Survivors

di _yulen_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo16 ***
Capitolo 18: *** Capitolo17 ***
Capitolo 19: *** Capitolo18 ***
Capitolo 20: *** Capitolo19 ***
Capitolo 21: *** Capitolo20 ***
Capitolo 22: *** Capitolo21 ***
Capitolo 23: *** Capitolo22 ***
Capitolo 24: *** Capitolo23 ***
Capitolo 25: *** Capitolo24 ***
Capitolo 26: *** Capitolo25 ***
Capitolo 27: *** Capitolo26 ***
Capitolo 28: *** Capitolo 27 ***
Capitolo 29: *** Capitolo28 ***
Capitolo 30: *** Capitolo29 ***
Capitolo 31: *** Capitolo30 ***
Capitolo 32: *** Capitolo31 ***
Capitolo 33: *** Capitolo32 ***
Capitolo 34: *** Capitolo33 ***
Capitolo 35: *** Capitolo34 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  
 
 
 
Prologo






 
Erano passate due settimane dall’inizio dell’Apocalisse eppure non mi ero ancora messa in viaggio verso Atlanta, le valigie erano pronte già da quando la polizia sfondò la porta di casa e mi ordinò di fare i bagagli – solo due, e solo cose importanti –.
I borsoni li avevo preparati ma l’idea di mettermi in  viaggio non sfiorò mai i miei pensieri, limitai i miei spostamenti da un’abitazione all’altra pregando che l’odore di carne fresca non attirasse troppi erranti e per un po’ fu così. Quattordici giorni passati a correre di casa in casa e nessun zombie si era mai accorto della mia presenza, la mia ombra passava come un fantasma.
Restare in quella cittadina per me era importante, c’erano due persone che dovevo e volevo cercare perché abbandonarle non rientrava nei miei piani, per questo cercai di passare inosservata, non potevo lasciare i Dixon da soli, ma la fortuna decise di abbandonarmi proprio quando il bisogno di lei era l’unica cosa che potesse aiutarmi a trovarli.
Passai anche a casa loro all’inizio di tutto e quando trovai frecce disseminate qua e là e cadaveri, mi convinsi che la casa era stata liberata da poco, per questo decisi di restare lì finchè non li avessi ritrovati, ma gli zombie iniziarono a diventare più numerosi giorno dopo giorno e questo mi costrinse a prendere i miei borsoni, raccattare qualsiasi cosa che trovai utile e spostarmi, sperando che, almeno loro, avessero già raggiunto Atlanta.

 







 
*angolo dell’autrice*
Eccomi qua con un’altra storia (e che palle direte voi…)
Questa storia ha come protagonisti principali i fratelli Dixon perché io ADORO Merle anche se è un coglione è il mio coglione. 
Questo è il prologo… è cortino e nemmeno i capitoli saranno quel granchè di lunghezza (sai che novità).
Dunque colgo l’occasione per informare che chi sta leggendo l’ altra mia storia su questa sezione (lasciatemi credere che qualcuno lo faccia)
che non l’ho messanel dimenticatoio, semplicemente è work in progress nel senso che sto scrivendo il prossimo capitolo
e modificando gli altri portando 
la narrazione da prima a terza persona poiché interiorizzerò questa qui.
Detto ciò, vi lascio.
 
yulen
 
 
 
 
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Capitolo 2
*** Capitolo1 ***





Capitolo1
 
 
 
 
 
 
 
Aprii gli occhi di soprassalto quando sentii dei lamenti al di fuori dell’abitazione in cui la sera prima decisi di stabilirmi. Mi tirai su a sedere stringendo la pistola e restai ad ascoltare quei rantoli ai quali si era aggiunto il rumore di unghie che graffiavano contro la parete.
«Basta» mormorai affranta.
Zombie. Pensai.
E infatti non mi sbagliai. Solo loro potevano essersi raggruppati in decine durante la notte per cercare di entrare, ma non ero spaventata. Le finestre le sbarrai appena entrata e le mascherai con delle coperte, le porte le chiusi e le puntai con delle sedie quindi non c’era pericolo, finché fossi rimasta lì dentro loro non sarebbero stati un problema.
Sbuffai piegando il ginocchio e appoggiandovi sopra il braccio. Restai in quella posizione per qualche minuto, il tempo di abituare gli occhi alla semioscurità e pian, piano riuscii a riconoscere il mio zaino per terra, l’M4 appoggiato alla porta insieme all’ M21, l’ascia appoggiata sul comodino affianco al letto, la sedia vicina alla finestra e il resto della mobilia che sembrava intatta. C’erano anche un armadio vuoto ed uno specchio che rifletteva la mia immagine ma non mi riconoscevo in quella figura, c’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quello che stava accadendo intorno a me. Vedevo tutto come in una visione distorta e non mi sentivo me stessa.
Guardai l’orologio che avevo al polso e spalancai gli occhi, era mezzogiorno e nonostante mi fossi appena svegliata mi sentii ugualmente uno straccio, come se avessi appena scalato tutto l’Himalaya senza alcun appiglio e senza le bombole d’ossigeno.
Scesi da letto, mi infilai i miei stivali neri e mi specchiai. I dread neri erano fissati con alcune perline per impedire che si disfacessero ed erano tirati all’indietro da un grande elastico bianco ormai sudicio e sporco, gli occhi color nocciola sembravano ancora più scuri a causa delle occhiaie molto marcate e delle lunghe ciglia che facevano sembrare lo sguardo ancora più cupo, il viso non era molto scavato ma di sicuro era smagrito. Le labbra sempre rosse erano pallide così come la pelle. Mi sembrava di essere un cazzo di vampiro e per un attimo l’idea di diventare immortale senza impazzire e mangiare qualsiasi cosa vivente mi allettò.
Forza Twiligth, è ora di muoversi.
Mi stiracchiai riempiendo i miei polmoni di aria nuova ma la puzza di chiuso e quella di cadaveri in putrefazione chiusi nella stanza accanto, mi causarono un forte conato di vomito che a stento riuscii a trattenere. L’odore era così pungente che iniziò a bruciarmi la gola e la testa prese a girare vorticosamente. Dovevo essere davvero stanca se ero riuscita ad addormentarmi con quel tanfo.
Mi buttai all’indietro per riposare qualche altro minuto, giusto il tempo di ricaricare le batterie, e mangiare magari. Da quando il virus si diffuse all’improvviso rompendo la tranquillità che era sempre regnata, quasi come un fulmine a ciel sereno, smisi di dormire e di fare qualsiasi altra cosa che non fosse scappare. Anche mangiare era un lusso che non potevo permettermi, e per questo mi limitavo a sgranocchiare qualcosa solo la mattina, quando avevo tempo a sufficienza.
Mi alzai dal letto ma una morsa allo stomaco mi fece piegare in due, i crampi della fame iniziavano a farsi sentire come da manuale. La vista si appannò e le mie gambe cedettero sotto il mio peso notevolmente diminuito.
Ogni giorno dovevo stringere la cintura di un buco, i jeans mi cadevano e sembravano dei tendoni da circo sulle mie gambe, per non parlare del mio maglione bianco panna nel quale rischiavo di perdermi.
Aprii lo zaino e dopo averne studiato il contenuto che consisteva in tre bottiglie d’acqua, omogeneizzati alla frutta e frutta in scatola, decisi che per quel giorno potevo tornare bambina. Presi un omogeneizzato alla pesca giusto per riempire lo stomaco e togliermi dalla bocca quel cattivo sapore di vecchio.
Questo è il colmo. Ho poco meno di trent’anni e mi sembra di averne uno.  
Mio padre diceva che impazzivo nel mangiarli ma che non ho mai sopportato quelli alla carne. Le poche volte che li mangiavo li risputavo.
«Papà» mormorai mentre piccole perle d’acqua scendevano lungo le mie guancie.
Lui era morto, non c’era più. Sbranato da alcuni zombie mentre cercava di salvare me.
Un senso di vuoto mi crebbe dentro. Tutta la mia vita la passai con lui che mi fece anche da madre, quella madre che io non conobbi mai poiché morì di parto dandomi alla luce.
Fu proprio lui a insegnarmi come trattare ferite di media entità, che mi spiegò il funzionamento dei vari medicinali e più importante che asciugò le mie lacrime quando esse scendevano senza riuscire a fermarsi.
Era un pezzo che se ne era andato portando via una parte del mio cuore. Ma ero sicura che ovunque fosse, fosse felice e al sicuro perché non avrebbe più sofferto e non sarebbe stato costretto a guardare il lento degrado del mondo.
Scossi la testa per non pensarci, ora la cosa più importante era scappare da quel piccolo rifugio, per questo recuperai le mie armi e lo zainetto, infilai le chiavi in tasca e sbirciai dalla finestra per farmi un’idea della situazione.
C’erano troppi zombie e correre non sarebbe servito molto, io ero veloce ma loro erano molto di più. Mi serviva un altro piano. Controllai che la porta sul retro fosse libera ma anche quella era circondata, l’unica cosa che mi rimaneva da fare era farmi strada a colpi di ascia sparando ai bersagli più lontani, quindi caricai in spalla i due fucili insieme allo zaino e aprii la porta.
Il sole colpì il mio viso riscaldando le mie guancie fredde mentre il vento intorno a me faceva sventolare il mio maglione.
Alzai l’ascia pronta a colpire il primo zombie che si parò davanti. Un colpo secco, preciso e la sua testa era già volata ad alcune decine di metri lontana da me, poi presi la mira e sparai a tre zombie che si stavano avvicinando.
Alternai colpi d’ascia con spari per potermi fare strada tra quell’ammasso di carne putrida e proprio quando credetti di essere riuscita a svignarmela, uno zombie si avventò su di me.
Caddi a terra e nell’impatto sbattei la testa contro l’asfalto ferendomi, il sangue iniziò a colare richiamando tutti gli altri camminatori su di me.
Perfetto, sono fottuta.
L’alito del nonmorto che mi stava sopra era terribile, la sua bocca erano solo denti macchiati di sangue e carne decomposta, la lingua era sparita per lasciare spazio a un grande buco nero. No, non era decisamente un bello spettacolo e di certo non volevo finire così.
Presi il coltello dallo stivale e glielo conficcai nella testa girando il manico, lo zombie cadde su di me privo di vita e questa volta per davvero. Lo scansai, raccolsi le cose cadute e corsi verso la macchina dove mi chiusi dentro. Respirai di sollievo e mi rilassai appena appoggiando la schiena al sedile.
Guardai la mappa per essere sicura di aver tracciato il percorso giusto. Quel giorno avevo deciso di spostarmi fino a Savannah per poi prendere l’autostrada verso Macon e quindi diritta ad Atlanta.
Avevo aspettato fin troppo in quella piccola cittadina cercando di trovare il minore dei Dixon che sembrava letteralmente sparito nel nulla. Suo fratello era in qualche carcere, o almeno così mi disse Daryl un mese prima quando lo incontrai. Era seriamente preoccupato per Merle e io mi sentii così impotente che pur di vederlo felice lo avrei fatto evadere.
Il primo che conobbi fu proprio il fratello maggiore, diciamo pure per merito di mio padre, poi fu il turno di Daryl.
Sono sempre stata una buona amica dei fratelli Dixon tanto da considerarli parte della mia vita con grande disappunto dei compaesani. La verità è che sapevo che quello che si diceva sul loro conto era vero, non erano proprio dei santi ma non mi è mai importato molto di quello che potevano pensare vedendoci insieme perché non erano cattivi. Lo potevano sembrare per il loro modo di relazionarsi ma bastava solo sapere come prenderle e saper leggere dentro di loro. Infondo non avevano colpa se nessuno ha insegnato loro a comportarsi bene.
Abbandonare le ricerche mi sembrava meschino ma non potevo indugiare oltre, nessuno sarebbe venuto a prendermi e la mia presenza lì non era passata inosservata come speravo. 
 

 
 






 
*angolo dell’autrice*
   Hi guys, eccomi qui con il primo capitolo ufficioso (?)
Allora, ringrazio chi l’ha letta e l’ha inserita tra le seguite e ricordate
anche senza aver recensito e ringrazio doppiamente (?)
chi ha lasciato un piccolo commento (credetemi che per me
sono davvero importanti e non mi offendo se dite che  fa cagare… lo so anche io u_u)
 
do svidanyia, yulen
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo2 ***







Capitolo2






 
Il viaggio fu tranquillo per un po’. Attorno a me c’era solo silenzio rotto dai miei sospiri e dal rumore che le ruote producevano quando prendevano qualche buca facendomi sobbalzare.
Prima di tutto questo odiavo le strade troppo affollate dove ci mettevi ore anche solo per fare cento metri e dove le persone suonavano il clacson nella speranza di smuovere il traffico, ma ora tutta quella solitudine, quelle strade deserte avevano un non so chè di terrificante e qualcosa mi diceva che non era nemmeno l’inizio.
Quella quiete era un invito a lasciarsi andare nel mondo dei sogni tanto che più di una volta le mie palpebre si chiusero facendomi sbandare. Ora rimpiangevo i clacson o le urla isteriche degli automobilisti, almeno quel continuo fracasso mi faceva restare sveglia e vigile.
Guardai la cartina. Ero fuori Brunswick, segno che stavo procedendo sulla strada giusta, in meno di un ora sarei giunta a Savannah e avrei avuto tutto il tempo per cercare della benzina,  un posto in cui risposare e pianificare il viaggio del giorno seguente. Questo era quello che mi prefissai di fare, ma la spia del serbatoio si accese e riuscii a fare solo altri due chilometri prima che la macchina si fermasse del tutto.
Sbottai con un imprecazione e guardai fuori dal finestrino. Guardai a destra e sinistra, vedendo da entrambi i lati il letto di una palude, davanti a me macchine abbandonate, oggetti sparsi per strada, cadaveri, e insegne di quelli che un tempo erano bar e altri luoghi di ritrovo. Da qualche parte doveva pur esserci un posto in cui fare rifornimento di benzina.
Prima di scendere mi tolsi il maglione che sostituii con una canottiera rossa, la vicinanza con quell’acquitrino rendeva l’aria umida e afosa.
Controllai che la zona fosse libera e scesi dalla macchina. La pistola nella fondina e la torcia in tasca, in caso ne avessi avuto bisogno. Non amavo usare armi da fuoco senza silenziatore, ma l’ascia era molto meno maneggevole. Presi la tanica di benzina e mi incamminai per quella strada desolata dove solo fino a poche settimane prima le persone a borde dei loro mezzi sfrecciavano a tutta velocità inconsapevoli del fatto che tutto presto sarebbe cambiato in modo irreversibile senza che gli fosse data la possibilità di salvarsi.
Prima di spingermi verso la città decisi di dare un’occhiata ai serbatoi delle auto lungo i cigli della strada. Non mi piaceva addentrarmi verso quelli che una volta erano centri abitati, c’erano troppi morti che bazzicavano in cerca di cibo e io ci tenevo alla mia pelle. Anche se il mondo era finito, per il momento io volevo vivere. Non sapevo fino a quando avrei potuto farlo, ma non era un motivo valido per arrendersi, anche se ogni giorno mi svegliavo con la consapevolezza che per me sarebbe iniziata una nuova giornata dove, per vivere, avrei dovuto lottare e combattere. Mi alzavo senza ringraziare nessuno in particolare se non me stessa per essere riuscita a sopravvivere qualche altra ora e mi chiedevo costantemente quando avrei incontrato qualcuno di vivo, e con vivo intendevo qualcuno che già vedendomi non mi saltasse addosso per prendermi a morsi, volevo semplicemente qualcuno con cui parlare. Ho sempre odiato la solitudine e per questo ritrovarmi completamente sola mi faceva uno strano effetto, per non dire paura.
«Al diavolo!» imprecai quando non trovai nemmeno un goccio di benzina.
Guardai davanti a me non proprio contenta di entrare in quella piccola cittadina, ma avevo bisogno di carburante per riprendere il viaggio e Savannah non era proprio dietro l’angolo per raggiungerla a piedi.
Sbuffai e poi mi incamminai sotto il sole cocente.
A circondarmi non c’era nulla se non corpi privi di vita e rimasugli di una civiltà ormai caduta in rovina, fatta a pezzi da qualcosa che non si poteva semplicemente uccidere, e mentre camminavo lungo quello che era solo un ricordo di una vita ormai cancellata, mi chiesi quanto tempo rimanesse a me e a qualsiasi altro sopravvissuto prima della completa distruzione del genere umano, perché ero convinta che prima o poi sarebbe successo. Non era come le altre malattie, quella piaga ci avrebbe uccisi. Tutti. E per noi sarebbe arrivato il momento di morire e lasciare che i morti vivessero al posto nostro.
Quando iniziarono a circolare le prime notizie io non ci diedi molto peso e le ignorai. Era impossibile per me credere che delle persone morissero e poi tornassero in vita per mangiare i loro simili, sembrava solo la trama di uno scadente film horror e che di pauroso non aveva nulla. Eppure il mio scetticismo morì nello stesso istante in cui iniziarono a farlo le persone. La vita finì semplicemente come se non fosse mai esistita, lasciando solo qualche traccia di quello che c'era prima.
Guardai l’insegna della pompa di benzina sulla quale c’era una grande croce rossa, messa a segnalare che lì non era rimasto nulla.
«Grandioso» sbuffai.
Mi voltai per trovarmi di fronte a un altro distributore. Non ci sperai troppo di trovare benzina ma tentai lo stesso.
Mi guardai attorno sospetta, quella calma non nascondeva nulla di buono ma non avevo tempo per pensare alla fortuna che quella volta sembrò girare dalla mia parte.
Attraversai velocemente la strada e cercai qualche segno che mi dicesse che lì non era rimasto nulla ma non vidi né croci né cartelli. Solo una pompa di benzina rossa un po’ scrostata, sotto si intravedeva già il colore grigio. Accanto a quella, altre dello stesso colore e nelle stesse condizioni. In un parcheggio alla mia sinistra notai un furgone azzurro e bianco parcheggiato insieme ad altre macchine. C’era anche un mezzo anfibio appartenente all’esercito e mentre riempii la tanica con la benzina rimasta valutai le varie opzioni.
Potevo recuperare solo il carburante che comunque non sarebbe bastato, fare poche miglia e fermarmi nel bel mezzo del nulla con il rischio di rimanere bloccata e circondata dagli zombie o controllare il parcheggio e trovare qualcosa di utile. Magari munizioni. Se avessi avuto fortuna avrei potuto far partire il blindato, così sarei stata a cavallo.
Tornai alla mia auto, lasciai giù la tanica, presi un borsone vuoto e andai verso il parcheggio.
Aprii la porta del mezzo ma dentro trovai solo due granate, un razzo segnalatore e una coperta termica che infilai nella sacca.
Meglio di niente.
L’aria si alzò all’improvviso e il cielo si fece più scuro a causa dei nuvoloni grigi. Da un bosco lì vicino un interno stormo di corvi spiccò il volo come se qualcosa lo avesse spaventato. Tra la vegetazione non vidi nulla di pericoloso eppure qualcosa in quella calma improvvisa non mi convinse. Era infatti un mistero di come la zona fosse sgombra e i pochi cadaveri che c’erano non erano tornati in vita.
Cercai di mettere in moto il blindato, ma la batteria era morta e di certo non potevo smontarne una dalle auto in zona e riassemblarla lì sopra. Mi ci sarebbero voluti giorni per non dire settimane e in ogni caso non avrebbe funzionato.
Smontai e feci un giro del luogo quando finii in quello che una volta era un motel. Dovevo entrare anche se non ne ero convinta. Non volevo trovarmi davanti un’orda.
Aprii la porta della hall che cigolò lievemente, quello che sentii subito dopo fu un scricchiolio proveniente da sopra la mia testa e alzando il capo vidi una delle assi piegata, non feci in tempo a tirarmi indietro che tutto mi crollò addosso producendo un rumore che attirò degli zombie arrivati dal nulla. L’ultima cosa che vidi prima di sbattere la testa e perdere i sensi, fu la faccia di un nonmorto chinarsi verso di me. 
 
 


 


 




 *angolo dell’autrice*
Hey! Ecco a voi il terzo capitolo. So che sembra un capitolo frettoloso e in parte lo è
ma è una specie di capitolo di passaggio quindi è una cosa voluta.
Passiamo ai ringraziamenti.
Ringrazio chi l’ha messa tra le seguite,tra le ricordate e tra le preferite.
Grazie anche a chi ha commentato il capitolo.
  
yulen
 

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Capitolo 4
*** Capitolo3 ***






Capitolo3






 
Mi sentii scuotere con forza, come se ci fosse un forte terremoto. Avevo freddo, sentivo dei piccoli brividi farsi strada sulla spina dorsale fino ad arrivare alla nuca ed ero confusa. La testa mi faceva ancora male, cercai di alzare la mano per toccare la parte dolente ma era come se il mio braccio fosse troppo pesante per riuscire da alzarlo. Non riuscivo a capire cosa stava accadendo attorno a me e vedevo tutto buio, poi mi accorsi di avere ancora gli occhi chiusi.
«Kate».
Qualcuno mi stava chiamando, era una voce che conoscevo, o almeno così mi sembrava. Era profonda e rassicurante.
Aprii piano gli occhi mentre tutto attorno a me appariva sfocato, come avvolto da una specie di patina che copriva e proteggeva tutto. Sentii qualcuno tirarmi su a sedere e ancora quella sensazione di familiarità arrivò a scuotermi. 
«Kate!». Di nuovo quella voce ma questa volta era più forte.
Dei piccoli schiaffetti sulla guancia ebbero il potere di riportarmi alla realtà. Girai la testa un paio di volte riuscendo a distinguere i mobili nella stanza. Dovevo essere in una sala, o quel che ne rimaneva. Vidi un televisore ribaltato a terra vicino a una finestra sbarrata, un tavolino basso posto sopra un tappeto e delle mensole con oggetti vari appese ai quattro lati della stanza. C’erano anche un grande vaso con fiori che stavano appassendo vicino a una porta, un acquario privo di acqua e dei suoi abitanti e una lampada da pavimento posta vicino alla porta della cucina. Notai anche due divani ricoperti da un telo bianco come quello che stringevo tra le mani e mi accorsi che i divani erano tre. 
Scossi leggermente la testa per scacciare quel senso di smarrimento e spalancai gli occhi in segno di stupore quando mi ritrovai faccia a faccia con quella persona che a lungo avevo cercato.
«D-Daryl?» chiesi balbettando.
«Questa mattina quando mi sono guardato allo specchio era ancora io» rispose ironico.
Lo guardai di sbieco ricordandomi che gli volevo bene anche per il suo essere scontroso e intrattabile.
Si allontanò da me dopo essersi assicurato delle mie condizioni e improvvisamente desiderai di sentirmi male di nuovo solo per poterlo guardare negli occhi. Quel suo colore mi aveva sempre affascinata e intimorita allo stesso tempo. Aveva un non so ché di magnetico.
«Avevi intenzione di diventare un’esca?» chiese armeggiando con qualcosa.
«I-i-io credo di… uhm…».
Ma da quando balbetto? 
Mi portai una mano alla testa dove sentii un lieve rigonfiamento. Appena sfiorai la ferita feci una piccola smorfia di dolore.
«Qualcosa mi è caduto addosso» risposi alzandomi in piedi e risedendomi poco dopo per un terribile capogiro.
Poi mi ricordai di essere scesa dalla mia auto fuori Brunswick. La macchina sulla quale viaggiavo aveva usato fino all'ultimo goccio di carburante ma non era bastato e quindi decisi di scendere e andare a cercare della benzina per riprendere il viaggio.
«Ti ho cercato a casa ma non ti ho trovato, pensavo fossi con tuo fratello» dissi mormorando l’ultima parola.
S’irrigidì ma non rispose. Era seduto davanti a me e mi dava le spalle. Stava curvo su sé stesso intento a smanettare con qualcosa, solo un paio di volte alzò la testa per guardare le finestre sbarrate. Tornai a sedermi sul divano per poterlo studiare di profilo, non che fosse la prima volta che lo vedevo. Lo conoscevo da più di vent’anni ma mi persi ugualmente a osservare la curva delle labbra sottili, il taglio degli occhi di un azzurro chiarissimo, la forma degli zigomi e quello del suo naso che, quando ero piccola, mi divertivo tante volte a prendere tra l’indice e il pollice per poi strapazzarlo. I suoi capelli corti erano appiccicati alla fronte per il sudore e alcune goccioline colavano lungo le tempie. La cosa che però mi colpiva ogni volta che lo guardavo era la cicatrice sopra il ciglio sinistro, quella era l’unica visibile quando scostava il ciuffo che gli ricadeva davanti. Le altre, quelle esterne e quelle interne, le teneva ben nascoste dietro un muro che pareva insormontabile.
Il mio sguardo scese sulle braccia e avvertii uno strano calore al basso ventre seguito da una specie di scarica. Le ginocchia mi tremarono appena.
Fortuna che non sono uomo.
«Ugh» gemetti stringendo le gambe.
Lui sembrò accorgersene perché mi guardò per un istante prima di tornare a fare quello che stava facendo. 
I miei occhi si persero sui muscoli dei bicipiti che si contraevano quando li metteva sotto sforzo e pensieri poco puri presero il pieno controllo della mia mente. Era sempre stato così con lui ma non mi ero mai spinta oltre, non volevo rovinare quell’amicizia che durava da anni ormai.
Mi schiarii la gola come per togliermi un nodo e abbassai lo sguardo. Il colore delle mie gote era di un rosso particolarmente acceso. 
Osservai rapita i suoi movimenti mentre puliva la sua pistola con la stessa cura e attenzione con la quale faceva qualsiasi altra cosa e sobbalzai ricordandomi delle armi e del cibo lasciati in macchina. 
Mi rialzai cercando di fare piano per non sentirmi male di nuovo. Trovai la mia ascia e la pistola vicino alla porta dove c’era anche la sua balestra.
«Dove vai? »chiese percependo i miei movimenti.
«Fuori città ho la mia auto, dentro ci sono le mie armi e le mie scorte di cibo» risposi.
«È buio».
«Ho la torcia».
«Non puoi aspettare domani mattina?» chiese sbuffando.
Ci pensai su, per i due fucili forse avrei potuto fare un’eccezione ma i crampi allo stomaco iniziavano a farsi sentire prepotenti e dovevo assolutamente mettere sotto i denti qualcosa se non volevo svenire.
 «Ho fame» mormorai toccandomi il torace.
Sbuffò di nuovo e poi si alzò per prendere il suo zaino e lanciarmelo senza guardarmi.
Sorrisi in modo ebete. Era decisamente da lui comportarsi in quel modo eppure non riuscivo ad arrabbiarmi, adoravo il suo carattere burbero ma che nascondeva un grande cuore. Pochi hanno avuto la possibilità di vedere anche quel lato di lui e io ero una di quelle e ne ero davvero felice.
«Dovrebbe esserci qualcosa lì dentro» disse.
Lo aprii ma a parte l’acqua c’era solo carne in scatola. Arricciai il naso disgustata.
« Daryl» lo richiamai. «Sai che sono vegetariana».
«Sì e allora?» chiese di nuovo senza guardarmi.
«Qui c’è solo carne» risposi guardando il contenuto dello zaino.
Si voltò per scrutarmi e benché fossi vestita, mi sentii stranamente nuda tanto che incrociai le braccia al petto e abbassai lo sguardo verso il pavimento per nascondere il colorito del viso divenuto di nuovo rosso come un pomodoro. 
«Hai bisogno di mangiare se non vuoi…» si bloccò per un istante e sembrò esitare. «Se non vuoi essere tu il piatto principale. Quindi chiudi quella bocca e mangia» finì con il suo solito tono.  «Sei più deperita di loro. Sai che ti stavo per scambiare per uno zombie quando ti ho trovata?».
Che tatto, un vero signore.
Presi lo zaino e recuperai una scatoletta. La guardai con sguardo truce come se da un momento all’altro potesse aggredirmi e l’aprii. L’odore di carne mi entrò nelle narici, ed era così forte che avvertii un altro conato salirmi alla gola. La richiusi e mi allontanai prima di rigettare anche la bile.
Era una cosa più forte di me. Non mi è mai piaciuta l’idea di uccidere, nemmeno per mangiare e anche se il mondo era giunto al termine per me non cambiava nulla. Privare la vita di un essere vivente era un sacrilegio.
 «Che rompicoglioni che sei. Dov’è la macchina?» sbuffò prendendo la balestra.
«Vengo anche io» risposi decisa.
«No. Saresti solo un peso, non ci metterò molto. Ho il mio furgone»
«Vengo anche io»ripetei ignorandolo. «Devo ancora trovare altra benzina per il viaggio»
Mugugnò qualcosa che non riuscii a capire ma lo conoscevo bene per questo ero abbastanza sicura che stesse inveendo aggiungendo anche qualche insulto verso me e l’Onnipotente. 
«Ti muovi?» chiese evidentemente scocciato.






 



*angolo autrice*
Hi guys!
Con sorprendente anticipo sono riuscita a pubblicare il capitolo 4, e pensare che avevo intenzione di rimandarlo a dopo
le vacanze di Natale a causa di poca fantasia e degli impegni scolastici… e invece eccomi qui.
Grazie davvero a chi la sta seguendo e recensendo e ringrazio anche ai lettori silenziosi, che zitti, zitti stanno seguendo i sviluppi.
Un bacio a tutti,

yulen

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Capitolo 5
*** Capitolo4 ***






Capitolo4






 
«Dove stiamo andando?» chiesi con lo sguardo volto verso la strada.
L’asfalto sotto di noi sembrava un lungo tappeto nero, le uniche luci accese erano quelle del mezzo sul quale stavamo viaggiando e quello delle stelle poste in cielo. La luna brillava di una luce riflessa molto intensa. Tutto attorno a noi era silenzioso, come se la vita fosse stata spazzata via e solo i nostri respiri, insieme a quello delle ruote sulla strada, rompevano quella quiete.
La vita era sempre stata così caotica che mi abituai fin troppo a tutti quei rumori e suoni, che fosse stata la risata di un bambino o la musica di qualche bar, e ora che non dovevo guidare mi presi del tempo per guardare tutta quella desolazione, per accorgermi che di tutto ciò che conoscevamo un tempo ne era rimasto solo un grande e insopportabile silenzio e ciò che non sapevo se mi spaventavano di più fossero i lamenti di quei esseri o il fatto di non riuscire a percepire nemmeno quello.
Alzai lo sguardo verso il cielo buio e cupo, la luna e le stelle ci accompagnavano in questo viaggio, vegliando su di noi come degli angeli custodi, e involontariamente mi lasciai sfuggire una lacrima quando mi ricordai ciò che mi disse mio padre quando ero ancora una bambina.

 
 
 
«Papà, di cosa sono fatte le stelle?».
«Le stelle sono coloro che non ci sono più» disse inginocchiandosi e facendomi sedere sul suo ginocchio.
Prese una mano nella sua e la puntò verso la volta scura indicando un punto luminoso.
«Quella è la mamma» disse con un sorriso.
«Ma come fanno restare appese?» insistetti dubbiosa.
«Hanno le ali come gli angeli, tesoro. Ognuno di noi ha una piccola luce dentro di sé, quando moriamo questa luce sale in cielo e resta lì insieme alle altre stelle a proteggere chi ancora vive».

 

 
 
E anche se ero cresciuta, volevo pensare che anche lui ora fosse uno degli astri più luminosi. Era un modo per sentire meno la sua mancanza.
Abbassai lo sguardo verso il ciglio della strada deserta, solo qualche vagante continuava la sua inesorabile camminata per cercare cibo e quando udiva il rumore della nostra auto, tendeva le braccia per cercare di afferrarci. In quel momento mi chiesi se davvero non avessero un briciolo d’intelligenza per capire che non sarebbero mai riuscirti a prenderci.
«Tu dove eri diretta?» chiese Daryl.
«Uhm, Atlanta. È così che mi ha detto di fare la polizia la sera stessa del contagio, hanno detto che c’è un centro rifugiati».
«Perché non lo hai fatto?».
La sua voce si fece improvvisamente dura ma sapevo che voleva solo nascondere il fatto che si era preoccupato per me. Ghignai soddisfatta nel vedere che quella sua aria burbera era solo una maschera.
Perché volevo trovare tuo fratello e te, idiota.
«Complicazioni» risposi. «Ma non credo ci sia ancora, le trasmissioni si sono interrotte all'improvviso».
«Trasmissioni?» chiese con una punta di curiosità.
Annuì ricordandomi dei messaggi registrati. Dicevano che c’era protezione e benché nulla potesse confermarlo, io volli provarci lo stesso, non avevo nulla da perdere. Beh, a parte la vita.
«Sarei andata fino a Savannah, avrei preso l’imbocco per Macon e poi verso Atlanta ma sono rimasta senza benzina, per questo ero scesa».
Presi il mio zaino e cercai una delle bottiglie che avevo. Sentivo in bocca e giù per la gola quel terribile sapore avvertito quella stessa mattina, un sapore terribile di cibo scaduto. Bevvi un sorso e gettai la testa all'indietro aspettando che l’acqua scendesse da sola.
«Dove stiamo andando?» chiesi nuovamente e mi portai alle labbra la bottiglia un’altra volta.
«Io vado a riprendermi Merle».
L’acqua mi andò di traverso e per poco non la sputai. Tossii un paio di volte per schiarirmi la gola nella quale sentii un lieve pizzicorio.
«Sta attenta o ripulisci tu».
Lo guardai stupita, sapevo che stava facendo sul serio. Nei suoi occhi c’era una luce di determinazione, un fuoco che bruciava e mi spaventai nel vederlo così deciso.
Il rapporto che aveva con suo fratello era invidiabile, era l’unico che contasse qualcosa nella sua vita e non ne capii il motivo fino quando non scoprii quello che accadeva all'interno della sua famiglia.
Non potevo credere che loro padre, l’uomo che avrebbe dovuto proteggerli, era quello da cui volevano scappare e cosa ancora più triste, era il responsabile delle loro cicatrici e del loro comportamento.
Credevo di avere una brutta vita solo perché ero senza madre, e per un periodo odiai tutti quelli che ne avevano una che li baciava prima di andare a dormire, ma quelli che davvero avevano un’esistenza difficile erano loro, che nonostante tutto cercarono di andare avanti, raccogliendo i piccoli pezzetti di loro che cadevano e ricostruendoli per formare la loro corazza, consapevoli che pur cercando di adattarli, non sarebbero mai tornati al loro posto.
Ricordo ancora tutte le volte in cui, da bambina, vedevo Daryl seduto sul ciglio della strada mentre lanciava sassolini verso l’asfalto grigio, il più delle volte aveva graffi e lividi ma non piangeva, erano le ferite a farlo al posto suo. Lunghe scie di un liquido scarlatto prendevano il posto delle lacrime che versava quando era solo così che nessuno potesse vederlo così debole. La verità è che avrei tanto voluto abbracciarlo in quei momenti e fargli capire che io c’ero, ma non potevo fare nulla di più se non sedermi affianco a lui in silenzio e guardarlo, e anche se a me sembrava niente, per lui significava molto. Potevo dirlo dal modo in cui smetteva di tremare e da come si tranquillizzava prima di tornare a irrigidirsi quando sapeva che doveva tornare a casa.
«Tuo padre?».
Abbassai lo sguardo sulle mani e giocherellai con le dita.
«È morto» dissi semplicemente.
Avevo un nodo alla gola che mi faceva male e m’impediva di parlare.
Chiusi gli occhi e mi sistemai comodamente sul sedile. Ero molto stanca e più volte mi trovai in uno stato di dormiveglia dove tutti i suoni diventarono ovattati e persino la cadenza del rumore dell’auto sembrò una dolce melodia a invitarmi nel mondo di Morfeo.
Le palpebre si fecero sempre più pesanti ma decisi che quella volta non avrei dormito. Avevo troppa paura degli incubi e di ciò che c’era al loro interno, anche i sogni in cui tutto appariva bello come una volta mi spaventavano. Non volevo vivere - anche se solo per poche ore - in un mondo di finzione e poi risvegliarmi e guardare la morte negli occhi.
«Parliamo?» chiesi pur sapendo che non era un gran chiacchierone.
Mi guardò per un istante come se avessi appena detto una barzelletta e volse di nuovo l’attenzione verso la strada.
«Non voglio fare tutto il viaggio con te che ti lamenti per qualsiasi stronzata» rispose secco.
Assunsi un’espressione imbronciata e spostai lo sguardo da lui ai miei dread. Cercai in una delle tasche dei pantaloni l’uncinetto che portavo sempre con me, e iniziai a sistemare le punte già perfette. Avrei fatto qualsiasi cosa pur di restare sveglia, anche continuare il viaggio a piedi e magari inseguita da qualche non morto. Lo avrei preferito. Poi vinsi la riluttanza e mi addormentai.

 



 
 



*angolo autrice*
eccomi di nuovo qui… in ritardo.
È che sono stata inseguita da un’orda di zombie e… no ok, non è una scusa valida, ma chiedo venia,
volevo aggiornare il mese scorso ma ero rimasta senza internet e quindi ho dovuto rimandare.
Comunque, il fatto di essere rimasta lontana così tanto tempo ha avuto una lato positivo;
ho avuto più tempo a disposizione per scrivere quindi ho quasi pronto anche il capitolo sei,
in questo modo non credo che passerà tanto tempo fino al prossimo aggiornamento,
anzi, credo che entro questa settimana riuscirò a pubblicare anche il sesto, devo solo correggerlo. 
*saluta con la mano*
Ciao, ciao,
yulen

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Capitolo 6
*** Capitolo5 ***


 




 

Capitolo5






 
Aprii gli occhi e sobbalzai sul sedile. Avevo il fiatone e portandomi una mano agli occhi sentii che erano umidi, come se avessi pianto.
«La prossima volta che ti metti a urlare ti lascio dove sei».
Daryl. La sua voce mi arrivò lontana, come se non fosse lì con me.
Guardai l’abitacolo del furgone con aria confusa e ancora assonnata. La luce del sole appena sorto rischiarava tutto. Il cielo era illuminato dalle prime luci del mattino e passava dal rosa confetto, all’indaco, al blu scuro ancora legato alla notte appena trascorsa.
Tremai al ricordo di quell’incubo, anche quando sognai mia madre c’era il sole, ma poi scomparve per lasciare spazio alla desolazione più assoluta, all’angoscia e alla tristezza.Pensai che lei fosse molto fortunata poiché non dovette nemmeno assistere ai i primi segni di infezione che di lì a poco avrebbero piegato non solo l’America ma tutto il mondo.
«Ho fatto un brutto sogno» biascicai con la voce ancora impastata dal sonno.
Mi stiracchiai per risvegliarmi dal torpore e mi ricomposi. Mi sentii carica anche se il sogno fu tutt’altro che tranquillo. 
«Ti canto una ninna nanna? Chissà che non funzioni» commentò sarcastico.
Lo guardai accigliata, a volte davvero non lo sopportavo.
«Se tu mi avessi aiutato a cercare del carburante non mi avresti tra i piedi» risposi, la voce leggermente alterata dalla rabbia. «Oppure avresti potuto lasciare che facessi l’esca, o meglio ancora,» dissi e mi voltai per guardarlo. «visto che ti sembravo uno zombie avresti potuto uccidermi».
Rallentò fino a fermarsi completamente e spostò lo sguardo dalla strada a me per poter guardarmi meglio. Fu solo un secondo eppure rimasi vittima di quella catena che venne a crearsi tra i suoi occhi azzurri ai miei color nocciola.
Mi morsi l’interno della guancia per punirmi di aver parlato senza riflettere e, per evitare di doverlo guardare, mi voltai incrociando le braccia al petto.
Lui riusciva a far perdere la pazienza a chiunque, a me soprattutto. Sapevo che il suo modo freddo di comportarsi era dettato dall’insegnamento che suo fratello gli aveva inculcato, ma a volte non riuscivo proprio a reggerlo, sembrava quasi lo facesse a posta per mettermi alla prova o semplicemente per allontanarsi.
«Se volevi morire potevi dirmelo prima» sbottò.
«Te lo sto dicendo ora. Fammi scendere» risposi slacciandomi la cintura di sicurezza.
Come se non avessi detto nulla, accelerò all’improvviso per ripartire e io fui costretta ad aggrapparmi allo sportello.
Ero arrabbiata con lui ma sapevo che sarebbe durata poco, il tempo di calmarmi. Voltai il capo verso il finestrino che abbassai per focalizzarmi sul paesaggio che spariva appena noi gli passavamo accanto. Alberi, asfalto, cielo, sole e ancora qualche stella si fondevano per creare un unico e bellissimo panorama. Sembravano un insieme di un quadro astrattista e se avessi avuto tempo a sufficienza, sarei rimasta lì a guardarlo, avrei preso la macchina fotografica che portavo con me, e avrei cercato di catturare quel momento.
Mi sporsi oltre il bordo con il viso per sentire il vento accarezzarmi la faccia per darmi il buon giorno, e lasciai che quella sensazione di benessere portasse via la rabbia. I viaggi hanno sempre avuto il potere di calmarmi, ogni volta che ero nervosa mi bastava salire in macchina, accenderla e partire senza avere per forza una meta; era il mio metodo per gestire la rabbia.
Mi sistemai sul sedile e riallacciai la cintura di sicurezza, noncurante di come quel gesto potesse sembrare stupido visto che non c’erano più poliziotti e non c’era pericolo di incidenti stradali, ma ho sempre avuto la mania di metterla. Lo facevo anche da bambina, avevo paura che potesse succedere qualcosa. Temevo che se qualcuno fosse venuto a rapirmi e portarmi via, con la cintura allacciata non ci sarebbe riuscito.
Tornai a guardare il paesaggio svanire non appena il furgone gli sfrecciava accanto e mi sembrò una proiezione della mia vita passata. Frammenti di ricordi passarono veloci per poi sfocarsi e dissolversi, e in quel frammento di secondo qualcosa scattò in me, qualcosa che urlò che da quel momento in poi sarebbe sempre stato così.
«Maledizione!» imprecò  Daryl frenando lentamente.
Guardai prima lui poi la strada notando la cisterna di un camion davanti a noi e sbuffai anche io accasciandomi contro il sedile. Ci mancava solo quella di restare bloccati in un’autostrada circondata dal bosco che nascondeva solo Dio sa cosa. Anche l’altro lato era ostruito da mezzi militari e non c’era modo per passare.
«Scendiamo e troviamo un modo per aggirare questo casino?» chiesi caricando la pistola.
«No, io sgombero la via, tu prendi un borsone e vedi cosa trovi» rispose senza degnarmi di uno sguardo.
Si caricò la balestra in spalla e scese mentre io lo seguii qualche istante dopo, guardandomi attorno in modo sospettoso. C’erano auto lasciate aperte, altre ribaltate, altre sembravano bruciate e ce n’erano alcune smontate da qualcuno di passaggio in cerca di ricambi. Guardai con maggiore attenzione i cadaveri sparsi per essere sicura che non si rialzassero e non tentassero di mordermi. La puzza dei loro corpi decomposti era molto forte e il caldo aumentava notevolmente l’intensità dell’odore.
Presi uno dei borsoni ancora vuoti e mi incamminai verso quei rottami.
«Kate» mi richiamò.
Mi voltai verso di lui curiosa di sapere cosa avesse da dirmi, forse voleva scusarsi per prima, ma come quella malsana idea arrivò, se ne andò subito dopo. Lui non si scusava mai, nemmeno se era in torto.
Sembrò esitare per qualche istante anche se l’espressione sul suo volto rimase la stessa di sempre. La stessa che aveva quando era arrabbiato, quando era divertito – cosa che accadeva davvero raramente – e quando era nervoso. Solo quando si concentrava cambiava qualcosa nei suoi modi di fare, il suo guardo si focalizzava su ciò che stava facendo e gli occhi brillavano di luce propria.
«Non allontanarti da sola» disse girandosi per non guardarmi.
«Ti preoccupi per me?» lo provocai.
La risposta alla mia domanda non tardò ad arrivare e fu come ricevere una stilettata dritta al cuore.
«Figurati, non voglio dover salvare quel tuo inutile culo di nuovo».
Lo guardai delusa e me ne andai dalla parte opposta alla sua. Sentii le lacrime inumidirmi gli occhi ma non volli piangere, non sarebbe servito a nulla e non ne sarebbe valsa nemmeno la pena. Sapevo che non era serio ma le sue parole ebbero comunque il potere di ferirmi, e quando sentii la rabbia montare in me, persi completamente l’autocontrollo che avevo di solito. Lo guardai contrariata e camminai a passo spedito verso di lui.
«Non te l’ho chiesto io di salvare il mio inutile culo» sbottai a denti stretti. «Se sono solo un peso per te è meglio che me ne vada. Quando trovi Merle salutamelo».
Mi voltai per tornare al furgone e raccogliere la mia roba. Non stavo ragionando lucidamente, era la rabbia che mi faceva agire ma non mi importava, ora che sapevo che stava bene potevo andarmene, avrei voluto vedere anche suo fratello ma non volevo restare vicino a lui un secondo in più.
Organizzai tutto ciò che avevo in tre borsoni che poggiai a terra prima di raggiungere la parte del passeggero per prendere anche il mio zaino. Aprii la portiera che si richiuse subito dopo con un forte colpo, sobbalzai sorpresa ma non mi scomposi più di tanto quando percepii una presenza dietro di me. Sapevo già chi fosse.
Restammo in quella posizione per secondi, forse minuti, il tempo che mi servì per essere sicura di non scoppiare a piangere e tornare a respirare normalmente, non volevo voltarmi e dargli quella soddisfazione. Lasciai che altri attimi di silenzio riempissero l’aria tra noi due e quando anche il suono del nulla diventò troppo rumoroso per le mie orecchie, lo guardai.
«C’è qualcosa che ti serve?» chiesi.
Non ricevendo alcuna risposta, sorrisi. Ma fu un sorriso amaro, di quelli che si fanno quando non si hanno parole da dire, o quando non si vuole scoppiare a piangere. Era ovvio che non mi avrebbe mai chiesto di restare.
Allungai il braccio per riaprire la portiera ma lo ritrassi quando sentii qualcosa sfiorarmi il fianco sinistro.
Fui travolta da una forte scarica che fece battere il cuore più veloce quando vidi la sua mano avvicinarsi alla serratura del furgone seguito da un “clack”. Guardai la levetta abbassata e capii che aveva chiuso a chiave il mezzo per impedirmi di andarmene.
Aprii la bocca in cerca di qualcosa da dire ma fu come se non riuscissi a costruire una frase che sembrasse anche solo lontanamente di senso compiuto. “Stupida” fu l’unica parola a cui riuscii ad attribuire un significato. Ero stata stupida a reagire in quel modo, e lo ero stata ancora di più a fare domande di cui non volevo sentire la risposta.
Stupida. Stupida. Stupida. Stupida. 
Cercai di voltarmi ma le mie gambe sembrarono capaci di muoversi solo all’indietro, e solo quando mi accorsi di un braccio sfiorarmi il fianco destro, realizzai che lui era ancora lì, con il palmo della mano sinistra appoggiato sulla maniglia del furgone, e la mano destra, dove tra il pollice e l’indice c’era un piccolo tatuaggio, sullo specchietto.
Restai a guardare quella piccola macchiolina a forma di stella tra le due dita per un tempo che mi sembrò infinito. Dovevo allontanarmi per riuscire a respirare e non soffocare nell’aria che sembrò essersi concentrata nel punto in cui eravamo noi due.
Racimolai quel poco coraggio rimasto e mi voltai verso di lui scontrandomi con quei zaffiri che aveva al posto degli occhi. Persi il contatto con la realtà per una frazione di secondo quando dentro il suo sguardo lessi tutto ciò che non aveva mai esternato e tra migliaia di emozioni e sentimenti, uno prevalse sugli altri. Vidi il dolore di tutta una vita malcelato dietro a finta indifferenza e, senza nemmeno pensarci, lo abbracciai.
Sentii i suoi muscoli irrigidirsi fino a sembrare quasi dei blocchi di cemento armato sotto il mio tocco, ma non mi scostai e la cosa che mi sorprese fu che lui né si allontanò come mi aspettai che facesse, né ricambiò, restò semplicemente lì e mi sembrò di ritornare indietro, quando eravamo bambini e quel gesto era più naturale e spontaneo, grazie all’innocenza di quell’età spensierata per me, cupa e fredda per lui, e mentre eravamo ancora attaccati – o meglio, io lo ero, lui stava semplicemente in piedi con le braccia lasciate cadere lungo i fianchi – sentii il suo respiro diventare irregolare, segno che quella vicinanza improvvisa lo stava mettendo a disagio. A malincuore mi staccai da lui e dal calore del suo corpo, mormorai un “scusa” e mi dileguai per prendere una sacca vuota prima di rovistare tra le varie auto senza mai guardarlo.
Iniziai a recuperare tutto ciò che di utile era rimasto in un tremendo silenzio interrotto solo dal cinguettio degli uccelli o dal rumore delle macchine che venivano spinte ai bordi della strada.
Poche volte mi concessi il lusso di osservarlo lavorare e tutte le volte mi sentii in colpa per il mio comportamento. Sapevo che dovevo smetterla di torturarmi in quel modo o dire ogni volta che era stato un errore mio, ma non potevo. Farlo lo avrebbe allontanato e io gli ero troppo affezionata.
Potevo sopportare di litigare con tutti gli altri miei amici, con mio padre, ma non con lui. Insieme a suo fratello era l’unico che potevo davvero definire amico perché non mi giudicavano, non mi stavano col fiato sul collo ogni qualvolta facevo qualcosa di sbagliato minacciando di dirlo a mio padre, e non era perché a loro non importava di me, ma perché mi ritenevano abbastanza grande e matura da poter decidere da sola cosa fare.
Anzi, delle volte capitava pure che Merle mi incitasse a fare qualcosa di estremamente stupido solo per divertirsi una volta che i miei tentativi fallivano e io, forse ancora più stupida, accettavo ma non per sentirmi alla loro altezza o per sembrare più grande, non avevo un vero motivo per cui agivo in quel modo se non perché erano sfide e a me le sfide piacevano anche se non tutte le vincevo, e se in due settimane ero ruscita a sopravvivere da sola, fu solo grazie a loro e agli interminabili pomeriggi passati nei boschi dove mi insegnarono quali bacche erano commestibili, quali fughi erano velenosi e come seguire i sentieri tra la vegetazione per non perdermi.
Alzai lo sguardo verso il cielo che si stava tingendo di rosso all’orizzonte. Il sole stava tramontando, non saremmo mai riusciti a tornare indietro in tempo per la notte, e comunque non avevo intenzione di camminare. Avevo i piedi indolenziti a causa delle precedenti ore passate a camminare in un’autostrada deserta, non sarei riuscita a fare un solo miglio in più senza crollare al suolo privata di qualsiasi forza.
Ci serviva un posto dove ripararci per non diventare dei cadaveri ambulanti.
Raggiunsi Daryl intento a togliere il freno a mano da un’Audi e gli feci notare che la notte stava giungendo.
«Non riusciremo mai a tornare al furgone. Qualche idea?».
Dopo aver spinto anche quell’auto, riacquistò la sua solita postura composta, raccolse la sua fidata balestra da terra e avanzò tenendola sollevata. Fece dardeggiare lo sguardo dal bosco alle carcasse di auto e corpi senza nemmeno degnarsi di rispondere.
«Senti, c’è un paesino poco distante da qui, possiamo riposarci e domani mattina, alle prime luci potremo riprendere il nostro lavoro» proposi.
Da parte sua continuò ad arrivare il silenzio più assoluto.
Sbuffai irritata e mi voltai verso sinistra.
«Sai che prima ti chiedevo dove dovevamo andare… ah, ecco. Sì, sì. Hai proprio ragione» dissi inscenando una conversazione con un amico immaginario.
Sperai almeno così di riportare la sua attenzione su di me, ma fu tutto inutile, sospirai e accelerai il passo.
«D’accordo, vado da sola».
Come se avesse recepito solo quella parte del mio discorso mi raggiunse e si accostò a me, ma non disse nulla. Doveva essere ancora arrabbiato per prima, per questo non insistetti nel costruire un vero e proprio discorso.
Senza accorgermene strinsi di più la pistola tra le mani fino a far diventare le mie nocche bianche, inconsciamente gli avevo detto che volevo morire ma una parte di me non ne era molto sicura. La morte mi spaventava, sin da quando ero piccola, perché avevo paura che fosse tutto buio, morto per l’appunto, e guardando con disgusto quei cadaveri, mi accorsi che c’era vita per quanto quella potesse definirsi tale. Per questo non volevo morire. Non volevo diventare uno zombie e uccidere…
Deglutii a fatica e mi feci pallida all’improvviso, non volli nemmeno pensare a un’ipotesi del genere.
«Daryl…» iniziai.
«Mmmh?» fu la sua risposta.
«Se dovessero mordermi tu…» mi fermai esitando. Il coraggio di continuare quella conversazione mi mancò all’improvviso. «Mi uccideresti prima che mi trasformi?».
«Non accadrà» rispose riprendendo a camminare.
«Non puoi saperlo» mormorai.
«Non lascerò che succeda» disse sicuro di sé.
Scossi la testa e lo feci fermare di nuovo. Mi posizionai di fronte a lui per guardarlo negli occhi.
Era una cosa che non avrebbe potuto impedire, probabilmente sarei morta nell’arco delle prossime otto ore e lui non avrebbe potuto fare niente se non guardarmi esalare il mio ultimo respiro prima di andarmene.
«D’accordo» sbuffai. «Ma lo faresti se venissi morsa?».
Era una domanda che necessitava di una risposta, io dovevo sapere se lo avrebbe fatto. Non volevo diventare qualcosa che non aveva nulla, che non era nulla se non un ammasso di carne putrida priva di emozioni.
Mi guardò e annuì. «Lo farò».
Respirai di sollievo, mi sentii libera da un grosso macigno che gravava sul mio petto.
Ripresi a camminare facendomi strada tra i rottami. Dentro alcune auto c’erano dei corpi immobili, chi aveva un buco in testa, chi era semplicemente il resto di uno spuntino e c’erano anche dei seggiolini sui quali vi erano resti di ossa e carne di quelli che una volta dovevano essere bambini.
A quella vista il sangue si gelò nelle vene e inorridii. Non riuscii a credere che delle creature così innocenti avessero fatto una fine del genere, era qualcosa che non avrei augurato nemmeno al mio peggior nemico.
Mi chiesi come Dio potesse far accadere una cosa del genere, se era così misericordioso non avrebbe mai permesso che dei bambini, fiori non ancora sboccati, potessero patire quelle sofferenze.
Chiusi gli occhi e mi sembrò di udire le urla strazianti di quelle piccole creature e i lamenti di quei mostri fare a pezzi la loro vita morso dopo morso. Distolsi lo sguardo da quell’orrore quando sentii la bile salirmi alla gola e mi focalizzai sulle prime costruzioni che i miei occhi riuscirono a vedere.
Era un paesino di passaggio, di quelli in cui ti fermavi se ti serviva una sosta prima di riprendere un lungo viaggio. Anche lì vi erano auto abbandonate e lasciate in mezzo alla strada dove vidi anche valige, alcune di essere aperte, e vestiti sparsi sull’asfalto.
Mi bloccai nei pressi di quello che una volta doveva essere un parco dove i bambini andavano a giocare e guardai i fili d’erba muoversi al soffio del vento, pensando che presto non sarebbe rimasto nulla di vivo, nemmeno le piante e il manto verde smeraldo dei terreni in fiore sarebbero diventati aridi, privi di vita. Morti.
Guardai gli stabili prendere forma man mano che ci avvicinavamo, c’erano case, negozi, bar, ma ciò che attirò la mia attenzione fu una stazione di polizia e pensai di sistemarci lì per la notte. Se avessimo avuto fortuna avremmo potuto trovare delle armi e, forse, qualche munizione in più.
«Possiamo stabilirci là dentro per oggi» proposi.
Quando non sentii nulla giungere alle mie orecchie presi il suo silenzio come una risposta affermativa, e dopo essere giunti in prossimità dell’edificio, richiamai di nuovo la sua attenzione.
«Ci dividiamo?» chiesi.
«No, la pistola è troppo rumorosa, continuiamo insieme» rispose. «Devi imparare a usare una balestra o un arco».
«Non ne ho bisogno, ci sarà pur un’armeria in questo posto pidocchioso. Devo solo trovarla e cercare un silenziatore».
Mi guardò poco convinto poi lo vidi ghignare divertito. Capii subito a cosa stava pensando e io non lo trovai affatto divertente.
Nella mia mente si formarono immagini di quel giorno particolarmente caldo.
Era luglio e sembrava di stare all’equatore, l’afa aveva inghiottito tutto nella sua bolla di calore e persino respirare sembrava impossibile tanto che decisi di andare nell’unico posto in cui avrei trovato un po’ di sollievo a quell’inferno. Si trattava di un boschetto lontano dal centro abitato, perfetto per passare una giornata lontana da quel clima davvero troppo torrido.
Mi distesi all’ombra di alcuni alberi con indosso solo il mio costume. Il sole era alto ma non picchiava come nelle città e tirava un leggero vento che, ogni tanto, creava delle piccole onde sulla superficie del lago dove si riflettevano la vegetazione e il cielo limpido di piena estate. Tutto intorno c’era un freschissimo odore di natura pulita e questo era uno dei principali motivi per cui amavo quel posto.
Trascorsi l’intero pomeriggio con gli occhi chiusi a bearmi di quella sensazione di tranquillità trovata in mezzo alla natura. L’aria fresca prese il posto di quella secca e mi sembrò di rinascere, mi sentii come quando avevo la febbre e mio padre posava sulla fronte una sacca d’acqua fredda per allontanare le vampate di calore.
Quando tornai nel luogo dove parcheggiai l’auto trovai anche il furgone di Daryl quindi tornai indietro per salutarlo. Era con suo fratello e avevano appena finito di cacciare. Si trascinavano dietro un cervo, compiaciuti del loro bottino e lamentandosi di come quello fosse stato un arduo lavoro. Onestamente non trovai tutta questa difficoltà nel prendere un’animale, specie se di quelle dimensioni e quando glielo feci notare, Merle mi rispose che quello era un lavoro da uomini e che quindi era normale che io non avessi esperienza, ma quando ribattei che anche una femmina ci sarebbe riuscita lui scoppiò a ridere e lì fu un attimo degenerare in una sfida che sapevo benissimo di perdere.
Voleva che gli mostrassi la mia abilità con l’arco e la balestra e anche se non ero questo granché con quel genere di armi, accettai ugualmente.
Tre volte sole provai ad usare l’ arco e la cosa non andò affatto bene, la prima volta mi tagliai con la corda senza sapere come, la seconda volta la freccia finì ai miei piedi senza essere riuscita a scoccarla per davvero e l’ultima volta tesi la corda ma caddi all’indietro quando la rilasciai. Provai a usare anche la balestra ma era troppo pesante per me. Ricordo che quel giorno fu il primo in cui li vidi ridere e anche se stavano ridendo di me, il mio cuore si riempì.
«Una volta dentro restami vicino» disse strappandomi dai miei ricordi.
«Mm?» chiesi.
Sollevai lo sguardo e incontrai le pareti esterne macchiate di sangue e scrostate in alcuni punti. Lui era già partito e aveva varcato il grande portone su cui c’era una scritta sbiadita divenuta illeggibile.
«Aspetta, non ci serve un piano?» chiesi a bassa voce.
«Te l’ho detto, seguimi e basta»
Si girò nuovamente e perlustrò con sguardo vigile ogni centimetro di quell’antro prima di decidersi a fare un passo avanti.
Il buio era totale e se non fosse per le torce accese a illuminare con quel po’ di luce, sarei finita contro la sua schiena. Sia chiaro, non che la cosa mi sarebbe dispiaciuta.
Aprii la bocca per dire qualcosa ma come mi voltai per chiedergli da dove avremmo dovuto iniziare a visto la grandezza del posto, non vidi nulla se non pareti sporche di sangue e celle al cui interno vi erano rinchiusi una dozzina di nonmorti.
Le gambe mi tremarono appena per la paura, nonostante fossero chiusi dietro le sbarre, una vocina nella mia testa mi disse di non sottovalutarli, per essere sostanzialmente privi di intelligenza sapevano bene come procurarsi del cibo.
Mi guardai attorno notando che gli armadi e i mobili pesanti erano posizionati davanti alle porte, come se qualcosa dall’altra parte non dovesse assolutamente uscire e involontariamente rabbrividii. C’era un motivo se le entrate erano state sbarrate e liberare l’accesso sarebbe stata la cosa più stupida al mondo.
«Daryl?» chiamai non sentendo i suoi passi misurati o il suo respiro calmo.
Forse è uscito. Pensai, ma cambiai idea subito dopo, se avesse aperto la porta l’avrei sicuramente sentito e poi confidavo nel fatto che non se ne sarebbe andato senza di me, non volontariamente.
Il respiro si fece più accelerato e iniziai a sudare freddo mentre le gambe diventarono improvvisamente molli come budino. Strinsi forte il calcio della pistola.
Ma dove ti sei cacciato?
«Guarda che non è divertente» urlai.
Il mio vociare innervosì gli zombie nelle celle lì vicino che iniziarono a premere contro le barre delle celle, i loro lamenti diventarono più forti, poi un rumore proveniente da dietro una porta sbarrata con una macchinetta automatica mi costrinse a voltarmi. C’era qualcosa là dietro e non mi servì aprire la porta per capire cos’era. Maledetta me, il mio urlo, lui e il suo vizio di sparire nel nulla. Diavolo, nemmeno fosse un fantasma.
Dovevo ritrovarlo. Mi voltai e andai a sbattere contro qualcosa. Istintivamente chiusi gli occhi.
Non mi ricordavo che ci fosse un muro.
Appoggiai le mani contro quell’impedimento che non mi consentì di passare oltre e spinsi leggermente per scostarmi. Il palmo della mano sinistrò si scontrò con della stoffa, probabilmente di una maglia, mentre quello destro percorse la pelle di quello che doveva essere un braccio, e capii subito che non poteva essere un muro per due motivi; primo, i muri non indossavano i vestiti e secondo, i muri non erano fatti di carne.
L’ansia si impossessò di me, aprì gli occhi e quando non vidi nient’altro che una sagoma, cacciai un altro mezzo strillo che si sparse nell’aria.





 
 
 



*angolo autrice*
Hi guys!
lo so, lo so. Avevo detto che avrei aggiornato subito ma la penna USB sulla quale avevo i documenti word
aveva 
un virus e così ho dovuto formattarla perdendo tutto il mio lavoro.
Anyway ecco a voi il quinto, mi c’è voluta una settimana per riscriverlo completamente
e giuro che sono persino arrivata 
ad odiarlo.
Rigrazio chi commenta e chi ha messo questa storia tra le seguite
(18 persone, sul serio. Non ho mai avuto così tanti seguaci. 
Ok, così suona brutto, sembra di essere in una setta).
Me ne vado prima di che inizino a volare pomodori.
 
yulen c:

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Capitolo 7
*** Capitolo6 ***






Capitolo6






 
«Che cazzo urli?». 
Quella voce. 
Alzai lo sguardo per vedere l’espressione accigliata di Daryl che mi guardava in attesa di una risposta. Tirai un respiro di sollievo nel constatare che non era uno zombie come pensai all’inizio e mi rialzai.
«Sei tu che sei sparito nel nulla» risposi. «Avresti potuto dirmelo, o rispondermi quando ti ho chiamato. Mi hai detto di restare vicina a te quando poi sei stato tu a sparire. Ho creduto che ti fosse successo qualcosa ed ero spaventata, e poi sai che non è prudente andare in giro da soli. Non sappiamo se tutti gli infetti sono stati rinchiusi o ce ne sono alcuni che vagano per l’edificio e…»
Mi mise una mano sulla bocca e lo guardai confusa. Ma che diavolo gli prendeva?
Cercai di mordergli la mano per liberarmi ma il suo palmo aderiva perfettamente alle mie labbra impedendomi di aprirle e quando provai a dirgli di lasciarmi, mi uscirono solo dei suoni per nulla riconducibili al genere umano.
«Puoi stare zitta due minuti?» sbottò alla fine.
Mi limitai ad annuire e lui si allontanò lentamente per lasciarmi respirare. Dio, lo odiavo quando faceva così.
Mi voltai gonfiando le guance per fargli credere di essere arrabbiata con lui ma valse a poco visto che era ritornato sui suoi passi senza curarsi di sapere se lo stessi seguendo. Guardai prima il distributore automatico ribaltato vicino alla porta e poi l’uscita d’emergenza dalla quale eravamo entrati e pensai che sarebbe stato meglio andarcene davvero prima di attirare l’attenzione.
Raggiunsi Daryl con passi veloci, mi misi alla sua sinistra e lo seguii.
Un sorrisino malefico si fece strada sulle mie labbra e l’idea di iniziare a parlare di nuovo mi balenò nella mente. Non che avessi argomenti interessanti di cui discutere, volevo farlo semplicemente per dargli fastidio, ma quello non era né il momento né il posto adatto per le mie uscite geniali che prevedevano il far perdere la poca pazienza che lui aveva.
Il mio sguardo si posò su un foglio bianco appeso alla parete e mi avvicinai lentamente per guardarlo meglio. Era una piantina dell’edificio appesa con una puntina un po’arrugginita, mentre una delle estremità penzolava libera. Strappai il pezzo di carta e mi avvicinai a una finestra per poter vedere meglio. Era una mappa dell’intera struttura, con quella sarei riuscita ad arrivare ovunque con un po’ di fortuna.
Cercai Daryl che sembrò che fosse di nuovo scomparso nel nulla.
Ma fa sul serio?
Feci per chiamarlo quando lo vidi uscire da una porta lasciata aperta.
«Ho trovato una cartina» dissi.
«Io l’armeria» rispose soddisfatto.
Il mio sguardo si illuminò e lo raggiunsi per sorpassarlo.
Percorsi un lungo corridoio assicurandomi che lui fosse dietro di me fino quando trovai un’altra porta in acciaio. Lessi la targhetta che portava una scritta: ‘Armory’.
L’aprii cauta e sbirciai per essere sicura che fosse libera e, quando ne fui abbastanza sicura, entrai.
Trotterellai da uno scaffale all’altro come se fossi appena entrata in un negozio per fare shopping, solo che in quel momento circondata da tutte quelle armi ero molto più felice. Sembrava che io fossi Alice e quella stanza il Paese delle Meraviglie.
Curiosai tra i vari espositori e gettai nella borsa tutto ciò che riuscii a farci entrare. Un sorriso spuntò sulle mie labbra, soddisfatta di aver trovato ciò che mi serviva. Le armi e i proiettili trovati insieme a quelli nel furgone mi sarebbero bastate per un po’ e i silenziatori mi avrebbero aiutata a non farmi notare. Poi mi feci prendere dal panico, avevamo lasciato il furgone in bella vista e, chiunque, passando avrebbe potuto prenderlo.
«Dovremmo tornare indietro» suggerii piegandomi sulle ginocchia.
Non erano solo le armi a preoccuparmi ma anche i miei borsoni con i vestiti. Il mondo era finito ma questo non voleva dire rinunciare alla propria igiene, io non riuscivo a stare per più di tre giorni senza lavarmi.
«E io voglio una sigaretta, ma non si può avere tutto» rispose.
«Sono seria. E se qualcuno passa di lì e prende le nostre cose?».
«Siamo i primi che passano di qua dopo giorni, probabilmente anche da più di una settimana altrimenti la strada sarebbe stata sgombra. Devono essere tutti ad Atlanta…».
«Al centro rifugiati» finii per lui.
«Dove dovresti essere anche tu».
Roteai gli occhi ma non risposi, non volevo ritornare a discutere con lui, sarebbe stato solo uno spreco di tempo perché alla fine avrebbe vinto lui.
Raccolsi tutto ciò rimasto tra gli scaffali cercando di captare tutti i suoni attorno a noi. A parte i nostri passi e i respiri non c’era null’altro a rompere quel silenzio che si era creato e potevo dire che quella tranquillità, seppur inquietante, mi piaceva. Erano giorni che ovunque andavo sentivo solo lamenti e urla di persone fatte a pezzi dai loro denti e dalle loro unghie, quindi trovarmi isolata dal mondo esterno anche se solo per pochi istanti, mi diede il tempo di allentare la corda.
Mi voltai per prendere le torce da una cassetta posta vicino alla porta quando sfiorai inavvertitamente la sua schiena. Fu un contatto non voluto, causato dalla mia sbadataggine, eppure riuscì a farmi mancare il respiro per alcuni secondi. Ritirai velocemente la mano come se mi fossi scottata e mi voltai dall’altra parte fingendo di aver dimenticato di prendere qualcosa. All’improvviso i brividi sentiti prima si trasformarono in uno strano calore che mi pervase, sentii le guance andare a fuoco e credetti che il cuore potesse balzare fuori dal petto per quanto forte stava battendo. Mi sembrò addirittura che la temperatura nella stanza di fosse alzata di qualche grado.
Una strana sensazione al centro dello stomaco mi scosse fino a farmi tremare leggermente, se ci fosse stato suo fratello in quel momento sono sicura che mi avrebbe presa per il culo fino alla fine della giornata. Il che da una parte mi sarebbe andato pure bene, perché mi avrebbe dato motivo di odiarlo e allontanarmi per non dover guardare nessuno dei due.
D’accorda Kate, va tutto bene. Respira e calmati.
Ma l’autoconvinzione servì ben a poco quando sentì la sua voce chiamarmi.
Era raro che lo sentissi chiamarmi con il mio vero nome, di solito lo faceva quando voleva attirare la mia attenzione - e ciò capitava raramente - ma quando accadeva tutto assumeva un significato diverso, il sole sembrava più luminoso, il cielo più azzurro, i prati più verdi e i fiori più colorati.
Lo raggiunsi in pochi passi e lo guardai caricare la sua fidata balestra.
«Questo piano è sicuro, tutte le entrate o uscite sono bloccate tranne quella dalla quale siamo passati. Ci sistemiamo lì stanotte così se dobbiamo scappare non finiremo intrappolati, riprenderemo il viaggio domani mattina» disse mentre camminavamo verso il punto d’inizio.   
Annuii leggermente e quando lo vidi aprire la porta aggrottai le sopracciglia.  
«Dove vai?» chiesi dubbiosa.
Si fermò sulla soglia e si voltò appena in modo che potessi vedere solo la parte destra del suo corpo.
«Porto il furgone qua davanti così domani non perderemo tempo, tu resta qui…».
Schiusi le labbra per ribattere ma lui mi precedette.
«Non te lo sto chiedendo. Resti qui, che tu lo voglia o no».
Annuii di nuovo e sbuffai. Presi dal borsone uno dei silenziatori trovati nell’armeria e glielo porsi insieme ad un caricatore.
«In caso ti servano» mormorai.
Mi guardò per qualche secondo con un sopracciglio alzato e non so bene quanta forza di volontà mi ci volle per non chiudere quella porta rimasta semi-aperta e trascinarlo con me sul pavimento di quella stazione di polizia abbandonata.
Il rumore del portone che venne sbattuto mi fece capire che lui se n’era ormai andato, ed io mi guardai in giro un po’ intimorita e spaventata, un po' come quando fui rinchiusa nell’ospedale dove mio padre lavorava e ci impedirono di uscire per non far diffondere il virus che ormai aveva già iniziato a mietere le sue vittime.
Mi accasciai contro un muro portando le ginocchia al petto e poggiandovi sopra il mento.
Restai in quella posizione per un po’, costringendomi a non pensare perché l’unico pensiero che avevo era la morte della persona più importante della mia vita, per questo decisi di tenere la mente occupata e fare altro, come perlustrare quel piano fino a quando lui non sarebbe tornato.
Presi la cartina da una tasca posteriore e la aprii per capire dove andare. Dall’armeria avevo già preso tutto ciò che mi serviva e non c’era altro al piano terra che poteva essere importante, decisi comunque di dare una rapida occhiata nei dintorni e tornare all’entrata prima che Daryl tornasse, impazzisse nel constatare che non ero dove avrei dovuto essere e iniziasse a cercarmi.
Ero sicura che non mi avrebbe lasciata lì, non mi aveva mai abbandonata. Nemmeno quando avevo quindici anni e mi ruppi una gamba saltando da un albero. Quel giorno mi trasportò in braccio dal boschetto in cui stavo giocando fino a casa, certo non si risparmiò le prediche che continuarono fino alla soglia della mia abitazione, ma restò con me fino quando mio padre mi caricò in auto, diretto in ospedale. Per questo ero pronta anche a mettere la mano sul fuoco per lui, sapevo che non mi sarei scottata. Ciò che ci legava non era dato solo dalla fiducia, ma anche dalla lealtà e dal rispetto reciproco, tutti e tre necessari per un rapporto saldo e profondo, e non pronto a sgretolarsi al primo litigio.
Decisi di iniziare a perquisire la sala d’attesa, ostruita da sedie, lampadari e tavolini sparsi sul pavimento. Cercai di farmi strada senza far rumore e soprattutto senza inciampare, cosa abbastanza impossibile visto la mia poca grazia. In effetti avevo lo charme di una foca e la delicatezza di un elefante alla carica.
Mossi qualche passo, ma inciampai su una scrivania lasciata nel bel mezzo della stanza e finii con il sedere per terra a testimonianza di quanto poco coordinata nei movimenti io fossi.
Mi rialzai massaggiandomi una coscia e togliendo la polvere dai miei jeans. Mi guardai attorno sospetta e tesi le orecchie. Nessun rumore, nessun’ombra muoversi nella semi-oscurità della stanza, nulla. Solo il silenzio.
Tirai un sospiro di sollievo e continuai a camminare fino quando trovai una delle poche porte non sbarrate e decisi che avrei controllato bene quella zona prima di tornare indietro, ma mentre la mia parte razionale mi disse di andarmene e non tentare la sorte, quella più audace invece mi spronò a provarci almeno una volta.
Bussai un paio di volte per verificare se la stanza fosse vuota e attesi. Il rumore che le mie dita fecero a contatto con la superficie piatta e regolare produssero un rumore che rimbombò per tutta la hall facendolo sembrare un suono sgradevole rispetto alla tranquillità che c’era.
Quando non udii nulla provenire da oltre la porta, l’aprii piano e sbirciai dentro. Il pavimento e il muro erano sporchi di sangue, c’erano cadaveri morti per davvero con fori in testa, altri avevano graffi sul viso, altri ancora erano semplicemente distesi a pancia in giù ma il sangue sotto di loro mi convinse che erano morti e che non si sarebbero risvegliati.
C’erano altre celle lì, una era aperta ma dal suo interno partiva una lunga scia di sangue che si disperdeva oltre il mio campo visivo. Impugnai stretta la pistola pronta a sparare se fosse stato necessario ed entrai, avvicinandomi prima al muro e poi alla cella per controllare il sangue. Le tracce non erano fresche, anzi erano incrostate sulla superficie piatta, ciò voleva dire che chiunque fosse in quella cella, ora era morto.
Tirai un respiro di sollievo e mi avvicinai ai cadaveri che perquisii senza trovare nulla di utile a parte le cinture che misi nella sacca insieme alle stringhe delle scarpe e ad un pacchetto di sigarette già iniziato.
Sorrisi e pensai che Daryl ne sarebbe stato entusiasta, un po’ come accadeva nelle sbronze del venerdì e del sabato sera, quando sembrava umano e si lasciava trasportare dalle emozioni, apparendo vero e non una sorta di macchina priva di qualsiasi sentimento.
Assunsi un’espressione malinconica nel ricordare il bar dove lavoravo il finesettimana, circondata da un clima di familiarità e da persone che conoscevo, e anche se erano trascorse solo due settimane dall’inizio di tutto, mi mancavano già quelle serate passate dietro un bancone a stare a contatto con la gente, a parlare, ridere e scherzare mentre la musica assordante riempiva l’aria già impregnata dell’odore di alcool e di schiamazzi di giovani che si divertivano grazie alla spensieratezza della loro età, e anche se tornavo a casa ogni volta alle tre di mattina con le orecchie otturate e un gran mal di testa a causa del caos e dei fiumi di birra e altri alcolici ingeriti, io ero felice perché per cinque ore passavo il mio tempo in compagnia di persone importanti per me, tra cui Merle, che con le sue stupide battute, le frasi fuori luogo, i commenti sarcastici o le proposte oscene, sapeva sempre come strapparmi un sorriso.
Sospirai tristemente e mi rialzai per tornare indietro. Restare lì ferma in balia dei miei pensieri era un po’ come avventurarsi per boschi e città con ferite ancora fresche e sanguinanti, e non era una cosa sicura e raccomandabile con metà della popolazione che appena sentiva l’odore del sangue accorreva in gruppi numerosi per cercare del cibo, per questo pensai che restare tranquilla nella hall era una mossa più saggia che girovagare per edifici non del tutto sicuri.
Passai davanti alle celle e mi fermai a vedere quei cadaveri che cercavano in tutti i modi di uscire da lì ed estrassi il coltello per porre fine alla loro esistenza. Non potevo lasciarli vivere in quel modo, non era umano e nemmeno giusto. Nessuno meritava una sorte del genere, non importava che un tempo fossero stati dei criminali che si erano macchiati di chissà quale colpa, lasciarli in quello stato pietoso era la più grande condanna che si potesse mai dare a qualcuno.
Continuai a infilzare la lama nelle teste di quegli esseri e ogni volta che uno di loro cadeva a terra, ero sempre più convinta di stare facendo ciò che era giusto, ero convinta che se avessero potuto parlare mi avrebbero ringraziata, e quando anche l’ultimo di loro smise di respirare, mi sentii sollevata da un peso che non sapevo di portare.
Stremata da quella giornata mi distesi finalmente sul pavimento, improvvisando un cuscino con la mia sacca, e seppure non era come ritrovarmi sul mio comodo letto, riuscii a trovare un po’ di sollievo per me e la mia schiena dolorante.
Mi girai sul fianco destro in modo da tenere d’occhio la porta e portai la pistola vicino al mio petto, in modo da avere un’arma pronta all’uso. Continuai a tenere d’occhio quella zona lì in attesa di vederlo rientrare, guardai l’orologio al polso e mi preoccupai. Era passata più di mezz’ora e di lui nemmeno l’ombra, iniziai a temere che fosse in pericolo e io non lo avevo sentito perché gli avevo dato il silenziatore, poi proprio mentre mi stavo per rialzare e andarlo a cercare, la porta si aprì con un lieve cigolio e il mio cuore si fermò quando lo vidi oltrepassare la soglia, il braccio sinistro era sporco di sangue che colava a gocce sul pavimento.
Mi lanciò il mio zaino che presi al volo e lui andò a sedersi distante da me, come se non volesse starmi vicino.
Deglutii rumorosamente e lo guardai. C’era qualcosa nella sua espressione che mi fece venire i brividi; era arrabbiato, questo potevo sentirlo anche a causa dell’elettricità nell’aria, ma c’era anche qualcos’altro che non riuscii a decifrare e che mi mise paura.
«Cos’è successo là fuori?» chiesi titubante senza distogliere lo sguardo.
I miei occhi finirono sul punto in cui il sangue diventava più scuro e istintivamente mi avvicinai per verificare l’entità della ferita, ma come scostai il lembo della manica e sfiorai la pelle della spalla, lui si allontanò bruscamente.
Sospirai cercando di non fargli notare il mio disappunto e frugai nel mio zaino alla ricerca di un piccolo astuccio blu dove tenevo garze, un paio di forbici, delle bende, ago e filo e un rotolo di nastro.
«Se vuoi puoi curarti da solo» dissi porgendogli la bustina. «Io voglio solo vedere quanto è grave».
«Sto bene» rispose duro e tornò a guardare un punto non ben definito.
Mi feci coraggio di nuovo e mi avvicinai una seconda volta a lui, mi posizionai di fronte al suo viso in modo che potesse guardarmi negli occhi.
«Daryl, cos’è successo?» chiesi di nuovo.
Spostò il suo sguardo dalla porta a me e sentii uno strano calore nel petto che mi fece desiderare di sfiorare quelle labbra così tentatrici almeno una volta, e prima di perdere la poca lucidità che avevo, riuscii a fermarmi notando che solo pochi centimetri dividevano i nostri nasi. Eravamo così vicini che potei vedere benissimo la cicatrice sopra l’occhio sinistro, e come accadde quella mattina sull’autostrada, nemmeno il quel momento si spostò o mostrò che quella vicinanza gli dava fastidio anzi, si avvicinò ancora di più fino a far sfiorare i volti, e a malincuore, fui io a spostarmi quando sentii il cuore aumentare i suoi battiti e il respiro mozzarsi in gola per la paura di fare qualcosa che avrebbe potuto cambiare ciò che c’era.
«Scosta la manica sennò non riesco a medicarti» dissi aprendo l’astuccio.
Grugnì ma non rispose, sfilò il braccio senza scoprirsi troppo e tornò a portare la sua concentrazione altrove, cosa della quale gli fu grata. Non volevo che ci fossero tensioni tra noi, già il mondo nel quale eravamo stati catapultati era abbastanza difficile da affrontare, dover combrattere anche con lui sarebbe stato troppo difficile.
Presi dal mio zaino un panno pulito che bagnai con dell’acqua e lo usai per pulire il sangue, cercando di concentrarmi solo sul mio lavoro invece che sul suo braccio che mi toccava il fianco.
Era un taglio regolare ma non profondo, iniziava dall’incavo del collo e finiva poco sopra la clavicola, l’assenza di lacerazioni attorno alla pelle mi suggerì che si trattava da un’arma da taglio perché era un segno troppo preciso per essere stato causato dal graffio di uno dei morti o da qualsiasi altra cosa.
«Non è nulla di serio, però mi preoccupa. Se la ferita fosse stata più profonda avrebbe toccato sicuramente l’arteria che si trova sotto la clavicola e non so se sarei stata in grado di fermare un’emorragia» dissi premendo leggermente ai lati per rimuovere il sangue incrostato.
Ricucii la ferita e prima di fasciarla ci applicai sopra una garza. A contatto con la medicazione fredda e unta, Daryl sobbalzò appena e si voltò verso di me in attesa di una risposta.
«È connettivina. Fa cicatrizzare prima la pelle e previene le infezioni» spiegai. «Dovresti… uhm… dovresti mettere il braccio sopra la mia spalla ora» dissi arrossendo, fortunatamente con una sola torcia accesa non se ne accorse.
Mi guardò incerto aspettando di nuovo una spiegazione.
«Così posso fasciarti meglio, puoi anche tenerlo solo sospeso ma deve restare alzato».
Tese l’arto verso di me e fui sorpresa dalla sua scelta. Lui non era mai stato uno che amava il contatto umano, era il contrario infatti. Odiava che le persone gli si avvicinavano e quando invadevano la sua sfera personale tendeva ad allontanarle bruscamente, cosa che era capitata anche a me un paio di volte, ma mentre gli altri dopo il primo tentativo fallivano e si arrendevano, io perseveravo nel mio intento di distruggere quei muri che avevo visto costruirsi durante gli anni.
Lo medicai come meglio potei con le poche cose che avevo, il borsone con il resto dei medicinali e il kit di pronto soccorso era sul furgone.
«Non posso fare nulla di più, domani cercherò di sistemare meglio quel taglio» dissi riponendo tutto con cura all’interno del mio zaino.
Mi distesi di nuovo, ma questa volta ero più tranquilla e serena grazie alla sua presenza. In due settimane non mi era mai capitato di sentirmi così sicura, per questo per la prima vera volta addormentarmi mi sembrò così semplice che i miei occhi iniziarono a chiudersi da soli.
«Ho trovato qualcosa che ti piacerà sicuramente» dissi prima di addormentarmi. «È nel borsone».
«Non credo che un paio di scarpe con il tacco facciano al mio caso» rispose con ironia.
Scossi la testa e sorrisi. «Ti piacerà, fidati»
Sentii la zip del borsone aprirsi e lui sorridere.
«Buonanotte Daryl» mormorai mentre il sonno si faceva sentire sempre di più, e anche se ero in uno stato di dormiveglia, potei sentirlo sussurrare un “Buonanotte Kate” prima di addormentarmi del tutto.
  


  
  
  
  
  
  

*angolo autrice* 
ecco a voi un altro capitolo. Volevo aggiornare martedì, dopo aver visto la puntata del lunedì 
ma sono rimasta un po’ sconcertata sia perché era l’ultima [il che vuol dire nulla fino ad ottobre D:] 
sia per ciò che è successo anche se ammetto che il Rick psicopatico della terza stagione mi era mancato 
e in questa ultima puntata mi è piaciuto davvero, prima prende a morsi un tipo (ben ti sta, Joe!), 
poi squarta un altro (anche tu te la sei cercata, lui te lo aveva detto di lasciare stare Carl) 
e poi la battuta finale… tanto per citare:
 

 «Si sentiranno molto stupidi quando lo scopriranno».
«Scopriranno cosa?».
«Che hanno fatto incazzare le persone sbagliate». 

