And we kissed, as though nothing could fall.

di unbound
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. I ***
Capitolo 2: *** Cap. II ***
Capitolo 3: *** Cap. III ***



Capitolo 1
*** Cap. I ***


Sarò molto franco: la scuola non mi entusiasma e non l’ha mai fatto. Non ho mai ottenuto risultati degni di nota, anzi, ho raggiunto la sufficienza per alcune materie soltanto per paura di perdere un anno o due, e partecipare a classi con ragazzi più giovani avrebbe soltanto messo a dura prova i miei nervi. I miei genitori erano senza dubbio più emozionati di me: le nostre ultime cene avevano avuto come argomento principale il mio passaggio al liceo, e avrei quasi preferito che fossero loro a viverlo al posto mio, sicuramente si sarebbero divertiti di più.
La prima lezione era già arrivata a termine e, per la prossima, avrei dovuto aspettare una buona ventina di minuti –forse l’unico lato positivo di essere una matricola al suo primo giorno era avere un paio di pause per riprendere fiato- perciò decisi di fare due passi per il cortile della scuola. Mi piaceva, quel cortile, mi ero già immaginato lì, a perdere pomeriggi interi, aspettando i corsi pomeridiani di recupero – di cui avrei sicuramente avuto bisogno-, anche se non avevo valutato il fatto che la mattina sarebbe stato pieno di gente, tra cui quei gradassi dell’ultimo anno e le loro ragazze, ovviamente cheerleaders. Il cielo era cupo e il sole quasi non si vedeva, non mi sarei meravigliato se avesse preso vita uno di quei temporali che ti fanno venir voglia soltanto di stare sotto dolci e calde coperte, con un walkman tra le mani. Le lenzuola profumate di mia madre mi mancavano, in quel momento, ma la musica no: la voce di David Bowie, infatti, risuonava dolcemente come sottofondo alla mia piccola passeggiata. Non riuscii a trattenermi dal canticchiare un paio di frasi tra un passo e l’altro.
Non mi sarebbe dispiaciuto essere un eroe, in quel momento; non avevo mai avuto doti soprannaturali né qualcosa per cui valesse la pena distinguermi dagli altri ragazzi, inclusa la voglia di essere diverso, ritrovandomi a essere completamente irrilevante. Mi sarebbe piaciuto anche essere un po’ come lo stesso Bowie, e non intendo soltanto biondo e attraente, ma anche genio della musica e grandissimo artista, che poi era il mio concetto di eroe, più o meno. Purtroppo la mia piccola pausa passò con la stessa velocità di una Harley Davidson sulla Route 66, quindi dovetti precipitarmi all’ aula successiva quasi inciampando tra i miei stessi piedi –non ero molto agile-, nonostante avessi già la certezza di aver battuto il mio record di ritardi. La puntualità non era mai stata il mio forte e i professori della mia ex scuola lo sapevano bene, infatti non facevano quasi più caso a quando raggiungessi le classi, e quasi tutte le volte la causa era proprio la musica. Ma cosa potevo farci? Era un mondo nel quale dovevo necessariamente perdermi più volte al giorno e non potevo davvero farne a meno. Tra una lezione e l’altra dovevo farci un salto per scaricare le tensioni accumulate fino ad allora, e non intendevo perdere quell’abitudine... anzi, non potevo.

Il professore era già lì, in piedi, e stava scrivendo lentamente e con estrema cura il suo nome sulla lavagna, quindi sgattaiolai velocemente all’ultimo banco della fila centrale, sperando ed essendo quasi sicuro di non essere stato visto. “Mr Hummel”, così si chiamava, rimase a fissare ciò che aveva appena scritto per un paio di minuti, per poi girarsi verso la classe, bussando sulla cattedra per stroncare il fastidioso brusìo di due ragazzette alla mia sinistra, che probabilmente stavano già facendo apprezzamenti su di lui. Infatti, mi sembrò subito uno di quei docenti che amavano segretamente fare colpo sulle liceali: i capelli quasi cotonati e la sciarpa scura stretta al collo quasi mi urlavano di avere dannatamente ragione. Afferrai la cartella che avevo elegantemente gettato per terra poco prima e riposi il mio walkman in una delle tasche laterali; David Bowie avrebbe capito, ed io mi sarei fatto perdonare.
Sono Kurt Hummel, per voi Mr Hummel, e questa è la classe di Astronomia annunciò, rompendo il silenzio, con tono serio e diplomatico. Un ragazzo, confuso, balzò in piedi e fuggì via in fretta, cercando probabilmente di non disturbare la lezione senza successo, e il professore lo seguì con lo sguardo, aggiungendo subito dopo e spero che la prossima volta sappiate che questa è la classe di Astronomia. Le ragazze di prima iniziarono a ridacchiare di gusto, ed io dovetti trattenermi duramente dall’interromperle con una delle migliori frasi sarcastiche del mio repertorio, ricordando di aver promesso ai miei genitori di stringere più in fretta possibile. Dopo il trasferimento di mio padre, avevo stroncato completamente i contatti con i miei ex compagni di scuola, compreso il mio migliore amico che, perdendo la testa per una ragazza incontrata in campeggio, si era completamente dimenticato di me. All’inizio è stato deprimente, ma poi ci si abitua, alla solitudine. O almeno, io mi ero adeguato a quel cambiamento, ma i miei genitori no, soprattutto mia madre che, sentendosi sempre in colpa, faceva di tutto per farmi uscire insieme ai figli delle sue colleghe, nonostante fossero degli idioti quasi imbarazzanti.
Allora, a chi piacciono le stelle? domandò Mr Hummel, iniziando a passeggiare tra i banchi.
Una decina di persone quasi si uccisero per alzare le mani, entusiasti, e lui li guardò con fare superiore. Scusate, devo correggermi aggiunse, alzando l’indice e fermandosi per ridacchiare a chi piacciono le stelle vere? Niente stelline sciatte a cinque punte, intendo... sapete, fusioni nucleari, sferoidi luminosi, chimica. In quel momento più della metà delle braccia si lasciarono cadere sui banchi, tra me e me non riuscii a non sorridere davanti a quella reazione. Era veramente ridicolo come gli adolescenti fossero convinti di conoscere a fondo i concetti, mentre non facevano altro che ignorarli. Mr Hummel mi ricordava in una maniera esagerata uno di quegli attori di Broadway per cui andava matta la fidanzata di mio fratello; aveva un comportamento così spettacolare che mi faceva davvero sentire uno spettatore a teatro.

