Stefan l’ha presa per mano, cosa che non gli ha mai visto fare con nessuno... o meglio nessuna.

Senza volere, Karl incomincia a leggere. Lo stile non è noioso, e le storie... le storie sono strane. Il racconto più lungo parla di uno studente svedese, un tipo dalla vita interiore complicatissima. A margine è scritto qualcosa a matita, non è la stessa grafia della dedica; si direbbero appunti in svedese, sicuramente di mano di Levin. Accanto alle frasi sottolineate, Karl trova: Fångar. L. är ensam. Att minnas. Infine, più volte, e scritto con maggiore pressione della matita: Det är jag, det är jag.

“Chissà che vuol dire...”

“Che vuol dire cosa?...” sente chiedere accanto a lui.

Levin tiene ancora gli occhi chiusi e ha la voce impastata di sonno, ma evidentemente è ben sveglio, tanto da averlo sentito parlare a sé stesso.

Karl chiude immediatamente il libretto e lo tende al compagno:

“Ti è caduto questo...”

“Questo cosa?” Levin spalanca improvvisamente gli occhi.

“Questo” Schneider gli tende il volumetto.

“Ah... grazie” mormora lo svedese confuso, afferrando il libretto e sistemandoselo accanto. Poi riappoggia la testa sullo schienale e chiude gli occhi.

Karl esita. Per due volte apre la bocca e non riesce a parlare. Poi si decide:

“Comunque... scrive bene la tua ragazza...”

“Hmmm” risponde Levin dal mondo dei sogni. “Julia non è la mia ragazza”

Silenzio.

Come non è la tua ragazza? E allora perché tutte quelle manfrine, il posto prenotato per la partita, il fatto che mi hai mandato a farle da scorta perché ti dispiaceva che fosse sola in un ambiente sconosciuto, il fatto che dopo lhai presa per mano, cribbio Levin, lhai presa per mano!, il fatto che ti porti dietro i suoi racconti perfino nella trasferta per la finale di Champions... come sarebbe a dire che non è la tua ragazza?

“Stavolta sei cascato davvero male, Karl” conclude Levin raggomitolandosi sul sedile e prendendo definitivamente sonno.

 

***

 

Nella cucinetta illuminata dalla plafoniera al neon, due persone sono sedute a tavola e consumano la loro cena: la giovane donna dai capelli corti e il bambino dagli occhi chiari e curiosi che scucchiaia di malavoglia nella minestra di verdure.

“Robert, non fare a quel modo” dice la giovane donna.

Il bambino alza la testa dal suo piatto:

“Ma a me la minestra di verdure non mi va!...” protesta.

“Se facciamo a metà riesci a finire la tua parte?”

“...” il ragazzino mette su un’aria perplessa. Sua madre dentro di sé sorride, pensa che il suo piccolo è veramente irresistibile quando inalbera quell’espressione tra sfiduciata e scettica tutte le volte che lei non gliela dà vinta.

“Coraggio” Julia prende il piatto di suo figlio e trasferisce parte della minestra nel suo “ora testa sotto, cucchiaio alla mano e finiamo le verdure”.

“Va bene” risponde Robert abbassando il musetto. Afferra saldamente il cucchiaio a metà dell’impugnatura e lentamente, un po’ alla volta, finisce la minestra.

Terminata la cena, mentre lava i piatti, Julia permette a Robert di accendere la televisione; sono le otto e il telegiornale sta iniziando, dopo verranno trasmessi i cartoni animati.

“Sport” dice il conduttore “storica vittoria del Bayern Monaco nella Champions League. Ieri sera, a Lisbona, la squadra bavarese ha sconfitto il Barcellona per 3-2 dopo uno scontro combattutissimo fino all’ultimo secondo. Grande prova di Karl-Heinz Schneider: l’attaccante si è fratturato il polso nell’azione che ha portato al gol della vittoria... sentiamo ora le interviste in diretta di Jochen Stumm...”

Julia sente una voce nota irrompere nella sua cucina dallo schermo, una voce maschile giovane e vibrante:

“Grazie, sto bene... la prognosi è di quaranta giorni. Fortunatamente sono riuscito a finire la partita; mi dispiace soltanto di non poter giocare nella finale di Coppa di Germania...”

Julia si gira verso il televisore, le mani ancora gocciolanti d’acqua, giusto in tempo per vedere in primo piano sullo schermo uno Schneider dall’aspetto esausto che parla ai microfoni dei giornalisti.

Mamma mia come è pallido.

I giornalisti continuano a porre domande, a fare complimenti a cui il giovane risponde con serietà e cortesia.

Nicht allein mich zu ergötzen...

Julia agita una mano davanti alla faccia come per scacciare una mosca molesta.