Vai Rick, ammazzati tutti! *esulta con uno striscione in mano* 
Ok, me ne vado e la smetto di parlare, ci tengo solo a ringraziare tutti quelli 
che commentano i capitoli. Grazie davvero, il vostro supporto mi rende felice 
come uno zombie in macelleria, quindi… 

Спасибо большое всем C: 
(grazie mille a tutti)

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Capitolo 8
*** Capitolo7 ***







Capitolo7 





  
   
Uscii da quella cella come un fulmine dopo aver fatto ciò per cui ero andata lì, quei cadaveri mi mettevano ansia, erano disgustosi da guardare e mi facevano sentire osservata. Tornai velocemente nella hall e mi avvicinai alla figura dormiente di Daryl. Avanzai a carponi, cercando di non fare rumore fino quando mi trovai dietro di lui e per un po’ restai a guardarlo dormire anche se lo trovavo un gesto inquietante. In tutti gli anni in cui gli sono stata vicina non l’avevo mai visto così tranquillo e rilassato, anche se aveva ancora un’adorabile espressione corrucciata, come fosse vigile nonostante il suo stato dormiente. Scostai un ciuffo di capelli da davanti l’occhio sinistro ed esultai mentalmente per essere riuscita a vedere quel piccolo segno vicino al sopracciglio che lui voleva nascondere a tutti i costi, quasi come se fosse un difetto da celare al mondo intero o come se si vergognasse delle sue ferite. Lo sfiorai con le dita e ci posai sopra un bacio delicato per non farlo svegliare. 
Posai una delle sue camice che trovai sopra di me quando mi svegliai sulle sue spalle e mi alzai stiracchiandomi. Mossi qualche passo per togliere completamente il sonno di dosso e inciampai nel borsone, cadendo a terra. Mi voltai verso di lui per assicurarmi che stesse ancora dormendo, ma quando vidi due punti luminosi brillare nell’ombra e scrutarmi con attenzione, non potei fare a meno di maledirmi. 
Cazzo! 
«Dove sei andata?». 
«Mi scappava la pipì» risposi sperando che non si fosse accorto del mio gesto. 
Mi rialzai imprecando per la mia sbadataggine e raccolsi la torcia che mi era caduta. 
Lo sentii muoversi e stupidamente pensai che si fosse girato dall’altra parte per rimettersi a dormire, ma subito dopo sentii il suo respiro arrivare alla mia nuca e capii che era dietro di me, in attesa di qualcosa a me sconosciuto. Mi voltai verso di lui e lo guardai con un sopracciglio inarcato. 
«Che c’è?». 
Ignorandomi mi sorpassò per continuare a camminare. Sospirai e tornai a sedermi incrociando le braccia, le parole sembrarono all’improvviso sparite, ma forse ero solo io che mi facevo mille problemi quando non ce n’erano. Era chiaro che si era svegliato solo dopo la mia seconda dimostrazione di goffaggine, e anche se fosse stato sveglio quando gli diedi quel bacio, lui non sembrò curarsene. 
Mi morsi il labbro nervosamente e sperai con tutta me stessa che nel momento in cui le mie labbra sfiorarono la sua pelle, lui stesse dormendo o il problema degli zombie sarebbe stato una delle ultime cose di cui avrei dovuto preoccuparmi. 
Lo guardai raccogliere la balestra e caricarsela in spalla mentre volse lo sguardo verso il pavimento per essere sicuro di aver preso tutto. 
«Vuoi ripartire adesso? Non sono nemmeno le sette» chiesi dubbiosa. 
«L’alba è già passata, inoltre prima ci mettiamo in marcia, prima arriviamo a Savannah e cerchiamo benzina. Voglio fare tutta una tirata, se continuiamo a fermarci ogni giorno non arriveremo mai». 
Annuii e lo guardai con fare interrogativo, anche lui era diretto ad Atlanta ma parve sorpreso quando qualche giorno prima gli dissi che il governo aveva allestito un centro in cui ripararsi. 
«Vuoi andare anche tu al Centro Rifugiati? Credi che Merle sia stato trasferito?». 
«No, c’è una cava nelle periferie della città. Quel coglione probabilmente si è liberato ed ora è lì». 
«E se non c’è?». 
Mi lanciò uno sguardo poco amichevole e mi guardò come se volesse strozzarmi da un momento all’altro, alzai le mani in segno di difesa e controllai la ferita che aveva al braccio, cambiando medicazione e mettendone una pulita, poi raccolsi le mie cose prima di uscire nell’aria mattutina della Georgia. 
La prima cosa che sentii fu il profumo dell’erba bagnata, la notte scorsa aveva piovuto ed ora nei prati e sull’asfalto c’erano delle piccole pozze in cui la natura si rispecchiava. L’aria sembrava più pulita e faceva muovere i fili d’erba dove c’erano ancora piccole goccioline che, viste controluce, potevano sembrare tanti piccoli diamanti per quanto rilucevano. Senza indugiare oltre andai verso il furgone, aprii uno dei miei borsoni ed estrassi la mia fotocamera per poter imprimere quel raro momento di bellezza. 
Ero contenta di averla portata con me, perché così avrei potuto immortalare i momenti belli, i paesaggi non ancora stravolti e riguardarli in futuro nei momenti in cui tutto mi sarebbe sembrato perso, senza via d’uscita. 
Cercai il punto migliore e iniziai a fare qualche scatto, riuscendo a riprendere anche una farfalla mentre si posava su un fiore, fino quando sentii Daryl chiamarmi contrariato dal mio gesto. 
Sbuffai e tornai verso il furgone ma non prima di essermi voltata un’ultima volta e aver ripreso il panorama completo di quel prato che sembrava la vittoria della vita sulla morte. 
«Era necessario?» chiese una volta partiti. 
Mi domandai perché lui riusciva a sforzarsi di capire che se c’erano cose brutte, ce n’erano anche di belle per le quali valeva la pena perdere qualche minuto per osservarle e capire che non tutto era marcio. 
«Sì Daryl, era necessario. Non c’è solo morte, quel giardino era vivo, non ho mai visto un verde così brillante». 
«Non fa alcuna differenza, dai tempo ancora qualche giorno e sarà un lago di sangue». 
Lo guardai contrariata dalla sua affermazione, non aveva senso abbattersi solo perché le cose non erano andate secondo i piani. 
«Hai ragione. Tutto muore, quindi che senso ha sopravvivere? Tanto vale uccidersi, no?». 
Portai l’attenzione verso il sole e lasciai che il silenzio riempì lo spazio intorno a noi. 
Potevo capire che per lui la vita non era mai stata facile, lui era un sopravvissuto ancora prima dell’apocalisse perché doveva combattere ogni giorno non solo contro suo padre o le persone che lo ricoprivano di insulti e lo evitavano come se avesse la peste, ma anche contro se stesso per non diventare ciò che odiava, eppure sentivo come se tutti gli sforzi e i tentativi fatti per cercare di comprenderlo a fondo non fossero serviti a nulla perché teneva tutto dentro, come se esprimere le proprie emozioni, oppure piangere fosse un segno di debolezza che doveva essere assolutamente rimosso. 
Sapevo quanto lui ci stava male per questa cosa, dover sempre reprimere tutto e comportarsi come se non gli importasse nulla quando non era così, voler chiedere aiuto ma non poterlo fare e sopportare gli abusi di un padre alcolizzato senza poter versare una lacrima. L’unica volta in cui lo vidi piangere fu quando sua madre morì in quell’incendio lasciandolo solo, fu la prima volta e forse l’unica in cui lo vidi così fragile perché anche quando suo padre se ne andò, ciò che vidi furono due occhi freddi e inespressivi, come se per lui fosse un sollievo. Credetti che finalmente potesse essere felice, ma se da una parte la prese come una cosa buona, dall’altra si chiuse ancora di più dentro di sé cercando in tutti i modi di allontanarmi, senza sapere che più mi spingeva lontana da lui, più io mi avvicinavo creando un legame più saldo fino quando non avrebbe capito che evitarmi non sarebbe servito a nulla se non farmi avvicinare ancora di più. 
Appoggiai la schiena contro il sedile e chiusi gli occhi, non mi ero mai resa conto davvero quanto fosse difficile parlare con lui senza degenerare in conflitti, forse perché prima non ero così nervosa e pronta ad arrabbiarmi anche per le cose più futili. 
Sospirai e presi la mia macchina fotografica per riguardare le foto. Ce n’erano anche di più vecchie, come quelle scattate quando insieme a mio padre sono andata a trovare il resto dei parenti a Mosca, cosa che accadeva ogni anno sotto le feste natalizie e che trovavo inutile, non perché non mi piaceva stare con i miei nonni, anzi adoravo trascorrere il tempo con loro, specie quando mi raccontavano delle loro esperienze durante la Seconda Guerra Mondiale, ma perché non ero credente. Per me il sette di Gennaio era un giorno come tanti altri, le uniche cose che mi piacevano di quelle feste erano le luci messe nei lampioni delle strade e la neve che cadeva sulla capitale rendendola ancora più bella. Mi chiesi se anche in Russia la situazione fosse la stessa, se visto la grandezza di Mosca, la mia famiglia avesse trovato un rifugio sicuro, se almeno là con il freddo gli zombie non fossero così numerosi, ma ciò che mi tormentava davvero, era il non sapere se fossero ancora vivi o no. 
Passai alle foto successive fino quando una foto di Daryl e Merle prese il posto di quella in cui c’eravamo io e Kim, la mia migliore amica. 
Era una delle poche foto che avevo di loro e per riuscire a scattarla dovetti farlo di nascosto altrimenti al posto del cervo che stavano scuoiando ci sarei finita io. Stavano ridendo, ma non ricordo per cosa, probabilmente una delle solite idiozie che il più grande era solito sparare, ed erano seduti al tavolino fuori dalla loro abitazione mentre io cazzeggiavo in giro ber il bosco sperando di poter fare qualche foto agli animali. 
Sorrisi e sperai davvero che Merle fosse in quella cava, con lui almeno si poteva parlare - anche se le risposte non erano sempre le più carine-, Daryl invece era più taciturno e tranquillo, come se preferisse restare da solo e non dire ciò che pensava. 
«Stavo pensando… una volta che lo ritroveremo, hai intenzione di andare al Centro Rifugiati o continueremo a muoverci?». 
«“Continueremo?” Ti porto ad Atlanta e resterai lì. È più sicuro» rispose. 
«Dovrai legarmi per non farti seguire, lo sai questo?». 
«Ti romperò ogni singolo osso se sarà necessario». 
Inarcai un sopraciglio e lo guardai per cercare un segno che mi dicesse che stava scherzando, ma la sua espressione seria mi fece capire che lo avrebbe fatto davvero. 
«Ciò non toglie il fatto che non appena mi rimetto verrò a cercarvi». 
Ghignò come se la mia frase l’avesse divertito, ma io dicevo sul serio. 
«Non sei capace di seguire le tracce, ti prederesti senza nemmeno accorgertene e poi dovrò venire a cercare il tuo stupido culo come al solito». 
«Forse» dissi alzando le spalle. «Ma non puoi tenermi lontana, e lo sai anche tu». 
Cercai di dire qualcos’altro per non far cadere la conversazione ma non trovai nulla che valesse la pena di essere detto perché seppur a me piaceva parlare ed ascoltare le persone, era anche vero che il silenzio con lui non era brutto, era confortevole, quasi come ritrovarsi su una piuma fluttuante, per questo tenni la bocca chiusa e mi godetti quel momento in cui c’eravamo solo io e lui. 
  

  
  



  


*angolo autrice* 
so di essere in ritardo, ma questi sono stati giorni duri per me, e la voglia di scrivere mi è completamente passata, 
infatti questo capitolo non è venuto come avevo sperato. 
Ad ogni modo, ho rivisto tutte le stagioni di TWD e nell’episodio 10 della seconda stagione 
-quella in cui Rick e Shane portano Randall via dalla fattoria- 
Shane dice che dopo due settimane dalle prime notizie ha deciso di portare Lori e Carl ad Atlanta. 
Ora, questo particolare a me era scappato e avevo già in mente come farli incontrare,
solo che adesso ho questo piccolo cruccio, 
e quindi mi servirà del tempo per riordinare le idee.  
  
un bacio a tutti 
yulen c:

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Capitolo 9
*** Capitolo8 ***






Capitolo8
 

 
 
 
 
 
Ancora seduta sul sedile del furgone guardai la mappa trovata quel giorno. Eravamo appena fuori da Atlanta, ma la notte era già calata e quindi decidemmo che sarebbe stato meglio accamparci e riprendere a muoverci la mattina seguente. Preferivamo la sicurezza del giorno.
Ormai eravamo quasi arrivati e non mi sembrava vero, al Centro Rifugiati avremmo potuto riposarci sul serio e, magari, trovare qualcuno che sapesse cosa diavolo stesse succedendo.
Il viaggio fino lì non fu il più dei tranquilli, battere due grandi città come Macon e Savannah in un solo giorno fu stancante, anche a causa delle grandi orde, ma riuscimmo lo stesso a svignarcela incolumi, o per lo meno io.
Mentre perlustravamo un ristorante, una trave in metallo cadde sulla spalla di Daryl, riaprendo la ferita che sanguinò per tutto il giorno, richiamando a noi gruppi ben nutriti di zombie, fummo quindi costretti a rintanarci da qualche parte per prendermi cura di quel brutto taglio, dove ai lati c’era un lieve rigonfiamento rossastro, la ferita oltre a perdere sangue rilasciava un liquido giallognolo e non mi ci volle molto per capire che si stava infettando più in fretta di quanto avevo pensato all’inizio.
Insistendo e continuando a fargli domande, riuscii a farmi spiegare come se lo era fatto e nella sua voce sentii del disappunto quando mi raccontò che entrando in una casa dalla quale aveva sentito delle grida, un’accetta collegata ad una trappola rischiò di centrarlo in pieno se non fosse stato per i suoi riflessi. La lama probabilmente era sporca, per questo ora il taglio si stava infettando.
Mi disse anche che c’erano una madre e la sua bambina accasciate sul pavimento e un non-morto chinato su loro due.
Cercai di non indagare oltre dietro quel suo mutismo quando capii che non fu tanto il fatto di essere quasi morto per degli sconosciuti o quello di aver visto quello che probabilmente un tempo fu il marito e padre della donna e della bambina, ma quanto il fatto che aveva rischiato la vita senza essere riuscito a ricongiungersi con il fratello.
Sbadigliai un paio di volte prima di mettere giù la cartina stradale. Cercai una posizione più comoda e mi accoccolai completamente contro il sedile, appoggiando la testa al finestrino per guardare fuori.
In lontananza vidi un piccolo puntino rosso volteggiare nel cielo, e richiamata da quella luce che già sapevo essere quella di una sigaretta, scesi senza far sbattere la portiera per non fare rumore.
Presi dal letto del furgone una coperta e il mio zaino e con passi attenti per non inciampare e finire con la faccia per terra, mi avvicinai a Daryl.
Quando mi vide venirgli incontro si spostò leggermente dal masso su cui era seduto per farmi spazio, il tutto senza guardarmi o dire niente. Presi quel suo silenzio come un invito ad andarmene anche se mi aveva lasciato un piccolo posticino accanto a lui.
«Ti ho portato questa» dissi indicando la coperta.
«Non ho freddo» rispose aspirando un’altra volta il fumo che poi fuoriuscì dalle labbra.
Sul mio viso si dipinse una smorfia di fastidio quando la nuvoletta si disperse nell’aria circostante a noi, arrivando fino alle mie narici. Non ho mai sopportato il fumo, il solo odore del tabacco mi dava fastidio, che si trattasse di una sigaretta spenta o accesa, non aveva importanza.
«Lo so. Tu non hai mai freddo» borbottai. «E so anche che resterai qui tutta la notte per crollare al mattino, quindi a meno che tu non abbia intenzione di usare questo sasso come cuscino…».
Lasciai la frase in sospeso porgendogli la coperta che prese dopo qualche secondo con un sopraciglio inarcato e lo sguardo di chi avrebbe ucciso per poter dormire almeno quattro ore.
Mi appoggiai contro il tronco dell’albero dietro di noi, cercando di trovare una posizione comoda che non mi facesse sentire i gancetti del reggiseno contro la schiena.
Non so quanto tempo passammo insieme, seduti lì in silenzio a pensare ognuno per i fatti propri, o meglio, lui stava pensando perché io ogni tanto mi prendevo la libertà di lanciargli occhiate sfuggenti per non farmi scoprire, e quando lo vidi reclinare la testa all’indietro e chiudere gli occhi, mi morsi nervosamente il labbro.
Aveva un’espressione molto più tranquilla dei giorni precedenti, anche se i muscoli erano ancora tesi e pronti a scattare al minimo segnale di pericolo, le labbra erano leggermente socchiuse e le gambe erano piegate appena, in modo che se avesse dovuto alzarsi all’improvviso, avrebbe avuto lo slancio giusto.
«Daryl…» lo richiamai. «Perché non vai a dormire? Posso fare io la guardia stasera» dissi in un sussurro.
Aprì gli occhi lentamente ma non si voltò subito verso di me, restò a contemplare la volta celeste cosparsa da miriadi di puntini bianchi prima di girare leggermente il capo e guardarmi.
«Non ti ho mai visto dormire davvero in questi giorni, sei esausto. Te lo leggo in faccia» continuai.
Sbuffò prima di prendere un’altra sigaretta ed accendersela. Solo in quel momento capii che fumare per lui era un modo per restare sveglio.
«Perché non ci vai tu?» chiese.
«Senti. Se ti prometto che smetterò di parlare così tanto, mi fai questo favore e te ne vai a riposare almeno per un po’?» chiesi esasperata. A quel punto avrei fatto qualsiasi cosa pur di ottenere un “”.
«No. Ma tieni il becco chiuso lo stesso» rispose aspirando del fumo e facendolo uscire dalle narici. «Mi fai venire il mal di testa».
Sospirai e lasciai cadere la conversazione, era inutile cercare di convincerlo ad abbandonare il suo turno di guardia. Tra i tanti suoi difetti c’era la testardaggine, quando iniziava a fare qualcosa lui doveva portarla a termine. Era una questione di principio secondo lui, abbandonare la sua missione significava perdere qualcosa di molto più importante per lui, come la fiducia che riponeva in se stesso, o più semplicemente l’orgoglio.
Se c’era qualcosa che avevo imparato sui Dixon era che erano molto orgogliosi, non della vita che erano costretti a fare, era orgogliosi di essere riusciti a crescere nonostante tutto, di essere ancora insieme anche se Merle a volte partiva per mesi senza dare notizie a nessuno, questo quando non era in prigione o in riformatorio se si esclude quel periodo in cui ha prestato servizio nell’esercito.
Sbadigliai un’altra volta e decisi che sarei tornata nel furgone tra cinque minuti. Volevo restare con lui ancora un po’, senza necessariamente parlare, ma rimanendo in silenzio fianco a fianco. Era un modo per dirgli “per qualsiasi cosa, io sono qui”, per non farlo sentire completamente solo come aveva sempre creduto di essere.
Guardai la sua spalla e spalancai gli occhi quando vidi che c’era una macchia scura ben visibile anche all'ombra. Mi alzai per andarmi a sedere dall’altro lato e senza dire nulla gli scostai la manica per riuscire a vedere quanto grave fosse. Non appena sfiorai la sua pelle, lui si allontanò leggermente con un grugnito infastidito, come se potesse sopportare il dolore ma non il fatto di venir toccato di nuovo.
«Dovresti metterti sotto la luce della luna altrimenti non riuscirò a fare molto» dissi aprendo lo zaino per estrarre del cotone e un flacone di disinfettante.
Invece di fare come gli avevo chiesto, si appoggiò ancora di più all’albero, impedendomi di fare qualsiasi cosa, cercai di rimuovere la fasciatura ormai sporca e intrisa di sangue ma lui sembrò essere intenzionato a non rendermi le cose semplici.
«Potresti almeno fare finta di collaborare?» chiesi. «Probabilmente i punti sono saltati, quindi devo toglierli e rimetterli. Te lo avevo detto che non avresti dovuto usare la balestra».
«Se avessi bisogno di un medico, te lo avrei chiesto. Non trovi?».
Sgranai gli occhi e sospirai per cercare una calma che in quel momento sapevo di non avere. Mi massaggiai gli occhi con i polpastrelli delle dita. Cercare di vincere quella discussione con lui era una partita persa in partenza, ma volevo lo stesso vedere se riuscivo a fargli cambiare idea.
«Tu non chiedi mai niente. Senti, quell’accetta non ha tagliato troppo in profondità ma la ferita si sta infettando. Voglio solo sistemare quel taglio e ricucire i punti, poi la smetto di tormentarti e vado a dormire».
«Potresti smetterla lo stesso» sbottò. «Perché devi sempre comportarti come se fossi mia madre? Non ho bisogno di te o del tuo aiuto».
Lo guardai negli occhi per qualche istante, cercando di capire cosa fare con lui e con il suo comportamento, ma in quel momento risolvere anche quel casino era l’ultima delle mie preoccupazioni, quindi senza fiatare gettai lo zaino ai suoi piedi e lo guardai combattendo la voglia di tirargli un pugno.
«Hai ragione. Non sono tua madre, per fortuna» dissi marcando bene le ultime due parole. «Puoi fare il lavoro da solo. Quando hai finito rimetti tutto in ordine e ricorda di disinfettare le forbici e l’ago una volta che li hai usati» dissi camminando verso il furgone.
Mi fermai a metà strada per guardare il cielo e tornai indietro. Sentivo che non avevo finito di dire quello che avevo da dire, e quella volta non sarei stata zitta come avevo sempre fatto.
«Vuoi sapere cosa?» chiesi con voce alta. «Io mi sono sempre preoccupata per te, anche per un semplice raffreddore e non ti ho mai chiesto niente in cambio. Mi hai sempre allontanata e io come una cogliona sono tornata perché eri un amico, mi sarei cavata un rene con un coltello se tu ne avessi avuto bisogno, avrei fatto qualsiasi cosa per te, e ora capisco che non te ne importa, quindi va bene. Questa volta sono io ad andarmene perché sinceramente mi sono stancata di giocare a rincorrerci, ma sappi che questa è una decisione definitiva» ancora una volta il mio tono si alzò di qualche ottava.
Non mi importava se il tono della voce era stato troppo alto, non mi importava nemmeno degli zombie che avrebbero potuto sentirmi, ero stanca di essere il suo giocattolino da usare a suo piacimento.
«Buonanotte» aggiunsi.
Camminando di nuovo verso il furgone non piansi, non dissi più nulla. Solo dei gemiti strozzati coprirono l’aria intorno a noi, suoni che non appartenevano né a me né a lui. Voltandomi verso il bosco vidi tante ombre camminare verso di me, e per la prima volta l’idea di morire non mi spaventò.

 
 
 
 






*angolo autrice*
Avrei voluto aggiornare il venticinque, ma poi ho deciso di prendermi più tempo per fare ordine nella testa e capire come giostrarmi
con le tempistiche, aiutandomi con 
QUESTA storyline.
Allora, il capitolo è cortino lo so, sono a malapena tre pagine, ma è una cosa voluta poiché segna una svolta importante per il loro rapporto.
È più una specie di capitolo passaggio, i prossimi saranno più lunghi (si spera).
 Inoltre in una decina di capitoli dovrei riuscire ad entrare nel vivo della serie che ne seguirà le vicende ma in modo un po’ diverso,
sarà infatti una mia revisione di ciò che è accaduto, anche se sono abbastanza sicura che non cambierò le svolte decisive.

Ora mi eclisso, ma prima voglio ringraziare tutte le persone che hanno iniziato a seguire questa storia e che l’hanno aggiunta nelle loro liste,
un ringraziamento speciale a tutte quelle che fino ad ora l’hanno recensita.
Vi amo, sul serio! c:
 
yulen

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Capitolo 10
*** Capitolo9 ***




 
Capitolo9







 
Non fu facile correre alla cieca nel bosco in piena notte. Era tutto buio e più di una volta inciampai, tanto che poi finii davvero con la faccia a terra. Un lamento di dolore fuoriuscì dalle mie labbra quando cercai di rialzarmi prima che il gruppo di zombie mi raggiungesse, i loro gemiti e gorgoglii strozzati erano molto vicini a me.
Non sapevo perché stavo scappando, volevo davvero finirla lì e riposare senza dovermi preoccupare anche della mia stessa ombra, ma le mie gambe si muovevano senza una direzione precisa e anche il mio cervello mi stava dicendo di allontanarmi il più possibile.
Mi fermai e chiusi gli occhi, respirando un paio di volte per permettere ai miei polmoni di ricevere l’ossigeno di cui necessitavano e ripresi a correre senza sapere bene dove andare. Sarei dovuta tornare sulla strada al borsone con le armi, ma non capivo da che parte andare e la realizzazione di essermi persa mi colpì violentemente.
Ma cazzo!
In lontananza vidi una cabina, e cercando di trovare l’ultimo residuo delle mie forze, corsi più velocemente che riuscii, sbattendo la porta dietro di me una volta dentro.
Puntellai l’entrata con un tavolo che trovai al centro della stanza, e stanca mi accasciai a terra, strofinandomi gli occhi e il naso.
Guardai le mani sporche di terriccio e altro materiale - come il resto del mio corpo -, poi notai che la maglia sul fianco destro era intrisa di sangue e capii perché tutti quegli esseri mi avessero seguita. Avevano fiutato l’odore di sangue fresco e io non mi ero accorta di essere ferita fino quando l’adrenalina non aveva smesso di fare il suo lavoro.
Presi il mio coltello e tagliai una gamba dei jeans che stavo indossando per fare una fasciatura d’emergenza che fermai con la mia cintura, poi mi distesi per terra, esausta.
Chiusi gli occhi e sospirai. Non avevo idea che il mondo fosse messo così male, ad ogni passo si erano aggiunti sempre più vaganti e per riuscire a rintanarmi in quella casupola dispersa nel bosco, dovetti farmi strada a colpi di coltello e pistola rimanendo con un solo proiettile, e anche se ero in trappola, non ero spaventata nonostante sentissi che la mia fine era vicina, perché non lo percepivo come un peso, in qualche modo ero sollevata. Tanto non sarei mancata a nessuno, non a Daryl per lo meno.
Scossi la testa con un moto di rabbia, non volevo che i miei ultimi pensieri fossero rivolti a lui, quindi cercai di scegliere accuratamente un ricordo che mi avrebbe fatto compagnia per sempre, per accorgermi che tutti i momenti migliori passati erano unici, proprio perché lui c’era.
Lasciai che una lacrima sola scivolasse lungo la mia guancia sinistra quando il ricordo più bello si proiettò nella mia mente. Era il giorno del mio sedicesimo compleanno e mi ero svegliata particolarmente felice nonostante io le feste di compleanno le avessi sempre odiate.
 
 
 
La luce calda dei primi raggi del sole penetrò dalle tendine della mia finestra per illuminare la mia stanza.
Uscii da sotto le coperte sbadigliando rumorosamente e un sorrisone a trentadue denti si dipinse sul mio viso. Restai seduta sul letto per qualche minuto in più, appoggiata ai gomiti che sprofondarono nel materasso, respirando l’aria fresca di primavera che entrava dalla finestra insieme al profumo dei primi fiori che stavano sbocciando, e con un salto pieno di energie mi fiondai in bagno dove mi vestii velocemente, lavandomi la faccia con l’acqua fredda per risvegliarmi.
Scesi in cucina dove non mi curai nemmeno di fare colazione e riempii la mia borsa a tracolla con acqua e panini, tornando in bagno per infilarci anche una scatola di cerotti.
Giusto per ogni evenienza!
Quando uscii di casa, la prima cosa che vidi furono i prati già in fiore, i cani rincorrersi tra loro e gli uccellini depositarsi sui rami degli alberi, dove i primi bulbi erano già sbocciati.
Camminando lasciandomi alle spalle il paese, raggiunsi il bosco dove la natura sembrava ancora più viva e alzando le braccia al cielo le feci ondeggiare per riuscire a godermi ancora di più l’aria frizzantina e pulita che mi circondava.
Seguii un sentiero tracciato dalla ghiaia e altri sassolini fino ad arrivare nel cuore del bosco. L’erba morbida si muoveva al soffio del vento, accarezzandomi le caviglie, solleticandole e facendomi ridere. Inspirai più volte quel profumo di natura incontaminata, mettendomi sulle punte dei piedi e aprendo le braccia come se stessi cercando di accarezzare il vento che faceva muovere i miei boccoli color cioccolato a ogni soffio. Anche la maglia blu che indossavo si muoveva di tanto in tanto, alzandosi e lasciando scoperto l’ombelico dal quale pendeva un piercing.
«Vuoi restare qui a giocare a Biancaneve o vieni con me?» chiese una voce alle mie spalle.
Mi ricomposi senza smettere di sorridere e guardai Daryl, il quale stava aspettando una mia risposta con le braccia conserte. Dietro di lui spiccava la sua fidata balestra che si portava dietro ovunque.
«Questo posto è fantastico» dissi girando su me stessa. «Allora, dove andiamo?» domandai curiosa.
Con un gesto del capo mi intimò di seguirlo e mi sorpassò, guidandomi nella fitta vegetazione.
Lo seguii in silenzio, senza mai fermarmi seppure i polpacci dopo un po’ iniziarono a dolermi a causa delle salite e dei sentieri non proprio agevoli, arrivando infine  a una piccola sporgenza che dava su una cascata abbastanza alta. Con un piccolo salto, Daryl riuscì ad arrivare su un grande sasso, e lì mi tese il braccio.
«Dammi la mano» disse quando fu sicuro che non sarebbe scivolato.
«No, ma dico. Hai visto dove sei?» chiesi tirandomi indietro.
«Kate!» mi richiamò. «Dammi la mano, non ti lascio cadere» disse.
A quella frase lo guardai, mossa da quella promessa che suonò tanto bella e afferrai le sue dita che strinsi alle mie, chiusi gli occhi per non dover guardare sotto e con un salto mi ritrovai davanti a lui, aggrappata alla sua maglia. I nostri petti si stavano toccando e i nostri visi erano a pochi centimetri di distanza. Mi incantai a guardare i suoi occhi di un azzurro molto chiaro che sembravano due pozze d’acqua cristallina.
«Non guardare giù» suggerì mentre riprendeva a camminare tenendo la mia mano stretta tra la sua.
Involontariamente guardai oltre le rocce e mi bloccai, presa completamente dalla paura.
«Perché mi hai detto di guardare?» strillai.
Mi guardò divertito, come se trovasse divertente il fatto che stavo morendo di paura e che probabilmente sarei morta d’infarto il giorno del mio sedicesimo compleanno.
«Io ti ho detto di non farlo» disse trascinandomi con la forza.
«Ma lo sai che lo avrei fatto lo stesso!».
Chiusi gli occhi strizzandoli per togliermi quella brutta immagine di me spiaccicata contro il terreno o quella in cui affogavo, tenuta sott’acqua dalla corrente, ma fortunatamente riuscii ad arrivare dall’altra parte della riva, dove la cascata si apriva in un piccolo laghetto; lì l’acqua azzurra rifletteva sulla sua superficie i colori verdi del bosco e i punti dorati del sole che passavano tra le foglie.
Restai a bocca aperta davanti a quello spettacolo. Quando aveva detto che mi avrebbe fatto vedere una cosa bellissima che aveva scoperto andando a caccia, non mi ero immaginata che potesse trattarsi di un posto così bello.
Corsi verso il lago, togliendo le scarpe da ginnastica e i calzini per immergere i piedi, senza spingermi oltre la riva. La paura di affogare era uno dei miei più grandi timori poiché io non sapevo nemmeno restare a galla.
L’acqua fresca fu una benedizione per i miei piedi indolenziti a causa della camminata precedente, e pensare che mi aspettava anche un viaggio di ritorno fu come ricevere una secchiata d’acqua gelida in testa in pieno inverno.
Il resto della giornata lo passammo lì in compagnia, senza pensare alle cose brutte, e guardando Daryl negli occhi pensai che lui avesse bisogno di liberare la mente più di me. Lo vidi più rilassato infatti, più sciolto nei movimenti. Non sembrava una specie di robot che doveva seguire le istruzioni che gli erano state impostate.
Con un risolino divertito mi avvicinai a lui stringendo una delle bottiglie d’acqua tra le mani. Era disteso all’ombra di un albero con le mani dietro la testa, gli occhi chiusi e un filo d’erba tra le labbra. La sua balestra era posta contro il tronco, ma a portata di mano.
 Facendo qualche altro passo in punta di piedi, svitai il tappo della bottiglia e gli buttai l’acqua addosso.
Si risvegliò di soprassalto, scuotendo la testa per asciugarsi i capelli dai quali partirono tante goccioline che arrivarono a bagnare anche la mia maglia.
«Brutta puttana!» urlò alzandosi.
Mi allontanai da lui ridendo, correndo per non farmi prendere e nascondendomi dietro i tronchi degli alberi per non farmi vedere anche se le mie risate si potevano sentire benissimo, infatti non ci volle molto affinché lui mi trovasse e mi caricasse sulla spalla come un sacco di patate.
Scalciai e presi a pugni la sua schiena per riuscire a liberarmi e inizia a ridere più forte, facendo risuonare la mia voce per tutto il bosco.
I suoi vestiti impregnati d’acqua avevano iniziato a bagnare anche i miei, e pure i capelli erano umidi, ma il problema che si sarebbero increspati non mi sfiorò minimamente.
Quando mi accorsi che stava tornando verso il lago iniziai a picchiare più forte per non farmi gettare in acqua.
«Ti prego, no!» dissi. Avevo le lacrime agli occhi per quanto stavo ridendo e le costole iniziavano a farmi male anche a causa della mia posizione scomoda, ma non mi lamentai. Scherzare con lui in quel modo non era una cosa che capitava spesso, per questo non protestai nemmeno quando mi posò con delicatezza sul terreno tenendomi per i fianchi.
Sentii una lunga scarica di brividi percorrere la mia spina dorsale, ma decisi di ignorarla quando si avvicinò ancora di più con le mani ancora su di me.
Il cuore aumentò i battiti a causa di quella vicinanza e proprio mentre pensai che allontanarmi sarebbe stata l’ultima delle cose che avrei fatto, lui mi spinse leggermente per farmi perdere l’equilibrio e farmi cadere in acqua.
«Daryl!» sbraitai colpendo la superficie dell’acqua.
Scossi la testa e raccolsi i capelli in una cipolla disordinata per non farli bagnare ulteriormente. Vidi il suo sguardo divertito e gli lanciai un’occhiataccia che non sortì l’effetto sperato.
«Così impari» rispose togliendosi la maglia che stese al sole per farla asciugare.
Rimase a torso nudo, mostrando il suo petto e i suoi muscoli appena accennati. Distolsi lo sguardo imbarazzata, e mi rialzai per andare al sole.
«Secondo te come faccio ora? Io la mia non posso toglierla» protestai.
«Avresti potuto pensarci prima» rispose dandomi le spalle.
Ghignai malefica e afferrandolo per il polso lo trascinai in acqua con me, poco mi importava se avevo bagnato anche i capelli perché l’espressione che aveva sul viso era qualcosa di impagabile. Non era arrabbiato, ma sicuramente c’era una traccia di contrarietà mista a stupore per il mio gesto.
«Sei una bastarda» disse rialzandosi furioso.
«Me ne hai dette di peggio» risposi con aria innocente.
Scoppiai in una risata spontanea quando lo sentii borbottare frasi disconnesse che riguardavano me e il fatto che si era appena accorto che portarmi lì era stata una pessima idea.
Uscimmo dall’acqua fradici, ma non mi era un grande problema poiché il sole primaverile ci avrebbe asciugati.
Mi stesi al sole, liberando i miei capelli dall’elastico e voltando il capo, vidi Daryl nel mio stesso stato solo che era tornato verso l’albero.
Mi avvicinai a lui a carponi fino a sostare a pochi centimetri dal profilo del suo viso e sorrisi.
«Non ti conviene» mi ammonì con gli occhi ancora chiusi.
«Sta tranquillo, ho smesso con i dispetti» risposi sincera.
Mi ero divertita abbastanza anche se avrei voluto continuare a stuzzicarlo ancora un po’, giusto per vedere e godermi le sue reazioni.
Mi allungai con il collo per scoccargli un bacio sulla guancia prima di distendermi al suo fianco.
«Grazie per avermi portata qui».
 
 
 
«Kate!».
Sobbalzai quando la sua voce prese il posto della mia, ma non mi scomposi, non risposi, volevo solo ascoltare il suono del nulla.
Tutto era silenzioso, come se quello fosse il momento adatto per farla finita, ma il coraggio di puntarmi la canna della pistola alla testa vacillò, fino a farmi perdere la voglia di concludere tutto, quindi lasciai quel ricordo impresso bene nella mia mente per quando fosse giunta veramente la mia ora.
Sfiorai le labbra con la punta delle dita e in quel momento di accorsi di essermi innamorata di lui sin da quel giorno, ed era per quel motivo che gli avevo sempre perdonato tutto, anche le volte in cui litigavamo per colpa sua ed io ci passavo sopra.
«Katerina!».
Anche quella volta decisi di non rispondere anche se aveva usato il mio nome completo, sapeva che su me sortiva un certo effetto, ma quella volta non mi sarei fatta incantare. Portai le ginocchia al petto e quando percepii una forte fitta al fianco destro, distesi nuovamente la parte che mi faceva male.
«Kate!».
«Lasciami in pace!» urlai quasi senza forze.
Ero stanca, ma non per lo sforzo che feci nel correre dal furgone a quella piccola casa per non finire divorata, e nemmeno per la quantità di sangue perso, ma per quella discussione avuta.
«O apri tu o lo faccio io!» continuò.
Iniziò a dare dei colpi alla porta e ogni volta erano più forti dei precedenti.
Sentii la rabbia montare in me e in poco tempo mi rialzai, abbassai la maniglia e uscii dalla cucina nella quale mi ero nascosta per andare verso di lui, sorpassarlo e raggiungere il furgone per cercare di chiudermi dentro, ma proprio un attimo prima che io aprissi lo sportello, mi afferrò per il braccio tirandomi verso di lui. Lo guardai e iniziare a tempestare il suo petto con dei piccoli pugni.
«Farò come hai detto tu. Arriveremo ad Atlanta e resterò al Centro Rifugiati così tu sarai felice, io non dovrò più rivestire il ruolo di tua madre e ognuno di noi potrà vivere senza intoppi».
Sapevo che sembravo una bambina in quel momento, ma avevo bisogno di dare voce a tutte le cose che in quel momento mi stavano passando per la testa, che esse fossero belle o brutte.
Prese i miei polsi per fermarmi e mi strinse a sé.
«Ti ricordi quando ho compiuto sedici anni e tu mi hai portata alla cascata?» chiesi cercando di staccarmi senza riuscirci a causa della sua presa salda.
«Ho capito perché non ho mai voluto che tu te ne andassi e perché ho sempre lasciato che la colpa ricadesse su di me, e mi sono accorta che da quel momento in mia presenza hai sempre assunto un atteggiamento ancora più freddo e disinteressato, in un modo o nell’altro hai sempre voluto mantenere le distanze, e se mi importasse davvero, ora ti chiederei il perché, ma la verità è che non mi importa più di niente se non di una cosa, e questa devo chiedertela» dissi cercando di guardarlo negli occhi.
«Perché a Brunswick mi hai salvata?» chiesi. «Avresti potuto liberarti di un peso, ma no. Hai ucciso quegli zombie, mi hai portata in quella casa, hai controllato che fossi viva e quando avresti potuto andartene, mi hai caricata di peso sul furgone. Perchè?».
Continuò a tenermi contro di sé fino quando il mio respiro tornò ad essere regolare. Chiusi gli occhi e sospirai riuscendo a trovare un po' di sollievo in tutto quel trambusto. In quel momento non mi importò della fine del mondo o dei cadaveri a poca distanza da noi perchè ero dove da sempre avevo voluto essere. Appoggiai la testa contro il suo petto e respirai il suo profumo, un odore di bosco e tabacco che mi avvolse come stava facendo lui e pensai che non potei essere più felice.
Liberai i miei polsi per poter allacciare le braccia al suo collo e lasciargli un bacio a fior di labbra. Non c'erano secondi fini in quel gesto, volevo solo ricordarmi il suo sapore per portare con me anche quel frammento, e lui non accennò a spostarsi o scansarmi, restò lì come se fosse pietrificato.
«Quando troverai Merle, salutalo» sussurrai. «E digli di stare attento e anche di non farsi ammazzare. So che è una testa di cazzo, ma è mio amico e gli voglio…» cercai di continuare la frase ma sentii le gambe improvvisamente molli.
Come se Daryl avesse percepito il mio corpo diventare pesante sotto la sua presa, fece scivolare una mano lungo la mia schiena mentre l'altra restò a sorreggere la nuca. La testa sembrò diventare più pesante del solito tanto che feci fatica a tenerla sospesa, la vista si offuscò fino quando non diventò tutto nero e l'ultima cosa di cui riuscii a prendere coscienza, fu un dolore lancinante al fianco destro.








 
*angolo autrice*
Привет! как дела?
ok, la smetto di fare la poliglotta. Tra l’altro quando ero piccola non sapevo
si dicesse così quando uno sa tante lingue e quindi dicevo troglodita, cosa che faccio ancora adesso… (e a nessuno frega).
Comunque ecco qui il nono capitolo che non ho pubblicato la settimana scorsa come avevo programmato.
Ho scoperto infatti che ogni volta che faccio dei piani 
deve sempre succedere qualcosa e ritardarmi sulla tabella di marcia.
Ho comunque iniziato a scrivere il decimo capitolo (tutto grazie al trailer della quinta stagione che ora è diventato la mia droga.
Devo vederlo almeno una volta al giorno. 
Ottobre, ma quando arrivi???), ma dico già da adesso che non ho idea
di quando 
lo finirò e di quando riuscirò a pubblicarlo.
Ora, sono quasi le due, ho appena finito di scrivere questa cosa e ho gli occhi che mi si
chiudono da soli, quindi levo gli ormeggi e salpo verso nuove avventure
(che credete? il mio letto mi fa fare viaggi fantastici)
Ci si sente zombettini,
 
yulen c:

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Capitolo 11
*** Capitolo10 ***




 

Capitolo10
 
 
 
 
 

 
Ripresi coscienza non so quanto tempo dopo e la prima cosa che notai fu che per la prima volta ero distesa su qualcosa di morbido, e per morbido intendo davvero morbido.
Forse troppo per essere il pavimento di qualche rifugio improvvisato.
La seconda fu la luce soffusa provenire da una finestra dalle tapparelle abbassate e dalle tendine tirate, la terza fu l’udire delle persone scherzare come se fossero al mercato e dei bambini ridere.
Un momento. Bambini? Ridere?
Pensai quindi che quello o fosse un sogno - uno di quelli in cui è tutto troppo bello e perfetto - oppure io ero morta e stavo ripercorrendo con la mente qualche momento bello della mia vita di cui non avevo memoria.
Cercai di tirarmi su a sedere, ma una fitta attraversò tutta la parte destra del mio corpo, il dolore era troppo reale e forte per essere solo un’illusione proiettata dalla mia mente.
Voltai il capo a sinistra per cercare di capire dove fossi finita quando mi scontrai con la figura di una ragazza seduta affianco a me. Aveva dei bellissimi capelli lunghi e biondi, la pelle era chiarissima, come se il sole non osasse rovinarla e il viso era delineato da linee aggraziate, molto giovanili - ad occhio e croce non poteva avere più di vent’anni.
Mi stava guardando con due occhi azzurri molto curiosi, come se fossi una specie di alieno, e forse quando mi trovarono dovevo proprio avere un pessimo aspetto.
«Ti sei svegliata finalmente!» disse sorridente.
La sua voce squillante rimbombò all’interno della mia testa e non giovò molto al mio stato semi-confusionale.
«Io sono Amy» continuò.
Cercai di sedermi per poterla guardare meglio e mi lasciai sfuggire una smorfia di dolore.
«Kate» dissi con voce roca e impastata. «Per quanto ho dormito?».
«Un giorno, non avevi una bella cera quando Merle ti ha portata qui» disse sussurrando l’ultima parte. Involontariamente sorrisi, anche solo pronunciare il suo nome metteva paura.
Merle.
Sussultai improvvisamente, era vivo quindi. Mi sentii felice per essere riuscita a trovarlo, anche se era stato lui a trovare me, poi però mi incupii; se c’era lui e mi aveva portata… ovunque io fossi, doveva esserci per forza anche Daryl, perché ero con lui l’ultima volta, prima di perdere i sensi, e non ero molto sicura di voler vedere anche lui, non dopo ciò che era successo.
«Dove…» mi fermai e deglutii lanciando un altro sguardo attorno a me. Stavo cercando qualcosa che mi desse informazioni sulla mia locazione, ma a parte il lettino dov’ero distesa e le pareti a righe grigie, non c’era molto che potesse essermi d’aiuto per aiutarmi a capire dove fossi.
«Che posto è questo?» chiesi infine.
«Siamo nelle periferie di Atlanta» rispose, e come se avesse capito dal mio sguardo la mia domanda, continuò. «La città è stata invasa, non c’è nessun Centro Rifugiati».
Sbuffai delusa, ma in fondo non mi stupii: anche Savannah e Macon non erano nulla di più di cimiteri infestati da morti che camminavano.
Si alzò e sorrise di nuovo, i capelli biondi le ricadevano morbidi sulle spalle, ed ora che era in piedi riuscii a vederla meglio. Come pensavo doveva essere molto giovane, non era proprio bassa e aveva un corpo armonioso e delicato.
«Se te la senti di camminare ti faccio conoscere gli altri».
«Uhm… certo» titubai per un secondo. «Ma prima vorrei cambiarmi e controllare la ferita».
Annuii e si allontanò tornando poco dopo con uno dei miei borsoni che mi porse.
«Il bagno è lì» disse indicando un punto poco lontano da noi.
La ringraziai con un sorriso e mi chiusi nel piccolo stanzino. Tolsi prima la maglia che cadde a terra e poi la fasciatura bianca e candida, probabilmente qualcuno si era curato di tenerla pulita per evitare che facesse infezione. Guardai il mio tatuaggio che a partire dal seno destro ricopriva tutto il busto fino a terminare alla coscia sinistra. Era un groviglio di steli di rosa già sbocciate che si intersecavano tra loro e imprecai quando vidi che il taglio lo rovinava; non era uno dei lavori più accurati ma chiunque fosse stato, aveva fatto in modo di far richiudere la ferita per non farmi perdere altro sangue.
Usai una fascia nuova per ricoprire il fianco prima di recuperare una canottiera nera ed indossarla, tolsi anche i jeans che sostituii con un paio di pantaloni verde oliva e legai i miei dread in modo che non coprissero la mia nuca. Sciacquai la faccia per risvegliarmi e mi specchiai di nuovo, trovando un’immagine di me più pulita e fresca, quasi normale. Raccolsi i panni sporchi che buttai alla rinfusa nella sacca e mi infilai ai piedi i miei soliti stivali.
Uscendo trovai Amy che parlava con un altro ragazzo, era di spalle quindi non riuscii a vederlo bene, ma era alto qualche centimetro in più di lei, aveva i capelli corti e neri e indossava un cappello da baseball.
«Ti senti meglio?» mi chiese Amy vedendomi uscire.
Annuii, e quella domanda catturò l’attenzione del ragazzo che si voltò. Restai un momento ferma a guardarlo, i suoi occhi a mandorla mi suggerirono che fosse di origini asiatiche.
«Lui è Glenn» disse presentandomelo.
«Io sono Kate» risposi presentandomi a mia volta. «Grazie per avermi curata» dissi sinceramente grata.
«Se non fosse stato per la tua attrezzatura medica non credo che avremmo potuto fare molto» rispose. «Eri un medico o qualcosa del genere?» chiese Glenn, curioso.
Scossi la testa in segno di diniego.
«Mio padre era un chirurgo, mi ha insegnato un paio di cosette» risposi guardando il basso e marcando il passato, sentendomi improvvisamente triste.
Come se avessero capito il resto della storia mi proposero di andare a fare la conoscenza degli altri.
Uscimmo dal camper in cui avevo riposato per un giorno intero e subito fui investita dall’afa tipica della Georgia, per un istante pensai di tornare dentro per restare al fresco fino alla sera, ma poi mi accorsi di aver dormito per troppo tempo mentre gli altri si accertavano delle mie condizioni, e quindi era giunto il momento di rendermi utile in qualche modo, quindi uscii dall’ombra pentendomene subito dopo. Erano quelli i momenti in cui rimpiangevo il freddo della gelida Russia.
In poco tempo, comunque, riuscii a fare la conoscenza di tutti e a integrarmi. Insieme ad Amy c’era sua sorella Andrea - anche lei bionda e con gli occhi chiari. La somiglianza tra loro due era molto evidente -, poi c’erano Dale, proprietario del camper - un signore anziano vestito come se fosse in campeggio con tanto di cappello alla pescatora sotto il quale nascondeva i capelli bianchi come la barba-, Lori – una donna sulla trentina, più alta di me e magra, dai capelli lunghi e mori tenuti sciolti in modo che cadessero morbidi sulla schiena e dagli occhi color nocciola -, Carl, figlio di Lori, - un bambino con un’espressione furba anche se gli occhi azzurri tradivano una certa stanchezza. I suoi capelli castani sotto il sole sembravano più chiari di quanto non fossero in realtà -, Shane, ex poliziotto, - aveva i capelli neri, corti, ricci e gli occhi scuri. Era alto e aveva dei muscoli molto accennati che si intravedevano bene da sotto la maglia nera -, Jacqui – una donna dalla pelle scura che appena mi vide volle sincerarsi del mio stato. Aveva sui quarant’anni, era magra e alta e anche lei aveva i capelli neri e corti, tenuti indietro da un cerchietto. Dai suoi occhi marroni traspariva una certa cordialità, tanto che riuscì a mettermi completamente a mio agio in mezzo a tutta quella gente estranea -, T-Dog – un uomo di colore, dalla stazza robusta e alto. Aveva gli occhi scuri ed era pelato -, Jim – un uomo alto, magro dai capelli corti e neri come la barba e dagli occhi scuri -, Carol - una donna sulla quarantina dagli occhi azzurri e dal fisico asciutto. Non era molto alta, ma di sicuro mi batteva. Aveva un taglio di capelli molto corto, e ormai a causa dell’età avevano iniziato a perdere il loro colore -, Sophia, figlia di Carol - una graziosa bambina con il viso cosparso di lentiggini dai i capelli ramati e tirati indietro da un cerchietto. I suoi occhi color nocciola sembravano spenti, come se non dormisse molto bene.
Come ultimo mi presentarono la famiglia Morales composta dai due genitori e dai loro due figli che scoprii chiamarsi Eliza e Louis.
Solo quando smisi di guardare tutte le persone intorno al camper me ne accorsi di un’altra che se ne stava in disparte ad osservare Carol come un avvoltoio fa con la sua preda.
Aveva le braccia incrociate, la testa bassa e spostava il peso da una gamba all’altra. Il suo nome era Ed, ed era un uomo che a primo impatto non mi ispirò molta fiducia. Non posso dire che era robusto, ma nemmeno magro, aveva gli occhi azzurri e i capelli erano neri e corti.
Guardai la disposizione del campo e vidi che tutte le tende erano più o meno vicine, tutte tranne una, posizionata a distanza dalle altre.
Amy mi spiegò che era quella di Merle e che era stato lui stesso a scegliere di sistemarsi lontano dagli altri, ma fu una cosa che, dopotutto, non mi stupì. Lui non stava bene vicino a persone che non conosceva.
Ringraziai Amy e Glenn per avermi fatto compagnia e mi diressi verso il suo accampamento dove oltre la sua moto, c’era anche il furgone di Daryl con il resto della mia roba. Volevo approfittarne per fare un giro più accurato e conoscere meglio il posto, così riallacciai la fondina alla coscia, presi una delle pistole insieme ad un silenziatore e al coltello, e iniziai a camminare senza una meta precisa.
Ad ogni passo sentivo una forte scarica arrivare fino alla gamba e dopo un po’ iniziai a zoppicare. Ci sarebbe voluta come minimo una settimana prima che la ferita guarisse del tutto, senza contare che i sforzi a cui mi sarei dovuta sottoporre avrebbero rallentato i tempi di guarigione.
Quando davanti a me vidi una parete di roccia che si ergeva in tutta la sua grandezza, come un ostacolo insolcabile, mi accorsi di essere arrivata alla cava.
Mi sedetti sui sassi e sospirai. Non sapevo per quanto tempo sarei rimasta lì, ma speravo di non dover spostarmi così spesso come negli ultimi tempi.
Mi tolsi gli stivali e i calzini e misi i piedi in ammollo, beandomi della sensazione di freschezza che ogni piccola onda portava.
Quel posto già mi piaceva, era tranquillo, non c’erano zombie, il lago era un’ottima risorsa e la città non era lontana, il che mi sarebbe tornato utile se avessi dovuto andare a fare un salto in qualche negozio per trovare della frutta o qualsiasi altra cosa commestibile che non fosse carne.
«Allora Marshmallow, non vieni a salutare il tuo vecchio amico Merle?».
Mi voltai di scatto e senza controllare le mie azioni, in un secondo entrassi la pistola dalla fondina, quando poi mi scontrai con due occhi azzurri e un ghigno divertito, mi rilassai. In quel momento mi sentii così felice che mi rialzai con un movimento fulmineo per andare verso di lui, fermandomi poco dopo per una forte fitta che mi fece perdere l’equilibrio.
«Woah, calma tesoro. Non vogliamo che il tuo visino si rovini? Non è vero?» chiese con quel suo solito fare beffardo.
Un risolino divertito attraversò le sue labbra quando arrossii per le nostre posizioni. Io, infatti, ero sorretta dalle sue braccia per non cadere e solo pochi centimetri ci divedevano, anche se data la nostra differenza di altezza dovetti alzare lo sguardo per riuscire a guardarlo bene.
Aveva gli stessi occhi del fratello, e quello era la sola cosa che li accomunava se si esclude il pessimo carattere di entrambi.
Mi scostai da lui in un modo un po’ impacciato e cercai di ignorarlo per quanto possibile fosse.
Tornai alla riva per rimettermi i calzini e gli stivali, e nel farlo mi piegai sulle ginocchia.
«Sì» disse convinto a un certo punto. «Ho mentito quando questo mattina ho detto che la mia giornata non sarebbe potuta andare meglio».
Questa volta la sua voce era più vicina e subito capii a cosa si stesse riferendo. Nella posizione in cui mi ero messa, avevo – involontariamente - fatto in modo di esporre il mio sedere verso di lui.
«Merle!» urlai diventando più rossa di un pomodoro.
Lui scoppiò a ridere, come se trovasse l’intera cosa divertente mentre io avrei voluto semplicemente affogare e togliermi da quella situazione a mio avviso imbarazzante.
«Sei stata tu ad offrirmi quella visione» si giustificò.
«Non l’ho fatto apposta, e comunque avresti potuto guardare altrove».
«Non c’era alcun panorama che valesse la pena vedere» finì con un ghigno divertito.
Restai a bocca aperta e lo maledii, come sempre doveva avere lui l’ultima parola.
C’erano volte in cui avrei voluto imbavagliarlo per non sentirlo.
Passarono altri minuti in cui nessuno dei due si mosse, volevo trovare qualcosa da dire per non fargli avere vinta anche quella ma non ci riuscii.
A dispetto di quello che si poteva pensare, Merle era piuttosto astuto. Molti si fermavano solo sulle apparenze, sottovalutandolo e rimanendo sorpresi dalle sue innumerevoli capacità, tra cui, quella che spiccava tra le altre, quella di mettersi costantemente nei guai con la legge.
Quando non riuscii a trovare nulla di abbastanza intelligente da dire, fu lui a interrompere il silenzio.
«Potrebbe entrarti qualcosa in bocca se continui a tenerla aperta».
Lo guardai di sottecchi e ancora una volta quel ghigno era lì, come se fosse nato per prendere per il culo le persone.
Scostandolo mi diressi a passo spedito verso l’accampamento, borbottando frasi disconnesse e tenendo lo sguardo basso per non dover guardare nessuno.
Poco dopo sentii i suoi passi cadenzati e silenziosi seguirmi, ma non gli prestai attenzione fino quando non arrivammo alla sua tenda. Notai con la coda dell’occhio Daryl seduto per terra intento a scuoiare degli scoiattoli e mi fermai di scatto. Guardai il più grande dei due fratelli come per fargli capire che dovevo andarmene, ma lui fece passare lo sguardo da me al fratello e come se avesse capito che c’era un po’ di tensione, decise di godersi lo spettacolo.
Mi mise un braccio attorno al collo e avanzò con passo veloce e spavaldo, come se non vedesse l’ora di scoprire cosa fosse successo.
«Ehy, Junior. Guarda chi è tornata tra noi» disse camminando con aria trionfante.
Il più piccolo alzò lo sguardo appena e indugiò su di me per qualche secondo di più, come per assicurarsi che stessi bene, poi tornò alla sua precedente occupazione con la stessa indifferenza di sempre.
Mi morsi il labbro cercando di non guardare né lui né ciò che stava facendo e mi focalizzai sul venticello che faceva muovere le foglie degli alberi come in una danza. Mi sentii fuori posto, come se non dovessi essere lì, quindi mi liberai dalla stretta di Merle.
Avevo bisogno di un po’ di tempo per schiarirmi le idee, ma soprattutto pensare.
«Andiamo zuccherino, non vuoi farmi un po’ di compagnia?» chiese il maggiore sottolineando la parola per farmi capire le sue vere intenzioni.
Sentii Daryl grugnire come se la cosa gli desse fastidio, e per un istante pensai seriamente di seguirlo, ma non era il caso. Roteai gli occhi e me ne andai.
Presi dal furgone il mio kit per pulire le pistole e tornai verso il camper, dove mi sedetti sul terriccio in ombra. Estrassi la pistola dalla fondina, tolsi il caricatore ed iniziai a smontarla, cercando di non badare alla proposta di Merle.
Non era la prima volta che alludeva a certe cose, e sinceramente non mi davano più nemmeno fastidio perché tanto erano solo chiacchiere, lo sapevo io e lo sapeva lui. O almeno decisi che sarebbe stato così dopo… Sentii qualcosa contorcersi alla bocca dello stomaco e cercai di non dare peso a quel sentimento che molti definivano “senso di colpa”. Era una cosa della quale non andavo molto fiera, non proprio per ciò che avevamo fatto, ma perché avevamo agito alle spalle di Daryl, e questo lo odiavo quasi quanto il fatto di non riuscire a dirglielo.
Finii di pulire il castello della pistola e lo posai sulla mia gamba per non farlo sporcare con la terra. Guardai con sguardo truce tutte le parti della mia arma come se, sentendosi minacciate, potessero sistemarsi da sole all’improvviso senza che io dovessi fare la fatica di riassemblare di nuovo tutti i componenti.
Con una scrollata di spalle mi rimisi a lavoro, rimontando pezzo dopo pezzo la mia pistola, cercando di non farmi distrarre da nulla per non lasciare parti mancanti. La parte in cui dovevo ricostruirla era quella che mi metteva più ansia, e quella a cui prestavo maggiore attenzione perché se avessi saltato qualche passaggio non avrebbe funzionato, e se ne avessi avuto bisogno sarei stata nei guai. Una volta sicura di aver messo tutto nell’ordine giusto, la ricaricai.
Ecco qui, come nuova.
«Come sei riuscita a farlo?».
Alzai il capo mascherandomi gli occhi con una mano per vedere Andrea davanti a me in attesa di una risposta.
Mi accertai che la sicura fosse inserita e riposi la pistola al suo posto.
«Ho avuto dei validi maestri» dissi rialzandomi.
«Con validi maestri intendi i Dixon?» chiese curiosa.
La guardai con aria interrogativa e notando il mio cruccio, continuò.
«Sembrate molto legati, quando Merle è uscito dalla vegetazione con te in braccio credevamo tutti che fosse una visione di qualche fenomeno inspiegabile, lui è sempre così…» si fermò e mi guardò come se non riuscisse a trovare il termine corretto.
«Scontroso?» le suggerii sorridendo.
«È stato strano vederlo preoccuparsi di qualcuno che non sia lui».
Aveva ragione. Lui non si curava mai di nessuno all'infuori di sé stesso e del fratello, cosa che mi fece capire quanto veramente considerasse importante la nostra amicizia per meritarmi un trattamento del genere.
«Le apparenze ingannano. Può sembrare uno stronzo, e lo è fidati, ma non è cattivo. È solo cresciuto con persone poco raccomandabili».
«Sì ma i commenti che fa riguardo a tutti, i soprannomi che usa…».
«Sono fastidiosi, lo so. Prima che mi tingessi di nero mi chiamava “Brownie” perché avevo i capelli marroni, poi sono stata rinominata “Marshmallow”, perché avevo quei quattro/cinque chili in più e diceva che il mio fisico gli ricordava quelle caramelle perchè - parole sue – avevo le tette “gommose e morbide”» dissi senza riuscire a trattenere un sorriso. «Ignoratelo, al lui piace provocare la gente».
Se i primi tempi mi infastidiva, andando avanti con il tempo sono riuscita ad accettarlo, il mio fisico per me non è mai stato un grande problema, avevo cose più importanti di cui curarmi che non piangermi addosso perché non ero proprio uno fotomodella.
«Io e le altre andiamo a fare il bucato. Ero venuta a dirti se vuoi venire con noi».
«Certamente, vi raggiungo subito. Vado a prendere un paio di cose».
Annuì e si allontanò mentre io presi la direzione opposta per prendere i miei panni sporchi da lavare, poi mi fermai e inclinai leggermente la testa con aria confusa, come se non sapessi cosa fare. Sicuramente anche Merle e Daryl avevano bisogno di vestiti puliti, ma non volevo avvicinarmi troppo a loro, dovevo ancora digerire la litigata avuta un giorno prima con il minore e il bacio che ne era seguito, e anche se non avrei potuto evitarlo per sempre, per il momento era meglio se ognuno di noi restava un po’ per i fatti suoi.
Facendomi coraggio mi avvicinai al loro accampamento e vidi una seconda tenda montata vicino all’altra, alzai un sopracciglio ma non ci feci caso. Chiamai il maggiore un paio di volte prima di sbuffare e accettare il fatto che non fosse da nessuna parte da poter essere visto.
Senza ulteriori indugi entrai nelle due tende, presi tutti i vestiti che vi trovai e, insieme a i miei, mi incamminai verso la cava, dove le altre ragazze mi stavano aspettando.
 
 
 
 
 
 
 
 
 

*angolo autrice*
ciao a tutti! c:
apro subito una piccola parentesi perché devo dare un avviso MOLTO importante.
Il prossimo mese ricomincia la scuola (quale gioia!) e quindi non ho assolutamente idea di quanto potrò essere presente.
A tal proposito cercherò di aggiungere un altro capitolo oltre a questo prima dell’undici di settembre, giorno in cui ricomincerà la mia odissea D:
Passiamo ad altro. Finalmente sono arrivata dove volevo arrivare e sono riuscita a mettere pure Merle in questo capitolo
(non avete idea di quanto mi manchi come personaggio D:).
Come ho già accennato dovrei riuscire a iniziare la serie in dieci capitoli, ho già la trama fino al capitolo 20,
devo solo metterla per iscritto e poi posso iniziare a pubblicare anche quelli. 
Ora mi eclisso,
bye

yulen

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Capitolo 12
*** Capitolo11 ***



 

 
Capitolo11
 
 

 
 



La mia giornata al campo non era ancora giunta al termine, eppure io mi sentivo stanchissima.
Mi avviai con calma verso i fili dove misi ad asciugare i panni bagnati continuando a parlare con Carol e Jacqui, le quali mi stavano raccontando che la sera precedente, appena tornato dalla caccia, Daryl disse loro che tutto ciò gli ricordò di quella volta in cui era sicuro di aver visto un Chupacabra.
Iniziai a ridere divertita e scossi la testa.
«È la stessa cosa che ha detto a me, ma quando l’ho visto uscire da quel bosco non era molto lucido, quindi non so quanto possa essere vero» risposi ancora ridendo
«Sembra che tu lo conosca bene».
Guardai Jacqui e sospirai, senza impedirmi di non rattristarmi.
«Siamo cresciuti insieme, lo definirei quasi il mio migliore amico».
Le due donne si guardarono intensamente con aria dubbiosa, era come se riuscissero a parlarsi solo con gli sguardi, lasciandomi fuori dalla loro conversazione. Sebbene la cosa non mi infastidisse molto, volevo sapere che cosa si stessero dicendo.
Come se avessero capito che stavo aspettando qualcosa, Carol si schiarì la voce e mi guardò.
«Vedi, quando ti abbiamo vista coperta di sangue e priva di sensi uscire dal bosco con i Dixon, abbiamo pensato che loro c’entrassero qualcosa e questi sospetti sono diventati più forti quando ti abbiamo tolto la maglia per medicarti. La tua pelle era coperta di lividi e sul fianco avevi un taglio. Credevamo che fosse colpa loro».
Restai in silenzio per svariati secondi, facendo passare lo sguardo prima su una e poi sull’altra cercando di non ridere un’altra volta. Non sarebbe stato carino nei loro confronti, ma non riuscii a non trattenere un piccolo sorrisetto. Si poteva dire tutto di loro, ma non che fossero violenti con le persone di sesso opposto.
«Non farebbero mai del male a una donna, nemmeno se obbligati. Se ve lo state chiedendo io e Daryl abbiamo litigato, io ho alzato un po’ la voce e siamo stati circondati, ho iniziato a correre verso il bosco ma sono inciampata sulla radice di un albero cadendo e tagliandomi il fianco. Non ricordo ciò che è successo dopo perché devo essere svenuta per il sangue perso» dissi finendo di stendere una delle mie maglie.
Mi guardarono sollevate, e Carol si lasciò andare ad un respiro più forte, come se si fosse alleggerita da un peso che gravava su di lei, ma che io non riuscii a vedere.
Dopo averle salutate presi un pacco di uvetta e mi sedetti attorno ad un tavolo per prendermi una piccola pausa prima di passare alla prossima attività che avrebbe coinvolto il dispendio delle mie energie. Speravo che si sarebbero sciupate in modo da permettermi di riposare la notte, perché sapevo che ora che ero cosciente, non sarei riuscita a chiudere occhio, e tutto questo a causa di una sensazione di fastidio.
Fastidio.
Era questa la parola che continuava a ronzare nella mia testa e la cosa peggiore era che non sapevo che cosa fosse a darmi quel tormento, anche in quel momento continuai a domandarmi cosa ci fosse di sbagliato senza trovare una risposta.
«Ti senti bene?».
Amy si sedette davanti a me, guardandomi un po’ preoccupata.
Cercai di dire qualcosa che non fosse una bugia perché io non sapevo mentire, quindi mi sforzai di sorridere.
«Sì, sono solo un po’ stanca».
«Sicura sia quello il problema? Ho come l’impressione che tu stia cercando di evitare Daryl».
Il chicco d’uvetta che stavo per ingoiare si incastrò in gola e dovetti bere due bicchieri d’acqua per riuscire a mandarlo giù.
Amy mi guardò inarcando un sopracciglio, insospettita dal mio comportamento.
Merda!
Annuii cercando di essere convincente.
«Cosa? Oh, no, no, no». Scossi la testa con vigore, cercando di convincere più me stessa che lei. «Ho lavato i panni sporchi e poi la mia ferita mi fa piuttosto male e…»
Mi fermai quando vidi il suo sguardo poco convinto e sbuffai, mi girai per essere sicura che non ci fosse nessuno e presi coraggio prima di parlare.
«Hofattounacosachenonavreidovutofaremadellaqualenonmipento» pigolai con voce stridula, tutto d’un fiato, guardando per terra.
In quel momento sembrò che tutto il mondo si fosse fermato e tutti i presenti stessero guardando solo me. Arrossii così violentemente che sentii la faccia andare a fuoco e mi morsi la lingua, nascondendo il viso tra le mani per cercare di tornare al mio colorito pallido naturale.
«Tu sei davvero strana» commentò divertita dal mio comportamento.
«Non ne hai idea…» mormorai così bassa che nemmeno io riuscii a sentirmi.
Sorrise come se fosse nata per quello e guardò un punto dietro le mie spalle. Incuriosita mi voltai anche io sentendo una strana sensazione che partì dal basso ventre fino a fermarsi alla bocca dello stomaco, dove un nodo mi impedì di finire di magiare il pacco di uvetta, e di questo ne fui sollevata. Io odiavo l’uvetta.
Daryl stava seduto su un sasso, intendo a strappare le maniche di una delle sue camice.
Mi morsi il labbro e valutai l’ipotesi di andare da lui e risolvere quella questione rimasta in sospeso, ma non ero ancora pronta. Ero scossa per ciò che era successo e iniziare una conversazione in quello stato non avrebbe giovato alla nostra amicizia, anzi, avrebbe solo peggiorato le cose.
Non puoi fuggire per sempre.
La voce di Kim mi diede il coraggio di avvicinarmi a lui e di sedermi al suo fianco, guardandolo per cercare un punto da cui iniziare. Restai in silenzio per un po’ guardandolo strappare con il coltello i punti dove c’erano le cuciture delle maniche.
Quando alzò il suo sguardo verso di me, sentii una forte scarica che scosse tutto il mio corpo, e improvvisamente riuscii a dare una spiegazione al mio stato d’animo. Ero turbata perché lo avevo baciato quando mi ero promessa che non lo avrei mai fatto per non compromettere la nostra amicizia.
«Il gatto ti ha mangiato la lingua per caso?» .
«Possiamo parlare?» chiesi titubante.
Quando non ricevetti risposta, sospirai e mi feci coraggio, non stavo andando al patibolo dopotutto.
«Se vuoi che ti dica che mi dispiace te lo dirò, ma non ho intenzione di pentirmi per quello che ho fatto» dissi riferendomi al bacio. «Però per ciò che ho detto vorrei prendermi a schiaffi. Sono qui perché voglio solo che tu sappia che non lo pensavo davvero, ero solo arrabbiata».
Avrei voluto aggiungere altro, ma mi fermai. Sentivo il cuore andare così forte che temetti sarebbe scoppiato da un momento all’altro, e quando lo vidi alzarsi per andare via sentii come se avesse appena smesso di battere, portai le ginocchia al petto e vi appoggiai sopra il mento.
Sorrisi amaramente, non potevo aspettarmi una reazione diversa da lui. Non potevo pretendere che andasse a raccogliere fiori e tornasse da me scusandosi, non sarebbe stato un atteggiamento tipico di lui, ed ero sicura che il suo ego da uomo ne avrebbe risentito.
Guardai l’ora e quando vidi che era solo mezzo giorno decisi di andare ad Atlanta. Andarci da sola non era una cosa molto intelligente da fare, ma volevo respirare per un po’, per non sentirmi soffocare, e sapevo che se volevo partire avrei dovuto farlo subito, prima che i due fratelli tornassero.
Caricai sulla spalla una sacca vuota, allacciai strette le stringhe degli stivali, presi una giacca leggera che infilai nella borsa e raccolsi i miei dread in una coda.
Controllai di avere abbastanza munizioni per la pistola e il fucile di precisione che silenziai e armata di ascia, mi diressi verso il camper, dove trovai Dale intento a fare la guardia.
«Faccio un giro per Atlanta, tornerò prima che faccia buio» dissi portandomi una mano alla fronte per mascherare gli occhi dalla luce intensa del sole.
«Sicura sia una buona idea? Vuoi che qualcuno venga con te?».
Scossi la testa e sistemai meglio una delle spalline del borsone.
«No, non ci metterò molto, voglio solo dare un’occhiata veloce».
Mi lanciò uno sguardo poco convinto, ma non disse nulla, perciò con passo lento e misurato iniziai a camminare per raggiungere la città, sperando di poter fare ritorno.
Quando poi raggiunsi il cuore di Atlanta, capii che - come Macon e Savannah - era ormai un biglietto di sola andata per l’inferno. Ogni volta che mi giravo c’erano zombie che non vedevano l’ora di assaggiare la mia carne.
Dopo aver passato quasi tutto il pomeriggio a cercare in negozi, case, bar e ristoranti rifornimenti di qualsiasi tipo, pensai che ispezionare un grande parcheggio non sarebbe stata poi una pessima idea. Dentro c’erano pochi erranti che camminavano, inciampando, senza una meta ben precisa.
Cercai un punto rialzato dove fossi abbastanza coperta e al sicuro dalle loro fauci, posai il calcio del mio M21 contro la mia spalla e iniziai a ripulire la zona. Feci fuori una decina di vaganti circa, ma prima di entrare volli essere sicura di averli eliminati tutti, così iniziai a picchiare sulla recinzione con il calcio del fucile. Quando nessun suono si aggiunse a quello che produssi io, scavalcai il cancello con un’agilità che non sapevo di avere.
Controllai velocemente le auto, ma per mia sfortuna avevano tutte l’antifurto, e rompere il finestrino facendo scattare l’allarme non mi sembrava una buona idea.
Feci per allontanarmi da un Hummer quando qualcosa mi afferrò la caviglia. Cercai di sottrarmi dalla presa ferrea di quello che un tempo doveva essere stato un uomo, ma caddi all’indietro picchiando la testa sull’asfalto.
Con tutte queste botte finirò con il rimanerci secca.
Feci giusto in tempo a riaprire gli occhi e alzare il capo per vedere che quella creatura era già con la bocca aperta e vicina al mio piede.
Forse troppo vicina.
Con la gamba libera sferrai un calcio che servì per farmi liberare, e senza perdere tempo, afferrai il coltello che infilzai nella sua testa.
Mi rialzai sulle mie gambe mal ferme e mi toccai la testa. Fortunatamente non era nulla di grave, non usciva nemmeno sangue, ma faceva male. Dannatamente male!
Guardai il cadavere che aveva smesso di muoversi, e qualcosa di luccicante che pendeva da uno dei passanti dei suoi pantaloni catturò la mia attenzione. Mi avvicinai con cautela, tenendo il manico del coltello ben saldo tra le mani e scoprii che si trattava di un mazzo di chiavi. Presi quella che sembrava la chiave di una macchina e premetti il pulsante per capire a quale mezzo appartenesse. Sentii il sistema di chiusura dell’Hummer disattivarsi e sorrisi.
«Allora sei tu» dissi aprendo lo sportello.
Mi sedetti al posto del guidatore, accesi il quadro e sperai che ci fosse abbastanza benzina per riportarmi al campo.
Andiamo, andiamo, andiamo!
Quando vidi che la lancetta segnava che il serbatoio era quasi pieno, mi lasciai sfuggire un gridolino di gioia.
«Sì!» esultai.
Gettai il borsone nel portabagagli e andai ad aprire il cancello per permettermi di uscire.
Guardai lo stereo e pensai che non avevo fatto male a portarmi dietro i miei CD – che sfortunatamente però era al campo -. La musica era una cosa che mi mancava. Frugai nel cruscotto alla ricerca di qualche disco senza trovare nulla di mio gradimento se non brani country, una mappa di tutta la Georgia e dei documenti privi ormai di una qualsiasi importanza, perché tutte le cose ormai si concentravano sulla sopravvivenza.
Era questo il nuovo obiettivo: sopravvivere ad ogni costo, anche se per farlo avremmo dovuto spezzare ogni legame di amicizia.
Io però non ero fatta per quel mondo. Non avrei mai potuto sacrificare le persone a cui volevo bene pur di riuscire a respirare per un altro giorno perché sarei morta in ogni caso. Sarebbe morta una parte di me, quella più importante. L’umanità. Non avrei potuto fare del male a nessun essere vivente. Ero terrorizzata dai ragni, eppure non mi sembrava giusto ucciderli.
Rallentai quando vidi la stradina di ghiaia che mi avrebbe riportata al campo e mi fermai una volta arrivata.
Appena scesi mi ritrovai la canna di un fucile a pompa puntata contro la mia faccia. Sobbalzai sorpresa e guardai Shane che non accennava ad abbassare l’arma, dietro di lui c’erano T-Dog e Dale. Mi scostai irritata da quel gesto e andai ad aprire il portabagagli per prendere la borsa.
«Dovevo trovare il modo di sdebitarmi» dissi porgendogliela.
Senza aspettare che rispondessero mi allontanai per andare a prendere il resto delle mie cose dal retro del furgone e caricarle nella mia nuova macchina. Non volevo avere nulla a che fare con Daryl. Se lui stava bene anche senza di me anche io potevo cavarmela anche da sola.
«Dove cazzo sei stata?».
Parli del Diavolo…
Mi scoprii infastidita dalla sua presenza, ma non risposi. Presi i miei borsoni e mi diressi verso la tenda per prendere il maglione e la coperta che avevo lasciato lì quella mattina. Per tutto il tempo non lo calcolai, comportandomi come se lui non fosse lì, ma fu impossibile quando si posizionò davanti a me, sbarrandomi la strada. Mi ritrovai a guardare il suo petto che si poteva intravedere dalla maglia madida di sudore e mi morsi il labbro, portando i miei pensieri altrove. Cercai di aggirarlo, ma mi afferrò per un braccio, costringendomi a fermarmi a pochi centimetri da lui.
«Sono stata ad Atlanta, dove sennò?» risposi.
«In queste condizioni?» chiese alzando la maglia e rivelando la fasciatura sporca di sangue.
Mi morsi il labbro e mi liberai dalla sua presa, prendendo l’orlo e abbassandolo con fare brusco.
«Ma che diavolo?!» urlai indietreggiando.
Sentii subito le guance diventare bollenti, le mani stavano ancora tirando il tessuto nero della maglietta mentre spostavo il peso da una gamba all’altra, cercando un modo per togliermi da quella situazione che mi faceva sentire a disagio.
Strinse una sua mano attorno ai miei polsi e sollevò di nuovo un lembo del top per guardare la medicazione sporca, toglierla e rivelare lo fregio che deformava la mia pelle candida.
«Daryl!» protestai cercando di sottrarmi al suo tocco.
Allentò leggermente la presa e in quel frangente ne approfittai per svignarmela senza mai voltarmi fino quando arrivai al mio mezzo, dove mi presi del tempo per osservarlo da lontano.
Che cosa gli stesse prendendo io non ne avevo idea, ma lo preferivo quando faceva il menefreghista e non per il fatto che si era preso una libertà che non solo mi faceva sentire in imbarazzo, ma anche perché non si era mai preso il permesso di fare una cosa del genere.
Applicai una nuova garza che fermai con una benda e iniziai a girovagare alla ricerca di qualcosa da fare. Sembrava però che tutti avessero tutto sotto controllo; Lori e Carol stavano facendo fare i compiti a Carl, Sophia e ai figli dei Morales, i quali erano impegnati a sistemare la loro tenda per la notte, Jacqui stava preparando la cena insieme ad Amy ed Andrea, Glenn e T-Dog stavano tagliando la legna per accendere il fuoco, Shane e Dale erano di guardia sul camper di quest’ultimo e di Merle nemmeno l’ombra.
Sbuffai e presi un libro che trovai quel pomeriggio in una casa e iniziai a leggerlo, senza prestare attenzione al titolo e senza immedesimarmi nella lettura. Cercai di focalizzarmi sulla trama, ma non ci riuscii, i miei pensieri erano tutti proiettati altrove. Sbuffai, chiusi il libero e mi appiattii ancora di più contro lo schienale, riuscendo a rilassarmi.
Quando sentii dei passi lenti e misurati, sorrisi, ma rimasi nella stessa posizione.
«Sei venuto a farmi il terzo grado anche tu?» chiesi.
Quando non sentii più il sole riscaldare la parte sinistra del mio viso, ma al contrario si venne a creare una sorte di ombra, capii che il maggiore dei due fratelli si era messo davanti alla portiera aperta.
«Sei abbastanza grande per prendere le tue decisioni, tesoro».
«E allora perché sei qui?» chiesi aprendo gli occhi ma guardando diritta davanti a me.
«Ti sei trasferita a quanto vedo» commentò con un certo interesse.
Mi rialzai con un sospiro e mi voltai verso di lui; dire una cazzata qualsiasi non sarebbe servito a nulla se non a farlo incuriosire ancora di più, la verità era l’unica via per accontentarlo e farlo allontanare.
«Voglio evitare a tutti i costi Daryl. Sono sicura che il perché tu lo sappia senza che io te lo dica» dissi guardandolo. «Quando avrà fatto pace con il cervello, digli che sa dove trovarmi».
Ghignò divertito e si avvicinò pericolosamente al mio orecchio, avrei voluto sottrarmi, ma era come se una forza misteriosa mi dicesse di restare ferma dove ero.
«Sono sicuro che lui sappia benissimo dove trovarti» sussurrò.
Trattenni il respiro senza sapere perché e chiusi gli occhi per riaprirli quando sentii il vento accarezzarmi la pelle.
Che cosa avrà voluto dire?
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ciao a tutti, bellissimi e bellissime c:
La faccio breve perché ho una “sorpresa” per voi.
Ho sfornato altri tre capitoli che pubblicherò questa sera stessa. Quindi a tra poco! C:
 
yulen

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Capitolo 13
*** Capitolo12 ***


 

  

Capitolo12
 
 
 
 
 
 
  
 
 
Il giorno seguente mi risvegliai con un terribile mal di schiena. Guardandomi attorno vidi che ero nell’abitacolo dell’Hummer, probabilmente la sera prima mi ero addormentata lì.
«Boo!».
Saltai sul sedile, portandomi una mano al cuore e guardando il finestrino dietro il quale, Merle, mi guardava con un espressione compiaciuta sul volto, come se fosse soddisfatto di avermi spaventata a morte.
Testa di cazzo!
Mi stropicciai gli occhi con i polpastrelli delle dita e poi scesi stiracchiandomi. Il sonno era completamente scomparso.
«Cos’hai? Sei anni? Hai la maturità di un bradipo».
Sogghignò divertito e poi passò una mano attorno alle mie spalle come’era solito fare mentre camminavamo verso il camper dove si era creato un piccolo gruppo di persone.
Non ero seccata, ma in quel momento avrei voluto dargli un pugno in faccia per avermi svegliata in quel modo. Non mi aspettavo di certo colazione a letto con una rosa nel bicchiere, ma avrebbe potuto usare un modo più gentile, anche se “gentile” non era proprio una parola del suo vocabolario.
Scossi la testa e sbadigliai di nuovo una, due volte prima di scrollare le spalle per rimuovere completamente l’aria assonnata che ancora avevo e solo quando inciampai in un sasso riuscii a risvegliarmi dal torpore che ancora avvolgeva il mio corpo.
Mi strinsi nelle braccia per proteggermi dalla brezza mattutina che mi solleticava la nuca facendomi rabbrividire appena. Ero abituata alle temperature fredde, ma in quel momento ero stanca e il mio fisico reclamava a gran voce un altro paio d’ore di dormita o quanto meno una tazza di caffè macchiato senza zucchero. Com’ero solita prenderlo.
L’orologio che avevo al polso segnava le sette di mattina e tutti - tranne i bambini - erano già in piedi e pronti a darsi da fare per rendere quel posto più sicuro.
«Io e Darylina andiamo a caccia, non sentire troppo la mia mancanza, Marshmallow» ghignò.
Gli tirai una leggera gomitata allo stomaco e se ne andò ridendo sotto i baffi.
Mi ero dimenticata di quanto fosse divertente e strano allo stesso tempo parlare e scherzare con lui.
Andai verso i fili dove il giorno prima avevo messo ad asciugare i panni e li ritirai poiché asciutti. Li piegai e li portai nelle nostre tende, e una volta finito anche quel compito mi guardai attorno, rigirandomi le mani, fino quando non vidi Shane sul camper.
Era rimasto lì tutta la notte a fare la guardia e ora stava scendendo per lasciare il posto a qualcun altro. Tutti però sembravano presi dalle proprie faccende, e visto che io non avevo nulla da fare, mi offrii volontaria per sostituirlo.
«Prendo io il tuo posto?» chiesi avvicinandomi.
I suoi occhi scuri mi scrutarono per alcuni secondi e poi si spostarono alla mia pistola.
«Non credo sia una buona idea» rispose risoluto. «Ci serve qualcuno che sappia sparare, senza offesa, ma credo che sia meglio se ti occupi del resto».
Aveva mantenuto un tono duro e inflessibile e stava rigido nella sua postura, come se volesse tenere tutto sotto controllo.
C’era qualcosa in lui che lo rendeva la colonna portante del gruppo, quello che avrebbe protetto tutti, ma sapevo già in partenza che questo suo carattere forte e questa sua volontà di ferro non sarebbero mai andati d’accordo con Daryl o Merle. Non c’era posto per tre capi gruppo, quindi la speranza di vita tranquilla sparì come neve al sole.
«Dovrei restare ferma e fare la schiavetta?» domandai incredula.
Tutti si voltarono verso di me, e per un attimo mi sentii scoperta, quindi incrociai le braccia sotto il seno, camuffando quel gesto come un modo per ripararmi dall’aria.
«Non sai sparare, mi sembra ovvio il perché non voglio metterti un’arma in mano e ora come ora non c’è tempo per insegnarti a farlo».
«Io so come usare qualsiasi arma da fuoco e ho una buona mira anche se preferisco usare armi a corto raggio. Il rinculo dei fucili mi crea problemi alla spalla destra» spiegai brevemente.
Inarcò un sopracciglio e mi guardò di nuovo con interesse, come se quello che avevo detto avesse catturato la sua attenzione, poi parlò di nuovo.
«Quali sono le cinque regole base per un uso corretto di fucili e pistole?».
«Trattare sempre tutte le armi come se fossero cariche, inserire la sicura quando si ha finito di usare l’arma, mai passarla a un altro senza che il carrello sia aperto per controllare che sia effettivamente scarica, mai inserire il dito sul grilletto se non si intende sparare, assicurarsi sempre del bersaglio e di cosa vi è dietro e quando si smonta non bisogna mai puntare la canna verso se stessi o verso gli altri» risposi contando sulle dita per essere sicura di averle elencate tutte. Una punta di orgoglio crebbe dentro di me per essere riuscita a ricordarle tutte.
«Eri nell’esercito?» chiese con una nota di rabbia.
Scossi la testa vigorosamente e capii che il suo odio per il corpo militare poteva essere dato solo dal fatto che anche lui aveva visto che cosa stessero facendo negli ospedali. Anche io per un periodo li odiai, forse ancora adesso li incolpavo della morte di mio pare, ma non c’era nulla che potessi fare per riaverlo indietro, e scaricare la colpa sui militari non aveva senso.
«Ho lavorato come guardia forestale all’Okefenokee National Wildlife» risposi. «Se non vuoi farmi fare la guardia va bene, ma non ho nemmeno intenzione di essere la serva di nessuno» annunciai convinta.
Me ne andai indispettita, borbottando frasi a bassa voce e aggiungendo qualche parolaccia e imprecazione in russo per dare ancora più enfasi al concetto che solo perché il mondo era finito non c’era bisogno di tornare al medioevo, dove le uniche preoccupazioni delle donne erano quelle di cucinare e pulire.
Era una suddivisione dei compiti a mio avviso sessista, e la cosa mi dava fastidio anche se non era che dovevo stare per forza ai loro dettami. Daryl e Merle non avrebbero mai scelto di aggregarsi a loro e quindi non lo avrei fatto nemmeno io. Condividevamo lo spesso spiazzo, ma non per forza la stessa vita e nemmeno le stesse regole; voleva infatti che gli consegnassi pure la mia pistola, ma non avevo intenzione di cedere.
Poco importava se non potevo esserci anche io nei turni di guardia, avrei trovato qualcos’altro da fare che non fosse solo lavare i vestiti e cucinare, anche perché io non sono mai stata una cima in cucina visto che vivevo solo di frutta e verdura. Quello fissato con la cucina era mio padre, ed era anche abbastanza bravo se escludiamo la parte che riguarda i dolci. Non era un granché quando si trattava di torte, tendeva sempre a bruciarle e io non ero da meno. Una volta provai a farne una per il suo compleanno ma ci mancò poco che mandassi a fuoco tutto, quindi decisi che avrei chiuso con l’attività culinaria e mi sarei dedicata ad altro: tipo l’astronomia.
Era quello il mio hobby e il mio telescopio mi mancava tantissimo, come mi mancavano i miei libri con tutte le scoperte, i racconti delle missioni e quelli delle sonde spaziali lanciate in orbita. Quando avevo del tempo libero, mi piaceva salire sul tetto e osservare le miriadi di stelle e la luna.
Per molti il mio era tempo perso, ma per me aveva un significato diverso che partiva dal presupposto della vita, per questo ho continuato con le mie ricerche e appunti fino a quando non ho più potuto farlo.
I miei ricordi furono interrotti da degli schiamazzi, e riportando l’attenzione al presente mi accorsi che si erano svegliati anche i due bambini: li vidi avvicinarsi alle loro madri, le quali posarono una mano sulle loro schiene per massaggiarle nella speranza di dargli un po’ di conforto. Era chiaro che fossero spaventati da quella nuova situazione, non era facile per noi adulti fare fronte a quella situazione, figuriamoci per dei bambini i cui unici problemi avrebbero dovuto essere la scelta dei calzini da indossare quel giorno o quali cartoni guardare alla TV.
«Ci serve legna per stasera» disse T-Dog accatastando i pochi ceppi rimasti.
Se c’era un’altra cosa di cui sentivo la mancanza era proprio il riscaldamento, anche se raramente lo si accendeva a casa.
«Vado io» risposi prendendo la mia ascia.
Senza aspettare alcuna risposta mi diressi verso il bosco, lasciandomi alle spalle l’accampamento.
 
 
 
Ritornai qualche ora dopo, con i nervi più rilassati e un fascio di rami e bastoncini più piccoli, ideali per accendere il fuoco.
Era appena passato mezzogiorno e tutti avevano già fatto pranzo, Carol si era premurata di lasciarmi da parte del pane e del formaggio che mangiai dopo aver diviso la legna - che avremmo usato quella sera – in due gruppi.
La gentilezza di quella donna mi faceva sentire molto l’assenza di mio padre, e per un attimo mi rabbuiai, stringendo la catenina che avevo al collo.
Era stato un suo regalo e non me n’ero mai separata, infatti non avevo intenzione di farlo.
Non avendo molto da fare pensai che fare qualche scatto del luogo sarebbe stato un ottimo passatempo, oltre che un modo per documentare. Non ho idea del perché, ma avere una testimonianza delle nostre avventure – se così si possono chiamare -, era un modo per far conoscere ai nostri successori il modo in cui eravamo riusciti a sopravvivere in quella piaga.
Era il mio modo per lasciare una nostra traccia nella storia dell’umanità.
Feci qualche scatto da sopra lo strapiombo, riuscendo a riprendere non solo lo specchio d’acqua, ma anche tutto il resto dell’accampamento, spostai poi la mia attenzione alla foresta, avvicinandomi ad un albero sopra il quale stava un uccellino, intento a guardarmi inclinando la sua piccola testolina.
Immortalai anche quel momento, sapendo che purtroppo non sarebbe durato in eterno e la creaturina sembrò apprezzare la foto, perché cinguettò un paio di volte prima di spiccare il volo che lo avrebbe portato lontano.
Fu divertente per una volta fare qualcosa che non comportasse un alto tasso di mortalità come correre dai morti, inoltre riuscii a liberare la mente da tutti i pensieri negativi.
Ad un certo punto arrivarono pure i bambini che mi tennero compagnia per tutto il pomeriggio. Feci delle foto anche con loro, per avere un ricordo se fosse capitato qualcosa e vederli così spensierati mi riempì di gioia, finirono pure a giocare in acqua, trascinandomi con loro.
Trascorremmo lì tutta la giornata, tornando indietro - zuppi d’acqua e tremanti a causa del calo della temperatura - solo quando il sole iniziò a tramontare.
Dopo averli salutati, andai a prendere un asciugamano per asciugarmi, ma Dale mi fermò e mi disse che avrei potuto usare il bagno del camper invece della tenda per cambiarmi. Lo ringraziai con un cenno del capo e presi dei vestiti asciutti che indossai subito.
La stanchezza di quella giornata iniziava a sentirsi e l’idea di una bella dormita, dopo la cena, mi allettò molto, ma un attimo prima di entrare in tenda, fui fermata.
«Kate?».
Mi voltai e vidi Lori e Miranda a pochi centimetri da me.
«Volevamo ringraziarti per aver fatto divertire i nostri figli, soprattutto per averli distratti e tenuti lontani da noi mentre svolgevano le nostre faccende» disse la donna.
«L’ho fatto volentieri» risposi sorridendo. «E poi è stato divertente».
Si guardarono in silenzio per alcuni secondi, ponderando l’ipotesi di dirmi o meno qualcosa che, per loro, doveva essere importante. Fu Miranda a prendere parola.
«Ci stavamo chiedendo se potresti rifarlo quando siamo particolarmente occupate».
«Certamente. Mi piacciono i bambini e trascorrere del tempo con loro è qualcosa che faccio senza troppo storie».
Mi ringraziarono e accennarono anche qualcosa riguardo al fatto che anche Sophia era tornata dalla madre più felice del solito, pregandola di poter fare il bagno di nuovo.
Sorrisi intenerita e guardai la bambina seduta su un sasso, la testa appoggiata al braccio di Carol; anche lei doveva essere stanca morta come Carl e gli altri due bambini che erano distesi con gli occhi chiusi vicino al fuoco.
Strinsi le spalle delle due donne, congedandomi e sparendo nella tendina, dove mi addormentai dopo due minuti.
 