Nome?
Si trovò in un battito di ciglia di fronte a me, puntandomi, ed io non mi ero neanche accorto che si fosse mosso. I suoi occhi chiari erano completamente incollati ai miei e mi sentivo quasi a disagio; i contatti visivi non erano il mio forte, la maggior parte delle volte che iniziavo una conversazione con una persona evitavo categoricamente di incontrare il suo sguardo. Era una cosa davvero stupida.
Blaine. Blaine Anderson risposi, deglutendo.
Tranquillo, Anderson. Era solo per smettere di affibbiarti il nomignolo “la-prima-matricola-arrivata-in-ritardo-il-primo-giorno-nei-cinque-anni-di-carriera- del- sottoscritto” con cui ti identificavo nella mia mente. Affermò, sorridente. Okay quindi, si era accorto del mio ritardo e questo mi avrebbe sicuramente penalizzato per tutti e quattro gli anni che avrei dovuto passare in quella gabbia di matti, dato che sembrava tutto tranne che un professore comprensivo e disponibile. Perfetto. Non potevo davvero inziare meglio.
Subito dopo la risposta, riprese a ignorarmi senza problemi e aprì un lungo discorso sulla formazione delle stelle. La lezione, inaspettatamente, riuscì a coinvolgermi a un livello tale che sentii quasi il bisogno di prendere appunti; la voce di Mr Hummel era snervante, sì, ma anche piacevole, e molto, quasi mi rimandò a quella traccia che mi affollava i pensieri prima che iniziasse la lezione. In effetti, aveva qualcosa che mi ricordava Bowie, forse l’abbigliamento eccentrico caratterizzato dalla completa essenza dell’eleganza di chi ama il proprio riflesso allo specchio, o forse i capelli, il portamento e l’assenza quasi totale di virilità. Evidentemente alle ragazze presenti non importava la sua scarsa mascolinità, perché ero disturbato di continuo dai loro commenti su quanto fossero attillati i suoi pantaloni e su quanto fosse musicale il suo tono di voce.
Dopo aver riportato una mappa concettuale sulla fusione nucleare, il docente posò il gesso e ci fece un cenno con la mano, come per invitarci a copiarlo sui nostri taccuini, per poi prendere posto sulla cattedra. Afferrò i suoi grandi occhiali da vista e li scivolò sulla punta del suo naso all’insù, riportando velocemente e accuratamente qualcosa sulla sua agenda di cuoio, dall’acceso segnalibro rosso di velluto. Appena finii di tracciare l’intero schema sulla mia, alzai lo sguardo e mi accorsi che lui aveva fatto lo stesso, quasi simultaneamente, sorridendomi un’altra volta; non riuscii a trattenermi e ricambiai velocemente il sorriso, per poi appoggiare il mento sul mio pugno e studiare il resto dei miei compagni. Li analizzai a uno ad uno e riconobbi un paio di potenziali giocatori di football, una cheerleader, una dozzina di assonnate masse informi e una ragazza, seduta quasi a fianco a me, che mi guardò e subito dopo, con fare vivace, mi sussurrò il suo nome: Rachel Berry. Alzò la mano come per salutarmi ed io ricambiai il gesto e le dissi il mio nome, sorridendole. Non ero così male ad avere interazioni con il genere umano come diceva mio fratello maggiore, Cooper, avevo rivolto la parola a ben due persone ed una di loro era una matricola come me. Non vedevo l’ora di farglielo presente.  Cooper era il punto di legame della famiglia: studente modello di medicina, bell’aspetto e virilità da vendere, niente a che vedere con la mia personalità. Era altissimo, o almeno, lo era per me, dato che mi vantavo di appena 170 cm di altezza, ed era letteralmente un animale da festa.
La campana di fine lezione squillò quasi assordante; presi la cartella la indossai su una spalla, dando un’occhiata alla ragazza di prima, che mi raggiunse e mi strinse energicamente la mano ho notato che non solo sei nuovo, ma hai anche la faccia da nuovo, e non ho potuto resistere a presentarmi. Neanche lei era molto alta e questo mi consolò: era piuttosto gracile, indossava un orribile maglione con due renne sopra, probabilmente fatto a maglia da una delle sue nonne premurose, e una gonna medio-lunga, che le copriva le gambe magre. Aveva degli occhi davvero belli però, nascosti da una lunga frangetta.
Le sorrisi e le risposi quasi subito oh tranquilla, faccio questo effetto a tutti e lei ricambiò il sorriso. Stavo per uscire dalla classe insieme a lei, dato che aveva autonomamente iniziato un monologo su quanto fosse stato traumatico il suo primo giorno di scuola nonostante fossero passate solo due ore- dimostrandomi di essere molto logorroica-, ma il professore mi chiamò e mi fece cenno di avvicinarmi alla cattedra. Le chiesi di incontrarci a pranzo e, dopo averla guardata mentre si allontanava saltellando, mi diressi verso di lui, quasi impaurito.
Allora, Blaine disse, sfilandosi gli occhiali e chiudendo l’agenda mi sembravi molto interessato alla lezione, mi hai quasi fatto dimenticare il tuo ritardo
Mi scusi, Mr Hummell, sono sicuro che non si ripeterà risposi, abbassando lo sguardo imbarazzato. Vai così Anderson, prima ammonizione al primo giorno.
Sono sicuro che si ripeterà. Volevo darti questo afferrò un libro piccolo, dalla copertina ingiallita e me lo porse, quasi entusiasta. Nei suoi occhi leggevo una nuova sensazione, come se ci tenesse davvero tanto che lo leggessi per condividerne disperatamente il contenuto con me. è il “De Stella Nova” di T. Brahe. Secondo me, le stelle possono davvero piacerti. Vai a vederle con la tua ragazza qualche volta, e pensa alla loro composizione chimica per me.
Oh sorrisi e ringraziai con un cenno del capo. La chimica era una delle materie di cui non avevo mai seguito i corsi di recupero e credevo fermamente che potesse diventare il mio punto forte; il professor Hummel mi era sembrato uno stronzo per la maggior parte della lezione, ma in quel momento mi si presentò sotto una luce diversa. Non giudicare mai un libro per la copertina, Anderson. Buona giornataaggiunse. Per un momento fui quasi sicuro che avesse letto il mio pensiero, ma forse si riferiva al libro e sembrava una persona abbastanza normale, tanto da essere privo di poteri soprannaturali come la telepatia. Esci dal mio cervello pensai, così... per sicurezza, dopo di che abbassai il capo e uscii dalla classe velocemente, e, per un paio di metri, sentii i suoi occhi incollati su di me. 