Beh, non sono affari miei. Il guerriero acciaccato reduce dalla battaglia avrà un sacco di gente pronta a consolarlo, oltre allo staff medico che si prenderà cura di lui: perciò non ha bisogno che io mi preoccupi perché è pallido.

Intanto al telegiornale passano le riprese dell’arrivo della squadra all’aeroporto di Monaco, questo pomeriggio, con relativo assalto dei tifosi e della stampa. Uno zoom inquadra Levin, il quale, afferma la cronista prima di andargli incontro per fargli delle domande, “nonostante il marasma qui all’aeroporto, mantiene sempre il suo elegante aplomb!”

Julia fissa il televisore stupefatta, è mai possibile che quel ragazzo dall’aspetto così aristocratico e imperturbabile, che risponde ai giornalisti senza sprecare troppe parole, sia la stessa persona che ha voluto con tanta determinazione conoscerla per amore di un racconto?

Ed è possibile che laltro, il ragazzo dal portamento leonino e dalla faccia stanca che hanno intervistato prima, sia la stessa persona con cui ha guardato una partita quindici giorni fa, ridendo e scherzando?

Dal cellulare posato sul ripiano della credenza arriva il segnale dei messaggi ricevuti. Julia si asciuga le mani e fa per prendere il telefono.

“Mamma, comincia!” strilla Robert dal divano.

“Arrivo” risponde Julia. Mentre si accomoda sul divano, stringendosi istintivamente suo figlio contro il fianco, lancia un’occhiata al cellulare.

Risponderò più tardi, pensa. Poi sposta lo sguardo sul profilo simpatico e arguto del suo bambino, e di lì allo schermo del televisore, su cui incominciano a comparire cantando e ballando i protagonisti della storia animata preferita di Robby.

 

***

 

Note dell’autore. Da brava schneideriana, quando si incontrano Karl e Tsubasa devo far vincere Karl, ma espressioni come “le giocate in avanti sempre magnifiche e generose di Ozora” rendono onore al giapponese, segno che non sono poi tanto anti-tsubasiana come si potrebbe immaginare! Il “gol di Sho, su ribattuta” è un omaggio al mitico handou shu soku jin hou di Shunko, personaggio che adoro. Il secondo gol di Schneider su “corner da manuale” di Levin è invece decisamente una citazione da Road to 2002, anime & manga! Avete visto, ho fatto rompere il polso a Karlchen, in modo che nessuno dica che nelle mie fanfiction è un raccomandato... e il personale di volo che se lo magna con gli occhi perché bello è bello, e poi così ingessato fa pure tenerezza?... giù le mani da Karl, viziosi!

Levin intanto fa il sornione... diavolo di un Levin.

 

Nota al testo. 1) Ho scoperto che la finale di Champions League 2013-2014 si terrà presso l’Estadio da Luz di Lisbona e il nome di questa struttura (“Stadio della luce”) mi è piaciuto talmente tanto che ci ho voluto ambientare anche la finale di Champions League della mia storia... e non poteva essere che Barcellona-Bayern! 2) LHS è il codice della Lufthansa, la compagnia di bandiera tedesca (ecco perché il comandante stringe la mano a tutti e offre lo spumante...) 3) Fångar. L. är ensam. Att minnas. Det är jag: Prigioniero. L. è solo. Ricordare. Questo sono io, in svedese. 4) “Stavolta sei cascato davvero male...” Qui il diabolico Stefan dice una frase a doppio senso, che ovviamente Karlchen capisce benissimo *sogghigna mefistofelicamente*.

 

Disclaimer. Tutti i personaggi qui rappresentati appartengono al maestro Yoichi Takahashi, eccetto Julia, Robert e il “ragazzo svedese” del racconto, che sono miei.

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Capitolo 8
*** Solstizio d'estate. Epilogo ***


Ritratto estivo di ragazzo svedese

 

8. Solstizio destate. Epilogo

 

All shall be well, and all shall be well, and all manner of things shall be well

Beata Giuliana di Norwich

 

“Signore e signori, ben trovati. Ecco il bollettino di oggi ventuno giugno per l’Alta Baviera e Monaco, a cura del servizio meteorologico dell’aeronautica. Cielo sereno, temperatura massima tra il 30° e i 28°, minima 20°-18°, vento alla velocità di 6 km/h. Nubi in avvicinamento nella tarda serata. Tra lunedì e martedì una corrente di aria calda provocata dall’anticiclone delle Azzorre provocherà un ulteriore aumento dei valori termici”.