 
 

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Capitolo 14
*** Capitolo13 ***


 

  

Capitolo13
 
 
 
 
 



 
 
  
 
Quel giorno non avevo molto da fare e quindi decisi di ripulire il mio Hummer da tutta la schifezza depositatasi dai giorni precedenti. Ogni tanto scambiavo qualche parola con Amy e Andrea che si erano offerte di aiutarmi nonostante volessi fare quella cosa da sola, ma trovai che avere un po’ di compagnia non fu poi così male. A dire il vero infatti fu piacevole passare del tempo con loro due perché anche se avevano notato che ero aperta e gentile con tutti tranne che con Daryl, non mi fecero domande alle quali non avrei mai risposto.
Aprii una bustina blu che trovai sepolta sotto un cumulo di maglioni e inarcai un sopraciglio quando vidi il mio spazzolino e il dentifricio che credevo di essermi dimenticata di infilare in borsa. In uno scompartimento a parte c’erano due smalti uno blu elettrico e un altro rosa, infilai quello più chiaro in tasca e mi avvicinai alle due sorelle.
«Non credo che questo mi servirà più» dissi guardando Amy. «Fa risaltare il colore dei tuoi occhi».
Mi guardò curiosa ma sorridente e mormorò un “grazie” al quale risposi con un lieve cenno del capo prima di tornare alla mia precedente occupazione che consisteva nel togliere una fastidiosa macchiolina di cioccolata dal sedile del guidatore, trovando sotto esso addirittura l’uncinetto che usavo per sistemare i dread e che credevo di aver lasciato chissà dove.
Ero una ragazza molto disordinata e quando credevo di aver perso qualcosa andavo sempre da mio padre a lamentarmi e a chiedergli se avesse visto questa o quella maglia o quel paio di jeans che ero sicura di aver lasciato sulla sedia ma che non riuscivo a trovare. Allora lui raccattando tutta la pazienza che riusciva a trovare – perché, beh, ero brava a fargliela perdere – mi aiutava sempre a cercare gli oggetti che lasciavo sparsi ovunque, trovandoli sempre in posti immaginabili. Una volta trovò la mia giacca dentro l’armadio dove teneva l’attrezzatura per tagliare l’erba del giardino.
Nonostante la scia di caos che mi lasciavo dietro ogni volta che andavo da qualche parte, lui non si era mai lamentato perché almeno il resto della casa lo tenevo pulito.
Mi lasciava abbastanza libertà e non mi dava troppe regole, ma quelle poche che avevo dovevo seguirle e quando ci si metteva con le raccomandazioni non la smetteva più. Sapevo che si preoccupava solo per me, per questo non mi lamentavo quando mi diceva di stare attenta di fuori e di non bere se dovevo guidare, cosa che comunque non ho mai fatto perché non volevo condannare a morte persone innocenti.
Avevo anche io i momenti in cui credevo di odiarlo perché mi vietava di fare certe cose, convinta che lui non volesse che mi divertissi, ma poi mi accorsi che era perché non voleva che mi facessi male; come quando da bambina correvo per casa e lui mi diceva di smetterla, e io invece di ascoltarlo correvo ancora più forte finendo con la faccia contro porte e muri, o peggio ancora quando presi lo spigolo del tavolo in piena fronte.
Ora mi mancavano quelle raccomandazioni, non aveva smesso di farmele nemmeno quando lentamente ho iniziato a crescere, lasciandomi dietro l’infanzia e l’adolescenza. Diceva che mi avrebbe sempre protetta perché ero la sua principessa, e così fece.
E se io ero la sua principessa, lui era il mio eroe, il mio modello da seguire.
Un giorno quando avevo poco più di sette anni gli dissi che lo avrei sposato perché sarebbe stato sempre il mio uomo, e che avrei potuto amare migliaia di persone, ma mai come amavo lui. 
È stato proprio grazie a mio padre se non mi sono fermata a osservare come una persona appariva, mi aveva sempre detto di guardare bene a fondo gli altri prima di giudicarli e così ho fatto. Non ero una che ascoltava i suoi consigli, ma in quell’occasione, non so perché, gli diedi ascolto, e ne fui davvero felice perché altrimenti non avrei mai fatto amicizia con Merle o Daryl.
Loro abitavo infondo alla strada e non parlavano mai con nessuno, se ne stavano sempre per i fatti loro, sembravano sempre arrabbiati e terribilmente soli, così un giorno mentre mio padre era dalla loro madre per curare le ferite inferte dal marito violento, io mi avvicinai al più grande cercando di assumere un’aria spavalda – per quanto minacciosa potesse sembrare una bambina di cinque anni – ed esordii con un “ciao” pronunciato con voce acuta ma dolce allo stesso tempo e che lo lasciò interdetto per un momento. E fu da allora che iniziai a passare la maggior parte del mio tempo libero lì, costruendo insieme giorno dopo giorno la nostra amicizia.
All’inizio erano entrambi dubbiosi su questo mio atteggiamento verso loro, e quando chiesi spiegazioni a mio padre, lui mi disse che erano cresciuti soli, che tutti li evitavano e che se io avessi deciso però di continuare a stargli vicino, ci sarebbe voluto un po’ di tempo per farli abituare alla mia presenza.
A me non importava se gli altri bambini stavano alla larga perché io a differenza loro non avevo paura. Un giorno Merle mi chiese se fossi coraggiosa o semplicemente stupida e dopo avergli detto che le parole brutte non si dicevano, scoppiai ridere con l’infantilità propria di una bambina.
«Noi ora andiamo» disse Amy con un risolino guardando un punto non ben definito.
Diede una gomitata alla sorella per farsi seguire e poi sparirono entrambe ridacchiando e scuotendo la testa.
Le guardai un po’ confusa, inclinando il capo da un lato e inarcando un sopraciglio per poi voltarmi verso il luogo che prima Amy stava guardando.
Vidi Daryl venire verso di me, tra le mani reggeva la coperta che gli avevo portato io la sera che avevamo litigato.
«Cerca di non lasciare la tua roba in giro, non sono il tuo fottuto postino» disse lanciando la coperta che presi al volo.
La sistemai nel sedile posteriore insieme alle altre e ai borsoni con i vestiti pesanti e ripresi a fare il mio lavoro, non curandomi del fatto che lui era rimasto lì dietro a guardarmi, sarebbe potuto rimanere lì tutto il giorno come una statua che non mi avrebbe procurato nessun fastidio.
«Scusa, mancanza mia. Non sia mai che ti passi qualche malattia infettiva» risposi con un tono volutamente acido.
Lo guardai per studiare la sua reazione e sul viso si dipinse una smorfia di fastidio e fui tentata di rincarare la dose, ma decisi di restare tranquilla.
Caricai nel bagagliaio il borsone con le armi e quello con le scorte mediche insieme alla coperta termica che trovai nell’Humvee tre settimane prima circa. Decisi che quello sarebbe rimasto lì per ogni evenienza e che non avrei toccato quei borsoni a meno che non fosse stato necessario.
«Stupida puttana» borbottò Daryl allontanandosi.
Imbecille!
Lo guardai sparire oltre la discesa, probabilmente era diretto al lago e con una scrollata di spalle sistemai le ultime cose, raccogliendo le cartacce e buttandole tutte in una busta. Quelle parole non mi davano più nessun effetto, nemmeno se mentre le pronunciava le stava pensando davvero. Ormai non facevo più nemmeno la fatica di arrabbiarmi, sarebbe stato un inutile spreco di energie.
Chiusi il bagagliaio e accesi lo stereo tenendo il tono della musica ad un volume ragionevole per non dare fastidio agli altri e finii di sistemare le ultime cose.
«Shane ha detto che sei stata tu ad andare in città l’ultima volta».
Glenn era vicino alla portiera aperta e si stava torturando le mani. Era a disagio, lo sentivo, ma non riuscivo a capire il perché.
«Sì, avevo un pomeriggio libero e volevo fare qualcosa per ripagarvi» risposi socchiudendo gli occhi per vederlo meglio.
Il sole mi creava delle difficoltà nel riuscire a mettere a fuoco la sua figura, perciò dovetti ridurre i miei bulbi oculari a due piccole fessure.
Non avevo mai avuto veramente modo di parlare con lui e volevo avere l’occasione per riuscire ad inquadrarlo per bene.
«Dovrei andare ad Atlanta, stanno finendo le scorte alimentari e le batterie di una delle torce sono scariche quindi dovrò prendere anche quelle…».
«Verrò con te» lo interruppi capendo dove volesse arrivare.
Era meglio andare insieme, prima di tutto perché io avevo la macchina, indi per cui avremmo potuto riportare più cose dietro e poi perché così sarebbe stato più sicuro per entrambi perché avremmo potuto coprirci a vicenda se fosse successo qualcosa.
Glenn parve sollevato dalla mia risposta e capii che andare in città da solo per lui non doveva proprio essere come una giornata al Luna Park, sapevo dei pericoli che si annidavano dietro ogni angolo, per questo non era molto furbo girare da soli.
«Io suggerisco di partire ora così saremo di ritorno al pomeriggio. Devo solo chiedere se c’è bisogno di altro» disse pensieroso ed io annuii.
Era un buon piano quello di partire quando il sole non era ancora alto e non picchiava forte, inoltre avevo notato che in quel momento della giornata gli zombie non erano particolarmente attivi forse perché avevano capito che quello non era l’orario in cui potevano trovare umani da mangiare e quel pensiero mi spaventò un po’. Sapere che non erano proprio stupidi e che avrebbero potuto comunque trovare un modo per metterci sotto scacco, era una cosa a cui non avevo mai pensato perché troppo improbabile.
Abbassando lo sguardo vidi una sacca di stoffa verde vicino ad una delle ruote, conteneva le frecce che avevo trovato a casa di Daryl il primo giorno dello scoppio dell’epidemia. L’avevo ritrovata quella stessa mattina mentre facevo un po’ di pulizia ed ero intenzionata a ritornargliele.
Mi torturai le pellicine vicino alle unghie, indecisa se andare da lui o restare lì e dargliele in un secondo momento, ma non avevo motivo di rimandare. Non era un mostro che avrebbe potuto attaccarmi in qualsiasi momento, ai miei occhi appariva lo stesso che era sempre stato, forse con un po’ di rabbia in più, perché avevo capito che quello che si annidava dentro di lui era rabbia, nulla di più, nulla di meno.
«Queste sono tue» dissi lanciandogli la sacca. «Non mi ricordavo nemmeno di avercele, le ho trovate quando sono passata da te e non ti ho trovato. Le ho raccolte pensando che ti sarebbero servite».
Non attesi nemmeno una sua risposta e tornai subito al mio fuoristrada. Volevo dirgli altre cose, ma era meglio tenermele per me, anche se esse premevano per uscire come troppi uccelli messi in gabbia. Se fossi stata nel paesino dove vivevo avrei sicuramente trovato qualcuno a cui raccontare dei miei problemi e farmi dare consigli su come poter comportarmi con lui, ma non avevo nessuno, e andare in giro gridando che amavo il mio amico da tutta una vita, oltre che sembrare una cosa da manicomio, sarebbe stato anche il punto di rottura definitivo.
«Possiamo andare» disse Glenn.
Annuii distrattamente e salii sul fuoristrada, pensando a qualcosa che si era annidata nella mia mente e che mi impediva di concentrarmi. Durante tutta la mia vita ho sempre conosciuto persone che a un certo punto uscivano senza avere dei motivi precisi e ogni volta che chiedevo spiegazioni ricevevo solo silenzio in cambio. Un po’ come accadeva con Daryl.
Era impossibile parlare con lui senza litigare, aveva questo modo di comportarsi come se volesse vedere fino a che punto una persona riuscisse a sopportarlo.
Se dovessi scegliere un aggettivo per descriverlo credo che userei la parola strafottente, anche se spaziava da momenti in cui sembrava che nulla gli importasse ad altri in cui mi guardava non come un cacciatore fa con la preda, ma più come un cacciatore guarda la sua fidata arma prima di partire per la caccia.
A un certo punto iniziai a domandarmi se non soffrisse di bipolarismo, ma poi cercando di leggerlo capii che il problema non era lui, o io, quanto più il fatto che essendo cresciuto senza nessuno se non con il fratello, non sapeva come si facesse a mantenere i rapporti, e nonostante lui fosse sempre stato una persona che combatteva davanti all’ignoto, in quell’occasione aveva preferito restare dietro le linee in silenzio, senza dire nulla, il perché però, non l’ho mai capito.
«… le case. Kate?».
La strada sembrava infinta davanti a noi ed ero così concentrata sui miei pensieri che non sentii nemmeno le parole di Glenn.
«Kate!?».
Scossi la testa e lo guardai spaesata, come se fosse la prima volta che lo vedevo.
«Hai detto qualcosa?» chiesi.
«Volevo sapere cosa ne pensi se prima controlliamo le case».
Mi morsi l’unghia del pollice e annuii, accendendo lo stereo e tornando a fissare la strada davanti a noi.
Ho sempre creduto che sarei morta lì, nel letto di camera mia quando fosse giunta la mia ora, e non in qualche posto sperduto tra la vegetazione solo perché i morti avevano pensato che era una bellissima idea risvegliarsi e iniziare a camminare, distruggendo qualsiasi cosa si trovasse sul loro cammino.
Avrei voluto vivere la mia vita come me l’ero sempre immaginata, con dei figli e qualcuno a cui stare vicina senza per forza dovermi sposare, senza qualcuno che avrei dovuto per forza chiamare come mio marito, ma mi resi conto che era una cosa troppo utopistica. Non sarei mai diventata madre, non in un mondo come quello per lo meno perché non avrei mai potuto mettere in pericolo non solo la vita del mio bambino, ma anche quella di tutte le persone che avevo vicino e non avrei mai avuto nessuno al mio fianco come avevo sempre sognato. Certo, c’erano gli amici e anche loro erano importanti, ma non era la stessa cosa.
Arrivammo una zona residenziale, ma prima di scendere mi guardai intorno per essere sicura che non ci fossero pericoli e dopo aver spento lo stereo, slacciai anche la cintura.
«Sai sparare?» chiesi montando il silenziatore su una pistola che poi gli porsi.
«Me la cavo» rispose dopo qualche secondo prendendola.
Annuii e scesi imbracciando il fucile e cercando una borsa vuota che avremmo in seguito riempito. Aveva avuto proprio una bella idea quella di fare questo lavoro di mattina perché non si soffocava a causa della calura.
«Facciamo come hai detto tu. Controlliamo prima le case, se troviamo abbastanza rifornimenti torniamo al campo altrimenti ispezioniamo i dintorni» dissi.
Mi assicurai di avere la pistola carica e silenziata così come il fucile e controllai che il coltello fosse al suo posto, quando fui sicura di avere anche abbastanza munizioni iniziai a camminare davanti a lui per poter osservare meglio quella zona e assicurarmi che non ci fossero pericoli.
Le porte di tutte le abitazioni erano chiuse così come le finestre e alcune recavano delle scritte con della vernice rossa, altre invece non era vernice quella che avevo sui muri e le impronte delle mani insanguinate lasciavano capire che cosa fosse successo in quel quartiere.
Le grandi città erano state le prime a venire colpite dall’infezione proprio a causa di tutte le persone. Avevo visto come accadeva e come le cose funzionavano; i primi infetti furono subito portati negli ospedali, convinti che sarebbero bastati solo un vaccino contro una malattia che non sapevano nemmeno da dove venisse e una fasciatura. Avevo visto poi le stesse persone morte risvegliarsi per attaccare in massa, e in quel momento mi ero ripromessa che non avrei mai lasciato che ai miei amici capitasse la stessa cosa.
«È meglio non dividerci. Non sappiamo cosa ci può essere dentro» dissi aprendo la porta di una casetta.
Il cigolio che produsse riecheggiò per l’ingresso vuoto dell’abitazione per poi disperdersi un po’ ovunque.
Entrai tenendo la pistola alta con una mano intorno al calcio e l’altra sotto per avere più equilibrio se avessi dovuto usarla.
Guardai un mobiletto sopra il quale erano posti dei vasi di vetro e li posizionai davanti alla porta come trappola in modo che se qualche zombie fosse passato di lì, noi ce ne saremmo accorti.
Controllammo prima la cucina trovando – in un cassetto - dei coltelli che non esitai a infilare nella borsa. All’occorrenza sarebbero diventati delle armi anche quelli.
Negli armadietti non c’era rimasto molto, probabilmente quella zona era già stata saccheggiata, ma riuscimmo a trovare comunque dei pacchetti di patatine ancora integri, cereali e alcune tavolette di cioccolata nascoste dietro un servizio in porcellana di tazzine da tè.
Vicino al frigo c’era una porta, ma era chiusa e scassinarla avrebbe prodotto troppo rumore, inoltre non sapevo che cosa ci fosse là dietro. Con una scrollata di spalle mi diressi verso la sala dove Glenn aveva già iniziato a cercare tre le varie credenze senza però trovare nulla di utile se non una torcia in un cassetto insieme ad un pacco di pile, qualche candele e ad una scatola di fiammiferi.
Dopo essere passati dal bagno e non aver trovato nulla, procedemmo al piano superiore dove si trovavano le camere da letto.
La prima che passammo in rassegna fu una camera matrimoniale, ma non c’era nulla di utile.
Nella camera di un bambino trovai un GameBoy lasciato abbandonato sul comò insieme a varie schede e subito i miei pensieri volarono verso Carl. Presi il videogioco e lo infilai in borsa, passammo infine al garage, trovando delle torce da campeggio sopra una mensola insieme ad un’accetta e una corda.
Le pile e le torce le avevamo trovate, era il cibo a scarseggiare e non volevo spingermi in qualche supermercato solo per poter trovare da mangiare, sapevo com’era la situazione lì e non era delle migliori, non che passare di casa in casa fosse un piano più astuto, ma era meno pericoloso.
Le abitazioni in quella zone erano fatte tutto allo stesso modo, per questo non ci mettemmo molto controllarne sei prima che si facesse mezzogiorno, e quella volta fummo più fortunati, riuscimmo infatti a trovare anche generi alimentari, ma decidemmo di cercare in un’ultima casa prima di tornare al campo con il nostro bottino del giorno.
La zona era stranamente tranquilla, per questo riuscimmo a svolgere tutto quel lavoro con calma e tranquillità, prendendoci anche del tempo per riposarci, e constatai che dopotutto non si stava male se si escludeva il fatto che comunque c’era troppo silenzio, chiazze di sangue ovunque e per trovare qualcosa da mangiare eravamo costretti ad andare a cercare in case abbandonate o in negozi dove non c’era rimasto molto.
Era quello che eravamo ridotti a fare pur di sopravvivere, e la cosa oltre a non piacermi molto, mi dava degli enormi fastidi e ne capii il motivo quando mi accorsi che il mio malcontento era dato dal fatto che non c’erano più regole da seguire, perché erano quelle a tenerci in vita, non era il fatto di mangiare e bere, ma proprio la legge che, anche se non sempre funzionava, garantiva un’esistenza molto più sicura rispetto al dover scappare da orde di non morti o da persone che sembravano dei morti loro stessi perché non si facevano degli scrupoli a uccidere o lasciare indietro persone a cui un tempo giuravano di voler loro così tanto bene da dare la vita. Forse era anche per questo motivo che ci speravo in un posto come il Centro Rifugiati, ero sicura che anche lì ci fossero delle leggi da seguire per il quieto vivere di tutti, ed ero anche certa che molte persone non erano dirette lì solo per avere un tetto sulla testa, ma perché da sole erano perse. Perché il genere umano aveva bisogno di qualcuno che dicesse loro cosa fare, io compresa. Non sapevo nemmeno cosa volesse dire il termine sopravvivenza prima di tutto questo, davo tutto per scontato come se sapessi quello che stavo facendo, ma in realtà se non avevo qualcuno che mi diceva cosa fare, ecco mi sentivo persa.
Entrai in un’altra casa uguale alle altre e per terra posizionai i vasi come avevo fatto per le volte precedenti.
«Devi venire a vedere questo».
Sentii Glenn dire con voce tremante di emozione.
Con curiosità entrai in cucina e lo vidi fermo ad osservare la porta di uno sgabuzzino. Lo guardai con un sopraciglio inarcato, non capendo bene cosa ci fosse di così interessante in una porta in legno, ma quando mi avvicinai e vidi che lo stanzino era aperto e dentro c’erano due mensole sopra le quali erano posti dei barattoli di marmellata all’albicocca ancora intatti, non potei fare a meno di fiondarmi dentro e gettare tutto ciò che entrava nella borsa.
«Jackpot!» esultai. «Controlliamo velocemente le altre stanze e poi torniamo indietro» dissi con ancora il sorriso sulle labbra. «Credo che per oggi basti così».
Annuì e andò verso la sala dove i divani divelti, il tavolino in vetro rotto, le ante degli armadi e il televisore a pezzi ci suggerirono che era meglio passare oltre per non perdere tempo.
In bagno trovai solo una scatola di cerotti e del disinfettante, ma non li disdegnai, era comunque un bene averli trovati, specie perché in una situazione come quella li avremmo finiti senza nemmeno accorgercene.
Passammo al piano superiore che era nelle medesime condizioni di tutte le altre case.
Entrai in una camera dove al centro c’era una culla e l’idea di un neonato in quelle condizioni mi fece gelare il sangue, per questo decisi di non guardarci dentro, non volevo dover vedere una giovane vita non ancora sbocciata in quello stato, perciò mi limitai a girarci intorno combattendo il bisogno di vomitare e quello di uscire da lì sbattendo la porta urlando per lo schifo.
Feci per uscire quando un rumore catturò la mia attenzione, il rumore di qualcosa che cadeva per terra e rotolava.
Con un bruttissimo presentimento e tanto coraggio, mi avvicinai alle scale dove mi accucciai per vedere che i vasi che avevo messo erano sparsi ovunque e nell’ingresso c’erano almeno una decina di zombie.
«Non ho trovato nulla se non sapone liquido per le mani».
Porca puttana!
Mi voltai verso Glenn con gli occhi spalancati e poi di nuovo verso il pianerottolo dove i vaganti sentendo la sua voce, voltarono la loro faccia putrida verso di noi prima di ringhiare e iniziare a salire le scale con movimenti goffi.
Presi il mio amico per il braccio e lo trascinai verso una delle camere dove ci chiudemmo dentro, puntellando l’entrata della stanza con un cassettone.
«Dalla finestra!» urlai.
Ecco perché odiavo andare in città, c’era sempre qualcosa che doveva per forza andare storto.
I colpi sul battente diventavano minuto dopo minuto più forti ed ero sicura che se non avessi messo il mobile davanti, la porta sarebbe crollata in pochi secondi.
Camminando all’indietro mi avvicinai alla finestra ed uscii tendendo comunque lo sguardo fisso davanti a me, poi quando fui sicura di essere fuori pericolo guardai sotto.
Non era molto alto, ma di sicuro la caduta non sarebbe stata morbida come atterrare su un materasso. Estrassi la corda trovata prima e la legai con due nodi bel stretti al parapetto per poi guardare la strada e vedere che ora c’era un gruppo di circa sei nonmorti che camminavano intorno all’abitazione.
«Scendi per primo, io resto qui in modo che se qualche zombie arriva posso ucciderlo».
Impugnai il fucile e mi misi all’angolo, pronta a coprire Glenn se ne avesse avuto bisogno.
«Vai all’Hummer e portalo qua sotto» dissi lanciandogli le chiavi e passandogli anche il mio borsone.
Mi guardò per qualche secondo in modo scettico, ma quando sentimmo i loro lamenti aumentare, annuì e scese velocemente la corda.
Non mi piaceva l’idea di mandarlo in giro da solo, ma quello era l’unico modo per uscire entrambi vivi di lì. Se ci fossimo messi a correre insieme non ero sicura che ce l’avremmo fatta.
In lontananza sentii delle gomme stridere sull’asfalto e in poco tempo il fuoristrada entrò nel mio campo visivo. Scavalcai la recinzione e mi aggrappai salda alla corda per non cadere, iniziando la mia discesa.
Fortunatamente sembrava che tutti gli zombie fossero attratti dal veicolo piuttosto che a me, e quindi tirai un respiro di sollievo, ma quando sentii una delle assi cigolare e il balcone inclinarsi leggermente il mio cuore sembrò fermarsi.
Oh, ti prego. Non mollarmi ora.
Riuscii a scendere ancora solo di mezzo metro prima di ritrovarmi per terra con la testa sul prato morbido.
Percepii un forte dolore al fianco destro prima di chiudere gli occhi per un secondo, e dopo averli riaperti la prima cosa di cui riuscii a prendere coscienza fu un peso premere sulla gamba che mi impediva di muoverla, sentii poi la testa martellarmi nel cranio come se volesse uscire.
Scossi il capo un paio di volte e mi guardai attorno vedendo solo sagome sfocate di piante e calcinacci tutti intorno a me.
I muscoli li sentivo pesanti e non riuscivo nemmeno a sollevare il mio busto per capire che cosa mi fosse successo, inoltre le mio orecchio non sentivano nulla di più se non un fischio acuto e prolungato, come quando si dimentica la teiera sul fuoco.
La schiena mi faceva male e la spalla destra la sentivo distaccata dal resto del corpo.
Facendomi forza mi sollevai a sedere e vidi la mia gamba immobilizzata sotto un cumulo di macerie, cercai di spostarle ma come feci per sollevarne un mattone con la mano destra, un urlo uscì involontario dalla mia bocca, allertando degli zombie che, ancora più interessati, si avvicinarono tendendo i loro arti e spalancando le loro fauci.
Cercai prima la pistola che vidi vicino al cancello d’ingresso - decisamente troppo lontana per riuscire a prenderla – e poi il fucile, meno distante. Mi allungai con il braccio sano per recuperarlo senza successo.
Andiamo!
Mi sporsi ancora di più, sdraiandomi completamente a terra e mancando per poco la canna, con un moto di rabbia calciai i mattoni caduti sulla mia caviglia per cercare di liberarmi, ma non ottenni nulla se non un dolore maggiore che mi fece urlare una seconda volta.
Con la mano sinistra cercai il coltello che fortunatamente era ancora lì e mi preparai a far fuori quei vaganti armata solo di quello, con la consapevolezza che probabilmente non sarebbe bastato.
Proprio mentre uno di loro si avvicinava di più a me, lo vidi cadere al suolo, seguito un altro e un altro ancora. Quando tutti furono ormai morti, tirai un respiro di sollievo e alzai lo sguardo.
«Sei viva?» chiese Glenn avvicinandosi.
«Sì» risposi senza fiato.
Mi aiutò a liberarmi dal peso dei detriti, e prendendomi sotto braccio mi aiutò ad arrivare fino all’Hummer che partì una volta che fummo entrambi entrati.
La gamba ora mi faceva ancora più male e aveva iniziato a sanguinare ancora di più, la percepivo gonfia, e toccando con mano sentii la carne viva attaccarsi al tessuto dei pantaloni. La parte positiva era che non era rotta, quindi me la sarei cavata con dei punti di sutura, acqua ossigenata, una garza antisettica e una fascia alta e spessa per far in modo che la medicazione reggesse. Per la spalla era molto più semplice, dovevo solo far ritornare l’omero al suo posto anche se sarebbe stato molto più doloroso.
Dovevo rimediare a quel casino prima di tornare al campo e far notare a tutti le mie ferite, non ero preoccupata per le reazioni degli altri, ma per quelle di Merle e Daryl. Ero sicura che avrebbero prima ucciso me per essermi ferita, poi Glenn perché lui era con me e quindi secondo loro avrebbe dovuto proteggermi, e infine avrebbero fatto fuori qualsiasi zombie gli sarebbe capitato sotto tiro.
Alzai un pezzo di lembo dei jeans che indossavo fino a rivelare completamente la ferita. Dovetti stringere i denti e chiudere gli occhi per non urlare dal dolore che provai quando il tessuto dei miei pantaloni sfregò contro la carne scoperta. Poggiai il piede contro il cruscotto per poter vedere meglio e constatai che era messa meglio quanto pensassi, anche se a vederla a primo impatto non lo avrei mai detto
Guardai nei sedili posteriori per cercare il kit di pronto soccorso, ma poi mi ricordai di aver messo una borsa di riserva nel bagagliaio.
«Devi fermarti» gemetti dal dolore.
«E dove? Siamo nel bel mezzo del nulla, qui» rispose Glenn guardandosi attorno.
Sbuffai e feci una smorfia di dolore quando inavvertitamente toccai con l’altra gamba quella ferita.
«Devo sistemarmi prima di arrivare alla cava. Io non ti torcerei un capello, ma Merle ti farebbe a pezzi se mi vedesse in queste condizioni» dissi.
Lo vidi farsi bianco e mi sentii un po’ in colpa per averlo spaventato, ma gli avevo detto solo la verità.
Si accostò al ciglio della strada, frenando lentamente per ridurre l’impatto con le buche che c’erano per terra e poi si fermò a guardare me.
«Ho bisogno del tuo aiuto, devi aiutarmi a rimettere a posto l’osso».
Dovevo prima occuparmi della spalla che al momento era quella che faceva più male..
Glenn annuì e scese per mettersi alla mia destra.
«Ok, ascoltami bene» dissi facendo sporgere il braccio. «Devo rimettere la testa dell’omero al suo posto e non riesco a farlo da sola» continuai. «Metti la mano destra sulla spalla senza premere e la mano sinistra sotto l’avambraccio» lo istruii.
Appena sfiorò la parte dolorante mi morsi l’interno guancia con forza fino a sentire un terribile sapore metallico. Feci dei profondi respiri e chiusi gli occhi, preparandomi per quello che sarebbe venuto dopo.
«Ora premi sulla spalla e stringi il braccio con la sinistra».
La mia soglia del dolore stava raggiungendo il massimo della sopportazione, ma mi rifiutai di piangere. Mi era già capitato di romperla, avrei dovuto esserci abituata ormai.
«Tira su di scatto!» dissi volgendo il capo dall’altra parte e trattenendo il respiro.
Il rumore delle ossa che tornavano al loro posto fu l’unico che riuscii a sentire dopo un “oddio” mormorato da Glenn.
Tornai a respirare normalmente e mossi un paio di volte la spalla che anche se faceva male, non era più un problema per me. Il dolore era sopportabile e confidavo nel fatto che mi sarebbe servito solo un antidolorifico per eliminare le fitte che avrei sentito nelle ore successive. O almeno ci speravo.
«Nel bagagliaio c’è una borsone  nero, potresti prendermelo?» chiesi tenendo la gamba sollevata.
Tagliai un lembo dei pantaloni per lasciare scoperta la ferita e lasciarla respirare, stando bene attenta a non farci avvicinare moscerini e cosa più importante, assicurandomi che l’odore di sangue non attirasse degli zombie.
Glenn tornò pochi secondi dopo con la borsa al cui interno c’erano le scorte mediche che avevo sistemato quello stesso giorno. Si rimise poi al posto di guida e attese che io gli dicessi di ripartire.
Versai sopra la ferita il disinfettante e poi con un pinzetta tolsi piano tutte le schegge di legno e i sassolini che si erano attaccati, imprecando ogni volta.
Coraggio, non può fare più male di una spalla rotta.
Presi una fascia larga e compressiva con la quale coprii quella antisettica, facendo così avrei diminuito il flusso del sangue e nessuno se ne sarebbe accorto, certo avrei zoppicato per un po’, ma avrei potuto trovare una scusa abbastanza credibile.
«Girati» dissi abbassando la gamba accompagnandola con le mani. «Devo cambiare i pantaloni prima di tornare al campo» mi affrettai a spiegare vedendo il suo sguardo confuso.
Si voltò mostrandomi le spalle e presi il ricambio di vestiti dal sedile posteriore. Indossai dei pantaloni di tuta neri per stare più comoda e nascosi gli altri alla bell’e meglio, poi tornai a sedermi al posto del passeggero.
«Se ti fanno domande dì loro che sono inciampata e slogata una caviglia, è meglio di dire che sono caduta da un terrazzino rischiando di sfracellarmi al suolo».
Si scrollò le spalle per eliminare quei brividi che gli fecero venire la pelle d’oca e risalì. Nemmeno a me piaceva molto quella visione, ma era ciò che sarebbe potuto accadere. Mi meravigliai infatti di essermela cavata con una spalla rotta e una gamba “sbucciata”. Non ero molto credente, ma in quel momento pensai che qualcuno dall’alto mi volesse davvero molto bene e mi avesse aiutata a sfuggire alla morte.
Ripartimmo immediatamente per tornare al campo. Ormai mezzogiorno era passato da un bel pezzo e gli altri erano sicuramente in pensiero.
 
 
 

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Capitolo 15
*** Capitolo14 ***






 
Capitolo14
 
 
 


 


  
 
 
Quando tornammo al campo fummo sommersi da mille domande sul perché ci avessimo messo così tanto e sul perché io stessi zoppicando, e quando riuscii a rassicurare tutti che stavo bene e che si trattava solo di una slogatura, aprii il bagagliaio, consegnando loro le provviste trovate prima di ritirarmi nella tenda e buttarmi a peso morto sul cumulo di coperte e cuscini che avevo ammucchiato per creare una specie di materasso abbastanza confortevole.
Fui sul punto di addormentarmi quando sentii delle grida, quindi con dei movimenti rapidi impugnai la pistola e uscii per vedere cosa fosse successo, ma quando vidi i bambini saltellare in giro e correre giocosi capii che avevano appena scoperto i barattoli di marmellata che Glenn aveva trovato.
Scossi la testa e ritornai dentro, togliendomi gli stivali per far respirare i piedi.
Ero soddisfatta ma soprattutto contenta del fatto che eravamo riusciti a risollevare un po’ il morale che ogni giorno si faceva sempre più nero a causa della scarsità di cibo. Ci serviva un piano e io avevo proposto di spostarci altrove, ma gli altri non erano d’accordo, dicevano che ormai quella era la loro casa e che era meglio restare lì perché avevamo una riserva idrica non trascurabile, ma se da una parte avevano ragione, dall’altra dovevano anche rendersi conto che era davvero inutile continuare a rimanere lì se non c’era cibo a sufficienza. Nei boschi le prede diventavano sempre più difficili da catturare e nelle città la ricerca era ancora più ardua.
Non sapevo se fossi rimasta lì per sempre come avevo pensato, se Merle e Daryl avessero deciso di andarsene per trovare un posto in cui ci sarebbe stato più cibo, io sarei andata con loro.
Restai a contemplare il verde della tenda per un tempo infinito, non che fosse interessante, ma mi ero imbambolata a fissare quel colore che mi ricordava quello del prato dietro casa mia, e con un espressione concentrata, lo sguardo fisso, e le sopracciglia aggrottate, iniziai a fare dei calcoli improbabili per capire in quanto tempo sarei riuscita a raggiungere Fargo e quanta benzina mi sarebbe servita. Non seppi perché ma sentii questo impellente bisogno di tornare, forse fu solo la nostalgia o curiosità, ma per un momento mi dimenticai di tutto il resto tanto che sentii a malapena qualcuno chiamarmi da fuori la tenda.
Feci capolino con la testa, chiudendo un occhio per riuscire a mettere meglio a fuoco la figura di Carol che si era posizionata con il sole alle sue spalle.
«Io e Lori dobbiamo fare il bucato e i bambini dovrebbero fare i compiti, potresti dargli una mano?» chiese.
La guardai senza riuscire bene a capire cosa dovessi fare, o meglio, avevo capito che dovevo aiutare Carl e Sophia a fare i compiti, ma sul serio? Nel bel mezzo della fine del mondo loro due pensavano a far studiare i figli? A che pro?
Tenni per me quei pensieri mentre annuendo mi alzai. Non era affare mio dire loro due come crescere i propri bambini, ma non trovavo l’utilità nello studio in quel momento.
Mi sedetti al tavolino posto poco lontano dal camper e vidi tutti i libri e quaderni già aperti e i due ragazzini tutti concentrati su quello che stavano facendo; sedendomi e chinando il capo con aria curiosa vidi che stavano studiando matematica, e con un respiro frustrato, mi sedetti più comoda, prendendo in mano un foglio dove erano riportate delle espressioni con numeri interi. Lo sconforto di prima scomparve quando vidi che si trattava di espressioni da scuola elementare, quello era un argomento che avevo capito sin da subito e con una certa facilità.
Passammo così sei ore tra un’addizione e una sottrazione, ridendo anche mentre raccontavo loro di qualche aneddoto divertente di quando andavo a scuola e c’erano le verifiche di matematica che consegnavo in bianco lasciando vuoto anche lo spazio della data perché io non avevo una buona concezione di spazio-tempo.
Effettivamente era una cosa anche abbastanza divertente se non fosse stato per il fatto che i cattivi voti presi in quella materia mi abbassavano la media che ottenevo con le altre valutazioni.
Il sole aveva già iniziato la sua discesa quando le due donne tornarono indietro con le ceste colme di abiti puliti e perfettamente piegati che portarono ognuna nelle proprie tende prima di tornare verso di noi e vedere come ce la fossimo cavata.
«Mamma!» esultò Carl correndo da lei con il suo quaderno aperto per mostrargli gli esercizi svolti.
Lori gli sorrise orgogliosa e gli passò una mano tra i capelli marroni con un gesto amorevole, anche Sophia mostrò i suoi progressi a Carol e io mi sentii un po’ come una maestrina che aveva degli alunni bravissimi.
«Sai che Kate consegnava le verifiche di matematica in bianco?» chiese Carl divertito.
La donna mi guardò come se cercasse un segno che le dicesse che lui stesse scherzando, ma quando con una scrollata di spalla distolsi lo sguardo da loro due, sul suo viso si dipinse un risolino che non riuscì a nascondere e la cosa non mi diede nemmeno fastidio. Era la verità il fatto che io fosse una causa in persa in matematica, quindi perché non riderci sopra? I primi tempi mi faceva rabbia, ma poi mi facevo delle sane risate quando vedevo il compito riconsegnato con la valutazione e un grande punto di domanda fatto dall’insegnante con una penna rossa.
Guardando i due bambini mettere via il loro materiale mi ricordai del videogioco e quindi corsi verso la tenda, tornando indietro verso il fuoristrada dove presi i miei jeans che buttai da qualche parte vicino ai panni sporchi, promettendomi di pulirli prima che qualcuno li vedesse.
Presi la borsa e ne svuotai il contenuto sul terreno fino a trovare ciò che cercavo e tornai al camper.
«Oggi controllando le case ho trovato questi» dissi mostrando a Carl i suoi “regali”.
Il bambino mi guardò con quei suoi occhioni azzurri che sorrisero nello stesso istante che le labbra s’incurvarono verso l’alto, e prima di prenderli guardò la madre che annuì come per dargli il suo consenso.
«Mancano le batterie, ma quelle le ha Glenn» lo avvisai alzando un po’ la voce per farmi sentire visto che lui era già sparito.
Scossi la testa sorridendo ed estrassi dalla tasca dei pantaloni lo smalto rosa che porsi a Sophia.
«Per te che sei una signorina, ho questo» dissi.
La bambina allungò le mani che a confronto delle mie erano piccole e sembrò esitare.
«Grazie» mormorò incerta. «Tu non lo vuoi più?».
«Non credo che avrò motivo di metterlo, ma tu farai delle conquiste» sussurrai per farmi sentire solo da lei.
Le sue guance si accesero di rosso ed abbassò il capo scuotendo la testa e nascondendo il viso dietro le mani. Sorrisi e guardai Carol, la quale sorrise a sua volta e me ne andai verso la cava per poter lavarmi i capelli sporchi di terriccio, polvere e sangue di zombie.
Avvicinandomi alla riva feci più attenzione per evitare i grandi rocce incastrati nella terra e mi accorsi che non c’era solo ghiaia a ricoprire il terreno, c’erano ciuffetti d’erba, sassi più o meno grossi e delle buche, anche se su quest’ultime pensai che si fossero scavate da sole solo per complicarmi la vita in quella giornata che, proprio brutta non è stata, se escludo la mia caduta rovinosa, la spalla rotta e la gamba non proprio nelle migliori delle sue condizioni. Infatti svegliarmi alle dieci e trascorrere il pomeriggio tra compiti di scuola elementare e una risata, non poteva definirsi un cattivo giorno da dover cestinare.
Lavai con cura i miei capelli che stavano iniziando a perdere la loro tinta nera, tornando quindi al color cioccolato di sempre e pensai che se avessi saputo che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrei potuto tingerli, avrei scelto un colore diverso, magari un fuxia oppure arancio fluo.
Mi rizzai sulle gambe, guardandomi intorno furtiva alla ricerca di occhi indiscreti quando decisi che un bagno completo non avrebbe potuto farmi male. Sfilai gli stivali dai piedi, seguiti dai calzini e dai pantaloni.
Alle mie spalle sentii un fruscio e in pochi secondi presi la pistola caduta a terra, girandomi. Davanti a me c’era Daryl che tra le mani stringeva dei jeans strappati e macchiati di sangue. I miei jeans, quelli che avrei dovuto nascondere meglio.
Bene, cazzo!
Mi voltai di nuovo verso la superficie d’acqua senza però sapere bene cosa fare e improvvisamente mi accorsi di essere in mutande, non che non mi avesse mai visto semi svestita – cosa che capitava quando ero adolescente e giravo per casa in shorts e canottiera mentre lui era presente – ma le cose erano parecchio diverse a distanza di così tanti anni e mi sentii in imbarazzo, perciò mi rimisi velocemente i pantaloni per coprirmi.
«Sono caduta» tagliai evitandogli domande. «E sto bene, quindi puoi andare. Grazie per l’interesse».
Non volevo essere scontrosa, ma ero un po’ su di giri e la calma in quel momento sembrò essere svanita.
«Ma lasciami qui i pantaloni, così posso lavarli».
Mi sembrava di star parlando da sola dato che lui non accennava a dire una sola parola, non che la cosa mi meravigliasse, ma se si era disturbato a raggiungermi fino lì un motivo c’era, no? No!
Attesi secondi, poi minuti sempre dandogli la schiena e guardando la parete rocciosa, attribuendole il colore “grigio topo” per poi guardare il cielo trovandolo bianco nonostante non ci fosse una sola nube quel giorno.
Spostai il peso da una gamba all’altra, avvertendo il silenzio calare tutto su di me, Mi voltai verso di lui per raggiungerlo con passi piccoli ma veloci fino a sostare a pochi centimetri da lui, strappai i jeans dalla sua presa e ritornai sul bagnasciuga.
Lo sentii muoversi da dietro di me e sperai che se ne fosse andato, ma quando mi voltai per trovare una conferma alle mie speranze, me lo ritrovai davanti, un’espressione arrabbiata era dipinta sul viso.
«Sei caduta?» chiese sardonico.
«È quello che ho detto, non credevo di aver parlato in russo».
Aprì la bocca per dire qualcosa e per una frazione di secondo pensai che forse quella sarebbe stata un’ottima opportunità per sistemare il nostro rapporto quando vidi il suo sguardo cambiare in un’espressione più morbida, ma quella magia si ruppe proprio nello stesso momento in cui Amy venne a chiamarci per avvisarci che la cena era pronta.
Guardai prima lei, e poi di nuovo Daryl che si era allontanato velocemente dopo avermi lanciato un’ultima occhiataccia. Sapevo che era arrabbiato e che voleva stare lontano da me, ma non capivo il motivo di questi suoi umori, sembrava in piena fase premestruale.
«Mi sono persa qualcosa?» chiese Amy.
Raccolsi i jeans e iniziai la risalita verso il campo senza rispondere. Non sapevo nemmeno cosa rispondere perché era chiaro che anche a me mancava un pezzetto per capire che cosa gli stesse passando per la testa.
Quello che stavo percorrendo era un bivio a senso unico,  probabilmente mi sarei schiantata contro quel muro che aveva costruito – mattone dopo mattone -, e non sarebbe stato un impatto morbido, mi sarebbero rimaste le cicatrici, e le ferite avrebbero sanguinato senza che nessuno le curasse.
«Perché non rimani con noi a cena?» domandò Amy quando vide che stavo deviando percorso come sempre.
«L’odore della carne…» risposi disgustata.
«Sei incinta?» sussurrò per non farsi sentire.
La guardai fermandomi sul posto, iniziando a ridere fortissimo vedendo la sua espressione cambiare da una di curiosità a una di preoccupazione quando non le risposi.
Probabilmente ero l’unica a trovare tutto ciò divertente perché lei rimase lì pietrificata mentre dal camper gli altri ci osservavano curiosi di sapere cosa avesse scatenato la mia ilarità. Mi faceva ridere l’idea di una gravidanza nonostante avrei dovuto gettarmi a terra e scoppiare a piangere.
Quando riuscii a calmarmi e a riprendere un po’ di serietà guardai Amy, cercando di non riderle in faccia un’altra volta.
 
«È maleducazione ridere in faccia alle persone».
 
Mio padre me lo diceva sempre, per questo evitavo di farlo.
«Oddio, no» risposi ridacchiando. «Io non mangio carne, sono vegetariana e anche solo l’odore mi da fastidio».
Aprì bocca per dire qualcosa e rimase così fino quando sembrò risvegliarsi da quella sorta di trance e mi salutò, raggiungendo la sorella che la stava aspettando seduta su un ceppo.
Sentii un vuoto allo stomaco e mi ricordai il motivo per cui ero risalita.
Giusto, ora della pappa!
Arrivai al “secondo accampamento” costituito dal mio Hummer, il furgone di Daryl, la moto di Merle e le due tende davanti le quali c’era il fuoco ancora acceso.
Mi guardai attorno alla ricerca dei due fratelli senza riuscire a trovarli, ma non mi sorpresi. Da quando ero uscita dal camper dopo il mio incidente, mi ero accorta che sparivano sempre quando faceva sera per dirigersi verso il bosco a fare cosa non so, ma probabilmente si trattava di cose da cacciatori.
Andai a sedermi lontana dal calore delle fiamme e mangiai il mio barattolo di ananas che poi buttai in un cesto con l’intenzione di pulirlo il giorno seguente per poi usarlo come trappola sonora.
Con un rumoroso sbadiglio mi rintanai nella mia tenda, tenendo la testa fuori. Avevo caldo e le notti come le giornate avevano iniziato a essere molto umide e afose. Sapevo che nonostante fossi stanca morta non sarei riuscita a dormire molto, ma mi sarei accontentata anche di restare con gli occhi chiusi, ed è quello che feci per un po’. Rimasi lì ferma con solo il top e le culottes addosso ad assaporare la tranquillità e il silenzio della notte fino quando dei passi non mi destarono dal mio stato di beatitudine.
Aprii un occhio ma non riuscii a vedere molto a causa del buio, potei distinguere solo due figure raggiungere la tenda affianco alla mia e sorrisi: erano tornati sani e salvi.
«Cos’è una nuova moda quella?» chiese Merle notando la mia posizione.
«Ho caldo» risposi e richiusi l’occhio sorridendo.
Quando rientrarono nella loro tenda li sentii parlottare tra loro con un tono ostile l’uno verso l’altro, cercai di concentrarmi sulla loro voce tenuta volutamente bassa, non riuscendo però a capire nulla del loro discorso se non poche parole come: “zombie, noi, puttana, merda, campo, bastardi, lasciare, provviste e coglioni”.
Aggrottai la fronte e improvvisamente mi sentii a disagio. Non per le parole molto colorite da loro usate, ma dal modo in cui si stavano parlando. Mi era capitato certo di vederli litigare molte volte e non ero mai entrata nelle loro questioni, ma odiavo quando facevano così. Dovevano rimanere uniti, non scannarsi alla prima occasione.
Non sopportando più il loro battibecco mi rialzai infilandomi i miei pantaloni, e dirigendomi vero la parete rocciosa, rimanendo lì per un tempo indefinito. Le braccia erano diventate fredde ormai, ma non volevo tornare indietro, non volevo sentirli ancora litigare perché sapevo che poi le cose sarebbero degenerate tra loro due, e vederli lottare era una cosa che non avevo voglia di vedere.
«Che ci fai qui?».
Sobbalzai spaventata da quel suono improvviso ma mi ricomposi subito.
«Odio sentirvi litigare» risposi girandomi per guardare Daryl.
Portai di nuovo l’attenzione al lago, alzando lo sguardo per vedere con grande fatica tutte le tende degli altri superstiti e del camper di Dale dal quale, da sopra il tetto, proveniva una fioca luce posta da chi quella notte aveva il turno di guardia.
«Perché sei entrato nella mia tenda prima?».
Questa volta era il mio turno di fare domande, e dal modo in cui lui spostò il peso da una gamba all’altra e deviò lo sguardo da me allo strapiombo, potei dire che era una domanda a cui avrebbe preferito non rispondere.
La sua espressione di addolcì per qualche secondo, ma poi tornò quella di sempre.
«Credevo che stessi cercando un nuovo modo per farti ammazzare».
Mi alzai di scatto dalla mia postazione e lo raggiunsi velocemente, per quanto veloce la mia gamba malconcia mi permettesse di andare e lo guardai.
«Ok, non so che cosa ti abbia fatto a parte baciarti» dissi. «Che poi non era un vero bacio, ma sorvoliamo su questo, ma se è questa la ragione per cui tu mi tratti così, allora preferirei che mi ignorassi completamente» sbottai puntandogli un dito contro il petto.
Scesi la collina stringendo le mani a pugno e sentendo la rabbia montare. Non riuscivo più a sopportare il suo comportamento odioso verso me come se fossi io la causa di tutti i mali del mondo, e se lui voleva giocare in quel modo, io sarei stata ben felice di accontentarlo.







 

 
*angolo autrice*
ecco qui anche il quattordicesimo capitolo.
Non avevo intenzione di pubblicare
quattro capitoli tutti in una volta sola, ma visto che li ho scritto mi è sembrato farvi attendere oltre
anche perché avevo detto di pubblicare l’11 e non l’ho fatto, quindi ho dovuto trovare un modo per farmi perdonare
(non fateci l’abitudine però xD).

Cercherò di aggiornare regolarmente da qui in avanti, il che vuol dire un capitolo al mese (massimo ogni due).
Ora, visto che s'è fatta una certa ora dico che è arrivato il tempo di andare in coperta, quindi alla prossima!

yulen c:

 
 

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Capitolo 16
*** Capitolo15 ***






Capitolo15 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ciao! c: sono di nuovo io. Ho deciso di mettere qui all'inizio questo spazio per avvertirvi che c'è un piccolo dialgo in russo
(sono giusto tra battute) di cui ovviamente ho aggiunto la traduzione a fondo pagina per non lasciare pezzi incomprensibili.

Vi lascio alla lettura,
yulen c:

 







Ovunque mi giravo non c’era niente se non il buio più totale, i morti mi circondavano ed erano pronti a trascinarmi con loro all’inferno.
La mia attenzione fu catturata da un viso che mi era familiare: occhi brillanti e dello stesso colore dell’ambra, labbra fini sempre arricciate in un sorriso rassicurante, capelli brizzolati tenuti in ordine, lineamenti duri e naso dalla forma spigolosa.
«Papa» sussurrai incredula.
Tesi una mano verso di lui per potergli sfiorare il viso ma fui catturata in uno di quegli abbracci che solo mio padre sapeva darmi. Erano caldi e sapevano di familiarità e sicurezza. Mi strinsi a lui, aggrappandomi alla sua camicia bianca ormai tutta stropicciata e lasciai il libero sfogo a tutte quelle lacrime che non avevo potuto versare quando me lo avevano portato via. Grandi chiazze scure si formarono sul suo petto all’altezza dei miei occhi.
«Vse budet khorosho, doch’ moya1» disse stringendomi più forte.
Continuai a piangere fino quando i singhiozzi cessarono, e anche se sapevo che si trattava solo di un sogno, avvertii quel contatto come se fosse una cosa reale.
«Mne tak zhal’, papa2».
«Ya znayu, dorogaya3».
Chiusi gli occhi e mi feci ancora più piccola tra le sue braccia fino a sembrare nulla di più che un’ombra. Ero davvero dispiaciuta per ciò che era successo e per il fatto che non ero riuscita a prendermi cura di lui come lui aveva fatto quando io ero piccola. Non si meritava una fine del genere, così violenta e dolorosa.
Sentii all’improvviso il suo corpo diventare freddo e molle, come se la sua anima lo avesse abbandonato. Tentennante aprii gli occhi per vedere quelli suoi ormai spenti, privi di vita, la sua pelle era cinerea e le labbra rosee erano di un blu pallido.
«Papa?» chiamai piano.
In un attimo aprì la bocca e mi morse, lasciando i segni dei suoi denti sporchi di sangue. Sentii la mia pelle venire strappata via e urlai come se da un attimo all’altro dovessero strapparmi i polmoni. Sentii tutto il mio corpo andare a fuoco, quasi come se tante piccole fiammelle espandendosi, stessero dando vita a un vero e proprio incendio.
Chiusi gli occhi e sperai che quell’agonia finisse presto mentre cadevo a terra, privata di una qualsiasi forza. Vidi quello che una volta era mio padre chinarsi sul mio corpo, pronto a portarsi con sé un altro pezzo della mia vita.
 
«Papa!» urlai.
Spalancai gli occhi per vedere solo il verde della mia tenda. Portai una mano al cuore sentendolo battere velocemente, anche il respiro era affannato e un senso di claustrofobia mi costrinse a uscire velocemente per correre fino alla cava, trattenendo il pianto per non svegliare nessuno.
Mi avvicinai alla riva restando a guardare il blu scuro dell’acqua, cercando di scorgerne il fondo senza successo. Nonostante stesse albeggiando, la luce non era sufficientemente intensa per permettermi di vedere così lontano.
Alzai la testa verso il cielo per vedere tanti piccoli puntini luminosi svanire all’orizzonte dove il sole stava sorgendo, vagai con gli occhi alla ricerca della luce della luna, ma anch’essa aveva iniziato a diventare meno visibile.
Mi voltai per tornare indietro quando qualcosa dalla sponda opposta catturò la mia attenzione. C’era una figura rannicchiata su sé stessa, ginocchia al petto, braccia appoggiate alle gambe e testa rivolta verso l’alto come se stesse cercando qualcosa che però non riusciva a trovare. Assottigliai lo sguardo per cercare di capire chi fosse e mi ci vollero alcuni minuti affinché riuscissi a vedere bene che quella persona stava portando un cappellino da baseball.
Glenn.
Mi avvicinai piano per non spaventarlo, ma la ghiaia scricchiolava sotto i miei passi rendendo tutto molto più difficile di quanto non fosse in realtà.
«Ehi» sussurrai piano.
Sobbalzò colto lievemente alla sprovvista dalla mia apparizione, ma si ricompose quasi subito.
«Non volevo spaventarti» dissi.
Scrollò le spalle e tenne lo sguardo volto verso il cielo.
«Pensavo non ci fosse nessuno in piedi a quest’ora» rispose.
«Mi sono svegliata poco fa».
Restammo un po’ in silenzio fino quando fu lui a parlare di nuovo.
«Incubi?» chiese voltandosi verso di me.
Annuii leggermente, sentii che anche il più piccolo dei movimenti avrebbe fatto rumore in una mattina quieta come quella, e non volevo spezzare la tranquillità che si era venuta a formare.
«E a te?» domandai. «Cos’è che ti tiene sveglio?».
«Lo stesso» rispose. «Ho questi continui sogni di mia madre e delle mie sorelle in cui tutto pare perfetto come in una qualsiasi giornata, ma quando mi volto dall’altra parte per poi tornare a guardarle loro sono sparite e l’atmosfera è più cupa».
Le sue parole erano intrise di disperazione e tristezza. Capii perfettamente il suo stato d’animo e ciò che pensava perché anche se non lo aveva detto apertamente, sapeva che oramai della sua famiglia non ne era rimasto nulla.
Tutti ormai avevano perso qualcuno, che fossero parenti o amici poco importava. Quelle persone con cui avremmo dovuto passare il resto della nostra vita se n’erano andate per colpa di una qualche strana malattia e la loro morte aveva portato dolore e sconforto nei cuori delle persone che le avevano amate.
Dirgli che mi dispiaceva era una cosa che si era sentito dire mille volte e ripeterla sarebbe stato troppo scontato.
«Non credo che comunque sia cambiato molto da prima, non trovi?».
Mi guardò perplesso, in cerca di una risposta.
«Voglio dire, anche prima di tutto questo avevamo paura che le persone a noi care potessero lasciarci un giorno, la stessa cosa accade anche ora».
«A parte per il fatto che prima non si rianimavano e non cercavano di morderti. È questa la parte peggiore, vedere quelle persone che un tempo ti volevano bene e sapere che l’unica cosa che vogliono è ucciderti».
Rimasi sorpresa da questa prospettiva. Non ci avevo mai fatto caso davvero, o forse non volevo davvero pensarci, ma aveva ragione, era quello il motivo per cui tutto faceva più male; sapere che nei loro cuori non c’erano più i sentimenti che un tempo avevano provato e che di tutto ciò che avevamo passato non ricordavano assolutamente nulla.
Forse era quello il motivo per cui non riuscivo a passare sopra la morte di Kim o quella di mio padre, sapevo che se lo avessi rivisto sarebbe stato esattamente come nel sogno. Avrebbe cercato di uccidermi e mi avrebbe portato in uno stato in cui non si è né morti né vivi.
«Il tuo qual è?» chiese.
«Mio padre» dissi con semplicità. Per quanto fosse un argomento delicato lui si era aperto con me, ed era giusto che io facessi altrettanto.
«Sono circondata da cadaveri e poi lo vedo. Ci abbracciamo, in un secondo si trasforma e mi morde».
Un soffio di vento più forte degli altri si alzò all’improvviso facendomi battere i denti per alcuni secondi. Strofinai le mani sugli avambracci e mi rialzai.
«Io torno indietro» dissi.
Sorrise e annuì mentre io tornai alla mia tenda.
Vidi una figura muoversi silenziosa, ma non mi spaventai. Sapevo che era Daryl che si stava preparando per la caccia, lui partiva sempre la mattina presto, diceva che era il momento ideale e che con il silenzio riusciva a sentire meglio i rumori di possibili prede.
Si sistemò meglio la balestra sulla spalla e si chinò per raccogliere la sua pistola che nascose dentro i pantaloni, lasciando scoperto il calcio.
Aspettai che se ne andasse prima di avvicinarmi. Dopo che avevo deciso di fare come aveva detto, di lasciargli i suoi spazi e di lasciare che facesse le cose senza che io fossi lì ogni volta per essere sicura che non gli accadesse nulla avevamo anche smesso di parlarci.
Presi la mia ascia e mi diressi verso bosco a cercare legna. Quello era diventato il mio compito quando non ero in città o troppo impegnata a lavare mutande e calzini.
Anche la fauna si era appena svegliata e sentivo il cinguettio degli uccelli nei loro nidi .
Come feci per le volte precedenti segnai gli alberi nonostante non avessi proprio intenzione di addentrarmi troppo, solo perché non c’erano mai stati attacchi non voleva dire che il resto della zona fosse sicura, inoltre non volevo correre di nuovo inseguita da non-morti e inciampare. Solo di recente la ferita aveva smesso di darmi problemi, procurarmene un’altra sarebbe stato da stupidi.
Dopo quasi due mesi la mia vita al campo si era stabilizzata, avevo legato più o meno con tutti, con Amy e Andrea soprattutto. C’erano giorni in cui se non c’era niente da fare, ci sedevamo nel camper e parlottavamo tra di noi di cose prive di senso semplicemente per avere qualcosa da dire. Anche con Glenn si era creato un bel rapporto, andavamo ad Atlanta insieme e tornavamo sempre con i borsoni colmi. Ultimamente capitava sempre di più che fosse lui a guidare l’Hummer e quelle erano le giornate in cui sembrava più soddisfatto, io ormai mi limitavo a stare dal lato del passeggero e a godermi il viaggio mentre lui premeva con enfasi l’acceleratore.
Ma se da una parte avevo fatto nuove amicizie, dall’altra, quella con Daryl si era incrinata fino a raggiungere un punto critico. Non sapevo bene quando e come fosse successo anche se un’idea ce l’avevo, l’unica cosa di cui ero certa era che ultimamente non eravamo più gli stessi, ci ignoravamo come se fossimo estranei. Sembrava che qualsiasi cosa dicessi o facessi in sua presenza gli desse fastidio, alcune volte si alzava con un gesto brusco diretto verso il bosco dove passava delle ore, se non una giornata intera quando era particolarmente arrabbiato per un motivo o l’altro.
Ero abituata a vederlo in quello stato, per me infatti era tutta una questione di abitudine, ma non riuscivo ad accettare che lui ora fosse così distante da me. Merle sembrava aver capito che c’era qualcosa che non andava e si divertiva più che mai a punzecchiarci tutto il tempo, dandoci fastidio e traendone un divertimento macabro. Avevo perciò iniziato a evitare anche lui, ad andare a dormire dopo di loro e a mangiare insieme agli altri.
Mi serviva una tregua da quella guerra che mi stava sfinendo. Potevo anche parlarne con qualcuno, ma l’unica che mi avrebbe capita sarebbe stata Kim, lei però, non c’era più. Non era più lì a sostenermi come sempre aveva fatto, non era lì a darmi man forte e a dirmi che ero una stronza quando me lo meritavo, ed era quella la cosa che apprezzavo di più di lei. Era una ragazza schietta, sincera e diretta, diceva sempre quello che pensava senza girarci intorno, e se qualcosa non le piaceva non si disturbava nemmeno a nasconderlo.
Guardai il fascio di legni che avevo sotto braccio e dopo aver constato che per quella giornata sarebbero bastati, tornai indietro camminando lentamente per assaporare quella quiete. Solo in quel momento capii perché quando Daryl aveva bisogno di restare per i fatti suoi andava nel bosco. Lì non c’era niente e nessuno a dirgli cosa fare e come comportarsi, era il suo modo per sentirsi libero.
«Credevo ti fossi persa» esordì Amy vedendomi uscire dalla boscaglia.
Lasciai a terra ciò che avevo in mano e cercai una bottiglia d’acqua che portai dietro il collo per trovare un po’ di sollievo.
«Non è che ci siano molti posti dove andare ora come ora» risposi.
Cercai di sorriderle, ma non riuscii a mascherare bene ciò che mi passava davvero per la testa. Le mie labbra più che curvarsi verso l’alto, sembrarono tirate in una smorfia e questo non passò inosservato.
«È un po’ di tempo che ti comporti in modo strano e tutti qui l’hanno notato» disse. «Avanti, sputa il rospo».
La guardai dubbiosa e scrollai le spalle, non mi andava molto di parlarne anche se ormai eravamo molto amiche e non perché non volessi confidarmi, quanto più perché non sapevo nemmeno io cosa dire.
«Non è nulla di interessante» risposi cercando di dissuaderla.
«Invece sono sicura che lo sia o non troveresti mille scuse per allontanarti ogni volta che i due Dixon sono nei paraggi».
Annuì senza una ragione e mi guardai attorno guardinga per assicurarmi che gli altri fossero abbastanza lontani da non sentire.
«Ho baciato Daryl» pigolai a voce così bassa che anche io feci fatica a sentirmi.
Amy spalancò gli occhi come se non ci credesse.
«Oddio» disse sorpresa.
«Già, oddio» mormorai mordendomi il labbro inferiore e abbassando lo sguardo.
Un nodo alla gola mi impedì di aggiungere altro, mi faceva male sapere che lui per me non provava niente. Certo, c’era affetto – se così si poteva chiamare -, ma non era quel genere di sentimento che io cercavo in lui, e questo era ancora peggio di una stilettata al cuore.
«Tu lo ami».
Più che una domanda la sua fu un’affermazione e mi chiesi se anche qualcun altro sospettasse qualcosa.
«Non avrei mai dovuto, ma è successo. Non gliel’ho mai detto perché so che è meglio così» dissi tristemente.
«Perché non ci parli?» propose.
Mi lasciai andare ad una risata isterica e mi passai la mano tra i capelli. Si vedeva proprio che non lo conosceva quanto me.
«E cosa dovrei dirgli? Che lo amo?».
Dio quanto si sbagliava! Se fosse stato così semplice sarei riuscita a dormire la notte invece di rigirarmi come un’anima in pena.
«E poi c’è da considerare anche ciò che è successo tra me e suo fratello, anche se nemmeno quello era previsto. È capitato una volta e poi non ho saputo fermarmi».
«Vuoi dire… tu... voi due…?» domandò incerta.
Annuii e lei mi guardò in silenzio per svariati minuti.
Sapevo che mi avrebbe giudicata ed era per questo motivo che non ne avevo mai parlato con nessuno se non con Kim. Non volevo che qualcuno si facesse un’idea di me che non era vera.
Nessun’altro avrebbe mai capito che ciò che c’è stato non ha mai significato nulla, che si è trattato solo di sesso e che non mi ero mai posta il problema che in un futuro sarebbe stato qualcosa con il quale avrei dovuto conviverci per forza perché confidavo nel fatto che non mi sarei mia spinta a baciare il mio migliore amico.
«Non riesco più a guardarlo in faccia senza sentirmi morire».
«Parlaci» ripetè. «Se lo verrà a sapere da solo sarà ancora peggio».
«Non posso andare da lui ed esordire con: io e tuo fratello abbiamo scopato un paio di volte ma sta tranquillo che non ha mai significato niente, è stato solo una cosa da una botta e via perché amo te. Sarebbe ipocrita da parte mia, non trovi?» chiesi iniziando a rompere la legna in ciocchi più piccoli.
«Comunque non lo scoprirà nemmeno per sbaglio, finché manterremo le distanze non avrò di che preoccuparmi».
La conversazione finì lì ed io mi concentrai solo sul mio lavoro per chiudere fuori qualsiasi pensiero che potesse danneggiarmi ancora di più.
Per tutto il giorno mi tenni impegnata sbrigando delle piccole faccende, mangiando solo a pranzo e andando a dormire davvero tardi. Fermarmi avrebbe significato pensare ed io non volevo farlo.
Quando il mattino seguente mi svegliai, mi sentii stanchissima. Guardai il mio letto pensando che una dormita di un paio d’ore in più non avrebbe fatto male a nessuno, ma non potevo riposare. C’erano lavori da fare e poi sarei davvero morta per il troppo caldo se fossi restata lì un secondo in più. Stavo sudando molto e sentivo il bisogno di un po’ d’aria fresca.
Uscii scontrandomi contro una camicia a quadri uno po’ sporca e rovinata. Sussultai sul posto colta alla sprovvista da quell’impatto inaspettato e mi schiarii la gola divenuta improvvisamente secca. Le mani erano tutte sudate e tremavano come tutte il resto del corpo, scosso da brividi che non riuscivo a scacciare. Abbassai lo sguardo verso il terriccio, focalizzandomi su un sassolino incastrato nella terra.
Non era proprio il comportamento che ci si aspetta da una ragazza adulta, ma dopo il mio sfogo e la privazione del sonno, sentivo che le mie energie per guardarlo negli occhi non erano a sufficienza.
«Che ti è preso ieri?» chiese Daryl con voce dura.
Ingoiai l’aria a vuoto e pensai a una qualsiasi risposta che non fosse “niente” perché non avrebbe funzionato.
«Nu-n-n-nulla» balbettai. «Perché?».
Sbottò e mi prese per le braccia, ma senza stringere troppo.
«Non dirmi cazzate, non ti sei fermata per tutto il giorno e sei stata in piedi quasi tutta la notte» disse scuotendomi come se volesse risvegliarmi.
«Non avevo sonno» mentii.
Mossi qualche passo per sorpassarlo, ma la testa iniziò a girare vorticosamente. Chiusi istintivamente gli occhi e li riaprii solo per vedere due zaffiri invece del terreno, del bosco o del cielo.
Non riuscii a collegare subito i lineamenti del viso alla persona a causa della vista annebbiata. Voltai la testa un paio di volte a destra e sinistra per cercare di capire cosa stesse succedendo fino quando qualcuno prendendomi per il mento, mi fece voltare il capo di nuovo. Ancora una volta tutto ciò che vidi furono due occhi chiarissimi guardarmi con ciò che mi sembrava preoccupazione, poi più nulla.
Daryl.
 
 
 
 
 
Mi risvegliai avvertendo una piacevole sensazione di freschezza. Non sentivo più caldo come prima e strofinando le mani contro le cosce mi accorsi che erano asciutte così come il resto del mio corpo, avvolto da un leggero lenzuolo.
Indugiai ancora qualche secondo prima di svegliarmi del tutto, non volevo che quella magia finisse, ma quando sentii qualcuno salire e avvicinarsi, mi tirai su a sedere, senza accorgermi che ero rimasta in biancheria.
Guardai nella penombra la figura di Jacqui e tirai un respiro di sollievo.
«Come ti senti, tesoro?» chiese premurosa.
«Sto meglio, grazie» risposi. «Da quanto sono qui?».
Si allontanò per prendere un bicchiere d’acqua che mi porse e che io presi ringraziandola, felice di poter bere qualcosa che non facesse bruciare la gola molto irritata.
«Quattro ore, hai avuto un brutto colpo di calore».
«Lo immaginavo» borbottai.
Quella era l’unica spiegazione plausibile dietro tutta quella sudorazione eccessiva e al giramento di testa. Effettivamente il giorno prima non avevo bevuto a sufficienza per tenere l’organismo ben idratato e avevo passato tutto il tempo sotto il sole. Avrei dovuto immaginarmi che sarebbe successo dati anche i miei problemi di pressione bassa.
«Hai bisogno di qualcosa?» chiese.
Scossi la testa e guardai fuori il resto del gruppo svolgere i soliti lavori, pensando che anche io avevo da fare. Scostai il lenzuolo per alzarmi in piedi, ma Jacqui mi fermò.
«Non devi sforzarti. È meglio se rimani qui per oggi» disse spingendomi per una spalla e costringendomi a stendermi di nuovo.
Sbuffai ma non protestai, sapevo anche io che era meglio riprendermi del tutto prima di uscire di nuovo nell’afa, quindi anche se riluttante, appoggiai la testa al cuscino e mi voltai sul fianco sinistro senza scoprirmi troppo. Non volevo che un uomo entrasse e mi vedesse in quello stato, quindi chiesi a Jacqui se potesse andare nella mia tenda a prendermi una canottiera da indossare.
Si diresse verso lo sportello e la sentii parlottare a bassa voce con qualcuno, ma non indagai su chi potesse essere.
Sospirai e guardai fuori dal finestrino, invidiando i bambini che stavano giocando mentre io mi stavo annoiando.
Quella situazione mi riportò al giorno in cui fui operata. In quel caso rimasi in ospedale per tre noiosissimi giorni, e anche se i medici mi dissero che potevo camminare per il corridoio, per me fu comunque una tortura perché volevo uscire da lì e tornare a correre o ad arrampicarmi su qualche albero com’ero solita fare.
Qualcuno salì sul camper, ma non ci prestai attenzione convinta si trattasse di Jacqui. Quando però vidi una figura appoggiarsi contro lo stipite della porta, mi accorsi che non poteva essere lei, sempre che non avesse cambiato sesso e nome e si chiamasse Daryl.
Mi voltai verso di lui e lo guardai per un tempo superiore rispetto a quello che mi imposi. Non riuscii a leggere bene tutte le cose che nascondeva dietro gli occhi velati da una rabbia insensata, quindi lasciai che il silenzio riempisse lo spazio tra noi due, fino quando l’aria diventò satura di parole non dette, domande non poste e risposte tenute a tacere.
«Mi odi?» chiesi d’un tratto. Era una cosa di cui avevo un disperato bisogno di sapere.
Lasciò qualcosa su un ripiano vicino al letto prima di avvicinarsi.
«Da dove cazzo te ne esci?» chiese inginocchiandosi vicino a me.
Da quella posizione riuscii a vedere bene tutti i suoi lineamenti e la barbetta cresciuta un po’ di più rispetto ai mesi precedenti.
«Il modo in cui ti comporti…» dissi lasciando volutamente la frase in sospeso.
Resistetti all’impulso di sfiorare anche solo per un secondo quelle labbra sottili che avevo baciato e che sembravano tentarmi di nuovo.
Abbassai lo sguardo e mi allontanai fino quando sentii le pareti del camper aderire alla mia schiena. Quella vicinanza era una tortura che non riuscivo a sopportare e non volevo fare di nuovo qualcosa di azzardato.
Daryl si rialzò di scatto e uscì senza rispondermi o guardarmi.
Sì che mi odia.
Sorrisi amaramente e scossi la testa. In un certo senso era meglio così, avrebbe facilitato le cose ad entrambi.
Mi infilai la canottiera che mi aveva lasciato e tornai sotto il lenzuolo dove iniziai a rigirarmi senza trovare pace.
Fuori sentivo i bambini ridere e gli adulti parlare, mentre io era confinata lì dentro senza poter fare nulla. Sarei voluta uscire, ma addosso avevo solo la canottiera che copriva il busto e girare mezza nuda per il campo non mi sembrava una mossa brillante.
Appoggiai la testa contro il muro e chiusi gli occhi, pensando che nemmeno dopo la fine delle mie relazioni mi capitava di sentirmi così male; se devo essere sincera, rompere con l’ultimo - Rob, questo era il suo nome - è stata più una liberazione per me.
Anche se eravamo fidanzati non sopportavo l’idea che lui portasse via del tempo che avrei potuto passare con Daryl e questo gli dava fastidio. Più volte mi disse che sarebbe stato meglio lasciarci, ma non lo feci. Non fino alla sera in cui rovinai tutto, quando invece di dire il suo nome sussurrai quello di Daryl mentre stavamo facendo l’amore. Dopo quell’episodio non ci sentimmo né vedemmo più.
Rob è stata la mia ultima storia, dopo lui scelsi di non avere più relazioni per un po’, per poter stabilizzare mente e cuore e accettare un’amicizia che avrei voluto fosse stata più forte, ma anche quel buono proposito andò a puttane perché nemmeno due settimane dopo dalla nostra rottura, mi risvegliai con il cervello che martellava nella testa, nuda e in un letto che non era il mio. Quando mi girai e trovai Merle dormiente al mio fianco, avrei voluto scavarmi la fossa da sola.
Il mio flusso di ricordi venne interrotto da Daryl appena rientrato nel camper. Reggeva in mano qualcosa che mi lanciò, girandosi subito dopo.
Inarcai un sopracciglio, non riuscendo a capire cosa volesse che io facessi, quando poi vidi che quelli che mi avevano portato erano dei leggings, trovati probabilmente dentro la mia tenda, li indossai subito.
«Ho fatto» dissi sedendomi.
Si voltò lentamente, per darmi qualche minuto in più se avessi dovuto sistemarmi e poi rimase imbambolato a fissarmi.
C’erano tante cose che volevo dirgli ma che non avevo il coraggio di dire, per questo rimasi in silenzio, sperando che fosse lui a parlare per una volta. Volevo che si aprisse con me di sua spontanea volontà e non che fossi io a dover tirargli fuori le parole a forza di domande, anche se sapevo che quello era l’unico modo per convincerlo ad avere una conversazione che non comprendesse solo risposte monosillabiche.
«Credo di averlo capito» dissi.
Lui non rispose, mi guardò in confuso ed io mi affrettai a dargli una spiegazione prima che potesse dire qualcosa, se mi avesse interrotta sentivo che non sarei riuscita a dirgli quello che avevo da dire.
«Ho capito che mi eviti perché mi odi ed è meglio così» ripetei. «In fin dei conti io non ho mai contato molto per te, e solo dopo quanti, ventitré anni? Me ne sono resa conto. Mentre tu per me volevi dire tutto. E vorrei poterti dire che mi dispiace per averti baciato, ma non è così. Non posso dirlo perché mentirei a me stessa e le bugie non mi piacciono, lo sai» continuai con voce calma. «E nonostante non mi piacciano c’è questa cosa che non riesco a dirti per paura di perderti completamente, grava sul mio petto e non riesco a liberarmene. Credo anche io di odiarmi, non posso biasimarti per questo».
Chiusi gli occhi e mi presi un po’ di tempo prima di guardarlo, volevo prepararmi a ricevere di nuovo quelle occhiate che avrebbero potuto uccidere, ma quando incatenai i nostri sguardi, rimasi sorpresa.
Non era come mi aspettavo che mi guardasse, c’era qualcosa di più profondo che non avevo mai visto. Era uno sguardo che non aveva mai usato con nessuno, nemmeno con quella pseudo-fidanzata con cui era stato per meno di una settimana.
«Non ti odio» rispose. «Odio questo schifo».
Non capii bene a cosa volesse dire, se stesse indicando la fine del mondo, la situazione in cui mi ero cacciata oppure un motivo che non conoscevo e che non voleva venissi a sapere.
«È per ciò che ho fatto?».
«No».
Stavamo parlando e anche se ero io a dovergli fare delle domande pur di riuscire a strappargli qualche parola per me contava già qualcosa. Non ricordo l’ultima volta da quando avevamo avuto un vero dialogo, ma mi era mancato.
«Ok» sospirai.
Volevo credergli, ma non ci riuscii. Era bravo a nascondere ciò che provava davvero e anche se aveva detto di non odiarmi, le sue azioni testimoniavano il contrario.
«Smettila di farlo».                                          
Inarcai un sopracciglio e cercai di capire a cosa si stesse riferendo. Non era facile capirlo quando parlava, figuriamoci quando dovevo entrare nella sua testa.
«Fare cosa?» chiesi perplessa.
«Non ne valgo la pena».
Prima che potessi replicare in qualsiasi maniera, lui se ne andò lasciandomi non solo disorientata, ma anche molto turbata dalla sua risposta.
Sospirai passandomi una mano sopra il viso stanco.
Era chiaro che nemmeno quella notte sarei riuscita a dormire a causa di tutti quei dubbi che non sembravano intenzionati a lasciarmi riposare.
 




1= andrà tutto bene, figlia mia.
2= mi dispiace, papà.
3= lo so, tesoro.


 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   

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Capitolo 17
*** Capitolo16 ***






 
Capitolo16
 
 
 
 
 
 
Quella sera Amy ed Andrea passarono a portarmi la cena e rimasero con me, aiutandomi a smorzare un po’ la tensione. Infatti a dispetto del mio umore riuscii persino a ridere un paio di volte quando mi raccontarono delle loro avventure di quando erano piccole.
Fortunatamente la più giovane delle due non accennò minimamente alla conversazione avuta il giorno prima e questo mi fece dimenticare per un po’ anche quella con Daryl, anche se sapevo che appena mi avrebbero lasciata sola non avrei potuto fare a meno di ricordarmi delle sue parole.
Restammo a parlare fino a tardi di tutto ciò che ci venne in mente, raccontai loro anche di quando cercai di far funzionare la lavastoviglie per la prima volta e ci misi il detersivo della lavatrice.
Iniziarono a ridere così forte che Dale entrò nel camper preoccupato e ci guardò in modo strano prima di sorridere e uscire nuovamente.
Purtroppo però arrivò anche il momento di andare a dormire, quindi a malincuore le lasciai andare, mentre io mi diressi verso il lettino, intenzionata però a svignarmela non appena ne avessi avuto l’occasione. Dovevo solo fare attenzione a chi fosse di guardia sul camper e per me correre verso la tenda sarebbe stato un gioco da ragazzi, avevo un piano infatti, e metterlo in pratica non sarebbe stato così difficile.
Quando sentii qualcuno scendere la scaletta del camper mi alzai velocemente, raggiungendo la porta in punta di piedi. Non mi era mai capitato di dover fare una cosa del genere e l’adrenalina era a mille, sentivo il cuore battere con forza e anche se avevo una po’ di paura non mi fermai, tutte quelle emozioni mi spronarono ad andare fino in fondo.
Uscii in una notte priva di vento e mi guardai un po’ intorno per vedere se si fosse svegliato qualcuno, ma l’unica persona che vidi fu Shane dirigersi verso la tenda di Lori e Carl.
Corrugai la fronte e scossi la testa, avevo notato uno strano comportamento tra i due, e non mi ci volle molto per capire che c’era qualcosa che andava ben oltre l’amicizia. Ogni volta che uno dei due mancava, qualche minuto dopo spariva pure l’altro e non era la prima volta che avevo visto l’ex poliziotto scendere dal camper per raggiungere la tenda della donna dove rimaneva fino al mattino seguente.
Non sapevo come fossero stati i rapporti tra lei e il marito, ma a mio avviso aveva dimenticato forse un po’ troppo in fretta che l’uomo che aveva sposato era morto da poco e non trovai questo comportamento corretto, non nei confronti di una persona che aveva perso la vita per rendere la sua città più sicura.
Dopo essermi assicurata che non ci fosse nessuno ancora in piedi attraversai il campo.
Probabilmente sarei dovuta rimanere nel camper, le persone sarebbero impazzite il giorno seguente quando non mi avrebbero trovata dove mi avevano lasciata, ma preferivo dormire in un posto che ormai mi era familiare. Una volta entrata in tenda però, il sonno sparì completamente e io rimasi a fissare la mia lampada per mezz’ora prima di alzarmi e uscire, snervata dal non riuscire a chiudere occhio.
Camminai fino alla parete rocciosa, nella speranza di stancarmi, ma una volta lì ci rimasi, restando a guardare la cava come se fosse la prima volta; si trattava di uno spiazzo fatto di terriccio e ghiaia che finiva con un dirupo, oltre il quale c’era uno specchio d’acqua che rifletteva i tenui raggi della luna. Intorno c’erano solo alberi che donavano a quel posto un’aria cupa e terrificante, le ombre si muovevano veloci tra le alte fronde e il vento soffiava tra i rami creando una sinistra melodia. Di certo quello non sarebbe stato il primo luogo a cui avrei pensato di nascondermi, ma dovevo ammettere che era ben protetto.
Feci una palla con la mia giacca e le misi sotto la testa dopo essermi distesa sulla dura roccia. Non era nulla di confortevole, ma almeno ero appoggiata a qualcosa di un po’ più comodo.
Alzai gli occhi al cielo e notai che la luna sembrava molto più grande del solito, allungai una mano nella vana speranza di toccarla e sorrisi davanti a quella vista. Erano davvero poche le cose che mi colpivano, ma uno spettacolo del genere era qualcosa che mi toglieva sempre il fiato per la bellezza.
«Cosa ci fai qua?».
Reclinai la testa all’indietro e vidi Daryl avvicinarsi lentamente e sedersi a fianco a me.
«Non volevo più stare dentro il camper » risposi.
Cercai di guardarlo senza farmi intimorire, ma dopo quello che era successo non riuscivo più nemmeno a pensare a un modo per cercare di salvare il salvabile. Sapevo che qualsiasi cosa avessi detto o fatto non sarebbe servita a nulla. Continuò a guardarmi fino quando fui io a distogliere lo sguardo, osservando con interesse un gufo che si era appena posato su un ramo e che ora sembrava studiarmi con i suoi occhi gialli.
«C’è un cazzo di motivo se le persone non devono andarsene in giro da sole».
Rimasi lì ferma ad osservare quel animale che ruotò il capo un paio di volte e poi iniziò ad arruffarsi le penne.
«So come difendermi Daryl, siete stati proprio tu e Merle a insegnarmi a sparare. Lo hai forse dimenticato?».
Riportai l’attenzione alla luna e alle miriadi di stelle, iniziando a contarle e perdendo il conto dopo essere arrivata a venti.
Era quasi come se fossimo a Fargo - il paese in cui abitammo prima dell’apocalisse - in una nottata normale in cui c’eravamo solo io, Daryl e qualche bottiglia di birra a farci compagnia.
Capitava infatti che quando non riuscisse a dormire o non volesse tornare a casa dal padre ubriaco, venisse da me e quando succedeva ci arrampicavamo sul tetto della mia abitazione. Restavamo lì fino ad addormentarci, ma a volte neppure chiudevamo gli occhi, stavamo svegli fino all’alba senza fare nulla se non guardare il cielo scuro e scambiarci qualche parola ogni tanto.
Quel suo vizio di irrompere in camera mia nel cuore della notte non lo aveva perso con la morte del suo vecchio e la cosa non mi dispiaceva, anche se a volte mi spaventavo quando lo vedevo seduto su una poltroncina in un angolo della stanza mentre aspettava che mi svegliassi.
«Non è vero quello che hai detto prima» dissi all’improvviso. «Non dovresti nemmeno pensarla una cosa del genere e non mi importa se tuo padre te lo ripeteva così spesso fino a farti credere che avesse ragione. Avrai forse mille difetti, ma non sei inutile».
Daryl si distese incrociando le mani sotto la testa e tirò su una gamba, ma non rispose. Dopo avermi ripresa per essermi allontanata dal campo da sola non aveva più parlato.
«Di’ qualcosa».
Non sopportavo quel silenzio penetrante, volevo che mi urlasse pure contro se ne sentisse il bisogno, ma non che rimanesse in quel totale rifiuto nel parlarmi.
«Invece aveva ragione».
«Daryl» lo richiamai dolcemente sfiorando la sua mano.
«No!» rispose scansandomi. «Se fossi stato buono in qualcosa mia madre non sarebbe morta…».
«Smettila!» lo interruppi. «Se n’è andata, cosa potevi fare? Eri solo un bambino. Non potevi sapere che la cenere della sigaretta avrebbe appiccato quell’incendio. Sai chi sarebbe dovuto essere presente? Tuo padre. Ma lui non c’era» dissi guardandolo.
«Vuoi qualcuno a cui dare la colpa? Dalla a lui».
Presi di nuovo la sua mano, sfiorando la piccola stellina con il pollice.
Mi guardò per alcuni istanti con dolore e rimorso. Avrei voluto urlargli che erano stronzate quelle che si era sentito dire, che non doveva dare peso a quelle parole, ma sapevo che sarebbe stato tutto inutile.
Sospirò tornando a guardare il cielo notturno ma non interruppe quel contatto fisico.
La sua mano a confronto della mia era molto più grande e calda a contrario della punta delle mie dita che stavano diventando gelide. Anche la pelle era diversa, la sua era ruvida e sembrava graffiare quella mia liscia e delicata, ma non mi sottrassi alla presa.
Per il resto della notte non parlammo più, lasciammo che il bubbolare del gufo e i timidi spifferi del vento lo facessero per noi, per colmare il vuoto che le nostre parole avevano lasciato e questo fino al sorgere del sole, quando Daryl si alzò all’improvviso in modo brusco per allontanarsi e tornare dentro la tenda che condivideva con il fratello. Non diedi peso a quel comportamento, era una bella giornata e per nulla al mondo avrei permesso che questo cambiasse il mio umore che si era risollevato di parecchio.
Stavo leggendo un libro quando Glenn si avvicinò a me, posai il testo che avevo in mano e lo guardai.
«Fammi indovinare, siamo a corto di cibo» dissi alzandomi in piedi.
Ormai tutto si riduceva a quello, non al fatto che eravamo ancora vivi. La cosa più importante era il cibo che iniziava a scarseggiare sempre di più così come gli animali nei boschi.
Mi guardò di rimando come se fosse colpa sua e scossi la testa. Glenn era un bravo ragazzo, ma forse era troppo ingenuo e per questo lo sceglievano sempre per i lavori più pericolosi.
«Se non vuoi vado da solo».
Inarcai un sopracciglio e gli strinsi la spalla per farlo calmare visto che sembrava un po’ nervoso.
«Che scherzi? Io adoro correre per non farmi mordere, è un buon metodo per rimanere in forma» risposi sarcastica.
Riuscii così a strappargli un sorriso e gli diedi le chiavi del mio Hummer dicendogli che andavo ad avvisare Merle e Daryl che sarei stata via per un po’.
Percorsi a grandi falcate lo spazio che divideva il camper dal nostro accampamento fino quando trovai i due fratelli prepararsi per andare a caccia. Era una cosa che facevano sempre, provvedevano il cibo per tutti e nonostante questo li evitavano come se fossero stati morsi. Non capivo questo atteggiamento di ostilità nei loro confronti, rischiavano ogni volta che si allontanavano per poter riportare anche solo scoiattoli e nessuno sembrava intenzionato ad avvicinarsi a loro per ringraziarli. Non mi aspettavo che organizzassero una festa, ma avrebbero potuto mostrare un po’ di gratitudine. Capivo il fatto che potessero sembrare intimidatori, ma era anche vero che erano due persone, non un qualche animale randagio da evitare.
«Devo tornare ad Atlanta» dissi facendo notare la mia presenza.
Mi guardarono per qualche istante, poi Daryl si staccò per dirigersi verso il bosco, guardandomi con un espressione buia. Inarcai un sopracciglio e scrollai le spalle, i dubbi di quella mattina erano fondati ma ormai quel suo comportamento non mi faceva più alcun effetto, poteva pure continuare che io non avrei fatto nulla per fermarlo.
«Stanno finendo il cibo in scatola e sono sicura che servano altre cose. Tornerò prima che faccia tardi» continuai guardando il bosco. «E di a Daryl che se gli servono gli assorbenti posso darglieli io!».
Tornai da Glenn che si era messo al posto di guida e salii anche io sul fuoristrada, pronti a partire e a rischiare di nuovo la pelle in tutti i sensi. Non era un peso per me, lo facevo con piacere, poiché era un modo per rendermi utile al campo, non volevo fare solo il bucato e servire la colazione che preparavano, o il pranzo e la cena.
Viaggiammo parlando di cose normali con della musica in sottofondo, fino quando arrivammo proprio fuori dalla città dove lasciammo il nostro mezzo. Avevamo già provato ad entrare con l’Hummer, ma avevamo rischiato di finire intrappolati.
«Qual è la lista della spesa questa volta?» chiesi scendendo.
Estrasse dalla tasca dei pantaloni un foglio e lo guardò.
«Quella di sempre» rispose passandomi il foglietto. «L’altra volta ho visto una parafarmacia con le serrande ancora abbassate. Le cose che ci sono dentro probabilmente non sono state toccate».
Annuii capendo dove volesse arrivare. Presi dal sedile posteriore le mie armi e gli porsi la pistola.
«Ti copro io, non preoccuparti».
Gli passai anche una borsa vuota e proseguimmo a piedi.
Il caldo quel giorno sembrava impossibile da sopportare, io nei miei jeans neri e canottiera blu mi stavo lentamente sciogliendo. Così mi sembrò quando le gocce di sudore iniziarono a creare macchie scure sul petto e sotto le ascelle. 
«Ricordami di prendere anche una scorta di deodoranti» dissi facendolo ridere insieme a me.
Un’altra cosa che mi mancava era proprio il bagno dove potermi lavare e togliermi di dosso lo sporco e la puzza. Una doccia veloce al giorno non me la toglieva nessuno e nei giorni in cui avevo più tempo a disposizione riempivo la vasca di acqua calda e bagnoschiuma ai frutti di bosco. Il profumo subito riempiva l’aria e ciò mi invitava sempre a spogliarmi rapidamente per entrare a far parte di quel mondo morbido e soffice fatto di schiuma profumata.
Era piacevole per me abbandonarmi completamente a quelle sensazioni di benessere, solo quando l’acqua iniziava a diventare fredda uscivo e mi avvolgevo nel mio accappatoio color avorio con il quale poi mi buttavo sul letto con un sacco di patatine, accendendo la TV e guardando qualsiasi cosa catturasse la mia attenzione, finendo sempre con l’addormentarmi.
Mi asciugai la fronte con il dorso della mano e mi sistemai meglio i RayBan che mi erano caduti sul naso. Se c’era un motivo per cui odiavo l’estate era proprio a causa del clima caldo e del sole che picchiava forte, ed io avendo la pelle pallida e delicata mi bastava poco per ustionarmi. Mi era già successo un paio di volte e quando andavo a dormire era un supplizio.
«Cosa controlliamo prima?» chiese Glenn.
Guardai il foglio con la lista fermandomi all’ombra di un palazzo. Ci pensai un po’ su, pianificando anche varie strategie di fuga da mettere in atto se qualcosa fosse andato storto.
«Io dico la parafarmacia. I generi alimentari come la frutta sono deperibili, quindi è meglio tenerli al fresco per quanto possibile» risposi.
Annuì e mi fece strada lungo dei vialetti poco trafficati dai nonmorti. Bastò infatti usare solo il coltello e l’ascia per eliminarli.
Mi piaceva andare in città con lui perché era silenzioso, non faceva domande stupide e sapeva muoversi bene senza farsi notare troppo. Ero sicura che se avessi portato qualcun altro saremmo morti già dalla prima escursione e senza nemmeno andare molto lontani.
Arrivammo davanti una piccola struttura sbarrata e facemmo un giro del perimetro sia per essere sicuri che non ci fossero zombi nelle vicinanze, sia per trovare un punto in cui infiltrarsi per aprire le porte dall’interno, ma solo una grata troppo stretta per farmi passare garantiva l’accesso ed era in momenti come quello che odiavo i miei fianchi larghi.
Sbuffai e mi grattai la testa come se quel gesto potesse aiutarmi a pensare a un piano migliore. Sul retro c’era un’altra porta da cui poter entrare, ma era chiusa a chiave e noi non avevamo nulla per forzare la serratura. Potevo sparare ai cardini ma sarebbe stato uno spreco di munizioni.
Guardai la grata e poi Glenn, facendo calcoli assurdi su quante possibilità avrebbe avuto di riuscire ad entrare. Era più magro di me, quindi sarebbe riuscito a passarci senza alcun dubbio, ma non sapevo com’era la situazione là dentro e non potevo sacrificare la vita di qualcuno per una stupida speranza. Se ci fossero stati degli infetti lui non ne sarebbe uscito vivo.
«Ok, io non ho nessun piano» dissi provando ad alzare inutilmente una saracinesca. «Qualche idea?».
Guardò prima me e poi la grata, facendomi capire che anche lui aveva pensato di entrare da lì, ma io scossi la testa ancora prima che potesse formulare una frase, non gli avrei permesso di rischiare così tanto per dei medicinali.
«Farò in fretta, devo solo entrare, riempire il borsone e uscire» si affrettò a dire.
«Non esiste! Se dentro ci fossero degli zombie io non potrei aiutarti, tu moriresti e io sarò costretta a tornare al campo dicendo a tutti che non ce l’hai fatta. No!» scossi la testa. «Il gioco non vale la candela».
Rimase in silenzio per un po’ come a soppesare le mie parole e poi annuì seppur poco convinto. Sapevo anche io che i medicinali ci servivano, ma eravamo sopravvissuti fino a quel momento senza e poi io avevo ancora una borsa piena con antidolorifici e altri farmaci.
«Possiamo sempre tornare domani con un piede di porco» dissi facendogli un cenno del capo per farmi seguire.
Le strade erano molto più trafficate di prima e quindi accelerammo il passo per evitare che il nostro odore richiamasse troppo l’attenzione di tutti quei morti che camminavano guidati solo dall’istinto di uccidere e mangiare.
I primi tempi mi convinsi che doveva esserci un briciolo di umanità dentro quei loro occhi bianchi e iniettati di sangue, ma dopo che quella che doveva essere una bambina con non più di sette anni tentò di mordermi capii che non c’era più nulla di umano in loro. Solo puro istinto animale che li faceva agire in quel modo, rendendoli dei predatori pericolosissimi. Qualsiasi briciolo di bontà che avevano spariva nello stesso istante in cui il loro cuore cessava di battere.
Ritornammo al piccolo supermercato dove svolgemmo il nostro lavoro in silenzio e rapidamente. Ogni volta che sparivo tra gli scaffali ormai vuoti, controllavo dove fosse Glenn per assicurarmi che fosse ancora tutto intero. Non volevo che gli capitasse qualcosa, e non perché poi i sensi di colpa mi avrebbero uccisa, ma perché non volevo perdere un amico come lui. Le provviste potevano anche andare al diavolo, avrei sempre messo una vita umana prima di loro.
Solo in quel momento mi accorsi che di russo non avevo proprio nulla se non i tipici tratti delle popolazioni dell’est Europa. Infatti ogni volta che tornavo in Russia mi trovavo spaesata, e non per il cambio di fuso orario o per il diverso paesaggio, ma per la freddezza delle persone. Solo negli ambienti familiari si riceveva un po’ di calore, anche se comunque si tendeva sempre a mantenere una certa distanza con chiunque per conservare quel portamento da tipici sovietici. Io ero completamente differente, ero più aperta e vivace, non mi facevo problemi a sorridere perché credevo che anche se si fosse trattato solo un semplice sorriso avrei migliorato la giornata a qualcuno.
Quando sentii un ringhio basso e un lamento, mi nascosi rapidamente dietro uno scaffale e il mio primo pensiero volò verso Glenn.
Mi guardai freneticamente alla sua ricerca ma lui non era più nel mio campo visivo, mi morsi il labbro fino quando la figura di un morto si parò davanti a me. Aveva la divisa dell’esercito addosso ed era tutta rotta e strappata, alla cintura aveva un walkie talkie e attaccata alla coscia c’era una fondina con una pistola, gli anfibi erano sporchi di fango, sangue e erba. Camminava guardandosi intorno con sguardo vuoto e i miei occhi caddero sulla sua mano sinistra, tenuta attaccata al polso solo da un lembo di pelle.
Ma che schifo!
Con uno scatto fulmineo mi alzai e mi avvicinai a lui accovacciata per ridurre al minimo le mie tracce, poi alzandomi piano per non far rumore gli conficcai il coltello nel cranio. Quella creatura si afflosciò tra le mie braccia e la posai delicatamente a terra, presi la radio e la pistola e mi avvicinai velocemente alla porta d’ingresso, dove una quindicina di loro stavano entrando. Con il borsone sotto braccio mi andai nel reparto in fondo al negozio dove trovai Glenn intento a raccogliere gli ultimi barattoli di frutta in scatola.
«Sul serio non mangi carne?» chiese stupito nonostante ormai sapesse che fossi vegetariana.
Lo presi per un braccio e quando fece per dire qualcosa mi portai un dito alle labbra per intimargli di fare silenzio. Lui annuì e mi indicò la porta del bagno riservata ai dipendenti dentro il quale ci rifugiammo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ecco qui il sedicesimo capitolo con un po’ di ritardo.
All’inizio doveva essere più lungo (infatti ho già una parte scritta che devo terminare e correggere, 
quindi massimo una settimana e anche il diciassettesimo sarà pubblicato), ma poi sarebbe stato troppo carico come capitolo
e quindi ho deciso di dividerlo in due parti.