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Capitolo 2
*** Cap. II ***


Era passato un po’ di tempo dalla prima lezione di Astronomia, e ogni volta mi appariva sempre più interessante e piacevole. Quando trovavo un po’ di tempo per me tra le mani, al mio walkman accompagnavo la lettura del saggio di T. Brahe datomi dal professor Hummel; non sapevo se essere più entusiasta del fatto che i Nirvana avessero praticamente rivoluzionato la mia playlist con il loro “Nevermind”, nuovo di zecca, o della visita all’osservatorio astronomico pianificata per quel pomeriggio. Avevo aggiunto alla mia lista di desideri, lunga un metro o due, un telescopio. I miei genitori pensavano fossi innamorato, perché passavo molto tempo a sorridere e a perdermi tra i pensieri, ma in realtà ero soltanto irrimediabilmente e stranamente felice.
Da quando Sam, il mio migliore amico, tagliò i legami tra di noi senza troppi ripensamenti, avevo perso il concetto di felicità, ed ero fermamente convinto che non sarebbe tornata indietro a stringermi la mano e a dirmi “hey, hai bisogno di me?” con fare allegro. Invece, era come se fosse parte di me in quel periodo. A scuola non andavo così male, avevo qualche D in Letteratura e Spagnolo, ma in realtà dovevo solo impegnarmi un po’ di più. Avevo stretto una bella amicizia con Rachel, anche se a volte volevo davvero incollarle le labbra per non farla più parlare, ed era piacevole passare del tempo con lei.
Ero lì, ad aspettare che passasse a prendermi con il suo vecchio pick-up arrugginito, con Kurt Cobain che mi sussurrava Chew your meat for you, pass it back and forth–ammetto che era un’immagine abbastanza inquietante, ma reputavo “Drain You” una delle migliori canzoni della mia nuova audiocassetta- quando all’improvviso arrivò, e con fare frettoloso suonò il clacson.