 

Here comes the sun
Here comes the sun, and I say
It
s all right

 

È arrivata l’estate. Stamattina, dopo la solita corsa mattutina, si è fermato dal solito giornalaio, poi è entrato a bere una spremuta d’arancia nel suo solito bar. Il proprietario teneva accesa la radio su un canale musicale. Mentre lui sorseggiava pian piano la bevanda nel locale pressoché deserto, il conduttore del programma, una voce maschia, giovane e allegra, esclamava nel microfono:

“Sono le sette e quarantanove di mercoledì ventuno giugno, oggi è il solstizio d’estate, il giorno più lungo, il giorno del sole che non tramonta! Le previsioni del tempo annunciano una giornata serena con temperature oltre i ventisei gradi e poco vento. E allora, cari ascoltatori, festeggiamo l’estate con uno storico pezzo dei Beatles!”

Lui ha dovuto ridere sotto i baffi mentre le note della canzone si spandevano nell’aria.

 

Little darling, its been a long cold lonely winter
Little darling, it feels like years since it
s been here
Here comes the sun
Here comes the sun, and I say
It
s all right

 

“Ha sentito, signor Levin? È arrivata l’estate... e si capisce... fa caldo!...”

“... è vero...”

“Fino a qualche anno fa non faceva mica così caldo nel mese di giugno!”

“Eh...”

“Anche dalle sue parti fa così caldo d’estate?”

“Dalle mie parti? No no, dalle mie parti fa piuttosto freddo che altro... anche a luglio e agosto non andiamo quasi mai oltre i venti-venticinque gradi.”

“Però!... dicono che oggi sarà una bellissima giornata, cielo sereno, quasi niente vento... se si potesse, sarebbe una giornata da andare al mare! O al lago! O da buttarsi sotto un albero in giardino, a non far niente!”

“... ha ragione... be’, arrivederci, schönen Tag

“A lei! Molti impegni oggi?”

“A dire la verità no...”

“E allora si goda il bel tempo! Beato lei che è giovane!...”

“Grazie del consiglio, signor Schmidt, ci penserò...”

 

Little darling, the smiles returning to the faces
Little darling, it seems like years since it
s been here
Here comes the sun

Here comes the sun, and I say
It
s all right

 

Herr Schmidt rivolge un’occhiata che potremmo quasi definire affettuosa a quel ragazzo che conosce ormai da anni, e che sarà pure un campione famoso, ma per prima cosa è tanto ammodo ed educato. (Magari i suoi figli fossero così, quei lazzaroni!)

“... posso dirti una cosa, Stefan?”

“Sì, prego?”

“... è un po’ di tempo che ti vedo... come dire... contento. E mi fa molto piacere. Scusa se mi sono permesso, eh!”

Stefan allarga gli occhi, come fa sempre quando il suo cuore vuole ridere senza farsene accorgere. Poi solleva una mano a mo’ di saluto, esce e si dirige verso casa a passo di corsa.

 

Little darling, I feel that ice is slowly melting
Little darling, it seems like years since it
s been clear
Here comes the sun
Here comes the sun, and I say
It
s all right

 

***

 

Nota dell’autore. Ed ecco che il “ritratto estivo di ragazzo svedese”, che al principio era solo il titolo del racconto di Julia, diventa un vero ritratto estivo (è il solstizio d’estate) di un ragazzo svedese (Stefan).

 

Note al testo. 1) Capitolo/song fic, in cui la fa da padrona Here comes the sun dei Beatles (e mi pare ovvio, visto che è il solstizio d’estate!). Ci sono due riprese rispetto a una storia di questa stessa serie: il notiziario è lo stesso che ascolta Karl-Heinz Schneider in Il suo cuore come un dizionario, e mentre in Il suo cuore Schneider si mette a canticchiare Here comes the sun per conto suo, Stefan invece sente la canzone alla radio. 2) Per l’epigrafe mi è scappata la mano... ho dovuto mettere questa bellissima frase della beata Giuliana di Norwich, mistica inglese del Trecento.

 

Disclaimer. Stefan Levin appartiene a Yoichi Takahashi, ça va sans dire. E a nome di tutti i levinisti del mondo: grazie per averci regalato Stefan, maestro.

 

Un grazie di cuore a Agatha, CapitanHyuga, Eldarion, Sakura chan e Sanae Hell Angel per le loro recensioni sempre belle, talora entusiasmanti, spesso commoventi, e per aver inserito "Ritratto estivo" tra le loro storie preferite, ricordate o seguite; ad Esthel e Purple per averla inserita tra le loro storie preferite; a Butterfly49 e Manila che l'hanno seguita; a tutti quelli che si sono fermati a leggere anche solo per pochi minuti anche solo poche righe del mio racconto *si inchina*... e ci risentiamo presto con le avventure della premiata ditta Gutenbrunner-Levin-Schneider & Co.!

 

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