Visto che son quasi le tre di notte direi che me ne vado, ma non senza salutarvi prima.
Ciao, ciao
alla prossima
 
yulen c:

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Capitolo 18
*** Capitolo17 ***


 
 
 
 
 
Capitolo17
 
 
 
 
 
 
 
 
Non avevo idea di cosa fare. Ero agitata, spaventata e sentivo che ogni respiro poteva essere l’ultimo. Glenn non se la stava passando meglio di me e si guardava attorno terrorizzato per poi tornare a posare lo sguardo sulla porta come se potesse aprirsi da un momento all’altro, rivelando ai morti la nostra presenza.
Dovevamo andarcene ma non sapevamo come, avevamo le armi silenziate è vero, ma loro erano più numerosi e noi saremmo stati accerchiati ancora prima di avere il tempo di sparare il primo colpo. Potevamo correre sì, ma sarebbe stato troppo rischioso e non potevamo nemmeno aspettare che se ne andassero.
Guardai la porta sotto cui una fessura permetteva di vedere i passi degli zombie andare avanti e indietro per sostare qualche secondo e poi riprendere a muoversi senza una destinazione ben precisa; era chiaro che dovessero aver sentito l’odore di carne perché non sembravano intenzionati a spostarsi più del dovuto.
Mi distesi sul pavimento cercando di poter vedere meglio attraverso il piccolo spazio, ma senza riuscirci.
«Aspetta!» disse piano Glenn avvicinandosi. «Proviamo con questo».
Prese un frammento di vetro dello specchio posto sopra a dei lavandini e lo fece scivolare in quel piccolo spiraglio.
Ce n’erano circa cinque tra noi e l’uscita sul retro, ma per quello che riguardava il resto del negozio non avevo idea di quanti ce ne fossero.
Controllai il caricatore della mia pistola e contai quanti proiettili avessimo: le pistole in nostro possesso erano entrambe Glock 33 con caricatore da nove colpi, in oltre ce n’era uno già in canna, aggiunsi anche quelli dell’arma che presi al soldato morto, quindi in tutto avevamo quaranta proiettili. Non sarebbe stato di certo facile passare tra loro, ma al momento non avevamo altre possibilità.
«Usciamo dalla porta d’emergenza e cerchiamo di raggiungere l’Hummer» bisbigliai piano.
«Cerchiamo?» chiese leggermente alterato.
«Non so, hai idee migliori?».
Restò in silenzio e abbassò il capo, facendomi capire che non aveva un piano.
«Come pensavo. Prendi il borsone, va avanti e fa strada, io ti copro le spalle. Usa la pistola per i bersagli lontani, quelli più vicini cerca di scansarli. È meglio risparmiare munizioni» dissi.
Strinse forte il pomello della porta e facemmo tre profondi respiri, poi si girò verso di me ed io annuii.
Velocemente aprì la porta e balzò fuori uccidendo due nonmorti, io lo seguii calciando al petto un altro zombie per allontanarlo, quello infatti cadde e approfittai di quel momento per eliminarne uno con il pezzo di vetro.
Proseguimmo così fino al retro del negozio dove trovammo l’area sgombra con mia somma sorpresa.
Sfruttammo quel momento per riprendere fiato dopo aver chiuso la porta e averci ribaltato un cassone della spazzatura davanti. Verificai velocemente di non avere ferite e mi avvicinai a Glenn che stava guardando la strada.
C’era una grandissima orda lì che si guardava attorno annusando l’aria, ma fortunatamente non si erano ancora accorti di noi, usare quel momento per svignarcela era la nostra unica chance.
Estrassi dal borsone la Five-seveN del soldato mettendoci sopra il mio silenziatore e la porsi a Glenn insieme alle chiavi del fuoristrada, facendomi restituire la Glock.
«Questa è meglio che ora l’abbia tu, ha un rinculo minore e il doppio dei colpi» dissi. «Passami il tuo borsone e vai avanti».
Annuì e aprì il cancello, sparando per eliminare quanti più vaganti potesse. Io dietro cercai di fare lo stesso, tenendomi a debita distanza da ogni spazio che mi mettesse con le spalle al muro, e mentre i nonmorti cadevano come mosche, noi riuscimmo ad avvicinarci sempre di più al mezzo che ci avrebbe di nuovo riportati a casa.
Sparai l’ultimo proiettile rimasto nella mia pistola quando uno di loro – un altro soldato - si avvicinò al mio braccio per morderlo, fortunatamente fui abbastanza veloce da scansarmi e abbatterlo prima che potesse azzannarmi. Guardai il suo cadavere giacere ai miei piedi e mi chinai per prendere il walkie-talkie che aveva nel taschino del gilet insieme alla pistola e delle flash bang.
Subito mi venne un’idea: gli zombie stavano diventando sempre più numerosi e noi stavamo finendo i proiettili, l’unico modo per avere salva la pelle era distrarli o quantomeno rallentarli.
Lanciai alle mie spalle le accecanti in mio possesso che scoppiarono con un fragoroso rumore e con una luce fortissima che come pensai, riuscì a stordirli il tempo necessario che ci servì per salire in auto e mettere in moto.
Glenn schiacciò sul pedale dell’acceleratore con forza, facendo stridere le gomme sull’asfalto, lasciando sopra esso delle strisciate nere come la notte, l’attrito dei pneumatici sulla strada lasciano un enorme polverone dietro di noi.
«Non è andata male dopotutto. Non trovi?» chiesi sarcastica.
Mi guardò con un’espressione che tradussi come “ma mi prendi per il culo” e mi morsi il labbro per soffocare una risata.
«Apri il borsone ai tuoi piedi» disse.
Feci come mi aveva chiesto inarcando un sopracciglio e tenendo uno sguardo incuriosito mentre tiravo la zip. Dopo aver scostato i due lembi di stoffa guardai il contenuto che consisteva in oggetti della medesima forma e del medesimo colore. Ne presi in mano uno e ghignai divertita.
«Deodorante» constatai. «Sul serio? Quanti ne hai presi?».
Mi guardò per qualche istante prima di mettersi a ridere insieme a me. Gli avevo detto di prenderne una scorta, è vero, ma stavo scherzando. Almeno in parte.
A proposito!
Presi i due walkie talkie dal mio zaino e glieli mostrai, sventolandoli sotto il suo naso.
«Tu sai su che frequenza Shane ha sintonizzato il CB?».
«Do-dove li hai trovati?» chiese stupito.
Ignorai la sua domanda e posai una radio sul cruscotto mentre testavo il funzionamento dell’altra. Non rimasi sorpresa quando – dopo vari tentativi – capii che era rotta e quindi inutilizzabile, la seconda sembrava in condizioni migliori e anche se aveva l’antenna storta, funzionava ancora.
Sobbalzai leggermente quando le ruote iniziarono a marcare la ghiaia, segno che eravamo arrivati a destinazione sani e salvi ancora una volta.
Scesi con lo zaino in spalla, il borsone con le scorte che avevo preso io nella mano sinistra e i due walkie talkie nella mano destra.
Mi diressi verso il camper, dove vidi la maggior parte dei superstiti intenti a svolgere le proprie mansioni che spaziavano dal spaccare legna per la sera, a creare nuove trappole.
Individuai Shane seduto su una sedia da giardino mentre puliva la pistola e mi avvicinai a lui dopo aver lasciato la borsa ad Andrea.
«Ho trovato questi» dissi. «Uno è andato e non so né se si può aggiustare né come farlo, ma l’altro è in buono stato».
Posò giù la sua arma e prese i due apparecchi e sintonizzando quello funzionante sul canale del CB, il tutto tenendo uno sguardo attento e concentrato su ciò che stava facendo.
Sentendomi osservata alzai lo sguardo per vedere Lori guardarmi, tra le mani aveva un bastone e lo stava stringendo così forte che le nocche le erano diventate bianche, dall’altra parte anche Daryl mi stava osservando torvo, e spazientita dal loro modo di comportarsi tornai con l’attenzione all’ex poliziotto.
«Non funziona perché si sono staccati dei fili e non fanno più contatto» spiegò Shane.
«Riesci ad aggiustarla?» chiesi.
Dopo aver ottenuto una risposta affermativa me ne andai, cambiando direzione e tornando verso il mio fuoristrada per scaricare il resto delle cose che erano rimaste, anche se Glenn e gli altri avevano già preso tutto. Infatti a parte la borsa con i deodoranti e quella con la mia frutta non c’era nient’altro.
Sbuffai e mi tolsi gli stivali per far respirare i piedi indolenziti. Anche i polpacci e i muscoli delle cosce iniziavano a dolermi insieme alla spalla.
«Sei stata in città di nuovo?».
Alzai il capo per vedere Daryl a un palmo dal naso, in attesa di una risposta, il suo volto era deformato da una smorfia di rabbia.
Ma che cazzo!
Sobbalzai sorpresa.
«Non ti è bastata la volta scorsa?!».
«C’era Glenn con me, non ero sola» ribattei.
«Come c’era quando sei tornata con una gamba rotta?» chiese tagliente. «La  prossima volta evita di sparire per così a lungo, non posso perdere tempo a cercarti. Ho di meglio da fare».
Lo spinsi con tutta la mia forza e lo guardai.
«E io non credo di averti chiesto di farlo».
Mi chinai per rimettermi gli stivali e prendere le mie armi, diretta dove ancora non ne avevo idea, ma il bosco mi sembrò un buon posto dove starmene per i fatti miei.
Non mi importava se avesse passato tutto il pomeriggio a cercarmi, per quanto mi riguardava avrebbe pure potuto continuare a fare qualsiasi cosa stesse facendo prima di accorgersi che non ero più lì.
Accidenti a lui! Perché doveva fare sempre così? Perché doveva sempre rovinare tutto?
Eppure quando eravamo nel nostro paese e passavamo la notte vicini, il mattino seguente non si comportava in quel modo, era un po’ acido le prime ore, ma poi gli passava e tornava ad essere il solito Daryl di sempre.
Bah, vallo a capire.
Passeggiai fino a trovare un piccolo ruscello dall’acqua non troppo profonda, pulita e azzurra come quella della cava. Sapevo di essermi allontanata troppo, ma per tornare al campo avrei dovuto solo seguire il corso e in qualche modo sarei riuscita a non perdermi.
Tolsi i calzini e gli stivali, risvoltai le gambe dei pantaloni fino alla ginocchia e immersi i piedi, dondolandoli. La freschezza dell’acqua portò un’ondata di sollievo in tutto il corpo e subito il mio organismo bramò un bel bagno ristoratore.
Girai la testa a destra e sinistra per avvistare eventuali pericoli, ma a parte me non c’era nessun’altro lì. Mi spogliai velocemente, levando anche la biancheria e lasciando pistola e coltello sulla riva in modo che fossero facilmente recuperabili. Mi immersi fino a metà busto, sorreggendomi sul bordo del torrente per non scivolare.
L’acqua ora sembrava più fredda, ma non era un problema. Annullava le vampate di calore date dalla temperatura alta e fu come trovare un’oasi nel bel mezzo del deserto dopo giorni di pellegrinaggio.
Non era come essere nella vasca di casa mia, mancavano il sapone e il miscelatore del rubinetto, ma poter eliminare lo sporco incrostato sulla pelle senza dover lavarmi a pezzi era già un passo avanti. Alla cava dovevo sempre stare attenta che non arrivasse qualcuno proprio mentre ero nuda, per questo mi lavavo con un secchio d’acqua e uno straccio ormai consumato e macchiato che invece di levare la sporcizia sembrava farla attaccare ancora di più.
Una volta che la mia pelle tornò pulita come era sempre stata uscii, rabbrividendo quando il vento sfiorò il mio corpo bagnato.
Mi guardai e rimasi sorpresa nel vedere che non c’erano più chiazze di fango ed erba sulle braccia, anche il sangue rappreso sulle mani e sotto le unghie era stato lavato via.
Mi rivestii velocemente, notando come la colorazione della mia carnagione fosse più chiara dove i vestiti la coprivano, mentre le altre zone, quelle più esposte al sole erano scure, sul naso e sulle guance c’era una leggera spruzzata di efelidi che avevo solo da bambina e che con la crescita erano scomparse.
Lavai anche i capelli e poi li raccolsi, tenendoli legati in una bandana che portavo solitamente al polso.
Ritornai indietro con calma, assaporando quella calma che però non durò a lungo. Appena iniziai ad avvicinarmi infatti, la voce della gente che discuteva si fece più distinta così come il rumore della legna che veniva spaccata e quello del fuoco che stava già scoppiettando.
Stavo per entrare nella mia tenda quando qualcuno mi bloccò, afferrandomi per un braccio. Mi voltai e vidi Amy guardarmi con un’espressione preoccupata, ma prima che potessi chiederle cosa fosse successo lei mi anticipò.
«Per fortuna sei qui» disse trafelata. «Si tratta di Merle».
Passai una mano sul volto e la guardai sospirando. Era mai possibile che non potessi passare qualche ora in tranquillità senza che lui combinasse qualcosa?
«Cos’ha fatto ora?».
«È meglio se lo vedi tu in persona».
La seguii fino al furgone di Daryl, dove Merle, seduto con un braccio legato ad una corda che passava dentro i cerchioni, era tenuto sott’occhio da Shane.
Appena mi vide iniziò a ridere e si strofinò il naso insanguinato con il dorso della mano. Il suo labbro inferiore era spaccato e anch’esso perdeva sangue.
Mi voltai verso l’ex poliziotto e gli chiesi di lasciarci soli anche se lui non sembrò disposto a lasciarmi lì senza protezione.
«Mi sono già occupata di lui mentre era in queste condizioni» lo rassicurai. «Non fatene parola con Daryl e cercate di tenerlo lontano da questo scempio se dovesse tornare».
Mi inginocchiai di fronte a Merle e guardai la ferita che sanguinava. Scossi la testa e andai a  prendere una bottiglia d’acqua, delle garze e del disinfettante con il quale iniziai a pulire il labbro e il naso, il tutto tenendo la bocca chiusa nonostante volessi dirgli tante di quelle cose che non mi sarebbe bastato un giorno per finire di rimproverarlo.
Mi avvicinai di più a lui per verificare se l’osso del naso fosse rotto, ma a parte il sangue che aveva quasi smesso di colare non trovai ulteriori ferite.
In quella posizione ero a pochi millimetri dal suo volto e questo lo fece sogghignare di nuovo.
«Lo trovi divertente?» chiesi. «Perché ti assicuro che non lo è».
Presi la bottiglietta e svitai il tappo prima di passargliela. Bevve qualche sorso per sciacquarsi la bocca e sputò quel misto di saliva, sangue e acqua per terra.
«Ti preferirei vestita da crocerossina» disse senza smettere di ridere.
Inarcai un sopracciglio e strinsi i pugni per combattere la voglia di colpirlo e lo slegai, assicurandomi che andasse a dormire. Almeno non avrebbe infastidito nessuno. Quando si addormentò del tutto mi allontanai per parlare con Shane che appena mi vide smise di fare ciò che stava facendo.
«Che ha combinato per finire in quelle condizioni?» chiesi.
Infilò una mano in una delle tasche dei suoi pantaloni e trafficò fino quando trovò ciò che stava cercando. Estrasse una bustina dal contenuto bianco e me la lanciò.
«La prossima volta non mi limiterò a legarlo».
Annuii capendo dove volesse arrivare.
«Non ci sarà una seconda volta. Lo terrò più sotto controllo».
Sapevo che sarebbe stato impossibile guardarlo ventiquattro ore su ventiquattro, ma pur di non farlo finire in qualche guaio di nuovo avrei fatto l’impossibile. C’ero riuscita una volta, tempo fa, potevo farcela di nuovo.
Entrai nella mia tenda e gettai la busta in un sacco che usavo come bidone della spazzatura.
Sperai che per quando Daryl fosse tornato, Merle avrebbe riacquistato parte della sua lucidità o avrebbe iniziato a urlargli contro, e quelli erano problemi nei quali preferivo non venir coinvolta.
Mi cambiai velocemente in abiti puliti e mi distesi sulle coperte, giurando che sarei stata lì soli cinque minuti, finendo però con l’addormentarmi, cotta da quella giornata.
Quando andavo in città mi stancavo facilmente e la sera appena chiudevo gli occhi riuscivo subito a crollare in un sonno che durava fino la mattina del giorno dopo, e fu proprio alle nuove luci del sole che mi svegliai, sbadigliando e strofinandomi gli occhi ancora semichiusi.
Uscii dando il buongiorno alle persone già deste, restando sorpresa di come in due mesi le cose si fossero sistemate così in fretta. Credevo che per il genere umano non fosse rimasto nulla se non una vita costantemente in fuga, e invece lì eravamo riusciti a sistemarci, creando questa nuova vita.
Amy, vedendomi, mi chiamò per chiedermi se volessi aiutare lei e la sorella a preparare la colazione ed io accettai volentieri nonostante non fossi proprio una cuoca.
Entrammo nel camper e mentre preparavamo i piatti ci lasciammo coinvolgere in una chiacchierata tra ragazze molto diversa da quella avuta durante il mio piccolo ricovero. Infatti questa volta i toni delle nostre voci erano molto più bassi in modo che il discorso non raggiungesse orecchie indiscrete. Sembrava un po’ come se ci stessimo confessando, solo che il nostro era un argomento che un prete avrebbe preferito non sentire.
Amy iniziò ad arrossire quando io e Andrea ci confrontammo sulle nostre avventure giovanili e ci mettemmo a ridere sommessamente davanti il suo evidente imbarazzo.
«E se dovessi passare la tua ultima notte di fuoco con chi lo faresti?» mi chiese la sorella minore risvegliandosi dal suo disagio.
La guardai in un misto tra il divertito e il dubbioso per la sua domanda.
«La mia scelta ad esempio sarebbe Ryan Gosling».
«Amy!» la riprese la sorella sorridendo.
Scossi la testa con un sorriso sulle labbra, e quando vidi che stava aspettando una risposta posai il coltello con il quale stavo tagliando il pane. Subito il mio pensiero volò verso Daryl.
Sarebbe stato lui senza ombra di dubbio, almeno sarei morta come una ragazza felice essendo riuscita ad esaudire il mio desiderio più nascosto, ma non volevo scoprirmi così tanto. Nessuno ne era a conoscenza a parte la mia migliore amica ed Amy ed era meglio così, non credo che avrebbero capito perché lui e non qualcun altro.
A volte nemmeno io riuscivo a capire perché mi struggessi così tanto per una persona che non ha mai pensato a me nemmeno per un secondo e che mi vedeva solo come un’amica, mentre altre ragazze, che neppure conosceva, avevano la fortuna di stringerlo anche solo per una notte.
Ricordo ancora il suono che il mio cuore faceva quando lo vedevo sparire con la conquista della serata per andare a fare Dio solo sa cosa. Quello era il peggior tipo di dolore che io abbia mai conosciuto e provato.
Quando dovevo chiudere io il bar restavo anche ore a bere, fino a tornare a casa alticcia. Non era un comportamento maturo, lo so, ma era l’unico modo che conoscevo per riuscire ad addormentarmi.
Mi appoggiai contro uno dei sedili del camper e la guardai facendo finta di pensarci.
«Se potessi scegliere credo che passerei la mia ultima notte con Chester Bennington».
«Il cantante dei Linkin Park? Sul serio?» commentò divertita.
«Ehi! È il mio sogno erotico da quando ho iniziato a seguirli, e credimi che li conosco dal loro esordio» risposi piccata ma senza smettere si sorridere.
Salutai le due sorelle e reggendo due piatti mi diressi verso la tenda di Merle e Daryl, che prima che andassero a caccia, avrebbero avuto bisogno delle energie necessarie.
«Mi piacevi di più quando portavi le birre» commentò il più grande quando mi vide arrivare.
Lo guardai di sottecchi, notando come le pupille fossero molto dilatate e come la sua espressione fosse serena, la stessa che c’era sulla sua faccia il giorno prima.
Non mi ci volle molto per capire che doveva aver trovato qualcos’altro per farsi.
«Sant’Iddio, non di nuovo» sbottai posando i due piatti su un ceppo.
Mi avvicinai a lui prendendogli il volto tra le mani e lo girai un paio di volte per controllare come rispondeva agli stimoli. Sembrava come in una sorte di trance, i suoi occhi si muovevano piano ogni volta che gli facevo passare una mano davanti per vedere se almeno rispondeva ai miei movimenti.
Sospirai e abbassai il capo, il mio sguardo cadde sul suo taschino dal quale sbucava un’altra bustina.
«Innanzitutto dammi quella roba» dissi facendo un altro passo verso di lui.
Sorrise beffardo, estrasse il pacchetto dalla tasca e sollevò in alto il braccio per non farmelo prendere. Mi alzai sulle punte per cercare di arrivarci, ma lui era troppo alto. Saltai un paio di volte, prendendo anche la rincorsa, ma non ottenni nessun risultato, se non che le braccia iniziarono a farmi male.
«Avanti, non ho tempo per questi giochetti» protestai.
Ghignò nuovamente e fece scivolare la bustina oltre il bordo dei suoi pantaloni.
«Se la vuoi vieni a prenderla».
«Merle!» urlai incredula.
«Non fare così bambolina, le altre volte non ti lamentavi quando dovevi spogliarmi».
Lo guardai sbalordita prima di arrossire più per la rabbia che per l’imbarazzo.
«Va’ al diavolo! Vuoi fare il bambino? Accomodati, ma questa volta non ti difenderò, sappilo».
Me ne andai da lì camminando con passo pesante e borbottando cose che avrebbero fatto rabbrividire persino il più cattivo dei criminali.
Drogarsi era una scelta sua, come era sua la vita che aveva deciso di rovinare, ma sapeva quanto Daryl lo odiava quando prendeva quella roba, e sapeva quanto io non riuscissi a sopportarlo quando era così soggiogato da quelle sostanze che lo rendevano molesto.
Vidi alcune delle donne andare giù alla cava per lavare i panni e mi aggiunsi a loro offrendomi di aiutarle. Anche se odiavo fare il bucato, in quel momento preferii trovarmi lì con loro che con Merle. Se voleva continuare su quella strada non lo avrei fermato.
Ci ho provato, tante di quelle volte che ho perso il conto, e non è servito a nulla. Fin quel momento ho creduto che fosse recuperabile, e che non tutto fosse perduto, ma mi sbagliavo gravemente e quello che poi ne avrebbe pagato le conseguenze non sarei stata io, ma il fratello, come se nella vita non ne avesse già avute abbastanza di delusioni.
Mi sedetti sul bagnasciuga, presi una maglia e la immersi nell’acqua.
«Perché non ci racconti un po’ di te» propose Jacqui. «Sei qui da mesi ormai, ma non sappiamo nulla».
Scrollai le spalle e smisi di strofinare l’indumento che avevo preso dal cesto.
«Non c’è molto da sapere. Ero la stessa persona che sono adesso, forse un po’ meno tesa e più pulita. Lavoravo come guardia all’Okefenokee National Wildlife, mi assicuravo che non arrivassero bracconieri privi di scrupoli, questo fino a due anni fa. Poi ho iniziato a lavorare in un bar nella città in cui sono cresciuta».
Ripresi a grattare una macchia di fango che si era incrostata su una manica e mi fermai per asciugarmi la fronte con il dorso della mano.
«Avevo un sogno: arruolarmi nell’Esercito. Ma non l’ho fatto per non lasciare mio padre a casa da solo, quindi ho ripiegato sul piano B e ho aperto un mio negozio di tatuaggi».
Anche se non era proprio ciò che volevo mi sentii comunque soddisfatta. Per me ogni tatuaggio aveva un senso, una storia da raccontare. Ogni tanto capitava che arrivassero persone chiedendomi strani disegni, ma non obiettai mai, non era quello il mio lavoro.
Quelli che avevo io - tranne quello sulla spalla, quello dietro l’orecchio destro e quello all’interno del medio destro – me li ero fatta da sola.
«E oltre a quello sul braccio ne hai altri?» chiese Amy interessata.
«Otto» annuii. «Uno dietro l’orecchio destro» dissi mostrando la chiave di violino raffigurata. «Uno che copre tutto il busto fino alla coscia sinistra, il mio nome in cirillico sul polso sinistro, la data di nascita di mio padre all’interno dell’anulare sinistro, quella di mia madre all’interno del mignolo sinistro, un altro tribale sulla schiena in basso, un orso all’interno del medio destro, e un aquila a due teste sulla spalla destra. Questi ultimi due sono molto significativi nella mia nazione».
Restarono sorprese nel vedere tutti quei disegni dei quali ero molto orgogliosa, Amy in special modo, ma avevo l’impressione che a quella ragazza piacesse tutto. Era sempre felice e sembrava che nulla potesse abbatterla.
«Hai detto che quello sulla spalla e quello sul dito sono importanti nel tuo paese natalo, quindi non sei americana» disse Lori.
«Seriamente, ho la faccia ad americana?» chiesi. «Sono nata in Russia. Quella sulla spalla si chiama aquila bicipite araldica ed è il nostro emblema, proprio come l’orso» risposi con fierezza.
«E prima che me lo chiediate, no. Kate non è il mio vero nome. È Yekaterina, ma a Merle non piaceva così ha deciso di cambiarlo in Kate» continuai e sorrisi.
Anche se era stato lui a trovare il diminutivo per il mio nome usava lo stesso chiamarmi con nomignoli fastidiosi appunto perché sapeva che mi irritavano, quando poi capii che non avrei potuto farci nulla per farlo smettere, accettai il fatto che lui sarebbe stato il mio peggior incubo. In senso buono è ovvio. Presi quel suo modo di scherzare come una specie di dimostrazione d’affetto.
 
«Yekaterina è un nome da pornostar».
 
È questo quello che mi disse un giorno, dopo la mia ennesima protesta sul fatto che avesse cambiato il mio nome che a me piaceva perché era quello di mia madre. Avevo poco più di sei anni e rimasi interdetta da quella parola che mi sembrava così brutta. Non era la prima volta che lo sentivo parlare usando certi termini che mio padre evitava sempre di dire in mia presenza e che non voleva per nulla al mondo che ripetessi, anche se con la crescita presi quel brutto vizio di imprecare come una camionista quando qualcosa non andava nel verso giusto. Alcuni credevano che la mia fosse la brutta influenza dei due fratelli, ma io sapevo che non era così e questo mi bastava.
Dopo che finimmo di lavare i vestiti tornammo indietro, e quando passammo davanti all’accampamento di Merle e Daryl vidi solo il più piccolo dei due, seduto per terra con le gambe incrociate e una corda tra le mani che stava annodando.
Con il cuore in gola mi avvicinai ed entrai nella loro tenda trovandola vuota, nemmeno la sua pistola c’era ed era sparito pure il fucile.
Passai una mano tra i capelli e cercai nei dintorni, convinta che fosse in qualche stato di catalessi o che fosse svenuto per il troppo caldo, ma non lo trovai. Non c’era traccia di lui o del suo passaggio ed io stavo seriamente iniziando a preoccuparmi.
Tornai da Daryl che non si era mosso di un solo centimetro dalla sua posizione,  sembrava ancora più assorto di prima nel suo lavoro e non batté ciglio quando mi vide arrivare.
«Lui dov’è?» gli chiesi.
«Ho consigliato a quell’idiota di farsi un giro viste le sue condizioni» rispose neutro.
Sembrò che la cosa non gli importasse molto, e spalancai gli occhi stupita più per il fatto che lo avesse allontanato nonostante non stesse bene.
«Un giro? Sul serio? Se hai visto com’era avresti dovuto tenerlo qui e tenerlo d’occhio».
«Non sono la sua balia, che si fotta».
«Non sarai la sua balia, ma sei suo fratello. Hai idea di cosa possano fare caldo e droga insieme?».
«Se ti interessa tanto il suo stato perché non vai a cercarlo?» chiese ancora concentrato sulla corda.
Spazientita dal suo atteggiamento gliela strappai dalle mani, obbligandolo così ad alzarsi e guardarmi. Per un attimo mi sentii intimidita di fronte la sua altezza e feci qualche passo indietro, ma poi riacquistai la mia confidenza di poco prima e lo fronteggiai.
«Perché ci ho provato e non lo trovo da nessuna parte».
Si riprese la fune, avvolgendola attorno a un braccio e mi voltò le spalle, facendomi alterare più di quanto non fossi in realtà.
«Prova in città, visto che ti piace tanto quel posto».
Inarcai un sopracciglio, non capendo dove volesse arrivare a parare. Odiavo quando non parlava chiaro, facendomi scervellare per interpretare le sue parole e i suoi malumori.
«Senti, non so quale sia il tuo problema, e se non mi parli non posso nemmeno aiutarti. Ma se sei arrabbiato con me perché vado ad Atlanta sappi che lo faccio perché mandare Glenn da solo sarebbe troppo rischioso».
Mi guardò per qualche secondo e arretrò di qualche centimetro, raccolse la balestra e si diresse verso il bosco senza degnarsi di rispondere.
Lo seguii continuando a chiamarlo senza riuscire a farlo voltare. Anche se lui perseverò nel non calcolarmi, io continuai a parlargli, riuscendo a costruire tre frasi nel giro di mezzo minuto. Solo poche volte mi fermai per prendere fiato prima di ricominciare.
«Ehi! Ascoltami quando ti parlo!».
«Cosa vuoi adesso?».
«Una spiegazione. Perché ti preoccupi per me, poi fai come se io non esistessi e infine mi cerchi perché sparisco per qualche ora?».
«Non avevo di meglio da fare».
Stavo per dirgli di andare a fanculo come avevo fatto con il fratello quella stessa mattina, ma poi mi ricordai delle sue parole e ghignai.
«Non è quello che hai detto ieri».
«Non l’ho fatto perché non volevo ti mettessi a piangere come una poppante».
Sbarrai gli occhi incredula e lo spintonai per sorpassarlo.
«Vai al diavolo, Dixon!».
Prima di riuscire a fare un altro passo, mi afferrò per un braccio e mi spinse contro un albero, tendendomi per l’avambraccio in modo che la mia schiena non urtasse contro il tronco.
«Puoi fare quel cazzo che ti pare della tua vita, ragazzina» disse marcando bene l’ultima parola. «Vuoi andare a morire? Fallo, non sei mai stata una mia responsabilità».
Mi liberò dalla sua presa e si allontanò con una calma innaturale.
Sospirai di liberazione quando non sentii più il suo fiato su di me, ma fu una sensazione che durò poco e che sparì nello stesso istante in cui quella parola iniziò a fischiarmi nelle orecchie. Non mi chiamava più in quel modo da quando avevo sedici anni, e sentirmelo dire ora che ne avevo ventotto mi dava ancora più fastidio.
«Non sono più una ragazzina!».
«Lo sei perché non sei capace di badare a te stessa!».
«Ho passato due settimane da sola prima che tu mi trovassi, sono sopravvissuta…».
«Stavi per morire. Se non ti avessi salvata saresti morta» continuò senza farmi finire di parlare.
«A te che importa?!».
«Mi importa!» rispose urlando.
Sul suo volto si dipinse un’espressione di smarrimento, come se non capisse cosa avesse appena detto o cosa ci facesse nel bosco.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Squillo di trombe per annunciare che per una volta yulen è riuscita a mantenere la sua promessa.
 
Ecco il diciassettesimo capitolo come da programma.
Nonostante il fato mi abbia remato contro, sono riuscita a finire di scriverlo e ora posso pubblicarlo.
Con l’arrivo delle vacanze Natalizie credo che avrò più tempo da dedicare alla scrittura, perciò gli aggiornamenti saranno più frequenti
(o almeno lo spero). Parlo di due, forse tre capitoli al mese, dipende dalla mia vena creativa
e da quanto riesco a scrivere, ma ho già in mente come entrare nella stagione uno che, credo, sarà quella più simile alla serie TV.
Infatti il prossimo capitolo sarà l’ultimo fuori serie, poi inizieremo ad entrare nella storia vera e propria.
Vi saluto e grazie a chi segue questa storia lasciandoci pure un parere e grazie anche a chi la segue da dietro le linee.
Ciao, ciao
 
yulen c:

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Capitolo 19
*** Capitolo18 ***


 
 


 
 Capitolo18

 
 
 
 
 
 
 
«A te che importa?!».
«Mi importa».
 
In quel momento fu come se tutto si fosse fermato. Gli uccelli non cantavano più, il vento aveva smesso di soffiare tra foglie e fili d’erba e noi due eravamo in piedi uno di fronte all’altro senza trovare il coraggio di muoverci.
Respirai una, due, tre volte, eppure mi sembrò che l’ossigeno non fosse abbastanza per arrivare al cervello e farmi pensare con razionalità perché in un istante lo afferrai per il colletto della maglia e lo attirai a me, baciandolo con foga e incrociando le braccia dietro il suo collo.
In un primo momento non rispose, restò pietrificato come la prima volta perciò capendo di aver fatto un altro errore mi staccai, ma in un secondo le mie labbra furono di nuovo attaccate alle sue, richiamate in un secondo bacio.
Le sue mani si posarono dolcemente sui i fianchi e provai un enorme vuoto al centro dello stomaco, il tessuto fine della maglia mi permise di sentire il calore del suo tocco e ciò mi fece venire la pelle d’oca nonostante non facesse freddo.
Era un contatto ambito e per nulla al mondo mi sarei staccata e Daryl sembrò leggermi nel pensiero perché premette con ancora più forza la sua bocca sottile sulla mia, spostando le mani dietro la nuca per spingermi di più verso lui. Leccò le mie labbra per chiedermi il permesso di entrare e presto le nostre lingue iniziarono a toccarsi e accarezzarsi. Mormorai il suo nome tracciando con la punta dell’indice il labbro inferiore e lui si fermò all’improvviso, guardandomi con gli occhi sgranati e la bocca appena socchiusa; le sue mani strette erano ora attorno alle mie braccia.
«Questo cambierà qualcosa tra noi?» chiesi timorosa.
Mi lasciò andare e si voltò dall’altra parte passandosi una mano tra i capelli.
«Torna indietro. Ora!» ordinò camminando nella direzione opposta.
Il suo tono di voce non ammetteva repliche, capii che aveva bisogno di restare un po’ per i fatti suoi e così obbedii.
Quando arrivai al campo mi accorsi di quanto vuoto fosse, nessuna traccia di Glenn, Jacqui,  Andrea, T-Dog o del marito della signora Morales.
Ora che avevo sbollito la rabbia che provavo verso Merle decisi di andare a controllare come stesse, ma quando arrivai alla sua tenda e vi entrai, la trovai vuota. Anche la sua pistola era sparita e a terra erano sparsi dei fogli che catturarono immediatamente la mia attenzione.
Raccogliendoli e guardandoli, vidi che, disegnata in modo grossolano, era riportata la disposizione delle tende, del camper e del mio Hummer. Affianco ogni tenda – tranne su quella dei due fratelli e la mia - c’era un piccolo segno di spunta.
Ricordandomi delle parole di Daryl riguardo al fatto di provare a cercare Merle in città uscii velocemente e percorsi a grandi falcate tutto il campo. Raggiunsi il mio veicolo e partii subito: dovevo arrivare ad Atlanta prima che le cose precipitassero senza che io potessi trovare il modo di porre rimedio.
Avevo un bruttissimo presentimento e non ero sicura di voler sapere di che cosa si trattasse. Strinsi con forza il volante fino a far diventare le nocche bianche e con la mano destra, che non aveva lasciato un solo secondo il cambio, ingranai la marcia ancora una volta per accelerare.  
Il rumore di un allarme in lontananza mi fece distrarre dalla guida e per poco non andai a schiantarmi al lato della strada.
Ma che diavolo…?
Premetti bruscamente il pedale del freno e sbandai un paio di volte prima di tornare in carreggiata e fermarmi completamente. Vidi passare accanto a me una Mustang rossa, alla sua guida Glenn, seguito da un furgone guidato da un uomo che non avevo mai visto.
Sul serio, ma che cazzo sta succedendo?
Con tre manovre rigirai l’Hummer e inseguii quei due mezzi fino alla cava. Quando scesi e mi voltai verso il gruppo, che nel frattempo si era radunato per vedere da cosa derivasse quel baccano, vidi Carl correre verso l'uomo che prima era alla guida del furgoncino chiamandolo “papà”. Subito si gettarono a terra in un caloroso abbraccio, nel quale poco dopo si aggiunse anche Lori che lanciò uno sguardo poco amichevole a Shane.
Iniziano i guai...
«Glenn, dov’è Merle?» chiesi avvicinandomi a lui.
Il fatto di non averlo visto non era un buon segno.
Dio, ti prego, fa che sia vivo.
«Lui… uhm… è successo…» si fermò e guardò per terra come se stesse cercando le parole giuste. Era a disagio in quel momento, ma io avevo bisogno di sapere.
«Glenn, ti prego» supplicai.
Ero ansiosa di sapere come fossero andate le cose e avevo un blocco alla bocca dello stomaco. Se fosse accaduto qualcosa a Merle, Daryl non ne sarebbe stato troppo felice e non sapevo come avrebbe potuto reagire, forse nemmeno io sarei riuscita a calmarlo.
Dopo aver posato il figlio per terra ed essersi staccato dall’abbraccio della moglie, l'uomo che non avevo ancora avuto modo di conoscere si avvicinò a me.
«Sei Kate, giusto?» mi chiese.
Annuii e mi morsi il labbro inferiore, aspettando una risposta che mi fece desiderare di non essere lì.
«Sono Rick Grimes» si presentò. «So che Merle è tuo amico e capisco come ti senti, credimi. Ma lui non sa cooperare e le sue azioni ci stavano mettendo in serio pericolo, così ho dovuto prendere una decisione veloce e l’ho ammanettato su un tetto» disse.
Mi passai una mano sul volto come se quel movimento potesse aiutarmi a pensare ad  una soluzione che non tardò ad arrivare. Dovevo tornare indietro prima che Daryl si accorgesse della scomparsa del fratello.
Salii di nuovo in macchina e chiusi la portiera con forza, noncurante del fatto che tutti mi stavano guardando come se fossi impazzita. Se avevano paura di me in quel momento era perché non avevano mai visto un Dixon incazzato nero.
«Aspetta, Kate!» mi fermò Andrea. «Non puoi andare, quel posto è circondato dagli zombie».
Appoggiai la fronte contro il volante e la guardai.
«Cos’è successo esattamente?» chiesi con un sospiro.
«Stavamo cercando provviste quando abbiamo sentito degli spari in città e subito dopo Glenn  e Rick sono entrati nel negozio dove eravamo nascosti. Merle… lui era».
Annuii capendo dove volesse arrivare.
«Lo so. Stamattina quando gli ho portato la colazione aveva già assunto una dose di eroina e ieri era nelle stesse condizioni. Gli ho sequestrato la bustina, ma ne aveva un’altra».
Serrai le mani a pugno e giurai che una volta ritrovato Merle e averlo riportato alla cava, lo avrei strangolato con le mie stesse mani, anche perché doveva spiegarmi la storia della mappa dell’accampamento. Non gliel’avrei fatta passare come le altre volte.
La sera giunse più veloce del solito incrementando la mia ansia, e mentre gli altri si sedettero attorno al fuoco appena acceso per cenare, io andai a dormire direttamente. Sentivo che non sarei riuscita a mandare giù nulla, avevo lo stomaco bloccato ed ero sicura che se avessi mangiato controvoglia avrei rigettato.
Mi chiusi dentro la mia tenda buttandomi a peso morto sulle coperte e provando ad addormentarmi, senza successo. La preoccupazione per ciò che il giorno seguente avrebbe portato era così tanta da non lasciarmi dormire.
Daryl e Merle non per forza si volevano bene, ma erano uniti da un legame molto forte perché ciò che avevano passato lo avevano affrontato insieme, non erano vincolati solo dal sangue come volevano far credere. Erano l’uno l’ombra dell’altro perché sapevano che era l’unico modo per proteggersi dagli altri, per sentire di meno l’odio che li circondava, potevano fare finta che la cosa non gli importasse ma so che non era così.
Rimasi una buona mezz’ora sveglia, girandomi e rigirandomi ansiosa e preoccupata, sperando che fosse tutto un brutto sogno e che quando mi fossi risvegliata tutto sarebbe stato normale, ma quella sera non sentii il russare del maggiore dei due fratelli, né tanto meno il loro solito bisticciare e quella calma troppo innaturale mi ricordò che al ritorno di Daryl, tutti ci saremmo trovati con una patata bollente tra le mani.
 
 
 
 
 
Il mattino seguente Rick venne da me, nella sua mano riconobbi la pistola di Merle che mi porse e che presi senza esitazione. Mi fermai a guardarlo prima di dire ciò che avevo da dire.
I suoi occhi erano azzurri come quelli del figlio, i capelli erano corti e scuri e sul viso non c’era un accenno di barba, come se in tutto quel trambusto si fosse curato di tagliarla. Era alto, ma per una come me con una statura di un metro e sessantacinque scarsi tutti sembravano dei giganti. Nel suo sguardo potevo ancora vedere il tormento causato dalla sua decisione estrema di lasciare una persona a morire.
«So che c’è una spiegazione dietro al tuo gesto, capisco perché lo hai fatto. Merle ha un talento naturale per mettersi nei guai, ma non è stata una buona idea quello di lasciarlo là» dissi calma.
«No, non lo è» assentì. «Ma ci stava mettendo tutti in pericolo».
Sorrisi senza volerlo, ma ritornai seria subito dopo.
«È bravo a incasinare le cose. Come ho già detto io capisco cosa ti ha spinto a prendere quella decisione, ma Daryl… lui vorrà uccidere qualcuno quando verrà a saperlo».
«Sapere cosa?».
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
*angolo autrice*
ciao a tutti/tutte!
Ecco qua il capitolo mensile, un po in ritardo lo so, ma ho avuto problemi con il computer quindi ho dovuto scrivere tutto a mano e poi ricopiarlo a computer. Ho un altro capitolo pronto che devo mettere su word quindi entro fine mese ci sarà pure il capitolo diciannove.
Voglio anche dire che probabilmente più avanti apporterò delle modifiche perché la storia
sta prendendo una piega che non era prevista (giuro che non sono io, ma i personaggi che fanno ciò che vogliono).
Colgo l'occasione per fare gli auguri a tutti e al prossimo aggiornamento
 
yulen c:

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Capitolo 20
*** Capitolo19 ***


 
 
 

 
Capitolo19
 
 
 





 
 
 
 

 
La voce di Daryl fece zittire tutti i presenti come se da un momento all’altro si aspettassero una qualche tragedia, fecero passare lo sguardo da me a lui e aspettarono che fossi io a dargli la cattiva notizia.
Non possono essere seri!
Ma i loro sguardi dicevano il contrario, volevano che fossi la carne da mandare al macello e iniziai a pensare a tutti i possibili modi in cui avrei potuto iniziare quella conversazione. Non era ancora riuscito ad elaborare ciò che era successo il giorno precedente e aggiungere quest'altro problema avrebbe solo fatto in modo di gettare benzina sul fuoco.
Facendomi coraggio mossi qualche passo verso di lui e richiamai la sua attenzione.
«Devo parlarti». Cercai di essere sicura, ma la mia voce tremò ugualmente.
Guardò prima me, poi la tenda del fratello e infine la mia mano che reggeva la pistola.
Deglutii quando sentii la bocca diventare secca e la lingua attaccarsi al palato. «Dov’è?» chiese senza giri di parole.
«Ieri è andato ad Atlanta ma non era proprio in lui…» cercai il modo giusto di dirglielo. Non potevo certo uscire con frasi tipo: “tuo fratello era più fuori di un balcone ma è andato lo stesso ad Atlanta e ora è là da qualche parte”, sarebbe stato il modo peggiore per farglielo sapere.
«È morto?». Stringeva con forza i pugni attorno alla corda dove pendevano degli scoiattoli fino a fare tremare le mani.
«Non lo sappiamo» intervenne Rick muovendo alcuni passi in avanti.
Daryl spostò l’attenzione da me a lui e lo guardò duramente prima di parlare.
«Tu sei?».
«Rick Grimes».
«Rick Grimes» lo beffeggiò. «C’è qualcosa che vuoi dirmi?» chiese facendo un passo verso di lui.
Le cose non si stavano mettendo bene e io non sapevo cosa fare. Gli altri superstiti si stavano tenendo a distanza di sicurezza per evitare di incappare nella sua ira, solo Shane sembrò per nulla spaventato e mi chiesi se gli piacesse sfidare la sorte o fosse semplicemente incosciente.
«Daryl» lo richiamai posando una mano sul suo braccio. «Merle non stava bene, hai visto anche tu com'era ridotto ma è andato in città lo stesso e ha minato la sicurezza del gruppo, qualcuno doveva dargli un freno prima che le cose peggiorassero. Ammanettarlo ad un tetto non mi sembra la soluzione migliore, ma sono sicura che Rick in quel momento non avesse altre opzioni».
Mi guardò come se avessi appena detto una bestemmia, so che si aspettava che prendessi le sue difese, ma non potevo, era una cosa che si era causato da sé.
«Vediamo se ho capito bene. Quello che lei sta dicendo è tu hai ammanettato mio fratello. E lo hai lasciato lì?» chiese alterandosi.
«Sì». Fu la risposta secca dell’ex sceriffo.
Gesù, Giuseppe, Maria e tutto il presepe!
Daryl rimase in silenzio per alcuni secondi processando ancora la cosa, poi inaspettatamente si voltò verso me. Lo guardai confusa non aspettandomi quella reazione da lui. Ero sicura che avrebbe iniziato ad urlare, e invece si era girato ad osservarmi per pochi istanti prima lanciarmi gli scoiattoli che presi al volo.
Con il coltello in mano corse verso Rick, ma fortunatamente prima che potesse fare qualcosa di ancora più stupido Shane riuscì a disarmarlo e a gettarlo al suolo dove lo afferrò tenendogli un braccio sotto il collo.
«Lasciami andare» disse Daryl a stento.
Il suo volto si tinse di una sfumatura di rosso molto accesa e avanzando di qualche passo mi avvicinai ai due ancora a terra.
«No, non credo sia una buona idea» rispose l’altro.
«Ehi! Lo stai soffocando!» protestai spingendo Shane che lo liberò subito.
Mi inginocchiai vicino Daryl per assicurarmi che stesse bene e gli passai una mano sulla schiena chinando lievemente il capo per poter vedere se fosse tornato nel suo colorito naturale, poi guardai Shane con uno sguardo carico di rabbia.
Capii il fatto che Daryl avesse perso momentaneamente il lume della ragione, ma era di suo fratello che stavano parlando, non di un coglione qualsiasi.
«C’è una ragione dietro il mio gesto. Tuo fratello non sa cooperare né stare insieme agli altri» disse Rick.
Non era proprio la più grande delle spiegazioni, infatti a Daryl - ancora concentrato sul riprendere fiato dopo quella stretta – non sembrò una giustificazione buona quella ricevuta e non convinse molto nemmeno me.
Lasciare un uomo lassù per due giorni sotto il sole cocente e con tutta la popolazione che risiedeva in città trasformata in mostri cannibali non era un bel trattamento. Nemmeno per un cazzone come Merle.
Una parte di me si sentiva in colpa perché se lo avessi tenuto d’occhio forse non saremmo mai finiti in una situazione del genere, ma non potevo mica fargli sempre da baby-sitter, era un uomo adulto e quanto meno responsabile, mi aspettavo che ragionasse prima di fare cose così stupide.
Speravo che fossero davvero finiti quei giorni in cui andava completamente fuori di testa a causa di tutta la roba che prendeva, ma mi sbagliavo e ora ci ritrovavamo con un uomo disperso, un altro a terra mentre cercava di ragionare oltre che trattenersi dal mettere le mani addosso ai due poliziotti e io  inginocchiata al suo fianco con il resto del gruppo che guardava e che magari si aspettava che si risolvesse tutto con una risata e una birra. Dopotutto per loro non era una grave tragedia.
«Non è colpa di Rick». L’intervento di T-Dog fece alzare lo sguardo dal terreno a Daryl. «La chiave l’avevo io, ma mi è caduta. In una grondaia».
A quel punto mi aspettai che scattasse anche verso di lui, per questo gli strinsi una spalla in modo da poterlo fermare, ma lui rimase immobile in quella posizione. Aveva capito che prendere a pugni qualcuno lo avrebbe fatto sentire meglio sì, ma non avrebbe fatto tornare suo fratello.
«Senti prima di andarmene ho bloccato la porta, così gli zombie non possono raggiungerlo» continuò l’uomo.
Lo vidi rilassarsi per un istante, ma poi appena vide la pistola ancora in mano mia tornò ad assumere quell’espressione di pura rabbia e odio verso coloro che avevano lasciato indietro l’unico pezzo di famiglia che aveva.
Si passò una mano sul viso per eliminare quelle lacrime che non ne volevano sapere di restare al loro posto e guardò me. Anche io ero arrabbiata e risentita, ma reagire alla sua stessa maniera non ci avrebbe portati da nessuna parte. Merle era mio amico e non mi ero fatta scrupoli a salire in auto pronta ad andarlo a recuperare prima che Andrea mi fermasse dicendomi che c’erano zombie ovunque. Se mi avessero lasciata andare e se fossi riuscita a riportarlo indietro sarebbero stati certamente tutti e due un po’ su di giri, ma ce la saremmo cavata molto meglio.
Vidi Daryl stringere un pugno raccogliendo della terra, si rialzò e gettò il terriccio ai loro piedi in un moto di rabbia e disprezzo.
«Andate tutti al diavolo! Ditemi solo dov’è» disse guardandomi ed io annuii. «Andiamo a riprenderlo».
La sua voce non era quella a cui ero abituata, si era incrinata in una sfumatura di sofferenza e tristezza e se non fossi stata lì non sarei riuscita ad associarla a lui.
«Non serve. Vi porterà lui, dico bene Rick?» intervenne Lori con rassegnazione.
Lo sceriffo annuì e la donna entrò nel camper cercando di accettare la decisione del marito.
Mi chiesi che cosa avesse spinto l’uomo a voler partecipare a quella missione suicida per recuperare una persona che poi l’avrebbe ucciso e lasciato come spuntino a quei mostri.
Insieme a Daryl mi allontanai verso la sua tenda e mi ricordai del foglio trovato il giorno precedente.
In un primo momento volli chiedergli se lui ne sapesse qualcosa di tutta quella storia, ma la paura di una risposta affermativa assieme al fatto che avremmo litigato di nuovo mi fermarono. Avrei rimandato quella conversazione a dopo, quando saremmo stati tutti un po’ meno agitati e un po’ più propensi al dialogo.
In cuor mio sperai davvero che lui con tutto quello non c’entrasse nulla perché mi sarei sentita profondamente delusa da lui, e avevo sperimentato diverse emozioni nella mia vita, ma mai una volta mi diede motivo di sentirmi ingannata dal suo comportamento.
«Ehi» sussurrai ottenendo la sua attenzione. «Questa è meglio che l’abbia tu» dissi porgendogli la pistola che prese.
«Riguardo Merle…» iniziai.
«Non sei stata tu ad ammanettarlo, o a far cadere la chiave».
«No, ma…» tentai di dire, lui però mi fermò con un gesto della mano.
«Se c’è qualcuno che deve sentirsi in colpa quelli sono il poliziotto stronzo che lo ha ammanettato e l’altro stronzo che ha fatto cadere la chiave».
Sogghignai anche se la situazione non era delle migliori. Il suo linguaggio mi aveva sempre fatto ridere, anche quando ero piccola e lo sentivo berciare per motivi che conosceva solo lui, ridevo e poi quando si girava verso di me correvo a nascondermi.
«Sono tutti stronzi per te?».
Il suo sguardo rispose per lui e sorrisi scuotendo la testa.
Entrai nella mia tenda per prepararmi a quella spedizione di salvataggio e controllai di avere tutto il necessario per il primo soccorso nello zaino oltre che a delle bottiglie d’acqua in cui ad una aggiunsi dello zucchero. Dopo due giorni sotto il sole cocente la pressione di Merle non doveva essere delle migliori e per farlo rinsavire un po’ avrebbe avuto bisogno di qualcosa di zuccherato. Lui poteva dire di essere forte quanto voleva, ma era pur sempre un uomo con dei limiti che non doveva superare.
Uscii nel pomeriggio torrido e vidi che tutti erano tornati a fare il proprio lavoro come se quello appena successo fosse una cosa di ordinaria amministrazione, solo Rick e Shane erano impegnati in un’accesa discussione sul perché il suo amico dovesse per forza rischiare la vita per “un pezzo di merda come Merle Dixon”. A quella affermazione m’innervosì, ma fu Daryl a dare parola ai miei pensieri.
«Ehi!» lo richiamò piccato. «Ti consiglio di scegliere meglio le parole la prossima volta».
«Credimi, pezzo di merda è ciò che volevo dire» ribatté l’altro spavaldo.
Strinsi tra le mani le spalline dello zaino e guardai duramente l’uomo. Come poteva dire una cosa del genere di una persona che conosceva solo perché l’aveva avuta attorno per due mesi, non aveva nessun diritto di sputare sentenze senza conoscerlo almeno la metà di quanto lo conoscevo io.
Mi sedetti affianco a Daryl che stava pulendo le frecce della sua balestra e lasciai che i due portassero avanti quell’inutile conversazione prestando comunque attenzione a ciò che stavano dicendo. Alzai il capo di scatto quando sentii Rick accennare ad un borsone con delle armi che aveva perso ad Atlanta.
«Kate ha abbastanza fucili e proiettili, possiamo farceli bastare».
Shane stava cercando in tutti i modi di dissuadere l’amico dal partire, ma era evidente che ormai la decisione era stata presa e quindi non gli avrebbe fatto cambiare idea, inoltre anche se avevo tutto quell'arsenale, un po’ di potenza di fuoco in più non sarebbe guastata.
«E quando avremmo finito anche le mie munizioni?» chiesi, ma fui ignorata.
«Shane ha ragione. Ieri siete tornati per miracolo, perché volete mettervi a rischio per Merle Dixon?» disse Lori.
Non potendone più di tutta quella polemica e di come stavano parlando di Merle mi alzai.
«Merle Dixon se non sbaglio ha contribuito alla sicurezza del campo e ha portato da mangiare anche nei vostri piatti, sarà pure un pezzo di merda, ma è comunque un essere umano quindi credo che un minimo di rispetto sia d’obbligo» ribattei. «Siete tutti bravi a giudicare, ma quando si tratta di cercare di capire una persona non vi sforzate nemmeno. Quando sarà tornato andateci voi a caccia se volete mangiare».
Prendendo il mio zainetto che avevo lasciato a terra mi diressi verso il furgone con il quale il giorno prima Rick e gli altri erano tornati da Atlanta. Avremmo usato quello per spostarci fino al confine della città poiché era l’unico mezzo in grado di far entrare cinque persone, sei se si contava anche Merle una volta salvato.
«Stronzi!».
Daryl mi passò a lato con un sorrisino sulle labbra e salì nel vano tendendomi una mano e aiutandomi a salire a mia volta.
«Non c'è niente da ridere» lo ripresi.
Ero leggermente alterata, ma sapevo che il motivo dietro il suo sorriso era dato dal fatto che avevo difeso suo fratello.
Appoggiai la testa contro il retro dello schienale e sospirai. Quella giornata aveva dell’incredibile e secondo me l’interno discorso sul salvare o meno Merle si era concluso fin troppo pacificamente, pensai infatti che Daryl avrebbe ammazzato qualcuno, e invece ora se ne stava lì, seduto affianco a me con le gambe incrociate e la balestra contro il petto mentre faceva vagare lo sguardo da Rick – che aveva appena finito di parlare con Shane e ora stava salendo sul furgone – a T-Dog.
Finalmente partimmo e sentii l’ansia farsi sempre più pesante man, mano che ci avvicinavamo alla città. Non potevo immaginare in che condizioni l’avremmo ritrovato, potevo solo capire come dovesse essere stato per lui rimanere sotto il sole senza protezione e senza acqua con il rischio di svenire.
Per tutto il viaggio nel furgone aleggiò un silenzio pesante e carico di tensione, Rick e T-Dog stavano pregando affinché Merle fosse ancora vivo e vegeto perché sennò sarebbero stati guai per loro, Daryl sperava di ritrovarlo come me, mentre Glenn si domandava che cosa ci facesse lì e perché stesse rischiando la pelle per una persona che non poteva sopportarlo.
Il razzismo del maggiore dei due fratelli era una cosa risaputa al campo ormai e io non ho mai capito questa sua intolleranza per le altre razze.
Kim era nata in America da padre americano, ma la madre era algerina e per questo l’aveva sempre discriminata. Ogni volta che io e lei uscivamo e per caso incontravamo Merle, dovevo fare tutto il possibile per fargli tenere la bocca chiusa ed evitargli di sparare stronzate razziste, anche se non sempre riuscivo a farla sentire a suo agio.
Erano questi i comportamenti che odiavo di lui, doveva sempre trovare il modo di dimostrare la superiorità della “razza bianca”, e più di una volta lo avevo allontanato dicendogli che facendo così avrebbe dimostrato solo quanto stronzo fosse realmente e che non avrebbe dovuto mostrare nulla se non un po’ di rispetto verso persone che non conosceva e che evitava per i suoi stupidi principi.
«Andiamo» disse Daryl dandomi una leggera spinta alla spalla.
Ci eravamo fermati fuori da Atlanta e da lì avremmo continuato a piedi. Scendemmo dal furgone e ci guardammo attorno alla ricerca di possibili minacce prima di addentrarci in città fino un alto edificio dai vetri tutti rotti. Il perimetro era sgombro, ma ciò non significava che non ci fossero pericoli all’orizzonte, infatti non fu una sorpresa per noi trovarne alcuni vivi all’interno, ciò che ci lasciò davvero a bocca aperta fu quando invece di trovare Merle, ritrovammo solo la sua mano mozzata.
Mi dissociai per qualche secondo, sentendo solo i “no” disperati di Daryl, ripetuti
con così tanto sconforto da farmi male, mentre una sola domanda si fece spazio nella mia testa.
Dove diavolo è finito?
In un moto di rabbia Daryl puntò la sua balestra contro la testa di T-Dog e nello stesso istante Rick alzò la sua pistola verso il cacciatore. L’unico a rimanere indietro fu Glenn, io invece avanzai posando una mano sul braccio del mio amico, chiamandolo per fargli abbassare l’arma, non avevo intenzione di far finire quella ricerca in un massacro, in oltre avrebbero sprecato solo munizioni anche se quelle della balestra avremmo potuto riutilizzarle.
Daryl si allontanò di qualche passo per asciugarsi le lacrime e poi si avvicinò alla mano mozzata, avvolgendola attorno una bandana che T-Dog gli aveva dato.
Guardai attentamente la scena per provare a immaginare cosa fosse successo; la lama della sega non era sufficientemente affilata per le manette, quindi doveva aver pensato che tagliarsi la mano dovesse essere la scelta migliore, ma c’era troppo poco sangue per un’amputazione del genere. Aveva usato sicuramente qualcosa per fermare l’emorragia, Daryl suggerì la cintura e io mi trovai d’accordo con lui.
Seguimmo le tracce di sangue fino ad una porta antincendio che ci portò a delle scale e poi a dei vecchi uffici dove, per terra, c’erano due vaganti morti. La scia di sangue segnò la via fino ad una piccola cucina. Il piano cottura era ancora acceso. Facendo un rapido calcolo mi accostai a Daryl.
«Questi fornelletti hanno un’autonomia molto limitata, è impossibile che siano accesi da ieri».
«Potrebbe essere qui da qualche parte» rispose stranamente calmo.
Annuii e posai la mia attenzione su una finestra rotta alla quale mi avvicinai. Glenn si avvicinò a me e guardò oltre il bordo della balconata che si affacciava sull’asfalto.
«O forse no» dissi spegnendo il mio entusiasmo.
«Per quale motivo ha lasciato l’edificio?» chiese il coreano.
«Sopravvivenza» risposi affacciandomi per guardare sotto a mia volta. Lì vicino c’erano delle scale che doveva aver utilizzato per andarsene, saltare senza rompersi le gambe era impossibile da un’altezza del genere.
«Non sapeva se qualcuno sarebbe tornato. Nelle sue condizioni avrei fatto lo stesso, anche se probabilmente mi sarei limitata a spezzare l’osso del pollice per poter sfilare le manette».
«Questo per te è sopravvivere? Ha perso molto sangue e potrebbe svenire per strada» obiettò T-Dog. «Quante possibilità credi abbia là fuori?».
Daryl fece un passo avanti, per nulla felice dei dubbi che l’uomo aveva sollevato e lo guardò diritto negli occhi.
«Sicuramente molte di più che venir lasciato a marcire su qualche tetto».
T-Dog abbassò lo sguardo e decise di lasciar cadere il discorso, ma Daryl non fu dello stesso avviso, portò infatti la sua attenzione verso Rick e si avvicinò a lui fino a sostare pochi centimetri di distanza. Quello era il suo modo per lanciare sfide, e da quel poco che avevo visto, l’ex sceriffo non era uno che abbandonava il campo di battaglia.
«Voi fate ciò che vi pare io vado a riprendermelo» disse colpendo di proposito la spalla dell’altro per raggiungere la finestra. Rick gli posò una mano sul petto, spingendolo lontano.
Questa cosa non finirà bene.
Ancora una volta decisi di intervenire per non lasciare che gli eventi prendessero una piega inaspettata e mi frapposi tra i due uomini.
«Non puoi andare da solo» protestai rivolta verso Daryl.
«Se vuoi restare con questi stronzi fa pure» rispose.
«Non ho detto questo, ma ci serve un piano, ok?».
Fortunatamente la conversazione si concluse lì, quando di comune accordo, decidemmo di dividerci in due gruppi: il primo, composto da Daryl e me, avrebbe guardato nei dintorni per Merle, mentre gli altri ci avrebbero raggiunti dopo aver preso il borsone con le armi, se in caso contrario avessero prima preso le armi ci avrebbero aspettati in un piccolo studio.
Dopo esserci separati, io e Daryl scendemmo le scale e controllammo in modo silenzioso e rapido quasi tutti gli uffici presenti senza parlare molto. La nostra conversazione si limitò a indicazioni su come pulire una stanza prima di passare a quella successiva e a fischi per non dover urlare uno il nome dell’altro.
La mia lingua però pizzicava per quanto volessi parlargli del giorno prima e di cosa fosse successo, sentivo ancora lo stomaco in subbuglio al solo pensiero e mi chiesi che cosa avesse provato lui in quel momento. Non mi aspettavo che improvvisamente si aprisse del tutto, ma che fosse onesto riguardo qualcosa, almeno per una volta.
Non sapevo cosa quel bacio avesse significato per lui, ma se aveva risposto un motivo c’era. Mi convinsi che doveva esserci e per quanto volessi scoprire che cosa ci fosse nella sua testa, per il momento preferii lasciar cadere l’argomento. Era meglio concentrarsi su ciò che stavamo facendo senza lasciarci distrarre.
Seguimmo delle tracce di sangue fino a un magazzino di forniture mediche dove a terra erano sparse bende, siringhe di morfina già utilizzate e scatole di antidolorifici aperte. Da lì ogni segno del passaggio di Merle sparì, ma non ci demmo per vinti. Entrambi lo conoscevamo bene e sapevamo di cosa fosse capace, dopotutto era stato proprio il fratello maggiore a prendersi cura di entrambi quando si ammalavano, e quel po’ di esperienza militare giocava a suo favore.
Uscimmo e riprendemmo la ricerca nei dintorni, tutti gli edifici erano stati costruiti in blocco quindi non fu difficile controllarne uno e poi passare a quello successivo, tuttavia fare quel lavoro da soli ci portò via molto tempo e alla fine, dopo aver guardato dietro ogni possibile anfratto, ci ritrovammo stanchi morti e senza Merle.
«Che facciamo?» chiesi.
«Continuiamo, che altro vorresti fare?» disse serafico. «Vediamo prima se il cinese e gli altri due stronzi sono riusciti a prendere il borsone».
«Coreano» lo corressi.
Mi guardò inclinando la testa di lato e inarcando un sopracciglio.
«Glenn è coreano» precisai vedendo la sua espressione perplessa.
«Non fa differenza» rispose con una scrollata di spalle.
Quando tornammo indietro ed entrammo nell’ufficio dove ci eravamo separati, invece di trovare Rick, T-Dog e Glenn, trovammo solo i primi due e un ragazzino che non avevo mai visto.
Era alto e molto giovane, forse ancora adolescente, portava vestiti larghi e sporchi di terra. Aveva gli occhi marroni e i capelli erano sul castano chiaro, guardandolo attentamente notai che aveva due tatuaggi da entrambi i lati del collo, un teschio a destra e una foglia di marijuana a sinistra.
«So che me ne pentirò di averlo chiesto, ma Glenn?» domandai.
«Lo hanno preso mentre stavamo cercando di arrivare al borsone» spiegò Rick.
 Deve essere uno scherzo! Due persone mancanti in due giorni.
Guardai la sacca appoggiata su un bancone, metà dei fucili erano per terra e l’altra metà dentro. Inarcai un sopracciglio e lo spronai ad andare avanti con la spiegazione.
«Abbiamo cercato di andare a riprenderlo in modo pacifico. Uno dei nostri per uno dei loro, ma vogliono anche le armi».
Non avevo idea di quale fosse il significati di “negoziare in modo pacifico” quando avevamo in ostaggio uno dei loro. Non so come avrebbe agito l’altro gruppo, ma io non avrei optato per una soluzione diplomatica se i miei amici fossero tornati dicendo che un altro dei nostri era stato catturato.
«Se hanno Glenn, avranno anche Merle» disse Daryl entrando e marciando verso il ragazzo.
«Sai anche tu che è impossibile» replicai. «È ferito, vero, e loro sono in superiorità numerica, ma non credo che siano riusciti a fare prigioniero una persona alta un metro e ottanta e con una montagna di muscoli».
«C’è un piano?» chiesi a Rick che aveva iniziato a caricare un fucile a pompa.
«Ha detto di tornare con il borsone o armati» rispose.
«Quindi cederai le armi per Glenn?».
«No».
Capii cosa volesse fare e scossi la testa. Anche se mi doleva ammetterlo era meglio scambiare il borsone con il nostro amico, avremmo almeno evitato di concludere quella storia con un funerale.
«No, scusa. Vuoi finire questa storia in un bagno di sangue?» domandai.
«Nessuno si farà del male. Noi non spareremo finché non lo faranno loro e dubito che ci spareranno».
«Certo perché le forze dell’ordine incutono terrore oggigiorno».
«Se non vuoi venire puoi tornare alla cava» rispose tranquillo.
Possibile che non ce n’è uno con un po’ di buonsenso qui?
«Col cazzo che se ne va in giro da sola» intervenne Daryl che mi passò un altro fucile a pompa.
«Anche tu la pensi come loro? È una follia, e poi non sei tu quello che hai detto che Glenn non ti piace?».
Mi guardò con il braccio teso e in modo spazientito, aspettando che mi unissi a loro.
Arrendendomi a quell'idea, anche io iniziai a caricare le armi. Non ero convinta di questo piano assurdo, ma tanto valeva assecondarli.
Dopo minuti fatti solo di silenzi e mani che lavoravano con proiettili, caricatori e canne di fucili, Rick legò le mani del prigioniero e gli mise uno straccio attorno la bocca. Nascose alcune delle armi sotto un bancone e con un gesto del capo ci intimò di seguirlo fuori.
Guardai Daryl camminare davanti a me e notai che in lui c’era qualcosa di strano. Assottigliai lo sguardo e mi focalizzai sulla schiena dove mancava qualcosa che era sempre stato lì come un angelo custode. Tra le mani stringeva un fucile a pompa, modello Remington 870, un'arma insolita per lui, poi come se si fosse accesa una lampadina in testa capii cosa ci fosse di così inusuale.
La balestra!
Mi chiesi perché non l’avesse presa visto che se la portava sempre appresso e fui sul punto di chiederglielo quando tutti si fermarono davanti a un edificio fatiscente.
Deglutii sperando così di poter così cacciare via la paura, ma poi un grande portone si aprì, rivelando più di una ventina di uomini armati. Uno di loro si fece spazio tra la folla e avanzò verso di noi.
«Vedo le armi, ma non sono tutte» disse.
«Questo è perché non sono tue, credevo di essere stato chiaro» replicò Rick.
Entrammo dentro quello che doveva essere un deposito auto e ancora più uomini occuparono il mio campo visivo. Non ero brava in matematica, ma facendo un rapido calcolo non ne saremmo mai usciti vivi da lì.
Rick slegò il ragazzino e lo spinse verso i loro amici, poi prese parola di nuovo.
«Tu hai il tuo uomo, io voglio il mio».
«Non era questo quello che avevo detto. Il vostro amico lo darò in pasto alle mie cagne mangia-uomini, le ho comprate direttamente da Satana» disse minaccioso.  «Ti ho spiegato come devono andare le cose, sei sordo?».
«Ci sento bene, hai detto di venire armati fino ai denti, quindi eccoci qui».
Il rumore di armi che venivano caricate riempì la stanza per alcuni secondi, fino quando furono sostituiti da una voce un po’ roca e stanca.
Una signora anziana in vestaglia e pantofole camminò tra tutte quelle armi alzate e pronte a fare fuoco per nulla intimorita e iniziò a parlare con un uomo tarchiato che cercò di convincerla ad andarsene, lei però, restò lì a guardarci incuriosita.
«Perché siete qui?» chiese. «Non portate via il mio Felipe. Ha fatto i suoi errori, ma ne ha già pagato il prezzo».
«Signora, non siamo qui per arrestare nessuno. Suo nipote ci sta aiutando a trovare un amico di nome Glenn» rispose Rick.
«L’asiatico? Vi porto io da lui» disse prendendolo per mano.
A quel punto il capo banda si vide costretto a lasciarci passare, perciò sconfitto ordinò di abbassare le armi.
Non avevo idea di dove fossimo diretti ed ero ancora un po’ spaventata da tutta quella situazione, ma la vicinanza di Daryl riuscì a calmarmi.
Rimase per tutto il tempo al mio fianco, a un certo punto si mise pure dietro di me per proteggermi da tutti quegli sconosciuti e non staccò un solo secondo il suo sguardo dalla mia schiena. Sentivo i brividi per l’intensità con la quale mi guardava, ma non era una sensazione spiacevole.
Dopo aver passato un piccolo giardinetto, entrammo in un edificio che puzzava di medicinali e di disinfettante e rimasi sorpresa nel vedere che c’erano delle persone anziane. Credevo di avere a che fare con dei teppisti e invece quei ragazzi stavano solo cercando di proteggere quei vecchietti che sarebbero morti da lì a pochi giorni.
In una grande stanza trovammo un gruppetto di persone radunate tutte nello stesso punto in cui stava un anziano signore sulla sedia a rotelle. Tra loro c’era anche Glenn e mi stupii nel vederlo lì con le braccia conserte e un’espressione tranquilla in volto, come se non fosse mai stato catturato.
«Cosa diavolo è questo?» chiese Rick sconcertato.
«Un attacco d’asma» rispose Glenn.
«No, io credo che si stesse riferendo a questo» dissi indicando le pareti della stanza.
Restammo senza parole per qualche secondo, incapaci di trovare un qualcosa di logico in tutta quella storia.
«Oh» fece il mio amico stupito. «È un ospizio».
«Credevo ti avessero dato in pasto ai cani, amico» sbottò T-Dog, affatto divertito.
Il coreano si spostò di poco per mostrarci una cuccetta al cui interno c’erano tre piccoli Chihuahua.
Mi trattenni dal ridere data l’ilarità della situazione e scossi la testa avvicinandomi ai tre cagnolini che appena mi videro inginocchiata davanti a loro corsero subito verso di me, agitando felici le loro piccole code.
Sorrisi quando uno di loro mi leccò la mano e lo grattai dietro l’orecchio.
«Oh, sì. Questi topolini sono proprio pericolosi» risi. «Meglio correre al riparo».
Rick trascinò per un braccio il capo di quel gruppetto in uno stanzino e Daryl mi diede un colpo sulla spalla per intimarmi a seguirlo, non voleva che rimanessi lì sola, anche se avevamo appurato che quelle persone non erano cattive.
Alla fine venimmo a conoscenza che quel posto non era nient’altro se non un ospizio dove le persone anziane erano state abbandonate come se fossero solo dei pesi. Quei ragazzi invece erano rimasti per aiutarli, e questo gli fece guadagnare il mio rispetto e anche quello di Rick che decise di cedere parte delle armi. Io invece gli diedi i medicinali che mi ero portata dietro, anche se erano solo antibiotici e antidolorifici era comunque meglio che non avere nulla se qualcuno di loro si fosse ammalato.
Sapere che non c’era solo marcio in quel mondo, fu un motivo che mi spinse a credere che nonostante tutto le persone buone esistevano ancora.
Dopo essere usciti da lì, tornammo agli uffici dove prendemmo il resto delle nostre cose per tornare al campo; il sole stava tramontando e continuare le ricerche avrebbe messo in pericolo anche la nostra vita.
Giunti dove avevamo lasciato il furgone, trovammo solo uno spiazzo vuoto.
«Dov'è il furgone? Lo avevamo lasciato qui» disse Glenn.
«È stato Merle» rispose Rick.
Ci fu un momento di silenzio in cui tutti pensammo ad un'unica cosa che però fu Daryl a dire.
«Andrà a scatenare la sua vendetta al campo».