Buonasera Anderson!” la sua voce cristallina mi costrinse a rimuovere le cuffie e a riporle nella grossa borsa di cuoio che mi aveva prestato Cooper, soprannominandola “colei che mi fece rimorchiare cinque ragazze in una sera”- a riguardo, non feci troppe domande.
“Ciao Rachel, tutto okay?” chiesi salendo a bordo, quasi m’importava la risposta.
“Sìsì. Il professor Hummel ci ha dato appuntamento dietro la scuola. Vieni con me, no? O vuoi prendere il fetido bus con il resto della classe?” chiese, mentre portava una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mi sorrideva, smagliante. Annuii di risposta, ricambiando il sorriso.
Cooper era fermamente convinto che lei provasse qualcosa per me, ma non riuscivo a capire perché. Voglio dire, ogni tanto mi offriva la colazione, mi teneva posto a mensa e mi scriveva ironici bigliettini che riponeva accuratamente nel mio armadietto ogni mattina, ma niente di più. C’erano giorni in cui mi regalava dei dolci sorrisi e mi cucinava muffin, ma davvero, niente di più.
Io non ero un mago nelle relazioni, infatti l’unica ragazza che avevo avuto mi aveva brutalmente piantato al secondo appuntamento, baciando subito dopo un mio compagno di classe sotto il mio naso e non preoccupandosi neanche di aver preso il mio cuore e di averlo schiacciato con i suoi tacchi rosso fuoco. In realtà, non era neanche il mio tipo. Nessuna ragazza è mai stata il mio tipo. Secondo mia madre ero omosessuale... o almeno, questa era la sua più grande paura.
Arrivati a scuola, scendemmo dall’auto per raggiungere il gruppetto di ragazzi che seguivano il nostro corso. Salutai un paio di loro e mi sedetti su una panchina in disparte, mentre Rachel parlava animatamente con un’altra ragazza, Quinn, che, tra l’altro, era il capo cheerleader. Inutile descrivere il suo aspetto fisico da Barbie, e potevo confermare con certezza che Rachel pendesse completamente e irrazionalmente dalle sue labbra.

Dopo un paio di minuti, sentii una mano poggiarsi sulla mia spalla, e mi girai di scatto, sobbalzando.
“Buonasera, Blaine.”
Mr Hummel mi sorrise con fare affettuoso, ed io ricambiai il saluto, facendogli spazio al mio fianco. Profumava di buono, mi ricordò subito i campi di fiori della mia città natale, Nashville. La mancanza che provavo nei confronti del Tennessee era inestimabile, era tutto così diverso in città; non potevo imbattermi in gatti selvatici e osservare gli agnellini rotolare sul grano della fattoria di mia nonna. E’ strano, quando si vivono certe sensazioni non ci si rende conto di quanto il vuoto che lasciano possa essere grande.
Dopo una ventina di minuti, l’autista dell’autobus aprì le porte e ci invitò ad entrare con fare estremamente seccato. Rachel tirò l’orlo della mia manica e, con un cenno della testa mi puntò il pick-up, dicendo “Quinn non può salire sull’autobus, dice di essere allergica ai sedili... mi ha chiesto se posso accompagnarla. Ti dispiace se le ho offerto il tuo posto?
In realtà no, non mi dispiaceva affatto. Avrei potuto ascoltare la bella “Drain You” senza dover staccare dieci volte al minuto per sentire qualcosa su quanto fossero belli i vestiti di seta o su quanto le foglie le facessero pensare ai miei occhi verdi.
“Oh, no. Ci vediamo lì allora” le risposi, dandole una pacca sulla spalla per poi salire sull’autobus. Ovviamente i posti migliori erano già stati occupati, perciò dovetti optare per il primo, giusto dietro l’autista. Il mio sogno di ascoltare musica per l’intero tragitto però fu stroncato sul nascere, perché il professore prese posto accanto a me, e ritornò la nostalgia di casa grazie al suo profumo.
“Mi sono seduto qui solo perché sembri l’unico adolescente del corso a non aver litigato con il sapone. E tranquillo, puoi tenere le cuffie. Devi solo dirmi una cosa prima” disse improvvisamente lui, mentre le stavo già scivolando sul collo con velocità. Mi fermai.
“In effetti, io e il sapone siamo davvero inseparabili.” Confessai io, con tono scherzoso. “Dica pure.”
“Che ascoltavi?”
Quella domanda mi spiazzò. Nessuno mi aveva mai chiesto cosa effettivamente ascoltassi, che genere, che canzone avevo in testa, o almeno, nessuno era interessato alla risposta come sembrava esserlo lui.
“La nuova audiocassetta dei Nirvana, professore.” Risposi, sorridendogli.
“Davvero?” Aggrottò le sopracciglia “Non ti facevo un tipo da Nirvana. Mi sembravi più da Beatles.” Esordì poi, ricambiando il sorriso e annuendo, come se se ne intendesse.
“Come mai?”
“Ti ci vedevo già a canticchiare Something alla Berry. Vorrà dire che le dedicherai Love Buzz.”
Si era appena aggiudicato il posto di membro onorario del club “Blaine heart Rachel”, capitanato dai miei genitori e da mio fratello. Ero confuso: Rachel era adorabile, okay, ma non era il mio tipo. No, no.
“Io e Rachel non stiamo insieme” alzai le mani come a fermarlo, e lui spalancò gli occhi, quasi sorpreso.