 
*angolo autrice*
Come avevo detto la scorsa volta ecco qui il diciannovesimo capitolo. Non ho molto da dire quindi la chiudo qui, volevo solo farvi gli auguri di Buon Anno e...
un saluto,

yulen c:

 

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Capitolo 21
*** Capitolo20 ***






Capitolo20


 




La corsa verso la cava fu una di quelle per la quale rischiai rimanere completamente senza fiato. Più di quattro miglia fatte di corsa per riuscire ad arrivare in tempo e impedire che qualcosa di irreparabile accadesse ai nostri compagni.
Quando partimmo da Atlanta il sole c’era ancora nonostante avesse iniziato a tramontare, ma dopo essere giunti in prossimità del bosco la sera era già arrivata, portando con se non solo il pericolo, ma anche un vento gelido, decisamente inusuale per un periodo dell’anno così caldo. Non avevo idea di quanto tempo fosse trascorso da quando c’eravamo messi in marcia, ma più di un’ora era passata sicura e ci aspettava ancora molta strada da fare.
Io iniziavo ad essere stanca e nel fianco sinistro, all’altezza della milza, sentivo un dolore forte e acuto che mi fece fermare più di una volta. La mia resistenza fisica non era mai stata molta, e in quel momento fu messa a dura prova. Gli altri invece continuarono a correre, rallentando di tanto in tanto, per darmi modo di raggiungerli e proprio quando pensai di essere arrivata al limite, un urlo arrivò fino a noi, seguito da spari di armi da fuoco. Quel campanello d’allarme fu abbastanza per darmi la forza necessaria per correre veloce verso l’accampamento dove il fuoco, acceso per la cena, ancora ardeva.
La prima cosa che vidi una volta arrivata furono zombie ovunque, e presa dalla frenesia mi gettai anche io tra loro e gli altri membri, poco dopo altri spari riecheggiarono nell’aria odorante di polvere da sparo e sangue.
Tutto quel rumore ne avrebbe attratti degli altri, ma non potevamo eliminarli tutti con rametti e sassi, erano davvero numerosi, e nemmeno i fucili sembravano bastare perché appena ne veniva abbattuto uno, al suo posto arrivavano altri tre. Alla fine però riuscimmo a ucciderli e quando il silenzio calò pesante, udii solo dei pianti e una voce chiamare invano qualcuno.
Voltandomi verso il camper vidi Andrea chinata sopra un corpo dalla chioma bionda e subito il mio cuore mancò un battito.
No! No! No!
Corsi verso di loro agitata e impaurita, sperai che Amy se la fosse cavata solo con una ferita, ma quando vidi dei segni di morsi sul braccio e sul collo non riuscii a fare a meno di versare delle lacrime. Non volevo credere che la vita fosse così ingiusta, non c’erano state abbastanza morti dai primi contagi, ora toccava pure a lei.
«Fa qualcosa, ti prego» mi implorò la sorella in lacrime.
Mi sedetti di fronte a lei, prendendo l’altra mano di Amy che ora respirava a fatica, cercò di farmi un sorriso e le sorrisi anche io sperando di darle una qualche forma di sollievo.
Spostai la mia attenzione ad Andrea per farle capire che non c’era nulla che potessi fare.
«Ti prego» continuò sempre più sconsolata.
«Non posso fare nulla» ripetei. «Anche se riuscissi a fermare il sangue non posso salvarla. È stata morsa e a questo non c’è rimedio».
Le mie parole sembrarono risvegliarla perché iniziò a chiamare il nome della sorella più volte, fino a che, questa, stanca e stremata dal dolore, chiuse gli occhi. Mi asciugai le lacrime, ma esse continuavano a uscire come un fiume in piena, volevo urlare, gettarmi a terra e strappare l’erba, ma non potevo crollare così davanti a tutti, non davanti ad Andrea che aveva bisogno di una figura forte.
Daryl mi prese delicatamente per un braccio, facendomi alzare in piedi, ancora con le lacrime agli occhi lo guardai, aveva una piccola chiazza di sangue sotto lo zigomo destro mentre il resto dei vestiti erano tutti sporchi, ma questo non mi fermò dal gettargli le braccia al collo e stringerlo.
«E smettila di frignare, mi stai bagnando la maglia» borbottò.
A quelle parole iniziai a piangere ancora più forte e mi strinsi ancora di più al suo petto per cercare di soffocare i miei singhiozzi. Con una dolcezza che non era da lui mi staccò lentamente e prendendomi per un braccio mi portò fino alla mia tenda ordinandomi di riposarmi e di non uscire per nessuna ragione, ma non gli diedi ascolto. Dopo quel massacro c’era del lavoro da fare ed io non volevo lasciare che Andrea attraversasse quella fase delicata senza qualcuno che le stesse vicina.
Mi sedetti affianco a lei e le passi una mano sulla schiena, sussultò appena, guardandomi per breve tempo prima di riportare l’attenzione al corpo esamine di Amy.
«Sei qui per ucciderla?» chiese sussurrando.
Mi trattenni dal dire che ormai era già morta e che, anche se fosse tornata, non sarebbe stata viva.
«No» risposi. «È tua sorella, ed è giusto che lo faccia tu».
Annuì senza però guardarmi e dopo quella domanda non parlò più per tutta la notte.
Restò lì ad accarezzarle la mano e a spostarle i ciuffi da capelli che, mossi dal vento, andavano a finire sul suo viso diventato quasi bianco.
Io non feci nulla di più che rimanere seduta lì a guardare prima una e poi l’altra che giaceva immobile. Ogni tanto guardavo gli altri lavorare, sentendomi un po’ in colpa per non essere lì con loro, ma restare al fianco di Andrea e vegliare su Amy ancora un po’ mi sembrava l’unico modo per mostrare alla sorella maggiore che loro due erano veramente importanti per me, soprattutto Amy che giorni prima aveva ascoltato i miei sproloqui senza farne parola ad anima viva e poi, la sera, era pure venuta a vedere come stavo.
La mattina arrivò calda e umida, ma non c’era più l’euforia e le urla di felicità dei bambini che sentivo nei giorni precedenti. C’era il silenzio più cupo, interrotto solo dal rumore delle teste che venivano spappolate e da qualche parola bisbigliata. Nessuno dalla sera aveva più osato aprire bocca, sapevamo che qualsiasi cosa fosse stata detta non sarebbe servita a nulla. Anche un semplice “mi dispiace” sarebbe risuonato superfluo e scontato alle orecchie di tutti, perché non c’erano più parole ormai che potessero rincuorarci o consolare i nostri animi distrutti.
Il cadavere di Amy era diventato cinereo, le labbra erano blu e le ferite, seppur avessero smesso di sanguinare, sembravano ancora fresche. Andrea non aveva parlato per tutta la notte e temevo che di lì a poco sarebbe caduta in uno stato catatonico, le avevo tentate tutte per cercare di farla ritornare con la mente tra noi, ma tutto quello che ottenni come risposta fu il silenzio. Nemmeno quando gli chiesi se volesse dell’acqua mi rispose.
Guardando in giro vidi che i bambini si erano appena svegliati e cercavano di tenere gli occhi lontani dai cadaveri così mi offrii di portarli giù alla cava per non farli assistere a quello scenario. Anche se l’ultima volta ci eravamo divertiti a giocare con l’acqua, quel giorno era diverso, sembrava che un grosso manto color nero si fosse depositato su di noi e che dentro ai nostri cuori fosse ancora notte. Non sentivo nemmeno gli uccelli cantare e il vento non voleva soffiare per far muovere le foglie. Tutto di quella giornata sapeva di morte, a partire dai decessi causati da zombie venuti fuori dal nulla.
Quella fu una domanda alla quale non riuscii a dare una risposta: come mai in due mesi nessun errante si era avvicinato, mentre in una sera era cambiato tutto così velocemente? Da dove erano usciti? Pensai subito al furgone fuori da Atlanta, quello con il quale eravamo partiti alla ricerca di Merle: svuotandolo da tutte le cose inutili presenti nel retro, una trentina di zombie ci sarebbero entrati, ma chi era stato a metterli lì? Merle lo esclusi, con una mano sola e dopo aver sopportato non solo lo shock di un’amputazione ma anche il dolore della carne che veniva bruciata per fermare il flusso del sangue non sarebbe stato in grado di catturare dei non-morti e rinchiuderli lì dentro, in oltre se fosse stato lui a prenderlo, perché non era tornato al campo e aspettato Daryl per andarsene se proprio voleva farlo? Ipotizzai quindi che qualcun altro sapesse della cava e stesse solo aspettando il momento giusto per agire, dopotutto la mancanza di cinque membri del gruppo si sarebbe fatta sentire, ma perché disturbarsi a fare tanto per un posto del genere? E poi dopo tutti gli spari sarebbe stato inutilizzabile, quindi a che pro togliere di mezzo noi per fare spazio ad altre persone?
Passai una mano sul viso stanco, la notte priva di sonno stava iniziando a farsi sentire, ma ci sarebbe stato del tempo per riposare, anche se dopo gli ultimi eventi dubitai che qualcuno ci sarebbe riuscito. Iniziai a domandarmi infatti quale sarebbe stata la nostra prossima mossa. Era chiaro che non potevamo restare lì, ma era anche vero che non potevamo partire e basta. Ci serviva un piano e un posto da raggiungere per non vagare senza una meta, non potevamo permetterci di consumare carburante.
Dopo un paio d’ore tornammo indietro, sicura che ormai avessero finito di spostare i cadaveri, infatti risalita la collina vidi una pila di cadaveri carbonizzati e un Daryl nervoso che caricava altri corpi avvolti da dei teli sul letto del suo furgone.
«Qual è il suo problema?» chiesi.
«Abbiamo deciso di seppellire i morti invece che bruciarli, ma lui non è d’accordo. Dice che sono infetti e non ha alcuna differenza» rispose Glenn.
Raggiungemmo uno spiazzo con delle fosse, in alcune i cadaveri erano già stati posizionati, nelle altre c’era solo un buco nero e vuoto che attendeva di essere riempito.
«Quindi è così che funzionerà? Ogni qualvolta che qualcuno si commuoverà noi cambieremo le regole?» obiettò Daryl ancora stizzito.
«Non ci sono regole» rispose Rick con alterazione.
«E questo è un problema». La voce di Lori suonò stanca e triste. «Siamo stati troppo concentrati sulla fuga per ricordarci delle nostre vecchie usanze. Dobbiamo almeno seppellire i nostri morti. È questo che avremmo fatto un tempo».
«Se non sbaglio però alcuni preferivano la cremazione e sono dell’idea che bruciarli sia meglio. Non è certo umano, ma la trovo una scelta migliore» intervenni io.
Dalle loeo espressioni sapevo che si aspettavano che prendessi le parti di Daryl, ma non lo feci per accontentarlo. La mia motivazione dietro quella mia scelta era ben più profonda e sicuramente più saggia delle loro.
«Come puoi dire questo?» domandò Andrea.
La guardai e vidi solo una sbiadita imitazione della ragazza che conobbi due mesi prima. Subito mi sentii male per lei, non fu una cosa carina da dire, ma io ero della mia idea e su questo nessuno avrebbe mai potuto farmi pensare in modo diverso.
«Dopo la morte il corpo inizia un lento processo di decomposizione, questo lo sapete. Di qualsiasi cosa questa malattia si tratti è nel sangue e nella carne.  Immaginate ora il corpo ormai completamente putrefatto e senza una bara a proteggerlo, parlo quindi di una dozzina d’anni: i tessuti e tutto il resto sono scomparsi, ma i gas sprigionati rimangono comunque presenti nella terra. Se dovessimo uscire da questa piaga e qui nascessero delle coltivazioni, la frutta e la verdura verrebbero contaminate e quindi ricomincerebbe tutto dall’inizio» spiegai. «Bruciare i corpi è la cosa migliore da fare e anche la mia ultima volontà, se dovessi morire non voglio essere seppellita, non azzardatevi a farlo o che Dio mi aiuti, vi mordo» dissi. «E non sto scherzando».
Dopo una breve cerimonia per salutare coloro che avevano vissuto e combattuto insieme a noi, ognuno tornò alle sue occupazioni, tranne io che invece di vedere dei bambini mi trovai a vegliare su un Jim piuttosto malato e malconcio.
Prima di chiedermi se potessi assisterlo, Rick mi informò che era stato morso la sera prima mentre cercava di difendere il campo, Daryl aveva cercato di ucciderlo subito, ma lui lo aveva fermato pur sapendo che probabilmente sarebbe morto. Disse di voler anche solo provare ad aiutarlo dirigendosi verso il Centro di Controllo delle Malattie e anche se la città era pericolosa, mi trovai d’accordo con questa sua proposta.
Entrai nel camper piano per non spaventarlo, dopo la brava di Daryl con la piccozza non mi sembrava il caso di arrivare davanti a lui come un rinoceronte alla carica. Controllai la sua ferita, lo medicai con nuove fasce pulite e gli diedi dell’acqua.
Non avevo mai davvero parlato con lui se non poche volte, ma mi dispiaceva pensare che presto un altro del nostro gruppo ci avrebbe abbandonati.
Restai lì per quasi tre ore, assicurandomi che il suo organismo non cedesse all’improvviso - se fosse successo si sarebbe rianimato e con i bambini lì non sarebbe stato uno spettacolo da ripetere – fino quando mi riunii con il gruppo per decidere le nostre sorti. Ci posizionammo tutti in cerchio, guardando prima Rick e poi Shane che prese parola.
«Ho pensato al piano di Rick» disse quest’ultimo un po’ incerto. «Non è detto che al CCM troveremo delle risposte, ma conosco quest’uomo da tanto tempo e non mi ha mai deluso. Ciò che dobbiamo fare ora è restare uniti, quindi chi vuole seguirci, partiremo domattina».
A quel punto non avevo più idea di cosa fare. Se fossi andata con loro avrei avuto l’opportunità di ripartire da zero in un posto più sicuro di quello in cui eravamo, ma c’era ancora Merle che non eravamo riusciti a trovare e io non volevo abbandonarlo e darlo per morto. Non era una scelta che potevo prendere da sola e su due piedi, dovevo ponderare per bene tutte le possibilità e parlarne con Daryl, per questo, quella stessa sera mentre stavamo smontando la tenda di suo fratello per aver meno lavoro da fare al mattino gli chiesi che cosa avrebbe fatto lui. Non rispose subito, indeciso forse su cosa fare anche se era chiaro che nemmeno lui volesse smettere di cercarlo.
Chinandomi per raccogliere un mucchio di maglie da mettere nel borsone ritrovai i fogli che avevo visto due giorni prima e con il cuore in gola li porsi a Daryl, la sua espressione rispose a tutti i miei dubbi e se non fossi stata così emotivamente stanca avrei iniziato a piangere o urlare, ma ero sfinita e invece di  sentirmi arrabbiata, provai solo un’immensa delusione.
«Non so nemmeno cosa dire. Avresti lasciato che queste persone morissero perché avevate intenzione di saccheggiare l’accampamento?». Mantenni un tono basso per non farmi sentire.
«Io non so più nemmeno se ti conosco, Daryl. Ogni volta che penso di averti capito, tu cambi. Da Merle una cosa del genere me l’aspettavo, ma da te?».
Lasciai che i fogli cadessero sulla sua mano e mi allontanai un po’ da lui.
«Pensavo che avessi un minimo di coscienza».
Caricai tutte le mie cose sull’Hummer, finendo qualche ora dopo. Smontai pure la mia tenda, decidendo che avrei dormito in auto per una notte. Non parlai con nessuno, non mi avvicinai a nessuno, restai per i fatti miei a pensare a quanto stupida fossi stata per tutto quel tempo. Era proprio vero che io le cose non le vedevo nemmeno se le facevano sotto il mio naso e che davo troppa fiducia alle persone, ma ero fatta così. Per me tutto partiva dalla fiducia e dal rispetto, due valori fondamentali per dei rapporti saldi.
Prima di andare a dormire passai da Jim e controllai il morso che aveva iniziato a portare l’infezione in tutto il corpo, attorno il segno era tutto nero e il colore arrivava quasi a coprire tutto l’addome, la fronte e il collo erano imperlati di sudore e le sue mani avevano iniziato a tremare.
«È finita, vero?» chiese.
«Al Centro di Controllo Malattie potranno fare qualcosa».
«Non arriverò mai a domani mattina, se mi addormento sento che quando mi risveglierò non sarò più me».
Gli strinsi una mano e sorrisi. «Vuol dire che non devi dormire» dissi convinta. «Resterò qui così potrai restare sveglio».
Ero stanca, sì, ma non me la sentivo di lasciarlo solo in un momento del genere e anche se non ero un medico, sentivo di dovergli stare vicino fino alla sua fine, proprio come mio padre faceva con i pazienti che non riusciva a salvare. Rimasi al suo fianco per tutta la notte e mi alzai solo poche volte per andare in bagno o per prendergli dell’acqua che sembrava essere l’unica cosa che il suo stomaco riuscisse a tenere dentro. Parlammo delle nostre vecchie vite e delle cose alle quali eravamo legati e scoprii che prima dell’apocalisse era un meccanico, che aveva una moglie e dei figli e che se li era visto strappar via da sotto gli occhi. Vidi il dolore nel suo sguardo mentre mi raccontava degli ultimi momenti in compagnia della sua famiglia e il sollievo nel sapere che presto li avrebbe rivisti.
La mattina, quando il sole iniziò a sorgere in un cielo ancora legato alla notte, uscii da camper per riunirmi con il resto del gruppo già disposto in cerchio. La famiglia Morales decise di non venire con noi, dissero di preferire raggiungere i loro parenti a Birmingham e capii che da quel momento non avrei più rivisto nemmeno loro. Li salutai con le lacrime agli occhi, raccomandandogli di stare attenti e di non abbassare mai la guardia. Strinsi forte i due bambini, promettendogli che se ci fossimo rincontrati avremmo passato un’altra giornata a giocare al lago scattando altre foto ricordo. Mi staccai da loro a malincuore e lasciai che proseguissero per la propria strada.
«Kate!?».
Voltandomi vidi Rick con indosso la sua divisa e lo sguardo preoccupato.
«Quali sono le condizioni di Jim?» chiese.
«Se devo essere completamente sincera non credo che resisterà a lungo. Non riesce a mangiare nulla e se si addormenta c’è il rischio che muoia» risposi. «Se vogliamo partire dobbiamo farlo ora».
Annuì e cinque minuti dopo eravamo tutti pronti ad abbandonare quel posto, luogo di giornate piacevoli, ma anche di perdite.










 
*angolo autrice*
So di essere mostruosamente in ritardo e ragioni valide non ne ho, posso solo dire di aver passato
un brutto periodo e tra una cosa e l’altra, nonostante di trama ne avessi, mi è passata la voglia di metterla per iscritto.
Non ho altro da dire se non che cercherò di pubblicare in queste settimane anche i capitoli  dei tre mesi
precedenti per rimettermi in passo con la tabella di marcia che mi sono messa in testa di seguire.
Ho anche apportato delle modifiche perché in tutto questo tempo in cui sono rimasta "lontana" ho avuto modo di rivedere un po' di cose e sistemare ciò che aveva
iniziato a non convincermi anche per fini inerenti alla trama della storia stessa.

Un saluto,
 
yulen c:

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Capitolo 22
*** Capitolo21 ***


 
 
 
 
 
Capitolo21







Fummo costretti a fermarci quando il camper di Dale si ruppe. Di nuovo.
Eravamo più o meno a metà strada da quello che aveva detto Glenn guardando una mappa, e da ciò che ci aveva riferito Jacqui, Jim non sarebbe resistito ulteriormente. Aveva sofferto per tutta la durata del viaggio, raggiungendo il limite e alla fine, allo stremo delle sue forze, si era fatto appoggiare contro un albero per stare con la sua famiglia.
Non era giusto per me abbandonarlo così, avremmo dovuto almeno dargli il colpo di grazia per non farlo trasformare, per questo mentre Dale sistemava il tubo del radiatore, io rimasi a fianco di Jim fino quando si addormentò per l’ultima volta. Sparai subito senza indugi e senza permettere che le mie emozioni prendessero il sopravvento su di me, avvolsi il corpo in una coperta e lo trascinai nel cuore del bosco dove lo seppellì aiutata da T-Dog e Jacqui. Rimasi lì in piedi alcuni minuti per dire una silenziosa preghiera e poi tornai indietro con il muso lungo e gli occhi rossi di chi aveva pianto.
Non so quanto tempo ci impiegarono affinché il camper fosse di nuovo nelle condizioni di viaggiare, ma dovetti addormentarmi perché quando mi risvegliai, mi ritrovai dalla parte del passeggero su un veicolo che non era il mio. Non rendendomi ancora conto dove fossi mi stiracchiai sorridendo, felice di aver recuperato le ore di sonno, ma quando riconobbi l’abitacolo del mezzo sul quale mi trovavo, voltai fulmineamente il capo verso sinistra dove Daryl era alla guida.
«Fammi scendere» dissi con la mano già sullo sportello. Dopo la mia scoperta non gli avevo più rivolto la parola ed ero ancora arrabbiata con lui.
«Vuoi smetterla per una volta?» sbottò. «Lo sapevo che cosa aveva in mente Merle, ma non ero d’accordo».
«Perché non me lo hai mai detto?».
Ghignò irritato dalla mia domanda.
«Cosa avresti potuto fare? È di Merle che stiamo parlando».
«Mi sarei inventata qualcosa, lo avrei legato ad un albero se fosse stato necessario» risposi. «La mattina che è stato ammanettato sul tetto è stata anche quella in cui ho trovato i fogli. Se tu mi avessi detto che cosa stava pensando di fare, forse sarei riuscita a tenerlo sott’occhio».
Non lo stavo incolpando per avermi taciuto una simile cosa, da una parte aveva ragione, stavamo parlando di suo fratello e quando si metteva in testa qualcosa nessuno riusciva a fargli cambiare idea, ma poteva contare su di me e lo sapeva. Io era quella che lo aiutava a riportare il fratello a casa e a distenderlo sul letto quando era ubriaco o fatto e non riusciva a camminare da solo.
«Aspetta, tu sapevi dei fogli?».
Il silenzio rispose per me, ma lui volle sentirmelo dire perché me lo chiese una seconda volta.
«Sì, Daryl. Lo sapevo» sbottai. «Non te l’ho mai detto perché non mi sembrava il momento adatto. Quando li ho trovati avevamo appena fatto pace e non volevo litigare di nuovo, ma a quanto pare ho solo rimandato l’inevitabile».
«Cos’è stato, un altro segreto che non volevi dirmi e che quindi hai tenuto nascosto perché non sei in grado di vivere senza seguirmi come un cane abbandonato».
A quella frase sentii il sangue ribollirmi nelle vene e la voglia di prenderlo a schiaffi salire, ma mi trattenni dal fare azioni che avrei odiato e che lo avrebbero distratto dalla guida. Per lui non ero nulla che un animale e per quanto quelle sue parole mi avessero ferita non versai una sola lacrima. Che andasse al diavolo lui e quel suo atteggiamento da stronzo.
«Vaffanculo!» gridai.
Dopo ciò non parlammo più e io pur di non guardarlo voltai la testa verso il finestrino, guardando il paesaggio e la mia immagine riflessa fondersi insieme.
Non ci volle molto affinché arrivassimo davanti a un grande edificio bianco con delle enormi vetrate: il CCM si parava di fronte a noi e sembrava non essere stato risparmiato da quella sciagura che si era abbattuta sul genere umano. Tutt’intorno c’erano cadaveri che emanavano un terribile odore di carne in decomposizione, tra le carcasse spiccava anche un carro armato, abbandonato lì da chi aveva cercato la salvezza.
Avanzammo tra i corpi, coprendoci naso e bocca per respirare il meno possibile quel puzzo fin quando arrivammo davanti alle porte, sfortunatamente bloccate.
È un punto morto.
Pensai stringendo tra le mani un fucile a pompa. Cercai di non farmi prendere dal panico nonostante non fosse semplice, avevamo finito la benzina, le scorte alimentari erano nulle ed eravamo troppo vicini alla città; ci saremmo ritrovati circondati dagli zombie ancora prima di poter dire “vaganti”, Lori espresse la mia preoccupazione, ma non fu sufficiente a far allontanare Rick dalle saracinesche che continuò a scuotere ad ogni colpo. Tutto quel rumore fece sì che un errante si avvicinasse a noi, non feci in tempo a prendere la mia pistola silenziata che qualcuno sparò un colpo di fucile a pompa, di lì sapevo che sarebbe stata questione di secondi affinché altri non-morti arrivassero fino a noi, ma per nostra fortuna le porte alla fine si aprirono, permettendoci di entrare prima di ripetere lo stesso orribile scenario della cava.
La hall del Centro di Controllo delle Malattie si allargò in uno spazio grande e luminoso dal quale si riuscivano ad intravedere delle porticine e delle scale che portavano a nuove stanze.
Sentivo un forte odore di medicinali e disinfettante, le pareti erano bianche e nonostante il pavimento fosse di un colore più scuro non c’era dubbio che ogni centimetro di quel posto fosse sterilizzato e a prova contro qualsiasi malattia.
Entrammo tenendo i fucili alti in caso di pericolo, trovando però solo un uomo, anch’esso armato.
«C’è qualcuno infetto?» domandò.
«No» fu la risposta di Rick che nel frattempo aveva abbassato la sua arma.
Interpretai quel suo gesto come segno di fiducia e anche io riposi la mia, seguita dal resto del gruppo.
«Cosa volete?» chiese lo sconosciuto ancora sospetto.
«Una chance per ricominciare».
«Gran bella pretesa» replicò abbassando finalmente anche il suo fucile «Se volete restare dovrete fare un esame del sangue».
Rick ci guardò e dopo che noi annuimmo, abbassò lievemente il capo in cenno di assenso verso l’uomo che si presentò come il Dottor Edwin Jenner.
Dopo aver preso un ascensore per scendere ai piani inferiori, esserci fatti prelevare il sangue, ed aver appreso che lì non c’era più nessuno se non lui, Jenner ci fece strada fino ad una cucina che, con mia somma sorpresa, era rifornita di ogni genere alimentare oltre al fatto che aveva un angolo cottura con due forni. Nel frigo tra, acqua, succhi di frutta e varie bottiglie di alcool ce n’era anche una di vodka ancora sigillata.
Che spreco! Tsk.
Riempii il piatto di verdura che condii con dell’aceto trovato in una delle mensole, presi la bottiglia e mi sedetti vicino ad Andrea, sorridendole per cercare di levarle quello sguardo spento. Prima di iniziare a mangiare versai una buona quantità di alcool nel bicchiere che buttai giù a fiato prima di riempirlo di nuovo e bere anche quello, lo stomaco stava bruciando come un incendio, ma versai altra vodka una terza e una quarta volta.
Qualcuno fischiò, ma non riuscii a capire bene chi.
«Che c’è?» chiesi.
«Dovremmo iscriverti all’Alcolisti Anonimi» commentò Jacqui divertita.
Riempii il bicchiere una quinta volta e richiusi la bottiglia, ridendo a mia volta.
«In Russia brindiamo per qualsiasi motivo, non che sia una cosa di cui andare fieri» spiegai. «I primi quattro erano per le persone importanti che abbiamo perso, questo…» dissi bevendo il mio quinto bicchiere. «È per un futuro migliore».
Rick si alzò in piedi, guadagnando l’attenzione di tutti i presenti.
«Propongo un altro brindisi a Jenner. Se siamo vivi è grazie a lui».
Nonostante reggessi bene l’alcool, bere tutta quella vodka mangiando solo due foglie d’insalata non mi avrebbe fatto molto bene, probabilmente sarei finita chinata sulla tavoletta per tutta la notte, ma un bicchierino in più non mi avrebbe di certo uccisa.
Portammo in alto i nostri bicchieri pieni che tintinnarono prima che un coro di voci divertite si levasse in aria. L’atmosfera però cambiò da armoniosa a cupa quando Shane, per motivi che ancora non comprendo, decise a tutti i costi di voler sapere in quel esatto momento che ne fosse stato di tutti gli altri dottori, Rick cercò di persuaderlo a lasciare la conversazione al giorno successivo, ma lui non volle affatto attendere per ottenere le sue risposte.
«Agli inizi alcuni scienziati hanno lasciato le postazioni per stare con i loro familiari, quando poi le cose sono andate peggiorando e i militari posti qui a difendere la struttura sono morti, molti hanno deciso che togliersi la vita fosse la scelta migliore».
Scossi la testa bevendo direttamente dalla bottiglia questa volta. Che bisogno c’era di smorzare l’allegria che fino ad un attimo prima riempiva lo spazio vuoto?
«Tu perché sei rimasto?» domandò Andrea.
«Speravo di poter trovare una via d’uscita».
Lo guardai per un attimo, il suo sguardo assente, la rassegnazione che aveva negli occhi e la disperazione nelle parole che uscirono mi fecero capire che quell’ultima spiaggia era stato solo un sogno fin troppo bello anche solo per crederci.
Moriremo tutti.
Ma non lo pensai sconfortata, non era nemmeno un vero pensiero quanto più una constatazione. Prima o poi, uno ad uno, saremmo morti tutti quanti.
Dopo cena Jenner ci condusse in un ala del laboratorio dove avremmo potuto pulirci e riposare e mai mi sentii più felice come quando sentii le parole “acqua calda” e “brandine”.
Entrai nella prima stanza vuota che trovai, gettai le mie cose sul pavimento, presi dei vestiti puliti, il mio astuccio con spazzolino e dentifricio ed entrai in un bagno piccolo ma che aveva tutto ciò di cui c’era bisogno. C’era anche uno specchio ad armadietto sopra il lavandino e aprendolo trovai delle spazzole ed elastici buttati alla rinfusa insieme a dei rasoi ancora intatti e a della schiuma. Era un po’ che non mi depilavo, quindi colsi l’occasione al volo.
Guardai il box doccia con occhi sgranati per lo stupore, come se fosse un nuovo oggetto e io non lo avessi mai visto, su un ripiano c’erano anche un barattolo di shampoo e uno di bagnoschiuma. Mi svestii velocemente, gettando gli abiti sporchi in un angolino e subito aprii il rubinetto regolando la temperatura in modo che non fosse ghiacciata ma nemmeno troppo calda. La sensazione che l’acqua lasciò scivolando sul corpo e portando via lo sporco fu un toccasana per me, mi sembrò di rinascere.
Era la prima volta dopo due mesi che potevo lavarmi davvero e non avrei mai creduto di poterlo più fare. Oramai la doccia per me consisteva in acqua scaldata e saponette usate per pulirmi alla cava quando nessuno era nei paraggi.
Restai sotto il getto per una buona mezz’ora, crogiolandomi sotto il calore dell’acqua che sembrava volermi tenere lì oltre il tempo concesso, ma quando notai che sul vetro del box e dello specchio si era formato un leggero strato di condensa uscii. Pulii una delle due vetrate e mi specchiai, sorprendendomi di quanto sembrassi diversa ora che ero lavata e pulita. Le macchie di terra, fango e sangue sul mio volto e sulle braccia erano svanite, lasciando che la mia pelle diafana sembrasse ancora più chiara a causa della forte luce nella stanza.
Anche i capelli - che stavano tornando completamente al loro colore naturale - erano puliti e lo sporco incrostato sotto le unghie era venuto via completamente.
Mi asciugai e vestii velocemente, ansiosa di vedere quali libri ci fossero nella sala verso cui Jenner aveva indirizzato i bambini.
Eravamo sotto terra e non c’era molto da fare in giro, spendere del tempo assorta completamente nella lettura pensai che fosse un buon modo in cui impiegare il mio tempo.
Entrai nella stanza e vidi che Carl e Sophia stavano giocando a dama mentre Lori era concentrata nel guardare due librerie piene di volumi.
A quella vista sorrisi da orecchio a orecchio e iniziai a cercare qualcosa che mi tenesse occupata fino quando non sarei crollata dal sonno.
Fortunatamente c’erano vari generi tra cui scegliere e optai per qualche libro storico sulla Seconda Guerra Mondiale, il mio periodo preferito. Recuperai tre testi ed uscii augurando la buonanotte ai due bambini e alla donna che sorrise prima di tornare a guardare i ripiani con interesse.
 
 
 
 
Non ero arrivata nemmeno al quindicesimo capitolo quando qualcuno bussò alla porta. Mi alzai prendendo da sopra il comodino la mia pistola, assicurandomi di aver tolto la sicura.
Sei sottoterra, ci siete solo tu, lo scienziato pazzo e il gruppo, a che ti serve?
Il mio cervello aveva ragione, forse la paranoia iniziava a impossessarsi di me.
Posai l’arma su una scrivania ed aprii la porta trovando Daryl dall’altra parte. In mano aveva una bottiglia di whiskey quasi vuota, chiaro segno che la parte che mancava se l’era bevuta tutta. Gli occhi lucidi e la bocca impastata mi dissero che era già ubriaco da far schifo.
«Ti senti bene?» chiesi preoccupata.
Dopo il nostro ultimo diverbio non mi aveva calcolata, neppure durante la cena mi aveva guardata una sola volta e non capivo cosa ci facesse sulla soglia della mia stanza.
Entrò senza nemmeno rispondere, bevendo un altro sorso di quella roba che lo stava facendo andare fuori di testa, lasciando la bottiglia sopra un mobile per venire verso di me. Mi afferrò per la vita e mi baciò senza darmi il tempo di prevedere questa sua mossa.
Sgranai gli occhi stupita da quest’azione e forse a causa dell’emozione o di tutta la vodka che mi circolava nel sangue, per un momento mi sentii mancare.
Mi aggrappai ai suoi bicipiti per non cadere a peso morto e scavai con le unghie nella sua pelle per avere una presa migliore sul suo corpo. Era ancora tutto appiccicoso e salato, la sua camicia era macchiata di sangue e altra sporcizia, ma non era quello il mio problema.
Volevo scansarmi e prenderlo a schiaffi per ciò che aveva detto, ma tutto quello a cui riuscivo a pensare erano le sue labbra sulle mie e la sua lingua che accarezzava la mia. Sapeva di tabacco e whiskey eppure non riuscivo a trovare una scusa valida per allontanarlo. Ero arrabbiata è vero, ma era anche vero che i miei sentimenti per lui mi rendevano incapace di pensare razionalmente.
Solo quando iniziò a delineare la linea della mascella partendo dall’orecchio e infilò una mano sotto la maglia per sfiorare i fianchi, qualcosa scattò in me e capii di doverlo fermare prima di toccare il punto di non ritorno.
«Daryl» ansimai. Il mio cuore batté all’impazzata all’interno del mio petto e anche il mio respiro accelerò.
Scese fino al collo e poi giù alla clavicola, tracciando il segno dell’osso con la lingua. Le mie gambe tremarono appena e un’altra volta dovetti aggrapparmi a lui, portando una mano dietro il suo collo.
«S-sm-smettila» dissi cercando di farlo suonare come un ordine piuttosto che come una supplica.
Era una vita che volevo accadesse ma non così, lui era troppo ubriaco per rendersi conto di ciò che stava facendo ed io non avevo abbastanza forze per contrastarlo. Non potevo lasciare che accadesse, immaginavo come avrebbe reagito il giorno seguente quando si sarebbe svegliato e mi avrebbe visto al suo fianco, gli stavo chiedendo di non fare nulla di cui potesse pentirsene.
«Sei ubriaco, vai a dormire» sussurrai poco convinta.
Ormai anche io stavo cedendo e con l’ultimo barlume di lucidità appoggiai le mani sul suo petto. Daryl si irrigidì e quella sua reazione ebbe il potere di farmi perdere per un secondo la cognizione della realtà ma riuscii lo stesso a spingerlo delicatamente via. L’aria sembrò tornare ad essere respirabile, non come prima dove mi  sembrò che le mura si stessero stringendo per togliere tutto l’ossigeno.
Mi guardò con disappunto prima di sparire dietro la porta della stanza in cui decisi di dormire.
Chiusi gli occhi sospirando di liberazione e portai una mano al cuore che stava battendo impazzito dentro la mia cassa toracica, percepivo ancora il suo alito sul mio collo e la sua lingua accarezzare la mia pelle.
Ho bisogno di un altro bagno.
Entrai nella doccia con tutti i vestiti e aprii il rubinetto dalla parte dell’acqua fredda per calmare i bollenti spiriti, appoggiai la fronte contro la parete e chiusi gli occhi sospirando.
Cosa diavolo c’era di sbagliato in me? Perché le cose non dovevamo mai andare come le avevo programmate io?
Portai le dita alle labbra, sentendo ancora la sua bocca sulla mia e mi accasciai per terra, lasciando che maglia e pantaloni si inzuppassero d’acqua. Dovevo lavare via anche l’odore di lui, non potevo avere il suo profumo addosso o i miei buoni propositi sarebbero andati in rovina e se fosse successo, se gli avessi lasciato fare ciò che voleva fare, allora non sarei mai più stata in grado di allontanarmi da lui.
Quando iniziai a non sopportare più la temperatura fredda dell’acqua, uscii svestendomi e avvolgendo il corpo attorno ad un asciugamano. Passando davanti lo specchio notai di come le mie labbra fossero diventare blu, l’idea di un bagno ghiacciato probabilmente non dovette essere stata la mia più brillanti delle idee, ma io ero famosa per sbagliare una cosa dietro l’altra.
Cercai una canotta e degli slip da indossare per la notte e mi buttai a peso morto sulla branda dove mi addormentai qualche minuto dopo.
 











*angolo autrice*
ciao a tutti, sono quella che non riesce a rispettare i tempi di scadenza
a parte gli scherzi questa volta non è dipeso da me, ho perso i fogli con gli appunti e
sono rimasta senza internet.
Fortunatamente è tutto risolto ed entro questa settimana dovrei riuscire a pubblicarne un altro.
Un saluto,
 
yulen c:
 

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Capitolo 23
*** Capitolo22 ***






Capitolo22






Il mattino seguente mi alzai di malavoglia e mi trascinai fino in bagno tenendo gli occhi socchiusi a causa del sonno che ancora non voleva saperne di abbandonarmi, passando davanti allo specchio notai quando pallida più del solito fossi e di come le occhiaie nere fossero ancora più visibili a causa del colorito bianco della mia pelle, anche i capelli erano un totale disordine e il solo pensiero di uscire e vedere persone mi fece accapponare la pelle. Dello stesso avviso non era il mio stomaco vuoto che iniziò a brontolare rumorosamente, così mi vestii rapidamente ed uscii.
Quando entrai in cucina la scena che si presentò davanti mi fece ridere sotto i baffi e mi sentii in pena per Glenn, che appoggiato al tavolo, continuava a lamentarsi del suo mal di testa, anche Dale rideva divertito mentre Jacqui cercava di confortarlo.
«Buon giorno» dissi facendo notare la mia presenza a tutti. «Qualcuno non è proprio in forma stamattina, uh?» chiesi ridendo.
«Giuro che non berrò mai, mai, mai più» borbottò Glenn. «Come mai tu non soffri del dopo sbornia?» domandò trascinando le parole.
Sogghignai addentando una fetta biscottata e mi sedetti al suo fianco.
«Sono russa e abituata a ben peggio».
Si lamentò di nuovo ed io scossi la testa infilzando con la forchetta dei deliziosi pancakes che dal piatto sembravano provocarmi, portai quella bontà alla mia bocca e il sapore dolce toccò tutte le mie aree recettive, non ero più abituata ad una colazione del genere e l’acquolina salì di nuovo non appena ingoiai il primo boccone.
In quel momento Daryl fece il suo ingresso, mi lanciò un rapido sguardo e poi si allontanò dandomi le spalle. Lo guardai di sfuggita anche io, ma come incontrai il suo sguardo le scene della sera precedente mi tornarono in mente: lui, i suoi baci, il suo respiro sul mio collo, le sue mani sui miei fianchi e la sua presa forte su di me. Lo stomaco si chiuse e posai la posata sul piatto, abbassai il capo iniziando a sentirmi a disagio. Tutte quelle immagini inviarono delle vampate di calore dal centro dello stomaco che raggiunsero anche il viso, le mani e le braccia facendomi percepire una temperatura piuttosto alta nonostante l’aria condizionata fosse accesa.
Andrea mi diede una leggera gomitata al costato e quando vidi solo lei in cucina mi risvegliai da quello stato di semi incoscienza.
«Dove sono gli altri?» domandai sbattendo le palpebre un paio di volte.
«Jenner vuole mostrarci qualcosa» rispose.
Con un cenno del capo mi mostrò la direzione da prendere e con lei a seguito entrai in una grande stanza che a dispetto della cucina era tutta bianca. C’era un enorme schermo appeso ad una parete e dei computer messi in modo circolare, una grande e luminosa luce bianca bastava per rischiarare l’intero ambiente.
Lo scienziato aveva già iniziato la sua spiegazione, alle sue spalle il monitor acceso mostrava un cervello illuminato da piccole scariche elettriche che si muovevano frenetiche.
«Tra tutti questi filamenti e groviglio di luci ci sono le emozioni, i ricordi e tutto ciò che vi rende umani. Si chiamano sinapsi, ovvero impulsi nel cervello che trasportano messaggi in tutto il corpo fino al momento della morte» spiegò spostando lo sguardo verso noi.
All’improvviso quei lampi si spensero e la zona che fino a poco tempo prima era accesa rimase buia anche se non per molto; tanti piccoli flash rossi illuminarono la parte inanimata, anche il cadavere sembrò dare segni di vita, ma il corpo che nel frattempo aveva iniziato a contorcersi non fece nulla se non boccheggiare come un pesce fuor d’acqua.
«Attacca il cervello scatenando un’emorragia alle ghiandole surrenali, il cervello si spegne seguito dagli organi principali fino quando muori. Ovviamente i tempi di resurrezione variano da soggetto a soggetto e le emozioni giocano una parte importante in questo processo, più forti esse sono, meno tempo ci vuole per la rianimazione».
«Aspetta, fa ripartire il cervello?» chiese Lori incredula guardando lo schermo.
«No, solo il tronco celebrale, praticamente li fa alzare e camminare. Come vedete il resto è buio, morto. Ciò che c’era prima non c’è più, tu non ci sei più».
Guardai lo schermo e aggrottai la fronte. C’erano ancora tante cose che non mi erano chiare, e se c’era ancora qualcuno in grado di rispondere ai miei dilemmi quello era proprio Jenner.
«C’è qualcosa che mi sfugge» dissi attirando l’attenzione dello scienziato.
«Se tutto il cervello è spento e quindi anche l’ipotalamo smette di inviare gli impulsi che dicono loro di mangiare, perché lo fanno? Che cos’è che li spinge a nutrirsi, inoltre perché riescono a vedere, sentire e annusare se le parti che interessano queste azioni non funzionano?».
Rimase in silenzio alcuni secondi, sgranando gli occhi e guardandomi con curiosità.
«Hai idea di chi fosse Paul MacLean?» chiese.
Annuii e mi pose un’altra domanda.
«Allora conosci la sua teoria del Triune Brain».
«Sì, credeva che il cervello fosse diviso in tre parti» risposi.
«Esatto. Tra queste c’è quella rettiliana che corrisponde al tronco cerebrale. Paul sosteneva che questa zona controllasse la ricezione olfattiva e l’ippocampo che esercita la sua funzione sulla memoria. Se ci avete fatto caso sentono molto bene gli odori e e si trovano spesso in gruppi, il loro unico ricordo è legato alla superiorità numerica, sanno che numerosi sono, più hanno probabilità di procacciarsi il cibo».
Mi appoggiai ad un bancone e sospirai cercando di togliermi un grosso peso dalla schiena.
In che diavolo di incubo eravamo finiti? Non mi piaceva l’idea di avere a che fare con zombie intelligenti e men che meno mi andava giù quella di saper di dovermi guardare le spalle. In un certo senso era meglio non sapere certe cose, l’ignoranza mi spingeva a stare di più all’erta.
Io vado ad ubriacarmi.
Senza aspettare la fine delle spiegazioni uscii dalla sala computer, ciò che mi interessava sapere lo sapevo e non volevo riempirmi la testa con altre informazioni che mi avrebbero confusa ancora di più.
Andai in cucina e trovai nel frigo una bottiglia di Rum, non proprio il mio alcolico preferito, ma non mi lamentai. Dopo le ultime notizie ricevute sentivo il senso di angoscia crescere e mi serviva qualcosa per dimenticare. Non mi importava se avrei rimesso anche la bile o se fossi svenuta sul pavimento e mi sarei risvegliata qualche ora dopo in preda alla nausea perché tutto mi sembrava più bello di un’esistenza in cui sarei stata condannata vivere spaccando teste e guardare corpi vagare senza motivo se non quello di dilaniare la carne altrui.
Entrata nella mia stanza mi lasciai cadere rasente la porta, mi sedetti e divaricai le gambe che piegai leggermente in modo la poggiarvi sopra le braccia, nella mia mano destra la bottiglia roteava con lentamente mentre il liquido al suo interno ne seguiva i movimenti.
Ubriacarmi di nuovo dopo non aver ancora smaltito completamente la prima sbronza non m avrebbe fatto bene, ma visto che tanto sarei morta in ogni caso non vidi perché non avrei dovuto fregarmene delle conseguenze almeno per una volta e fare ciò che mi passava per la testa. La prima cosa a cui pensai fu quella di andare da Daryl, avevo già chiaro in mente cosa dirgli e dovevo farlo in quel momento di poca lucidità e grande coraggio.
Bussai alla sua porta un paio di volte senza ottenere risposta, sapevo che era dentro perché lo sentivo muoversi. Non avevo intenzione di andarmene finché non fossi riuscita a parlargli, così iniziai a picchiare più forte fino quando la porta si aprì, non guardai nemmeno la persona che avevo disturbato ed entrai veloce come un fulmine, fermandomi al centro della stanza.
«Devo dirti delle cose, e voglio farlo adesso perché sennò non sarò capace di farlo» dissi voltandomi finalmente verso di lui.
«Ti amo, va bene? E non mi importa se pensi che io sia solo una cogliona che ti segue come un cane, non mi importa nemmeno se dopo questo non vorrai più avere nulla a che fare con me, anzi…».
Mi avvicinai a lui e prendendolo per il colletto della camicia lo baciai, passai le braccia attorno le sue spalle e le avvolsi dietro al collo. Le nostre labbra si muovevano in sincronia mentre le sue mani accarezzavano la mia schiena con la punta delle dita, rimanemmo così a lungo, assaporando l’uno la bocca dell’altro senza ritrarci e senza renderci conto del mondo attorno a noi. Ci staccammo solo quando rimanemmo a corto d’ossigeno, ma anche in quel caso rimasi attaccata alla sua camicia stretta tra le mie mani.
«Visto che probabilmente non ci parleremo più nemmeno per sbaglio volevo approfittarne» mormorai ansimando.
«Ti amo da quando mi sono accorta che ogni sguardo che riservavi alle altre ragazze aveva il potere di farmi desiderare che si prendessero l’herpes usando i bagni del bar, e credimi che se fosse davvero successo le uniche femmine presenti saremmo state io e Kim» confessai.
La parte razionale della mia mente mi suggerì di chiudere lì il discorso per non peggiorare la situazione, ma io non avevo ancora finito, c’era ancora una cosa che dovevo dire, forse la più importante.
«Ora c’è un’altra cosa che devo dirti, e non è facile. Prima però voglio che tu sappia che mai ho mentito sui miei sentimenti e se ci fosse una gomma per cancellare il passato la userei». Sospirai cercando la maniera giusta per dirglielo, anche se non c’era un vero modo per addolcire la pillola.
«Devi sapere che c’è stato un periodo in cui io e…».
Non ebbi modo di finire la frase perché le luci della stanza si spensero, seguite dall’aria condizionata.
Ma non è possibile!
La stanza calò nel buio e non riuscii più a vederlo, lo sentii però allontanarsi e affacciarsi al corridoio. Ero spaventata dal fatto che potesse andarsene prima che avessi avuto la possibilità di dirgli ciò che dovevo dire e perciò cercai di fermarlo, sfortunatamente uscì prima che potessi raggiungere la sua mano, lasciando che un piccolo spiraglio di luce passasse dalla porta che aveva lasciato aperta. Mi sporsi anche io con la testa e ciò che vidi fu solo l’oscurità, era tutto così buio che per non inciampare sui miei stessi passi dovetti reggermi al muro, le porte delle altre stanze erano spalancate e un silenzio mortale avvolgeva lo spazio circostante.
Dove sono finiti tutti?
Controllai le zone conosciute del Centro di Controllo a partire dalla quella ricreativa, passai per il laboratorio dove la sera precedente lo scienziato ci aveva prelevato il sangue e infine andai verso la sala computer dove trovai i miei compagni. Erano impegnati in una conversazione di cui non conoscevo il tema, ma dato il tono aspro e non del tutto amichevole non doveva essere nulla di buono.
«Trenta minuti alla decontaminazione».
La voce metallica appartenente al computer mi fece alzare la testa velocemente, ma non fu quello a farmi scattare, quanto più l’avviso che aveva dato. La parola “decontaminazione” non mi piaceva e dopo che il massiccio portone in metallo alle mie spalle si chiuse con un rumore grave, mi piacque ancor meno.
«Che significa?» domandò Shane avanzando minaccioso verso Jenner.
«La decontaminazione si usa per rimuovere sostanze pericolose da oggetti, strutture o persone, non sono sicura però come ciò possa avvenire» risposi. «Come intendi ripulire questo posto?» chiesi a mia volta.
Lo scienziato mi guardò mostrando un velo di paura negli occhi e tentennò prim di rispondere.
«Verranno usate delle BTI» disse atono.
No.
«Apri quelle porte» ordinai con voce ferma ma intimidatoria.
«Non posso farlo, ormai è il computer a controllare la poca elettricità rimasta».
«Apri. Quelle. Porte» ripetei scandendo bene le parole.
Strinsi le mani a pugno fino a sentire le unghie scavare nei palmi delle mani, scesi le scale e camminai verso Jenner velocemente, ma prima che potessi raggiungerlo, Rick si frappose fra me e lui e mi bloccò con una mano sulla spalla.
«Sai cosa sono?» domandò l’ex sceriffo.
«Ordigni russi. La BTI corrisponde alla vostra MOAB, ma è molto più potente. Durante l’esplosione raggiunge una temperatura massima di seimila gradi, il calore sprigionato toglie tutto l’ossigeno» dissi rivolta a Jenner. «Correggimi se sbaglio».
L’uomo annuì e poi si schiarì la gola. «È il modo meno doloroso per andarsene».
Solo in quel momento capii il perché di tutti quei suoi sguardi spaesati e persi e della morte che aveva nella voce. Aveva già capito che era tutto finito, che non c’era una via d’uscita nonostante avesse lottato per trovarla. Il fallimento nel trovare una possibile cura aveva fatto in modo di fargli abbandonare quelle poche speranza che aveva.
Mi piegai su uno dei banconi e mi presi la testa tra le mani ascoltando i discorsi del gruppo ma senza prendere parte. C’erano Lori e Rick che cercavano di far ragionare Jenner per fargli aprire la porta, il quale però era inamovibile sulla sua decisione, Daryl e Shane stavano cercando di abbattere una porta in acciaio rinforzato con delle asce, Carol e Sophia stavano piangendo così come Carl, mentre il resto era silenzioso come se non osasse aggiungere altro a quella situazione drammatica, e in quel momento, io accettai la mia fine. Era comunque meglio morire, almeno non avrei più dovuto preoccuparmi delle ombre dietro qualche cespuglio, né di essere sicura di avere un coltello con me anche quando dormivo. Prima di decretare la mia fine però, dovevo fare qualcosa che dovevo a tutte quelle persone che avevano combattuto insieme a me per due mesi.
«Prima di essere uno scienziato sei un dottore, o no?» chiesi a Jenner. «Hai prestato giuramento. I dottori le salvano le vite, non le condannano. Lottano insieme ai loro pazienti se è necessario, ma non decidono per loro. C’è gente qui che vuole ancora vivere, lascia a noi questa decisione».
L’uomo mi guardò e il suo sguardo si ammorbidì. Fece passare la sua tessera magnetica su uno scanner e poi premette dei tasti che fecero sì che la porta di aprisse.
«È tutto ciò che posso fare, le altre porte non posso aprirle».
Gli sorrisi grata e mi sedetti vicino ad Andrea, la quale aveva avuto la mia stessa idea insieme a Jacqui.
«Cosa diavolo stai aspettando?».
Daryl mi trascinò verso la porta per un braccio, ma io mi scostai con un gesto brusco.
«Che il tempo scada» risposi.
Fece per afferrarmi di nuovo, ma mi allontanai.
«No! Io voglio restare qui. Perché dovrei vivere una vita del genere, sempre in fuga, sempre con la paura di venir sbranata? Voglio andarmene e tu non hai alcun diritto di decidere per me».
Senza rispondere passò l’ascia che aveva in mano a T-Dog e mi caricò sulla sua spalla come un sacco di patate.
Iniziai a scalciare e urlare per sottrarmi alla sua presa, ma lui era molto più forte di me e la sua morsa attorno il mio bacino si fece più salda quando trovai un modo per scivolare e liberarmi, ignorando le mie proteste camminò fino alla hall dove mi posò a terra senza troppe cerimonie e mi coprì con il suo corpo per proteggermi da un’esplosione che distrusse i vetri dell’atrio. Chiusi gli occhi d’istinto quando lo scoppio fece tremare il pavimento sotto di noi fino a farmi pensare che si sarebbe creata una voragine che ci avrebbe risucchiati tutti, quando li riaprii non ci pensai su un solo secondo a rotolare su un fianco, liberarmi e tentare di tornare indietro dove volevo stare. Ancora una volta però, Daryl mi trascinò fino al furgone tendendomi per una mano e mi spinse dentro, chiudendosi la portiera dietro di sé giusto in tempo per vedere ciò che era il CCM diventare un cumulo di macerie in fiamme.
Dopo l’esplosione mi ci volle un po’ di tempo per riuscire a ritornare in me e sentendo il bisogno d’aria fresca uscii dal mezzo. Non mi accorsi di stare tremano fino quando cercai di restare in piedi senza riuscirci, dovetti appendermi con forza alla portiera del furgone quando sentii le mie gambe cedere per trovare un po’ di stabilità.
Voltando la testa verso l’edificio, riuscii a vedere il fuoco bruciare tutto ciò che incontrava sul suo cammino, le fiamme avvolsero nelle sue viscere ciò che rimaneva della struttura, mentre il Centro di Controllo delle Malattie si sgretolava lentamente per trasformarsi in cenere.











 
*angolo autrice*
so di aver detto entro la scorsa settimana, ma ad essere sincera non ho trovato la voglia giusta per scrivere quello che dovevo finir di scrivere e correggere 
fino a venerdì, quindi ecco qui il ventitreesimo capitolo, imprevisti e poca voglia permettendo, sarà online anche il ventiquattresimo prima di maggio.
Il prossimo capitolo spianerà la strada per la seconda stagione che dovrei iniziare al capitolo 26/27.

Visto l’ora vi do la buonanotte e alla prossima,
 
yulen c:

 

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Capitolo 24
*** Capitolo23 ***


  
 
 
 
          Capitolo23
 
 
 
 
 
 
 
«Che si fa? Ci serve un tetto solido sotto il quale passare la notte» dissi a nessuno in particolare.
Dopo il fallimento del CDC nessuno aveva più voglia di parlare e non potevo biasimarli, ma ci serviva un piano e al più presto se volevamo sopravvivere. Gli unici che sembravano aver conservato un po’ di carattere e di spirito erano Shane, incazzato per qualche motivo che aveva a che fare con “la scelta sbagliata” o come la chiamava lui, Daryl, che era per i fatti suoi come al solito, ma che non sembrava affatto scosso dai recenti avvenimenti, e infine Rick che stava cercando un modo per trainare il gruppo e sé stesso.
«Siamo troppo vicini alla città, dovremmo tornare indietro» propose Glenn.
«No, non abbiamo benzina e non voglio rischiare mandando qualcuno a cercarla» rispose lo sceriffo risoluto.
Stava guardando la cartina della città che usavo per andare a fare scorte di cibo. C’erano dei segni rossi e blu sopra alcune aree, i primi erano i posti in cui non c’era rimasto niente o che erano troppo pericolosi, gli altri erano quelli più sicuri in cui c’era ancora qualcosa da poter razziare.
«Già, inoltre “tornare indietro” non mi piace. Sappiamo cosa abbiamo lasciato, ma non cosa ritroveremo e comunque abbiamo ripulito tutte le aree vicino al CCM prima di venire qui» dissi io. «Ormai sono punti morti anche quelli».
Presi un pennarello rosso e feci una grande croce sopra la zona del Centro di Controllo delle Malattie e dei dintorni.
«Se tornassimo alla cava?».
«Pessima idea anche quella, ce ne siamo andati da lì per un motivo» mormorai triste.
Guardai Rick sperando che almeno lui riuscisse a pensare un piano veloce e pratico, ma l’espressione indecisa sul suo volto fece morire ogni mia speranza.
«Cosa c’è qui?» chiese indicando un grande punto esclamativo.
«Una parafarmacia» risposi. «Glenn l’ha trovata in una delle nostre ricerche, ma non siamo riusciti ad entrare. Le saracinesche sono abbassate e c’è una sola porta sul retro, per forzare la serratura ci serve un piede di porco».
Continuai ad osservare la mappa sperando di trovare un luogo in cui riposare anche solo fino al mattino successivo. Il problema però era che qualsiasi casa, oppure invasi da erranti, in ogni caso erano luoghi dai quali tenersi alla larga.
Tamburellai con le dita sul cofano, spostando lo sguardo da una strada all’altra e seguendo il percorso che esse facevano fino ad arrivare alla loro meta, fu allora che l’occhio cadde su una zona segnata da una stella. I miei occhi si illuminarono e sentii una nuova speranza crescere.
«Ma certo!» chiocciai.  «Ti ricordi quando siamo stati in città per Merle e le armi e siamo capitati in quell’ospizio?» chiesi.
«Quello gestito da Guillermo» annuì Rick.
«Possiamo passare lì la notte, vedere se possono ospitarci fino la mattina e poi riprendiamo il nostro viaggio» proposi eccitata.
L’ex sceriffo abbassò il capo e raggiunse i nostri compagni per spiegare loro piano che non era proprio il migliore, ma che ci avrebbe garantito del risposo. Shane, da contestatore qual’era, sollevò delle polemiche che presto si trasformarono in una discussione piuttosto accesa. L’ex agente di polizia sosteneva che sarebbe stato meglio mettersi subito alla guida per non sprecare quella opportunità, Rick invece credeva che ci serviva almeno un giorno di riposo per recuperare le forze per affrontare un simile tragitto.
Fort Benning era a due ore di viaggio e partire immediatamente ci avrebbe fatto guadagnare terreno, ma dovevamo prepararci. Non potevamo partire e basta, ci serviva benzina, che al momento non avevamo, e dovevamo trovare e raccogliere altri tipi di provviste; tutto ciò che era in nostro possesso, tranne il borsone con le armi e le scorte mediche nel retro dell’Hummer, era rimasto al CCM.
«Benning è il miglior piano, se ci mettiamo in viaggio adesso arriviamo nel tardo pomeriggio e potremmo passare una notte tranquilla» insistette Shane.
«Non per fare la guastafeste, ma come conti di farlo? Le macchine non vanno a energia solare. Senza contare che non abbiamo né cibo né acqua» ribattei.
«Spilliamo la benzina da gli altri serbatoi, teniamo solo il camper, il Cherokee di Carol e Daryl userà la moto» suggerì Rick. «Avremo abbastanza carburante per arrivare alla casa di cura, da lì qualcuno andrà in città a cercarne altro».
«Chiedo a Glenn se vuole venire con me. Conosciamo il posto, torneremo ancora prima che abbiate il tempo di preoccuparvi».
«Ma state attenti».
Sorrisi e tornai verso l’Hummer per scaricare i miei averi e metterli sul camper con il quale d’ora in avanti avrei viaggiato. Appena salita percepii che il silenzio che aleggiava era ancora più pesante di quello dopo la notte alla cava, vedevo Andrea lanciare sguardi carichi d’astio verso Dale ed io la capivo perché stavo passando la stessa cosa a causa di Daryl. Volevo andarmene senza dolore e quella scappatoia mi era stata portata via, non era compito suo tenermi in vita, se volevo rimanere lì era perché non volevo essere salvata e ora mi ritrovavo costretta a vivere contro la mia volontà. Avrei potuto sì trovare un modo alternativo per far finire tutto, dopo esserci fermati presi la mia pistola e la portai all’altezza della mia testa, eppure non riuscii a togliere la sicura e premere il grilletto. Avevo paura di porre fine alla mia stessa vita e volevo che ci fosse un metodo alternativo per andarmene che non prevedesse la piena coscienza dell’atto; se fossi restata al CCM avrei dovuto solo sedermi da qualche parte e aspettare, ma se avessi deciso di spararmi, gettarmi in pasto a qualche vagante, impiccarmi o gettarmi da qualche dirupo, avrei dovuto volerlo fare, ed io non volevo prendere una simile decisione. Da una parte gli ero grata per aver deciso di trascinarmi via perché dopo una lunga serie di riflessioni e ripensamenti capii che la mia era solo paura e che farmi saltare in aria era il modo più semplice per metterla a tacere, ma l’altro mio lato non riusciva a ancora a digerire il suo comportamento.
Quando arrivammo alla casa di riposo, la mia espressione di felicità sul viso sparì dopo aver visto il cortile invaso da zombie che si stavano cibando di alcuni corpi. Eliminammo i vaganti velocemente ed entrammo per assicurarci che le persone che occupavano quel posto fossero vive, ma una volta dentro ciò che vedemmo furono cadaveri giacere sotto pozze di sangue. Pure il garage e le altre stanze erano nelle medesime condizioni, il ripostiglio era stato saccheggiato così come gli armadi ormai vuoti.
«Sono stati sopraffatti dai nonmorti» disse Andrea guadando un corpo.

«Pfft» sbottò Daryl. Si chinò per girare la testa di una delle vittime e indicò il foro di proiettile che aveva sulla fronte.
«Gli zombie non si sono fatti vedere finché qui non è rimasto nessuno a proteggere questo posto. Chiunque sia stato a fare ciò è venuto qua, ha preso ciò che voleva e li ha uccisi. Hanno tutti un proiettile in testa, come se fossero stati giustiziati».
Si alzò e ci guardò uno ad uno soffermandosi infine su Andrea.
«Siete preoccupati per gli zombie? Io mi spaventerei più per chi ha fatto questo1».
Mi avvicinai a Rick per avvertirlo che andavo in città con Glenn come pianificato, ma lo sceriffo dopo aver visto com’era ridotto quel posto sembrò essere restio a lasciarci andare temendo che incappassimo in qualcuno di poco amichevole.
«Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Andiamo io e Glenn perché lavoriamo bene insieme, sappiamo badare a noi stessi e ci copriamo le spalle a vicenda».
«Se qualcosa risulta troppo difficile o pericoloso tornate indietro» disse.
Annuì per fargli capire che non mi sarei spinta così oltre ed uscimmo prendendo le nostre armi da difesa, due borsoni vuoti, il piede di porco e la cartina.
La prima tappa fu la parafarmacia. Forzai la serratura ed aprii la porta quel tanto che bastò per farmi dare un’occhiata dentro senza entrarci. Nell’oscurità non vidi nulla di pericoloso, ma non fidandomi solo della mia vista battei sul montante un paio di volte per far uscire allo scoperto i vaganti che, come pensato, non ci misero molto a farsi sentire.
«Ci penso io» dissi rivolta a Glenn. «Tu aspetta qui».
Impugnando il coltello entrai e vidi due cassieri in camice bianco avanzare verso me, ma non mi spaventai. Camminai nella loro direzione spingendone uno che cadde e accoltellai l’altro alla base della nuca, dopo essermi occupata di quello, uccisi anche l’altro che nel frattempo si era rialzato e stava tornando verso di me ringhiando e mostrando i denti tutti rotti e sporchi. Chiamai il mio amico e iniziai a riempire la mia sacca, in poco tempo controllammo tutti gli scaffali e gli espositori, prendendo ciò che ci serviva e uscendo velocemente di lì. C’erano ancora tanti posti da controllare prima che facesse mezzogiorno e arrivasse l’ora di pranzo.
Guardai la mappa per vedere cosa ci fosse nei paraggi a parte gli uffici e trovai un piccolo ristorante vicino ad un parcheggio a pochi isolati da noi. Sentivo che quel posto era già stato saccheggiato, ma valeva la pena dare un’occhiata.
Ci impiegammo circa mezz’ora a raggiungere la nostra meta e mi ci volle molto meno tempo per rendermi conto che se fossimo entrati non avremmo trovato nulla se non la morte certa. Dai vetri riuscii a vedere una ventina di zombie sostare nel bel mezzo del nulla tra tavoli e sedie come se stessero aspettando qualcosa. Anche se era pericoloso, non mi mossi quando vidi che la porta era stata chiusa dall’esterno e che quindi la cucina e il ripostiglio forse erano ancora intatti.
«Vuoi andare lì?» chiese il mio amico esterrefatto.
«Certo che no, ma non possiamo tornare dal gruppo a mani vuote» risposi.
Mi privai della borsa che avevo sulla spalla e lasciai a terra anche il fucile, decidendo che il coltello e la pistola fossero molto più pratici.
Glenn mi afferrò per una mano e scosse la testa per dirmi di non farlo, i suoi occhi a mandorla erano colmi di preoccupazione e sapevo anche io che una simile azione era avventata e rischiosa, ma i nostri amici ci aspettavano e io non volevo deluderli.
«Toccata e fuga, voglio solo vedere» dissi.
Anche se non molto convinto, mi lasciò andare mentre lui decise di nascondersi dietro una macchina e consultare la cartina.
Corsi velocemente verso il retro del ristorante e controllai prima la porta usata dal personale e poi quella di emergenza, ma anch’esse erano ben chiuse. Se fossi riuscita ad attirarli altrove, magari, avrei avuto qualche possibilità di farcela, ma non riuscii a pensare a nulla al momento. Desolata per non aver trovato un modo per entrare, tornai da Glenn.
«Nulla?» domandò quando mi vide tornare.
«Niente» confermai.
«Ho trovato una zona residenziale, è più alla portata delle nostre capacità» propose.
Guardai il punto che mi aveva indicato e storsi il naso all’idea di entrare in un’ex zona abitata, ma se il piano del ristorante era andato in fumo, ce ne serviva un altro di emergenza.
 
 
 
Dopo aver raggiunto la meta che ci eravamo designati, sostammo a debita distanza per studiare la zona che sembrava tranquilla. C’erano alcuni erranti, ma erano troppo impegnati a mangiare per accorgersi che eravamo nelle vicinanze.
Le case erano tutte su un piano unico - tranne per il seminterrato - e sembravano in buone condizioni, non c’era una sola porta o finestra rotta ed erano tutte poste in modo circolare. Una strada principale permetteva l’accesso alle abitazioni mentre un viottolo di ghiaia sul retro indicava la via per passare dai garage.
«Iniziamo da quella più vicina a noi e le passiamo in rassegna tutte» suggerii. «Una a ciascuno e saremo di ritorno prima di quanto possiamo immaginare».
Glenn annuì e dopo andammo per vie separate. Entrai nella prima casa usando la porta davanti che forzai senza fare troppo rumore, mossi qualche passo nel buio accendendo successivamente la torcia.
L’ingresso e la sala, come il resto, non sembravano in cattive condizioni, solo la polvere si era depositata sui mobili creando in alcuni punti una coperta grigiastra, sui tavoli c’erano tazze e piatti ormai sporchi e incrostati lasciati lì da chi aveva abbandonato in fretta e furia quel posto. Cominciai a cercare cibo dalla cucina, ma negli armadietti non vidi nulla di commestibile, passai in seguito alla dispensa dove trovai solo delle bottiglie di succo di frutta all’arancia e alcune scatole di cereali insieme a dei barattoli di ceci. Controllando le altre abitazioni fui un po’ più fortunata, ma lo stesso non posso dire di una giovane coppia che trovai intrappolata nella camera da letto. A giudicare dallo stato di decomposizione della loro pelle dovevano essere lì da più settimane, quasi un mese anche se fu impossibile stabilire chi fosse stato morso per primo. Dopo aver ucciso i due vaganti e aver preso del sapone dal bagno della camera, scesi nello scantinato tenendo le mani sul corrimano per non cadere e rompermi qualche osso, i gradini erano piccoli e stretti e solo con la luce della torcia a illuminare non vedevo bene dove mettevo i piedi.
Sull’ultimo scalino inciampai e finii sul pavimento insieme al borsone che conteneva il cibo trovato. Mi lamentai toccandomi una coscia e mi rialzai per assicurarmi di essere ancora tutta intera, ma un dolore acuto alla caviglia mi fece sedere immediatamente.
Ci mancava solo questa!
Raccolsi ciò che era uscito dalla sacca durante la caduta e provai ad alzarmi di nuovo senza appoggiare troppo peso sulla gamba ferita, dopo essere riuscita a trovare una stabilità che mi permettesse di camminare, voltai le spalle a quella stanza buia e feci il primo scalino. Fu proprio in quel momento che sentii il suono di oggetti cadere e venire spostati a giungere alle mie orecchie, si aggiunsero poi anche quello dei passi che rimbombarono nell’ambiente spoglio, e presa dalla paura cercai di fare le scale il più velocemente possibile. La caviglia dolorante però non mi facilitò il lavoro e sapendo che non sarei mai riuscita a raggiungere la porta in tempo, presi la pistola e la puntai contro una figura che sostava infondo alla scalinata.
La torcia che mi era caduta in precedenza e che si trovava sopra uno scalino riuscì a illuminare quel poco la sagoma di una persona dalla pelle scura.
«Kate?».
 



1=questo è un pezzo che ho modificato da una scena di inizio seconda stagione che è stata tagliata. È in inglese, ma se vi interessa la potete trovare qui.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ciao! Come avevo detto ecco qui l’ultimo capitolo del "mese" (ho sforato di dodici minuti, ma, ehi, intanto sono riuscita a pubblicare).
Non ne sono sicura ma d’ora in avanti dovrei pubblicarne due al mese, tutto dipende dal tempo a mia disposizione.
Quindi, per ora è tutto e alla prossima,
 
yulen c:

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Capitolo 25
*** Capitolo24 ***


 
 
 
 
Capitolo24
 
 
 
 
 
 
 
Il cuore mancò di alcuni battiti quando riconobbi quella voce.
«Kim!» dissi sorpresa.
In poco mi sentii venir avvolta in un abbraccio caloroso che ricambiai. La strinsi a mia volta, lasciando che alcune lacrime di felicità solcassero le mia guance.
«Pensavo fossi morta, ho sentito dei bombardamenti sulla città» singhiozzai.
La scostai appena per guardarla meglio ed assicurarmi che fosse davvero lei e dopo aver visto i suoi occhi neri, velati da lacrime di felicità, la strinsi nuovamente.
«Anche io lo pensavo. Ti ho chiamata mille volte, ma non hai mai risposto». Nel suo tono c’era una nota di rimprovero, ma sapevo che si era solo preoccupata per me.
«Devi assolutamente raccontarmi tutto» disse con enfasi esagerata.
Annuii e mi asciugai le lacrime senza smettere di sorridere però.
«Ma non qui. Devo tornare indietro prima che le persone del gruppo di cui faccio parte inizino a preoccuparsi, e devo vedere che fine ha fatto Glenn» dissi.
«Chi è Glenn adesso?» domandò confusa.
«Un mio amico, anche lui fa parte del gruppo».
Mi aiutò ad alzarmi e raccogliemmo le nostre cose. Kim non aveva molto con sé, uno zaino con due bottiglie d’acqua e una scatoletta di sardine era tutto ciò che era in suo possesso. Mi sorpresi di come fosse riuscita a resistere per due mesi lì sotto, mi spiegò poi che di tanto in tanto anche lei andava in città anche se la cosa non le piaceva e che i primi tempi era rimasta sempre nella zona in cui abitava, saltando di casa in casa. Il cibo però aveva iniziato a scarseggiare e quindi era costretta a spostarsi.
Trovai Glenn nell’ultima casa e quando mi vide avanzare verso di lui in modo claudicante, camminò a passo svelto per raggiungermi.
«Che ti è successo?» domandò preoccupato.
«Una storta, sono caduta da alcuni scalini» risposi.
Solo dopo essersi accertato che stessi bene si accorse che non ero sola e quando posò gli occhi su Kim, si irrigidì leggermente.
«È una mia vecchia conoscenza, puoi fidarti» dissi vedendo che si era messo sulla difensiva.
Si rilassò abbassando le spalle e si presentò alla mia amica, poi prese il mio borsone che caricò sull’altra spalla, ci voltammo e tornammo indietro. A causa del mio piede ci impiegammo molto di più dell’andata, ogni volta che poggiavo il tallone a terra era come se mille spilli si conficcassero nella caviglia, Kim mi sosteneva, ma faceva comunque molto male e quando vidi le mura della casa di riposo farsi sempre più chiare, strinsi i denti e percorsi quegli ultimi metri.
Quando facemmo il nostro ingresso nella stanza in cui ci eravamo sistemati, diversi occhi curiosi si posarono prima su di me che mi stavo reggendo al montante della porta, poi su Glenn che aveva appena lasciato a terra le sacche con le provviste e infine su Kim. Prima che potessero volare proiettili o che l’atmosfera si facesse troppo ostile, rassicurai tutti i presenti che lei non era una minaccia, e anche se non sembrarono molto convinti le permisero passare, lasciandola accomodare. Ovviamente nessuno si risparmiò occhiatacce, ma Kim sembrò non curarsene.
Mi sedetti contro la parete e presi del ghiaccio, trovato nella parafarmacia, posandolo sul collo del piede che si era visibilmente gonfiato.
«Che ti è successo?» domandò Dale preoccupato.
«È solo una slogatura, devo stare più attenta a dove metto i piedi» risposi, poi guardai Rick. «Abbiamo trovato un posto da controllare prima di partire domani. Si tratta di un ristorante, parcheggiate ci sono anche abbastanza macchine da poter prendere quanta benzina ci serve. C’è un problema però».
«L’interno è invaso dai vaganti, non c’è modo di entrare senza rischiare la pelle, quindi bisogna farli uscire uno, massimo due alla volta ed eliminarli» disse Glenn.
L’ex sceriffo annuì e chiamò a se Shane e T-Dog per organizzarsi per la giornata successiva e chiedere loro di controllare il locale.
«Posso accompagnarvi» mi offrii quando chiesero di segnare il posto sulla cartina.
«Andrò io» replicò l’asiatico. «Tu non sei nelle condizioni di fare simili sforzi».
Anche se non volevo essere lasciata indietro perché pensavano che non fossi forte abbastanza, non mi ribellai. Da una parte ero sollevata che non dovessi camminare di nuovo così tanto e mettere a repentaglio la vita dei miei compagni.
Dopo aver pranzato presi un fucile e mi diressi verso un terrazzino per fare la guardia, anche se quella era più una scusa per restare sola con Kim.
«Vieni con me?» domandai alla mia amica. Avevo bisogno di un consiglio e lei era l’unica che mi conosceva abbastanza bene da potermi dare dei suggerimenti. Kim annuì e mi seguì fuori chiudendo bene la porta alle sue spalle, poi mi guardò aspettando che iniziassi a raccontarle le mie vicissitudini.
Cominciai dai primi giorni dopo il contagio che scatenarono il panico generale, le dissi della morte di mio padre, di come avessi temuto anche per lei e di essere passata a casa di Daryl trovandola abbandonata, ritrovandolo poi nel mio viaggio verso Atlanta. Le raccontai del litigio, del bacio e di tutto quello che ne era susseguito, dell’accampamento fuori la città dove avevo trovato nuove amicizie e pure Merle, del secondo bacio dopo il nostro diverbio e le spiegai brevemente che cosa ci facessimo ad Atlanta e perché ci trovassimo lì in zona.
Non si scompose più di tanto quando venne a sapere che Merle si era messo nei guai a causa della droga e rispose con un “che gli venisse pure il cancro”, cosa che non mi sorprese. Non era in buoni rapporti con lui e ogni volta che si vedevano iniziavano a insultarsi a vicenda. Si sorprese invece quando le dissi dello scienziato e delle scoperte che avevo fatto al CCM come se non riuscisse a credere che per noi fosse tutto finito e che non c’era più speranza.
Quando terminai di raccontarle cosa avessi fatto nei due mesi passati, lei rimase in silenzio per qualche secondo. Poi sospirò e mi guardò.
«Quindi tu hai baciato Daryl» chiese, anche se suonò più come un’affermazione.
Annuii abbassando lo sguardo mentre le guance si imporporarono.
«Due volte, e siete quasi finiti a letto insieme» continuò con un sopraciglio alzato.
«Tecnicamente il primo non è stato un vero bacio» borbottai.
Mi diede un’occhiataccia che servì ad ammonirmi, ma io risposi con una scrollata di spalle e tornai a guardarla.
«Sai vero che questo porterà solo guai?».
«Che avrei dovuto fare? Ero arrabbiata con lui…».
Non mi diede nemmeno tempo di finire la frase che subito si intromise nel discorso che stavo facendo.
«E tu quando sei arrabbiata baci le persone? Spero di non farti mai incazzare».
«Sì… cioè, no!» sbottai. «Kim!!».
Mi guardò aspettando che mi calmassi e si attorcigliò una ciocca dei suoi capelli crespi attorno al dito con fare innocente, osservandomi con quei suoi occhi neri e profondi.
C’era una cosa sola che odiavo di lei, ed era il fatto che non finiva mai di farmi parlare, doveva sempre interrompere qualsiasi cosa io stessi dicendo per farmi sapere che cosa ne pesasse lei.
«E con Merle come la metti?» chiese quando vide che non le prestavo più attenzione.
«Non ha mai significato nulla per me, lo sai» risposi.
«Non è a me che devi dirlo».
«Posso finire di parlare?».
Ad un suo cenno di assenso ripresi il discorso da dove lo aveva interrotto.
«Prima che tu mi interrompessi stavo dicendo che il primo non è stato un vero bacio, il secondo d’altro canto… ero arrabbiata sì, e lo sai che non so gestire i miei umori. Ho solo preso una decisione sul momento».
«Devi dirlo a Daryl, Kate e subito».
«Stavo per farlo quando eravamo al CCM. Non ero lucida e volevo approfittarne di quel momento, ma non ci sono riuscita. L’edificio stava per saltare in aria e dovevamo andarcene».
Mi abbracciò, massaggiandomi la schiena e anche io avvolsi il suo collo con le mie braccia.
«Sei un disastro, lo sai?» chiese ridendo.
Sbottai in una mezza risata anche io, lei in qualche modo riusciva sempre a tirarmi su il morale anche quando volevo solo rinchiudermi da qualche parte e piangere fino allo sfinimento. Kim era una di quelle persone che quando facevo qualche idiozia non mi faceva la predica, molte volte ci mettevamo nei guai insieme e ridavamo pure quando dovevamo affrontare le conseguenze.
Era un po’ come la mia ombra, sin da quando eravamo bambine stavamo sempre insieme e l’una faceva quello che faceva l’altra, ci divertivamo anche a fare i dispetti alle persone, a rincorrere i cani e a cercare di prendere la cavallette.
Quando una di noi due aveva la febbre, l’altra era sempre a fianco del letto con le manine sul materasso e il mento appoggiato sui palmi. Anche a scuola eravamo inseparabili e quando alcuni bambini ci infastidivano, noi ci difendevamo a vicenda. Non mancavano di certo i litigi, ma alla fine tornavamo sempre indietro pronte a scusarci, pur sapendo che alla prima occasione avremmo ripreso con i battibecchi.
«Io vado a familiarizzare con la combriccola di disperati» disse. «Se hai bisogno di me fammi un fischio».
Si alzò dandomi una pacca sulla spalla e quando mi voltai verso di lei per ringraziarla di avermi ascoltata, non fu Kim la persona che mi guardò con odio e risentimento.
Daryl se ne stava lì in piedi con le mani strette a pugno e le nocche diventate ormai bianche. La rabbia era impressa sul suo volto e dovetti abbassare lo sguardo per la prima volta davvero spaventata da una delle sue reazioni, rimasi sorpresa invece quando si girò per rientrare dentro l'edificio. Fece sbattere la porta alle spalle e il suono prodotto fu uguale a quello che sentii quando sembrò che il cielo mi fosse crollato addosso.
Merda!
Repressi la voglia di piangere e guardai la mia amica che mi stava restituendo lo stesso sguardo con compassione.
«Non te l'ho mai chiesto e probabilmente avrei dovuto farlo, ma perché Merle?» chiese.
«Lo so che è stata una stronzata, e prima d'ora non me n’ero mai pentita. Non so a cosa stavo pensando, avrei voluto che fosse stato Daryl, ma lui preferiva stare con ragazze che erano un sacco di cose che io non sono mai stata. Le hai viste anche tu Kim, loro erano perfette sotto ogni punto di vista, ma a Merle non è mai importato e sai che sono fratelli. Non lo so, era l’unico modo per averlo vicino».
«Dovresti parlargli» suggerì.
Scossi la testa e tirai su con il naso. Non sarebbe servito a nulla, doveva trovare il modo per sbollire la rabbia per conto proprio, ronzargli attorno come api sul miele lo avrebbe solo infastidito ulteriormente.
«Se aspetti rischierai di spingerlo ancora più lontano» disse.
«Non può andare peggio di così» mormorai sperando di non farmi sentire.
Sospirò e scosse la testa consigliandomi di andare a dormire, poi anche lei sparì dietro la porta.
Invece di seguire il suo suggerimento restai di guardia tutta la notte seduta su una finestra che dava a un piccolo terrazzino.
Nessuno riuscì a dissuadermi per farmi andare a dormire, nemmeno T-Dog o Dale che si dettero il cambio e cercarono in tutti i modi di farmi alzare, dicendo che ci avrebbero pensato loro. Ero stanca morta, questo non lo nego, eppure non la trovai una buona ragione per scendere da lì e recuperare qualche ora di sonno.
C’era questo turbine di emozioni contrastanti dentro di me che non sembravano disposti a lasciarmi in pace. C’erano la gioia di quei baci inaspettati ma pur sempre desiderati e il pentimento per essermi lasciata trasportare da sentimenti che avrei dovuto dominare, c'era il dolore per il fatto che Daryl fosse venuto a sapere qualcosa che avrei voluto portarmi nella tomba e la profonda delusione verso il suo comportamento. Avrei preferito mille volte che mi urlasse in faccia, che mi dicesse tutte le cose che gli passavano per la testa, che fossero belle o brutte, ma non che se ne andasse via come se non gli fosse importato nulla, c’era una rabbia troppo debole per prevalere sull’amore che ancora controllava completamente le mie azioni e c’era una piccola fiammella che simboleggiava la mia speranza che però andava via, via scemando sempre di più.
Quando il sole sorse in un cielo ferito da un nero che aveva iniziato a dissolversi in varie sfumature, mi alzai anche io senza bene sapere cosa fare quel giorno.
Sapevo solo che saremmo partiti alla volta di un rifugio nuovo e apparentemente sicuro che però, ne ero certa, non ci avrebbe dato salvezza alcuna. Era troppo utopistico e irreale per me credere che avremmo trovato protezione. Io, quella che vedeva il lato buono ovunque, avevo iniziato a vedere quella metà del bicchiere né mezzo pieno, né mezzo vuoto, ma solo un recipiente con del liquido dentro che avrebbe potuto farmi annegare nell'incertezza se non mi fossi aggrappata con tutte le mie forze sull'orlo.
Dopo una colazione veloce, Glenn, T-Dog e Shane partirono per il ristorante mentre quelli rimasti indietro raggrupparono tutti gli averi per disporli nei vari mezzi. Io invece, aiutata da Kim, razziai qualsiasi cosa fosse rimasta per stiparla nel camper. Non parlammo molto, erano tutti concentrati su ciò che stavano facendo, eppure c’era qualcosa che mi disturbava e che non mi permetteva di focalizzarmi sulle mie azioni.
Volevo smettere di pensare al giorno precedente, ma mi risultava piuttosto difficile. Avevo lasciato una questione aperta e io non sopportavo lasciare le cose a metà, quindi racimolai quel po’ di coraggio che mi era rimasto e andai da Daryl per chiare ciò che era successo. Avremmo dovuto condividere gli stessi spazi e non volevo che ci fossero tensioni.
Deglutii per eliminare il nodo che si era formato e mi schiarii la gola.
«Posso parlarti?» chiesi.
Né rispose né alzò il capo per guardarmi, continuò a lavorare sul mezzo come se non fossi lì, poi prima che potessi fare un'altra domanda lui parlò.
«Ho da fare».
Ovviamente.
«Per questo ti ho chiesto se posso parlare io, tu devi solo ascoltare».
Altro istante di silenzio che non solo aumentò la mia ansia, ma che instillò anche dell'insicurezza.
«So che ora sei arrabbiato e ne hai tutti i diritti, ma è acqua passata. È successo e non c'è modo per pretendere che non sia mai accaduto».
«Quante volte?» chiese. La sua voce acquisì un tono duro.
Abbassai il capo e mi morsi il labbro in cerca di una bugia che non trovai.
«Non le ricordo» risposi. «Abbiamo smesso quando è stato arrestato».
Continuò a guardarmi, ma io mantenni lo sguardo basso. Sapevo che quell’intera faccenda non si sarebbe sistemata con poco e desiderai di poter essere forte la metà di lui per affrontare tutto con indifferenza e freddezza senza versare nemmeno una lacrima.
«Quindi tutta quella storia sul fatto che mi ami era una stronzata. Quando Merle è sparito e non c’era nessuno a cui chiedere di scoparti hai pensato di venire da me».
Si alzò in piedi e rimase fermo davanti a me il suo corpo mi faceva ombra dal sole mattutino.
«Ehi! Non è vero. Sei stato tu a bussare alla mia porta quella notte. Quello che…» feci una pausa e sospirai. «Mi dispiace, ma non credere che per me sia stato facile».
«Oh, io invece credo di sì. Hai solo dovuto aprire le gambe, non è vero?».
Spalancai gli occhi e lo guardai ferita, ma decisi di non abbassare il capo come sempre avevo fatto.
«Aspetta un attimo! Tu non hai nessun diritto per giudicarmi. Perché non parliamo di te, mh? Che mi dici delle tue compagne? Ne avevi una nuova ogni sera, almeno conoscevi i loro nomi?».
Alzò la mano per intimarmi di stare zitta e feci un altro passo indietro.
«Non pensavo che fossi una puttana del genere».
Restai ferma davanti a lui a guardare il nulla, in bilico tra il bisogno di scappare e quello di piangere.
«Non ci provare nemmeno, sai?!» urlai. «Se c’è una puttana qui quella sei tu. Quanto meno io avevo un partner fisso al contrario tuo. Quelle stronze non hanno mai avuto rispetto per te, ma le hai sempre preferite. Come pensi che mi sia sentita? Non te ne faccio una colpa, ma non puoi venirmi a rimproverare per aver fatto le tue stesse scelte».
«Le mie scelte» sbottò derisorio. «Le mie scelte le ho fatte perché non c’era nessuno».
«Io sì, Daryl. Ero sempre lì, pronta a risanare le ferite che non ti sei mai importato di curare. Le hai lasciate sanguinare, fregandotene del dolore che ti procuravano e ogni volta ero io quella che raccoglieva i tuoi cocci, mi sono anche tagliata più di una volta ma non ho mai smesso di farlo».
«Non te l’ho chiesto!».
«Non dovevi! L’ho fatto perché sapevo che avrei alleviato le tue sofferenze».
Mi sentii improvvisamente senza fiato, come se avessi corso per ore senza fermarmi, non riuscivo nemmeno a respirare per quanto scossa ero.
«Perché?» chiese.
«È la stessa domanda che potrei farti io. Perché loro e non io? Voglio dire, cosa avevano in più di me a parte le tette finte ma perfette sempre in mostra e il fisico da supermodelle?».
«Non ero capace di amare. Non lo sono. A loro non dovevo dare nulla» disse.
«Nemmeno a me dovevi qualcosa se non la tua presenza. A me bastava quella» risposi. Strizzai più volte gli occhi per non far scendere le lacrime e continuai. «Io ho sbagliato, lo so, ma credi di essere tanto migliore tu?».
Quella volta fui io ad allontanarmi e non lo feci perché pretesi di avere ragione, sapevo che la colpa era tutta mia, me ne andai per non fargli vedere quanto sconfitta fossi e di come le lacrime stessero scendendo lungo le mie gote per poi intrufolarsi nella fessura tra le mie labbra. Leccai via il sapore salato e mi asciugai gli occhi con il dorso della mano.
Raggiunsi il camper ed entrai accompagnando la porta per non attirare l'attenzione degli altri.  Kim sembrò l'unica a notare il mio viso pallido e le guance arrossate, mi guardò in modo interrogativo e io liquidai l'intera faccenda con una scrollata di spalle e un gesto circolare del dito per farle capire che gliene avrei parlato dopo.
Rimasi seduta in un angolino fino quando il gruppetto che era andato al ristorante tornò e una volta che salì a bordo, partimmo. Ci aspettava un lungo viaggio, ma entro sera saremmo arrivati se avessimo continuato a viaggiare senza soste, ed era questo il nostro obiettivo: giungere a destinazione il prima possibile, trovare ognuno la propria stanza, fare una doccia – magari calda – mangiare qualcosa e dormire in totale sicurezza.
Se me lo avessero chiesto comunque, avrei scartato l’idea di raggiungere la base militare. Se il Campo Rifugiati era crollato sotto il controllo dei non morti e il CCM si era rivelato un buco nell’acqua con un solo uomo dentro e nessuno di sorveglianza attorno le mura, non avevo molte speranze di trovare un centro di comando ancora funzionante. La mia opinione però non era stata chiesta e visto che non ero in vena di sollevare altri dibattiti inutili preferii tenere il becco chiuso o avrei proposto di trovare qualche scuola privata con delle recinzioni abbastanza forti da non doverci preoccupare di venir accerchiati. Avremmo dovuto di certo ripulirla, ma almeno era un piano con delle basi più solide.
Mi accasciai completamente su uno dei sedili liberi con l’intento di fare un riposino dato che il viaggio sarebbe durato più di un’ora sicuro e non c’era molto altro da fare a parte sentire il rumore della moto che apriva la fila e che all’improvviso trovai irritante. Stavamo cercando di non dare nell’occhio e Daryl guidava quella cosa che faceva un casino infernale udibile a miglia di distanza.
Procedemmo su una strada sgombera per un po’, il movimento stazionario del mezzo per me era come una grande culla che veniva dondolata per far addormentare il bambino all’ interno, ma anche quella tregua fu destinata a non durare molto, perché appena l’autostrada iniziò ad essere costeggiata da ambo i lati da una fitta boscaglia, di fronte a noi si materializzò un grande ingorgo causato da auto abbandonate che rendevano l’accesso impossibile. Dale cercò di insinuarsi lo stesso in quell’intoppo, sperando di passarci, ma non appena fui sul punto di dirgli che era matematicamente impossibile passarci, dal cofano si alzò un nuvolone bianco, seguito da un rumore metallico e dalla conseguente fermata del convoglio.
Ti pareva!
Mentre tutti gli altri scesero, io decisi di restare lì dentro seduta. Allungai le braccia sul tavolo e ci nascosi la testa, sperando così di poter sparire completamente.
«Coraggio, vieni fuori anche tu» disse Kim dandomi un leggero schiaffetto al gomito.
Mugugnai qualcosa e cercai di scacciarla via restituendole il colpo, mancandola e battendo invece il taglio della mano contro lo spigolo del tavolino.
«Accidenti!» sbottai alzando di scatto la testa.
Strofinai la parte offesa e guardai in truce la mia amica che stava ancora in piedi ridendo beata e portandosi una mano alla bocca.
«Stronza».
Kim ghignò divertita e anche io sorrisi debolmente.
«Forza, ti farà bene un po’ d’aria» m spronò.
Presi il mio zaino e uscii seguita da lei che si diresse verso un pick-up per vedere cosa valesse la pena prendere.
Controllai le auto lì vicine, ma non fui molto fortunata. Quelle macchine erano lì da tempo e chiunque fosse passato prima di noi aveva già fatto piazza pulita lasciando solo scheletri di metallo. Qualsiasi speranza nel trovare anche solo un paio di mutande nuove era riposta nel cuore di quell’ostruzione e l’idea non mi solleticava particolarmente.
Aprii il bagagliaio di una Berlina e una scatola di Kleenex cadde ai miei piedi, mi chinai per raccoglierla, ma all’improvviso un’ombra passò alle mie spalle e prima che potessi reagire, qualcuno mi spinse a terra e mi trascinò sotto un’auto, lo zaino mi cadde dalle spalle, ma riuscii ad avvicinarlo a me.
Voltai il capo verso sinistra e vidi Rick infilarsi sotto la stessa macchina in cui ero io, aprii appena la bocca per chiedergli cosa gli fosse preso, ma mi intimò di fare silenzio portandosi un dito alle labbra e indicando un punto tra le altre macchine.
Seguii la traiettoria con lo sguardo e lentamente prima un paio, poi due, tre paia di piedi che si trascinavano fecero la loro comparsa fino a diventare così numerosi che persi il conto.
Oh, Gesù!
Un’orda di zombie stava marciando lentamente, per il momento ignari della nostra presenza. I loro versi presto diventarono più distinti e per non urlare mi portai una mano alla bocca, premendo il palmo con forza contro le labbra.
Chiusi gli occhi e pregai che quella mandria passasse in fretta o per noi sarebbe finita male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

*angolo autrice*
Ciao ragazzuoli (o ragazzuole)
Ecco il primo capitolo del mese. Sì, lo so che ormai maggio è finito e che avrei dovuto spicciarmi prima, ma ho avuto dei contrattempi con un evento
che stanno organizzando nel mio paese e quindi ho riscontrato dei rallentamenti sui miei scritto.
Non preoccupatevi comunque perché il venticinquesimo capitolo è pronto, devo solo finire gli ultimi paragrafi.
Sabato e domenica non riuscirò a pubblicarlo, ma conto di farlo entro il 31, quindi noi ci sentiamo prossimamente.
Io come al sempre vi saluto, ringrazio tutti quelli che leggono e che recensiscono. Siete tutti bellissimi :3
Io vi saluto e a presto,
 
yulen c:

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Capitolo 26
*** Capitolo25 ***


 



 
Capitolo25
 
 
 
 
 
 
 

Ma quanti sono?
Era questa l’unica domanda che continuava a ronzarmi in testa man mano che i morti si avvicinavano e ci sorpassavano, completamente ignari della nostra presenza.
Mi guardai attorno alla ricerca dei miei compagni e mi sentii più sollevata quando vidi Shane e Glenn nascosti sotto un camion, Lori e Carol sotto una macchina e Sophia e Carl sotto un’altra auto a pochi metri da noi. Non c’era traccia di Kim, Andrea, T-Dog o Daryl e pregai che anche loro avessero trovato un nascondiglio.
Quella mattina sentivo che c’era qualcosa che non mi piaceva, che fosse una mera sensazione o intuito femminile, qualcosa nell’aria puzzava di guai; quando il camper si fermò pensai subito che fosse quello il problema, ma non avevo ancora fatto i conti con quell’orda che avanzava lenta tra noi.
Dopo minuti di angosciante attesa passati con il cuore in gola e il sudore che colava lungo fronte e collo, un urlo acuto e disperato mi fece saltare dallo spavento, picchiando la testa contro il telaio.
Mi voltai e vidi la piccola Sophia fuggire verso il bosco inseguita da due nonmorti, guardai Rick che annuì e uscimmo dal nostro nascondiglio improvvisato per inseguirla.
Con la caviglia dolorante cercai di correre nel limite delle mie possibilità, e dopo ciò che a me parve un eternità dovetti fermarmi. Le mie gambe iniziavano a diventare dure, i polmoni sembravano essere rimasti a corto d’ossigeno e l’articolazione pulsava violentemente.
Mi posai contro un tronco piegandomi per riprendere fiato ma soprattutto per avere un appiglio al quale aggrapparmi quando sentii le gambe diventare instabili. Con una resistenza fisica pari allo zero avrei dovuto aspettarmi di fare poca strada, ma lì per lì non ho pensato a quanto avrei potuto correre prima di dovermi fermare. C’era una bambina inseguita da due zombie e dovevo agire.
Rick, davanti a me di qualche metro, mi richiamò quando vide che non ero più affianco a lui e tornò indietro. Rimase ad osservare il mio naso per alcuni secondi e quando sentii un cattivo sapore metallico finire sulle mie labbra capii cosa avesse attirato la sua attenzione.
«Non è nulla, mi accade quando fa caldo e mi sforzo» lo rassicurai pulendomi con il dorso della mano. «Tu va avanti, io rimango nei paraggi nel caso dovesse tornare indietro».
Annuì e si allontanò da me, ma non prima di essere certo che stessi bene.
L’odore di sangue fresco avrebbe richiamato i non morti, per questo controllai velocemente la zona a me circostante. Finire sul loro menù era qualcosa che non avevo pianificato quel giorno.
Maledizione!
Pensai quando non trovai la minima traccia del passaggio di Sophia. In un momento come quello, un esperto come Daryl era la mia unica possibilità di ritrovare la bambina, perciò seguii la strada fatta per arrivare fino lì per tornare sull’autostrada. Come voltai le spalle però un cespuglio alle mie spalle si mosse frusciando, molto velocemente estrassi la pistola pronta a sparare, ma quando vidi un viso pallido cosparso di lentiggini e un caschetto color rame fare capolino tra le foglie mi fermai.
«Sophia!» la chiamai.
Quando si accorse che ero io corse verso di me e mi abbracciò, lasciando che alcune lacrime scendessero libere. La strinsi un po’ per infonderle coraggio e poi la staccai appena per controllare che non avesse morsi o graffi. Sospirai sentendo la tensione allentarsi quando non trovai ferite, tuttavia quel momento si spezzò quando udii dei lamenti strozzati.
Sospettosa presi la bambina in braccio e inizia a correre, sperando di reggere tutto il viaggio fino all’autostrada e riportarla da Carol.
Dopo la perdita di Merle, quella di Amy, di Jacqui e tutti gli altri supersiti, mi promisi che avrei fatto di tutto pur di proteggere le persone rimaste, e la vita di quella piccola bambina dipendeva tutta da me.
«D’accordo, dobbiamo fermarci» dissi ansimando quando per poco non caddi a terra, sbilanciata da tutto quel peso.  «Ascoltami bene: sali sull’albero, tieni su le gambe e non farle penzolare, io li porto lontani».
Mi guardò spaurita e disorientata, scuotendo la testa come se avesse capito che cosa gli stavo chiedendo.
«Non riuscirò a correre con te in braccio. Sali e non scendere, se vedi qualcuno del nostro gruppo non urlare, fischia. Sai come si fa?».
Annuì e iniziò a tremare al pensiero che io potessi abbandonarla.
«Bene».
Aiutai Sophia a salire su un ramo, le lasciai il mio coltello e lo zaino dentro le quali avevo alcune provviste.
«Ora fai attenzione a ciò che ti dico. Se entro quindici minuti non vedi nessuno scendi ma sta attenta, segna in ordine numerico la corteccia degli alberi ogni volta che ti allontani di venti passi, se vedi uno di loro, risali. Per tornare indietro rifai la stessa strada» dissi dandole il mio orologio.
Mi assicurai che non facesse penzolare le gambe e aspettai che gli zombie uscissero allo scoperto prima di riprendere a correre più veloce che potevo. Cercai di farli dividere per poterli uccidere senza rischiare la pelle, per questo anche io mi arrampicai, presi il coltello di riserva che tenevo lo stivale, scesi saltando e conficcai la lama alla base della nuca del vagante spingendo verso l'alto per colpire il cervello. Estrassi l’arma per poter colpire anche l’altro, tuttavia non fui abbastanza veloce. Finii a terra con il suo corpo putrefatto sopra di me, la sua bocca spalancata si apriva e chiudeva a intermittenza e ogni volta che accadeva era sempre più vicina alla mia faccia, un rivolo di saliva e sangue colava dalle sue labbra per cadere sopra le mie braccia che stavano cercando di respingerlo.
Il mio coltello era finito a qualche metro di distanza ma non troppo lontano, se mi fossi sporta forse sarei riuscita a prenderlo, ma temevo che se avessi rimosso un braccio da sotto il suo collo lui avrebbe avuto la meglio. Cercai di scollarmelo di dosso perciò spostai le mani sulle sue spalle e spinsi con tutta la forza in mio possesso riuscendo a farlo allontanare abbastanza per prendere la pistola e sparare.
Il suo corpo immobile si afflosciò sopra di me e la sua puzza penetrò nelle mie narici costringendomi a voltare il capo dall'altra parte con una smorfia disgustata.
Mi rialzai spingendo il cadavere da un lato e camminai fino a tornare al punto in cui avevo lasciato Sophia per vedere che su quel dannato ramo non c’era più.
Imprecai passandomi una mano tra i capelli e pensai in fretta a come agire evitando di girare nel bosco senza una meta con il rischio di perdermi, svenire e diventare bersaglio facile per i morti. Per prima cosa decisi di controllare gli alberi per vedere se avesse seguito i miei consigli, ma non c'era nulla sui tronchi, nemmeno il segno più piccolo che lei fosse passata di lì.
Mi morsi il labbro quando capii che si era persa. Non potevo tornare da Carol e dirle che sua figlia era da qualche parte nel bosco.
«Kate?!».
Mi voltai di scatto quando una vocina acuta e tremante pronunciò il mio nome. Vidi Sophia corrermi incontro con una brutta ferita alla gamba che rallentò il suo andamento e quando si trovò a pochi centimetri dalle mie braccia si buttò in avanti, aggrappandosi alla mia maglia per non cadere.
I suoi vestiti e il suo viso era sporco di fango e solo sulle guance, dove le lacrime erano colate, si poteva vedere ancora la sua pelle rosea.
«Cosa ti è successo?» chiesi stringendola.
«S-s-sono caduta» piagnucolò. «Ho perso la mia bambola insieme al tuo orologio e al coltello, mi dispiace» si scusò.
Le asciugai le lacrime con il palmo della mano e le scostai una ciocca di capelli che le si era appiccicata sulla fronte.
«Non fa niente» la rassicurai.
«Quindi non sei arrabbiata?».
«No, l’importante è che tu stia bene. Non ti hanno morsa o graffiata?».
Scosse la testa e si strinse a me ancora una volta iniziando a piangere. Non sapendo bene cosa fare le massaggiai la schiena e misi l'altra mano alla base della nuca fino quando i suoi singhiozzi si placarono.
Guardai il cielo diventare rosso a causa del tramonto, anche gli alberi e le foglie stavano assumendo sfumature rossastre e la temperatura aveva iniziato a calare.
Presi il viso della bambina tra le mani e la guardai negli occhi.
«Dobbiamo trovare un rifugio per stasera, sta diventando buio e muoversi senza luce non è sicuro».
«Ma ho paura, voglio tornare dalla mamma» replicò lei con il labbro inferiore che riprese a tremare.
«Lo so e mi dispiace» dissi. «Ma se facciamo come ho detto io riusciremo a sopravvivere. Ci ritroveranno, c'è Daryl con loro e lui è bravo a seguire le tracce delle persone, per ora però devi fidarti di me».
Annuì, si asciugò le lacrime e prese la mia mano prima che io potessi fare il primo passo. Camminammo seguendo la crescita di muschio sugli alberi fino quando trovammo un fiume, i suoi argini ci condussero ad una strada scavata e secca la quale, a sua volta, ci portò ad una casa abbandonata. Stava facendo buio e freddo quindi non avevamo altra scelta se non passare lì la notte e metterci in cammino la giornata successiva.
«Io vado dentro a vedere se ci sono zombie, tu resta qui e non fare rumore» dissi.
Sophia annuì di nuovo tremando leggermente, troppo stremata e infreddolita per rispondere o per contestare.
Mi tolsi il maglione che avevo e glielo diedi insieme al mio coltello in modo che fosse riparata dal freddo e potesse difendersi.
«Se vedi qualcosa fischia come ti ho detto prima, ti sentirò». La abbracciai e le diedi un leggero bacio sulla fronte prima di entrare.
Accesi la torcia che tenni sotto la pistola per fare il giro di quell’abitazione in cerca di pericoli che fortunatamente non c’erano. Nelle camere trovai dei cuscini e delle coperte che portai in cucina e sistemai nella dispensa prima di fare entrare Sophia.
Passammo la notte in quella casa e mangiammo ciò che c’era dentro il mio zaino, la piccola si addormentò poco dopo e per quanto anche io avessi voluto dormire, rimasi di guardia per tutta la notte. Non volevo farmi cogliere impreparata in caso qualche altra mandria fosse passata, la nostra sopravvivenza dipendeva tutta da me.
Era passato un po’ di tempo da quando mi ero ritrovata completamente sola e avevo iniziato ad abituarmi ad avere sempre qualcuno di supporto. C’era la bambina, è vero, ma non potevo fare molto affidamento su di lei. Era già abbastanza difficile per me sopravvivere, per lei che aveva solo dodici anni era ancora più dura. Sostanzialmente non avevo nessuno a guardarmi le spalle e sentivo già il respiro della morte sul mio collo, la mia unica speranza era riposta nel gruppo e nelle loro abilità di ricerca pur sapendo che non potevo fare affidamento solo su quello. Per essere sicure di essere ritrovate dovevamo lasciare delle tracce come quelle negli alberi che avevamo passato per raggiungere quel rifugio momentaneo, ma sapevo che non era abbastanza.
Mi serviva un piano da cui iniziare per sopravvivere, ma in quel momento la mia testa non riusciva a elaborare niente. Potevamo rimanere in quella casa per massimo un altro giorno, ma se fossimo state circondate dagli erranti per noi si sarebbe messa male, se invece ci fossimo messe in viaggio avrei dovuto stare attenta non solo per la mia incolumità ma anche per quella di Sophia ed era una responsabilità che sapevo di non poter reggere.
Quando il sole si fece alto nel cielo, la sua luce colpì le palpebre chiuse e mi accorsi di essermi appisolata per qualche ora dopo l’alba. Stropicciai gli occhi e li aprii guardando la dispensa ancora chiusa: Sophia stava ancora dormendo.
Mi allontanai dalla finestra e presi dal mio zaino una bottiglietta d’acqua insieme a un barattolo di burro di arachidi che posai sul tavolo, poi feci una perlustrazione più profonda di quella effettuata la sera prima trovando solo del disinfettante per mani e degli asciugamani in un cassetto del bagno.
Sfortunatamente non trovai nulla per medicare il piede e sperai di riuscire a tornare al mio borsone con le medicine prima che la ferita peggiorasse.
Scesi nuovamente in cucina e vidi che la bambina era ora sveglia e stava consumando la sua colazione.
Rimisi gli stivali che avevo tolto la sera precedente e allacciai le stringhe. Le mie mani tremavano per il nervoso, la preoccupazione e tutte le altre emozioni, ma non potevo lasciare che la piccola vedesse quanto spaventata fossi. Per lei ero come una guida in quel momento e farmi vedere debole l’avrebbe demoralizzata.
«Kate?» mi chiamò Sophia. «Credi che ritroveremo la mamma e tutti gli altri?».
Mi inginocchiai per raggiungere la sua altezza e le strinsi le spalle.
«Ne sono sicurissima, siamo sopravvissute ad una mandria e abbiamo trascorso una notte sole rimanendo in vita. Troveremo il gruppo e tu potrai riabbracciare la tua mamma» risposi asciugandole le lacrime. «Non perdere mai la speranza».
Come fece il giorno prima mi prese la mano e ci addentrammo un’altra volta nel bosco, seguendo le incisioni lasciate sugli alberi.
Il trucco di segnare i tronchi era uno dei tanti escamotage che mi erano stati insegnati da Merle e Daryl insieme ad altri espedienti da seguire nel caso mi fossi persa. Stare attenta a ciò che mi circondava come ad esempio qualche masso di forma strana o qualche albero particolare, era stata la mia prima lezione alla quale poi, se ne aggiunsero altre. Imparai così a tenere sempre presente dove fosse il sole, a stare attenta a dove il muschio crescesse e soprattutto a come usare le stelle per orientarmi. A parte quello però, non sapevo fare nient’altro, non ero esperta come loro e non sapevo leggere le tracce.
 