Dopo quel piccolo dialogo, calò uno dei silenzi più imbarazzanti della mia vita, così cercai di colmare il tutto fissando il paesaggio fuori dal finestrino. Le montagne sfrecciavano veloci e il sole stava per tramontare; avrei potuto scriverci una canzone, era una scena davvero affascinante.
Appena arrivammo, seguimmo una lezione sulle diverse tipologie di galassie e osservammo la luna e un paio di stelle al telescopio. Era la cosa più emozionante che io avessi mai fatto. Era così ingiusto che la gente passasse tanto tempo a cercare le cose belle, ignorando di averle giusto proprio sopra la testa. Ed è quello che dissi a Mr Hummel, appena finii il mio turno, trovandolo completamente d’accordo con me.

Avrei voluto tanto ringraziarlo, per avermi aperto una porta in un mondo così bello.

“Ho letto il suo libro. L’ho trovato molto interessante” gli dissi, mentre uscivamo dalla piccola stanza che conteneva gli strumenti e le grandi carte, che riportavano l’esatta posizione di ogni stella. La porta dava su un piccolo spiazzale in marmo, i ragazzi ci avrebbero raggiunto appena finito il loro turno di osservazione. L’aria era fresca e leggermente pungente, ma era comunque una serata piacevole, e l’osservatorio aveva una bella vista.
“Sono contento che ti sia piaciuto.” Rispose lui, guardandomi. Il suo tono di voce era molto rassicurante, quasi rilassante, e i suoi occhi chiari studiarono i miei ancora una volta, riportandomi alla prima lezione, ma il disagio era stranamente scomparso. Infatti, riuscii a mantenere lo sguardo fino a quando non lo distolse lui, rivolgendolo al cielo sopra di noi.

Professore!” urlò improvvisamente Quinn, raggiungendoci velocemente. “E’ stato interessantissimo, emozionante! Non avevo idea che le stelle potessero essere così belle” disse, sorridendo.
“Me lo dica domani, signorina Fabray. Non le dispiace scrivere una relazione a riguardo?” il tono di prima aveva lasciato posto a una traccia di sarcasmo, come se fosse estremamente infastidito dalla ragazza.
“No, no. Adoro l’astronomia, grazie a lei. E’ il professore migliore che io abbia mai avuto.”
Nonostante il distacco notevole di Mr Hummel, Quinn continuava imperterrita e in un modo decisamente esplicito a elogiarlo; era stata probabilmente la parte fondamentale del gruppetto di ragazzette del primo giorno, e con il passare del tempo era sempre peggio. Le mie compagne erano devote, davvero, non esagero. Forse perché era l’unico docente di sesso maschile con l’età compresa tra i trenta e quarantacinque anni dell’intera scuola, ma probabilmente, se avesse chiesto loro di spogliarsi e correre per la strada, l’avrebbero fatto senza problemi.
“Ne sono certo.” Disse poi lui, dandole le spalle. Ero quasi sicuro che Quinn avesse sussurrato “che stronzo” dopo questa risposta, e tutto ciò mi fece sorridere.
Dopo un paio di minuti, Rachel mi chiamò, sbracciandosi, ed io la raggiunsi velocemente. Era davvero curata quella sera, indossava un vestito bianco davvero carino e i capelli le cadevano morbidi sulle spalle; per un attimo pensai che sarebbe stata davvero il tipo ideale di Sam, non mi sarebbe dispiaciuto se avesse lasciato la stupida che l’aveva portato via da me per stare insieme a lei.
Quinn pensa che il professore sia gay” mi sussurrò ridacchiando, non appena fui abbastanza vicino da sentirla chiaramente.
E perché?” chiesi io, aggrottando le sopracciglia.
Perché nessuno tratta male Quinn Fabray, Anderson” disse la bionda accanto a lei, ad alta voce, come se volesse farlo sentire alle persone intorno.
Mi correggo, voleva decisamente farlo sentire alle persone intorno.
“Quindi è sicuramente frocio.”
“E anche se lo fosse?” ribadii, cercando di sembrare più seccato possibile.
Non ho mai capito cosa cazzo c’era di male. Cosa c’era di così sconvolgente ad avere gusti diversi dalla massa? Era così straziante? Sbagliato?
Mia madre era così contraria che mi faceva davvero accattonare la pelle, spegneva la radio ogni qualvolta che le notizie parlassero di un omosessuale, come se non volesse farmelo sentire. Come se non volesse che io sapessi.  Era deprimente.
“Ah, perfetto. Non bastava un frocio come professore, mi tocca anche un frocio come compagno.” Sembrava estremamente arrabbiata, ma mi sfuggiva il perché. Non sapevo se andare su tutte le furie per il suo comportamento da idiota, o per il fatto che Rachel sembrasse quasi darle ragione.
Prima che gli animi potessero scaldarsi ulteriormente, Mr Hummel ci raggiunse e ci ammonì, con tono severo.
Ma era strano, in viso.
Aveva uno sguardo assente e la mascella contratta, come se si sentisse nei guai.