«Se ti dovessi trovare da sola non puoi permetterti di piangere, devi stringere i denti e trovare la via tra alberi, fango e sassi».
 
È una frase che mi disse Daryl uno dei tanti giorni in cui ero nel bosco con lui. Avevo poco più che ventuno anni e mi stava insegnando come non perdermi, ma soprattutto come fare a ritrovare la via se eventualmente fosse successo.
Quello fu anche il giorno in cui ebbe il coraggio di lasciarmi in prossimità di una caverna e allontanarsi con la scusa che doveva fare pipì.
 
 
 
Era passata ormai la mezz’ora da quando se n’era andato dicendo che sarebbe tornato subito, ma di lui non si era vista nemmeno l'ombra.
La prima cosa che pensai di fare fu quella di nascondermi nella grotta per attendere il suo ritorno, ma non sapevo quanto altro tempo sarebbe trascorso e io volevo tornare a casa.
Mi strinsi nelle mie braccia e cercai di ricordarmi il percorso fatto per giungere fino lì.
Durante il viaggio di andata, Daryl, aveva così tanto insistito affinché imprimessi nella memoria tutti i suoni e tutta la vegetazione circostante che nella mia mente si era formata una sorta di cartina che usai per orientarmi e arrivare a un albero dal tronco ricurvo, già passato per arrivare fino alla caverna. Capendo che stavo proseguendo nella direzione giusta, continuai a camminare fino quando arrivai prima alla cascata – che passai con non poche difficoltà – e poi alla radura. Da lì non dovetti fare più molta fatica per trovare il sentiero giusto, ormai erano cinque anni che quel posto era diventato il nostro rifugio e nella mia testa si erano memorizzate scorciatoie e strade principali.
Quando tornai sulla strada, trovai Daryl seduto nel letto del suo furgone con il sorriso di chi si credeva furbo e la sua balestra in grembo.
Lo odiai così tanto in un primo momento che giurai non gli avrei più parlato per il resto dei miei giorni.
Ecco allora quale era il suo piano, lo stronzo!
Fumante di rabbia mi avvicinai a lui, iniziando a chiamarlo quando ero ancora al delimitare della foresta.
«Ti sei divertito?» gli chiesi. «Mi spieghi che bisogno c’era di lasciarmi lì?».
Posò la freccia al suo fianco e incrociò le braccia al petto guardandomi.
«Non ci sarò sempre io a salvarti e quando accadrà dovrai essere in grado di tirarti fuori dai guai con le tue sole forze. Se ti dovessi trovare da sola non puoi permetterti di piangere, devi stringere i denti e trovare la via tra alberi, fango e sassi» rispose mortalmente serio.
«Avresti potuto dirmi che tornavi al furgone e che avrei dovuto trovare la strada da sola, e se non ce l’avessi fatta?».
«Le disgrazie non aspettano che tu sia preparata per affrontarle, per questo non ti ho avvisata» disse. «E comunque non ti avrei lasciata là se non fossi stata pronta».
Schiusi le labbra per controbattere, ma la mia bocca rimase aperta a forma di “O” per lo stupore.
Quindi si trattava di un test, una prova per verificare se tutti i suoi insegnamenti erano serviti davvero o se aveva solo perso tempo. Voleva essere sicuro che se lui non ci fosse più stato, io avrei comunque saputo cavarmela in un modo o nell’altro.
«Tu mi spingi oltre i limiti, non sorprenderti se un giorno di questi avveleno le tue birre» dissi.
Sul suo volto si formò un sorriso che cercò di nascondere voltandosi velocemente e anche io mi trovai a ridere a mia volta.
Era vero che mi irritava, che mi esasperava e che a volte faceva ciò che faceva solo per urtarmi, ma era anche per quel motivo che gli volevo bene e nel bene o nel male non lo avrei cambiato per nulla al mondo.
 
 
 
Sophia mi tirò leggermente la mano per farmi ridestare dai miei ricordi, abbassai il capo e le sorrisi.
«Sono stanca, possiamo fermarci?» chiese. Sembrava davvero affaticata, la cena e la colazione non erano state delle migliori e la notte di sonno era stata agitata.
Guardai tra gli alberi per ogni possibile pericolo e in lontananza scorsi una chiesetta dentro la quale avrebbe potuto riposare.
«Ma solo per poco» acconsentii.
Quando entrammo, trovammo i cadaveri di tre vaganti; il sangue ancora colava dalle ferite, perciò dovevano essere stati uccisi di recente.
Chiusi il portone alle mie spalle, mi sedetti su una delle panche e guardai la croce. Nonostante non fossi credente, in quel momento pregai. Non per me e per la mia salvezza, ma per quella di Sophia.
Non era giusto che dovesse passare quelle pene, era una bambina e come tale avrebbe dovuto ridere e giocare con i bambini della sua età, essere stretta nelle braccia rassicuranti della propria madre e addormentarsi con la certezza di essere al sicuro.
Fu in quel momento di pace e speranza che sentii il rumore di uno sparo in lontananza.
Con uno scatto fulmineo mi alzai in piedi posando tutto il mio peso sulla caviglia sana e presi Sophia per un braccio, nascondendola dietro la cattedra. Mi avvicinai ad una delle finestre per spiare, ma al di là del vetro non vidi nulla di lontanamente dannoso. Non fidandomi delle apparenze, puntellai il portone con alcune panche che spostai a fatica. Non volevo rischiare che qualcosa di poco gradito entrasse o che a far partire quel colpo fossero stati altri umani non proprio amichevoli.
Attesi fino al primo pomeriggio prima di ripartire, volevo essere sicura che qualsiasi pericolo fosse lontano da noi, ma come vidi Sophia rannicchiata in un angolino in posizione fetale, sorrisi e decisi di lasciarla riposare per un po', cosa che si rivelò fruttuosa anche per me.
Le precedenti ore di cammino avevano sforzato la caviglia ed ora si era gonfiata così tanto che la pelle dello stivale la comprimeva con forza fino a far aumentare il dolore. Cercai di sfilare la calzatura per liberare il piede, ma il tessuto sfregava contro la pelle irritata e alla fine dovetti tagliare via il gambale.
Dopo che tolsi anche la fasciatura vidi come il danno si fosse fatto più serio. La zona contusa era gonfia, la pelle calda e c'era anche un ematoma nel collo del piede, area che sentivo pulsare.
Mi distesi su una delle panche e appoggiai l'articolazione sopra uno dei braccioli per tenerla sollevata.
Sperai di riuscire a camminare senza problemi il giorno successivo, se fossimo finite nei guai non sarei riuscita a correre o proteggere Sophia, e quella al momento era la mia unica missione.










 
*angolo autrice*
ecco qui come promesso il venticinquesimo capitolo.
Ultimamente mi sento ispirata e spero di riuscire a tenere il ritmo di due capitoli al mese, il ventiseiesimo è praticamente pronto,
c'è giusto qualcosa da ritoccare quà e là, ma almeno un capitolo sono sicura di pubblicarlo il mese prossimo.
Io chiudo qui, vi saluto e ringrazio tutti quelli che leggono e alla prossima,

yulen c:

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Capitolo 27
*** Capitolo26 ***


 
 
 
 
 
Capitolo26
 
 
 
 
 
 
 

Le successive quarantotto ore dalla nostra sosta alla chiesa passarono velocemente.
Le condizioni della mia caviglia erano peggiorate, durante la prima notte aveva continuato a gonfiarsi e il mattino, quando provai a mettermi in piedi, una fitta acuta mi fece perdere l’equilibrio.
Questo mi costrinse a cambiare i miei piani e perciò soggiornammo lì per due giorni. Volevo rimanere più a lungo e recuperare un po’ di forze, ma il cibo nel mio zaino stava iniziando a finire e anche l’acqua aveva iniziato a scarseggiare. C’era rimasta una sola borraccia e presto o tardi avremmo dovuto lasciare il nascondiglio per muoverci.
Sfortuna volle che durante la notte del secondo giorno, in seguito ad un urlo di Sophia che aveva avuto un incubo, degli zombie iniziarono ad accalcarsi sulla porta principale e sulle finestre, rompendo i vetri ed entrando, miracolosamente riuscimmo a scappare usando l’uscita presente nell’ufficio del prete e trovammo una sistemazione momentanea dentro una tenda da campeggio.
Il proprietario, ormai morto, ondeggiava appeso ad un albero, nella sua testa c’era un dardo dagli impennaggi gialli e arancioni, e l’unica persona a cui riuscii a pensare in quel momento fu Daryl. Anche se sapevo che chiunque avrebbe potuto usare armi silenziose come la balestra, pensare che quella freccia appartenesse a lui mi dava speranza. Speranza che ci saremmo ricongiunti e che tutto sarebbe andato bene.
Dentro la tenda trovai un kit di primo soccorso al cui interno, tra garze, cerotti e bende, erano riposti antidolorifici, antibiotici e anche antinfiammatori che usai per prendermi cura del piede. Mancava il ghiaccio, ma mi sarei fatta bastare ciò di cui ero entrata in possesso.
Anche quella notte rimasi sveglia a fare la guardia, mentre Sophia si addormentò subito. Il suo sonno però non fu tranquillo, di tanto in tanto sentivo il suo respiro diventare agitato, ma non capivo se stesse piangendo o tremando per il freddo e spostarmi dalla posizione nella quale mi ero messa, l’avrebbe svegliata.
La ragazzina si era distesa dietro la mia schiena rannicchiandosi nel sacco a pelo e rimanendo in posizione fetale, non si mosse fino al mattino, quando un uccellino si posò su un ramo dell’albero e iniziò a cinguettare così forte per richiamare altri suoi simili.
Se non fossi stata così nervosa avrei trovato quella scena commovente, ma la privazione del sonno riusciva a rendermi una persona estremamente burbera, e infastidita da quel baccano, lanciai un rametto nella loro direzione per farli allontanare.
Gli animaletti si librarono in volo con un verso più stridulo degli altri e fu in quel momento che Sophia scattò a sedere e iniziò a voltare il capo a destra e a sinistra in modo frenetico.
«Va tutto bene» la rassicurai. «Era solo un uccello».
Si stropicciò gli occhi per eliminare ogni traccia di stanchezza e non convinta delle mie parole si sporse oltre la mia spalla per verificare fosse vero, quando non vide nulla e non sentì niente se non il rumore delle foglie muoversi, tornò nella sua precedente postura.
Presi dal mio zaino l’ultima barretta energetica e gliela porsi cosicché potesse mangiare.
«Oggi dobbiamo torneremo sull’autostrada, faccio ancora fatica a camminare e questo vuol dire che dovrai starmi vicina, chiaro?».
Mi guardò spalancando gli occhi e sorrise da orecchio ad orecchio, era la prima volta che la vedevo sorridere da quando ci eravamo allontanate dal gruppo e vederla così fiduciosa mise di buon umore anche me, forse un po’ di positività era ciò che ci voleva.
Lasciai che la bambina facesse colazione nascosta nella tenda, io mi allontanai solo il tempo di raccogliere dell’acqua e una volta essere tornata indietro ed averla bollita, riprendemmo a camminare.
Era tardo pomeriggio quando trovammo alcuni tronchi incisi e capendo di essere giunte in prossimità dell’autostrada, accelerai leggermente il passo.
Pregustavo già il momento in cui ci saremmo riunite con il gruppo tra fiumi di lacrime, abbracci e rimproveri per essere state così sconsiderate, ma la mia gioia durò poco. Nel silenzio del bosco sentii il suono di un scalpiccio dalla cadenza irregolare e trascinata, gli occhi che prima guardavano il terreno si alzarono per vedere che due zombie stavano marciando verso di noi. Subito se ne aggiunse un altro, e poi un altro ancora fino a diventare quattro.
Cazzo!
Trascinai Sophia dietro un cespuglio per proteggerla raccomandandole di non muoversi e di non fare rumore, impugnai la pistola e sparai quattro volte senza mancare mai il bersaglio. Erano troppi per usare il coltello e non avevo le forze necessarie per uno scontro del genere.
Tornai dove avevo lasciato la ragazzina e la invitai ad uscire, ma non fui abbastanza accorta perché dal nulla uscirono altri tre non morti.
«Corri!» urlai.
Mi voltai verso quei vaganti per sparargli, ma quando sentii Sophia urlare preoccupata per la sua incolumità, girai nuovamente la testa; due di loro erano sbucati da dietro un albero e la stavano per raggiungere.
Presi la mira e premetti il grilletto due volte, mancandone uno. Usare la pistola era una mossa stupida, ma non avevo scelta se volevo sopravvivere, inoltre speravo che se fossimo state abbastanza vicine al gruppo, loro mi avrebbero sentita e sarebbero arrivati. Nessuno però udì quegli spari e in poco tempo io e Sophia ci trovammo a combattere da sole.
Eliminai i vaganti che erano dietro di me e corsi verso la ragazzina che stava scappando da un non morto, ma come sorpassai un albero un altro errante mi spinse contro il tronco dove un rametto si conficcò nella carne della spalla, fino a toccare la scapola. La forza dell’impatto mi mozzò il fiato in gola e restai con le labbra aperta per svariati secondi, fino quando sentii un bruciore e poi un liquido caldo scivolarmi lungo la schiena e il braccio. Digrignai i denti e portai una mano alla bocca premendo con forza per non far uscire l’urlo di dolore che sfogai attraverso le lacrime.
Mi dimenai per sottrarmi a quella presa, ma il non morto non sembrava intenzionato a lasciarmi andare e tirava con tutta la sua forza, avvicinandomi ancora di più verso di lui.
Giuro che se sopravvivo taglierò tutti i dread.
Afferrando il braccio del vagante lo piegai con forza verso l’esterno fino quando sentii il rumore dell’osso rompersi e approfittando di quel momento, accoltellai lo zombie alla tempia.
Mi girai per raggiungere Sophia che proprio in quel momento lanciò un urlo così forte da spaccare i timpani, lei era distesa a terra e con le braccia cercava di tenere lontano lo zombie che l’aveva atterrata.
Merda!
Senza pensarci due volte presi impugnai la pistola e sparai l’ultimo colpo rimasto. Eravamo già fottute e peggio di così non poteva andare.
Corsi velocemente verso la bambina e spinsi di lato il cadavere dell’errante che si era afflosciato sul suo corpo.
«Sei stata morsa? Graffiata?» domandai guardandola in modo frentico.
«No, ma mi fa tanto male la testa» disse flebilmente.
Mi inginocchiai dietro la sua schiena per verificare l’entità del danno e vidi del sangue uscire da una grossa ferita, i suoi capelli ramati avevano già assunto un colore più rosso e alcune goccioline erano finite sul colletto della sua maglia azzurra.
Le tolsi il cerchietto che portava, presi il suo volto tra le mani e la guardai negli occhi.
«Non devi addormentarti, chiaro? So che inizi ad avere sonno, ma resta sveglia» la incitai.
«Andrà tutto bene. Devi solo resistere, ok?» continuai sperando di darle coraggio.
Da lontano giunse il suono di altri gemiti e non avendo più né proiettili, né la forza di combattere, presi Sophia in braccio sfruttando quel momento in cui l’adrenalina era ancora in circolo per fare quell’ultimo, piccolo sforzo.
Corsi nel bosco seguendo i segni sugli alberi, i lamenti dei non morti fortunatamente si affievolirono fino a sparire completamente e anche se eravamo fuori dal loro raggio olfattivo sapevo di dover continuare a muovermi. La perdita di sangue però mi rese ancora più debole e non riuscendo più a reggere tutta quella pressione, mi fermai e posai la ragazzina all’ombra di un albero.
Ogni fibra del mio corpo mi faceva male a partire dalla caviglia fino alla testa che sembrava sarebbe scoppiata da un momento all’altro. La gola era talmente secca che facevo persino fatica a deglutire e la ferita alla spalla aveva iniziato a bruciare.
Estrassi dallo zaino la borraccia e bevvi a piccoli sorsi tenendo l’acqua in bocca per alcuni secondi prima di inghiottire. Reclinai la testa all’indietro quando sentii il liquido scivolare lungo la gola e lasciai che un sospiro di pura estasi uscì dalle mie labbra.
Mi inginocchiai vicino a Sophia e allungai il braccio verso di lei.
«Tieni, devi rimanere idratata» dissi.
Quando non rispose, convinta che stesse dormendo, la scrollai leggermente, ma il suo corpo ad ogni mia scossa si mosse come se fosse stato una bambola di pezza e subito andai nel panico.
No, no, no!
Mi avvicinai con l’orecchio alla bocca sperando di sentirla respirare, ma al mio udito non giunse nulla, le tastai il polso per controllare il battito cardiaco e quando non lo sentii, agii d’istinto; le tappai il naso, soffiai aria per due volte, feci quindici compressioni sul torace e appoggiai l’orecchio vicino la bocca per controllare se avesse ripreso a respirare, ma anche quella volta non sentii nulla.
Andiamo!
Ripetei quell’operazione per cinque volte, non volevo arrendermi all’idea che se ne fosse andata e solo dopo altri inutili tentativi accettai l’idea che lei se ne fosse andata.
Alcune lacrime iniziarono ad offuscare la mia vista fino quando non riuscii più a distinguere le sagome degli alberi che si fondevano con il resto del paesaggio. Grossi goccioloni scesero dalle mie guance per finire su quelle della ragazzina e mi sentii così arrabbiata con il mondo che sarei riuscita ad uccidere da sola tutti gli zombie presenti sul pianeta.
Tirai su con il naso e asciugai gli occhi con il palmo, presi il suo corpo e lo strinsi come se da quello dipendessero le nostre vite.
«Saresti dovuta crescere bella e forte come tutte le bambine, crearti le tue amicizie, stare vicino alle persone care e vivere, non morire».
Io avevo mentito. Le avevo detto che l’avrei riportata dalla madre, che sarebbe sopravvissuta e sarebbe tornata a giocare presto con Carl e invece tutti quei progetti erano andati in fumo. Non avrebbe più visto un’altra alba, non avrebbe riabbracciato Carol, né passato i pomeriggi con il suo amico. Sarebbe morta lì, nel bel mezzo del nulla, in un bosco, alla fine del mondo e tra le braccia di una persona che le aveva promesso una salvezza che non aveva saputo darle.
Cercai di alzarmi in piedi per prenderla in braccio e portarla dalla madre affinché potesse almeno seppellirla, ma la caviglia non mi permise di fare un simile forzo, la spalla era così mal ridotta che come tentai di sollevarla da terra sentii l’osso della scapola scricchiolare.
«Fanculo!» urlai nuovamente quando caddi a terra.
Appoggiai la schiena contro un grande masso e l’attirai a me, sedendola sulle mie gambe e tenendo il suo capo appoggiato alla mia spalla. Dovevo colpirla alla testa per impedire che si trasformasse, ma il coraggio venne meno. Guardando il suo viso con gli occhi chiusi e le labbra leggermente schiuse mi sembrò ancora più indifesa di quando non fosse in realtà.
«Mi dispiace».
Strinsi con forza il manico del coltello per e lo portai all’altezza della sua fronte.
«Kate!?».
Alzai il capo lentamente e sobbalzai colta alla sprovvista, la presa attorno l’arma si affievolì quando girandomi vidi Rick e Shane, entrambi con un’espressione di smarrimento sul volto.
Lo sguardo dell’ex sceriffo si fermò prima su Sophia e poi su di me, e non riuscendo a reggere il confronto girai la testa. Non mi servivano le loro occhiate cariche di risentimento, lo sapevo da sola di essere stata completamente inutile.
«Cos’è successo?» domandò.
«I-i-io… lei è…» deglutii non riuscendo a dire quella parola.
Lei è morta, non sono riuscita a proteggerla.
All’improvviso Sophia iniziò a tossire, lamentandosi e dimenandosi.
Sentendo di nuovo la speranza nascere la distesi a terra, le presi il viso tra le mani e guardandola negli occhi vidi come le sue pupille fossero dilatate fino a non riuscire più a vedere le iridi colorate.
«Sophia, mi senti?» la chiamai piano. «Sophia, sono Kate. Riesci a sentirmi?».
La bambina non rispose, continuò a rantolare e tossire allo stesso istante, l’unica cosa che mi venne in mente di fare era soffiare altra aria nei polmoni sperando che quella bastasse a farla rinsavire, ma fu tutto inutile. Lei continuava a non respirare bene e aveva iniziato a diventare cianotica.
«Dobbiamo portarla da Hershel» disse Rick.
«Chi diavolo è Hershel?» domandai non conoscendo quel nome.
«Un veterinario, ma se la cava bene anche con le persone» intervenne Shane che mi aiutò a rialzarmi.
Intende appenderla al soffitto e farla essiccare come un salame?
L’ex sceriffo prese in braccio la ragazzina facendo passare una mano sotto le gambe e l’altra attorno la schiena, ma io lo fermai.
«Se la muovi così rischia di soffocare, dovrai trasportarla da seduta».
Rick spostò Sophia su un braccio e fece in modo che le gambe della bambina fossero poste ai lati del suo bacino, tenne l’altra mano sulla sua nuca cosicché il capo non cadesse all’indietro e iniziò a camminare verso la direzione dalla quale erano arrivati.
Feci alcuni passi anche io, ma la testa iniziò a girare vorticosamente. Avvertii un forte senso di nausea misto a vertigini e persi l’equilibrio, i miei occhi si chiusero da soli e quando li riaprii vidi il verde delle chiome degli alberi filtrare il giallo dei raggi del sole.
Sto avendo le allucinazioni?
Aggrottando la fronte sbattei le palpebre più volte prima di riuscire ad alzare la testa reclinata e vedere un volto dai lineamenti duri circondare due occhi marroni che celavano qualcosa di oscuro.
Non ce la faccio.
Sentivo il cuore pesante e un grosso macigno premeva ancora sul mio petto, impedendomi di respirare.
 
«Non mollare proprio ora».
 
Una voce lontana mi spinse a rimanere sveglia e a non cedere alla stanchezza, ma per quanto volessi tenere gli occhi aperti, l’affaticamento al quale ero stata esposta ebbe il sopravvento.
Non ce la faccio.
Ripetei nella mia testa, lentamente le palpebre si chiusero e il mio corpo si fece più leggero.

 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

*angolo autrice*
La faccio breve perché non ho molto da dire, anzi, non ho proprio nulla da dire se non che ho intenzione di smettere di fare promesse
che so di non riuscire a mantenere.

Sono stata su questo capitolo tutto il giorno e solo ora mi sento soddisfatta di come è venuto, i capitoli rimarranno sempre due per mese,
ma non ho idea di quando li pubblicherò, quindi il capitolo ventisette ci sarà ma non so quando.

Vi saluto e alla prossima
 
yulen c:

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Capitolo 28
*** Capitolo 27 ***


 
 
 
 
Capitolo27

 
 
 
 
 
 
«Perché devi fare sempre di testa tua?».
Qualcuno mi stava parlando e allo stesso tempo stringendo la mano. Le mie palpebre fremettero, cercando di sollevarsi, ma fu come se fossero troppo pesanti e alla fine mi arresi.
«Ti ho detto di essere coraggiosa, non avventata. Dannata ragazza».
C’erano altre voci, ma erano ovattate, come se qualcosa impedisse al suono di giungere limpido alle mie orecchie, non riuscii nemmeno a capire quale fosse l’argomento della discussione.
«Devi svegliarti ora, sono passati tre giorni».
Tre giorni? Ma che diavolo è successo? Come ho fatto a dormire così tanto?
«Sei un’incosciente, Katerina».
Il mio flusso di pensieri fu interrotto quando sentii quel nome. Nessuno mi aveva mai chiamata così se non tre persone, due delle quali erano scomparse.
Daryl?
Strinsi la mia mano attorno a quella del mio interlocutore, un calore rassicurante si irradiò in tutto il corpo e respirai a fondo assorbendo quell’energia che mi diede la forza necessaria per aprire finalmente gli occhi. La mia vista era offuscata e i contorni degli oggetti non erano ben definiti, dovetti sbattere le palpebre più volte prima di riuscire ad avere una messa a fuoco nitida e quando ci riuscii mi focalizzai sulla plafoniera attaccata al soffitto bianco.
Che posto è questo?
Lentamente voltai la testa a sinistra per capire meglio dove fossi finita, ma la mia attenzione fu spostata dalla mobilia della camera all’uomo che sedeva accanto a me.
«Daryl?» gracchiai a causa della gola secca.
Subito i suoi occhi incontrarono i miei e respirò pesantemente, scrollandosi di dosso un peso che, a giudicare dall’espressione stanca, lo aveva perseguitato durante i giorni precedenti.
Si sporse leggermente tendendo un braccio verso un mobile e prese un bicchiere che poi portò alle mie labbra. Nonostante la mia sete bevvi a piccoli sorsi, finendo tutta l’acqua che rinfrescò la mia gola bruciante.
Osservai il suo volto notando un piccolo taglietto sullo zigomo destro e uno sul labbro inferiore, con un cenno del capo indicai le sue ferite.
«Che ti è successo alla faccia?».
Cercai di sorridere, ma come vidi la sua espressione preoccupata anche io mi feci seria. Ero viva, stavo bene… non del tutto, ma non ero morta, quindi perché tutta quella pena?
«Che c’è?» chiesi roca.
«Sei stata una stupida».
«Grazie».
«A che pensavi quando sei corsa nel bosco?» chiese con tono di rimprovero.
«Pensavo che c’era una bambina sola e spaventata inseguita da due zombie che volevano pranzare con le sue viscere e che qualcuno doveva salvarla» risposi secca.
Cosa che non sono riuscita a fare.
Mi fermai quando la mia mente elaborò ciò che avevo appena detto e pensato e come un uragano tutti i ricordi tornarono a galla e si tinsero di rosso. C’era l’orda passata sulla strada e l’urlo della bambina, la corsa mia e di Rick per riprenderla, c’erano i due giorni alla chiesa e il terzo in cui abbiamo ripreso il viaggio con la speranza di ritrovare tutti e infine l’ultima lotta che era costata la vita a un’innocente.
Sentii qualcosa contorcersi dentro di me e subito sentii il bisogno di dare di stomaco, portai una mano al petto e l’altra alla bocca per reprimere quell’istinto, ma più cercai di combatterlo, più esso premette per uscire. Saltai fuori dal letto cadendo a terra e subito Daryl fu al mio fianco per aiutarmi a rialzarmi e distendermi, ma io scossi la testa.
«Portami in bagno» riuscii a dire.
Tenendo una mano attorno il mio fianco e l’altra attorno il mio gomito aprì una porta che prima non avevo visto e dopo che entrai in quella stanza mi chinai sulla tavoletta del water. Subito il mio corpo iniziò a contrarsi in preda agli spasmi e rigettai quel poco c’era nel mio stomaco.
La vista si appannò a causa delle lacrime e iniziai a singhiozzare. Come avevo potuto lasciarlo accadere? Ero responsabile per lei, come avrei potuto guardare tutti gli altri sapendo di non essere riuscita a salvarla?
Daryl si inginocchiò di fianco a me e tenne indietro i miei dread fino quando mi sentii completamente vuota. Mi rialzai per sciacquarmi la bocca e tornai a letto.
«È colpa mia» dissi stringendo le lenzuola. «Avrei dovuto salvarla, glielo avevo promesso».
Le lacrime avevano creato una pozza sul lenzuolo bianco ed io non riuscivo a fermarle. Stavo cercando di essere forte, di non farmi abbattere, ma era tutto inutile. Mi sentivo malissimo e volevo solo poter sparire per sempre e non tornare mai più, se non ero riuscita a proteggere una bambina come potevo sperare di coprire le spalle a qualcun altro?
«Mi dispiace, Daryl».
«Sophia è viva» disse.
Tirai su di scatto la testa e lo guardai incredula come se avesse parlato in una lingua sconosciuta.
«Come?» soffiai.
«Quando siete arrivate stava soffocando, ma Hershel è riuscita a salvarla. È nell’altra stanza che riposa».
Respirai a pieni polmoni e sorrisi sentendo quel nodo nello stomaco andare via, se avessi avuto le forze probabilmente avrei iniziato a saltare e gridare per la gioia che quella notizia mi aveva portato.
«E Carol?».
«È con lei. Non ha lasciato il suo capezzale sin da quando siete arrivate».
«Sophia è viva» ripetei non credendoci ancora.
Scostai da un lato le coperte con un gesto energico e spostai le gambe al lato del letto pronta ad alzarmi: dovevo vedere con i miei occhi o non sarei riuscita a darmi pace.
Poggiai la pianta del piede sul pavimento freddo e mossi le dita intorpidite, tre giorni di riposo totale avevano fatto addormentare anche i miei arti e la stanchezza muscolare accumulata iniziava a farsi sentire. Puntai il tallone destro per terra e mi alzai riuscendo a rimanere in quella posizione per alcuni secondi, non appena posai la punta del piede sinistro però sentii una forte scarica di dolore e sbilanciata dal peso che posava tutto su una gamba, inciampai sui miei stessi passi.
Accidenti!
«Dove hai intenzione di andare?» chiese Daryl prendendomi al volo prima che potessi farmi ancora più male
«Voglio vedere Sophia» risposi cercando di avvicinarmi alla porta.
«Non vai da nessuna parte finché non potrai camminare senza finire a terra come un sacco di patate».
Portando un mio braccio dietro la sua nuca mi sollevò e mi rimise a letto, coprendomi e sedendosi di nuovo per bloccare ogni mia via di fuga.
In quello stesso istante la porta della camera si aprì e Rick, accompagnato da un uomo anziano, fece il suo ingresso. Guardai i due e poi Daryl che si alzò dalla sedia e se ne andò salutandomi con un cenno del capo.
«Lui è Hershel e questa è casa sua» disse Rick.
Quindi è lui il veterinario.
Sorrisi gentilmente e ritornai con lo sguardo verso l’ex sceriffo, aveva il viso pallido e i suoi occhi azzurri sembravano stanchi e spenti.
«Come va la spalla?» chiese l’uomo che avevo appena appreso chiamarsi Hershel.
Mossi il braccio in modo circolare e feci un’altra smorfia di dolore. No, non stavo affatto bene.
«Male, ma il dolore è sopportabile».
«Devo controllare, permetti?» domandò.
Annuii e scostai la spallina della maglia leggermente macchiata di sangue cosicché lui potesse cambiare le fasce.
«Perché non sei tornata sull’autostrada?» chiese Rick.
Lo guardai e sospirai. «Il piano era quello, ma la mia caviglia faceva male, così ci siamo fermate in una chiesetta».
«Una chiesetta?». Il suo sguardo si fece più interessato.
Annuii. «Piuttosto piccola, nessun campanile e un piccolo cimitero davanti. Siamo rimaste lì per tre giorni poi abbiamo dovuto spostarci quando degli zombie sono entrati».
Si passò una mano sul volto e sospirò. «È la stessa che abbiamo passato noi, all’interno…».
«C’erano i cadaveri di tre vaganti» finii per lui. «Li abbiamo visti».
Feci un piccolo salto sul letto quando sentii la garza tirare via con sé dei pezzi di pelle che si erano attaccati al tessuto. Mi morsi l’interno guancia e trattenni il respiro fino quando sentii il dolore andare via.
Hershel cercò di fare il più delicatamente possibile, ma la ferita non aveva ancora fatto la crosta e la carne si era inevitabilmente appiccicata alla medicazione.
Ecco perché bisogna sempre usare la connettivina!
«Riposa ancora per un paio di giorni, poi potrai uscire, ma non strafare. Hai la scapola scheggiata e la tua caviglia è messa davvero male» disse Hershel.
Annuii e sorrisi ringraziandolo prima che lui uscisse dalla stanza, lasciando me e Rick da soli.
«Da quanto siete qui? E perché?» chiesi.
«Il mattino dopo il passaggio dell’orda abbiamo organizzato una piccola spedizione per trovarvi ma quando la ricerca si è rivelata infruttuosa ci siamo divisi e Carl è stato colpito da un proiettile».
I miei occhi si spalancarono per lo stupore e la preoccupazione, possibile fosse così sofferente a causa della perdita del figlio?
«Sta bene. Un po’ troppo forse» disse sorridendo e annullando ogni mio dubbio. «Sono tre giorni che esce dalla stanza di Sophia per vedere come stai tu».
Sorrisi anche io, ma il suo sguardo preoccupato spense la mia felicità.
«Perché ho come l’impressione che ci sia dell’altro?».
«Sei stata via per una settimana quasi» disse. «Sono successe tante di quelle cose che non saprei da dove iniziare».
«Beh, non è che possa andare molto lontano. Ordini del dottore».
Si sedette su una poltrona affianco al letto, appoggiò un gomito sul braccio della poltrona stessa e guardò fuori dalla finestra.
Mi raccontò che Carl fu colpito da un proiettile destinato ad un cervo, l’uomo che aveva sparato, Otis, era in seguito andato insieme a Shane a prendere le attrezzature mediche necessarie al fine di salvare la vita del giovane ragazzo e non era più tornato. Shane invece aveva assunto un atteggiamento avversivo nei suoi confronti, cosa che non giovava la precaria situazione. Il padrone di casa infatti, voleva che una volta che io e Sophia ci fossimo rimesse lasciassimo la proprietà, Rick ovviamente non era d’accordo, vedeva quel posto come la salvezza che stavamo cercando e avendo anche appreso che la moglie aspettava un bambino, era più che mai determinato a trovare un modo per convincere Hershel a farci restare.
«Che mi dici di Benning? Non era quello il piano iniziale?» domandai.
«E se non ci fosse più? Non voglio rischiare di abbandonare questa fattoria dove siamo al sicuro per un posto che potrebbe essere andato distrutto».
Anche se il suo ragionamento non faceva una piega pensai che stava rischiando troppo. Nella base militare avrebbe potuto trovare personale medico in grado di prendersi cura della moglie durante il parto, Hershel nonostante fosse un veterinario aveva mostrato di sapere il fatto suo, ma fare nascere un bambino non era cosa di poco conto.
«Immagino che sia questo che non piaccia a Shane».
«Secondo lui dovevamo essere già arrivati».
Inarcai un sopracciglio non capendo cosa volesse dire e lasciai che continuasse il discorso.
«Quando non vi abbiamo trovate pensava che fosse inutile rimanere sull’autostrada e aspettare che passasse un’altra mandria, voleva partire e lasciarvi una nota nel caso fosse tornate così ci avreste raggiunti».
Me ne ricorderò quando dovrò salvargli la vita.
«Daryl stava per ucciderlo per aver pensato una cosa del genere».
Coprii con un colpo di tosse la risata che era appena uscita e abbassai la testa mentre sulle mie labbra si formò un piccolo sorriso, ricordandomi del suo volto però mi feci seria.
«È per questo che la sua faccia è ridotta così male?».
Sospirò guardando a terra senza darmi una risposta e quando lo vidi esitare temetti per il peggio, come una guerra con una banda di altri sopravvissuti con cattive intenzioni.
«È stato Merle» disse.
La paura provata poco prima non era nulla in confronto a quella che sentii in quel momento, com’era possibile che fosse colpa di Merle se lui era rimasto ad Atlanta.
«Mentre Daryl stava cercando te e Sophia ha trovato il fratello nel bosco, quando sono arrivati qui erano già tutti e due feriti e sanguinanti, ho chiesto il perché delle loro azioni ma non hanno risposto».
Lo so io il perché.
Morsi il labbro inferiore e desiderai di poter infilarmi del tutto sotto le lenzuola per sparire completamente.
Mi sentii mortalmente in colpa per ciò che avevo causato, ero stata io a farli litigare ed era una cosa che non riuscivo a perdonarmi. In ventitré anni da quando li conoscevo, le volte in cui si erano rivoltati l’uno contro l’altro erano state così poche da poterle contare sulle dita di una mano ed io ero riuscita a farli separare.
«Il loro litigio è un altro dei motivi per cui Hershel non ci vuole qui, dice che Merle è troppo imprevedibile e non si fida».
Possibile che quel testa di cazzo debba sempre rovinare tutto?
Appena fossi uscita ci avrei parlato io con lui, non mi avrebbe ascoltata, ma volevo comunque provarci, ne valeva la sicurezza del gruppo.
Alla porta ci fu un lieve bussare e prima che potessi rispondere, essa si aprì. Sulla soglia c’era Kim con un vassoio in mano e un grosso sorrisone sul volto che mostrava tutta la contentezza del momento, dietro di lei spiccava anche Glenn.
«La cena di sotto è pronta» disse la mia amica guardando Rick. Egli annuì e se ne andò richiudendo la porta dopo avermi salutata.
Kim posò ciò che teneva in mano sul comodino e feci una smorfia di disapprovazione quando vidi un piatto con delle verdure e due fette di pane.
Non volevo mangiare, sentivo lo stomaco ancora tutto sotto sopra e non volevo che la mia cena finisse nel gabinetto.
«Hai idea dello spavento che mi hai fatto prendere?» chiese Kim un po’ agitata.
«Che ci hai fatto prendere» la corresse Glenn.
«Non sai cosa ho provato quando sono uscita dal mio nascondiglio per venirti a cercare e non ti ho trovata».
Roteai gli occhi e feci finta di ascoltare le sue prediche e lamentele fino quando si accorse che non stavo prestando attenzione alle sue parole, indispettita dal mio comportamento raggiunse l’altra parte del letto per prendere un cuscino e lanciarmelo in faccia. A causa dell’impatto il mio capo si piegò all’indietro e rimasi per alcuni secondi in quella posizione leggermente confusa, poi massaggiandomi il naso le restituii il colpo.
«Ma sei impazzita?» chiesi.
La mia amica scoppiò a ridere per la mia espressione e alla fine mi aggiunsi anche io, ci abbracciamo felici di esserci ritrovate di nuovo e guardando Glenn coinvolsi anche lui in quel momento di serenità, staccandomi poco dopo mentre con una mano asciugai una lacrima di commozione.
Kim prese il vassoio per metterlo sul mio grembo, ma quando vide che invece di mangiare mi ero limitata a spiluccare qualcosa qua e là, iniziò a picchiare con il piede sul pavimento e a guardarmi come farebbe una nonna con il nipote.
«Non riesco» dissi. «E ti prego di risparmiarti le critiche, almeno per questa volta».
«Le mie non sono critiche. Sono solo preoccupata» rispose. «Lo so che ti sei svegliata dopo tre giorni e che il tuo stomaco ora è in guerra, ma se vuoi rimetterti devi iniziare da qui». Indicò il vassoio e fece un gesto con la mano per spronarmi a mangiare.
«D’accordo, ma ho bisogno che tu faccia qualcosa per me, poi mangerò. Te lo prometto».
Mi guardò inarcando un sopracciglio non sapendo se fidarsi di me o no, ma alla fine acconsentii con un sospiro.
«Mi farai diventare matta, cosa vuoi adesso?».
«Voglio vedere come sta Sophia».
«Non se ne parla!» protestò.
«Ha ragione lei» intervenne Glenn. «Non puoi camminare da sola».
«Per questo mi aiuterete voi, amici» dissi pronunciando con enfasi l’ultima parola e sorridendo in modo furbo.
La mia amica sbuffò sonoramente e rimase ferma a valutare la mia proposta per vari secondi, ma alla fine acconsentì e insieme a Glenn, mi diede una mano ad alzarmi dal letto e a muovere i miei primi passi.
Il dolore era peggiorato e la caviglia assomigliava ad un pallone da calcio, ma con il loro aiuto riuscii a percorrere tutto il corridoio.
«Daryl mi ucciderà se viene a saperlo» borbottò Kim. «E sarà tutta colpa tua».
«E smettila di lamentarti».
Bussai due volte alla porta della giovane ragazza che subito si aprì. Dall’altra parte c’era Carol e nonostante il suo sorriso, riuscii a vedere la stanchezza sul suo volto, sotto i suoi occhi si erano formate delle brutte occhiaie violacee che li facevano sembrare più infossati.
«Sono venuta a vedere come sta Sophia» dissi con un sorriso.
La donna si fece da parte per farci entrare e non riuscii a trattenere la mia felicità quando vidi che la ragazzina stava riposando beata come se i giorni precedenti non l’avessero turbata. Non volendo disturbarla la lasciai dormire, prima di andare via però salutai Carol che mi abbracciò.
«Non sai quanto ti sia grata per aver salvato la vita di mia figlia. Lei è l’unica cosa di buono che io abbia mai avuto» disse.
«Non devi ringraziarmi, non ho fatto nulla che gli altri non avrebbero fatto».
Tranne Shane.
«Ora devo tornare in camera, ma se hai bisogno di me, sai dove sono».
Uscimmo accompagnando la porta senza far rumore per non svegliare Sophia e camminammo in punta di piedi per non farci sentire da nessuno, non volevo che sapessero che mi ero alzata e che stavo allegramente camminando in giro.   Percorremmo il corridoio illuminato solo dalla luce soffusa dalla piantana che dal piano di sotto giungeva fino a noi, la semi oscurità mi fece strizzare gli occhi più di una volta per capire dove mettere i piedi, ma con un po’ di attenzione riuscii a non inciampare e alla fine mi ritrovai davanti la porta della mia camera, lì Glenn si congedò dicendo che andava a dormire e dopo averlo abbracciato una seconda volta lo lasciai andare.
Rimasta sola con Kim entrai nella stanza e mi mossi velocemente verso il letto. Ora che sapevo che Sophia stava bene non sentivo più lo stomaco chiuso, al contrario iniziavo ad avvertire lo stimolo della fame tornare.
«Sei contenta adesso?».
Mi sedetti sul letto e portai il vassoio sulle mie gambe con un sorriso compiaciuto.
«Non è stato difficile, e tu che ti preoccupavi per Daryl».
Portai alla bocca la forchetta con la quale avevo infilzato dei cetrioli e delle patate e masticai lentamente gustando ogni sapore che le mie papille gustative riuscivano a captare. Mai il sapore del cibo mi era sembrato così buono, mi sembrava di essere una bambina e di aver assaggiato per la prima volta qualcosa di assolutamente delizioso.
«La fai facile tu, a te non ti toccherebbe, ma io finirei come i suoi amati scoiattoli».
«Quanto sei drammatica» commentai.
Inarcò un sopracciglio e mi guardò per qualche secondo, valutando se dirmi o no qualcosa che sapeva e che a giudicare dall’espressione sul suo viso la divertiva.
«Non ti sei accorta di niente, vero?».
Questa volta fui io a guardarla, ma in modo confuso.
«Da quando sei tornata Daryl è venuto ogni giorno a trovarti. Si sedeva lì» disse indicando la poltrona. «E non si muoveva. Di tanto in tanto ti parlava o forse parlava da solo, non so» continuò.
Non è vero.
Continuai a mangiare con fare disinteressato, non credendo ad una sola parola.
«Non può essere, è ancora arrabbiato con me. Sono andata a letto con suo fratello e se i ruoli fossero invertiti e avessi una sorella che si è fatta il mio migliore amico sarei incazzata anche io, anche se forse non l’avrei presa a pugni… forse».
Alzò le spalle e prese il vassoio sul quale c’era il piatto ormai vuoto.
«Pensala come vuoi».
Guardai Kim fermarsi di spalle sulla soglia della porta e poi voltare il capo verso di me con un sorrisetto spiaccicato sulle labbra.
«Ma tu non lo hai visto il giorno in cui Shane ti ha portata qui per affidarti alle cure di Hershel...».
Non sapevo dove volesse arrivare, ma le sue parole aveva catturato completamente la mia attenzione.
«Ha aspettato che il vecchio uscisse e poi è entrato come un uragano. Se davvero ti odia ha un modo abbastanza strano per mostrartelo».
Uscì dalla stanza senza darmi modo di ribattere e rimasi ad osservare la porta ormai chiusa.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ciao C:
sono ancora io e ho un annuncio da fare, non sono cattive notizie, poi tutto dipende da voi x)
Siamo al capitolo ventisette il che vuol dire che in una decina di capitoli questa storia può considerarsi conclusa, MA! Ci sarà una seconda parte.
Devo ancora pensare alla trama e tutto, ma grosso modo ho le idee abbastanza chiare su come procedere.
Detto questo io me ne vado e vi saluto,
 
yulen c:

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Capitolo 29
*** Capitolo28 ***


 
 
 
 
Capitolo28
 
 
 
 
 
 
 
Dopo il discorso con Kim non riuscii a prendere sonno. Mi sentivo strana e una parte di me voleva uscire da quella casa per affrontare Daryl a quattr’occhi.
In me si annidava il bisogno di sapere cosa lo avesse spinto a rimanere al mio fianco per tre giorni dopo che mi ero comportata in maniera così ignobile con lui. Passai tutta la notte a ricordare come la sua mano calda e ruvida era piacevole contro la mia morbida e fredda, e desiderai che fosse con me anche in quel momento per riscaldare le mie dita congelate.
Il mattino successivo ero così stanca da non riuscire a tenere gli occhi aperti per più di tre secondi, quando Hershel entrò per visitarmi dovetti fare ricorso a tutta la mia buona volontà per riuscire a rimanere sveglia e dopo che uscii, potei finalmente a distendermi.
Mi rigirai più volte nel letto, cercando di trovare la posizione giusta e dopo essermi messa a pancia in giù e aver tolto il cuscino da sotto la faccia, sentii tutti i miei muscoli rilassarsi, quello era l’unico modo in cui avrei potuto dormire senza che il peso premesse sulla scapola. Non ci volle molto affinché cadessi in un profondo stato di dormiveglia, ma quando sentii la porta della camera sbattere sbuffai sonoramente.
Lasciatemi dormire.
Voltai il capo a destra e quando vidi Kim con lo stesso vassoio della sera precedente e una busta appesa nella piegatura del braccio, tornai a nascondere il viso contro il materasso. Mi faceva piacere che si preoccupasse per me, ma avrebbe potuto usare un po’ più di grazia nell’entrare invece di travolgere tutto come faceva al suo solito.
«Ti ho portato la colazione».
Biascicai qualcosa che doveva essere un “va bene”, ma dalla mia bocca uscii un suono che sembrava più il verso di una mucca, il mio gemito fece scoppiare la mia amica in una sonora risata e pregai che qualcosa le andasse di traverso per farla stare zitta.
«Dormito poco?» domandò.
Annuii e rotolai su un fianco per sedermi in modo permetterle di appoggiare il vassoio sulle mie gambe lasciando la borsa a terra.
«Dopo devo andare con Glenn a cercare provviste. Ti serve qualcosa?».
Ci pensai un po’ su quando non mi venne in mente niente che potesse servirmi, a parte le solite cose non c’era nulla di cui avevo urgente bisogno, ma quando mi ricordai del perché fossi lì, mi tornò in mente anche la promessa che mi ero fatta.
È ora di cambiare look.
«Forbici, olio, balsamo, shampoo e un pettine. Quando uno di quei mostri mi ha presa per i capelli ho giurato che me ne sarei disfatta se fossi sopravvissuta» spiegai notando il suo sguardo scettico.
Kim annuì e si sedette dall’altra parte del letto in attesa che finissi la colazione.
«Il mio borsone con i medicinali» dissi. «Quanta roba c’è dentro?».
«È stato usato parecchio negli ultimi giorni, dopo l’incidente con Carl, quello con Daryl e…».
«Aspetta» la fermai strozzandomi quasi con il succo d’arancia che stavo bevendo.
«Incidente a Daryl?» domandai seriamente preoccupata.
«È successo cinque giorni fa mentre stava cercando voi. È tornato indietro tutto trasandato, Andrea lo ha scambiato per uno zombie e gli ha sparato, il proiettile gli ha sfiorato la testa» rispose con leggerezza.
La guardai di sottecchi domandandomi come facesse a trattare con non curanza un fatto così grave che avrebbe potuto costare la vita di una delle persone per me più importanti, era anche vero che lei non si impressionava facilmente e che non si fasciava la testa prima di farsi del male, ma avrebbe potuto mostrare un po’ più di interesse.
«Portami il borsone dopo, così ti scrivo su un foglio cosa dovete cercare».
Una volta finita la colazione posai il vassoio sul comò e Kim si alzò per prendere la busta al cui interno c’erano un cambio di vestiti e un flacone di bagnoschiuma e shampoo.
«Ho pensato che volessi darti una pulita. Ti do una mano?».
Annuii e insieme a Kim camminai fino al bagno dove mi sedetti su una sedia lì presente. La mia amica mi aiutò a togliermi la maglia quando vide che non riuscivo a muovere bene la spalla e poi lasciò che finissi di spogliarmi. Non potevo ancora lavarmi completamente, per questo dovetti pulirmi a strati e anche se non era come farsi una doccia completa, riuscii almeno a togliere il grosso dello sporco che si era depositato sulla mia pelle nei giorni precedenti. Per lavarmi i capelli mi inginocchiai a lato della vasca e portai la testa al suo interno, quando vidi l’acqua tingersi di colori come il nero e il marrone feci una faccia schifata; sembrava che mi fossi rotolata in una pozza di fango e ci avessi sguazzato dentro per un po’.
Dopo che ebbi finito di sistemarmi alla meno peggio tornai in camera, ma non avevo nessuna voglia di restare sul letto, così chiesi a Kim se potesse spostare la poltrona vicino alla finestra in modo che potesse cambiare panorama.
Dalla mia postazione potei vedere un accampamento composto da auto e tende posto nel cortile davanti la casa, in cerchio erano disposte delle sedie al cui interno c’era il fuoco spento che avevano usato per la colazione, guardando più attentamente vidi che mancava la moto di Merle e quando spostai gli occhi verso la parte più esterna del campo per cercarla, con la coda dell’occhio vidi Rick e Shane parlare. Anche se non sapevo di cosa stessero discutendo, la postura rigida di entrambi mi suggerì che non fosse un argomento molto leggero, aggrottando la fronte mi chiesi se l’ex sceriffo sapesse delle scappatelle della moglie e come avesse reagito, non lo conoscevo ancora bene, ma mi era parso un uomo calmo e ragionevole al punto che avrebbe fatto di tutto per il bene della sua famiglia.
«Se te lo stai chiedendo Rick sa di Shane e Lori» disse Kim che aveva visto il mio interesse verso i due uomini.
«Non credo che abbia digerito l’intera storia, ma sta cercando di passarci oltre per il bene di Carl e del nascituro nonostante sappia che potrebbe non essere suo».
«Sei una pettegola» commentai con un sorriso.
«Dovrò pur trovare qualcosa che non sia spaccare teste e arrostire scoiattoli» rispose.
«Comunque ora devo andare. Ci sono panni da stendere e da lavare e non sia mai che Sua Maestà venga a rimproverarmi perché non lavo le mutande».
«Non essere così cattiva» la rimproverai dandole uno schiaffetto al braccio.
«Quella donna è un tiranno, credimi».
Salutai Kim che uscì ed io rimasi di nuovo sola. Guardai dalla finestra i miei compagni intenti a svolgere ognuno le proprie mansioni e desiderai di essere lì con loro per potermi sgranchire un po’. Non ce la facevo più a stare ferma, le natiche mi facevano male con tutti i giorni che avevo passato distesa e sentivo di tanto in tanto uno strano formicolio per le gambe che mi spingevano ad alzarmi e farmi un giro. Persino Sophia era in piedi e stava giocando ad acchiapparella con Carl.
Sbuffai e appoggiai la fronte contro la parete rimanendo ad osservare il mondo come se la cavava senza di me, per noia probabilmente alla fine mi addormentai, risvegliandomi al suono di un leggero bussare. Mi stropicciai gli occhi sentendomi ancora più stanca di prima, quelle ore di riposo avevano fatto più danno che bene.
La porta si aprì e come sempre mi aspettai che fosse Kim, ma quando vidi dei lunghi capelli biondi e mossi incorniciare due occhi azzurri il mio sorriso si fece più grande.
«Andrea» dissi.
La ragazza si avvicinò a me ed io mi alzai per poterla abbracciare. Era bello rivederla e non riuscivo ad aspettare oltre per poter ricongiungermi al resto della combriccola di disperati, come Kim li aveva chiamati la prima volta.
Mi staccai e la guardai non riconoscendola quasi. Quando l’avevo lasciata aveva un’espressione sofferente sul viso ed era ancora in pena per la morte della sorella, ora mi sembrava differente. Più forte e sicura, i suoi occhi brillavano in modo diverso, mi sembrava più capace di prima e pronta a fare qualsiasi cosa per vivere.
«Stai bene?» domandai. Sapevo che non poteva essere altrimenti, ma volevo che fosse lei a dirmelo.
«Sì, e so che le cose non torneranno come prima. Amy è morta, ma non devo arrendermi solo per questo» rispose. «Per lei ero quella sorella forte, non quella che si abbandonava alla tristezza e al dolore e voglio essere di nuovo quella persona».
«E tu?» chiese. «So che è stata dura per te».
Sospirai e abbassai lo sguardo pensando che se le cose fossero andate diversamente saremmo entrambe morte.
«Non immagini quanto. Quando eravamo nel bosco Sophia ha smesso di respirare per qualche minuto e ho pensato al peggio, io ero ferita davvero gravemente e non avevo più pallottole per fare ciò che dovevo fare. Ho pensato che mi sarei trasformata una volta morta, poi Rick e Shane ci hanno trovati».
«Ciò che importa davvero è che voi siate qui sane e salve» rispose per darmi conforto.
Sorrisi e guardai di nuovo fuori.
«La moto di Merle?» domandai.
«Daryl e il fratello sono al delimitare della foresta, non credo sia cambiato molto dalla cava. Anche allora preferivano restare soli».
Sempre i soliti.
«Kim è passata insieme a Glenn per portarti il pranzo e chiederti quali medicinali servissero prima che lei partisse, ma tu dormivi. Vuoi che ti porti la cena?».
«Sì, o Kim è capace di salire e imbocconarmi lei stessa. Ammetto che mi fa paura».
Ridemmo alla mia battuta, ma dovetti fermarmi quando a forza di sussultare iniziai a sentire dolore alla scapola, solo per ricominciare più forte quando la diretta interessata fece capolino dalla porta.
«Che mi sono persa?» domandò.
Io e Andrea ci guardammo in faccia per alcuni secondi, camuffando le nostre risate con dei colpi di tosse.
«Sapete cosa? Preferisco non saperne nulla» disse scuotendo la testa. «Hershel ha detto che se vuoi puoi venire a mangiare giù con noi».
A quella frase mi ricomposi e i miei occhi brillarono più vivacemente, con uno scatto degno di un felino mi alzai dalla poltrona e seguita dalle due donne mi precipitai, per quanto il piede me lo permettesse, giù per le scale fino alla porta d’ingresso.
Uscii dalla casa e subito il mio naso avvertii il profumo della cena disperdersi nell’aria fresca e pulita, quegli odori così forti e veri mi fecero sentire completamente rinata, come se per una settimana avessi vissuto dentro una cupola.
Quando mi avvicinai abbastanza al fuoco dove il gruppo sedeva, qualsiasi discorso fosse in corso s’interruppe non appena Glenn, notando la mia presenza, alzò gli occhi verso di me e disse il mio nome sorridendo. Salutai i miei amici che furono bel felici di vedermi e poi mi sedetti in uno spazio vicino ad Andrea.
Mangiai lì con loro ridendo e scambiando qualche battuta, di tanto in tanto vedevo che Glenn guardava verso la casa dove, sulla veranda, c’era una ragazza che a causa dell’oscurità non riuscii a vedere bene.
Spostando l’attenzione prima verso lei e poi verso il mio amico, notai gli sguardi che lui gli stava lanciando e alla fine scossi la testa ridendo.
«È la tua nuova fiamma?» domandai a bassa voce in modo che potesse sentirmi solo lui.
Voltò il capo in modo fulmineo verso il fuoco, il viso diventò leggermente rosso ma la colpa non era delle fiamme.
«Chi? Lei? N-n-no siamo solo amici, ci conosciamo da poco».
«Calmati» lo rassicurai, il modo veloce con cui rispose mi fece quasi scoppiare a ridere. «Era solo uno scherzo».
«Si chiama Maggie e non so cosa sia per me. Lei è carina, è vero, ma non so se questo sia il momento adatto».
«Lo scoprirai, non c’è motivo per affrettare le cose» risposi sorridendo.
Gli diedi una pacca sulla spalla e mi alzai in piedi, prima di tornare a letto dovevo fare un’ultima cosa. Daryl non era più venuto a trovarmi dopo essermi risvegliata e volevo capire cosa si celasse nella sua mente, se davvero si era preoccupato così tanto non capii perché non fosse più venuto a farmi visita.
«Dove vai?» domandò Kim.
«Devo parlare con Merle e Daryl».
«Non puoi andare da sola» protestò alzandosi in piedi anche lei.
«Non ho nemmeno bisogno di una scorta, devo parlare con loro» dissi. «Possibilmente senza che orecchie indiscrete sentano».
«Giuro che un giorno di questi ti lego da qualche parte».
Le sorrisi e l’abbracciai, poi diedi la buonanotte a tutti gli altri.
Stringendomi nelle braccia camminai verso il punto in cui vidi la fioca luce di un fuoco che si stava spegnendo illuminare con il suo bagliore l’area intorno ad esso. C’era qualcuno lì seduto ma al buio mi fu difficile capire chi fosse, quindi avanzai di qualche passo fino quando la figura di Daryl prese forma. Era seduto su un ceppo assorto nei suoi pensieri mentre si fabbricava dei dardi con dei stecchi di legna accatastati ai suoi piedi.
La parte destra del suo corpo era in ombra mentre quella sinistra era rischiarata di un flebile bagliore che la illuminava, creando un bellissimo contrasto di luce e ombra su di lui che era sempre stato a cavallo tra i due mondi.
«Hey» lo salutai.
Daryl smise di trafficare con il coltello per qualche secondo, giusto il tempo di guardarmi.
«Hershel sa che sei qui?» domandò tornando alla sua occupazione.
«Pensi davvero che andrei a zonzo senza ordine del dottore?» chiesi a mia volta cercando di tenere un tono fintamente offeso.
Sbottò in una mezza risate e si spostò leggermente in modo che anche io potessi sedermi davanti quelle fiamme che stavano iniziando a spegnersi ma che regalavano ancora dei piacevoli istanti di calore.
«Perché non sei più tornato dopo che mi sono svegliata?».
«Sono andato a caccia, quegli stronzi è già tanto se sanno distinguere le proprie orme da quelle degli altri».
Ecco che ricomincia!
«Pensavo fossi arrabbiato con me» dissi. «Dopo quello che hai sentito e il modo in cui sei venuto a saperlo. Prima ero io quella incazzata con te e non ne avevo motivo, quella che si è comportata da stronza sono stata io, ciò che ho fatto è stato meschino e vorrei poterti dare un motivo per farti capire, ma la verità è che qualsiasi cosa io dica non credo che per te avrebbe un senso».
Guardai la tenda dentro la quale proveniva un forte russare, Merle stava dormendo e dai rumori che faceva sembrava volesse richiamare qualsiasi zombie presente nel bosco. Dovevo parlare anche con lui, ma visto che dormiva decisi di aspettare il giorno seguente.
«Rick me lo ha detto del vostro scontro». L’espressione sul mio volto si fece cupa. «Non me l’ha proprio detto, l’ho intuito da sola. Non devi prendertela con lui, sai com’è fatto e poi sono stata io a mettervi in questa situazione, quindi se cerchi qualcuno a cui dare la colpa, beh, sono qui. Dimmi tutto quello che hai da dire e perdona Merle, è l’unica cosa che ti è ri-».
Si girò di scatto lasciando a terra le frecce e posò una mano sulla bocca.
«Vuoi stare zitta per tre minuti?» chiese. «Ero arrabbiato, è vero. Poi ti sei persa e…».
Tolsi la mano dalle mie labbra e sbuffai.
«Ehi! Non mi sono persa, sapevo perfettamente dove stavo andando, ma stavo male e mi serviva un posto in cui rimettermi» lo corressi interrompendolo a mia volta.
«Ma tu non c’eri!» disse adirato, alzando la voce.
«Non c’ero» confermai con tono basso.
Staccai velocemente la mia mano dalla sua quando mi resi conto che erano ancora strette e mi allontanai di alcuni centimetri. Mi sentii in imbarazzo per il mio gesto e cercai subito una via d’uscita da quella situazione
«È tardi, io vado a dormire» dissi senza riuscire a guardarlo. «Buonanotte».
Mi alzai ma subito una mano stretta leggera attorno il mio polso mi spinse verso il basso e prima che me ne rendessi conto, mi ritrovai sulla gambe di Daryl con le sue braccia attorno il mio corpo legate in un abbraccio da quale non mi sarei mai voluta slegare. Mi sentii così al sicuro e protetta in quella posizione che niente mi faceva più paura e per un momento pensai di mandare al diavolo i consigli di Hershel e restare lì, ma dovevo andarmene prima di farci l’abitudine.
«Dovresti lasciarmi andare ora, non voglio fare nulla di cui poi potrei pentirmi».
Si staccò subito guardandomi spaventato, come se le mie parole lo avessero svegliato da uno stato di trance e io iniziai a sentire un po’ la mancanza di quel contatto fino a stringerlo di nuovo, ma senza secondi fini.
«Ci vediamo domani» dissi alzandomi.
 
 
 
 
 
Mi svegliai quando qualcuno bussò alla porta, stropicciai gli occhi con la mano infilando per sbaglio un dito dentro il bulbo oculare sinistro.
«Miseriaccia!» sbottai sbattendo le palpebre.
Cercai di mettere a fuoco gli oggetti, ma dalla parte offesa vedevo tanti piccoli puntini colorati su uno sfondo nero.
Fantastico, sono appena diventata cieca.
«Tutto bene?».
Voltai la testa in direzione della porta che non avevo sentito aprirsi ed insieme a Hershel vidi Kim con un sorriso spiaccicato sulla sua faccia. In mano reggeva una busta.
Se la ride, la stronza.
«Credo di avere appena perso quattro diottrie» borbottai.
Mi tirai su a sedere per la visita di routine che quel giorno si concluse con la mia dimissione. La spalla anche se mi faceva male riuscivo a muoverla e riuscivo anche a poggiare tutto il mio peso sul piede, per una totale guarigione mi sarebbe servito più tempo, ma quello non mancava. Più tempo avrei speso lì per risanare tutte le ferite, più tempo Hershel avrebbe avuto per cambiare idea sul farci restare.
Quando l’anziano se ne andò, Kim rimase nella stanza per aiutarmi a mettere una crema sulla spalla che avrebbe aiutato ad alleviare il gonfiore.
Scostai da una parte i miei dread e abbassai la testa per facilitarle il compito, ma il contatto improvviso con l’unguento unto e freddo mi fece rabbrividire momentaneamente, con un salto mi scostai da quel tocco e guardai la crema come se fosse cattiva e volesse mangiarmi. Kim sospirò ormai abituata ai miei modo un po’ infantili di rispondere alle cure e aspettò che le dessi di nuovo le spalle prima di spalmare la pomata con movimenti circolari e lenti, applicando una leggera pressione sulla parte arrossata.
«Ti ho portato ciò che mi hai chiesto l’altro ieri, sei sicura?» disse dopo aver finito.
Ero reclutante dall’idea di cambiare pettinatura, ormai avevo i dread da anni e mi era costato due giornate per fare tutta la testa, per questo un po’ mi dispiaceva, ma tenere un taglio corto avrebbe impedito futuri incidenti e avrebbe richiesto molte meno attenzioni.
«Sì, i capelli ricresceranno» risposi.
Kim annuì in segno di comprensione ed estrasse dalla borsa ciò che le avevo chiesto di prendere il giorno prima, poi andammo in bagno dove mi aiutò a disfarmi dei miei dread. Quando finii e mi guardai allo specchio quasi sbiancai, della mia bellissima chioma era rimasto solo un taglio corto scalato e sfilato, alcune ciocche erano più corte delle altre e arrivavano a malapena agli zigomi che sembravano più tondeggianti ora che la lunga capigliatura aveva smesso di coprire quelle piccole imperfezioni.
Passai una mano tra i capelli corti provando una strana sensazione, anche il riflesso dello specchio sembrava quello di un’estranea e non mi sentivo affatto a mio agio in quel nuovo mio aspetto.
Non mi piacevano i capelli corti, li avevo portati in una cresta solo quando stavo cercando il mio genere e dopo due settimane mi stavo disperando perché ci avrei impiegato anni a farli ricrescere.
Ho fatto una cazzata.
«Non sei tanto male, poteva andarti peggio. Tipo raderti a zero».
«Grazie, tu sì che sai come farmi stare meglio».
«Quando vuoi» rispose facendo spallucce.
La guardai accigliata per qualche secondo, divisa dalla voglia di buttarla dentro la vasca e aprire l’acqua o lasciar correre perché tanto non sarebbe servito a nulla.
Rilavai i capelli una seconda volta per eliminare i alcuni ciuffi che erano rimasti sulla pelle e poi ripulii il bagno da ogni mia traccia mentre Kim rassettò la camera da letto cambiando le lenzuola con altre pulite che erano state portate da Maggie, prima figlia di Hershel.
Quindi sei tu l’interesse di Glenn.
«Pronta a tornare nel mondo dei vivi?» domandò la mia amica dandomi una gomitata nel costato.
Risposi con un sospiro di felicità ed uscimmo da quella casa per essere accolte dal sole tiepido e dal vento che solo ogni tanto si ricordava di soffiare.
Intorno all’abitazione non c’era nessuno dei miei compagni, Kim mi informò che la maggior parte di loro erano impegnati a imparare a sparare in uno spiazzo vicino alla fattoria poiché Hershel non permetteva l’uso di armi sulla sua proprietà, solo Dale era seduto sul tettuccio del camper mentre faceva la guardia e appena mi vide, mi salutò con un sorriso che ricambiai.
Lasciando Kim insieme a Dale, andai alla ricerca di Merle che trovai vicino alla sua tenda.
«Daryl non c’è tesoro, ripassa più tardi» disse.
«Non è con lui che devo parlare» risposi scuotendo la testa. «Perché hai deciso di calarti in un incontro di box con Daryl?».
Ghignò divertito e mi guardò dalla punta dei capelli a quelle delle dita, soffermandosi sulla spalla fasciata lasciata in mostra da una canotta verde.
«Ciò che hai fatto è stato un atto di vero coraggio» commentò con finta impressione.
«Non cambiare discorso e rispondi, perché lo hai fatto?».
«Sai che è stato lui a cominciare?».
«Non ha importanza chi ha cominciato, sei il più grande. Comportarti come tale».
Abbassai lo sguardo e i miei occhi si fermarono sulla sua protesi in metallo. Trasalii sentendomi improvvisamente a disagio. Non mi ero dimenticata di Atlanta, della ricerca di provviste andata male, della missione del suo recupero e della mano mozzata, ma vedere con i miei occhi era tutta un’altra cosa.
«Come sei sopravvissuto?». Non riuscivo ancora a credere che fosse vivo.
Rise scuotendo la testa e poi allargò le braccia per mostrarsi in tutta la sua grandezza.
«Sono Merle Dixon, nessuno mi uccide».
«Io credo che tu sia troppo pieno di te» risposi. «Sono qui per un motivo e voglio che mi ascolti. Il mondo è cambiato, ma ci sono ancora delle leggi da rispettare il ché include anche evitare certi spettacoli. Questa proprietà è di Hershel e se non ti appresti a rispettare qualche regola, lui ci sbatterà sulla strada. Ora non so tu, ma qui mi pare abbastanza sicuro, molto di più di quanto lo sia all’aperto».
«Mhm, fai così per la moglie del Poliziotto Gentile? È sempre stato nel tuo carattere preoccuparti anche per gli altri».
Sospirai e passai una mano sul viso, premendo le tempie con le dita e poi strizzando il ponte del naso. Era incredibile in fatto che non riuscisse ad arrivarci da solo, non lo stavo facendo solo per il futuro bambino, ma anche per lui, lì eravamo protetti e non dovevamo dormire con un coltello sotto il cuscino.
«Preferiresti essere là fuori e dormire due ore per notte o restare qui e riposarti davvero?».
«Posso sopravvivere ovunque, dolcezza».
«Continua a ripeterlo, magari alla fine ci crederai» risposi prima di andarmene.
La conversazione era conclusa e continuare a premere sullo stesso argomento non ci avrebbe portati da nessuna parte, perciò per il momento lasciai correre.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
finalmente riesco a presentarvi il capitolo numero ventotto.
È stata una vera odissea correggere e riscrivere con questo caldo, il mio cervello è come il ghiacciolo che ho preso dal congelatore qualche minuto fa… completamente sciolto!
Spero che l’attesa sia valsa e che il capitolo non sia una ciofeca completa e io vista l’ora vi do la buona notte e vado a gettarmi in qualche buco in Siberia.
Alla prossima,
 
yulen c:

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Capitolo 30
*** Capitolo29 ***






Capitolo29


 
 
 
 
 
Quando il sole iniziò la sua calata tutti i membri del gruppo ritornarono all’accampamento con passi lenti, pesanti e trascinati ed un’espressione stanca in volto. Si sedettero tutti attorno al fuoco già scoppiettante aspettando con quella poca pazienza che gli era rimasta che io e Lori finissimo di preparare la cena. In due contenitori a parte misi la verdura e lo stufato che avevamo preparato con il cervo portato in precedenza da Daryl e li portai a lui e al fratello in modo che avessero qualcosa di più sostanzioso da poter mangiare. Arrivata al loro campo non vidi nessuno, ma il fuoco era già acceso qui lasciai lì i due recipienti e tornai indietro sedendomi tra Kim e Glenn, il quale continuava a guardare il suo piatto giocherellando un po’ con la forchetta, ma senza portarsela alle labbra. Era un comportamento insolito per lui che era sempre aperto con tutti e aveva sempre il sorriso sulle labbra.
Diedi una gomitata alla mia amica e feci un cenno con la testa verso il ragazzo come per chiedergli che cosa avesse, ma lei scosse la testa e alzò le spalle. Nessuno si era accorto del suo modo di comportarsi, o forse non volevano avere altri problemi a cui pensare e perciò ignorarono i suoi atteggiamenti sospetti, ma io non avrei lasciato questa cosa passare sotto gamba.
Aspettai che la cena finisse e che tutti si ritirassero nelle loro tende prima di avvicinarlo.
«Tutto a posto?» chiesi.
Allarmato, saltò sul posto e si guardò intorno con sguardo frenetico evitando il contatto visivo.
«Uh, s-s-sì! Perché? Deve per forza esserci qualche minaccia all’orizzonte? Non c’è nulla di preoccuparsi, davvero. Perché me lo chiedi? C’è qualcosa che non va?» disse tutto d’un fiato senza riuscire a stare fermo.
Le sue azioni mi diedero conferma sui miei sospetti e anche io osservai le tende dei nostri compagni per essere sicura che non uscissero in quel momento.
«Sono io che ti ho fatto questa domanda per prima, quindi rispondi».
Dondolò sulle punte dei piedi mormorando frasi tra sé e sé, non riuscii a capire nulla di quello che stava dicendo ed ebbi l’impressione che quel suo mormorio era voluto proprio per tenermi all’oscuro di tutto.
«Glenn!» lo incitai.
«Ilfienileèpienodizombie» pigolò.
Guardai in direzione della costruzione facendo fatica a credere ad una cosa del genere. Il motivo per dovevano tenere dei vaganti incatenati come se fossero dei simpatici animali da compagnia mi sfuggiva e non volevo nemmeno scoprirlo, ma era qualcosa che non poteva restare nascosto al resto del gruppo. Eravamo tutti in pericolo e gli altri meritavano di sapere che nemmeno la fattoria era così sicura se il padrone di casa teneva quei mostri rinchiusi senza sapere che bastava un passo falso per fare una brutta fine.
«Chi altri lo sa?» chiesi.
«Dale» rispose. «Non dire niente, ho promesso a Maggie che avrei tenuto la bocca chiusa».
«Ma non capisci? Anche lei è in pericolo!» dissi cercando di non alzare troppo la voce. «Non mi importa il perché li tenga lì, ma non sono degli animali da nutrire e coccolare, pensa un po’ se qualcosa dovesse andare storto mentre lei è là dentro». Giocare con i suoi sentimenti per farlo ragionare non era un comportamento corretto, ma non poteva lasciare che questa cosa passasse inosservata solo per amore.
«Suo padre crede che sono malati e che troveranno una cura, per questo sono rinchiusi. Aspetta che qualcuno sistemi le cose, sua moglie è lì insieme al fratellastro di Maggie e altre persone per loro importanti».
«È irragionevole come cosa». Scossi la testa guardando il fienile un’ultima volta e poi le tende dove i nostri amici stavano dormendo. Decisi che per il momento non avrei detto niente, se da una parte meritavano di saperlo per potersi difendere, dall’altra una notizia del genere sganciata con leggerezza e con Merle presente non avrebbe aiutato nessuno di noi.
«Ok, mi fido di te e non mi farò uscire nulla per ora, ma devi trovare una soluzione».
«Lo so anche io che devo parlarne al gruppo, anche Dale me lo ha suggerito e avete ragione, il punto è che non voglio tradire la fiducia di Maggie, ma non sono nemmeno capace di tenere qualcosa del genere nascosto».
Sorrisi e gli posai una mano sulla spalla in segno di amicizia, persone come lui erano rare e averle vicine significava essere fortunati.
«Sei troppo genuino, non cambiare mai». Lo abbracciai e poi lo lasciai andare a dormire.
Anche io mi ritirai nella tenda che dividevo con Kim e quando entrai la trovai sdraiata sulla pancia, con le gambe divaricate e i capelli neri sparsi sulla schiena e in parte sul cuscino. La testa era appoggiata sopra la sua mano sinistra che premeva contro il terreno mentre l’altro braccio era sotto il suo stomaco.
Risi e cercai tra le mie varie cianfrusaglie la macchina fotografica che usai per scattarle una foto prima di provare a farla sdraiare in una maniera più confortevole. Le alzai il capo per rimetterlo sul cuscino, ma come lo sollevai, iniziò a russare e a mugugnare frasi incomprensibili al mio orecchio.
Solo dopo svariati tentativi dove rimediai anche una manata in piena faccia riuscii a farla stendere sul sacco a pelo e a coprirla con una coperta piegata in un angolo della tenda. Kim si mosse per un paio di secondi, si girò sul fianco sinistro, alzò la gamba destra e portò una mano sotto il cuscino, il tutto trascinando in giro il plaid che fino a poco prima era posato dolcemente sulla sua figura. Scoraggiata dai miei fallimenti la lasciai dormire in quella posizione e prendendo il mio coltello ed una torcia uscii nella notte.
Passai il camper sopra il quale T-Dog stava facendo la guardia e senza farmi vedere mi avvicinai al fienile, volevo controllare di persona quanti zombie ci fossero e se le porte fossero abbastanza sicure da non permettere a quelle cose di uscire.
L’immobile era fatto interamente in assi di legno e non erano messe bene. Non era nulla che potesse realmente impedire ai vaganti di uscire se lo avessero voluto, nemmeno il catenaccio fatto passare per le maniglie del battente sarebbe bastato. Decisa ad indagare ancora, salii una scala posta sul retro, accesi la torcia e avanzando a carponi per non far scricchiolare le travi entrai. La puzza di decomposizione era così forte che iniziò a bruciarmi la gola e gli occhi lacrimarono, incapace di trattenere i colpi di tosse feci nota la mia presenza a quelle creature che interessate da un possibile pasto, e attratte dal fascio di luce puntato su loro, si accalcarono sotto di me alzando le braccia sperando di potermi raggiungere. Ne contai circa una dozzina anche se potevano essere di più, era difficile dirlo con la sola luce di una torcia, senza contare il fatto che altri potevano essersi raggruppati sotto il portico, aspettando solo un mio passo falso che mi facesse cadere nelle loro bocche affamate.
Ma questi sono completamente pazzi!
Uscii senza guardare dove mettevo i piedi, la mia priorità era quella di andare lontana da lì il più velocemente possibile e fu così che mi scontrai con qualcuno e finii a terra. Dolorante mi rialzai massaggiandomi una coscia e raccolsi la torcia che era caduta nell’impatto per vedere contro chi fossi andata a sbattere.
Maggie era ancora seduta sul terreno con le gambe piegate e le braccia dietro la schiena, un sacco con della carne si era aperto e i resti si erano sparsi un po’ ovunque. Le tesi una mano per aiutarla a rialzarsi e poi mi guardò spalancando gli occhi prima di spostare il suo sguardo verso il fienile.
«Te lo ha detto Glenn?» chiese con voce tremante.
Era sciocco avere paura che qualcuno scoprisse il loro segreto quando il vero pericolo era all’interno del recinto della fattoria senza che loro non se ne rendessero conto.
«Più che altro l’ho obbligato a dirmelo, era spaventato e non riusciva a stare fermo, come se fosse seduto su degli spilli».
«Non è affar mio se tenete quei mostri nascosti… fino a quando non sono una minaccia, ma forse prima dovreste sapere che non sono dei teneri cagnolini e che prima o poi ci scapperà un altro morto» dissi. «E io non voglio scavare un’altra buca. Non dirò nulla perché conoscendo Glenn non riuscirà a tenere dentro una cosa del genere ancora per molto».
La ragazza mi guardò sorpresa, come se non riuscisse a credere che quei mostri potessero essere così pericolosi. Raccolsi il sacco da terra e glielo resi.
Tornai al camper occupato non più da T-Dog ma da Andrea che quando mi vide sorrise, salii la scaletta e mi sedetti a fianco a lei. Restammo di guardia fino al mattino, poi scendemmo per la colazione che passò leggera anche se Glenn aveva ancora un’espressione di disagio addosso, infatti dopo aver svuotato il piatto se ne andò con passo veloce, guadagnandosi lo sguardo inquisitore di tutti gli altri che seguirono i suoi spostamenti fino a quando la sua figura diventò un punto nero in lontananza.
Non mi piace come andrà a finire questa storia.
Dopo aver lavato i piatti tornai sul camper insieme a Dale cercando di fare il possibile per non guardare in direzione del fienile. Destare sospetti e scatenare il panico non era il modo migliore per gestire la situazione, specie per alcuni elementi del gruppo che avrebbero lasciato che le cose gli sfuggissero di mano, in quel modo saremmo stati cacciati via davvero e non c’era un posto a cui potevo pensare dove avremmo potuto vivere.
Quella fattoria era l’ideale; il bosco ci dava modo di trovare cibo, in oltre c’erano delle coltivazioni di frutta e verdura, senza contare tutto il bestiame e l’acqua che lì abbondava. Ma se da una parte speravo di rimandare quel problema, prima o poi la verità sarebbe venuta a galla e allora avremmo dovuto per forza agire, che io o avessi voluto o meno.
«Hai parlato con Maggie?» chiese Glenn agitato salendo la scaletta.
«Le ho detto le cose come stanno. Ho fatto un giro attorno il fienile ieri sera e né il legno né la porta sono robusti, le assi sono vecchie e basta poco per farle scricchiolare. Il catenaccio?» sbottai. «Con dei colpi ben assestati può facilmente rompersi».
«È venuta da me prima ed era molto nervosa. Mi ha detto di averti vista mentre portava da mangiare agli zombie e si è arrabbiata con me per avertelo detto, ma sono stanco di tenere questa cosa nascosta e sapere che la sua vita è in pericolo. Lei mi piace e non voglio che si faccia male» disse. «Voglio dirlo al gruppo».
Annuì posandogli una mano sulla spalla. Era la migliore decisione che potesse prendere e anche Dale era sollevato dal fatto che finalmente avesse deciso di parlarne.
«È la cosa giusta da fare, parlarne prima con Rick. Ultimamente Shane ha un comportamento che mi preoccupa» suggerii.
Fece un leggero cenno del capo e se ne andò con la stessa velocità con il quale era arrivato, sparendo per andare a cercare l’ex sceriffo che al momento mi sembrava l’unico in grado di occuparsi di una cosa così grave senza perdere la calma.
«Lo sapevi?» domandò Dale.
«Non mi ci è voluto molto per capire che qualcosa non andava in lui, era così ansioso ieri sera». risposi. «È Glenn, ed è fin troppo trasparente, chi non si accorge di una cosa del genere è perché preferisce tenere la testa sotto terra».
Dopo il mio turno di guardia scesi dal camper, da lontano vidi Kim marciare a passo di furia verso di me e quando pochi centimetri ci separarono, mi prese per un braccio e mi trascinò dove poter parlare senza essere ascoltata.
Era arrabbiata. Le sue labbra erano ridotte ad una linea sottile, gli occhi spalancati e la fronte aggrottata, stava a braccia conserte mentre batteva per terra un piede con fare spazientito.
«Ci sono zombie nel fienile?» disse a denti stretti.
Feci qualche passo indietro presa alla sprovvista da questo suo comportamento e dal fatto che lo avesse scoperto, credevo che Glenn ne avesse parlato solo con Rick.
«Tu come lo sai?».
«Non fare questi giochetti con me e non rigirare la frittata. Ho sentito lo sceriffo e il tuo amichetto, perciò te lo chiedo di nuovo: ci sono zombie nel fienile?».
«Sì, ma ti prego non dirlo a nessuno. Faresti solo peggio».
Sbottò ridendo in modo sarcastico e mi guardò come se fossi impazzita.
«Peggio di mostri cannibali che vogliono staccarci la pelle a morsi?» urlò quasi.
«Abbassa la voce, pensa se qualcuno tipo Shane dovesse scoprirlo».
Alzò le mani al cielo come se non le importasse e se ne andò ancora più incazzata di prima.
Semplicemente grandioso.
Avrei sistemato le cose con lei una volta calmate le acque, per il momento era meglio lasciarla stare e sperare che non si lasciasse sfuggire nulla.