Angolo dell'autrice -
Salve Klainers, sono davvero felice di aver ricevuto quasi 100 visualizzazioni in poche ore! :D Aggiornerò il sabato e/o la domenica perché la scuola mi ruba praticamente il flusso vitale... lasciate una recensione, se potete, ho bisogno di consigli su come continuare il filone narrativo. Rise and shine (ノ◕ヮ◕)ノ*:・゚✧*:・゚✧

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Capitolo 3
*** Cap. III ***


Le lezioni del professor Hummel non furono le stesse da quella sera all’osservatorio. O almeno per me, dato che nessuno aveva notato la differenza.
Lui era abituato a trattare i miei compagni con un certo distacco, contornato da un immancabile sarcasmo, ma non me. In quei primi mesi di scuola, avevo trovato in lui un punto di riferimento ed era piacevole scambiare quattro chiacchiere dopo la lezione, anche se mi portava sempre a ritardare alla successiva, ma, dopo quella sera, non era più successo. Speravo di essere chiamato prima di uscire dall’aula, camminavo persino lentamente, ma non succedeva più.
Natale era alle porte e mi sentivo come in dovere di ricambiare tutto ciò che aveva fatto per me. Non solo le chiacchierate di tanto in tanto, ma aveva arricchito la mia persona, era come se avessi vissuto trent’ anni in quattro mesi. Mentre tutti i miei coetanei lo guardavano come lo stronzo di turno, o come il ‘bello e dannato della situazione’, io lo vedevo semplicemente come qualcuno che mi aveva aperto gli occhi.
 
E’ sicuramente una cosa stupida ma era quel tipo di persona della quale mi sarebbe piaciuto essere amico. Era sempre un mio docente e questo era impossibile, ma c’era un filo conduttore tra di noi, qualcosa che mi avrebbe spinto ad aprire la sua dura corazza e scoprire cosa c’era dentro.
Il pomeriggio passava velocemente, le lancette del mio orologio sembravano correre, ed io lo stavo passando fissando il tetto e facendomi largo tra i pensieri che vagavano da un punto all’altro, ma che avevano come argomento portante lui, quella figura misteriosa. All’improvviso balzai in piedi, presi carta e penna e tradussi tutto ciò su cui stavo riflettendo da ore in parole, una dopo l’altra, e, dopo aver riletto e riletto infinite volte, stilai una lista di canzoni, canzoni che poi avrei registrato in un’audiocassetta da dargli. Sì, era decisamente una buona idea. Le parole non sarebbero bastate, ed io riuscivo a parlare meglio attraverso la musica. Era un dato di fatto.
Molte volte scrivevo canzoni decisamente idiote a mia madre per comunicarle i miei brutti voti, ed erano qualcosa tipo “I know you are pretty/ I know you are cool/ I got a D in math/ and I love you”. Ma è imbarazzante, forse non dovrei vantarmene.
 
 
La lezione stava per finire ed io fui vittima un lungo, interminabile brivido. Avrebbe preso il tutto come, che so, una voglia di raccomandazione? Un gesto avventato? Qualcosa d’insensato? Avrebbe capito il vero punto della situazione? Non era più lo stesso. Ed era qualcosa che avevo notato solo io, e proprio per questo ero io a dover riportare tutto alla normalità.
In quella scuola non avevo stretto tante amicizie, in realtà c’era solo Rachel e qualche ragazza che mi salutava sorridendomi la mattina ma nulla di più. Non potevo permettermi di perdere la seconda persona che mi rivolgeva la parola, senza chiedermi se avessi mai chiesto aiuto per la mia dipendenza da gel.
Improvvisamente la campanella suonò, e, mentre i miei compagni balzarono veloci in piedi, lanciandosi frettolosamente fuori dall’aula, io rimasi seduto. Il professore quasi non si accorse di me e non mi dispiaceva neanche; guardarlo aggiustare ordinatamente carte e registri, con un paio di occhiali da vista sul naso, era quasi rilassante.
Dopo una manciata di minuti mi feci forza, afferrai la cassetta e la lettera dalla tasca esterna della mia cartella e, avvicinandomi a lui, le poggiai lentamente sulla cattedra.
 
Qualcosa che non va, Anderson?” chiese lui fissando prima me e poi ciò che avevo appena posato e, subito dopo, aggrottando confuso le sopracciglia.
“Sono per lei” mi sforzai di sorridere e indietreggiai, appoggiandomi su un banco, impaziente. Mi fissò per un po’ come se fosse estremamente seccato, e per un attimo ebbi l’impressione di aver solo peggiorato le cose, ma non riuscii a muovermi, alzarmi e andare via, non ci riuscì, perché non volevo perdermi niente della sua reazione.
“Seriamente?” il suo sguardo era severo, aveva l’aspetto di qualcuno che non aveva la benché minima intenzione di accettare quei doni. Anzi, neanche di degnarli di uno sguardo. Ed io avevo speso così tanto tempo nel cercare le parole giuste per spiegargli ciò che mi turbava.
Non esitai, presi la lettera e iniziai a leggerla.
“Professor Hummel, salve. Può sembrare un gesto stupido, ma non è così, lo giuro. Ho scritto queste poche parole soltanto per aiutarla, anche se non sono nessuno per farlo, ma sono l’unico che ha notato che c’è qualcosa che non quadra e..”
 
Basta.” Mi fermò, non mi fece neanche finire la frase e mi fermò.
 
Come ha detto?” finsi di non capire, ma in realtà non volevo. La scena era molto lontana da come me l’ero immaginata.
“Farai tardi a pranzo, e Miss Berry non te lo perdonerà. Non perdere tempo qui”
“Rachel si troverà qualcuno con cui stare, ma io voglio davvero parlarle” la voce uscì come un sussurro per il troppo imbarazzo, ma era più grande la voglia di capire. Probabilmente, se gli altri l’avessero saputo, mi avrebbero preso in giro per i prossimi venti anni, ma a me non importava.
Il silenzio calò ancora una volta, lentamente.
I suoi occhi erano vitrei e quasi imploranti di non continuare a leggere, e questo mi confuse davvero le idee.
Forse avrei dovuto tagliare la corda.
Avrei decisamente dovuto.
“Mi scusi se le ho fatto perdere tempo.” Affermai, non riuscendo più a reggere il suo sguardo e la sua completa noncuranza. Feci come per andarmene, poggiando la lettera ancora una volta accanto all’audiocassetta e avvicinandomi alla porta, ma prima di poter mettere la mano sulla maniglia e spalancarla, lasciando la stanza, il professor Hummel mi fermò, con l’unica frase che non mi sarei mai aspettato di sentire in quella circostanza.
 
“Sono gay.”
 
Abbassai lentamente la mano e mi girai.
Lui era completamente immobile e mi fissava, come se mi avesse fatto una domanda, durante un’interrogazione: cosa avrei dovuto dire? Qual era la risposta giusta? Nessuno avrebbe suggerito niente, e il silenzio sarebbe stato la peggior via di autolesionismo.
“O finocchio, come voi ragazzi preferite chiamarmi.”
“Non io.” Quasi lo interruppi prima che finisse la frase.
Era così disperata la voglia di mostrare che ero diverso dagli altri, e che dopo quella confessione non avrei cambiato idea su di lui.
“E non cambierei niente di quello che ho scritto, né delle canzoni che le ho riportato su.. quella..” puntai la cassetta e lui la avvicinò, sorridendo. “.. ora come ora.”
“Avevo capito che eri intelligente, ma non così” ridacchiò, ed io gli sorrisi.
Sentivo i nervi rilassarsi come se avessi appena superato a pieni voti l’esame più importante della mia vita. Lui sembrava improvvisamente tranquillo, come se a un tratto avesse tolto la maschera di professore stronzo e mi avesse mostrato il suo vero viso, la sua vera identità. Iniziò a leggere le canzoni che, frettolosamente, avevo scritto sul retro dell’audiocassetta, con i numeri delle tracce e la durata.
“”Blackbird” e “I Want To Hold Your Hand”? Sapevo che eri un tipo da Beatles, ho un certo occhio per queste cose.”
“Non posso negarlo, mi ha scoperto” sorrisi. L’aria era notevolmente meno pesante.
“Beh, Bowie, Fleetwood Mac, Queen... la adoro già. Grazie.” Continuò a sorridermi e la conservò in una tasca dei suoi jeans.
Io cercai di ricambiare sempre di più il sorriso ma, dopo un po’, gli avvicinai lentamente la lettera.
“Vorrei che la leggesse, ma adesso devo scappare... sa, le altre lezioni... a domani, professore.
Abbassai il capo e mi avvicinai alla porta, lasciando l’aula in fretta.
In realtà, se l’avesse letta davanti a me, sarei morto d’imbarazzo. Letteralmente. Non so con quale coraggio poco prima volessi leggerla addirittura io, e ad alta voce, ma sicuramente ero posseduto dalla mia parte eroica che, senza neanche troppi ripensamenti, se l’era già data a gambe.
 
Le sue parole mi rimbombarono in mente tutto il pomeriggio, e la sera.
Era strano. Non avevo mai incontrato qualcuno di quel... genere, una persona così grandiosa.
 