 
*angolo autrice*
ecco qui il ventinovesimo capitolo, come vedete siamo arrivati quasi alla fine, ma come vi ho già accennato ci sarà un seguito.
Io non ho nulla da aggiungere perciò vi saluto e alla prossima, 

yulen c:

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Capitolo 31
*** Capitolo30 ***






 
Capitolo30
 
 
 
 
 
 
 
 Kim non mi calcolò per tutta la giornata, solo quanto tentai di avvicinarla rispose con battute sarcastiche e sagaci e mi sentii in colpa per non averle detto nulla, lei era la mia confidente e avrei dovuto renderla partecipe della mia scoperta, ma aveva un carattere imprevedibile e non sapevo come avrebbe reagito alla notizia. Nemmeno io sapevo bene come comportarmi, ma se volevo avere un quadro della situazione dovevo parlarne con Rick, il quale, lo stesso pomeriggio, qualche ora prima di cena, parlò con Hershel. Non sapevo cosa si fossero detti, ma qualsiasi fosse stato lo scambio di opinioni avvenuto tra i due non ebbe un buon esito, l’ex sceriffo uscì dalla casa dopo mezz’ora con la mascella serrata, le mani strette a pugno e lo sguardo incupito.
Mi avvicinai a lui, ma aspettai che fosse completamente solo prima di parlare, così anche quando il figlio se ne andò saltellando, contento di avere un coltello tutto suo, colsi l’occasione per sapere il responso che avrebbe decretato la nostra sorte.
«Hai parlato con Hershel?» domandai.
Sospirò posando le mani sui fianchi e annuì.
«Sì, e vuole che ce ne andiamo».
«A questo punto lo preferisco. Un fienile pieno di zombie vicino ai nostri letti? Non mi piace».
«Lori è incinta!».
Alzai lo sguardo al cielo esasperata, non fu un modo proprio educato, ma davvero non capii come non potesse vedere un pericolo del genere.
«E se dovessero uscire? Non mi piace fare la cattiva, ma metti caso che riescano a trovare un modo per passare oltre il portone, invadere il campo e addentare qualcuno di noi? E se quella persona fosse proprio Lori? Scusami ma non mi pare che tu stia ragionando a mente aperta».
Rick socchiuse gli occhi fino a rendere invisibili le iridi azzurre, se uno sguardo avesse potuto uccidere, io sarei morta esattamente in quel momento.
«Il capo sei tu, ma pensaci».
Girai sui miei piedi e mi allontanai verso la tenda dove sperai di trovare Kim, ma di lei non c’era traccia. Il suo sacco a pelo era sistemato e le sue cose erano poste al lato del cuscino per non intralciare il passaggio, anche i vestiti erano accuratamente ripiegati vicino al suo zainetto dove erano riposti i suoi stivali.
Maniaca dell’ordine.
Cercai la mia amica per tutto il campo, ma fu Andrea a fermare la mia ricerca quando mi disse che Kim era andata in ricognizione sperando di trovare qualche negozio che non fosse stato svuotato. Rimasi con lei aiutandola a stendere i panni fino a quando ci raggruppammo per mangiare e come feci la sera prima portai la cena a Merle e Daryl trovando anche quella volta il fuoco acceso senza nessun segno di loro due. Lasciai i contenitori vicino alle fiamme per non far raffreddare la cena e tornai alla mia tenda per dormire.
Quella routine si protrasse per altri giorni nei quali la tensione per alcuni di noi si fece sempre più pesante, l’aria era densa e pareva irrespirabile e tutti sembravamo delle molle pronte a scattare al minimo stimolo. Ormai gli altri membri avevano iniziato a capire che c’era qualcosa che puzzava di marcio e non sapevo per quanto a lungo saremmo riusciti a mantenere il segreto.
Il principale motivo che aveva tradito quella calma apparente era il comportamento di Kim nei miei confronti, tutti sapevano quanto unite fossimo e vederci così staccate l’una dall’altra aveva dato modo ai miei compagni di dubitare che tutto fosse sotto controllo, fortunatamente riuscii a risolvere l’intera questione con una classica bisticciata tra amiche. Inutile dire che tutti fuorché Daryl e Merle avevano capito che la mia era una bugia, ma fortunatamente non erano persone così curiose da ficcare il naso nella vita altrui e non avevano indagato oltre. Non era la prima volta che litigavamo, perciò non ci diedi peso e rimandai quel problema quando non avrei avuto altro per la testa.
I miei pensieri erano divisi tra il prendere un fucile per aprire le porte del fienile e abbattere tutti gli zombie o impacchettare tutte le mie cose e andare il più lontano possibile da lì, tutta quella pressione mi stava facendo impazzire.
Glenn quella mattina decise finalmente che a cena avrebbe reso tutti partecipi del fatto che c’erano degli zombie nel fienile e in quel momento gliene fui così grata che fui sul punto di gettarmi su di lui e baciarlo.
Erano da poco passate le due del pomeriggio, Dale era di guardia sul camper insieme a T-Dog, Lori e Carol stavano stendendo i panni, Kim e Glenn erano spariti in città assieme ad Andrea, i due Dixon erano come al solito per i fatti loro, Shane e Rick stavano facendo un giro di perlustrazione del perimetro mentre io, Carl e Sophia stavamo giocando a carte. Una giornata normale insomma, non faceva né caldo né freddo e per una volta mi sentii libera da qualsiasi brutto pensiero, come rinata dopo l’orrenda esperienza, quella pace non fu molto duratura però, perché in un istante quella quiete scivolò via come una goccia di pioggia sul vetro.
Fu Carl ad urlare e a fammi voltare verso il punto che stava guardando, alle mie spalle alcuni vaganti stavano marciando verso noi con i loro movimenti goffi, gli atri tesi e le bocche aperte.
Il fienile!
Cercai la pistola con la mano, ma sentendo solo la stoffa dei jeans mi ricordai della regola di Hershel.
Maledizione!
Sentii degli spari provenire dal camper e qualcuno chiamarmi, quando mi voltai vidi Dale stringere tra le mani il borsone con le armi che mi passò, poi salì di nuovo sul tettuccio da dove aveva una visuale migliore.
Afferrando i due bambini per le braccia mi inginocchiai alla loro altezza per poterli guardare meglio.
«Sai come si usa?» domandai a Carl mostrandogli una pistola.
Il ragazzino annuì e con mani tremanti l’afferrò.
«Entrate nel camper, chiudetevi dentro e non uscite per nessun motivo».
Presi un fucile a pompa e controllai che avesse le cartucce all’interno poi sparai i sei proiettili presenti nel caricatore e ricaricai in fretta, poi sparai nuovamente. Da lontano sentii altre grida e guardando verso la casa di Hershel vidi Beth correre per non farsi prendere da tre non-morti che la stavano inseguendo, con l’arma in mano corsi verso la sua direzione in fretta e quando fui abbastanza vicina a lei premetti il grilletto, ci fu un rumore secco, ma dalla canna non uscì nulla.
Cazzo!
Spinsi lontano la ragazza per non farla raggiungere da quelle mani putrefatte, lasciai giù il fucile e presi il coltello che tenevo per sicurezza nello stivale infilandolo nel cavo dell’orecchio di uno dei tre zombie, raccolsi l’arma e infilai le cartucce nella canna, nella premura l’arma si inceppò e io rimasi disarmata davanti quegli erranti che stavano diventando sempre più vicini.
All’improvviso sentii le mani intorpidirsi e non riuscii più a sentire il freddo del metallo a contatto con la pelle, il fucile cadde a terra e circondata da tutti quei mostri e senza un’arma funzionate da poter usare mi sembrò di tornare indietro fino al mio ultimo giorno nel bosco. Subito il respiro si fermò in gola e tutte le immagini intrise di lacrime e sangue tornarono a galla nonostante cercassi di tenerle in un angolino della mia mente. Mi accorsi di stare tremando solo quando vidi le mani muoversi con irregolarità come se fossero attraversate da migliaia di piccole scosse e alla fine caddi in ginocchio iniziando ad avere serie difficoltà a respirare, era come se qualcuno avesse avvolto le mani attorno al mio collo e allo stesso tempo stesse premendo sullo stomaco, mi sentii debole e avvertii un forte senso di nausea che andò intensificandosi ogni secondo sempre di più.
Non avevo idea di cosa stesse succedendo attorno a me, i miei occhi era offuscati dalle lacrime e i suoni non erano molto limpidi, ma riuscii a sentire altri spari aggiungersi a quelli di prima insieme a delle voci che pregavano di smetterla con quel massacro e quella confusione non fece altro che fomentare il mio stato di shock.
Riprenditi, Kate.
Mi dissi più volte provando a focalizzarmi sui miei respiri, ma fu tutto inutile il dolore al petto non voleva andarsene e anche la testa iniziava ad essere sempre più annebbiata, come avvolta dalle nuvole.
Qualcuno mi trascinò via e sparò un po’ troppo vicino a me perché saltai sul posto e lasciai che un urlo d’angoscia lasciasse la mia gola nonostante fossi sicura non avessi fiato per dire nemmeno mezza sillaba. Tutti quei rumori e quel caos si abbatterono su di me come un fulmine sul tetto di una casa e proprio come in un blackout tutto si fece buio.
 
 
 
 
 
«È stato un attacco di panico» disse qualcuno.
«Non ne ha mai sofferto prima d’ora». Quella era indubbiamente la voce di Kim.
Mi risvegliai quando sentii qualcuno parlare. Ci misi un po’ ad aprire gli occhi, ero molto confusa e non riuscii a ricordare come ci fossi finita su un letto e con le gambe piegate. Alle mie narici giunse un dolce profumo di spezie e la prima reazione fu quella di mettere una mano sullo stomaco che brontolò leggermente, aprii prima una palpebra e guardai il finestrino dal quale proveniva poca luce, segno che era sera o comunque pomeriggio tardi, l’odore nell’aria era quello della cena e il rumore sentito era quello delle posate sui piatti. Sollevai anche l’altra palpebra e voltai il capo verso sinistra dove vidi Hershel e Kim stare in piedi vicino la porta del bagno del camper, ebbi paura di essere scoperta e quindi ritornai alla mia posizione originale restando ferma immobile.
Finsi per tutto il tempo di essere ancora addormentata, non mi andava molto né di mangiare né di parlare con nessuno, non dopo essermi ricordata del perché fossi sul letto del camper e con una forte sensazione di smarrimento. Non volevo vedere i loro guardi di pena su di me come se fossi impazzita del tutto, trattarmi come una svitata non mi avrebbe aiutata.
«Deve essere sotto shock» continuò la mia amica. «È stata una fortuna che Maggie fosse nei paraggi e l’abbia portata via».
«È stata una fortuna che abbia spinto via la mia Bethy, ho sempre creduto che fossero solo malati, a causa della mia illusione Patricia è morta e ho quasi perso una delle mie figlie».
Odiavo me stessa per essere crollata così in una situazione delicata, avevo messo a rischio la mia vita e quella di tutti gli altri con le mie azioni, ma tutti quegli zombie mi erano sembrati un muro di cemento impossibile da abbattere.
Quando Kim ed Hershel uscirono dal camper finalmente aprii gli occhi ma aspettai che il gruppo si disperdesse e andasse a dormire prima di alzarmi, avrei rimandato ogni tipo di confronto al giorno seguente. Sgattaiolai fuori camminando rasente il camper per non farmi vedere da chiunque fosse di guardia, mi nascosi dietro il retro e sbirciai per controllare che nessuno mi avesse vista poi mi nascosi nella mia tenda. Kim ancora non c’era e non so quando venne a dormire, ma quando la mattina mi svegliai, lei era distesa sul suo sacco a pelo, avvolta dalle coperte a mo’ di bozzolo. Si stiracchiò appena e poi si miei a sedere stropicciandosi gli occhi, schioccò la lingua un paio di volte e poi mi guardò. Rimase in quella posizione per un po’ e poi si gettò su di me avvolgendomi con un abbraccio che ricambiai.
«Ma che diavolo ti è successo?» chiese con voce alta.
Mi staccai bruscamente e premetti un dito sulle labbra per chiederle di fare piano, se avessero saputo che ero sveglia non mi avrebbero dato un secondo di pace.
«Non lo so e preferirei non parlarne, almeno per il momento».
Sbuffò spazientita e si mise le mani sui fianchi, sul suo viso un’espressione di rimprovero.
«Kate…» cominciò.
«No, fammi un favore e dimentica che sia successo».
«Non ti farà bene, devi parlarne. Pensa se ti fossi trovata da sola, magari là fuori con un’altra mandria nei paraggi».
Sbottai infastidita dalla sua frase, quello era uno dei principali motivi per cui non volevo affrontare quel discorso.
«Non sono diventata incapace di difendermi e il fatto che tu mi tratti come se fossi pazza non aiuta, quindi fammi un favore e smettila di assillarmi».
Infilai gli stivali ai piedi e uscii senza salutare nessuno, ascoltare le loro prediche mi avrebbe fatto perdere quella poca pazienza che avevo.
Camminai attraversando tutto il campo con spasso spedito, spalle ricurve e mani chiuse a pugno. Dal modo in cui si era comportata Kim sembrava che avesse a che fare con una bambina che bisognava mettere in un box per proteggerla da qualsiasi pericolo quando a me bastava che capisse senza fare domande. Gliene avrei parlato quando e se me la fossi sentita, senza che lei mi obbligasse a farlo.
Sapendo che non avrei trovato un posto in cui stare completamente sola, andrai nell’unico luogo in cui non sarebbero venuti nemmeno se ne fosse dipesa la loro vita: l’accampamento dei Dixon. Non era mia intenzione interferire con qualsiasi attività stessero facendo e per questo motivo mi limitai a restare seduta contro il tronco di un albero a rigirare tra le mani il mio coltello a serramanico. Lì avrei potuto restarmene tranquilla senza essere importunata e infastidita da domande non necessarie e persone che non sapevano restare al loro posto.
Da lontano sentii delle voci arrivare alle mie orecchie e quando alzai lo sguardo vidi Daryl e Carol camminare fianco a fianco e parlare tra loro, non so se fu gelosia quella che provai in quel momento, ma desiderai con tutta me stessa che la donna cadesse e si facesse male, non in modo serio, ma abbastanza da toglierle quel sorriso dalle labbra o da farla rimanere seduta senza possibilità di muoversi per qualche settimana.
«O quel coltello ti ha fatto qualcosa o sembrerebbe che tu sia gelosa».
Alzai la testa di scatto quando vidi Merle in piedi affianco a me, un risolino beffardo sulle sue labbra e un’espressione di sfida nei miei confronti erano disegnati sulla sua faccia.
Per non dargli la soddisfazione di fargli vedere che aveva ragione posai in tasca l’arma con cui prima infilzavo la terra e cercai di mantenere un espressività apatica.
«Non sono gelosa».
Bugiarda.
Tutto dentro di me ribolliva al solo pensiero di quei due insieme e di nuovo quel sentimento da corrodermi il cuore e le viscere si manifestò più forte di prima. Cercai di ignorarlo ma la voce felice di Carol non fece altro che gettare benzina sul fuoco.
«Sai, hanno legato molto mentre tu non c’eri. Daryl era fuori ogni giorno a cercare la ragazzina» disse in modo vago. «Una volta le ha pure riportato un fiore».
Le mie mani si strinsero a pugno e digrignai i denti involontariamente. Sapevo che le sue erano solo provocazioni per vedermi scoppiare e dargli man forte avrebbe danneggiato solo la mia salute mentale, ma le sue parole riuscirono ad entrarmi sotto la pelle e danneggiarmi l’animo.
«Daryl è un uomo adulto, può fare quel che vuole».
Merle si lasciò andare ad una risata bassa e roca e improvvisamente ebbi voglia di prenderlo a pugni.
«Non la penserai più così tra un po’» insinuò allontanandosi.
Non lo penso nemmeno adesso, se è per quello.
Carol non mi aveva mai fatto nulla, sin dal primo giorno in cui la conobbi mi diede l’impressione di una donna pacata e di una madre amorevole. Lei era quella che si assicurava che quando io non riuscivo ad essere presente a pranzo o cena per svariati motivi avessi comunque da mangiare; ogni volta che tornavo in tenda trovavo in un contenitore o frutta o pane e formaggio, le volte in cui in città le ricerche andavano bene riuscivo a trovarvi anche legumi e in una ciotolina a parte del burro d’arachidi. Quando il marito morì non riuscii a dirle quanto dispiaciuta fossi perché avrei mentito, anzi mi sentii sollevata per lei e la bambina perché avrebbero vissuto in un’atmosfera più serena.
«Non sapevo ti fossi trasferita qui».
Daryl era a pochi centimetri da me, ma io troppo assorta nelle mie elucubrazioni non mi ero accorta delle sua vicinanza fino quando la sua voce non mi riportò a terra. Voltai la testa per cercare la donna e quando non la vidi mi sentii sollevata.
«Infatti è così, voglio solo stare per i fatti miei e questo è l’uno posto a cui nessuno si avvicinerebbe» risposi facendo delle buche con le dita e sporcandole con la terra.
Tranne Carol.
Scossi la testa per mettere a tacere quella fastidiosa vocina, mi era bastato Merle, non serviva che ora anche io iniziassi con le fisime.
«Beh, non toccare niente mentre sono via» disse Daryl prendendo la sua balestra.
«E sta lontana da Merle».
Il suo era un avvertimento ma a me per qualche motivo suonò più come un ordine.
«Dove vai?» chiesi.
«A caccia».
Quelle parole mi fecero riscuotere da qualsiasi strano pensiero che mi stesse passando per la testa e colsi la palla al balzo,
«Un attimo!». Mi rialzai togliendo con delle pacche la terra dai pantaloni. «Vengo anche io».
Dovevo fare qualcosa per distrarmi e temetti che se fossi stata dentro la fattoria ancora per molto a lungo avrei perso quel po’ di sanità mentale che mi era rimasta, dopo essere stata reclusa lì durante la mia guarigione e il divieto datomi di lasciare i confini per la mia sicurezza, sentivo un’urgenza così forte di allontanarmi anche solo per poco che mi prudeva la pelle.
Daryl mi guardò per pochi istanti scrutandomi attraverso quegli occhi azzurri che strizzò leggermente per leggere le mie espressioni facciali e capire se stessi dicendo sul serio o se stessi scherzando, poi, senza dire nulla, si voltò dandomi le spalle.
«Avanti, non posso restare qui per sempre» dissi afferrandolo per la mano.
«Sì, se significa che non metterai in pericolo la tua vita, e io non ho tempo da perdere dietro di te».
Mollai la presa che avevo su di lui e lasciai che le mie braccia penzolassero a peso morto lungo i miei fianchi.
«Chi ti dice che dovrai guardare che non finisca in qualche guaio?» domandai.
«Il fatto che per quattro zombie sei svenuta» rispose.
Socchiusi gli occhi e ingoiai quell’amara verità ma non mi arrabbiai. Aveva ragione e anche se odiavo che mi vedesse così inerme, per quella volta non urlai, non gli rinfacciai cose accadute mesi prima, tutt’altro, confermai la sua affermazione.
«È vero, ho avuto un momento di blocco, ma credi che rimanere qui mi faccia bene? Se dovessi trovarmi di nuovo in una situazione del genere non posso permettermi di piangere e gettare ogni arma, andare là fuori è un buon inizio» dissi sperando di convincerlo. «Piccoli passi».
Sbuffò e guardò il bosco, s’incamminò voltandosi di nuovo ed io stavo iniziando a perdere la speranza quando si fermò e girò lievemente il capo per guardarmi.
«Vuoi muoverti? Non ho tempo per aspettare te» brontolò come al suo solito. «E non rallentarmi».











 
*angolo autrice*
Ciao a tutti! No, non sono morta, non mi hanno rapita e non mi hanno venduta al mercato nero. 
Ho avuto dei problemi con il computer e ho dovuto portarlo in assistenza salvo poi sentirmi dire che dovevano ordinare i pezzi dalla Cina, 
sono ritornata in possesso del mio PC solo l'altro ieri e giusto oggi ho finito di riscrivere il trentesimo capitolo.
Il tempo di riscrivere il trentunesimo e pubblicherò anche quello questo stesso mese.
Sul mio quaderno ho tutti i capitoli di questa prima parte di storia quindi una decina di capitoli e inizierò a lavorare sulla seconda parte.
Io credo di aver detto tutto, vi saluto e alla prossima, 

yulen c:

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Capitolo 32
*** Capitolo31 ***


 
 
 
 
Capitolo31
 
 
 
 
 
 
 
 
Dopo aver abbandonato la fattoria ed esserci addentrati nel bosco iniziammo a vagare tra la vegetazione. Non avevamo trovato alcun errante fino a quel punto e ad ogni secondo che passava senza sentire i loro rantoli era un secondo in cui mi aspettavo che uscissero da qualche cespuglio e mi saltassero addosso. Ero molto nervosa, quella era la prima volta che mi trovavo fuori dai confini della fattoria e sapere di essere vulnerabile mi spaventava.
Io e Daryl stavamo seguendo tracce di un cervo, ma ovviamente non riuscivo a vedere niente, era passata quasi tutta la giornata da quando ci eravamo messi in marcia e iniziavo a rimpiangere di non aver scelto di rimanere seduta vicino alla sua tenda ed essere importunata dal fratello maggiore.
«Non c’è nulla qui se non zanzare e moscerini» borbottai scacciando gli insetti con gesti secchi della mano.
«È ovvio se continui a spaventare ogni animale nell’arco di tre miglia».
«Tra poco farà buio e sarà impossibile continuare, torniamo indietro, abbiamo già tre conigli» proposi. Non mi aspettai che mi desse ascolto e quindi non mi sorpresi quando continuò a camminare guardando per terra.
Era la prima volta in assoluto che andavo a caccia con lui e non mi ero mai resa conto di quanto fosse bravo nel fare ciò che faceva. Ad ogni passo si guardava in giro per essere sicuro che non si fosse lasciato sfuggire neppure la più piccola impronta e ad ogni spiffero di vento, lui tirava su la testa e la voltava un paio di volte per capire da dove provenisse, un po’ come un serpente che con la lingua tasta l’aria alla ricerca di una possibile preda.
«Se volevi restare al campo perché sei venuta?» domandò inginocchiandosi.
Smosse con le mani del terriccio e poi si abbassò ancora di più, guardando una scia di qualcosa che catturò la sua attenzione.
Alzò una mano a mezz’aria e mi fece cenno di accucciarmi insieme a lui, avanzò su un piede e su un ginocchio cercando di fare poco rumore mentre io rimasi indietro, poi con velocità spostò un cespuglio, alzò la balestra e sparò. Ritrasse il dardo scoccato e fece passare la testa del coniglio appena ucciso oltre la cintura dei pantaloni. Un rivolo di sangue macchiava il pelo bianco e candido dell’animale e mi allontanai coprendomi la bocca con il dorso della mano.
Povera bestiola!
«Arriverà il giorno in cui dovrai imparare a farlo anche tu» commentò notando il mio disgusto.
«Preferisco morire di fame».
«È inutile che eviti la carne perché fa male quando poi fai il pieno di cioccolata e tutto ciò che ti fa venire il diabete».
«Ehi, la cioccolata ha anche benefici» risposi fintamente piccata. «E poi il motivo per cui io non mangio carne è perché non mi piace l’idea di uccidere per avere lo stomaco pieno».
«Quelli non la pensano allo stesso modo» disse indicando un gruppo di tre zombie chini su un cervo. Erano molto lontani e quindi troppo distanti per accorgersi di noi, ma per un momento mi paralizzai.
«Lasciamoli stare, sembrano più interessati alla loro cena».
Riprendemmo a camminare, ma questa volta invece di stare dietro di lui mi posizionai al suo fianco cercando di non guardare quello scempio che aveva attaccato alla cintura e che ondeggiava ad ogni suo movimento.
Passando di albero in albero mi accorsi che il paesaggio stava cambiando e non riconoscendo la caverna davanti a noi iniziai a preoccuparmi; non l’avevamo passata in precedenza e con il buio che stava calando iniziai ad innervosirmi, non volevo stare all’aperto mentre chissà quali cose infestavano il bosco.
Presi Daryl per un braccio e lo fermai.
«Non dovremmo tornare indietro? Questo posto mi dà i brividi».
Scuotendo la testa indicò con la mano il cielo arancione. «È già tardi e non torneremo mai prima che arrivi notte, staremo qui fino a domani».
Scostò i rampicanti che ostruivano l’entrata e io mi avvicinai per dargli una mano a liberare il passaggio, ma non ero preparata agli zombie bloccati all’interno che riuscirono a scappare quando tagliammo tutti rami.
Urlai, il mio grido però si spezzò in gola quando vidi uno di loro avvicinarsi a me, spaventata feci due passi indietro e chiusi gli occhi pronta a sentire i suoi denti affondare nella mia carne, ma non successe e quando riuscii a schiudere leggermente le palpebre vidi Daryl combattere da solo contro tre vaganti; li uccise velocemente con la balestra e poi estrasse i dardi dalle loro teste, il suo volto divenne una maschera di rabbia quando si voltò verso di me e mi strinsi nelle spalle sperando di diventare più piccola ed eventualmente sparire completamente.
Mi trascinò per un braccio stringendo con più forza del solito attorno al gomito, mi dimenai per sottrarmi dalla sua morsa, ma lui non mi lasciò andare.
«Mi fai male così» protestai.
Solo quando fummo all’interno della caverna mollò la presa, l’area dove la sua mano era stretta aveva iniziato a diventare rossa e la massaggiai leggermente per lenire il dolore che si presentò sotto forma di tante piccole punture.
«Ora dimmi quanto ci vuole per prendere il coltello e pugnalarli alla testa» domandò irato.
«I-i-io… è-è stato un momento di debolezza» risposi flebile. «Non accadrà mai più».
«Puoi ben contarci, ti avevo detto che non avevo tempo per guardare di te. Questa è stata la prima e l’ultima volta che ti porto con me, avrei dovuto dirti di no, non sono il tuo baby sitter».
«Certo, perché sono sicurissima che Carol sia altrettanto brava a difendersi, quella è già tanto se sa come si regge una forchetta, eppure non mi sembra che ti dia fastidio che ti segua come un cagnolino».
Il fatto che ora passasse così tanto tempo con lei mi faceva mangiare le unghie dal nervoso e anche se cercavo di passarci oltre non ci riuscivo.
«Sei ridicola» rispose ridendo in modo cattivo. «E tanto per la cronaca sono stato io a chiedere a Carol di venire con me, mentre tu ti sei solo autoinvitata».
Sentii un forte colpo al cuore al suono di quelle parole e dovetti sbattere gli occhi un paio di volte per non far cadere le lacrime. Non volli fargli vedere quanto ferita fossi per questo usai il mio miglior falso sorriso e gli misi una mano sulla spalla.
«Non preoccuparti, è l’ultima volta che ti darò fastidio. Passerò le mie giornate con Merle, sono sicura che lui saprà fare un buon uso del mio tempo. Lo ha sempre fatto». Detto ciò lo sorpassai continuando a sorridere e ancheggiare volutamente con fare smorfioso.
Mi fermai per capire la direzione da prendere per tornare alla fattoria e fu in quel momento che Daryl mi afferrò per un polso.
«Dove credi di andare?».
«Lontano da te tanto per cominciare, poi se riesco a tornare prima che Merle vada a letto ci penserò io a tenerlo sveglio».
«Smettila» mi ammonì con voce grave.
«Perché? Pensi di essere l’unico a poter giocare a questo gioco? Se vuoi farti Carol accomodati pure, per quello che mi importa sei libero di farti chi vuoi».
Con un gesto secco del braccio mi liberai e ripresi a camminare senza guardarlo, non mi voltai nemmeno quando mi chiamò, ero troppo arrabbiata per prestargli attenzione.
«Katerina!» disse con un tono di voce più alto e a quel punto mi fermai.
«Che c’è ora?» risposi con la stessa tonalità. «Pensavo non mi volessi tra i piedi, quindi a meno che tu non abbia qualcosa da dirmi io me ne vado».
«Andare dove? Ti perderesti e basta».
«Sono sicura che riuscirai a colmare la mia mancanza, al campo hai solo l’imbarazzo della scelta».
«Vuoi finirla? Non mi importa di nessun’altra» tuonò adirato dalle mie implicazioni.
Mosse qualche passo verso di me e io istintivamente mi mossi all’indietro fino quando la mia schiena non toccò il tronco di un albero, in trappola scattai verso sinistra sperando così di avere una via di fuga, ma Daryl mi fermò incastrando il mio corpo tra il suo e l arbusto.
«Di sicuro sei bravissimo a mostrare i tuoi sentimenti» replicai ironica.
«Cosa vuoi esattamente?» domandò. «Che ti tenga la mano ogni giorno fino quando non ti vedrò morire solo per ricordarmi che dalla vita non merito niente perché tutte le cose a cui tengo poi mi vengono portate via?».
«Non ti sto chiedendo di giurarmi amore eterno perché so che non abbiamo vita lunga, possiamo morire tra cinque minuti, ma se sono cinque minuti passati con te, io la morte non la temo».
«No» scosse la testa e allontanandosi ponendo una notevole distanza tra noi. «Mio padre sarà stato un bastardo, ma aveva ragione, non merito di essere amato. Tutte le donne con cui io ho avuto a che fare se ne sono andate quando hanno scoperto il fallito che sono».
A quelle parole tirai su di scatto la testa e avanzai verso di lui facendo battere i piedi sul terreno. Le mie labbra erano pressate insieme in una smorfia di rabbia e le sopracciglia erano inclinate verso il basso, gli occhi erano ridotti a due fessure piccolissime, la palpebra inferiore e superiore quasi si toccavano redendomi impossibile la vista.
Quando fui a pochi centimetri da lui iniziai a colpirgli il petto con la punta dell’indice.
«Tu sei un idiota, ecco cosa sei» ringhiai. «Il tuo problema è che non hai mai voluto sentire quello che io avevo da dire, hai sempre dato più peso alle dicerie della gente. Tu per me sei tutto fuorché un fallimento».
Presi la sua mano e la posai sopra il mio seno coperto dalla canottiera per fargli sentire il mio battito, strinsi le sue dita tra le mie e mi feci più vicina per posare la mia testa sul suo petto.
«Ogni volta che sei vicino il mio cuore batte così forte da far male».
Sentii la rabbia svanire a poco a poco e respirai a fondo calmandomi del tutto.
«Io ti amo, ma non posso continuare così. Se vuoi ignorare i miei sentimenti per me va bene, non è troppo tardi per far finta che non sia successo niente, ma non pormi dei divieti».
Lasciai lentamente la sua mano per gustare gli ultimi istanti in cui le nostra dita si sfiorarono e mi misi in punta di piedi del lasciargli un bacio fugace all’angolo della bocca.
«Torniamo alla caverna, voglio dormire» dissi.
Camminammo senza parlarci né guardarci nonostante io fossi al suo fianco e le nostre mani si sfiorarono in più occasioni, il silenzio creatosi non fu imbarazzante, ma l’idea di condividere uno spazio stretto con lui mi mise a disagio, avrei preferito mille volte passare la notte fuori che a contatto con lui.
Quando fummo davanti alla grotta Daryl mi lasciò sola per andare a cercare la legna, tornò dopo un’ora quasi con un fascio sotto il braccio e un sacchetto di bacche che furono la mia cena mentre lui si preparò uno degli scoiattoli catturati mettendolo a cucinare sopra il fuoco che aveva acceso.
«Faccio io la guardia, partiamo domani alle prime luci» disse Daryl finito di mangiare.
Non sentendomi dell’umore detto per ribeccare mi distesi raggomitolandomi in posizione fetale e dopo averlo guardato un’ultima volta chiusi le palpebre, addormentandomi.
 
 
 
 
 
Fu il rumore di ramoscelli spezzati a farmi svegliare. Stropicciai gli occhi e lasciai che i miei polmoni si riempissero d’ossigeno con un lungo sbadiglio, poi mi misi a sedere. Il fuoco ancora ardeva e alcune scintille scappate alle fiamme si alzavano dell’aria per poi spegnersi. Voltai lo sguardo verso l’entrata della caverna dove Daryl era inginocchiato e teneva la balestra sollevata, puntandola oltre l’intreccio di rami e foglie che nascondeva bene l’accesso della grotta. Gattonando mi avvicinai a lui e sporgendomi un po’ cercai un punto vuoto che mi permettesse di avere una buona visuale su qualsiasi cosa mi avesse svegliata.
«Stai cercando di farci scoprire?» domandò Daryl trascinandomi indietro per una mano.
«Voglio solo vedere».
«Rimani nascosta, è un gruppo di zombie grande più o meno come quello della cava».
Indietreggiai di qualche centimetro fino a trovarmi dietro la sua schiena e attesi che quella piccola mandria passasse. Inutile dire che stavo tremando come una foglia e che se non ci fosse stato Daryl io sarei entrata nel panico e mi avrebbero trovata subito.
Trascorsero alcuni minuti in cui cercai di non muovermi, cosa che mi sembrò comunque difficile da fare visto che sentivo le gambe molli come budino ma allo stesso tempo pesanti come se fossero state sepolte sotto il cemento. Alla fine i loro rantolii e passi strascicati non si sentirono più e portai una mano al petto per respirare profondamente. Solo in quel momento mi accorsi che per tutto il tempo la mano con cui Daryl mi aveva afferrata era rimasta intrecciata alla mia, voltai il capo verso di lui e mi ritrovai a fissare con sguardo corrugato i suoi bellissimi occhi, aprii la bocca per dire qualcosa di intelligente che potesse levarmi da quella situazione, ma non un suono uscì. Ringraziai l’oscurità che celò il rossore sul mio viso e mi morsi nervosamente il labbro inferiore fino quando due dita non lo spinsero verso il basso per liberarlo dalla tortura dei miei denti.
«Non farlo». Fu tutto ciò che fui in grado di articolare con voce tremante.
Daryl mi baciò e io rimasi ferma senza sapere cosa fare. Solo poche ore prima avevamo litigato e aveva praticamente rifiutato i miei sentimenti e ora era stretto a me con una mano su un fianco e l’altra dietro la schiena per attirarmi ancora di più verso il suo petto.
Risvegliandomi dal mio stato catatonico intrecciai le braccia dietro il suo collo e mi puntellai sulle ginocchia per essere alla sua altezza, schiusi le labbra quando sentii la sua lingua chiedere l’accesso e poco dopo la sentì accarezzare la mia. Le mie mani vagarono sul suo corpo da sotto la camicia fino ad arrivare alla schiena dove sentii i solchi delle cicatrici che squarciavano la sua pelle, segni che per lui erano la causa di tanto dolore e sofferenza, ricordi di un passato tormentato e non voluto. S’irrigidì leggermente, odiava quando qualcuno lo toccava lì, ma non potei impedirmi di farlo, volevo fargli capire che mi piaceva tutto di lui, che non doveva nascondersi da me.
Daryl mi fece stendere sotto di lui sulla dura roccia e iniziò a lasciare piccoli morsi sul collo e sul profilo della spalla facendomi mugolare più di una volta.
Non avevo idea di cosa stessi facendo e perché gli stessi lasciando fare ciò che voleva, era come se non avessi più il controllo delle mie azioni, ma non volevo fermarlo e porre fine a quelle sensazioni che attanagliavano il cuore. Era sbagliato? Probabilmente sì. Me ne fregava qualcosa? No, avrei fatto i conti con le conseguenze il mattino. Sciogliermi sotto il suo tocco e tremare ad ogni sua carezza era ciò che bramavo più di ogni qualsiasi altra cosa. In quel momento avrei fatto tutto ciò che mi avrebbe chiesto e sapevo che era sbagliato, ma non mi importava. Ero stanca di cercare di fare la cosa giusta che comunque non avrebbe fatto altro che dividerci ancora di più.
Mi aiutò a sfilare la canottiera e inseguito il reggiseno che lanciò da qualche parte, passò successivamente agli stivali e ai pantaloni lasciandomi solo in slip. Il freddo della caverna sembrò pungere più di prima sul mio corpo semi nudo, ma nonostante avessi la pelle d’oca non avevo freddo, ad essere sincera mi sentivo bollire.
Passando una mano sotto la schiena Daryl mi sollevò dal terreno.
«Reggiti» mormorò al mio orecchio.
Non capii cosa volesse fare, ma feci come mi aveva chiesto; allacciai le braccia e gambe attorno il suo collo e bacino, appendendomi a lui come se fossi stata una scimmia.
Risi piano quando avanzò a carponi verso il fuoco e approfittando del fatto che eravamo così attaccati spinsi il mio corpo verso il basso dove sentii la sua erezione premere contro il mio pube, tenendomi appesa a lui con una mano sola cercai di disfarmi della sua cintura, ma con scarsi risultati.
Daryl mi prese per i capelli alla base della nuca e tirò leggermente per farmi staccare, poi mi adagiò vicino al fuoco. Protestai con un lamento per avermi fermato, ma quel suono fu subito rimpiazzato da un gemito quando baciò lo sterno, il seno sinistro per poi spostarsi su quello destro, dove prese il capezzolo tra i denti e lo morse appena. 
Inarcai la schiena per il piacere ed approfittando di quel momento in cui ero completamente esposta, con la lingua tracciò la linea del mio tatuaggio partendo dal seno destro, passando per il torace finendo sulla coscia sinistra. I miei respiri si fecero accelerati quando due dita entrarono in me e iniziarono a muoversi con ritmi lenti, il cuore mi rimbombò nelle orecchie ed una forte scarica attraversò il mio corpo.
Dio.
Quando percepii un forte calore iniziare ad espandersi in tutto il corpo scattai su a sedere e prendendo Daryl per il polso lo fermai; non volevo che finisse tutto così in fretta.
Presa dall’eccitazione del momento lo spinsi per le spalle fino a farlo sedere e poi mi sedetti sulle sue gambe dove, con frenesia, cercai di far passare i bottoni della sua camicia per ogni asola senza strappargliela direttamente. Volevo prendere il mio tempo e ripagarlo con la stessa moneta, ma il bisogno di sentirlo dentro di me mi fece accelerare le mie azioni; lo privai velocemente di tutti gli indumenti e rimasta a cavalcioni sopra di lui mi abbassai lentamente sorreggendomi sulle sue spalle gettando la testa all'indietro quando il suo sesso mi penetrò completamente. Senza aspettare di abituarmi alla sua presenza, iniziai a muovermi ondeggiando leggermente, le sue mani sui miei fianchi accompagnarono i miei movimenti che si fecero via via più frenetici, le mie unghie graffiarono la sua schiena per poi finire tra i suoi capelli. La sua pelle era bollente e bruciava a contatto con la mia, era come essere avvolti dalle fiamme, e improvvisamente, tra le sue braccia, la fine del mondo non mi sembrò così brutta, se avessi potuto restare lì in quella posizione, per me l’apocalisse sarebbe potuta durare in eterno.
Chiusi gli occhi e mugolai quando sentii una mano tracciare la linea della spina dorsale fino a scendere sui miei glutei, Daryl si chinò in avanti mi stese a terra in modo che potesse coprirmi del tutto con il suo corpo. Tenendo le labbra premute sulle mie per camuffare i gemiti che stavano diventando sempre più acuti, riprese a muoversi dentro di me con più forza di prima.
«Daryl» mormorai al suo orecchio quando staccai la mia bocca per riprendere fiato.
Qualcosa scattò in lui e iniziò a spingere con colpi più decisi ma lenti fino ad arrivare a scontrarsi contro il mio punto più sensibile, sentii le pareti della mia intimità stringersi e contrarsi attorno il suo membro e scavai ancora di più nella sua carne, mugolando. Un nodo si formò al centro dello stomaco e sentii di aver provato una pace sconosciuta quando arrivammo all'apice del piacere, come se fossi finita in un luogo che non conosceva né dolore, né sofferenza.
Ci vollero alcuni minuti affinché riuscissi a respirare nuovamente ad un ritmo regolare e quando ci riuscii un sospiro lasciò le mie labbra. Daryl, incuriosito dal mio ansimo, alzò leggermente il capo per guardarmi, un ciuffo di capelli biondo sabbia gli si era appiccicato sulla fronte a causa del sudore così lo scostai e rimasi ad osservarlo per svariati secondi.
C'erano mille interrogativi, ma non volevo rovinare quel bellissimo momento con uno dei miei soliti viaggi mentali, perciò invece di dire qualcosa che avrebbe distrutto l'armonia creatasi lo baciai a fior di labbra lasciando che mi cingesse a lui ancora una volta per stenderci davanti il fuoco che ormai si stava spegnendo.
Gli voltai le spalle in modo che il suo petto premesse contro la mia schiena, fece passare il braccio destro attorno la mia vita, posò quello sinistro sul mio fianco e prima che il sonno mi offuscò la mente sentii due labbra umide appoggiarsi contro la mia spalla.











 
*angolo autrice*
Ciao! Ecco il 31esimo capitolo, anche se avevo programmato di pubblicarlo prima, la verità è che non mi andava di ricopiarlo su Word,
sono una pessima autrice, lo so.
Cercerò di ricopiare anche gli altri così li pubblicherò tutti a dicembre e a gennaio potrò iniziare con la seconda parte,
ora visto che è tardi vado a dormire, ma non prima di avervi salutati.
Ciao e alla prossima, 

yulen c:

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Capitolo 33
*** Capitolo32 ***



 
Capitolo32 
 
 
 
  
 
 
 
Non ho idea di che ore fossero quando mi svegliai, ma nella caverna arrivava la flebile luce del sole che rischiarava lo spazio buio. Sulle pareti, nei punti in cui l’acqua colava, il riflesso dei raggi colpiva quelle scie bagnate creando dei punti di luce che andavano a finire sulle mie palpebre abbassate. 
Infastidita da quel chiarore mi coprii gli occhi con un braccio e solo quando mi girai su un fianco e sentii qualcosa scivolare via dalle spalle mi accorsi di essere nuda. Scattai a sedere e automaticamente voltai il capo prima verso sinistra trovandovi solo un sacchetto poi verso destra dove vidi la mia maglia che mi aveva coperta per tutta la notte. Il resto dei miei vestiti giaceva un po’ davanti all’entrata e un po’ davanti al fuoco, le cui braci spente spostate dal vento, si muovevano nell’aria. 
Cazzo! 
Le immagini della sera precedente si formarono nella mia testa e chiusi un pugno davanti le labbra per nascondere un timido sorriso, tutto il mio corpo era percorso da un piacevole formicolio ed io mi sentivo euforica. Era la prima volta in assoluto che provavo simili emozioni e per me fu come tornare indietro alla mia prima volta. 
Presi il sacchetto al cui interno scoprii esserci delle more che, ne sono sicura, la sera prima non c’erano. Spostai lo sguardo dalle mie mani alla grotta, cercando con gli occhi Daryl senza però trovarlo. Fino a quel momento, pur percependo la mancanza di qualcosa, non mi resi conto che era proprio lui il tassello mancante e mi chiesi dove fosse finito e soprattutto a che ora si fosse svegliato. 
Indossai velocemente la biancheria e la maglia e arrivata all’entrata della caverna per raccogliere pantaloni e stivali vidi Daryl seduto su un masso con una sigaretta in bocca e alcuni rami ai suoi piedi dai quali stava ricavando delle frecce. Finii di vestirmi, raccolsi il sacchetto che attaccai alla cintura e mi fermai dubbiosa a guardarlo: non sapevo come comportarmi con lui, non era tipo da mostrare apertamente i suoi affetti e optai per l’utilizzo di un approccio classico. 
«Torniamo alla fattoria?» domandai dopo averlo raggiunto. 
«Mmh» annuì senza guardarmi. 
Intagliò l’ultimo ramo, toccò la cuspide con il polpastrello dell’indice per essere sicuro che fosse ben appuntita e la caricò sulla sua balestra, infilò le altre frecce dentro la faretra e guardandomi una volta mi intimò di muovermi con un cenno del capo. 
Camminai dietro di lui senza dire una parola nonostante avessi molte cose per la testa. 
Il mio stomaco era in subbuglio e non riuscivo a smettere di ridere come una quindicenne alla sua prima cotta, anche il mio umore si era risollevato parecchio e riuscii a vedere le cose in modo differente. 
Quando tornammo alla fattoria e intravidi Kim, le corsi incontro e l’abbracciai gettandole le braccia al collo, a causa del mio gesto improvviso e brusco rischiammo quasi di cadere, ma ondeggiando sui talloni riuscimmo a prevenire la caduta. 
«Sono stata una stronza ieri, mi dispiace» dissi sincera. 
La mia amica si staccò e mi sorrise maliziosa spostando lo sguardo da me, che avevo ancora un'aria da ebete, a Daryl che ogni tanto mi lanciava occhiate di sfuggita. 
«Com'è stato?» domandò dandomi una gomitata al fianco. 
«Com’è stato cosa?» chiesi non afferrando il punto del discorso. 
«Non fare la finta tonta con me, vuoi farmi credere che tu e Van Helsing là via avete passato tutta la notte insieme senza combinare nulla?». 
Arrossii e abbassai la testa nascondendo la faccia nelle mani, non avevo nessuna intenzione di scendere nei dettagli e raccontarle come avessimo trascorso il nostro tempo, sapeva cosa avessimo fatto e non serviva che sapesse altro. 
«Coraggio, confidati con la tua amica». 
La spinsi via con fare scherzoso rifiutandomi di darle corda e alla fine ci trovammo sull'erba in una lotta di solletico che venne interrotta quando qualcuno si schiarì la gola per richiamare la nostra attenzione. 
Un po' imbarazzate per il nostro comportamento infantile ci rialzammo rimuovendo ogni residuo di terra dai pantaloni, Andrea ci stava guardando divertita e un piccolo sorrisino che le bucava le guance si era formato sulle sue labbra. 
«Siamo pronti, stiamo aspettando solo voi due» disse. 
La guardai confusa e poi lanciai lo stesso sguardo a Kim. 
«Stiamo per celebrare il funerale di Patricia» spiegò guardando la mia espressione smarrita. 
Annuii in segno di comprensione e seguii le due ragazze verso un albero dove, adagiati davanti al tronco c’erano dei ciottoli ammassati gli uni sugli altri in una forma ovale allungata, intorno a quella tomba rudimentale si era formato un cerchio composto dai nostri amici e da ciò che rimaneva dei membri della famiglia Greene. 
Beth era in lacrime e si stava aggrappando con tutte le sue forze a Maggie che stava singhiozzando sommessamente per dare un po’ di coraggio alla sorella minore mentre Hershel era al loro fianco per celebrare la funzione. Anche i miei compagni erano tristi, ma c’era anche qualcos’altro che oscurava i loro volti e concentrandomi su Shane che sembrava una bomba pronta ad esplodere notai di come stesse lanciando occhiate di fuoco a Rick e a Glenn. 
Dando un leggero colpetto al fianco di Kim richiamai la sua attenzione. 
«Perché Shane sembra pronto a uccidere quei due» chiesi a bassa voce. 
«Dopo che gli zombie sono scappati dal fienile si è scatenato l’inferno, fortunatamente siamo riusciti ad abbatterli tutti anche se Patricia è stata attaccata. Alla fine quando tutto si è calmato Shane si è avventato su Hershel urlando come un pazzo e Glenn per evitare che le cose precipitassero di nuovo ha ammesso di sapere da tempo che c’erano degli zombie nel fienile e che se c’era qualcuno da incolpare quello era lui, Rick poi ha confessato che parte della colpa era pure sua». 
Annuii facendomi bastare quella spiegazione e tornai ad abbassare il capo in segno di rispetto ascoltando le parole dette in onore di un’altra vittima caduta a causa di quella malattia. 
Dopo il funerale ognuno si disperse per riprendere i propri lavori, io e Kim tornammo alla tenda per spendere un po’ di tempo insieme. Anche se mi ero scusata per il mio atteggiamento avuto il giorno precedente mi sembrò che non fosse ancora abbastanza, inoltre qualche ora passata con la mia migliore amica mi avrebbe giovato. 
Prendemmo dal camper un cesto di vestiti da cucire e ci sedemmo lì vicino per sistemare ciò che si poteva e ridurre in pezze ciò che ormai era inutilizzabile; ora che i centri commerciali erano diventati un optional era meglio riciclare ciò che si poteva. 
«Mi sento in colpa» dissi. 
Kim sollevò lo sguardo dalla coperta che stava cucendo e mi guardò. 
«Perché hai fatto sesso con Daryl?» chiese con nonchalance. 
Anche se quello era un altro dei motivi per cui il mio cuore non si era ancora calmato non era il vero motivo della mia inquietudine. 
«Non ho intenzione di avere questa conversazione» risposi. «Non da sobria». 
La mia amica fece spallucce e sorrise. «Vorrà dire che la prossima volta che andrò in città porterò qui dell’alcool e ti farò ubriacare». 
«Se ti interessa così tanto il gossip perché non ti cerchi una rivista?». 
«Non è la stessa cosa, quelle sono storie vecchie, e poi dubito che sentirò ancora parlare di William e Kate» rispose, il ghigno che aveva prima si fece più sinistro. «Ho bisogno di storie nuove, Daryl non sarà William e tu non sarai Kate, beh, a parte per il nome…». Si fermò qualche secondo e corrugò la fronte non riuscendo ad articolare una frase che avesse senso, poi continuò. «Insomma, hai capito dove voglio arrivare, ma devi ammettere che la vostra relazione è piuttosto interessante. Vi serve solo un’erede». 
Quella frase mi fece distrarre dal mio lavoro al punto che finii con il pungermi l’indice con l’ago, una piccola goccia di sangue si formò sulla pelle e prima che potesse macchiare la stoffa dei miei leggings portai il dito in bocca. 
Presi dal cumulo di vestiti una maglia e la lanciai a Kim per vendetta. 
«Ti sembra una cosa da dire?» borbottai con il polpastrello ancora tra i denti. «Comunque non è per quello che sono nervosa. Anche io sapevo degli zombie, non è giusto che solo loro due si prendano la colpa». 
«Pure io lo sapevo, eppure non mi sto facendo tutti questi problemi» commentò disinteressata. 
«Perché tu non ti addolcisci nemmeno se ti cospargono di miele». 
«E anche Dale ne era a conoscenza, ma anche lui è rimasto in disparte». 
«Io voglio dirlo, non mi sento in pace con me stessa». 
«Ormai il danno è fatto, perché devi per forza essere parte di qualcosa che è passato? Faresti solo peggio, Shane è ad un passo per fare un massacro e ieri sono state scavate abbastanza buche, i bicipiti delle mie braccia sono stanchi». 
Mi fermai per qualche secondo guardando verso l’albero dove notai altre due buche che prima non avevo visto. 
«Perché ne avete scavate altre se solo Patricia è morta?». 
«Quei geniacci nel fienile tenevano amici e familiari, abbiamo bruciato i cadaveri dei conoscenti e sepolto la moglie di Hershel e il suo figliastro». 
Ero profondamente dispiaciuta dall’apprendere che i vaganti dentro al fienile non erano persone a caso, ma tenere i propri cari in quello stato non era una cosa giusta, se fosse capitato a me avrei sparato, avrei avuto qualche remora a proposito, ma non avrei mai lasciato che le persone che amavo vivessero in quelle condizioni. 
Guardai la mia amica concentrata sul suo lavoro e l’immagine di me e lei sedute vicine mi rimandò all’idea di due vecchiette in un ospizio mentre ricamavano a maglia ricordando i vecchi tempi. 
«Credi che sarà questa la fine che faremo?». 
«Cosa?» domandò strabuzzando gli occhi. «Essere rinchiusi in un fienile? Spero di no!». 
«No, è che siamo sedute con ago e filo in mano mentre cuciamo maglie che poi dovremmo buttare in ogni caso e stavo pensando che sembriamo due vecchie giunte allo scadere dei propri giorni ma che ancora fanno centrini all’uncinetto ricordando i tempi passati». 
«Probabilmente moriremo prima». 
Viva la sincerità. 
«Volevo che mentissi e che rispondessi che sì, potrebbe accadere». 
«La prossima volta dimmelo prima quando vuoi sentire una bugia». 
Risi alla sua stupidità e scossi la testa, Kim aveva sempre avuto difficoltà a relazionarsi con gli altri, i primi tempi era stato difficile starle vicino perché non capiva mai quando scherzavo e quando ero seria e non sempre capiva le battute o il sarcasmo usato in una frase, crescendo le sue abilità sociali erano migliorate di molto, ma di tanto in tanto faceva ancora fatica a capire come comportarsi in una data situazione. 
Restammo in silenzio per un po’ accontentandoci della nostra presenza senza per forza parlare, poi arrivò Andrea e sperai seriamente che fosse lì per chiedermi di fare qualcosa di più entusiasmante che cucire. Non prendetemi male, avrei fatto qualsiasi cosa per rendermi utile e aiutare, ma il cucito non è mai stato il mio hobby preferito. 
«Devo sapere dove dormirete da ora» disse guardandoci entrambe. 
Che significa? Che dobbiamo tornare sulla strada? 
Il mio sguardo si fece serio, non volevo mettermi in viaggio, ero ancora stanca e anche se le ferite stavano guarendo ero sicura di non riuscire a reggere un nuovo cambiamento. 
«Hershel ci ospiterà in casa sua ora che le notti iniziano a diventare fredde» spiegò Andrea notando la mia preoccupazione. 
«Siamo in diciannove, non ci staremo mai lì dentro» contestai dubbiosa. 
«Diciassette, la notte due persone faranno la guardia nel camper» rispose Kim. 
«Saremo comunque stretti».   Spostai lo sguardo verso il fienile dove vidi Rick ed Hershel parlare. «Metti le mie cose in un angolo in sala per favore» chiesi ad Andrea. 
Posai ciò che avevo in mano sulla sedia e raggiunsi i due uomini per esprimere le mie perplessità, poi mi fermai a guardare il fienile, feci un rapido giro e diedi dei colpi alle assi. Come avevo appurato in precedenza la struttura non era molto solida, ma con le giuste modifiche avremmo potuto renderla più resistente e sicura in modo da viverci o almeno dormire. 
«Hai un minuto?» domandai quando Hershel finì la sua discussione con Rick. 
«Ti fa male la spalla?» chiese il vecchio. 
«No, anzi migliora di giorno in giorno grazie alle cure» risposi con un sorriso. «So che vuoi accoglierci in casa, ma siamo numerosi. Pensavo che se trovassimo delle assi con cui rinforzare il fienile e pavimentare completamente il primo piano, io posso spostarmi anche lì». 
«Le notti sono fredde, ti prenderai un malanno» commentò bonario. 
«Non è un problema, gli inverni li ho tutti passati a Mosca, posso sopportare anche di peggio». 
Rimase per qualche minuto a soppesare la mia proposta, ma alla fine acconsentì dicendomi che se avessi cambiato idea, avrei trovato la porta sempre aperta. 
«No, voglio che restiamo insieme e comunque il fienile puzza ancora di zombie» intervenne Rick. 
Per un istante vidi il padrone di quella proprietà farsi scuro in volto. 
Usare del tatto no, eh? 
«Basta lasciare il portone aperto per far cambiare l'aria, fino quando sarà inagibile dormirò in casa». Ero convinta più che mai della mia decisione e l'avrei seguita anche senza il loro permesso. 
Per i lavori avrei dovuto trovare delle assi, ma non sapevo come ristrutturare qualcosa di grande come un fienile, mi sarebbe servito sicuramente aiuto e avevo già in mente a chi chiedere. 
«Kate!». 
Voltandomi vidi Kim farmi segno di avvicinarmi a lei e dopo essermi scusata la raggiunsi, il cesto che prima era in mezzo a noi ora era riposto dentro il camper dietro un angolo della porta. 
«Ieri mentre tu non c'eri abbiamo organizzato i gruppi che andranno a cercare provviste da immagazzinare, Glenn pensava di andare in una farmacia nel paese qui vicino e sarebbe il caso che tu andassi con lui» disse. 
Il solo pensiero di uscire e incontrare qualche infetto mi fece diventare bianca come un cencio e scossi la testa per rispondere alla sua richiesta. 
«Farò un elenco con i medicinali, accompagnalo tu o mandaci qualcun altro, ma per il momento io preferisco rimanere qui». 
«Sai che prima o poi dovrai affrontare il problema». 
«Sì, ma ieri quando ero nel bosco con Daryl, ci siamo imbattuti in alcuni zombie e non sono riuscita a reagire. Non sarei di alcun aiuto là fuori». 
Kim sbuffò, ma non insistette. «Smonti tu la tenda? Io finisco di spostare le ultime cose?». 
Annuii e rimasi sola per un paio di minuti, giusto il tempo di scrivere su un foglietto i medicinali da prendere e togliere i paletti che percepii una presenza alle mie spalle. Fui sul punto di urlare come un’isterica, ma quando la persona che mi era dietro si posizionò a fianco di me in modo che potessi vederla riuscii a calmarmi. 
«Ti serve qualcosa?» domandai a Daryl. 
Non avevo idea di come intavolare un discorso con lui in quel momento e avevo paura di rovinare tutto con una parola detta male. 
«Non dovresti lavorare con la spalla ancora in via di guarigione». 
Roteai gli occhi al cielo e mi voltai. 
«Non sapevo fossi un dottore. Sei qui per analizzarmi o perché hai bisogno di aiuto?». 
Per tutta risposta lui tirò fuori qualcosa dalla tasca. 
«Questi sono tuoi» disse. 
«È il mio orologio, lo avevo dato a Sophia e poi lei lo aveva perso». 
Era tutto sporco di terriccio e c’erano dei fili d’erba incastrati sotto il vetrino, ma funzionava ancora. 
«L’ho trovato vicino un torrente, alcuni sassolini erano entrati nei circuiti, ma sono riuscito a farlo ripartire. C’era anche questo» disse mostrandomi il mio coltello. 
«Hai aggiustato il mio orologio». 
Rispose con un grugnito. «Non ti allontanare più, se non ti uccidono gli zombie lo farò io quando ti ritroverò». 
Quella minaccia a me suonò più come una promessa che se mi fossi persa di nuovo lui mi avrebbe comunque trovata lo stesso. Sorridendo tornai alla mia mansione, ma Daryl mi spinse via in modo che lui potesse continuare il miolavoro. Frustrata, e anche un po’ arrabbiata, ricambiai il gesto solo per finire con il culo a terra. 
Ma quanto è forte? 
Mi rialzai e tentai un’altra volta di spostarlo, puntai anche la punta dei piedi nel terreno e spinsi sui polpacci, ma lui non si spostò di un centimetro. 
«Non hai altro da fare? Tipo scoiattoli da scuoiare?» domandai con una vena sarcastica. 
«No». 
«La tenda la stavo smontando io». 
«E ora lo sto facendo io». 
«Sei insopportabile» sbuffai. «Secondo te che dovrei fare?». 
Tutti erano presi dai propri compiti; i veicoli erano stati tutti spostati ai lati della casa in modo che se avessimo dovuto andarcene in tutta fretta non avremmo trovato la strada sbarrata, c’erano un paio di persone impegnate a fissare le imposte per rendere la luce meno visibile da lontano e in quel momento mi tornò in mente la mia proposta.
«Io ho avuto un’idea. Diciassette persone in una casa come quella non ci entreranno mai, ho pensato che se riuscissimo a trovare una falegnameria o una segheria potremmo sistemare il fienile, renderlo più caldo e sicuro così qualc-». 
«No» mi interruppe Daryl. 
«Non sai nemmeno cosa voglio dire». 
«Non ti sposterai lì». 
Spazientita dal suo comportamento cercai di ricorrere alla mia calma per non scoppiare e dire qualcosa che non avrei dovuto dire. 
«Perché no? Sopporto il freddo meglio di tutti voi» insistetti. 
«Perché nel fienile andremo io e Merle» rispose. 
Mi sentii un po’ ferita dal fatto che non avesse preso in considerazione l’idea di chiederlo anche a me, ma abbandonai quel sentimento subito, il giorno prima mi aveva detto di stare alla larga dal fratello e non mi ci volle molto per capire che non gli piaceva quando io e lui eravamo vicini. 
«Beh, io ci vado lo stesso e tu non puoi fare niente per fermarmi». 
In quel momento sembrai una bambina piccola dell’asilo in vena di fare dispetti, ma la mia non voleva essere una provocazione, quanto più una dimostrazione di indipendenza. Mi faceva piacere che si preoccupava così, ma la sua gelosia mi dava sui nervi. 
«Quando hai finito di smontarla, portala nel camper». 
Si alzò parandosi davanti a me per impedirmi di muovermi e guardandosi intorno per essere sicuro che nessuno ci stesse guardando mi afferrò per le braccia trascinandomi con lui verso un albero che ci avrebbe parzialmente nascosti. 
«Non ti voglio vicina a lui» disse con voce grave. 
«Perché non vuoi fidarti di me? È acqua passata». 
«Perché so com’è fatto e non darà pace a nessuno dei due». 
Risi e scossi la testa, non era una novità che Merle si comportasse bambino nonostante fosse un adulto, ma quei suoi comportamenti da infante non di scalfivano più. 
«Basterà ignorarlo, prima o poi si stancherà e troverà altro da fare. Io ho preso la mia decisione e non cambio idea».
«Sei dannatamente testarda». 
«E dovresti esserne sollevato, o non riuscirei a sopportarti» sorrisi. 
Da lontano vidi Kim farmi cenno di avvicinarmi mentre caricava borse vuote nel porta bagagliaio dell’auto. 
«Ci si vede» dissi lasciando Daryl al suo lavoro. 
Raggiunsi la mia amica che mi porse una penna e un pezzetto di carta su quali scrissi la lista dei medicinali da prendere. 
«Aggiungi anche i preservativi, ti serviranno» sorrise maliziosa. 
«Kim!» la ripresi. 
Tutto il sangue che avevo in corpo fluì verso la faccia, le mie guance diventarono bollenti ed ero sicura che se qualcuno ci avesse messo un uovo sopra si sarebbe cotto. 
Le diedi uno schiaffetto al braccio anche se avrei tanto voluto spingerla a terra e farle passare la voglia di ridere. 
Dalla casa uscirono anche Rick e Glenn e mentre l'ex sceriffo caricò in auto le armi e un paio di borsoni vuoti salutai il mio amico. 
«State attenti, ok?» dissi. 
«Guarda che non stiamo andando in guerra» rispose Kim. 
«Kate» mi richiamò Rick. «Andrà tutto bene». 
Posò una mano sulla mia spalla e la strinse leggermente facendo un piccolo cenno con il capo, poi salì in macchina. 
«Andrai con loro?» chiesi corrugando la fronte. 
Privare il gruppo del proprio leader non mi sembrava un'idea saggia, preferivo che fosse Shane a partire e lasciare al campo qualcuno di cui mi fidassi completamente. 
«Dobbiamo controllare anche un paio di supermercati, in due ci vorrebbe più tempo» rispose Rick. 
«Ok, ritornate qui vivi e tutti d'un pezzo». 
«Puoi contarci». 
I tre salirono in auto e dopo che il motore fu acceso sparirono oltre la stradina di ghiaia. 
Mentirei se dicessi che la loro assenza non mi turbava, Kim e Glenn era delle perone importanti per me e anche se io e Rick non avevamo passato molto tempo assieme ero preoccupata anche per lui. Potevo solo restare ferma e aspettare che tornassero, pregando che tutto andasse per il meglio. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
*angolo autrice*
Ehilà, come va?

Non mi son dimenticata della mia promessa, infatti qui c’è il capitolo trentadue che a dire la verità volevo pubblicare ancora stamattina
insieme ad un altro capitolo, ma per un qualche motivo ogni volta che provavo a formattare il testo la pagina crashava.
Domani copierò i restanti e cercherò di pubblicarne due prima di andare a dormire.
Ci saranno ancora cinque capitoli che sto finendo di copiare, poi ci si sentirà verso gennaio, nel qual caso non riuscissi
a pubblicare per Natale vi faccio ora gli auguri di Buone Feste.
Vi saluto e alla prossima,

yulen c:

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Capitolo 34
*** Capitolo33 ***


 
 
 
 
 
 
 

Capitolo33

 
 
 
 
 
 
 

La sera era arrivata, ma del gruppo andato in città non c'era ancora traccia, ogni minuto che passava diventavo sempre più ansiosa e non c'era modo per farmi calmare.
«Dovevano essere di ritorno ore fa» mormorai preoccupata.
«Forse hanno avuto problemi con l'auto» suggerì Dale che, anche se in pensiero con me, riuscì a tenere una maschera di calma.
«O forse sono stati accerchiati, o peggio ancora morti».
Lori mi lanciò uno sguardo assassino e avvolse le spalle del figlio con un braccio, capii di aver esagerato a reagire così e mi vergognai, ma non sapevo che pensare. Doveva essere una semplice ricerca di provviste, anche se Kim era nuova del mestiere non era sola, con lei c'erano Rick e Glenn e lui sapeva il fatto suo.
«Qualcuno dovrebbe andare a cercarli» propose Andrea ed io mi trovai d'accordo con lei
«Non sappiamo dove sono e rischieremo di trasformare questa cosa in una doppia missione di ricerca» continuò Dale.
«Quindi che proponi? Rimanere qui seduti senza fare niente?» sbottai stizzita.
«Sì, almeno fino a domani mattina, uscire ora sarebbe troppo pericoloso».
Lasciai cadere il discorso senza prestare attenzione alle parole del vecchio e dopo aver preso una pistola dal camper arrivai fino all'accampamento di Daryl sperando che almeno lui mi ascoltasse e mi aiutasse.
Quando arrivai alla sua tenda tuttavia non vi trovai nessuno, nemmeno Merle che di solito era già a dormire da un po’ e sbuffando ripiegai sul piano C che comprendeva l'aiuto di Maggie; lei era l'unica a conoscere la città e se avessi fatto la giusta pressione forse mi avrebbe dato una mano.
La trovai sulla veranda seduta su una sedia in legno con le ginocchia al petto e lo sguardo verso il sentiero di ghiaia che portava oltre i confini della fattoria.
«Ti disturbo?» domandai avvicinandomi cauta.
Ella rispose con una alzata di spalle ma non si voltò a guardarmi.
«So che non siamo partite con il piede giusto e mi dispiace per come ho reagito, ma mi sentivo minacciata e volevo che anche i miei amici fossero a sicuro».
«Hai salvato la vita di mia sorella» disse sorridendomi sincera. «Questo basta per ricominciare da capo».
Feci passare alcuni minuti di silenzio in cui valutai quali parole usare per chiederle di accompagnarmi in città, non potevo dirle di lasciare qualsiasi cosa stesse facendo, portarmi in paese e probabilmente rischiare la vita, senza contare che il padre le avrebbe vietato di uscire così tardi.
«Sono qui perché ho bisogno del tuo aiuto. Kim è uscita questo pomeriggio insieme a Rick e Glenn e non sono ancora tornati. Voglio andare a cercarli».
«È rischioso, se fosse giorno ti direi di prendere i cavalli e andare, ma tra poco farà ancora più buio e potremmo incappare i seri guai» rispose. «Anche io ho paura per Glenn, ma so che lui preferirebbe sapermi qui al sicuro».
«Allora dammi una cartina, posso farlo anche da sola».
«Sai che non posso lasciartelo fare e i tuoi amici non mi perdonerebbero mai per averti permesso di andare. La tua amica non è sola e mi sembra una in gamba, sono sicura che se ha avuto dei problemi ha trovato un posto in cui rifugiarsi».
Le parole di Maggie non mi sollevarono dal mio stato d'animo, tuttaviama aveva ragione; Kim era intelligente abbastanza da sapere che se fosse successo qualcosa da impedirle di tornare indietro avrebbe dovuto trovare un luogo in cui nascondersi.
«Se per domani mattina non sono qui andremo insieme in città, conosco la farmacia e i negozi di cui parlavano».
Annuii anche se ancora poco convinta e dopo la cena che toccai a malapena andai a dormire nell'angolo che mi ero ritagliata in sala senza riuscire a riposare per più di due ore, più volte mi svegliai di soprassalto o con il cuore in gola e alla fine decisi di alzarmi e andare di vedetta sopra la finestra del fienile nella speranza di vedere la macchina marcare il sentiero che avrebbe ricondotto a noi i nostri amici.
Rimasi lassù tutta la notte con lo sguardo fisso all'orizzonte fino alla mattina, quando, di comune accordo, decidemmo che un altro gruppo sarebbe uscito alla ricerca dei nostri compagni anche se non ero ancora pronta per fronteggiare nuovamente quel mondo decisi di accantonare la mia paura.
Seguii Maggie nelle stalle e proprio quando misi il piede nella staffa per salire in sella sentii il rumore delle gomme sulla ghiaia, immediatamente lasciai le redini che stringevo dalle mani e corsi fuori per vedere che parcheggiata davanti la casa c'era la macchina con la quale Kim, Rick e Glenn erano partiti.
Presa dalla gioia e dall’euforia iniziai a correre più veloce di quanto mi aspettassi e quando fu davanti a Kim le saltai addosso finendo entrambe a terra tra le risate dei presenti.
«Porca puttana, Kate!» borbottò infastidita, ma guardandola vidi che stava sorridendo.
«Ho quasi avuto un infarto a causa tua» le dissi.
«Sì, a proposito, abbiamo avuto qualche pro-».
«Chi è quello?» domandò qualcuno, T-Dog forse, indicando i sedili posteriori.
Mi rialzai da terra e tesi una mano alla mia amica per aiutarla.
«Si chiama Randall, è lui il nostro contrattempo» rispose Kim.
Il primo a reagire a quella nuova notizia fu Shane che dopo aver sbottato e guardato il suo ex collega come se fosse un serpente velenoso se ne andò a grandi falcate.
«Mi piacerebbe davvero sapere cosa è successo, ma prima dovresti lavarti e cambiarti, ai roba nei capelli» dissi indicando la chioma scura di Kim.
«Se mi dai una mano ti racconto tutto» rispose intimandomi di seguirla con un cenno del capo.
Annuii e con il permesso di Hershel l’accompagnai in uno dei bagni in cui si pulì dal sangue e dallo sporco sulla pelle. Gettò i vestiti in un angolino ed entrò nella vasca da bagno gettando la testa all’indietro quando l’acqua calda avvolse il suo corpo, raccolsi i panni per gettarli a lavare, ma quando vidi che la maglia e i pantaloni erano strappati in più parti decisi che non valeva la pena sprecare acqua.
«Ormai sono inutilizzabili, dovrai buttarli» dissi sedendomi contro la porta. «Allora, cos’è successo?».
Kim aprì un solo occhio per guardarmi e respirò pesantemente, affondando ancor di più nella vasca.
«Avevamo quasi finito di controllare i negozi, eravamo all’ultimo quando sono entrati dei tizi, hanno detto di far parte di un gruppo e che cercavano un posto in cui accamparsi. Non ci è voluto molto per capire che non avevano buone intenzioni e alla fine le cose sono precipitate, Rick li ha uccisi».
«E Randall?».
«Quei due non erano soli, c’erano tre o quattro persone ancora, ci hanno assaltati, alcuni sono morti, uno è riuscito a scappare, ma quel povero disgraziato si è fatto male saltando da un tetto infilzandosi la gamba su un inferriata, Rick non voleva lasciarlo lì a morire così ha deciso di portarselo dietro, come se non fossimo abbastanza numerosi».
«È un ragazzino ed è ferito».
«Ha cercato di ucciderci».
«Avete iniziato voi».
«Per difendere l’incolumità del gruppo».
Scossi la testa e sbuffai. «D’accordo, è impossibile vincere una discussione con te, ti lascio al tuo bagno».
Mi alzai in piedi e raccolsi i suoi vestiti che gettai nel fuoco una volta uscita dall’abitazione. Rientrando per portare a Kim un cambio di vestiti fui fermata da Hershel che mi chiese di aiutarlo a sistemare la gamba del ragazzo: la ferita era molto grave, non avrebbe perso l’uso dell’arto, ma ci sarebbe comunque voluto un po’ di tempo per riacquistare parte della mobiltà, l’intero muscolo era stato strappato e un pezzo di osso era stato scheggiato.
«Non credo che sarò d’aiuto, non ho idea di come si ricuce un muscolo» dissi osservando la gamba.
«Avrò bisogno della tua assistenza in ogni caso. Fagli un’iniezione di morfina, non posso operarlo mentre è ancora sensibile».
Annuì e presi dal borsone un flacone marrone in vetro e una siringa che riempii con il liquido.
Legai il laccio emostatico attorno al braccio del ragazzo e disinfettai l’area dopo aver individuato la vena.
«Sentirai un lieve pizzicorio, poi passa» dissi sorridendo per incoraggiarlo.
Feci entrare l’ago nella pelle e lentamente premetti sulla testa dello stantuffo per permettere che la morfina entrasse in circolo, quando la siringa fu vuota estrassi l’ago e lo posai sopra un vassoio in metallo.
Quando l’anestetizzante iniziò a fare effetto e le palpebre del ragazzo si chiusero, Hershel iniziò la sua operazione mentre io lo assistetti nei limiti delle mie capacità.
 