Mia madre e mio fratello definivano gli omosessuali “stupidi”, “ignoranti”, “noncuranti”, “peccatori”, ma, per me, lui non era niente, niente di tutto questo. Ero cresciuto con la convinzione che, se avessi mai visto un finocchio, sarei dovuto stargli alla larga, ma adesso sembrava tutto così chiaro e diverso. Come se l’intera infanzia mi si fosse rivelata falsa, come se qualcuno avesse messo del collirio nei miei occhi.
Lui non era stupido, io lo ero.
Venivano visti da tutta la famiglia un po’ come gli anelli deboli della società, persone che non facevano altro che rovinare le famiglie altrui senza neanche preoccuparsene. Ma non avevano conosciuto il professor Hummel. Lui era così intelligente e sensazionale, avrebbe potuto scrivere un’enciclopedia in una settimana, perché avrei dovuto giudicarlo solo per chi prova attrazione fisica, con delle doti così? La cosa che mi faceva più incazzare è che probabilmente l’avevano fatto in molti, ed era per questo che era così distaccato con noi.
Avevo quell’improponibile voglia di farlo conoscere a tutti, di mostrarlo in giro come se fosse un trofeo d’inestimabile valore, di dimostrare che si può essere delle persone grandiose senza soffermarsi troppo sui gusti sessuali.
Quella sera, a cena, mi convinsi di poter cambiare le cose.
Al telegiornale mandavano un servizio sulla seconda guerra mondiale e, a un tratto, mia madre esordì con “Poveri, gli ebrei... Non hanno mai fatto nulla di male e hanno dovuto sopportare tutto.. questo” e sembrava anche abbastanza dispiaciuta.
 
“Anche i gay non hanno mai fatto niente di male, e ogni giorno continuano semplicemente a sopportare.” Dissi io, poggiando lentamente la forchetta sul tavolo e guardando la donna di fronte a me. Sembrò quasi basita e delusa da quello che avevo detto, ma soprattutto incazzata. Mio padre quasi si tappava le orecchie, mio fratello mi lanciò un’occhiataccia da –rimangiati quello che hai appena detto-, ma no, non lo feci.
“Blaine, hai bevuto? Vuoi metterti a letto?” mi chiese preoccupata, dopo un paio di minuti, accarezzandomi la spalla. La cosa più triste è che era davvero seria. Le scostai con violenza la mano e mi alzai in piedi, spegnendo la televisione e guardando i presenti uno per uno.
“Pensavo di avere dei genitori abbastanza intelligenti da superare questi pregiudizi del cazzo.”
“Oh no no, non mi farò dare dell’idiota da un sedicenne che non fa altro che piagnucolare e spendere inutili soldi in inutili robe musicali” urlò mio padre di risposta, alzandosi rabbioso.
“Avete mai visto un uomo gay? Avete mai conosciuto un uomo gay? Come fate ad essere così sicuri che siano... così?! Non ho neanche il coraggio di appellarli con tutti quegli stupidi insulti con i quali siete soliti chiamarli.”
“Blaine, finiscila! Fila a letto.” Sussurrò mia madre, quasi in lacrime.
Ero così pieno di rabbia, così estremamente infastidito dal loro comportamento che l’unica cosa che avrei voluto fare era lasciare quella casa, all’istante.
Ma neanche persi tempo, perché furono loro ad invitarmi ad uscire.
“Sei finocchio eh?! Sei finocchio! Lo sapevo, lo sapevo...” mio padre iniziò a girare nervosamente per la stanza e mia madre scoppiò in un pianto disperato.
Mio fratello, invece, guardava con occhi spalancati tutto ciò che stava succedendo, incredulo, senza conferire parola. Mi sentivo come un solo soldato spartano contro l’enorme esercito dei Persiani.
“E anche se lo fossi? Se un giorno m’innamorassi di un uo-“
“Non dirlo neanche! Non scherzare su queste cose, Blaine Devon Anderson.”
“Ho la faccia di qualcuno che sta attualmente scherzando?!”
“Esci da questa casa.”
 
Fissai l’indice di mio padre puntare la porta d’uscita e dopo i suoi occhi, pieni di rabbia, rossi. Forse sì, sarebbe stato meglio.
Lasciare quella casa, lasciare quelle persone che non avrebbero potuto accettare neanche il proprio figlio con degli ideali diversi. E se mi fossi davvero innamorato di un ragazzo? Avrebbero rifiutato persino la mia esistenza?
Presi il mio cappotto con rabbia e forte dolore, con la fissa convinzione che la mia stessa famiglia preferisse degli stupidi prototipi a me.
Non appena varcai quella porta, cercai di soffocare l’immediato senso di solitudine con ciò che avevo appena sentito.
Feci due passi e mi abbandonai su un marciapiede vicino il supermercato, a un isolato da casa mia; mentre il freddo vento di Dicembre mi accarezzava il viso come una nonna premurosa, immaginai di vivere in un’altra epoca. Nel futuro. Quanti anni sarebbero passati? Dieci, venti? Sarebbe mai arrivato un tempo durante il quale le persone come il professore avrebbero potuto amare, o, addirittura, sposare le loro anime gemelle senza essere trattati come carne da macello?
 
Dopo una buona mezz’ora, sentii una mano calda accarezzarmi i capelli, e sobbalzai, alzando lo sguardo.
“Blaine, cosa ci fai qui a quest’ora?”
Rachel, avvolta in un cappotto rosso, mi guardò preoccupata da dietro una sciarpa che le copriva praticamente l’intero viso, rosa confetto.
“Hey ciao... Problemi a casa. Ero qui per schiarirmi le idee.”
“Sto tornando a casa dalla scuola di danza. Vieni con me? Ti faccio una bella cioccolata, e mi spieghi tutto. E no, non puoi resistere ad una cioccolata. Lo sai anche tu”

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