 
 
 
L’operazione andò a buon fine, Hershel riuscì a ricucire il muscolo mentre io mi occupai di mettere i punti di sutura.
Randall dormiva ancora quando io finii di richiudere il polpaccio e decisi di lasciarlo riposare fino ad ora di pranzo, sciacquai le mani e scesi le scale insieme al vecchio, in salotto si era riunito una parte del gruppo; mancavano solo Kim, probabilmente ancora in bagno e i due Dixon che erano come al solito per i fatti loro.
«Abbiamo riparato la gamba, ma avrà bisogno di una settimana come minimo per rimettersi» disse Hershel.
«Quando potrà camminare gli daremo acqua, cibo e lo porteremo lontano da qui. Lasceremo che se la cavi da solo» rispose Rick.
«Cosa ti fa pensare che non vada a chiamare i suoi amici per portarli qui? Quel ragazzo è una minaccia, dobbiamo occuparcene» intervenne Shane.
«Quel ragazzo» sbottai io. «Era bendato quando l’hanno portato qui, basterà bendarlo di nuovo quando lo porterete via. Minaccia o no fino a prova contraria è un essere umano e va trattato come tale».
L’ex poliziotto mi guardò di sbieco e io restituii lo stesso sguardo di sfida solo per essere interrotta da Rick che aveva capito quali fossero le mie intenzioni.
«Diamoci tutti una calmata, per oggi non possiamo più fare niente» disse posando una mano sulla mia spalla.
Per sfuggire all’aria pesante presente nella stanza andai a cercare Kim che non trovai come mi aspettai in bagno, ma all’ombra di un albero con un libro tra le mani e lo sguardo concentrato sulla lettura.
«Cos’hanno deciso di fare?» domandò vedendomi arrivare.
«Lasciare il ragazzino libero quando potrà camminare».
Mi sedetti affianco a lei e alzai lo sguardo verso il fienile dove vidi Merle e Daryl lavorare per renderlo più resistente e adatto a viverci. Erano entrambi senza maglia, i loro muscoli si contraevano ogni volta che venivano posti ad uno sforzo per poi rilassarsi e mi chiesi come Kim riuscisse ad essere completamente indifferente ad una tale vista.
La mia amica spostò lo sguardo dal libro a me verso i due fratelli e sorrise derisoria. «Hai bisogno di un bavaglino?» chiese.
Prima che potessi rispondere estrasse qualcosa dalla sua tasca e me la lanciò, il suo volto, se possibile, si fece ancora più sinistro.
«Sono riuscita a prendere una scatola prima che arrivasse Glenn, lui e Maggie si stanno dando da fare a quanto pare. Fanne buon uso».
Non capii subito a cosa si stesse riferendo e quando vidi il pacco di preservativi tra le mie gambe le lanciai uno sguardo omicida.
«Kimberly!» sbraitai cercando di nascondere la confezione.
Kim per tutta risposta iniziò a ridere ed io la spinsi facendola finire distesa sull’erba mentre si dimenava ancora, subito dopo mi avventai su di lei per farle il solletico. Cercò di dire qualcosa tra una risata e l’altra ma non capii un granché ed io volendo ottenere la mia vendetta non le diedi un solo secondo per riprendere fiato, restammo lì a rotolarci tra fili d’erba e terra fino quando non fummo costrette a fermarci per respirare, le nostre costole dolevano e guardandoci in faccia riprendevamo a ridere. Sembravamo due bambine in quel momento distese nell’immenso prato a fissare il cielo con i capelli tutti spettinati, i vestiti sporchi di terra e le guance arrossate, ma non m’importava, dopo giorni così cupi avevo bisogno di un po’ di tempo con lei e infatti rispetto la sera precedente mi sentii più rilassata.
«Un giorno di questi ti strangolerò nel sonno» dissi.
«Non lo faresti mai, non riusciresti a trovare una sostituta degna di me» rispose un po’ presuntuosa.
Guardai l’orologio e vedendo che l’ora di pranzo si avvicinava decisi di andare a controllare il ragazzo.
Girandomi su un fianco le schioccai un bacio sulla guancia.
«Vado a vedere come sta Randall, ci vediamo dopo».
Mi alzai e rimossi come meglio potei i granelli di terra dai vestiti.
«Kate?» mi richiamò Kim. «Ti voglio bene».
Inarcai un sopracciglio a quell’affermazioni e non seppi se iniziare a ridere di nuovo o prenderla sul serio. Ovviamente sapevo che me ne voleva, ma non lo aveva mai detto se non in modo ironico e pensai che quella momentanea dimostrazione d’affetto fosse data dal fatto che la sera precedente aveva quasi rischiato la vita.
«Lo so» risposi sorridendo.
Tornai verso la casa e salutai Maggie che mi fermò per consegnarmi un vassoio con del cibo e un bicchiere d’acqua.
«Mio padre ha detto che sarebbe andato a trovare il ragazzo ferito, ma non mi sento al sicuro a mandarlo da solo. Puoi pensarci tu?» chiese.
«Ovviamente. Stavo giusto andando a vedere come sta» risposi prendendo il vassoio.
Salii le scale ed entrai nella stanza dove Randall stava riposando, vedendo che era sveglio decisi di fargli qualche domanda in più per capire che tipi fossero i suoi compagni.
Posai il vassoio con il pranzo sul comò e richiusi la porta accompagnandola con il collo del piede.
«Io sono Kate, come ti senti?» domandai.
Il ragazzo si mise a sedere sul letto e ripose evitando il contatto visivo, la sua voce tremò per la paura e cercò di proteggersi tirando su le lenzuola.
«Fino a qualche minuto fa stavo bene, ma ora la gamba fa male».
Frugai nelle tasche ed estrassi un blister di antidolorifico che gli porsi insieme al bicchiere d’acqua.
«Voglio farti alcune domande e vorrei che tu mi guardassi e rispondessi sinceramente. Non ho intenzione di farti male, ma alcuni membri del mio gruppo non sono come me».
Affacciandomi alla porta mi assicurai che nessuno fosse nei paraggi e poi mi sedetti su una sedia. Non volevo qualcuno scoprisse che stavo parlando con lui o si sarebbe accesa un’altra discussione a cui non volevo prendere parte e prima di decidere le sorti di un ragazzo che aveva sparato solo per difendere i suoi amici volevo capire che tipo di persona fosse.
«Quanto è numeroso il tuo gruppo? C’è qualche possibilità che vengano a cercarti?».
Egli deglutì, probabilmente per prendere coraggio e poi mi guardò.
«Siamo circa una trentina tra uomini, donne e bambini. Siamo piuttosto numerosi e armati, ma non credo verranno a cercarmi, mi hanno lasciato a morire, se non fosse stato per i tuoi amici sarei morto di certo».
«Ok, Kim mi ha detto che state cercando un posto in cui stabilirvi e che hanno cominciato loro, lei è mia amica e mi fido, ma voglio sentire anche la tua versione. Sono persone pericolose?».
Randall distolse lo sguardo ed abbassò il capo iniziando a rigirarsi tra le mani il lenzuolo che lo copriva.
Ciò che lessi sul suo volto non capii se fosse vergogna o paura e quei suoi gesti parlarono più di mille parole.
«D’accordo, ho capito. Hai detto che non verranno a cercarti, ma se dovesse succedere dovrai scegliere da che parte stare. I tuoi amici saranno anche numerosi e armati, ma noi siamo molto uniti, se spareranno attireranno i vaganti e pur di non lasciare questo posto lo distruggeremo» dissi. «Ora, per il quieto vivere è bene che tu non dica a nessuno ciò che hai detto a me, daresti solo motivo per agitarsi ancora di più e qui le minacce non sono ben viste».
Avvicinai il vassoio verso di lui e con un gesto della mano lo incitai a mangiare.
«Le medicine tienile pure, ma non prenderle a stomaco vuoto, sono piuttosto potenti. Passerà qualcuno più tardi a portare via il piatto, tu è meglio che non cammini per un po’».
Uscii dalla stanza, ma prima di chiudere la porta fui chiamata da Randall.
«Kate, giusto?» domandò e senza aspettare la mia risposta continuò. «Grazie».
Sorrisi e lo lasciai al suo pranzo poi scesi le scale e dopo aver preso dalla cucina due bottigliette d’acqua e un cesto con pane, frutta e verdura trotterellai verso il fienile dove i lavori di ristrutturazione erano ancora in corso. Alcune travi erano state messe di supporto contro le assi che reggevano il tetto per dargli maggiore stabilità, altre invece erano messe a rinforzare i punti più deboli come l’arco della porta che aveva ceduto quando gli zombie erano riusciti ad aprirsi un varco.
La puzza era ancora nell’aria nonostante il portone fosse rimasto aperto per due giorni e per terra e sulle pareti in legno c’erano chiazze di sangue che non sarebbero mai venute via. L’idea di dormire lì mi lasciò per qualche secondo, ma ripensandoci mi convinsi che l’arrangiamento che mi ero imposta era più che giusto; facendo così ognuno sarebbe stato più comodo e se fossi riuscita a convincere anche Kim a venire con me sarei riuscita dare ad Hershel e alla sua famiglia più spazio, dopotutto quella era ancora casa loro.
Sapevo che comunque sarebbe stato difficile farle cambiare idea, non tanto perché quel fienile era stato precedentemente dimora degli zombie, ma piuttosto perché non voleva avere niente a che fare con Merle. A lei dava fastidio anche solo il fatto che lui respirasse il suo stesso ossigeno, figuriamoci condividere lo stesso tetto.
Udii dei colpi di martello provenire dal solaio e reggendo il cesto con una mano usai l’altra per salire la scala.
«Solitamente le persone mangiano tutte insieme, non capisco quest’ostinazione a mantenere le distanze» brontolai. «E sicuramente potreste farmi risparmiare tutta questa fatica».
Una mano calda e ruvida prese la mia, alzai la testa e mi trovai a guardare gli occhi azzurri di Daryl, il quale si era chinato per prendere la cesta e posarla sul pavimento in modo da aiutarmi a salire l’ultimo piolo dove inciampai.
La scala ai miei piedi si spostò dal suo appoggio e io fui sicura di fare un volo di due metri sicuri se non fosse stato per Daryl che con un movimento rapido riuscì a tirarmi a sé. Sotto di noi la scaletta cadde con un tonfo attutito dal fieno.
I nostri petti si scontrarono e la forza dell’impatto del mio corpo contro il suo lo fece cadere sopra un cumulo di paglia, finii a cavalcioni sopra di lui con i nostri visi a pochi centimetri di distanza. Lo vidi deglutire e rimase svariati secondi a fissarmi senza fare niente, io iniziai a sentirmi leggermente a disagio, specie per la posizione in cui eravamo, e per evitare che qualcuno ci vedesse rizzai la schiena staccando i nostri petti e sedendomi del tutto sopra il suo bacino.
Così è ancora peggio.
In quella posizione il mio pube era a contatto con il suo e potevo sentire qualcosa di duro contro la stoffa dei jeans, ma non era quello a darmi fastidio, quanto più il fatto di non poterlo avere in quel preciso istante.
Con la code dell’occhio vidi le sue mani fremere e poi chiudersi a pugno, chiaro segno che stava cercando di contenersi e sorridendo maliziosamente spinsi il mio bacino contro il suo ottenendo un basso ringhio dalla sua gola.
«Katerina».
Disse il mio nome in modo così basso e roco che quasi non lo sentii, tuttavia il suo ammonimento non mi fermò e feci scontrare i nostri corpi di nuovo.
«Smettila».
Continuai con quel semplice movimento godendo nel vedere la mascella serrarsi, i suoi occhi chiudersi e il suo petto alzarsi e abbassarsi a ritmi irregolari fino quando con una mossa rapida ribaltò le nostre posizioni.
Quella a trovarsi tra la paglia ero io ora, ma non mi dispiacque, soprattutto per il modo in cui la sua mano teneva i miei polsi sopra la testa e come il suo corpo copriva il mio.
«Ti ho detto di smetterla» ringhiò, il suo fiato si mescolò con il mio.
«Davvero?».
Sorrisi innocentemente e poi leccai le sue labbra salate a causa del sudore che gli colava dalla fronte. La cosa successiva che sentii fu la sua bocca contro la mia in un bacio aggressivo, la sua lingua cercava di dominare la mia e dopo un vano tentativo di riprendere il controllo della situazione lasciai che fosse lui a condurre il gioco.
Solo quando liberò i miei polsi riuscii a far le mie dita tra i suoi capelli color sabbia fino alla nuca per poi farle sostare sui suoi pettorali coperti dalla camicia. Feci in tempo a disfarmi di primi due bottoni quando sentimmo dei passi salire la scala che era stata riposizionata.
Ci staccammo in fretta, ma non abbastanza. Una figura si stagliò alle spalle di Daryl mentre cercò di rialzarsi e un breve applauso ruppe il silenzio alquanto imbarazzante che calò su di noi.
«Vi prego, non fermatemi solo per me».
Riconobbi il tono sarcastico ed irrisorio di Merle e le mie guance diventarono ancora più rosse di quanto non lo erano già. Sentii Daryl mormorare un “Che stronzo” a bassa voce seguito da una risata ancora più forte da parte del fratello.
«Lo sceriffo ci vuole riuniti per fissare i turni di guardia» disse.
Colsi la palla al balzo e senza guardare Merle, che iniziò a ridere quando vide le mie gote accese, scesi i pioli.
Uscii dal fienile il più velocemente possibile e con passo veloce entrai nell’abitazione dove, dalla soglia, sentii le voci concitate provenire dal salotto.
Raggiunsi i miei compagni e non rimasi stupita quando vidi Rick e Shane litigare a causa del prigioniero; secondo Shane qualcuno doveva rimanere fuori dalla sua porta a fare la guardia perché poteva essere pericoloso e la sua era tutta una farsa, Rick invece sosteneva che non ce n’era bisogno poiché il ragazzo era sfiancato per la ferita subita e l’intervento.
Nessuno osò intervenire tra i due, ma io avendone abbastanza di quella disputa cercai di chiamare l’attenzione su di me, i due tuttavia erano troppo presi dalla loro discussione per ascoltarmi. Accanto a me, Kim, ancora più irritata di quanto non fossi io, fischiò mettendo a tacere i due uomini che si voltarono a guardarla di sbieco per averli interrotti.
«Sapete che si può parlare anche senza urlare?».
Le sorrisi mimando un “grazie” con le labbra e approfittando della calma feci un passo avanti per prendere parola.
«Randall non è una minaccia. Non può camminare e quindi a meno che non voli o si teletrasporti al suo campo dubito seriamente possa uscire di qui, ma avevo pensato di passare la notte nella stanza dove sta riposando per controllare le sue condizioni, essere sicura che la ferita non si infetti e che stia reagendo bene ai medicinali».
«Non ce ne sarà bisogno, quello lo posso fare io» intervenne Hershel. «Il ragazzo è stremato dal dolore, aggiungi la morfina data prima dell’intervento e i medicinali per il dolore non si sveglierà per i prossimi due giorni».
Rick annuì e acconsentì alla proposta del padrone di casa, ma poiché non voleva lasciarlo senza protezione decise che qualcuno doveva rimanere con lui e non potei non ridere quando Glenn si offrì per quel compito. L’occhiata che Hershel lanciò al mio amico non mi sfuggì e guardando Maggie vidi come cercò di nascondere il suo viso chinando il capo.
«Ci servono due persone nel camper, una che guardi il bosco dal solaio e altre tre che prendano il secondo turno fino al mattino sostituendo quelli della prima ronda» disse Rick puntando il fienile e il mezzo dalla finestra.
«Faccio io il primo turno nel camper» mi offrii.
«È meglio di no, non penso sia una buona idea dopo l’ultima volta».
A quella parola mi vergognai e spostai il peso da una gamba a l’altra, le mani iniziarono a sudare e sentii l’impulso di scappare correndo, ma quando Kim mi sfiorò il braccio e mi sorrise riuscii a calmarmi e a riacquistare la mia solita compostura.
«Resto io con lei, da lontano ha comunque una buona mira, sicuramente migliore della mia» intervenne T-Dog.
Mi voltai verso di lui e lo ringraziai per aver deciso di prendere il mio stesso turno.
«D’accordo» concesse restio. «Kim, Shane, vi dispiace sostituirli a fine turno?» domandò.
Sentii la mia amica sbottare a quella richiesta, e lanciai una rapida occhiata ai presenti per capire se se ne fossero accorti, ma nessuno parve aver notato il cambiamento di comportamento da parte sua. Nemmeno Shane sembrò felice di quella disposizione, ma anche lui non disse nulla, annuì e basta, cosa che fece anche Kim anche se con una certa riluttanza.
«Daryl, visto che occuperai il fienile voglio te di guardia, farai cambio con tuo fratello» ordinò l’ex sceriffo. «Qualcuno ha qualcosa in contrario?».
Un coro di “no” si levò e dopo quel breve incontro lasciarono il salotto. Io raccolsi dal mio angolino lo zaino e le coperte che portai nel fienile e poi corsi a cercare Andrea. Dovevo fare qualcosa di importante e lei era l’unica che non mi avrebbe ostacolata. Per fare la guardia avevo bisogno di riprendermi dal mio shock e non potevo chiedere a Kim di accompagnarmi in città alla ricerca di zombie da affrontare per eliminare la mia paura, me lo avrebbe vietato e Daryl non sarebbe stato da meno.
La trovai seduta sul portico della casa mentre affilava un coltello e vedendo che non c’era nessuno nei dintorni mi avvicinai a lei.
«Ehi» la salutai.
Ella mi sorrise ed io mi sedetti difronte a lei.
«Ho un grosso, grosso, grosso favore da chiederti» iniziai. «Quando gli zombie hanno invaso il cortile io mi sono bloccata, lo sai. Devo combattere questa cosa e o bisogno del tuo aiuto».
Andrea posò il caricatore sul tavolo e mi guardò incerta riguardo la mia proposta, ma io ero determinata a convincerla, se non ci fossi riuscita avrei dovuto ripiegare su Merle e volevo evitare di ricorrere a lui.
«Rimanere sveglia tutta la notte per scorgere eventuali pericoli e poi non essere in grado di affrontarli è un po’ una stupidata, non sei d’accordo? Non voglio essere spaventata, voglio mostrare a me stessa in primis che posso farcela».
«Cos’hai in mente?» chiese accettando.
«Andare in città, cercare qualche zombie per affrontarlo e poi tornare indietro prima che faccia buio».
«Conosco il posto giusto» disse.
Andrea mi portò in un zona residenziale dove mi disse aveva cercato me e Sophia insieme a Shane. Era lì che aveva imparato a sparare quando si era trovata circondata dagli zombie e speravo con tutta me stessa che la paura potesse aiutarmi a riprendere ciò che mi aveva portato via.
Le case erano costruite in blocco, avevano tutte la stessa struttura e si affacciavano su un’unica strada che era quella principale. C’erano pochi vaganti e si muovevano lenti, erano bersagli facili quindi stringendo il coltello tra le mani mi avvicinai ad un errante solitario, lontano dal resto degli altri e quando gli fui a pochi centimetri di distanza mi preparai per sferrare l’attacco, ma quando si voltò e mi guardò con i suoi occhi privi di vita e qualsiasi emozione l’arma mi scivolò di mano e con essa finii a terra anche io. Andrea non aveva mai lasciato il mio fianco quindi quando caddi e mi trovai senza possibilità di difendermi fu lei a intervenire e uccidere lo zombie.
Mi rialzai senza perdermi d’animo e dopo aver ripreso possesso del mio coltello cercai un altro errante che non fosse troppo vicino ai suoi simili.
«Forse dovremo tornare indietro» suggerì Andrea dopo il mio fallimento.
«No, non ancora».
Avanzai furtiva verso un non morto più interessato ad una maglia che ondeggiava appesa ad uno stendino che a me e prima di sferrare l’attacco respirai profondamente per calmarmi, chiusi anche gli occhi per pochi secondi per non dover guardare quella creatura e prima che il mio odore gli giungesse alle sue narici, lo pugnalai con un colpo preciso. Quando sentii il suono del coltello che penetrò la carne riaprii gli occhi per verificare se lo avessi attualmente colpito, ma la lama lo passò solo da una parte all’altra del collo e l’errante che si era finalmente accorto della mia presenza si girò e con la bocca aperta si avventò su di me.
Urlai in preda al panico e ancora una volta lasciai che il mio unico strumento di difesa mi sfuggisse dalle mani sudate. Non pensai nemmeno a raccogliere l’arma, mi girai e corsi dalla direzione opposta senza accorgermi che le mia grida avevano interessato anche il resto degli zombie che prima ignoravano la mia esistenza.
Entrai in macchina e chiusi la portiera con così tanta forza che temetti mi sarebbe rimasta in mano, tirai su il finestrino, mi rannicchiai sul sedile portando le ginocchia al petto circondandole con le braccia e iniziai ad ondeggiare leggermente. Abbassai il capo e chiusi gli occhi per non doverli vedere, convinta che quello sarebbe bastato a farli sparire, ma quando presero a colpire il vetro della macchina lasciando le impronte delle loro mani insanguinate sul vetro cominciai a piangere e a cercare le chiavi dell’auto per andarmene.
Le mie mani tremanti fecero fatica ad abbassare la visiera o a rovistare nel vano portaoggetti, tra le varie cianfrusaglie tuttavia non trovai quello che stavo cercando ed io mi abbandonai all’idea che quella volta non ne sarei uscita viva.
Andrea salì in macchina, ma non mi accorsi di lei fino quando non prese il mio volto tra le mani e lo girò verso il suo per potermi guardar negli occhi, mi stava parlando, ma vidi solo le sue labbra muoversi senza riuscire a capire una sola parola di ciò che stava dicendo.
Andrea lasciò il mio viso per girarsi verso il quadro dell’auto, pochi secondi dopo sentii il sedile vibrare e tra le lacrime che offuscarono la vista vidi gli zombie che prima premevano contro il finestrino diventare più piccoli man mano che la macchina, in retromarcia, si allontanava.
Riuscii a calmarmi solo quando vidi dalla stradina in ghiaia la forma della casa e sentendomi molto più al sicuro mi sedetti meglio sul sedile, posando i piedi sul tappetino invece di tenerli contro le mie cosce.
Quando l’auto si fermò, slacciai velocemente la cintura e corsi nel camper dove mi chiusi in bagno per sciacquare il viso ed eliminare ogni traccia di pianto, fu un po’ più difficile rimediare agli occhi gonfi, ma con qualche trucchetto riuscii a eliminare anche quelli e quando guardandomi allo specchio vidi che ero riuscita a mascherare bene anche il mio volto pallido con qualche schiaffo tornai all’aperto.
Ad aspettarmi fuori trovai Andrea che in modo discreto e con un tono di voce molto basso mi chiese se stessi bene.
«Sì, o almeno credo» risposi. «Mi dispiace per prima, volevo reagire ma non ci sono riuscita».
«Ehi, almeno ci hai provato» disse sperando di risollevarmi il morale, al che io scossi la testa.
«Non capisci, se tu avessi avuto bisogno di me io non avrei potuto aiutarti e mi odio per essere così debole. Vorrei gettare la spugna e mandare tutto al diavolo, ma voglio anche continuare finché non riesco a sconfiggere questa mia paura».
Andrea sorrise e mi mise una mano sulla spalla stringendo leggermente per consolarmi. «Sappi che sarò con te fino quando vorrai provare».
Sorrisi di rimando e l’abbracciai forte. «Grazie, davvero».
 
 
 
 
Kim mi trovò a tarda sera mentre allacciavo le stringhe dei miei stivali, il mio turno di guardia sarebbe iniziato a breve e prima di raggiungere T-Dog al camper volevo controllare prima lo stato delle armi, poco importava se erano state pulite proprio quel pomeriggio, volevo essere sicura al cento per cento che i fucili non si sarebbero inceppati proprio nel momento del bisogno come mi era già capitato.
«Sei stata strana oggi, dopo l’incontro in salotto» disse togliendosi gli anfibi e posandoli vicino al suo sacco a pelo.
«Avevo molto per la testa, Rick in fin dei conti ha ragione» mentii solo in parte. Era vero che la mia mente era oscurata da pensieri, ma quella non era il solo motivo e parlarne con lei mi avrebbe fatto fare tardi oltre che far nascere un’accesa discussione farcita con un vocabolo molto colorito da ambe due le parti.
«Forse ne ha, ma tanto vale darti un po’ di fiducia, no?».
«Lo scopriremo tra poco» risposi.
Mi alzai in piedi e tastai le tasche per controllare che avessi tutto il necessario e salutai la mia amica schioccandole un bacio sulla guancia, presi la pistola sul tavolo infilandola nel retro dei pantaloni e camminai fino all’arco che si affacciava sull’ingresso, lì Kim mi richiamò a sé strofinandosi un braccio.
Quello era un gesto che vedevo fare quando era a disagio e la sua esitazione nel parlare mi diede conferma che c’era qualcosa che la turbava.
«Devo davvero dormire con loro?» domandò indicando gli altri giacigli.
Kim odiava condividere lo spazio con persone che non conosceva bene o di cui non si fidava, era una cosa che la rendeva nervosa, infatti prima che il mondo finisse era raro vederla al bar di giorno o di notte e anche quando andava a fare spesa per lei era una questione di pochi minuti.
«Lo sai che puoi venire nel fienile con me».
«Non esiste!» sbottò perdendo momentaneamente la sua timidezza. «Il solo pensiero che tu mi stia suggerendo di accamparmi con te e il tuo amante mi mette i brividi, non voglio ascoltare i vostri amplessi mentre vi rotolate nella paglia».
Arrossii di colpo al pensiero e mi voltai per non farle vedere come le sue parole mi misero in imbarazzo, mi schiarii la gola e quando non sentii più la mia faccia bollire la guardai di nuovo.
«La scelta è tua, sai che c’è posto».
«E dover stare a un metro di distanza da Merle? No, grazie».
Roteai gli occhi e agitando una mano in aria la salutai prima di uscire dalla casa, quella conversazione avrebbe potuto continuare fino al mattino e io non avevo tempo per continuare a rispondere ai suoi battibecchi.
Quando salii sul camper vidi che T-Dog mi stava già aspettando con il fucile sulle gambe, presi posto sul sedile affianco a lui e tramite il binocolo posato sul cruscotto scrutai verso il bosco, ma a parte i rami e le foglie che si muovevano non c’era nulla che facesse presagire ad un pericolo imminente.
«Questo è il turno d guardia più noioso che io abbia mai fatto» brontolò T-Dog.
«Io non mi lamento di certo» risposi con una scrollata di spalle.
Preferivo annoiarmi a morte piuttosto che morire per non essere riuscita a superare una paura così stupida, quel pomeriggio era stato la dimostrazione che il mio era un problema serio e che mi serviva aiuto; aiuto che non sapevo a chi chiedere a parte Andrea e nonostante avessi il suo appoggio sapevo di non poter contare su di lei, non perché non mi fidassi, ma perché apocalisse o meno lei aveva la sua vita e io non potevo ronzarle attorno continuamente.
Avevo bisogno di qualcuno che nonostante tutto credesse in me e non mi trattasse come una bambola di porcellana, su questo posso dire che Kim riponeva molta fiducia nei miei confronti e pure T-Dog che quel pomeriggio aveva preso le mie parti non mi riteneva un’incapace, sapere che c’era ancora qualcuno che ancora credeva in me mi dava forza a sufficienza per continuare a lottare.
«Non credo di averti ringraziato per aver fatto cambiare idea a Rick» dissi.
«Non c’è problema, so che per te è stata dura».
Involontariamente strinsi il fucile tra le mani facendomi seria.
«Non sai quanto» mormorai.
La conversazione cadde e per i resto del nostro turno restammo quasi in un totale silenzio salvo fatto qualche parola scambiata di tanto in tanto per rompere quella monotonia. T-Dog aveva ragione, quella era davvero la notte più tediosa e alla fine stanca appoggiai il gomito al finestrino per portare la mano all’altezza del capo e appoggiarvi sopra la testa, in quella posizione gli occhi mi si chiusero più di una volta e quando Kim e Shane arrivarono per darci il cambio dissi un fugace “ci vediamo dopo” senza nemmeno prestare loro troppa attenzione.
Arrivata al fienile aprii una delle due ante che richiusi accuratamente dopo essere entrata, salii la scaletta e mi trascinai fino al mio cumulo di coperte dove mi gettai sopra a peso morto; le emozioni dei giorni precedenti mischiate a quelle di quel pomeriggio mi avevano sfiancata.
Mi girai verso Daryl che era già disteso con un ginocchio alzato e una mano dietro la testa, a carponi mi avvicinai a lui facendo scricchiolare le assi sotto di me e rimasi ad osservarlo.
«Cosa vuoi?» domandò senza guardarmi.
«Nulla» risposi. Scostai dai suoi occhi una ciocca di capelli e mi abbassai per lasciargli un bacio veloce.
«Buona notte» sussurrai, la mia bocca ancora sopra la sua sfiorò le sue labbra alle mie parole.
Daryl prese il mio viso tra le mani e mi attirò a sé per un secondo bacio più duraturo e meno fugace, nella foga del momento mi misi sopra di lui a cavalcioni non curandomi del fatto che Merle, a pochi metri da noi, avrebbe potuto vederci.
Daryl spostò le mani ai miei fianchi e con un colpo d’anca ribaltò le nostre posizioni per riprendere a baciarmi e lasciare una scia umida dalle labbra all’incavo del collo dove nascose il viso. Rimase fermo così a lungo e poi sospirò.
Infilai le mani tra i suoi capelli e vi passai più volte le dita massaggiandogli la testa.
«Che c’è?» chiesi.
«Sono troppo stanco per fare qualsiasi cosa» biascicò.
Mi morsi un labbro per non scoppiare a ridere, cosa che feci comunque e quando Daryl mi guardò leggermente irritato dalla mia reazione fui io a nascondermi.
«Scusa» dissi mettendomi a sedere. «La verità è che anche io sto facendo fatica a rimanere vigile» spiegai baciandolo di nuovo.
Rotolai su un fianco per tornare sotto le coperte dove sarei stata al riparo da vento e dagli spifferi d’aria notturni, ma Daryl mi fermò trattenendomi per il fianco.
«Vieni qui» disse solo.
Voltai la testa verso di lui e lo guardai con sguardo inquisitorio.
«Cosa?» domandai incredula. Non credevo che lui fosse tipo da dormire vicino a qualcuno senza prima esserci stato un rapporto.
«Muoviti, prima che cambi idea»
Sorrisi e mi feci più vicina per riuscire ad infilarmi sotto le coperte, stranamente trovai quel giaciglio molto più caldo del mio e posando la fronte contro il suo petto mi accorsi di come il suo corpo fosse caldo e di come nonostante facesse freddo lui indossasse una delle sue camicie senza maniche.
Daryl era abituato freddo a dormire al freddo, la sua vecchia casa era al limite del fatiscente e poteva riscaldarsi solo quando trovava lena per accendere la stufetta, ma anche in quel caso il calore non raggiungeva le camere da letto lasciando quella parte dell’abitazione una ghiacciaia.
Alzai il capo e vidi i suoi occhi chiusi mentre la bocca era leggermente aperta, il suo volto era molto rilassato e grazie alla nostra vicinanza riuscii a sentire come il suo petto si alzasse e abbassasse regolarmente.
Non so quanto tempo dopo mi addormentai, per un po’ rimasi a guardarlo dormire, ma alla fine cullata dal ritmo del suo respiro mi abbandonai al mio sonno.











 

*angolo autrice*
ehilaaaaa! Dunque voglio dirvi che so che avevo promesso di pubblicare due capitoli oggi, ma ho deciso di aggiungere tre capitoli 
incastrandoli all'interno di questo e questo facendolo diventare un unico "grande" capitolo (quindi è come se ne avessi pubblicati quattro, mi perdonate, vero?), perché so che con certezza nei prossimi due giorni non sarò libera.
Quindi io vi saluto in via definitiva e ci sentiamo dopo Natale, 

yulen c:


P.S: buone feste, di nuovo :)))

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Capitolo 35
*** Capitolo34 ***


*angolo autrice*
Solitamente non mi frega molto se saltate le note dell’autore, ma questa volta è importante e voglio che questo messaggio lo leggiate.
È passato un bel po’ lo so, ma non trovavo la voglia di scrivere e quindi ho voluto aspettare
per vedere se riuscivo ad uscire da questo periodo di blocco, però nulla.
Sto passando davvero un periodo brutto e nonostante abbia mille idee da sviluppare e tempo a sufficienza,
non riesco a trovare la voglia per farlo. Quindi, per il momento, questo sarà l’ultimo capitolo.

Se in futuro riuscirò a riprendere in mano la situazione allora ricomincerò anche a scrivere,
ambientando la storia in un universo in cui le vicende  che accadranno qui prenderanno una svolta diversa.
Non era mia intenzione di farla finire così in fretta e in questo modo, ma ho voluto cercare una fine senza lasciare questa FF in modo incompleto,
priva di aggiornamenti
o con un finale aperto dai mille dubbi e domande poiché mi sembra stupido dato che, come ho detto, non so quando ricomincerò.
Ho concluso perciò il tutto nell’unica maniera che per me ha senso.
Ringrazio tutti quelli che hanno letto e recensito questa storia seguendone gli sviluppi,
 
yulen
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo34
 
 
 
 
 
 
 
 
La settimana successiva fu più impegnativa di quanto non mi aspettassi. Dovemmo impegnarci al massimo per rendere la fattoria più sicura nel caso avessimo dovuto fronteggiare l’eventualità di essere sopraffatti dagli zombie o da altri esseri umani; il pericolo che il gruppo di Randall potesse trovarci e attaccarci ci aveva messi all’erta e per i giorni successivi alla sua operazione, fuori dalla porta della camera in cui soggiornò durante i suoi giorni di prognosi, c’era sempre qualcuno che si assicurava che non tentasse nulla. Quello era un incarico di cui volle occuparsi Shane, non fidandosi del ragazzo nonostante io stessa andai a controllare più volte le sue condizioni nel corso dei setti giorni.
Gli altri miei compagni invece furono impiegati in altre mansioni; c’era chi si occupava dell’orto e del bestiame, chi doveva fare i turni di guardia notturni e diurni, chi era destinato ad andare in città per trovare alimentari o qualsiasi altra cosa da poter immagazzinare e chi teneva conto dell’inventario. Una parte delle attività più importanti riguardava la caccia, ma quella era un compito a cui partecipavano solo i due Dixon.
Io mi ero un po’ divisa tra il seguire Randall nella sua guarigione, aiutare le donne con il bucato, il che voleva dire lavare i vestiti di Merle e Daryl oltre ai miei, assistere alla manutenzione e ristrutturazione del fienile e prendere posizione sul camper la notte. Una cosa che ero solita fare ma di cui nessuno, tranne Andrea, era a conoscenza era lo sgusciare insieme senza farci vedere. Le nostre uscite erano diventate più difficili da mascherare, ma in qualche modo siamo sempre riuscite a sgattaiolare via il pomeriggio per rientrare all’imbrunire senza sollevare sospetti o dare troppe spiegazioni. Non avevo fatto molti progressi nella mia cura agli attacchi di panico, ogni volta che vedevo uno zombie scappavo terrorizzata e solo da lontano usando un fucile di precisione riuscivo ad ucciderli. Andrea provò a legarne uno ad un albero e a renderlo inoffensivo, ma appena mi avvicinavo e guardavo in quei suoi occhi vuoti e morti, urlavo in preda alla paura.
Le mie giornate erano così piene che arrivavo alla sera stanca morta e il mio unico pensiero era quello di andare a dormire. A causa di ciò io e Daryl non passavamo molto tempo insieme salvo per quei quindici minuti la mattina prima di alzarci in cui eravamo ancora troppo assonnati per darci qualsiasi tipo di attenzione, inoltre Merle dormiva a pochi metri da noi e non volevamo che si svegliasse proprio mentre stavamo facendo l’amore.
Alla fine della settimana, durante una visita di routine al prigioniero, confermai a Rick e Shane che Randall non necessitava più di cure e che quindi era pronto per lasciare la fattoria. I due ex poliziotti non persero tempo e quella stessa mattina lo caricarono in macchina per portarlo lontano. Non lasciarono ordini prima di partire ed io mi trovai a vagare senza una meta; nei sette giorni precedenti avevo fatto tutto il necessario per prepararmi all’inverno, le temperature erano calate drasticamente e le notti erano così gelide da non riuscire a dormire, soprattutto per chi, come me e i Dixon, non aveva un tetto solido sopra la testa. Il fienile era stato riparato al meglio delle possibilità, erano state appese anche delle coperte alle pareti per impedire che gli spifferi d’aria passassero da crepe e fessure, ma poiché le porte durante il giorno venivano lasciate aperte per permettere all’aria fresca e pulita di portare via il tanfo di morte, gli sforzi per mantenere quel posto caldo furono vani.
Dopo pranzo, quello stesso pomeriggio, approfittai di quelle ore vacanti e decisi di farmi una doccia rinvigorente per eliminare le tracce di stanchezza dovuti ai duri lavori.
Tornai al fienile per prendere un ricambio di abiti e altri prodotti per l’igiene personale e lì trovai Daryl seduto su alcune coperte con le gambe incrociate mentre fabbricava nuove frecce. Non avendo avuto un solo secondo per noi colsi quella palla al balzo.
«Sai, potresti venire con me. Non sono l’unica a necessitare di un bagno» dissi sorridendo maliziosa, per fare capire meglio cosa volessi toccai la sua spalla con fare lascivo e provocatorio.
Daryl capendo le mie intenzioni lasciò a terra il coltello e si avvicinò a me con sguardo predatorio, una piacevole scia di brividi mi scosse violentemente e una volta che sentii il suo corpo premere contro il mio chiusi gli occhi. Gettai la testa all’indietro esponendo il mio collo sul quale si avventò, lasciando segni dove succhiò, rompendo i capillari e portando in superficie il sangue.
«Non possiamo qui, potrebbe arrivare qualcuno» protestai, ma lui ignorando i miei lamenti continuò a lasciarmi piccoli baci alternati a dei morsi. Le sue mani vagarono ovunque sul mio corpo raggiungendo l’orlo della canottiera che sfilò facilmente, il reggiseno subì la stessa sorte ed io rimasi solo con i jeans e i miei slip a dividermi da lui. Ci misi davvero poco a disfarmi anche di essi e finalmente la mia riluttanza sparì completamente.
«A questo punto dovresti toglierti i vestiti anche tu» sussurrai suadente all'orecchio.
Daryl si sedette a terra per rimuovere gli stivali, ma io lo fermai sul tempo. Scacciai le sue mani e con lentezza lo spogliai baciando la sua pelle non appena veniva scoperta, ammirando nella luce del giorno tutto ciò che aveva da offrirmi. Tutto di lui sembrava essere stato fatto nel minimo dettaglio, anche il minimo difetto sembrava fosse stato messo lì apposta e ciò ai miei occhi lo rendevano ancora più perfetto.
Mi distesi sotto di lui e toccai il suo petto con la punta delle dita fino a scendere verso il bacino e poi più in basso. Presi il suo membro tra le mani e iniziai a massaggiarlo, il suo sesso diventò duro e una piccola scia di liquido preseminale bagnò le mie dita facilitando i miei movimenti.
Spostai lo sguardo verso il suo viso per avere un contatto visivo, ma poiché aveva il capo inclinato in avanti e gli occhi chiusi mi risultò impossibile, feci scontrare così il mio volto con il suo sperando che mi guardasse e grazie alla vicinanza del mio orecchio con la sua bocca riuscii a sentire il suo respiro irregolare e spezzato. Il ritmo frenetico con cui il suo petto si alzava e abbassava e il modo in cui gli occhi erano serrati mi fecero capire che era vicino all’orgasmo, ma che stava facendo il possibile per non venire proprio in quel momento.
«Guardami» sussurrai sfiorando la sua guancia con la mia.
Al suono della mia voce le sue braccia toniche e muscolose tremarono leggermente, ma non si mosse, rimanendo nella medesima posizione.
«Daryl, guardami» lo implorai.
Questa volta alla mia supplica egli aprì gli occhi e finalmente riuscii a guardare nel profondo di quelle iridi azzurre quasi avvolte completamente dalla pupilla dilatata.
Annullai la distanza delle nostre labbra e lo baciai con passione fermandomi solo occasionalmente per riprendere fiato, anche lui rispose con lo stesso fervore e in poco tempo ci ritrovammo ansimanti e in cerca di aria.
«Non voglio aspettare oltre» mormorai al suo orecchio. «E sono sicura che nemmeno tu riesca a farlo».
Daryl prese la mano che ancora lo stava accarezzando e la portò sopra la mia testa insieme all’altra, poi con un unico movimento fluido entrò in me senza alcuna resistenza. Ansimammo entrambi quando fu completamente dentro ed io mi spinsi verso lui per avere un maggiore contatto con il suo corpo.
Daryl iniziò a muoversi con colpi lenti e decisi, la schiena strusciava sul legno e fui sicura che ci avrei ricavato qualche graffio, ma non la trovai una scusa per fermarlo, le scariche di piacere che scuotevano tutto il mio corpo mi impedivano di pensare razionalmente. Nell'estasi del momento non mi accorsi nemmeno che le mie mani erano finalmente libere mentre una delle mie gambe era finita sopra la sua spalla per permettergli di entrare ancora più in fondo.
Finalmente libera accarezzai la sua schiena, la sua nuca e infine i capelli che tirai leggermente alla base ogni volta che le sue spinte colpivano un punto ben preciso dentro me.
«Più forte» lo incitai.
Lasciai sfuggire un piccolo gridolino quando Daryl assecondò la mia richiesta e iniziò a spingere in modo più violento. Presto mi trovai in un bagno del mio stesso sudore mentre mi dimenavo sotto di lui, ero così vicina all'orgasmo che quella tensione fu impossibile da sopportare. Avvertendo il mio stato, Daryl si chinò all'altezza del mio seno, prese un capezzolo tra i denti e lo morse delicatamente. Quel dolore così piacevole fu tutto ciò che mi servì e con un grido più forte degli altri, venni.
Mi ci vollero diversi minuti per tornare con la mente al fienile, la mia testa era ancora velata dalle precedenti sensazioni e quando riuscii a riaprire gli occhi al mio fianco vidi un Daryl egualmente esausto ma con un’espressione più rilassata in volto.
Sorrisi macchinando già le mie prossime mosse e mi rivestii indossando solo la maglia e i jeans evitando accuratamente l'intimo, poi lo guardai maliziosa.
«Sai, credo che ora mi servirà davvero un bagno, sei con me?» chiesi prendendo un ricambio e una saponetta.
Senza rispondere mi baciò di nuovo e vestendosi rapidamente scese la scaletta trascinandomi in casa.
 
 
 
 
 
Uscimmo dall'abitazione giusto in tempo per vedere Rick e Shane scendere dalla macchina. Rimasi sorpresa nel vedere sui loro volti segni di lotta, ma ciò che mi stupì davvero fu quando dal bagagliaio presero Randall per portarlo nel retro di del ripostiglio in cui Hershel teneva gli attrezzi per il suo bestiame e per le coltivazioni.
Rick non disse nulla se non che gli serviva un altro giorno per decidere le sorti del ragazzo e solo più tardi, durante l'ora di cena, ci spiegò il motivo della sua scelta raccontandoci degli avvenimenti di quel giorno, senza però dirci perché lui e Shane fossero tornati feriti.
«Io Randall non lo conosco» disse Maggie.
Da quello che capii entrambi avevano frequentato la stessa scuola, ma lei non aveva ricordi riguardo il ragazzo.
«Può essere che lo abbia incrociato qualche volta nei corridoi, ma non ci ho mai parlato».
«Lui però sa chi sei, sa dove abiti, se lo lasciamo andare rivelerà la nostra posizione e tornerà con i suoi compagni per attaccarci» intervenne Shane e per quanto odiassi lui e il suo modo di fare, per una volta mi trovai d'accordo con lui.
«Ma non possiamo sparargli e poi tornare alle nostre vite di sempre, è pur sempre una persona. Domani lo interrogheremo per saperne di più, poi vedremo che fare» disse Rick non ammettendo altre repliche.
Passammo il resto della cena in un silenzio così tombale che riuscivo a sentire non solo il mio respiro, ma anche quello di chi sedeva al mio fianco. Il rumore delle posate sui piatti era l'unico suono a spezzare la quiete e quando finalmente finimmo di mangiare, io mi sentii come se fossi a scuola e la campanella di fine lezione fosse appena suonata permettendomi di respirare aria di libertà.
Aiutai a sparecchiare la tavola, portai la cena a Randall e poi mi defilai per iniziare il mio turno di guarda sul camper dove rimasi fino quando Kim venne a sostituirmi. Non dormii molto, alle nove ero già sveglia, e anche se i miei occhi non riuscivano a restare aperti mi trovai a rigirarmi tra le coperte senza prendere sonno.
«Vuoi finirla?» domandò Daryl esasperato.
«Già, se vuoi tenerlo sveglio ci sono altri modi, prometto di non guardare» ghignò Merle.
Giuro che lo spingo di sotto.
Daryl lanciò uno sguardo truce al fratello e per togliermi da quell'imbarazzo nasconse entrambi dietro un cumulo di paglia. Ci girammo tutti e due su un fianco ed io appoggiai la schiena contro il suo petto permettendogli di posare il capo nell'incavo del mio collo.
«Non mi piace che Randall stia qui con noi. Non voglio che lo uccidano, ma nemmeno che rimanga» confessai.
Daryl strinse una mano attorno il mio bacino e senza troppa fatica mi fece voltare verso di lui.
«Finchè starà qui non voglio che tu ti avvicini a quel capanno» disse.
«Qualcuno dovrà portargli da mangiare».
«Rick e l'altro coglione lo hanno riportato indietro, che se ne occupino loro».
Annuii alla sua richiesta anche se sapevo già che gli avrei disobbedito e sentendomi in qualche modo più tranquilla mi sistemai meglio appoggiando la testa contro la sua spalla, tra le sue braccia non mi ci volle molto per rilassarmi del tutto e alla fine riuscii ad addormentarmi accompagnata dal cinguettio degli uccelli e dalle dita di Daryl che, leggere, stavano disegnando cerchi sulla pelle della mia schiena.
 
 
 
 
 
Mi risvegliai quando sentii l'altra parte del letto vuota e fredda. Aprii gli occhi e voltandomi verso destra vidi Kim seduta con le gambe incrociate a pochi metri da me, aveva uno sguardo impassibile e subito capii che c'era qualcosa che bolliva in pentola; quella era un'espressione che le vedevo solo quando voleva nascondermi qualcosa, convinta che sembrare disinteressata dal mondo circostante potesse ingannarmi.
«Dov'è Daryl?» chiesi.
«Ha detto che andava a caccia con Merle» rispose.
Inarcai un sopracciglio e mi alzai rapidamente cambiando i vestiti con cui avevo dormito in un paio che usavo per il giorno.
«Hanno finito con la caccia l'altro ieri, quindi smettila di mentirmi e dimmi dov'è».
Scesi la scaletta e uscii dal fienile senza ascoltare la mia amica che mi stava pregando di fermarmi. Continuai a camminare per raggiungere il gruppo di persone che si era formato vicino a Rick, ma Kim mi prese per un braccio e mi fermò.
«Senti, mi dispiace, ok? Non volevamo agire alle tue spalle, ma sapevamo che non avresti mai approvato».
«Approvato cosa?».
Kim distolse lo sguardo e si girò verso un punto non ben definito grattandosi nervosamente il gomito.
«Kim!».
«Randall conosce la fattoria e a noi servono risposte. Può essere una persona pericolosa, i suoi amici ci hanno sparato e...».
«Odio quando parli senza arrivare al punto» dissi interrompendo il suo sproloquio.
«Merle e Daryl lo stanno interrogando» rispose abbassando il capo.
Merda!
A grandi falcate raggiunsi lo stanzino ed aprii la porta dietro la quale Randall giaceva per terra ricoperto del suo stesso sangue, il suo volto era tumefatto a causa dei colpi subiti e la palpebra dell'occhio destro era così gonfia da rendere impossibile l'apertura.
I due fratelli quando mi videro si scambiarono un’occhiata seguita da un cenno del capo, poi Daryl mi trascinò via.
«Se non sbaglio ti avevo detto di stare lontana da questo posto» disse.
«Torturare per avere risposte? È a questo che siamo arrivati?» domandai incredula.
«Tu non ti immischiare, non sono cose che ti riguardano».
Aprii la bocca per rispondere, ma quando un urlo di dolore giunse alle mie orecchie lo scansai in malo modo ed entrai nel ripostiglio.
La scena che mi si presentò davanti mi fece rizzare i peli dal disgusto: Merle non aveva solo le nocche insanguinate ma tutta la mano, la sua canotta bianca era sporca di chiazze rosso cremisi in alcuni punti e nel suo sguardo c'era un luccichio sinistro che mi spaventò.
Randall era rannicchiato in un angolino convinto che ciò lo avrebbe aiutato a ripararsi dai colpi, il suo naso era storto, probabilmente a causa di una frattura e nella ferita sulla gamba c'era un coltello che riapriva il taglio appena guarito.
«Che diavolo c'è di sbagliato in voi due?» chiesi disgustata.
«Pensavo che la stessi tenendo a bada» disse Merle rivolto al fratello. «Perché non la leghi da qualche parte? Sono sicuro che lo troverete divertente».
Sentii la rabbia montare e il sangue ribollirmi nelle vene, ma lasciai correre preferendo concentrarmi sul prigioniero.
Mi avvicinai a Randall lentamente per non spaventarlo, lo aiutai a rialzarsi e poi mi sfilai la camicia rimanendo con la canottiera.
«Ti chiedo scusa da parte loro, a quanto pare non sanno come comportarsi se non come delle bestie» dissi guardando i due fratelli con la coda nell'occhio.
«Ora dovrò rimuovere il pugnale, non ti dico che non farà male perciò respira a fondo e mordi questo» ordinai strappando la camicia e dandogli un lembo.
Il ragazzo annuì, morse la stoffa e trattenne il respiro per pochi secondi, momento che approfittai per impugnare il manico del coltello ed estrarlo in un gesto secco.
«Devo andare a prendere qualcosa per ripulire e ricucire la ferita, tu continua a tamponare».
Mi voltai e vidi che dei due Dixon non c'era traccia, cosa che mi fece sentire sollevata, ero molto arrabbiata con loro e non li volevo vedere.
Presi dal fienile il mio borsone, infilai dentro una bottiglia d'acqua e tornai da Randall che trovai nel punto esatto in cui lo avevo lasciato. Con meticolosa attenzione iniziai a curare le sue ferite cercando di fargli il meno male possibile.
Rimasi scioccata nel vedere ciò che Daryl e Merle erano stati in grado di fare, non erano persone violente a dispetto di come potevano sembrare e mi chiesi cosa li avesse spinti a comportarsi in quel modo.
Finii di pulire l'occhio al meglio delle mie capacità e ci applicai sopra una busta di ghiaccio per alleviare il gonfiore.
«Tornerò più tardi per portarti qualcosa da mangiare, in tanto tieni questa» dissi passandogli l'acqua.
«Perché lo stai facendo?» chiese incerto come se si aspettasse di essere torturato ancora.
«Perché in fin dei conti sei un essere umano e non meriti tutto questo».
«Grazie» mormorò Randall.
Gli sorrisi e uscii incontrando Dale che stava cercando proprio me.
«Se sei qui per dirmi che sottoporlo a tutto ciò era necessario, sappi che preferisco tu non parli» dissi.
«No, nemmeno io ero d'accordo. Sono qui perché spero che tu voglia spalleggiarmi».
«Spalleggiarti?» chiesi confusa.
«Rick vuole giustiziare Randall, ma mi ha dato una giornata per convincervi a cambiare idea».
«Convincervi? Quindi qualcuno è d'accordo con lui?».
«Per il momento siamo solo io e te a pensarla diversamente».
Ma questi sono pazzi!
«Posso parlare con Kim, lei mi ascolterà, ne discuterò anche con Merle e Daryl» proposi sperando di far cambiare le loro menti.
«Ci ho già parlato e pensano che lui debba morire, anche se per Daryl non fa differenza».
Sono incredibili!
«Posso aiutarti in qualche modo?».
«Voglio finire il mio giro, ho chiesto ad Andrea di sorvegliare il prigioniero, ma mi sentirei meglio se tu rimanessi qui».
Acconsentii alla sua richiesta e mi sedetti contro la porta, Andrea arrivò subito dopo che Dale se ne andò rimanendo con me tutto il pomeriggio senza però parlare. Cercai di intavolare un discorso riguardo l'incontro che si sarebbe tenuto quella sera, ma lei preferì non pronunciarsi. Volevo avere qualcun altro dalla mia parte che si convincesse che uccidere qualcuno fosse un reato anche se il mondo era finito, ma da quello che capii quel giorno eliminare una persona al fine di disfarsi di un problema era molto più semplice piuttosto che trovare una via d'uscita diplomatica.
Al calar del sole ci incontrammo tutti nel salotto di casa Hershel dove alcuni minuti di silenzio precedettero il caos che esplose poco dopo.
«Quindi che si fa?» domandai.
«Tutti quanti sapete come bisogna agire» rispose Shane.
«Ucciderlo, giusto? Perché prenderci la briga di discutere quando è chiaro da che parte soffia il vento» disse Dale.
«Se qualcuno la pensa diversamente che parli ora» intervenne Rick. Per poco non mi misi a ridere, quello scambio di idee e opinioni era solo una pagliacciata, parlare o meno non avrebbe cambiato nulla, la decisione finale era ormai stata presa.
«Credo che siamo davvero in pochi, solo io, Kate e Glenn» disse Dale, ma guardando il coreano capii che lui non sarebbe stato dalla nostra parte.
«Lui non è uno di noi» si giustificò egli.
«Nemmeno io ero una di voi quando mi avete accolta, e se non sbaglio Rick ha ammanettato un uomo su un tetto lasciandolo lì, eppure in quel caso non avete cercato di ucciderlo» risposi.
«Parla per te» s’intromise Daryl.
Mi voltai verso di lui per zittirlo e poi ripresi il mio discorso. «Sentite, perché non lo portate ancora più lontano? Era questo il piano, no?».
«L’ultima volta sono tornati indietro per miracolo, non voglio che accada di nuovo» rispose Lori.
«E grazie al cazzo!» sbottai derisoria senza dare peso al richiamo di Hershel per il mio linguaggio. «Si sono scazzottati quando la loro missione era quella di lasciarlo e tornare indietro, ma no, si sono dovuti prendere a pugni per mostrare chi è il più maschio».
Lori mi guardò di sottecchi ed io voltai le spalle. Lei lo sapeva il motivo delle ferite sui volti dei due uomini e nemmeno per me era un segreto. Sin dall’arrivo di Rick alla cava Shane aveva iniziato a comportarsi in modo astioso verso l’amico e ciò non mi era sfuggito.
«Kate ha ragione, portatelo lontano, seguite il piano originario e salvate la vita a quel ragazzo» disse Dale con le lacrime agli occhi.
«Sono d’accordo con loro».
Insieme ai presenti mi voltai verso Andrea, l’unica ad aver cambiato idea e mi sentii più leggera. Le sorrisi e mimai un “grazie” con le labbra.
«Nessun’altro?» chiese Rick.
Nella stanza calò il silenzio ed io sbottai alterata e incazzata dal loro comportamento.
«Non vi aiuterò a disfarvi del cadavere, e con questo abbiamo chiuso».
Uscii sbattendo la porta e nello stesso istante delle lacrime di ira, rammarico, tristezza e frustrazione bagnarono le mie guance come un fiume in piena. Provai una forte delusione verso quelle persone che consideravo amiche, ma ancor di più ero arrabbiata con me stessa per non essere riuscita a convincerli.
Non mi feci vedere per tutta la serata, non rincasai nemmeno per mangiare, preferendo rimanere seduta sul ponticello di un laghetto che avevo trovato durante una delle mie giornate di esplorazione, sperando che il vento e le onde dell’acqua che bagnavano i miei piedi in ammollo potessero aiutarmi a recuperare un po’ di calma.
Non so per quanto rimasi lì, ma non mi importò, non volevo tornare indietro e guardare quegli assassini negli occhi. Non lo avrei sopportato, non dopo aver riposto la mia fiducia in loro per così tanto tempo.
Decisi anche che avrei dormito nel camper invece che nel fienile, Kim non era l’unica con cui ero risentita, Daryl e Merle erano entrambi sulla lista di persone da evitare fino a quando non fossi riuscita a perdonarli. Mi alzai per andare a prendere una coperta dal fienile e portarla nel camper, ma un urlo così forte da farmi gelare il sangue mi fece girare di scatto verso la fonte del suono. Con il cuore in gola corsi verso un punto del campo dove vidi una luce danzare nel cielo della notte e con una velocità che non seppi di avere raggiunsi il punto esatto dove Dale, disteso a terra con la pancia aperta a metà, era in cerca di aria.
Dio, no. Ti prego!
Quella scena mi provocò uno shock così forte che le mie gambe non riuscirono a sorreggere il mio peso e alla fine caddi anche io. Chiusi gli occhi e li riaprii più volte sperando di trovarmi in un brutto sogno, ma la vista di Dale che boccheggiava e sputava sangue allo stesso tempo era così reale che l’unica cosa che fui capace di fare fu guardare con orrore.
Superato quel trauma iniziale mi avvicinai a carponi per un rapido controllo sulle sue condizioni sperando di poter fare qualcosa, ma quando vidi meglio lo squarcio profondo sul suo addome capii che era tutto inutile, il danno era esteso agli organi interni e in tempi in cui non vigeva più un sistema sanitario funzionante era impossibile curare la ferita. Lo sapevo io e lo sapeva anche Hershel che alla richiesta di Rick di fare qualcosa per salvarlo, con una semplice scrollata del capo gli fece capire che sarebbe stato tutto inutile.
Intorno a Dale, intanto, si erano riuniti tutti i nostri compagni; guardai i loro volti dispiaciuti e sul punto di piangere, ma chi mi colpì di più fu Andrea che si teneva una mano all’altezza del cuore. L’abbracciai forte e lei posò il capo contro la mia spalla, voltandosi per non dover vedere Dale in quello stato.
Rick si avvicinò al vecchio con la pistola per porre fine alle sue sofferenze, ma non riuscì a premere il grilletto, qualcosa dentro di lui lo stava bloccando. Fu Daryl a prendere in mano la situazione e puntando la canna contro la fronte di Dale morente premette il grilletto.
Prima che lo sparo potesse sentirsi coprii le orecchie di Andrea, la quale però udì il colpo lo stesso. Sobbalzò sul posto aggrappandosi alla mia maglia e iniziò a piangere, io non volendo vederla in quello stato la alzai per portarla in uno dei bagni della casa dove le lavai il viso, il tutto senza che lei smettesse di versare grosse lacrime rendendo, di fatto, le mie cure inutili.
Si calmò solo al mattino, ma quando Glenn venne a informarci che il funerale per la commemorazione del nostro compagno era pronto, ella riprese a singhiozzare e in quel momento capii come doveva sentirsi: per quanto fossi risentita nei confronti di Kim e dei due Dixon se la stessa cosa fosse capitata a uno di loro, io avrei reagito molto peggio.
«Ci dai un minuto?» chiesi a Glenn che annuì comprensivo.
Tornai a concentrare le mie attenzioni su Andrea e le sorrisi sperando di farla sentire meglio.
«Possiamo rimanere qui se non te la senti» dissi.
«No» rispose scuotendo il capo. «Devo farlo, lui mi vorrebbe lì. Dale è stato il primo al quale io ed Amy ci siamo affezionate ed è stato il primo che abbiamo incontrato. Ci ha salvato la vita fuori Atlanta e il minimo che possa fare è essere presente durante la cerimonia».
Sorrisi orgogliosa del carattere forte della mia amica e insieme raggiungemmo Rick che, vicino ad una tomba rudimentale, stava parlando in memoria del nostro compagno morto la notte precedente.
Guardando quel cumulo di terra e sassi avvertii una forte stretta alla bocca dello stomaco ma non riuscii a versare una sola lacrima, gli occhi mi si inumidirono, sentii il naso pizzicare, ma piangere mi risultò impossibile.
Per tutto il giorno mi sentii così; in bilico tra una calma apparente e il bisogno di sfogarmi che mi stava divorando viva, e solo alla fine, lontana da occhi indiscreti, trovai il coraggio di lasciarmi andare alle mie emozioni.
Non potevo credere che Dale non fosse più con noi, non avevo davvero legato con lui, infatti era quello che conoscevo meno, ma la sua morte aveva lasciato ugualmente una sensazione di desolazione nel mio cuore. Era un grande impiccione che non riusciva mai a farsi gli affari suoi, ma lo faceva in buona fede. Per il nostro bene.
Dopo ore passate in solitudine nel bosco a liberarmi dalla mia tristezza tornai alla fattoria, ma Kim mi fermò.
«Eccoti qua! È tutto il giorno che ti cerchiamo» disse, poi notando i miei occhi rossi corrugò la fronte.
«Ti senti bene?» chiese.
«Wow, come siete carini a preoccuparvi per me» risposi acida.
«Comportati pure da bambina, ma sappi che non sei l’unica ad essere in lutto».
«Io sarò pure una bambina, ma non sono un’assassina».
«Ti stavo cercando proprio per dirti che Rick risparmierà Randall. Partirà con Daryl per lasciarlo da qualche parte».
Sbottai e la sorpassai colpendo per sbaglio la sua spalla senza però scusarmi.
«Come se questo potesse riportare in vita Dale, ricordati che è morto a causa vostra».
Kim sbuffò a sua volta scuotendo la testa ed entrò in casa lasciandomi vicino al camper.
Sentii gli occhi inumidirsi di nuovo, quindi approfittando della presenza del piccolo bagno nella roulotte mi sciacquai la faccia e bevvi un bicchiere d’acqua per reintegrare i liquidi persi, quando mi sentii un po’ meglio ed ebbi riacquistato un po’ di colorito uscii nell’esatto momento in cui vidi Shane portare Randall nel bosco.
Maledicendo la mia mancanza di autoconservazione decisi di seguirlo per capire quale fosse il suo piano. Probabilmente avrei dovuto andare a chiamare qualcuno, ma non potevo o avrei rischiato di perdere le loro tracce, Merle e Daryl avrebbero potuto ritrovarli senza problemi, ma non sapevo cosa Shane stesse tramando e nel tempo perso a tornare indietro, avvisare Rick e rintracciarli, Randall poteva essere già stato ucciso.
Restando circa trenta metri dietro di lui continuai a seguirlo fino quando l’ex poliziotto si fermò per parlare, a quel punto mi avvicinai di un po’ per capire cosa stesse dicendo, ma ero ancora troppo distante. Continuai ad osservare la scena fino quando Shane rimosse la benda dagli occhi di Randall, gli slegò i polsi e infine gli ruppe il collo; i miei sospetti non erano infondati e quello era il momento per allontanarsi e avvertire i miei compagni.
Feci marcia indietro ma il mio piede finì su un ramoscello che si spezzò con un sonoro “crack” che nel silenzio del bosco sembrò rimbombare come un’eco.  Chiusi gli occhi inveendo contro ogni cosa vivente nel creato e quando li riaprii vidi Shane guardare verso la mia posizione.
In preda alla paura non persi tempo, girai sui talloni e iniziai a correre più veloce di quanto le gambe mi permettessero, senza sapere se la direzione presa mi stesse riportando alla fattoria o se mi stessi allontanando ancora di più dalla meta. Quando fui sicura di averlo distanziato mi fermai per qualche secondo per recuperare fiato dietro un albero, prima di ripartire sbirciai oltre il tronco per essere sicura che non mi stesse seguendo e non vedendo nulla tirai un respiro di sollievo. Uscii dal mio nascondiglio per riprendere la mia corsa, ma una volta allo scoperto uno sparo riecheggiò nell’area a me circostante e successivamente mi trovai a terra avvertendo un forte dolore alla schiena.
Sentii due mani forti girarmi fino a farmi trovare con la faccia verso il cielo e in quel momento venni a contatto con lo sguardo duro e impenetrabile di Shane.
«Lo hai ucciso» brontolai tra un lamento e l’altro.
«Sì, nessuno ha avuto il coraggio di portare a termine questo lavoro e qualcuno doveva prendere in mano la situazione».
«E quindi tu sei stato così carino da sporcarti le mani?» chiesi ironica. «Ti darebbero sicuramente un premio se non fosse che ti ho scoperto».
«Sei solo una complicazione, ma questo non vuol dire che interferirai con il mio piano» disse. «Ecco cosa accadrà: tu rimarrai qui accanto a Randall e morirai lentamente, intanto io torno alla fattoria da solo, il tuo fidanzato sa che manchi da questa mattina e questo mi darà modo di distorcere la realtà quel tanto che basta per fargli credere qualsiasi cosa io dirò loro».
In tutto quel trambusto mi ero dimenticata di Daryl e in quel momento sperai che avesse capito che c’era qualcosa che non andava e che venisse a cercarmi.
«E cosa dirai? Che sei uno psicopatico? Perché è questa la realtà dei fatti».
Shane rise sinistro e si inginocchiò per rimuovere un granello di terra dal mio zigomo, quel contatto mi disgustò così tanto che se avessi potuto mi sarei scansata.
«Oh, no. Dirò che hai visto Randall scappare nel bosco e lo hai seguito, io sono venuto con te per aiutarti a riprenderlo ma non sono riuscito a starti dietro, poi ho sentito uno sparo, vi ho cercati e quando non vi ho trovati sono tornato indietro per avvisarli che Randall è fuggito».
«Non ti crederanno mai!».
«Io dico di sì» disse, quella fu l’ultima cosa che sentii prima che con un forte colpo alla nuca persi i sensi.
 
 
 
 
*racconto in terza persona*
Kate si risvegliò in preda ai dolori quando il cielo era già buio. La prima cosa di cui prese coscienza fu il dolore alla schiena che le impedì di sedersi al primo colpo, si accorse in seguito che la temperatura era calata e un soffio di vento la fece tremare violentemente.
Confusa si alzò in piedi reggendosi a un albero, la ferita bruciante le impedì di stare diritta e il senso di vertigini, a cui si aggiunse il mal di testa, non la aiutò a rimanere stabile sulle sue gambe. Sola e soprattutto indifesa pensò alle sue prossime mosse e passo dopo passo iniziò a muoversi sorreggendosi ai tronchi che incontrava, sperando che stesse andando dalla parte giusta.
Anche Daryl pregò che Kate non si fosse persa ancora una volta, non sarebbe riuscito a sopportare lo stesso calvario passato quando, dopo l’orda sull’autostrada, non l’aveva vista riemergere dal bosco. Aveva appena scoperto cosa significava essere amati e non poteva perderla, se le fosse capitato qualcosa avrebbe ucciso Shane con le sue stesse mani.
Merle che era con lui stava gongolando nel vedere il fratello così preoccupato e non si lasciò scappare l’occasione per provocarlo, il giovane Dixon cercò di ignorarlo per non perdere la concentrazione, ma stava diventando difficile e la poca pazienza che aveva finì quando gli suggerì che Kate poteva essere morta.
Lasciando che la balestra gli cadesse dalle mani, Daryl si voltò rapidamente per colpire Merle sul naso che a causa del forte impatto perse l’equilibrio e rovinò al suolo.
«Stronzo» sputò Daryl raccogliendo la sua arma.
Continuò a seguire le impronte trovate sul terreno, ma le parole del fratello avevano fatto centro e la sua sicurezza aveva iniziato a vacillare.
«Divertente come ti stia impegnando per trovare la tua fidanzatina mentre quando quelle teste di cazzo mi hanno lasciato solo su un tetto e circondato dagli zombie tu non abbia mosso un dito» disse Merle rialzandosi.
«Sono tornato ad Atlanta quando l’ho saputo, anche Kate lo ha fatto e prima ancora è partita da Fargo ignorando l’evacuazione militare per cercarti, è venuta con me sperando che tu fossi ancora vivo e non morto dentro qualche cella, quindi chiudi quella cazzo di bocca» rispose ancora più irato.
Il tono alto della conversazione non permise ai due cacciatori di accorgersi che a circa tre chilometri di distanza la stessa ragazza che stavano cercando stava lottando contro il corpo rianimato di Randall.
Kate non sapeva come fosse possibile, non era stato morso, eppure dopo aver intrapreso il viaggio di ritorno vero la fattoria si era ritrovata a combattere, con le poche forze che aveva, un vagante appena rianimato. La schiena le doleva ancora di più e a causa ciò le risultò difficile allontanarlo, ma con una spinta un po’ più decisa riuscì a porre una certa distanza tra loro, approfittando di quel momento, Kate cercò qualcosa con cui ucciderlo.
Nell’erba vide un sasso grande abbastanza da poter essere usato come arma, ma quando tornò a posare gli occhi su Randall fu troppo tardi perché egli si era già avvicinato. Kate dallo spavento inciampò in una radice e cadde, lo zombie vedendo a terra la sua preda si chinò per riuscire a morderla e nonostante Kate oppose resistenza, la stanchezza le impedì di resistere. Le braccia cedettero e il vagante riuscì ad affondare i denti nella carne sulla spalla.
La ragazza urlò ancora una volta sentendo la pelle venire strappata via e in quello stesso istante capì che quella per lei sarebbe stata la fine.
Dopo lo scoppio della pandemia aveva sempre pensato che sarebbe morta subito, poi aveva passato settimane sola senza l’aiuto di nessuno e in qualche modo si era convinta di essere forte e invincibile e che anche se avesse trovato un gruppo sarebbe sopravvissuta lo stesso. Ad un passo dalla morte Kate, capì di non voler morire.
Riacquistando una forza che aveva creduto persa, prese il sasso che le era caduto poco prima e colpì più volte la testa dello zombie fino quando l’essere smise di muoversi cadendogli sopra a peso morto.
Kate lo spinse via e si rialzò guardando il vagante, chiedendosi cosa esattamente la spaventava a tal punto di correre dalla direzione opposta ogni qualvolta ne vedeva uno. Quando si era ritrovata la forma zombie di Randall a pochi centimetri dal naso era stata colta alla sprovvista e quindi la paura l’aveva immobilizzata, ma rendendosi conto di essere completamente sola e che, con ogni probabilità, sarebbero passate altre ore prima che qualcuno la trovasse, capì che doveva fare qualcosa se voleva vedere un’altra alba.
Kate si toccò il morso sulla spalla e sbuffò come se fosse infastidita di più dalla ferita e non dal fatto che da lì a poche ore sarebbe morta, si piegò appoggiando le mani sulle ginocchia per recuperare le energie e riprese a camminare lenta e barcollante tenendo l’udito all’erta nel caso i suoi compagni la stessero cercando. Alla fine si ritrovò davanti un immenso spiazzo d’erba dove non c’erano posti in cui nascondersi, temendo di aver sbagliato direzione si girò per allontanarsi, quando però sentì delle voci provenire da quella stessa distesa si avvicinò a due figure che riconobbe come quella di Shane e Rick; nella breve frazione di secondo in cui lei batté le ciglia vide uno dei due cadere a terra preceduto da un colpo d’arma da fuoco che nel silenzio suonò come un violino scordato all’interno di una sinfonia.
Allarmata e con il cuore in gola corse verso l’unica persona rimasta ancora in piedi, lieta che fosse Rick e non l’altro uomo che ora giaceva morto con un taglio nell’addome.
«Rick» mormorò Kate.
L’ex sceriffo si voltò sorpreso nel vedere la ragazza davanti lui e dopo un momento di smarrimento iniziale l’abbracciò.
«Sono felice che Randall non ti abbia uccisa».
«Io non canterei vittoria troppo presto» rispose ella.
Rick sciolse quel contatto e la guardò negli occhi prima che il suo sguardo venisse catturato da una chiazza scura sulla spalla, fece cadere le mani lungo i fianchi e sospirò pesantemente; solo la notte prima avevano detto addio a Dale e presto avrebbero perso anche lei.
L’abbracciò di nuovo, questa volta preso dallo sconforto incolpandosi per non essere riuscito a tenere in vita un membro del gruppo come si era promesso quando era arrivato alla cava e per non aver visto il pericolo che Shane rappresentava, se fosse stato più attento nulla di tutto ciò sarebbe accaduto.
«Papà?».
I due a quel suono si staccarono bruschi e si voltarono verso colui che li aveva interrotti, Carl a pochi centimetri da loro, sostava in piedi con una pistola in mano.
«C-C-Carl, non è come sembra» disse Rick avvicinandosi al figlio. Egli però non sembrò interessato alle parole del padre, quanto di più a qualcosa dietro le spalle della ragazza. Terrorizzato tolse la sicura e sparò un singolo colpo che mancò prima l’ex sceriffo e poi Kate stessa che si girò per scoprire cosa avesse attirato l’attenzione del bambino; ai suoi piedi, il cadavere di Shane era disteso sull’erba con un buco in fronte.
Kate ringraziò Carl e la sua ottima mira per non aver colpito nessuno dei due, riconoscendo che in fin dei conti l’addestramento al quale era stato sottoposto nei giorni precedenti non era stato una perdita di tempo e munizioni.
«Sei un fenomeno, ragazzino» disse arruffandogli i capelli con fare affettuoso.
Carl le sorrise di rimando sentendosi molto fiero di aver salvato la sua amica, ma il suo entusiasmo si spense quando Kate, richiamando l’attenzione di entrambi, si girò verso l’orizzonte, dove un’orda lenta ed inesorabile si stava avvicinando.
«Merda!» sbottò l’ex sceriffo. «Dobbiamo correre» disse prendendo la mano del figlio.
«Voi forse, io riesco a malapena a camminare» rispose Kate.
«No» Rick la prese per le spalle, evitando accuratamente la ferita, e si abbassò quel tanto che gli bastò per poterla guardare negli occhi.
«Torniamo tutti insieme, da sola non avresti una possibilità».
«Se vengo con voi allora nessuno ce la farà, vi rallenterei e basta e il sangue li porterebbe ancora più vicini».
«Kate, insieme è più sicuro».
Ella annuì anche se era ancora poco convinta e seguì i due ovunque Rick li stesse portando. Non fu facile camminare tra un vagante e l'altro, per lei il solo fatto che si stava muovendo fu una grande impresa, ma l’animo temerario la spronò ad andare avanti riuscendo ad evitare tutti gli zombie sul suo percorso fino a raggiungere il fienile nel quale richiusero.
«Non per niente, ma siamo in trappola» disse Kate agitata.
«Un problema alla volta» rispose Rick, impegnato a pensare alla prossima mossa.
La ragazza spostò gli occhi verso lo zainetto e lo aprì tirando fuori delle pinze, alcuni rotoli di fasce compressive, uno straccio, del disinfettante e una siringa di adrenalina.
Usò una benda per coprire il morso sulla spalla e fu in quel momento che Carl si accorse della ferita.
«Sei stata morsa» bisbigliò con gli occhi già velati di lacrime. Kate, non volendo che si preoccupasse, annuì con un sorriso.
«Sì, ma non è ancora giunta la mia ora» lo rassicurò, poi si voltò verso l’ex sceriffo. «Prima che tu faccia qualsiasi cosa ho bisogno del tuo aiuto» disse. «Il proiettile è ancora dentro, incastrato tra due costole, ho bisogno che tu lo rimuova».
«E come? Non sono un dottore» protestò.
«Pensa di dover togliere un chiodo dal muro, non è difficile» rispose dandogli le pinze.
Rick sembrò ancora incerto, ma prese ugualmente lo strumento e lanciò un’occhiata fugace alle porte scosse dai colpi dei non morti.
«Dobbiamo fare in fretta».
La ragazza annuì e si appoggiò ad una trave piegandosi leggermente per poter agevolare la rimozione della pallottola, alzò la maglia e il suo volto si contorse in una smorfia quando il materiale ruvido sfregò contro la ferita.
«Fai un’incisione di tre centimetri circa, individua il proiettile, afferralo e tira. Quando hai finito disinfetta e metti le fasce, non abbiamo tempo per ricucire» istruì Kate.
Rick eseguì le indicazioni facendo un taglietto sopra la ferita, poi tamponò il foro per prevenire la perdita di sangue e la guardò aspettando un suo cenno, dopo che ella si mise uno straccio in bocca, annuì per dirgli di procedere.
La rimozione del proiettile non fu dolorosa come si aspettava, sicuro gridò un paio di volte e pianse pure quando sentì le pinze girare sotto la carne per riuscire ad avere una buona presa sulla pallottola, ma quella tortura finì quasi subito e senza che lei se ne accorgesse. Diede il merito dell’assenza di dolore alla stanchezza e al fatto che niente poteva comparare la sensazione della propria pelle venir lacerata da uno zombie.
Si rizzò con la schiena per rendere più facile la fasciatura e una volta finito ringraziò Rick per la sua assistenza, prese la siringa tastando il punto esatto della gamba in cui fare l’iniezione e in pochi secondi passò da uno stato di debolezza ad uno di energia.
«Hai un piano?» domandò Kate prendendo la pistola di riserva che teneva sotto il cuscino.
L’ex sceriffo si guardò intorno fino quando i suoi occhi si fermarono su delle taniche di benzina che svuotò sul pavimento e sulle pareti.
«Tieni questo accendino, quando te lo dirò gettalo a terra» rispose.
«Vuoi ucciderci per caso?» chiese ella, ma l’uomo non la ascoltò ed aprì la porta del fienile lasciando entrare gli zombie che si erano radunati in precedenza, li attirò a sé fino alla scaletta e salì rapidamente evitando che quelle mani ossute lo prendessero.
«Ora!».
Kate lasciò cadere l’accendino e in poco tempo le fiamme s’innalzarono ovunque attorno loro, per evitare che il fuoco li bruciasse uscirono sulla tettoia, rimanendo però bloccati. Per fortuna Jimmy arrivò con il camper di Dale, offrendo loro una via di fuga. La ragazza saltò sul tettuccio per entrare dalla finestrella che dava sul bagno e seguita da Rick e Carl uscì dallo sportello sul retro. Aspettò che anche il ragazzo che li aveva appena salvati uscisse, ma non accadde; lo sentì urlare e la prima cosa a cui pensò fu che doveva fare qualcosa, ma Rick la fermò per un braccio scuotendo la testa e trascinandola via usando poca forza nonostante la ragazza stesse opponendo resistenza.
«Lasciami andare, devo salvarlo» urlò dimenandosi.
«È finita, non puoi fare nulla» disse l’ex sceriffo.
Ella continuò a muoversi al fine trovare un modo per divincolarsi, ma l’ex sceriffo era molto più forte di lei quindi Kate non poté far nient’altro se non ascoltare, impotente, quella giovane vita venir spazzata via.
Non conosceva Jimmy, non ci aveva mai parlato salve fatto per qualche parola scambiata durante la settimana in cui avevano lavorato insieme per rinforzare gli infissi, e ascoltare le sue grida mentre veniva fatto a pezzi, proprio com’era accaduto con Patricia, morta prima che avesse avuto l’opportunità di conoscere, la fece dispiacere ancora di più. Di lui sapeva solo che era coetaneo di Beth, con la quale condivideva un interesse amoroso, sapeva che andava a messa la domenica, che frequentava la stessa scuola della giovane Greene, che aiutava Hershel con la fattoria, e che quando i suoi genitori morirono fu proprio lui ad accoglierlo.
Raggiunsero la casa facendosi strada a colpi di pistola tra i non morti e la prima cosa che Kate fece fu quella di andare a controllare i veicoli messi al lato dell’abitazione; tutte le auto salvo un pick-up erano mancanti, nemmeno la moto di Merle c’era e Kate sorrise sollevata al pensiero che almeno uno dei due Dixon si era allontanato vivo.
«Kate, dobbiamo andare» disse Rick.
La ragazza guardò prima lui e poi l’orizzonte buio rischiarato solo dalla luce del fenile in fiamme.
«Non posso» rispose scuotendo la testa. Caricò il suo zaino nel letto del furgone prendendo con sé solo la pistola che ricaricò. «La moto di Merle non c’è, questo vuol dire che lui o Daryl sono scappati. Devo trovare Kim e Andrea».
«La moto l’ha presa Daryl, Kim è andata verso le stalle, l’ho vista allontanarsi a cavallo. Andrea ha il borsone con le armi con sé, ma non so dove sia» intervenne Hershel e Kate si chiese cosa ci facesse lui ancora lì e perché non se ne fosse andato subito.
«E Merle?».
«Non ne ho idea» rispose desolato.
«Io vado a cerarli, voi raggiungete l’autostrada, ci vediamo lì» disse Kate risoluta.
«Kate, è pericoloso!» contestò Rick.
«Ma loro sono miei amici!».
«Merle è sopravvissuto con una mano sola e Andrea ha un buon arsenale con sé».
«Ma…» cercò di protestare la ragazza.
«Se vai da sola morirai e nelle tue condizioni non saresti d’aiuto a nessuno». L’ex sceriffo la scosse per dare enfasi alle sue parole, ma soprattutto sperando di ridarle un po’ di buon senso e funzionò, perché ella annuì e salì nel letto del pick-up appoggiando la testa al finestrino.
Kate chiuse gli occhi lasciando scivolare via la tensione accumulata. Alle sue orecchie giunsero le voci di Hershel e Rick, il quale stava spiegando al vecchio cosa fosse successo, ma lei non si impegnò molto a seguire il loro discorso. La calma che ora provava aveva fatto in modo di farla cadere in uno stato spossatezza, l’adrenalina, probabilmente a causa del virus del morso, cessò il suo effetto prima del previsto e ciò le lasciò un senso di smarrimento e nausea. I conati furono difficili da controllare e alla fine rigettò il poco che aveva mangiato oltre il lato del furgone.
Cazzo, no! Non ora.
Si asciugò la bocca con il dorso della mano e sentì che la sua pelle era diventata davvero calda, aveva iniziato anche a sudare ma il calore non l’aiutò combattere i brividi di freddo che la scuotevano.
Il viaggio verso l’autostrada fu lungo per Kate, non ebbe idea di quanto fosse durato, ma quando uscirono dalla boscaglia si era già fatto giorno e le sue condizioni erano peggiorate: il viso era diventato pallido, le labbra blu, la pelle riluceva per il sudore, il sole le dava fastidio agli occhi, faceva fatica a stringere le mani e passava da vampate di calore a brividi di freddo in pochi secondi. In tutto quel malessere, Kate, capì di essere vicina alla fine, tuttavia la consapevolezza che presto avrebbe dovuto dire addio a tutti i suoi amici e a Daryl non rese il suo fato più facile da accettare.
Daryl.
Il suo nome si ripeteva nella sua testa all’infinto come un disco rotto e ogni volta che ripensava a quelle cinque lettere, pesanti lacrime andavano ad inzuppare la maglia sporca. Si sentì sollevata di riuscire a piangere, non voleva farlo davanti a lui, voleva essere forte. Kate sapeva che per Daryl sarebbe stato difficile da accettare e superare e perciò voleva alleviare, almeno un po’, quel fardello.
«Siamo i soli?» chiese la ragazza quando vide che non c’era nessuno.
«Arriveranno» la rassicurò Rick.
Kate non sentendosi tranquillizzata dalle parole del leader scavalcò il letto del furgone con l’idea di andare a cercare i loro compagni, ma come passò entrambe le gambe oltre il bordo la forza le venne meno e sbilanciata dal suo peso, cadde. Rick che era vicino a lei l’afferrò prima che potesse toccare il suolo.
«Devi cercare di muoverti il meno possibile» l’ammonì egli sollevandola e stendendola nei sedili del pick-up.
«Ma non c’è nessuno».
«Ascolta Rick, arriveranno» disse Hershel. «Tu devi restare qui, posso pulirti le ferite…».
«No, io sono morta ormai, conservate ciò che è rimasto» lo interruppe Kate.
Il vecchio annuì rispettando la sua decisione ma non condividendola e si allontanò per parlare con Rick.
La ragazza chiuse gli occhi conscia che avrebbe potuto non riaprirli più e si lasciò cullare dalla pace e dal silenzio che seguirono una notte così tesa, nemmeno il dolore la disturbava più di tanto, le bruciava ancora, certo, ma se non si muoveva stava bene.
Oltre le sue palpebre chiuse gli occhi si mossero frenetici quando i suoi ricordi migliori si proiettarono come una visione, e, tra tutte quelle memorie, lei decise di sceglierne una sola, forse la più importante; quasi le sembrò di rivivere l’esperienza del giorno quando era appena tornata dalla scuola elementare e suo padre le aveva detto di prendere il necessario per fare i compiti e seguirlo. Kate essendo una bambina obbediente fece come le era stato chiesto senza fiatare, non fece domande nemmeno quando si fermarono alla fine della strada in cui vivevano e vide un ragazzino dal viso imbronciato e arrabbiato al quale si avvicinò con cautela per non spaventarlo.
Quello fu il giorno in cui fece la conoscenza di Daryl, che anche se non prese bene l’intromissione di quella bambina nella sua vita all’inizio, con il tempo imparò a volerle bene e a cercare costantemente la sua compagnia.
«Posso farti compagnia?».
Kate aprì leggermente gli occhi e vide Carl in piedi in attesa di una risposta, sorridendo annuì e fece spazio in modo che anche lui potesse sedersi.
«Io voglio andare a cercare la mamma, ma papà non è d’accordo, dice che dobbiamo aspettare» sospirò triste il bambino.
«Tuo padre è un uomo che sa quello che fa. Devi fidarti di lui» rispose ella.
«Ma la mamma potrebbe essere in pericolo».
«Hai ragione, potrebbe» disse  ella. «Tu conosci la tua mamma meglio di chiunque, sai di che pasta è fatta. Secondo te ha bisogno di aiuto in questo momento?».
Carl sembrò pensarci su per qualche istante valutando la risposta a quella domanda e poi scosse la testa.
«No, è forte» disse sicuro.
«Ne sono certa anche io e poi lei vorrebbe saperti qui lontano dal pericolo piuttosto che tu vada in giro per il bosco».
Il bambino le sorrise ringraziandola per avergli infuso un po’ di coraggio e l’abbracciò sentendo già la sua mancanza. Si staccò quando sentì il rumore di alcuni veicoli in lontananza e come una scheggia, scese dal pick-up per andare incontro alla madre.
Kate sorrise a quella scena, se ne avesse avuto le forze anche lei sarebbe corsa verso Daryl, ma la verità è che faticava a tenere gli occhi aperti, perciò quando la porta del furgone si aprì e le sue narici furono invase dall’odore di tabacco mischiato a quello del cuoio e dell’olio di motori non dovette sollevare le palpebre per capire che la persona che voleva vedere era arrivata.
«Ciao» mormorò Kate.
Il cacciatore le scostò una ciocca di capelli che si erano attaccati alla fronte sudata e la strinse ancor di più a sé.
«Ci siamo tutti?» chiese la ragazza.
«Mancano Kim e Andrea» rispose Daryl.
«Andrete a cercarle?».
«Sì, Rick sta organizzando ora una squadra» mentì egli. Non voleva dirle una bugia, ma se le avesse detto che sarebbero partiti senza le due ragazze lei si sarebbe allarmata e nelle sue condizioni non voleva darle motivo di preoccuparsi.
«Bene» disse con un sorriso. «Sai che stavo ricordando il nostro primo incontro? Sono già passati ventitré anni. Eri sempre così imbronciato da piccolo, non che ora sia cambiato qualcosa. L’espressione corrugata c’è ancora» borbottò toccandogli la fronte. «Sai che ti verranno le rughe?».
Kate non si rese nemmeno conto di aver iniziato a delirare e Daryl non trovò il coraggio di fermarla, non sapendo che sarebbe morta in poco tempo e che non avrebbe più avuto modo di ascoltarla, invece le baciò la tempia avvertendo il calore irradiato dal suo corpo.
«Sei bollente» constatò.
La ragazza deglutì a fatica e lo guardò cercando di eliminare il ghigno sulla sua faccia.
«Nemmeno tu sei niente male, Dixon».
«Sii seria» la ammonì.
Kate cercò di ridere, ma un violento colpo di tosse la fece piegare in due. Portò una mano alla bocca e l’altra al petto e riprese a tossire sempre più forte fino a quando la mano si tinse di rosso e alcune gocce cremisi macchiarono i sedili. Iniziò ad avvertire problemi respiratori e la vista si fece offuscata a causa di una patina grigiastra che non le permise di vedere nulla, ci volle qualche minuto prima che riuscisse a riprendere le facoltà visive e a respirare anche se faceva comunque fatica a mettere a fuoco le immagini.
«Dove hai le bende e tutte quelle stronzate?» chiese Daryl cercando lo zaino.
«Non servirebbe a nulla. È un morso, non puoi fare niente e non ti lascerò sprecare risorse su di me».
Il cacciatore si sentì così arrabbiato per la sua poca voglia di combattere che dovette trattenersi dall'urlarle contro.
«Vale così poco la tua vita per te?» domandò irato.
«Sono spacciata, prima lo accetti e meglio è. Se vuoi aiutarmi davvero c'è solo una cosa che puoi fare, me lo hai promesso, Daryl Dixon».
Egli invece di rispondere uscì dal furgone e con lei in braccio si allontanò verso il bosco, forse Kate aveva ragione nel dire che non c'era salvezza, ma lui non avrebbe mai lasciato che i suoi ultimi momenti li vivesse dentro un pick-up malandato.
Ignorando i richiami degli altri membri, specialmente quelli di Rick che gli stava dicendo che dovevano rimanere uniti, Daryl sparì oltre la vegetazione. L'unico a capirlo davvero fu Merle.
«Devono stare soli» disse all'ex sceriffo che alla fine li lasciò passare.
«Dove andiamo?» domandò Kate.
Sempre senza parlare, Daryl continuò a camminare fino ad una piccola radura dove la posò delicatamente all’ombra di un albero su un terreno fresco e morbido, il suono dell’acqua che scorreva le fece capire che erano vicini a qualche corso d’acqua. Il cacciatore si sedette al suo fianco tenendo la mano sinistra della ragazza nella sua puntando l’orizzonte.
«Guarda» disse.
Ella seguì con lo sguardo la traiettoria immaginaria che il suo dito aveva segnato e vide una piccola cascata che faceva zampillare l’acqua sui massi. 
«L’ho trovata durante una battuta di caccia e mi sono ricordato di quando abbiamo festeggiato il tuo compleanno».
«Quello è stato il giorno più bello della mia vita, ogni giorno passato con te è stato fantastico, ma quello ha un significato speciale. Un ultimo bagno?» chiese. «L'acqua fredda mi aiuterebbe con le vampate di calore».
Daryl la guardò in modo scettico, ma stava morendo e qualsiasi cosa avesse o non avesse fatto non avrebbe peggiorato le sue condizioni, perciò prendendola in braccio la portò verso il laghetto immergendosi anche lui.
Come il suo corpo toccò l'acqua fredda, Kate, iniziò a tremare. Lo shock termico fu tale da farla tossire ancora fino quando si trovò a corto di fiato e con il cuore che le batteva all'impazzata, a quella reazione Daryl la riportò sul terreno e si tolse la giacca per coprirla. Capendo di essere arrivata ormai al capolinea, Kate richiamò la sua attenzione.
«Voglio che tu mi ascolti bene ora e che mi faccia una promessa, va bene? Se sei preoccupato per me, non devi farlo, presto io starò bene, quello a cui tocca la parte più difficile sei tu, perciò non chiuderti a riccio, non lasciare che la mia morte ti porti lontano dal gruppo. Sono la nostra famiglia».
«La tua, forse» sbuffò egli con scherno.
«No, la nostra, Daryl. Sei rimasto, potevi andartene in qualsiasi momento ma non l’hai fatto. È tutto ciò che ti chiedo, non escludere nessuno, loro avranno bisogno di te come tu di loro. Non sei solo».
«Non sono la loro cazzo di balia, né uno strizzacervelli» rispose acido solo per mascherare il suo dolore.
Kate rise al suo comportamento burbero, come se trovasse il suo cipiglio divertente e il cacciatore realizzò che non avrebbe più sentito nemmeno la sua risata insieme alla sua voce. Non si sarebbe più svegliato la mattina ascoltando il suo respiro calmo, non si sarebbe addormentato con lei al suo fianco, non avrebbe più sentito l'odore del suo shampoo al miele quando l'avrebbe stretta e cosa ancora peggiore, sarebbe rimasto solo. Di nuovo. In quel preciso istante si ricordò del perché avesse voluto tenerla lontana.
Strizzò gli occhi cercando di non piangere e mostrarsi forte, ma il labbro tremante lo tradì e prima che potesse fermarla, una lacrima si era già formata e ora stava percorrendo la sua guancia.
Ella sorrise teneramente raccogliendola con le sue labbra e poi depositò un bacio sulla sua fronte. Quel contatto delicato e intimo lo fecero sospirare e un'altra lacrima, piccola e ribelle, fuggì al suo controllo.
«Ti amo, Daryl Dixon» disse guardandolo negli occhi. «Voglio solo essere sicura che tu lo sappia e sappi che questa non è colpa tua, perciò non odiarti, ti faresti solo ancora più male».
Kate iniziò ad avvertire difficoltà a rimanere sveglia, anche la stretta sulla mano di Daryl si fece più debole e con il suo ultimo respiro sussurrò un “ci vediamo dall'altra parte”, poi chiuse occhi per sempre. Nello stesso momento in cui le sue palpebre si abbassarono ogni suono attorno a loro, tranne quello della cascata, cessò.
Sul terriccio umido il suo corpo giaceva in pace, il pallore della sua pelle la fecero sembrare una bambola di porcellana e alcune gocce d'acqua che le erano rimaste addosso sembravano delle perle, il sangue della ferita aveva macchiato tutto il collo e parte della spalla, aveva anche vari graffi sulle braccia e una sbucciatura sul gomito, ma anche in quel caso Daryl la trovò bella. Lo era sempre stata ai suoi occhi, nonostante le innumerevoli donne con le quali era stato nessuna poteva competere con lei, Kate, per lui, era la perfezione. Questo era un altro motivo per cui aveva sempre preferito non coinvolgerla nella sua vita, non voleva contaminarla con il suo mondo sporco, lei così pura e innocente non doveva entrare a contatto con una realtà tanto crudele quanto spietata.
Non seppe quanto tempo passò fermo immobile ad osservare il cadavere ai suoi piedi, la sua mente era altrove, ma quando vide le mani delle ragazza che amava muoversi e il petto alzarsi e abbassarsi si accorse di dover agire; prima che il corpo potesse rianimarsi completamente estrasse il coltello dalla sua custodia e sollevandole piano il capo, come se avesse potuto rompersi, colpì il cervello facendo penetrare la lama alla base della nuca.
«Addio, Katerina» sussurrò cercando di controllare il suo pianto.
Il corpo ebbe un secondo spasmo e poi smise di muoversi, questa volta definitivamente.
Daryl si asciugò le lacrime con il dorso della mano, poi sollevandola da terra la riportò sull'autostrada per permettere anche agli altri di salutarla un'ultima volta.
Quando riemerse dal bosco con il corpo di Kate, tutti si voltarono a guardarlo e nonostante il capo chino poterono chiaramente vedere le scie che le lacrime avevano lasciato sui suoi zigomi lavando via lo sporco. Non credevano possibile che uno come Daryl potesse piangere, ma per quella volta anche Merle si trattenne dal fare commenti sarcastici.
«Lei è...» disse Glenn senza riuscire a finire la frase, il nodo alla gola gli fece male risultando impossibile parlare.
Morta.
In religioso silenzio adagiò il cadavere sul letto del pick-up e con lo stesso mutismo cercò un lenzuolo con il quale avvolgerla.
«Dovremmo seppellirla, non può restare così» disse T-Dog e Daryl con uno scatto fulmineo si girò verso di lui pronto a caricarlo.
«Nessuno la tocchi!» ringhiò «Voleva essere bruciata, quindi potete aiutarmi o andarvene al diavolo. Qualsiasi cosa scegliate non mi importa».
«Ha ragione, dobbiamo rispettare la sua ultima volontà» replicò il coreano che abbandonando il braccio di Maggie coprì Kate con una coperta. «Ma è comunque meglio fare una fossa in cui metterla prima di bruciarla, le fiamme potrebbero arrivare fino al bosco» aggiunse iniziando a scavare.
Il cacciatore non trovò le parole giuste da usare in quel momento, ma con un cenno del capo espresse la sua gratitudine. Con delle corde trovate in una delle auto abbandonate legò le estremità della coperta e spostò il cadavere sull'asfalto impedendo a chiunque altro di farlo. Kate era ancora sua e nessuno aveva il diritto di toccare ciò che gli apparteneva.
«Dobbiamo celebrare il funerale?» domandò Beth con gli occhi umidi. Kate era un'estranea, ma l'aveva salvata e lei essendo di animo dolce e sensibile non poteva sopportare un'altra perdita.
«Era atea» rispose Daryl senza guardarla. Cosparse il corpo con la benzina ed estrasse dalla tasca una scatola di fiammiferi che usò per accendere il fuoco. Strofinò la capocchia di uno e lo gettò sulla coperta insieme agli altri. Le fiamme ci misero poco ad inghiottire nel loro ventre ciò che si trovava sotto di loro e vedendo sparire per sempre il motivo della sua felicità, Daryl sentì un tuffo al cuore.
Mentre il corpo della giovane bruciava, i presenti decisero di ricordare, senza dire una parola, la loro compagna la cui vita si era spenta.
La famiglia Greene, soprattutto Hershel le sarebbe sempre stata grata per aver salvato la vita di Beth, Glenn avrebbe fatto tesoro dei momenti passai insieme e dei pericoli corsi quando erano alla cava ed andavano in città tornando ore dopo ridendo per il pericolo scampato, Carol le sarebbe stata riconoscente per aver salvato la sua bambina rischiando la propria vita, Sophia e Carl l'avrebbero sempre vista come la sorella maggiore che li aveva aiutati con i compiti e che aveva giocato con loro facendogli dimenticare, anche se per poco tempo, lo schifo che il mondo era diventato, Lori l'avrebbe considerata come una grande risorsa, l'unica donna del gruppo alla quale avrebbe affidato la propria vita se fosse stato necessario, Rick l'avrebbe ricordata come una combattente dal cuore puro, l'unica a non aver perso la propria umanità , T-Dog aveva avuto poche settimane per conoscerla, ma aveva capito che non era una persona orrenda come aveva pensato quando l'aveva vista trascorrere le sue giornate con i Dixon, era dotata di una grande empatia che la rendevano fondamentale in tempi bui, Merle avrebbe conservato il ricordo di quella bambina rompi palle che non aveva nient'altro da fare che infastidirlo con la sua vocina acuta e i suoi modi di fare infantili ma che segretamente stimava per aver tenuto lontano il fratello dai guai, per Daryl invece sarebbe sempre stata semplicemente Kate; la ragazza che si era insinuata nella sua vita senza che lui glielo permettesse e che aveva messo radici nel suo cuore anche se lui non voleva, l'unica che gli era rimasta davvero vicino e che non lo aveva deluso una sola volta, quella che non se n'è andata nemmeno quando si comportava da stronzo e la insultava solo perché era incazzato. Kate era la sola costante nella sua vita, era proprio grazie a lei se non aveva fatto le stesse scelte del cazzo del fratello e in tutto ciò non solo una volta l'aveva ringraziata, non le aveva detto nemmeno come si sentiva e ora che lei se n'era andata aveva perso quell'occasione.
Si era meritata un posto nel suo cuore e morendo aveva lasciato un voragine che non sarebbe mai riuscito a riempire, nemmeno con altre donne. Quella desolazione lo accompagnò ogni giorno della sua esistenza fino al momento della propria dipartita, quando con un mezzo sorriso sul viso sporco di sangue, guardando il cielo, disse “sto arrivando, Kate”.

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